Consulenza Legale Sulla Crisi d’Impresa

La tua impresa sta attraversando una fase difficile e non sai se si tratta di una semplice flessione o di una vera crisi? Vuoi capire se esistono strumenti per salvare l’attività o chiuderla senza mettere a rischio il tuo patrimonio personale?

Quando un’azienda mostra segnali di difficoltà economica, una consulenza legale tempestiva e mirata può fare la differenza tra un risanamento riuscito e un fallimento disastroso. Oggi, il Codice della Crisi d’Impresa prevede strumenti moderni, efficaci e — se usati correttamente — in grado di prevenire l’insolvenza e proteggere l’imprenditore.

Perché è fondamentale una consulenza legale in caso di crisi?

Molti imprenditori sottovalutano i primi segnali di crisi o pensano di poter risolvere tutto da soli. Ma la gestione della crisi è un processo tecnico e delicato, che richiede competenze specifiche in ambito:

– Fiscale e tributario
– Societario e civilistico
– Bancario e finanziario
– Fallimentare e contenzioso

Un avvocato esperto in crisi d’impresa è in grado di analizzare la situazione da ogni angolazione, proporre le soluzioni giuste e tutelare al meglio i diritti dell’imprenditore, dei soci e dei creditori.

Cosa prevede la consulenza dello Studio Monardo?

Ogni situazione è diversa. Per questo offriamo un supporto personalizzato che può includere:

– Analisi dello stato economico, patrimoniale e giuridico dell’impresa
– Valutazione della reale esposizione debitoria
– Individuazione di eventuali responsabilità degli amministratori
– Scelta dello strumento più adatto (composizione negoziata, piano di risanamento, accordo, concordato o liquidazione)
– Assistenza nei rapporti con creditori, banche e Agenzia delle Entrate
– Difesa legale in caso di accertamenti, istanze di fallimento o procedimenti giudiziari

Quando rivolgersi a un avvocato esperto in crisi d’impresa?

– Se non riesci più a pagare fornitori, dipendenti o imposte
– Se hai ricevuto una cartella, un pignoramento o un atto giudiziario
– Se il commercialista ti segnala squilibri o perdite gravi
– Se vuoi prevenire la crisi e mettere in sicurezza l’attività
– Se vuoi chiudere in modo ordinato, evitando responsabilità personali

Come ti aiutiamo noi dello Studio Monardo?

Lo Studio Monardo affianca imprenditori, professionisti e amministratori nella gestione e prevenzione della crisi. Offriamo soluzioni concrete e legali, sempre con l’obiettivo di tutelare l’attività, i beni personali e la reputazione professionale.

La tua impresa è in crisi o temi che possa entrarci? Non aspettare che sia troppo tardi.

In fondo alla guida puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Valuteremo con attenzione la tua situazione e ti guideremo, passo dopo passo, nella scelta più sicura per uscire dalla crisi o affrontarla con gli strumenti previsti dalla legge.

Introduzione

Il panorama normativo italiano in materia di insolvenza e gestione della crisi d’impresa è stato rivoluzionato dall’introduzione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con il D.Lgs. 14/2019. Questo Codice ha sostituito integralmente la storica Legge Fallimentare del 1942, segnando il passaggio da un approccio prevalentemente liquidatorio a un sistema che privilegia l’emersione precoce della crisi e il risanamento aziendale ove possibile. L’entrata in vigore del CCII, inizialmente prevista nel 2020, è stata posticipata più volte (anche a causa della pandemia COVID-19) e il Codice è divenuto pienamente efficace il 15 luglio 2022, contestualmente all’attuazione della Direttiva UE 2019/1023 (c.d. Direttiva Insolvency).

Successivamente, il legislatore ha affinato la disciplina con tre decreti correttivi: il D.Lgs. 147/2020 (primo correttivo), il D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (correttivo-bis, che ha recepito compiutamente la Direttiva Insolvency) e, da ultimo, il D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (correttivo-ter). Quest’ultimo, in vigore da fine settembre 2024, ha apportato ulteriori modifiche sostanziali al Codice, risolvendo dubbi interpretativi emersi nella prima applicazione e introducendo alcune novità attese dagli operatori (ad es. nuove norme sul concordato preventivo e sui piani di ristrutturazione). La presente guida è aggiornata alla normativa vigente a giugno 2025, tenendo conto di tali novità legislative e delle più significative pronunce giurisprudenziali intervenute sinora.

Obiettivi del nuovo Codice: Il CCII mira a prevenire le crisi d’impresa e, quando possibile, a favorirne il risanamento piuttosto che la liquidazione. I principi ispiratori includono: (a) la tempestiva emersione delle difficoltà aziendali tramite strumenti di allerta precoce che incentivino l’imprenditore ad attivarsi volontariamente; (b) la valorizzazione dell’autonomia privata nelle soluzioni della crisi, grazie a procedure stragiudiziali o semplificate e a una minore invasività dell’autorità giudiziaria; (c) la tutela della continuità aziendale come valore da preservare quando l’impresa è risanabile, così da salvaguardare posti di lavoro e valore economico. In sintesi, l’insolvenza non va affrontata solo a posteriori con il fallimento (ora liquidazione giudiziale), ma tramite una serie di strumenti preventivi e negoziali che possano evitare l’esito distruttivo e massimizzare la soddisfazione dei creditori.

Concetti Chiave: Crisi, Insolvenza e Sovraindebitamento

Prima di addentrarci negli strumenti operativi, è fondamentale comprendere il significato dei termini crisi e insolvenza, e distinguere le diverse categorie di debitori (imprese soggette a liquidazione giudiziale, imprese minori, consumatori, ecc.). Il Codice della Crisi fornisce all’art. 2 CCII le definizioni di base:

  • Crisi: lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore. Per le imprese, la crisi si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate. In altre parole, la “crisi” è una fase di squilibrio che precede l’insolvenza vera e propria, identificabile con previsioni di insufficienza di liquidità nel prossimo futuro.
  • Insolvenza: lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori indicativi dell’incapacità definitiva di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. È quindi una situazione più grave e attuale, in cui il debitore non riesce più a pagare i debiti alle scadenze. L’insolvenza conclamata è presupposto per l’apertura delle procedure concorsuali giudiziali (es. liquidazione giudiziale).
  • Sovraindebitamento: lo stato di crisi o insolvenza che riguarda debitori non fallibili, ossia il consumatore, il professionista, l’imprenditore “minore”, l’imprenditore agricolo, le start-up innovative e ogni altro debitore non assoggettabile a liquidazione giudiziale o liquidazione coatta amministrativa. In sostanza, è il concetto che racchiude le situazioni di difficoltà delle persone fisiche e delle piccole imprese escluse dal fallimento (per dimensioni o settore), disciplinate da procedure ad hoc (le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento).
  • Impresa minore: l’impresa che non supera congiuntamente determinati parametri dimensionali (attivo ≤ €300.000, ricavi ≤ €200.000, debiti ≤ €500.000) nei tre esercizi precedenti. Le imprese minori, così definite, non sono soggette alla liquidazione giudiziale ordinaria; le loro crisi rientrano nelle procedure di sovraindebitamento (come vedremo, ad esempio, nel concordato minore o liquidazione controllata).
  • Altre definizioni: l’art. 2 CCII elenca anche altre nozioni rilevanti, tra cui imprese sotto soglia (equivalenti alle imprese minori), grandi imprese (parametri UE per bilancio > €20 mln, ricavi > €40 mln, dipendenti > 250), gruppo di imprese (definito ai sensi delle norme civilistiche sulle società soggette a direzione unitaria), e il nuovo albo dei gestori della crisi (registro degli esperti e curatori della crisi). Questi concetti saranno richiamati ove necessario: ad esempio, i gruppi di imprese possono avvalersi di procedure coordinate di concordato, mentre le grandi imprese insolventi potrebbero accedere a procedure speciali come l’Amministrazione Straordinaria (fuori dal CCII).

In sintesi, crisi e insolvenza sono due stadi di difficoltà del debitore: la prima è reversibile e va individuata per tempo, la seconda è conclamata e richiede soluzioni concorsuali. Il sovraindebitamento identifica la crisi/insolvenza dei debitori esclusi dal fallimento (piccoli imprenditori e privati), per i quali il Codice prevede strumenti dedicati. Tenere a mente queste categorie è importante perché i rimedi offerti dal sistema variano a seconda che il debitore sia un’impresa soggetta al fallimento oppure no.

Quadro Normativo Aggiornato al 2025

Il Codice della Crisi e dell’Insolvenza (CCII), attuativo della legge delega 155/2017, rappresenta la fonte normativa principale in tema di procedure concorsuali e strumenti di regolazione della crisi. Esso si compone di una Parte Generale (principi comuni, definizioni, obblighi delle imprese) e di Parti Speciali dedicate ai singoli strumenti (dalla composizione negoziata al concordato preventivo, dagli accordi di ristrutturazione alla liquidazione giudiziale, fino alle procedure minori di sovraindebitamento).

Il D.Lgs. 14/2019 ha introdotto il Codice, ma – come visto – la sua entrata in vigore è stata differita e accompagnata da diversi interventi correttivi e integrativi:

  • Il D.Lgs. 147/2020 ha apportato prime modifiche al testo originario (c.d. “correttivo uno”), ad esempio rivedendo alcuni indicatori di crisi e affinando la disciplina transitoria.
  • Il D.L. 118/2021, convertito con L. 147/2021, è intervenuto prima dell’entrata in vigore del Codice per introdurre la Composizione Negoziata della Crisi, inizialmente come misura urgente post-pandemia. Tale procedura stragiudiziale volontaria è stata poi inglobata nel Codice stesso.
  • Il D.Lgs. 83/2022 (correttivo-bis) ha adeguato il Codice ai dettami della Direttiva UE 2019/1023, introducendo tra l’altro il Piano di Ristrutturazione soggetto a Omologazione (PRO) e modificando la disciplina dei concordati e degli accordi per prevedere maggiori possibilità di cram-down (omologazione forzata nonostante dissensi).
  • Il D.Lgs. 136/2024 (correttivo-ter), in vigore dal 28 settembre 2024, ha ulteriormente perfezionato la normativa. Tra le novità: chiarimenti sul concordato semplificato (art. 25-sexies CCII), l’introduzione dell’art. 118-bis CCII che consente la modifica del piano di concordato omologato in caso di sopravvenienze che ne impediscono l’esecuzione, estensione della transazione fiscale anche al PRO (piano di ristrutturazione), e varie modifiche procedurali per accelerare i tempi e colmare lacune.

Accanto al CCII, restano in vigore alcune leggi speciali per casi particolari di insolvenza: ad esempio, il D.Lgs. 270/1999 (cd. Legge Prodi-bis) e il D.L. 347/2003 conv. in L. 39/2004 (cd. Legge Marzano) disciplinano l’Amministrazione Straordinaria delle Grandi Imprese Insolventi, destinata a imprese di rilevante dimensione (tipicamente con oltre 200 dipendenti) la cui crisi presenti rilevanti implicazioni sociali. Inoltre, banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari seguono procedure settoriali di liquidazione coatta amministrativa sotto l’egida delle rispettive Autorità di vigilanza. Queste ipotesi speciali esulano dal Codice della Crisi, ma vanno ricordate per completezza: nel prosieguo, ci concentreremo sugli strumenti previsti dal CCII applicabili alla generalità delle imprese commerciali e ai debitori civili.

Evoluzione culturale: Il Codice della Crisi ha segnato anche un cambio terminologico e culturale. Non si parla più di “fallimento” ma di liquidazione giudiziale del debitore insolvente. La scelta terminologica mira ad attenuare lo stigma del termine fallito, sottolineando invece la funzione ordinaria di liquidazione del patrimonio, senza connotazioni di colpa morale. Al di là del nome, la sostanza della procedura liquidatoria resta la medesima (spossessamento del debitore, nomina di un curatore, vendita dei beni e riparto ai creditori), ma l’ottica è cambiata: la liquidazione giudiziale viene presentata non come una pena infamante bensì come extrema ratio ordinata per chiudere una vicenda d’impresa non più recuperabile. Tutto il sistema, infatti, è costruito per evitarla quando esistono alternative valide di risanamento. Allo stesso tempo, sono state introdotte misure innovative per rendere la liquidazione più efficiente e meno penalizzante: ad esempio, tempi più rapidi e aste telematiche per la vendita dei beni, e soprattutto la possibilità di esdebitazione per l’imprenditore persona fisica a fine procedura (di ciò parleremo diffusamente in seguito).

Riassumiamo ora gli strumenti a disposizione, in ordine dal più “precoce” al più “invasivo”, con una tabella comparativa:

Tabella 1 – Panoramica degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza (CCII)

StrumentoNaturaFinalitàConsenso dei creditori
Allerta interna ed adeguati assettiMisure organizzative e segnalazioni internePrevenire e intercettare precocemente la crisiN/A (obblighi gestionali interni, nessun voto)
Allerta esterna (segnalazioni enti pubblici)Comunicazioni da creditori pubblici (Fisco, INPS, ecc.)Sollecitare reazione del debitore e attivazione di strumenti di composizioneN/A (inviti al debitore, nessun voto)
Composizione negoziata (Cap. 4)Procedura stragiudiziale assistitaRisanare l’impresa tramite accordi volontari con i creditori, sotto guida di espertoConsenso volontario dei creditori alle proposte (negoziazione senza voto formale)
Piano attestato di risanamento (Cap. 8)Accordo privato con attestazione di espertoRistrutturazione extragiudiziale con protezione da revocatorie (atti in esecuzione del piano esenti da revoca fallimentare)Consenso integrale dei creditori coinvolti (accordo puramente contrattuale)
Accordo di ristrutturazione (Cap. 7)Accordo omologato dal tribunaleRistrutturazione con efficacia estesa e protezione legale (stay delle azioni, esenzioni da revocatoria)Consenso di ≥ 60% dei crediti; vincola solo i consenzienti (salvo estensioni settoriali al 75% per banche, ecc.)
Concordato preventivo (Cap. 5)Procedura concorsuale giudizialeRegolazione della crisi con piano proposto dal debitore. Varianti: concordato in continuità (prosecuzione attività, diretta o tramite terzi) oppure concordato liquidatorio (cessazione attività e liquidazione beni con pagamento minimo ai chirografari).Voto dei creditori (maggioranza in ciascuna classe o categoria) + omologazione del tribunale. Possibile cram-down (omologazione forzata) se ricorrono i presupposti di legge.
Concordato “semplificato” (Cap. 6)Procedura concorsuale semplificataLiquidazione rapida del patrimonio post-composizione negoziata (quando le trattative assistite sono fallite ma c’è una proposta di soluzione da formalizzare)No voto dei creditori (decisione rimessa al tribunale su proposta del debitore e relazione finale dell’esperto). Procedura snella: niente commissario giudiziale, né attestatore indipendente (si utilizza l’esito della composizione negoziata).
Piano di ristrutturazione omologato (PRO) (Cap. 9)Procedura concorsuale flessibileRistrutturazione con possibili deroghe alla parità di trattamento tra creditori, secondo quanto consente la Direttiva UE (es: stralci di crediti privilegiati se classi consenzienti). Utile per ristrutturazioni complesse.Approvazione di tutte le classi di creditori (maggioranza in ciascuna classe) + omologazione del tribunale. Non richiesto il pagamento minimo del 20% ai chirografari, neppure se piano liquidatorio. Se anche una sola classe vota contro, il PRO non è approvabile (salvo conversione in altro procedura).
Liquidazione giudiziale (Cap. 10)Procedura concorsuale liquidatoriaLiquidazione integrale del patrimonio e chiusura dell’impresa. Subentra al “fallimento” tradizionale.N/A (procedura avviata d’ufficio su insolvenza conclamata; i creditori non votano, ma fanno valere i crediti nel riparto).

Nota: Il concordato nella liquidazione giudiziale è un ulteriore istituto non in tabella: anche dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, il debitore (o un terzo) può proporre ai creditori un concordato fallimentare, ad esempio offrendo una certa percentuale sui crediti, per chiudere anticipatamente la procedura. Questo strumento, di natura residuale, viene valutato dal tribunale e votato dai creditori nell’ambito del fallimento stesso.

Nei capitoli che seguono analizzeremo in dettaglio ciascun istituto, dalla fase precoce (allerta e composizione negoziata) a quella intermedia (accordi di ristrutturazione, concordati, piani attestati) fino alla fase finale liquidatoria, fornendo per ognuno esempi pratici e recenti orientamenti giurisprudenziali. Cominciamo dunque dagli strumenti di allerta e prevenzione, il primo tassello del mosaico.

Strumenti di Allerta Precoce e Prevenzione della Crisi

Il Codice della Crisi dedica ampio spazio agli strumenti di emersione tempestiva delle difficoltà, noti come allerta precoce. Si tratta di meccanismi volti a far sì che i segnali di crisi dell’impresa vengano individuati e affrontati prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. L’allerta opera su due fronti complementari:

  • Allerta “interna”: riguarda gli obblighi organizzativi e di monitoraggio all’interno dell’azienda, nonché le segnalazioni dagli organi di controllo societari (sindaci, revisori). L’art. 2086 c.c., modificato dalla riforma, impone all’imprenditore collettivo di dotarsi di assetti organizzativi adeguati per rilevare tempestivamente la crisi. Ciò significa che l’impresa deve munirsi di strumenti contabili, amministrativi e di reporting idonei a tenere sotto controllo la propria situazione finanziaria e patrimoniale. Il CCII (art. 3) elenca alcuni indicatori utili: ad esempio indici di liquidità, indice di Debt Service Coverage Ratio (DSCR) a 6-12 mesi (capacità di far fronte al servizio del debito con i flussi di cassa), andamento di fatturato e margini, entità di debiti scaduti verso banche, fornitori o Erario. Già nel 2019 il CNDCEC (Commercialisti) aveva proposto specifici indici di allerta quantitativi (DSCR < 1, indebitamento oltre certe soglie rispetto a patrimonio e cash flow, ecc.): tali indici, seppur nati per il sistema di allerta originario poi sospeso, rimangono un riferimento pratico. Il correttivo 2024 ha chiarito che nessun singolo numero determina automaticamente lo stato di crisi – vanno valutati nel loro complesso e in ottica prospettica. A supporto delle imprese è stata predisposta una check-list di autodiagnosi disponibile sulla piattaforma online per la composizione negoziata, con domande e parametri per valutare la propria situazione, nonché un test pratico per verificare se un risanamento è ragionevolmente perseguibile. Esempio pratico 1 – Allerta interna: Alfa S.r.l. nota nel 2024 un calo di fatturato per diversi trimestri consecutivi, margini in contrazione e tensioni di cassa che la portano a pagare fornitori con ritardi crescenti. L’indebitamento bancario supera i fidi accordati. Grazie a un adeguato sistema di contabilità analitica, gli amministratori dispongono di bilanci infrannuali e cash flow forecasts: tali analisi mostrano che, senza interventi, entro 6 mesi la liquidità sarà negativa e l’azienda non potrà pagare stipendi né rate di mutuo. Sono evidenti segnali di crisi imminente. A questo punto la legge chiede all’imprenditore di non ignorare la situazione, ma di attivarsi subito valutando misure correttive. Ad esempio, Alfa S.r.l. potrebbe tentare di rinegoziare i prestiti con la banca, cercare nuovi apporti di capitale dai soci, tagliare costi non essenziali, oppure – se la gravità lo suggerisce – attivare uno degli strumenti formalizzati dal Codice (come la composizione negoziata). L’importante è la tempestività: ogni mese di inerzia può aggravare il dissesto e ridurre le opzioni di salvataggio.
  • Allerta “esterna”: riguarda le segnalazioni provenienti da alcuni creditori pubblici qualificati (in primis Agenzia delle Entrate, INPS e Agente della Riscossione). Questi enti, al superamento di determinate soglie di debito scaduto, sono tenuti per legge a inviare una comunicazione formale al debitore, sollecitandolo a reagire. Dal 15 luglio 2022 sono operative tali soglie d’allerta esterna, fissate (dopo modifiche legislative del 2021) come segue:
    • INPS: mancato versamento di contributi previdenziali per oltre 90 giorni per un importo > €15.000 (imprese con dipendenti, e tale importo rappresenti almeno il 30% dei contributi dovuti l’anno precedente) oppure > €5.000 (imprese senza dipendenti).
    • Agenzia delle Entrate: debito scaduto e non versato relativo ad IVA (come da comunicazioni periodiche LIPE) superiore a €5.000. Basta dunque un’omissione significativa di versamento IVA trimestrale oltre tale importo perché scatti la soglia di allerta fiscale.
    • Agente della Riscossione (AdER): presenza di carichi affidati all’Agente della Riscossione, scaduti da oltre 90 giorni, per importi complessivi superiori a €100.000 (imprenditori individuali), €200.000 (società di persone) o €500.000 (società di capitali). In pratica, accumuli di cartelle esattoriali non pagate oltre tali soglie.
    Questi valori – si noti – non sono affatto elevatissimi, specie per IVA e contributi: €5.000 di IVA non versata o €15.000 di contributi arretrati possono verificarsi anche in PMI di modeste dimensioni. Ciò evidenzia che il sistema di allerta esterno è tarato per cogliere segnali di crisi nelle fasi iniziali, prima che i debiti diventino insostenibili. Come avviene la segnalazione? Gli enti monitorano automaticamente il verificarsi di queste condizioni e, trascorsi 60 giorni dal superamento della soglia senza che il debitore abbia rimediato, inviano una comunicazione via PEC all’imprenditore (e, se presente, all’organo di controllo societario). Nella PEC si evidenzia il superamento della soglia debitoria e si invita espressamente l’imprenditore ad attivare la Composizione Negoziata della Crisi (o comunque a prendere provvedimenti per regolarizzare la posizione). In sostanza, la lettera suona un campanello d’allarme ufficiale: “hai accumulato debiti fiscali/previdenziali rilevanti; valuta di rivolgerti a un esperto indipendente per trovare una soluzione prima che sia troppo tardi”. Questa è una novità assoluta introdotta nel 2021: al debitore viene indicato lo strumento della composizione negoziata come aiuto, in un’ottica non punitiva ma preventiva. Le tempistiche di invio sono precise: ad es., l’Agenzia Entrate invia l’avviso entro 60 giorni dalla scadenza del trimestre IVA in cui si è riscontrato il debito; l’INPS e l’Agente della Riscossione entro 60 giorni dal maturare del ritardo o dal superamento soglia. Già a metà 2022 molte imprese hanno iniziato a ricevere tali segnalazioni relative ai debiti accumulati nei primi mesi dell’anno. Effetti della segnalazione esterna: Ricevere questo avviso non fa scattare automaticamente alcuna procedura concorsuale (non esiste più l’idea di un fallimento d’ufficio per segnalazione esterna). Il debitore non è obbligato per legge ad attivare la composizione negoziata, che resta una scelta volontaria. Tuttavia, la segnalazione produce importanti effetti indiretti:
    • Informa ufficialmente gli amministratori e i sindaci dell’impresa. Da quel momento, non ci sono più alibi: la governance sa che l’azienda ha un serio problema di insolvenze col fisco/previdenza. Ogni ulteriore inerzia potrà costituire colpa grave. Se gli amministratori ignorano l’avvertimento e la situazione degenera in insolvenza, i creditori (o il curatore in caso di fallimento) potranno facilmente dimostrare che da quella data essi erano consapevoli della crisi e non hanno agito. Questo aggraverebbe la loro responsabilità.
    • La PEC è inviata anche all’organo di controllo (collegio sindacale o revisore). Questo coinvolgimento dà più forza all’allerta: il collegio sindacale, ricevuto l’avviso, non può far finta di nulla. Se gli amministratori non reagiscono, i sindaci dovranno considerare interventi a loro disposizione. Il correttivo 2024 ha equiparato espressamente i revisori legali ai sindaci in questi obblighi di monitoraggio. In pratica, se dopo la segnalazione l’organo amministrativo resta inattivo, i sindaci/revisori per tutelarsi dovranno agire – nelle ipotesi più gravi, ciò potrebbe spingersi fino a una denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. per gravi irregolarità (nel caso, l’irregolarità consisterebbe nella mancata adozione di iniziative in presenza di crisi conclamata). Il tribunale, a seguito di tale denuncia, può rimuovere gli amministratori inerti e nominare un amministratore giudiziario, o aprire una procedura concorsuale. Insomma, la segnalazione mette pressione anche sugli organi di controllo a non essere passivi.
    • La segnalazione traccia un confine temporale netto. Se dopo averla ricevuta l’imprenditore non intraprende alcuna azione e la crisi peggiora fino all’insolvenza, sarà molto difficile per lui difendersi sostenendo di non essersi reso conto della gravità. Al contrario, se reagisce attivando ad esempio la composizione negoziata o un piano di ristrutturazione, tale comportamento potrà essergli riconosciuto come diligente e in buona fede (ad es. potrà pesare positivamente ai fini di un’eventuale esdebitazione futura, o per evitare contestazioni di bancarotta semplice per tardiva richiesta di fallimento).
    In sintesi, l’allerta esterna sprona l’imprenditore: non impone soluzioni dall’alto, ma lo mette di fronte alla realtà della crisi, “costringendolo” moralmente ad attivarsi. È una logica di moral suasion assistita dalla legge. Esempio pratico 2 – Allerta esterna: Beta S.p.A., impresa edile, nel 2024 subisce un rallentamento dei cantieri e accumula debiti IVA per €200.000. Inoltre non ha versato contributi INPS per €50.000. Tra luglio e settembre 2024 Beta riceve due PEC: una dall’Agenzia Entrate (debito IVA > €5.000) e una dall’INPS (contributi > €15.000). Gli amministratori, già in difficoltà, comprendono che la situazione è grave e – pungolati anche dal Collegio Sindacale che ha ricevuto le stesse PEC – decidono di muoversi: contattano un consulente e attivano subito la Composizione Negoziata presso la Camera di Commercio. Questo consente a Beta di avere l’affiancamento di un esperto e, all’occorrenza, ottenere dal tribunale misure protettive mentre prova a rinegoziare il debito (si veda oltre). Così facendo, Beta S.p.A. evita di aggravare ulteriormente la crisi e può giocarsi una chance di salvataggio; inoltre gli amministratori dimostrano un comportamento proattivo che in futuro potrà tutelarli da accuse di inerzia.

Doveri di intervento degli organi sociali: In parallelo agli strumenti di allerta, il Codice (art. 3) richiama i doveri degli amministratori e dei controllori di attivarsi di fronte a segnali di crisi. L’organo amministrativo, ai sensi degli artt. 2086 e 2486 c.c., ha il dovere di preservare il patrimonio sociale e non aggravare il dissesto una volta che la continuazione dell’attività in normale esercizio non è più sostenibile. Proseguire l’attività imprenditoriale in condizioni di insolvenza conclamata (c.d. trading in insolvenza) può esporre gli amministratori a responsabilità per aggravamento del passivo. Il CCII, con l’art. 378, ha introdotto in art. 2486 c.c. comma 3 dei criteri presuntivi di quantificazione del danno: quando sia accertata la responsabilità degli amministratori per violazione dei doveri nella fase di scioglimento della società (es. aver tardivamente accertato la perdita integrale del capitale sociale o l’insolvenza), il danno risarcibile viene presunto pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui si doveva cessare l’attività e quello alla data dell’apertura della liquidazione o dell’effettiva cessazione. In altre parole, la legge presume che l’aggravamento del dissesto avvenuto nel “periodo di inerzia” sia attribuibile agli amministratori, salvo loro prova contraria. Questo incentivo normativo spinge gli amministratori a non ritardare indebitamente l’accesso alle soluzioni della crisi. Inoltre, il curatore fallimentare ha titolo per esercitare l’azione di responsabilità verso gli amministratori e i sindaci per atti di mala gestio o per tardiva richiesta di fallimento, con sospensione dei termini di prescrizione fino alla loro cessazione dalla carica (art. 2941 n.7 c.c.). Numerose sentenze di merito e di Cassazione negli ultimi anni hanno condannato amministratori (e talora sindaci) al risarcimento verso la massa dei creditori per aver proseguito l’attività in perdita, erodendo il patrimonio a danno dei creditori.

Va ricordato anche il profilo penale: se durante la crisi l’imprenditore commette atti di distrazione, occultamento o dissipazione di beni sociali, ovvero favoritismi verso taluni creditori (pagamenti preferenziali) a scapito di altri, rischia le pene per bancarotta fraudolenta o preferenziale in caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale (le fattispecie penali della legge fallimentare sono ancora in vigore, trasfuse nel Codice penale). Non costituirà reato, invece, la mera mala gestio “semplice” (senza intenti fraudolenti), ma potrà rilevare ai fini civilistici e dell’esdebitazione. L’imprenditore che affronta la crisi in modo trasparente e con correttezza – ad esempio attivando tempestivamente una procedura concordataria o negoziata – sarà in una posizione molto più favorevole nel dimostrare la propria buona fede, sia per evitare sanzioni penali (assenza di dolo) sia per ottenere poi la liberazione dai debiti residui.

In sintesi, gli strumenti di allerta e i rinnovati doveri organizzativi hanno lo scopo di anticipare la reazione alla crisi. Un imprenditore avveduto deve: (1) dotarsi di un sistema di controllo di gestione che segnali squilibri finanziari imminenti; (2) ascoltare le “spie” interne (indici, sindaci) ed esterne (lettere di Agenzia Entrate/INPS); (3) in caso di difficoltà, non “tirare a campare” accumulando debiti, ma attivare prontamente le leve a disposizione (dal risanamento informale a, se necessario, le procedure del Codice). Nel prossimo capitolo parleremo proprio del primo strumento ufficiale attivabile volontariamente dall’imprenditore in crisi: la Composizione Negoziata.

La Composizione Negoziata della Crisi

La Composizione Negoziata della Crisi è una procedura di natura stragiudiziale introdotta nel 2021 (con D.L. 118/2021) e ora disciplinata dal CCII (artt. 17-25). È uno strumento volontario e confidenziale che consente all’imprenditore in crisi (o in pre-insolvenza) di farsi affiancare da un esperto indipendente per condurre trattative con i creditori e trovare una soluzione concordata, evitando se possibile le più gravose procedure concorsuali. In sostanza, si tratta di un percorso assistito di risanamento, attivabile prima di ricorrere eventualmente a concordati o liquidazioni giudiziali. Vediamone le caratteristiche principali:

  • Accesso e requisiti: Può accedere alla composizione negoziata qualunque imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione, che si trovi in condizioni di crisi o di insolvenza reversibile. Non vi sono soglie minime o massime (anche le imprese sotto soglia, che non fallirebbero, possono utilizzarla). La procedura si avvia su istanza telematica dell’imprenditore tramite la piattaforma nazionale istituita presso le Camere di Commercio. Nella domanda vanno allegati i principali dati aziendali e una relazione sulla situazione economico-patrimoniale. Dopo il deposito, un’apposita commissione nomina un esperto indipendente scelto dall’Albo dei gestori della crisi, che riceve l’incarico se non sussistono conflitti di interesse.
  • Figura dell’esperto: L’esperto è generalmente un professionista (dottore commercialista, avvocato o consulente del lavoro) con specifica formazione in crisi d’impresa, iscritto all’albo ministeriale. Il suo ruolo è di facilitatore delle trattative: esamina la situazione aziendale, interloquisce con imprenditore e creditori, e cerca di mediare verso un accordo. Importante: l’esperto non ha poteri di gestione diretta né di imposizione; l’imprenditore rimane in carica e conserva l’amministrazione dell’azienda durante tutta la procedura. L’esperto può però influire consigliando determinate soluzioni e ha il compito di vigilare che le parti agiscano in buona fede.
  • Gestione dell’impresa durante le trattative: Come detto, non c’è spossessamento. L’imprenditore continua la gestione ordinaria e straordinaria, con l’unico vincolo di concordare previamente con l’esperto gli atti di straordinaria amministrazione e i pagamenti non coerenti con l’andamento delle trattative o con le prospettive di risanamento. Ciò per evitare che, mentre sono in corso le negoziazioni, il debitore compia atti che possano pregiudicare i creditori o alterare la par condicio (es. svendita di beni, pagamento preferenziale a qualche creditore). L’esperto non può bloccare direttamente tali atti, ma se li ritiene gravemente pregiudizievoli può segnalarli al tribunale, che potrebbe revocare eventuali misure protettive concesse. In definitiva, però, l’imprenditore mantiene il timone dell’impresa, assistito dall’esperto che funge da advisor e mediatore, e ciò preserva la continuità operativa – elemento cruciale se si spera di risanare senza interrompere l’attività.
  • Durata: La composizione negoziata ha una durata iniziale di 180 giorni (6 mesi) dall’accettazione dell’incarico da parte dell’esperto. Entro questo termine dovrebbero concludersi le trattative. È possibile ottenere una proroga oltre i 6 mesi solo in due casi: (a) se tutte le parti coinvolte (imprenditore e creditori in trattativa) lo richiedono congiuntamente e l’esperto concorda; oppure (b) se occorre attendere l’esito di un ricorso al tribunale per misure protettive o cautelari. In ogni caso, la durata massima di norma non supera i 240 giorni (8 mesi), per evitare che le trattative si trascinino all’infinito congelando la situazione. Se il termine decorre senza soluzione, la procedura si chiude.
  • Riservatezza e pubblicità: La procedura si svolge in modo riservato. L’avvio della composizione negoziata di per sé non è pubblicato nel Registro Imprese (salvo che l’imprenditore decida di chiedere misure protettive al tribunale, v. infra). Tutti i soggetti coinvolti – imprenditore, esperto, creditori aderenti – sono tenuti per legge alla riservatezza sulle informazioni apprese, per evitare allarmi nel mercato (ad es. fornitori o clienti che perdono fiducia sapendo dell’esistenza di trattative di crisi). In pratica, la composizione negoziata offre uno scudo di riservatezza: nessuno fuori dai tavoli negoziali viene a sapere ufficialmente della situazione.
  • Svolgimento delle trattative: L’esperto, d’intesa con l’imprenditore, individua i principali creditori da coinvolgere (tipicamente banche finanziatrici, fornitori strategici, Fisco e previdenza se con grossi debiti). Egli invia a ciascuno una comunicazione iniziale, li invita a un tavolo di confronto e ricorda l’obbligo legale di riservatezza e buona fede nelle trattative. Spesso si tiene una riunione plenaria iniziale in cui l’imprenditore espone la situazione aziendale, le cause della crisi e le linee di un possibile piano di risanamento (es.: “abbiamo bisogno di una moratoria di 12 mesi sui debiti e una dilazione su 5 anni”, oppure “cerchiamo nuova finanza per X euro garantita dagli immobili, con cui pagare il 40% dei debiti”). I creditori possono fare domande e manifestare preoccupazioni, mentre l’esperto modera e cerca di far emergere le posizioni di ognuno. Fondamentale è la collaborazione in buona fede di tutte le parti: l’imprenditore deve fornire informazioni corrette e non nascondere nulla; i creditori dovrebbero evitare, per quanto possibile, di aggravare la posizione dell’impresa durante le trattative (es. attivare pignoramenti aggressivi) finché vedono che la controparte è seria nel tentare un accordo. La legge richiede espressamente lealtà e correttezza da entrambi i lati, sanzionando con la possibile revoca delle tutele chi agisca in modo scorretto. In pratica, la composizione negoziata instaura un dialogo controllato tra debitore e creditori, con l’aiuto dell’esperto per superare diffidenze e trovare punti d’incontro.
  • Misure protettive e cautelari: Uno strumento cruciale a disposizione dell’imprenditore, su richiesta, è la possibilità di ottenere dal tribunale delle misure protettive temporanee. In particolare, l’imprenditore può chiedere fin dall’inizio – o anche più avanti, se necessario – che il tribunale disponga il blocco delle azioni esecutive e cautelari dei creditori sul patrimonio (stay). Questo “ombrello” serve a evitare che, mentre si tratta, qualche creditore impaziente faccia saltare il tavolo pignorando beni o ottenendo sequestri. La domanda di misure protettive si propone con ricorso al tribunale competente (quello della sede dell’impresa), allegando la documentazione caricata in piattaforma e una bozza di piano. Il tribunale valuta immediatamente se la richiesta è funzionale al buon esito delle trattative e se non vi è pregiudizio eccessivo per i creditori. Se concede le misure, esse vengono pubblicate nel Registro delle Imprese (quindi in questo caso la procedura diventa conoscibile dai terzi) e tipicamente consistono nel divieto, per la durata della composizione negoziata, di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali e nell’inibitoria di acquisire nuove garanzie sui beni del debitore. In pratica, i creditori verranno temporaneamente congelati: non potranno aggredire i beni né migliorare la propria posizione rispetto agli altri. Le misure protettive non sono automatiche: il tribunale le concede solo se ritiene che vi siano concrete trattative in corso e possibilità di esito positivo. Inoltre, tali misure possono essere modulate e revocate in qualsiasi momento: ad esempio, se emergesse che le trattative sono inutili o che l’imprenditore agisce in mala fede (magari dilatando i tempi senza una vera prospettiva), il tribunale su segnalazione dell’esperto può revocare lo stay. La durata iniziale delle misure è di 120 giorni, prorogabile di altri 60, in coordinamento con la durata massima della composizione. Va notato che la concessione dello stay comporta anche la non applicazione, per il periodo, di cause di scioglimento del contratto per mancato pagamento di precedenti rate (clausole risolutive nei contratti, salvo eccezioni di legge).
  • Esiti della composizione negoziata: La procedura può concludersi in vari modi, a seconda di ciò che si riesce a ottenere:
    1. Accordo stragiudiziale privatistico: se l’imprenditore e tutti o alcuni creditori trovano un’intesa volontaria, possono stipulare uno o più accordi di ristrutturazione privati (ad esempio una moratoria di comune accordo con le banche, o nuovi piani di rientro con i fornitori). Questi accordi non richiedono omologazione né intervento del giudice, ma ovviamente vincolano solo chi li sottoscrive. L’esperto certifica l’avvenuta composizione e la procedura si chiude. Questo è l’esito più “leggero”: essenzialmente le parti, facilitate dall’esperto, risolvono la crisi da sé.
    2. Concordato stragiudiziale assistito da attestazione: una variante dell’accordo privato è il Piano attestato di risanamento (ex art. 56 CCII, già art. 67 l.fall.). Può accadere che l’esperto consigli all’imprenditore di predisporre un piano di risanamento fattibile e di farlo attestare da un diverso professionista indipendente (un attestatore). Se i principali creditori sono d’accordo a rispettare tale piano, anche senza una firma formale di tutti, l’imprenditore può finalizzare un piano attestato e procedere con la sua esecuzione. Il vantaggio del piano attestato è duplice: (a) è unilaterale (non richiede l’adesione formale di tutti i creditori, basta che non agiscano contro); (b) gli atti compiuti in esecuzione del piano sono esentati da revocatoria fallimentare ex art. 56 CCII. Dunque, se poi malauguratamente l’azienda fallisse, le operazioni fatte per attuare il piano (pagamenti, vendite ecc.) non verrebbero annullate. Il piano attestato è un accordo di fatto basato sulla fiducia reciproca: i creditori accettano informalmente di attendere o di accontentarsi di quanto previsto dal piano, confidando nell’attestazione indipendente che garantisce la serietà del risanamento. Però i creditori dissenzienti (che non accettano) non sono vincolati e possono agire per il recupero integrale: ecco perché funziona solo se c’è un consenso sostanzialmente unanime o almeno se i pochi dissenzienti non hanno peso o vengono pagati integralmente. La composizione negoziata può agevolare anche questa soluzione: ad esempio l’esperto, valutando che quasi tutti i creditori sono collaborativi, potrebbe suggerire di “convertire” le intese raggiunte in un piano attestato ufficiale. Si ottiene così una “uscita morbida” dalla procedura: l’esperto chiude la composizione dichiarando che è stato elaborato un piano attestato che risolve la crisi. Il tutto senza passare in tribunale, ma con la “benedizione” di un professionista attestatore e la protezione di legge contro le revocatorie.
    3. Accordo di ristrutturazione omologato: se l’imprenditore riesce a convincere una parte consistente dei creditori ma non proprio tutti, può optare per un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 CCII (ne parleremo approfonditamente in seguito). In breve, è un accordo che deve essere approvato da almeno il 60% dei creditori (per valore dei crediti) e che viene poi omologato dal tribunale, divenendo vincolante per i consenzienti (e con alcuni effetti estensivi per i dissenzienti in casi particolari). La composizione negoziata non preclude l’utilizzo successivo degli strumenti “tradizionali” di regolazione della crisi: anzi, spesso li prepara. L’esperto, vedendo che magari il 70% dei creditori è disposto a firmare un accordo ma resta fuori un 30%, potrà suggerire all’imprenditore di procedere con un accordo di ristrutturazione giudiziale, così da perfezionare legalmente l’intesa e ottenere protezioni (es. esenzione da revocatoria, stay tramite omologa). In pratica la fase negoziata può servire a raccogliere le adesioni e poi “cristallizzarle” con l’omologazione in tribunale.
    4. Concordato preventivo o altra procedura concorsuale: qualora le trattative non conducano a una soluzione stragiudiziale soddisfacente, l’imprenditore – prima che la composizione negoziata si chiuda – può decidere di ripiegare su una procedura concorsuale vera e propria, come il concordato preventivo (ordinario) o, se applicabile, il concordato semplificato. Spesso infatti l’esperto, nel redigere la relazione finale, indica se a suo avviso vi siano i presupposti per un concordato. L’art. 23 CCII prevede che se non si raggiunge un accordo, l’esperto nella relazione conclusiva dia conto delle prospettive di risanamento e delle soluzioni praticabili. L’imprenditore, entro 60 giorni dall’archiviazione della composizione, può allora presentare domanda di concordato (anche in bianco) oppure accedere ad altra procedura come la liquidazione giudiziale.
    5. Concordato semplificato per la liquidazione: merita un discorso a parte. Introdotto come misura urgente nel 2021 e ora a regime (art. 25-sexies CCII), è riservato proprio ai casi in cui la composizione negoziata si conclude senza accordo ma l’imprenditore vuole evitare il fallimento offrendo comunque ai creditori una soluzione di liquidazione sotto controllo del tribunale. Di fatto, è un concordato “speciale” senza voto dei creditori, di cui parleremo nella prossima sezione. L’imprenditore può proporlo entro 60 giorni dalla chiusura della composizione negoziata.
    In qualunque caso, l’esperto chiude la procedura redigendo una relazione finale sulle attività svolte e sull’esito. Se non si è raggiunto un accordo, la relazione conterrà anche un bilancio delle cause di insuccesso e – come detto – l’indicazione delle eventuali soluzioni praticabili (es. l’ipotesi di concordato semplificato). La relazione finale viene comunicata all’imprenditore e, in alcuni casi, al pubblico ministero (ad es. se l’esperto rileva che l’imprenditore ha compiuto atti in frode ai creditori).

Vantaggi della composizione negoziata: Per l’imprenditore, questo strumento presenta notevoli vantaggi: è rapido, relativamente poco costoso (nessun organo concorsuale se non l’esperto con compenso calmierato), consente di guadagnare tempo sotto protezione giudiziaria (grazie allo stay), preserva la continuità aziendale e soprattutto evita lo stigma del fallimento, lasciando la vicenda confinata nelle trattative riservate. Se le cose vanno bene, l’impresa può uscirne risanata senza essere mai entrata in procedura concorsuale ufficiale. Se vanno male, comunque si sarà tentata ogni strada e l’imprenditore potrà accedere a concordato o liquidazione con la “buona condotta” di chi ha provato a negoziare (il che, come visto, è un attenuante sotto molti profili).

Limiti: D’altro canto, la composizione negoziata non impone nulla a nessuno: i creditori non sono obbligati a fare concessioni (non c’è un voto maggioritario che li vincola, a differenza del concordato), e infatti se qualcuno rimane fermo sulle proprie pretese può vanificare gli sforzi. Inoltre, è uno strumento adatto se l’impresa ha ancora prospettive di risanamento credibili (deve esserci “ragionevole perseguibilità” del risanamento: l’esperto lo valuta in ingresso). Se invece la situazione è già compromessa e manca la fiducia dei creditori, può rivelarsi solo una breve tregua prima dell’inevitabile fallimento.

Giurisprudenza recente: Essendo una procedura giovane, non c’è ancora molta giurisprudenza consolidata. Alcuni tribunali hanno però delineato prassi sull’accesso alle misure protettive: si concedono con parsimonia, verificando che effettivamente siano in corso trattative concrete e che l’impresa non usi lo strumento per prendere tempo senza reali negoziazioni. Inoltre, è stata affermata la responsabilità aggravata dell’imprenditore che, durante lo stay, violi l’obbligo di lealtà (es. occultando informazioni): ciò può comportare la revoca delle protezioni e pregiudicare la successiva ammissione ad altre procedure.

Nel complesso, la composizione negoziata rappresenta oggi il primo approccio consigliabile per molte crisi d’impresa: tentare la carta della negoziazione assistita può permettere soluzioni consensuali e meno traumatiche, lasciando le procedure concorsuali come ultima risorsa. Nel prossimo paragrafo vedremo proprio il “piano B” in caso di fallimento delle trattative: il Concordato Semplificato, pensato come valvola di sfogo per liquidare l’azienda evitando il fallimento, quando la composizione negoziata non ha prodotto un accordo ma c’è comunque un’offerta liquidatoria.

Il Concordato “Semplificato” per la Liquidazione del Patrimonio

Tra le innovazioni apportate dal D.L. 118/2021 (poi confluite nel Codice) vi è il Concordato Semplificato per la liquidazione del patrimonio, disciplinato dall’art. 25-sexies CCII. Si tratta di una procedura concorsuale speciale, attivabile esclusivamente quando una composizione negoziata della crisi si conclude senza accordo, ma l’imprenditore intende comunque evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) offrendo ai creditori una soluzione liquidatoria alternativa.

Le peculiarità principali di questo concordato “semplificato” sono:

  • Accesso limitato e tempistiche: può proporlo solo l’imprenditore che abbia esperito una composizione negoziata senza esito positivo. La domanda di concordato semplificato va presentata entro 60 giorni dalla comunicazione della relazione finale dell’esperto che attesta il mancato raggiungimento di un accordo. Questo vincolo garantisce che lo strumento resti un’eccezione legata al percorso negoziale fallito e non una scorciatoia per chi non ha nemmeno tentato le trattative.
  • Finalità esclusivamente liquidatoria: il piano di concordato semplificato può prevedere soltanto la liquidazione dei beni del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori. Non è ammessa alcuna forma di continuazione aziendale: l’attività d’impresa è destinata a cessare. In pratica è un concordato liquidatorio “puro”. Ciò lo distingue dal concordato preventivo ordinario, che può anche essere in continuità aziendale; nel semplificato invece l’obiettivo è chiudere l’impresa, ma farlo in modo controllato.
  • Mancata votazione dei creditori: questo è l’aspetto più innovativo e peculiare. Nel concordato semplificato i creditori non votano la proposta. Il piano viene presentato direttamente al tribunale per l’omologazione. I creditori sono comunque informati e convocati: essi possono formulare osservazioni e opposizioni, ma non si tiene alcuna adunanza di voto. La decisione finale sull’approvazione spetta dunque al tribunale, il quale valuta la proposta del debitore tenendo conto della relazione dell’esperto e delle eventuali contestazioni dei creditori. Questa assenza di voto rende la procedura molto più rapida e snella (si evita tutto l’iter della raccolta delle adesioni e del calcolo delle maggioranze), ma anche più “dura” per i creditori, che subiscono l’esito senza potersi opporre con il voto (possono però fare opposizione in sede di omologa, segnalando eventuali irregolarità o maggior convenienza del fallimento).
  • Semplificazioni procedurali (nessun commissario né attestatore): Il concordato semplificato è definito tale anche perché non prevede alcuni organi tipici. In particolare, non è nominato un commissario giudiziale (figura che nel concordato preventivo sorveglia la gestione durante la procedura). Inoltre, non è richiesto il piano attestato di un professionista indipendente (di solito nel concordato ordinario serve l’attestatore che certifichi veridicità dei dati e fattibilità del piano). Nel semplificato, questi elementi di controllo sono sostituiti dalla pregressa attività dell’esperto nella composizione negoziata e dal giudizio del tribunale. In pratica, si fa affidamento sul fatto che l’esperto abbia già esaminato l’azienda e nella sua relazione finale abbia stimato i possibili risultati liquidatori. L’imprenditore di solito allega alla proposta di concordato semplificato la relazione finale dell’esperto e ulteriori elementi per dimostrare che la soluzione offerta ai creditori è la migliore possibile dato il contesto.
  • Classi di creditori (opzionali): Pur non essendoci voto, la legge consente comunque al debitore di suddividere i creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi omogenei (ad es. separare chirografari da privilegiati degradati al chirografo). Questo può essere utile in sede di omologa per mostrare come verranno soddisfatte le varie categorie. Nel concordato semplificato spesso i creditori chirografari (unici aventi diritto al residuo attivo) sono una classe unica, mentre eventuali creditori privilegiati vengono pagati per la parte di privilegio capiente e per l’eventuale eccedenza degradano a chirografari, partecipando al riparto come tali.
  • Criterio di omologazione: Il tribunale omologa il concordato semplificato se ritiene che i creditori ricevano non meno di quanto otterrebbero nella liquidazione giudiziale (principio del “miglior soddisfacimento alternativo”), valutando le risultanze fornite dall’esperto. In sostanza, il giudice confronta l’esito prospettato dal piano con quello ipotetico di un fallimento e, se il piano è almeno equivalente o migliore, può approvarlo anche se alcuni creditori lo contestano. Ad esempio, se dal piano semplificato risulta che i chirografari avranno il 30%, e l’esperto stima che in caso di fallimento avrebbero forse il 20% dopo anni, il tribunale potrà considerare la proposta conveniente e omologarla nonostante l’opposizione di taluni creditori. Questo criterio, già elaborato dalla giurisprudenza per il concordato preventivo, qui è centrale poiché manca il voto. Esempio pratico 3 – Concordato semplificato: EcoBuild S.r.l., dopo una composizione negoziata fallita (nessun accordo con i creditori), propone entro 60 giorni un concordato semplificato: offre di vendere rapidamente tutti i cespiti aziendali (macchinari, magazzino, immobili) e distribuire il ricavato stimato di €1,2 milioni tra i creditori chirografari, che avrebbero così un recupero del 30% ciascuno. L’esperto nella sua relazione finale aveva previsto che in caso di fallimento ordinario, a causa dei tempi lunghi e dei costi, probabilmente i creditori avrebbero ottenuto meno del 30% e dopo molti anni. Alcuni creditori contestano che il 30% sia basso, ma nessuno di loro si offre di apportare soluzioni migliori. Il tribunale verifica che l’alternativa liquidatoria non darebbe esiti superiori, apprezza la celerità della proposta e omologa il concordato semplificato. In pochi mesi EcoBuild liquida i beni, paga il 30% a tutti i chirografari e la società viene cancellata dal registro. I creditori hanno ottenuto qualcosa subito (meglio del rischio zero dopo anni di fallimento), e gli amministratori – che hanno cooperato attivamente – possono probabilmente evitare sanzioni per tardivo fallimento e puntare all’esdebitazione personale. Questo esempio illustra come il concordato semplificato, pur liquidatorio, possa essere vantaggioso in termini di tempo ed efficienza rispetto al fallimento.

Novità normative 2024: Il correttivo-ter 2024 ha confermato stabilmente l’istituto nel Codice, eliminando l’originario riferimento ai “risultati negativi” della composizione negoziata (ora è sufficiente che le soluzioni previste dall’art. 23 CCII – accordo con creditori, convenzione di moratoria, ecc. – si siano rivelate inattuabili). Inoltre, ha chiarito che la suddivisione in classi nel concordato semplificato si applica anche ai creditori privilegiati per la parte incapiente (degradati a chirografari). Queste modifiche hanno reso più flessibile l’accesso al concordato semplificato, permettendone l’utilizzo ogniqualvolta le trattative assistite siano andate a vuoto, senza formalismi eccessivi.

In definitiva, il concordato semplificato è un utile strumento di chiusura guidata e veloce di imprese decotte: evita l’impatto (anche reputazionale) di un fallimento e consente ai debitori onesti di gestire la liquidazione in modo attivo. Va però ricordato che esso non è un concordato “a piacimento”: richiede di aver seriamente tentato la via negoziata e di offrire comunque ai creditori il massimo ricavabile. Non c’è spazio per furberie (il tribunale vigila) né per salvare l’azienda: qui l’impresa muore comunque, ma lo fa con un’“eutanasia” ordinata invece che per collasso caotico.

Il Concordato Preventivo Tradizionale

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale “classica” mediante la quale l’imprenditore in stato di crisi o insolvenza propone ai creditori un piano per regolare la propria posizione debitoria, sotto il controllo del tribunale e con il voto dei creditori. Rappresenta da sempre l’alternativa al fallimento, volta a evitare la liquidazione giudiziale attraverso un accordo vigilato e omologato dall’autorità giudiziaria. Nel nuovo Codice, il concordato preventivo è disciplinato dagli artt. 84 e seguenti CCII, con diverse innovazioni rispetto al passato.

Tipologie di concordato: Il concordato preventivo può presentarsi in due forme fondamentali:

  • Concordato in continuità aziendale – se il piano prevede la prosecuzione, in tutto o in parte, dell’attività d’impresa. La continuità può essere diretta (la stessa società debitrice continua l’attività durante e dopo il concordato) oppure indiretta (il piano prevede la cessione o affitto dell’azienda a un altro soggetto che prosegue l’attività). L’obiettivo è il risanamento dell’impresa come going concern, preservando valore e posti di lavoro.
  • Concordato liquidatorio – se il piano prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione di tutto il patrimonio dell’imprenditore, con distribuzione del ricavato ai creditori. È quindi più simile a un fallimento concordato, ma con alcune garanzie aggiuntive a tutela dei creditori (storicamente la legge richiedeva un pagamento minimo del 20% ai chirografari in caso di concordato liquidatorio, salvo apporti esterni, principio in parte rivisto dal CCII come vedremo).

Accesso alla procedura: Può proporre concordato l’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza (anche attuale). La domanda si presenta con ricorso al tribunale competente, corredata dal piano, dalla proposta ai creditori e da una corposa documentazione (elenco creditori, bilanci, relazione di un professionista attestatore indipendente che certifichi veridicità dei dati aziendali e fattibilità del piano). È prevista anche la possibilità di presentare un ricorso “con riserva” (il vecchio concordato in bianco, art. 44 CCII) depositando intanto la domanda e alcuni documenti essenziali e riservandosi di depositare il piano dettagliato entro un termine (fino a 60-120 giorni). La presentazione della domanda (piena o con riserva) comporta l’iscrizione al Registro Imprese e attiva alcuni effetti protettivi immediati (come lo stay automatico delle azioni esecutive, art. 54 CCII). Se il ricorso è “in bianco”, l’impresa deve presentare mensilmente una relazione sullo stato delle trattative e predisporre il piano entro il termine, pena la perdita delle protezioni.

Una volta depositata la domanda completa, il tribunale verifica i requisiti formali ed emette un decreto di apertura del concordato (ex “ammissione”). Contestualmente nomina un commissario giudiziale, figura terza che avrà il compito di vigilare sull’operato del debitore durante la procedura e di relazionare ai creditori e al giudice. L’imprenditore, a differenza del fallimento, rimane in possesso dei beni (no spossessamento) e continua la gestione dell’impresa, ma sotto osservazione del commissario e con alcune limitazioni: gli atti di straordinaria amministrazione devono essere autorizzati dal giudice delegato, e alcuni pagamenti o operazioni non coerenti col piano possono essere sospesi o annullati. Si realizza così un regime di “debtor in possession” vigilato.

Classi di creditori e proposta: Il debitore deve suddividere i creditori in classi se ci sono posizioni giuridiche differenti o trattamenti differenziati (es. separare i chirografari dai privilegiati degradati; distinguere fornitori da banche, ecc.). In generale, è buona prassi formare classi omogenee per agevolare il voto. La proposta di concordato indica quanto si intende pagare a ciascuna classe o categoria di creditori e in che tempi/modalità (es.: “ai chirografari il 40% in 4 rate annuali, ai privilegiati integrale secondo privilegio, ecc.”). Nei concordati in continuità non è richiesto un minimo di soddisfo ai chirografari, purché il piano assicuri che otterranno non meno che in caso di liquidazione (principio del “miglior interesse dei creditori”). Nei concordati liquidatori, la legge richiedeva (vecchia L.F. art. 160) almeno il 20% ai chirografari, salvo apporti di risorse esterne per almeno il 10%. Il CCII ha eliminato l’automatismo della percentuale minima del 20%, ma mantiene la regola che, se i chirografari ricevono meno del 20%, vi siano “risorse esterne” almeno pari al 10% dell’attivo liquidato. Le risorse esterne sono contributi non ricavati dal patrimonio già oggetto di concordato (tipicamente nuovi apporti di soci, rinunce a crediti infragruppo, finanza esterna). La giurisprudenza ha chiarito ad esempio che versamenti post-piano dei soci o rinunce a crediti dei garanti sono considerati validi apporti esterni ai fini di tale regola. Questo meccanismo garantisce un minimo di convenienza ai creditori chirografari anche nei concordati prettamente liquidatori.

Votazione dei creditori: Una volta depositato il piano e completata l’istruttoria (in cui il commissario verifica l’elenco creditori e predispone una propria relazione), il tribunale convoca i creditori all’adunanza. Qui i creditori discutono e poi esprimono il proprio voto (anche per corrispondenza telematica) sulla proposta di concordato. Per l’approvazione è necessaria la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Nel CCII la regola è che la proposta si intende approvata se ottiene il voto favorevole della maggioranza in valore dei crediti votanti in ciascuna classe (se i creditori sono divisi in classi). Se invece non vi sono classi, vale la maggioranza semplice sul totale dei crediti. Questo sistema consente che i creditori siano anche suddivisi per categorie giuridiche se opportuno. In caso di esito positivo della votazione (quorum raggiunto in tutte le classi), si passa alla fase di omologazione giudiziale.

Cram-down e omologazione forzata: Una novità cruciale introdotta dalla riforma (recependo la Direttiva UE) è la possibilità per il tribunale di omologare il concordato anche in presenza di classi dissenzienti (cross-class cram-down). In passato bastava che una classe non raggiungesse la maggioranza perché l’intero concordato fallisse. Oggi, invece, se almeno una classe di grado pari o inferiore a quella dissenziente ha votato a favore, il tribunale può comunque omologare forzosamente, a condizione che la classe dissenziente sia trattata in modo conforme alla regola della priorità assoluta (absolute priority rule). In pratica, la classe dissenziente non deve subire un trattamento peggiore di quello che subirebbero i creditori di grado inferiore: se questo è rispettato (e nessuno di grado inferiore prende più di loro), il giudice può forzare l’approvazione. Ad esempio, ipotizziamo un concordato con due classi chirografarie: fornitori e obbligazionisti. Se la classe dei fornitori (minoritaria in termini di importi) vota no, ma quella degli obbligazionisti (maggioritaria) vota sì, e il piano assicura che ai fornitori dissenzienti non va meno di quanto spetterebbe loro in caso di fallimento, il tribunale può ugualmente omologare il concordato. Le prime applicazioni nel 2024 hanno confermato un approccio favorevole all’omologazione forzata se la classe dissenziente non avrebbe ottenuto di più in caso di liquidazione. Questa innovazione rende più difficili i “ricatti” di minoranze di blocco, in linea con la logica della direttiva europea sui quadri di ristrutturazione preventiva.

Un caso particolare di cram-down riguarda i crediti fiscali e previdenziali (transazione fiscale). Tradizionalmente, nelle procedure concordatarie, il Fisco e gli enti previdenziali potevano aderire a un trattamento falcidiato solo tramite l’istituto della transazione fiscale e avevano potere di veto se non soddisfatti in misura integrale salvo adesione. La Cassazione però aveva chiarito che il tribunale può omologare il concordato anche in caso di voto negativo dell’Erario, purché l’offerta ai crediti tributari privilegiati sia vantaggiosa rispetto all’alternativa fallimentare. Questo principio è ora in buona parte normativizzato: il CCII prevede che se la proposta di concordato assicura ai crediti tributari e contributivi un soddisfacimento non inferiore a quello ricavabile dalla liquidazione (come attestato dall’esperto), il tribunale può omologare il concordato anche in mancanza di adesione da parte di Agenzia Entrate o INPS. È il cosiddetto cram-down fiscale. Inoltre, la riforma 2024 ha previsto che anche nel PRO (piano di ristrutturazione omologato) il debitore possa includere il trattamento di debiti fiscali/previdenziali e che, in caso di conversione del PRO in concordato per mancata approvazione, scatti il cram-down fiscale d’ufficio. Si tratta di avanzamenti importanti, perché eliminano la possibilità per l’Erario di bloccare soluzioni concordatarie vantaggiose per tutti i creditori. Naturalmente, restano ferme le norme che impongono al debitore di fornire la documentazione fiscale completa e aggiornata, e che consentono all’Erario di esprimere voto (positivo o negativo) motivato sulla convenienza della proposta.

Omologazione: Dopo l’approvazione dei creditori (o in sua sostituzione, in caso di cram-down), il tribunale procede all’omologazione del concordato. In questa fase vengono esaminate eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti. Il giudice deve verificare la legittimità del procedimento (rispetto delle norme imperative) e una valutazione di fattibilità del piano. Riguardo a quest’ultima, la giurisprudenza distingue tra fattibilità giuridica (assenza di clausole contrarie a norme inderogabili, come proposte inique verso creditori privilegiati non consenzienti) e fattibilità economica (realizzabilità concreta del piano dal punto di vista industriale-finanziario). Complice la direttiva europea, il CCII ha limitato il sindacato del tribunale alla fattibilità giuridica e ad un controllo di ragionevolezza della fattibilità economica, senza spingersi in valutazioni di merito che spettano ai creditori. In pratica il giudice omologa salvo che il piano sia manifestamente irrealizzabile o contrario a legge; non può rigettare un concordato solo perché a suo avviso troppo ottimistico, se i creditori (adeguatamente informati) lo hanno accettato. Questa linea conferma orientamenti ormai consolidati (Cass., fattibilità limitata).

Ottenuta l’omologazione con decreto, il concordato diviene vincolante per tutti i creditori anteriori, anche per quelli che non hanno votato o hanno votato contro. Le obbligazioni del debitore vengono quindi novate secondo i termini del piano.

Esecuzione del piano e chiusura: Il debitore, assistito eventualmente dal commissario (che diventa liquidatore se il piano prevede vendite), esegue il concordato secondo i tempi previsti (può durare anni se sono previste rateizzazioni). Al termine dell’esecuzione integrale, il tribunale dichiara la chiusura della procedura e – per le persone fisiche – lo stralcio definitivo dei debiti residui (esdebitazione, ne parliamo più avanti). Se il debitore è una società, essa proseguirà la sua attività se era un concordato in continuità, oppure verrà liquidata e cancellata se era liquidatorio.

Modifica del piano omologato: Una novità del 2024 è l’introduzione dell’art. 118-bis CCII, che consente – su istanza del debitore – di modificare o integrare il piano già omologato nel caso in cui, durante l’esecuzione, sopravvengano circostanze che ne impediscono l’attuazione (temporaneamente o definitivamente). In passato, di fronte a eventi imprevisti che facevano saltare i piani (es. mancata vendita di un immobile a causa del mercato avverso), l’unica strada era chiedere la risoluzione del concordato e magari aprire un fallimento. Ora invece il tribunale può, sentito il commissario, autorizzare modifiche al piano in corso di esecuzione, sottoponendo le modifiche a voto dei creditori solo se incidono sui loro diritti in misura significativa. Questa flessibilità aggiuntiva aumenta le chance di portare a termine concordati in contesti mutevoli, evitando di far fallire tutto per contrattempi risolvibili (ad es. è possibile prorogare i termini di realizzo o ridurre proporzionalmente i pagamenti se certi attivi si sono svalutati, con consenso dei creditori coinvolti).

Risoluzione e annullamento: Restano, ovviamente, le norme sulla risoluzione del concordato per inadempimento (se il debitore non adempie le obbligazioni del piano oltre i limiti di tolleranza, i creditori possono chiederne la risoluzione e il tribunale può aprire la liquidazione giudiziale) e sull’annullamento in caso di atti di frode scoperti dopo l’omologa (se emerge che il debitore ha dolosamente nascosto parte dell’attivo o simulato passività).

Vantaggi e considerazioni finali: Il concordato preventivo è uno strumento complesso ma flessibile. Permette soluzioni articolate (dilazioni, stralci, continuità aziendale con ristrutturazioni anche profonde) ed è l’unico, oltre al PRO, che consente di imporre ristrutturazioni anche a creditori dissenzienti (mediante le maggioranze e il cram-down). Rispetto agli accordi stragiudiziali è molto più vincolante e offre protezioni (stay, esenzioni da revocatorie, ecc.). Tuttavia, è anche una procedura costosa (ci sono organi da remunerare: commissario, attestatore, legali; e costi giudiziari) e di non facile esecuzione: la preparazione del piano richiede competenza tecnico-giuridica e trasparenza verso i creditori. La giurisprudenza sul concordato è ricchissima (istituto ultradecennale); molti principi consolidati sono stati recepiti nel Codice (ad es. la distinzione fattibilità giuridica/economica, come visto). Alcuni recenti sviluppi includono la definizione più puntuale del valore di liquidazione (il CCII precisa che nel confrontare la convenienza va tenuto conto anche dei costi e dei tempi di liquidazione fallimentare) e la conferma legislativa della prededucibilità dei crediti sorti “in funzione” del concordato (compensi dei professionisti e finanziamenti-ponte autorizzati): erano prassi, ora espressamente sanciti (art. 6 CCII).

In conclusione, il concordato preventivo rimane un percorso impegnativo, ma grazie alle riforme recenti è diventato più permeabile alle logiche di mercato (ad es. con i cram-down interclasse e fiscale) e più adattabile in esecuzione. Dal punto di vista del debitore, offre l’opportunità di salvare l’azienda (se in continuità) o di chiudere i debiti in modo ordinato (se liquidatorio) con un effetto esdebitatorio una volta eseguito. Nel prossimo capitolo confronteremo due strumenti concorrenti del concordato: gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati, che permettono di risolvere la crisi fuori dal tribunale, ma con diversi gradi di coinvolgimento dell’autorità giudiziaria.

Accordi di Ristrutturazione dei Debiti e Piani Attestati di Risanamento

Accordi di ristrutturazione omologati (ART. 57 CCII): L’accordo di ristrutturazione dei debiti è un istituto che consente al debitore di concludere un accordo con una parte significativa dei creditori e di renderlo efficace e protetto attraverso l’omologazione del tribunale. È disciplinato dagli artt. 57-64 CCII (riprendendo l’art. 182-bis l.fall. previgente, con modifiche). Le caratteristiche chiave sono:

  • L’accordo deve essere sottoscritto da creditori rappresentanti almeno il 60% del totale dei crediti.
  • Il debitore può poi chiedere al tribunale di omologare l’accordo. Il tribunale, previa verifica della regolarità e della fattibilità (attestata anch’essa da un professionista indipendente), omologa rendendo l’accordo efficace erga omnes limitatamente ai creditori aderenti. Significa che i creditori che hanno firmato sono vincolati alla ristrutturazione concordata, mentre i dissenzienti restano estranei: i loro crediti non vengono modificati dall’accordo (dovranno essere pagati integralmente, fuori dall’accordo, oppure gestiti a parte).
  • L’omologazione comporta benefici per il debitore: principalmente, come nel concordato, la protezione dalle azioni esecutive (stay) durante le trattative e fino all’omologazione, e l’esenzione da revocatoria per gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo omologato. In altri termini, l’accordo omologato consente di “cristallizzare” una ristrutturazione concordata senza temere che un fallimento successivo possa far saltare tutto.
  • I creditori estranei non partecipano al voto, non sono toccati dall’accordo e possono teoricamente agire per il recupero (salvo misure protettive temporanee ottenibili).
  • Transazione fiscale: il debitore può includere nell’accordo il trattamento dei debiti tributari e contributivi (quindi proporre una transazione fiscale), ottenendo l’approvazione degli enti fiscali come parte del 60%. La novità introdotta dal D.Lgs. 83/2022 è che, analogamente al concordato, se il Fisco non aderisce ma l’offerta è conveniente quanto il fallimento, il tribunale può omologare ugualmente con effetto di cram-down fiscale (questo principio, consolidato in giurisprudenza, è stato ribadito).
  • Esempi d’uso: L’accordo di ristrutturazione è tipicamente usato quando il debitore ha pochi creditori principali disposti a cooperare (ad es. le banche) e qualche creditore minore indifferente o marginale. Con l’accordo, il debitore può formalizzare la ristrutturazione con i big (banche, bondholders) e poi pagare integralmente i piccoli estranei. Oppure, se i piccoli sono pochi, può usarlo come struttura “portante” e poi chiedere l’estensione degli effetti ai dissenzienti di certe categorie (vedi infra).

Varianti introdotte dal CCII: Il Codice ha arricchito l’istituto degli accordi con previsioni nuove:

  • Accordi ad efficacia estesa: in linea con l’ex art. 182-septies l.fall., se l’accordo riguarda una categoria di creditori finanziari (banche, obbligazionisti) e vi aderisce almeno il 75% di tali crediti, il debitore può chiedere al tribunale di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori finanziari dissenzienti della stessa categoria, purché questi siano stati informati e abbiano avuto pari opportunità. In pratica, se il 80% delle banche accetta una ristrutturazione di mutui, il tribunale può imporla anche al 20% di banche che hanno rifiutato, a condizione che non subiscano condizioni più gravose di quelle accettate dalla maggioranza. Questa misura serve a evitare che una piccola banca dissenziente faccia saltare un’intesa sostenuta dalla maggioranza qualificata del ceto finanziario. L’estensione opera solo per crediti finanziari omogenei.
  • Convenzione di moratoria: il CCII (art. 61) prevede che se i creditori che rappresentano almeno il 75% di una categoria (es. fornitori strategici, o tutte le banche) acconsentono a posticipare le scadenze o a non agire temporaneamente (moratoria), il tribunale può estendere questa moratoria anche ai membri dissenzienti della medesima categoria. Importante: ciò vale solo se non si chiede ai dissenzienti alcun sacrificio definitivo (ad esempio la moratoria può differire i pagamenti ma senza ridurre il capitale). In tal caso, tutti restano in attesa secondo l’accordo di standstill, evitando il rush al pignoramento. Questa convenzione di moratoria è uno strumento di standstill collettivo.
  • Accordi di ristrutturazione “agevolati”: la riforma (recependo la Direttiva) ha introdotto la possibilità di ottenere misure protettive già con il 30% di adesioni iniziali. In particolare, l’art. 44-bis CCII consente al debitore che abbia raccolto almeno il 30% di consensi (o nel frattempo in composizione negoziata ne ha prospectivamente) di chiedere al tribunale misure protettive temporanee mentre prosegue le trattative per arrivare al quorum del 60%. Questo permette di “proteggere” l’impresa nella fase di raccolta delle firme iniziali di un accordo, a patto che ci sia già una base significativa.
  • Piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (PRO): di cui diremo fra poco, sono stati introdotti come via intermedia più flessibile.

Attestazione e controllo: Anche per l’accordo serve la relazione di un attestatore indipendente, che certifichi la veridicità dei dati e la convenienza dell’accordo per i creditori (nel senso che i creditori aderenti ricevono almeno quanto riceverebbero in un fallimento). Inoltre, se ci sono creditori estranei, l’attestatore deve asseverare che essi saranno pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologa (per i crediti scaduti) o dalla scadenza (per i non scaduti), come richiesto dalla legge (altrimenti anche il loro credito subirebbe effetti e l’accordo sarebbe inammissibile).

Confronto con il concordato: L’accordo è più snello del concordato: non c’è voto generale, non c’è commissario, non c’è spossessamento né pubblicità pre-finale (diventa pubblico solo con l’omologa, a fine processo). È quindi meno stigmatizzante e meno costoso. Di contro, richiede un consenso qualificato (60%) ma non totalizzante, e i creditori dissenzienti restano estranei, dunque se ve ne sono troppi o importanti l’accordo potrebbe essere insufficiente. Per questo, gli accordi funzionano bene in situazioni con pochi creditori o con uno zoccolo duro di credito concentrato (ad es. l’80% dei debiti verso banche, che aderiscono: i fornitori minori poi vengono pagati per intero). Con le estensioni al 75%, è diventato più potente, specie per ristrutturazioni finanziarie.

Esempio pratico 4 – Accordo di ristrutturazione: Gamma S.p.A. ha 5 banche esposte per 10 milioni totali e vari fornitori per 2 milioni. Le banche si accordano (rappresentano l’83% del debito totale) per prorogare i mutui e rinunciare al 20% degli interessi futuri; però 1 delle 5 banche (10% del totale crediti) inizialmente non aderisce. Gamma raccoglie l’adesione delle altre 4 banche (>75% del debito bancario) e chiede al tribunale di estendere l’accordo anche alla banca dissenziente, offrendo le stesse identiche condizioni. Il tribunale approva: tutte le banche sono così vincolate alla ristrutturazione. I fornitori, che sono il 17% dei crediti, restano estranei ma Gamma è in grado di pagare tutti i fornitori regolarmente grazie alla moratoria delle banche. Si omologa dunque un accordo al 83%, che di fatto risolve la crisi senza un concordato. Questo scenario mostra la forza combinata dell’accordo con efficacia estesa: evitato il fallimento con un procedimento relativamente rapido.

Piani attestati di risanamento (art. 56 CCII): Il piano attestato è uno strumento ancora più leggero: un accordo di natura privata al 100%, senza omologa. Consiste in un piano di risanamento predisposto dall’imprenditore e attestato nella sua ragionevole fattibilità da un professionista indipendente, secondo l’art. 56 CCII. Caratteristiche:

  • Non richiede soglie di adesione né coinvolgimento formale dei creditori: è un atto unilaterale del debitore. In pratica, il debitore elabora un piano industriale-finanziario di rilancio, lo fa verificare e asseverare da un esperto indipendente, e poi lo esegue contrattando individualmente con i creditori le eventuali modifiche di pagamento (accordi bilaterali di dilazione, remissione, ecc.).
  • Il beneficio legale è l’esenzione dalle azioni revocatorie per gli atti posti in essere in esecuzione del piano attestato. L’art. 56 CCII infatti riprende l’ex art. 67, co.3, lett. d) l.fall., stabilendo che non sono soggetti a revocatoria fallimentare gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in adempimento di un piano di risanamento idoneo a garantire il riequilibrio dell’impresa attestato da un professionista. Ciò dà un paracadute al debitore e ai terzi: se poi la società dovesse fallire, le operazioni compiute in attuazione del piano non potranno essere messe in discussione dal curatore.
  • Nessun vincolo sui dissenzienti: Il piano attestato non ha efficacia erga omnes. Ogni creditore è libero di aderire o meno. Chi aderisce, di solito, formalizza la propria adesione tramite accordi bilaterali (es. rinegoziazione del credito, standstill, ecc.), ma un creditore non partecipe resta libero di agire e pretendere il pagamento integrale. Questo è sia un limite sia una precauzione: il debitore deve assicurarsi un’adesione pressoché unanime, altrimenti il piano rischia di saltare.
  • Utilizzo tipico: Il piano attestato si usa quando la crisi è ancora gestibile con il consenso generalizzato dei creditori principali, magari perché c’è fiducia nell’imprenditore o convenienza evidente ad evitare un fallimento. Ad esempio, è spesso impiegato per ristrutturazioni bancarie in bonis: tutte le banche concordano informalmente e si limitano a richiedere l’attestazione professionale come garanzia di serietà. Oppure in situazioni dove il numero di creditori è contenuto e c’è un interesse comune a non pubblicizzare la crisi. Infatti il piano attestato non ha pubblicità: resta nei cassetti dell’azienda e dei creditori, i concorrenti e il pubblico non ne sanno nulla, a differenza di concordati e accordi omologati che diventano noti.
  • Linee guida: La prassi dei piani attestati è consolidata: il CNDCEC ha emanato principi per gli attestatori, e la giurisprudenza ha tratto insegnamenti su cosa renda un piano “idoneo” (deve esserci concretezza di risanamento, e il professionista deve verificare attentamente i dati). Un piano attestato che sia solo un escamotage per prendere tempo verrebbe smontato in sede fallimentare, se emerge che non era idoneo al risanamento, e gli atti compiuti potrebbero allora essere revocati (la protezione salta se manca la sostanza). Quindi è essenziale la qualità del piano e dell’attestazione.

Esempio pratico 5 – Piano attestato: Delta S.r.l. ha 3 banche finanziatrici che rappresentano il 90% del suo debito e alcuni fornitori minori per il restante 10%. Delta sta attraversando una crisi di liquidità ma ha buone prospettive di nuovi contratti. Tutte e 3 le banche si dicono disposte ad attendere e magari fornire nuova finanza se c’è un piano credibile. Delta incarica un advisor di predisporre un piano di rilancio a 3 anni e un professionista indipendente lo attesta. Le banche, sulla base di ciò, firmano ciascuna una scrittura privata col debitore in cui prorogano le scadenze e concedono nuova finanza a condizioni concordate. I fornitori (di importo ridotto) vengono pagati regolarmente, quindi restano fuori dal piano ma non danneggiati. Delta esegue il suo piano e si risana. Nessuno all’esterno ha saputo ufficialmente della crisi, non c’è stato bisogno di tribunale, e gli atti compiuti (nuove ipoteche a garanzia del nuovo finanziamento, pagamenti ai fornitori in base al piano) sono protetti da revocatoria se mai Delta fallisse in futuro. Questo esempio mostra come il piano attestato sia ideale quando la crisi è ancora controllabile e c’è consenso pressoché unanime: è il primo tentativo che un imprenditore tende a fare per aggiustare la rotta prima di ricorrere a soluzioni più invasive.

Rapporto con la composizione negoziata: Come accennato prima, durante una composizione negoziata, l’esperto può consigliare di concretizzare le intese con un piano attestato. Il CCII riconosce esplicitamente questa possibilità: ad esempio, l’art. 23 CCII precisa che uno degli esiti positivi della composizione può essere proprio un contratto o un piano attestato sostenibile raggiunto grazie all’esperto. Dunque, gli strumenti si integrano: il piano attestato può essere visto come l’uscita “autonomica” da una crisi ancora gestibile, mentre l’accordo omologato e il concordato sono vie giudiziali per crisi più gravi o negoziazioni incomplete.

In sintesi:

  • Il piano attestato è lo strumento più agile: tutto privato, richiede consenso integrale di fatto e offre in cambio protezione dagli effetti negativi di un eventuale fallimento successivo (niente revocatorie). Ottimo per crisi iniziali e situazioni di “quiet restructuring”.
  • L’accordo di ristrutturazione è una via di mezzo: c’è l’intervento del tribunale (omologa), ma il debitore conserva più controllo rispetto al concordato. Richiede il 60% di consensi, consente di escludere minoranze, e offre protezioni analoghe al concordato (stay e no revocatorie). È indicato per crisi dove si può ottenere l’adesione della gran parte dei creditori, evitando però la complessità di un voto generalizzato.
  • Entrambi questi strumenti enfatizzano la negoziazione privata rispetto alla soluzione autoritativa. Il CCII li ha potenziati (introducendo classi nelle convenzioni di moratoria, estensioni settoriali, abbassamento soglia protettiva al 30% ecc.) per allinearsi alla logica europea di favorire i preventive restructuring frameworks.

Passiamo ora a una novità assoluta: il Piano di Ristrutturazione soggetto ad Omologazione (PRO), che il legislatore italiano ha introdotto nel 2022 per recepire la direttiva UE e colmare uno spazio intermedio tra gli accordi e il concordato.

Il Piano di Ristrutturazione Soggetto ad Omologazione (PRO)

Il PRO è un nuovo strumento, inserito nel Capo I-bis del Titolo IV CCII (artt. 64-bis, 64-ter, 64-quater), che rappresenta una sorta di “procedura ibrida” di regolazione della crisi d’impresa. Come suggerisce il nome, si tratta di un piano di risanamento dei debiti proposto dal debitore che, una volta approvato dai creditori e omologato dal tribunale, diviene vincolante per tutti i creditori coinvolti. È uno strumento a metà strada tra un accordo di ristrutturazione e un concordato preventivo, unendo elementi negoziali (richiede l’accordo delle varie classi di creditori) ad elementi concorsuali (intervento e controllo del giudice).

Finalità ed origine europea: Il PRO nasce per dare attuazione alla Direttiva (UE) 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva. La direttiva chiedeva agli Stati di prevedere una procedura che consentisse di ristrutturare l’impresa prima dell’insolvenza conclamata, anche in deroga alle normali regole di priorità dei crediti, purché vi fosse il consenso delle necessarie maggioranze in ciascuna classe di creditori. Inoltre, la direttiva incoraggia l’introduzione di meccanismi di cram-down trans-classi (omologazione nonostante il dissenso di alcune classi) e di misure protettive durante le trattative. Il PRO risponde proprio a questi scopi: consente di sovvertire le regole ordinarie di parità di trattamento e graduazione delle cause di prelazione, se c’è un consenso qualificato di creditori organizzati in classi. In altre parole, permette soluzioni più flessibili (ad es. stralciare parzialmente debiti privilegiati con l’accordo delle relative classi, cosa che nel concordato ordinario non sarebbe possibile se non rinunciando ai privilegi).

Presupposti soggettivi: Il PRO è riservato agli imprenditori commerciali medio-grandi. L’art. 64-bis CCII infatti stabilisce che può proporre un PRO il debitore che “non dimostra il possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. 2, c.1, lett. d)”, cioè che non è un’impresa minore sotto soglia. Ciò significa che le piccole imprese (non fallibili) sono escluse dal PRO: esse hanno a disposizione solo le procedure di sovraindebitamento (piani del consumatore, concordato minore, ecc.). Il PRO è pensato dunque per aziende fallibili, di dimensioni non microscopiche. Sono esclusi anche gli imprenditori agricoli (per definizione non soggetti a fallimento), salvo futura estensione legislativa.

Quando si può usare: Il PRO è utilizzabile sia in caso di semplice stato di crisi (insolvenza probabile nei successivi 12 mesi) sia di insolvenza già manifesta. Il CCII non richiede che il debitore sia solo in crisi incipiente; può accedere anche se formalmente insolvente, a patto di riuscire a costruire un piano accettabile dai creditori. Ciò lo distingue dall’accordo di ristrutturazione (che presuppone tecnicamente la solvibilità attuale, pur con squilibri, mentre il concordato implica insolvenza o almeno crisi). Il PRO è quindi un ponte tra prevenzione e insolvenza conclamata.

Contenuto del piano: Il debitore suddivide i creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi (similmente al concordato). Ogni classe voterà sul piano. Il piano di ristrutturazione può prevedere qualunque forma di soluzione: ristrutturazione in continuità (operazioni sul capitale, aumento di soci, modifica termini di pagamento, conversione debiti in equity) o anche liquidazione dei beni. Infatti è stato chiarito che il PRO può avere natura anche liquidatoria pura, sebbene nasca come strumento di risanamento. L’importante è che la soluzione proposta sia ritenuta migliorativa rispetto al fallimento.

Approvazione e classi: Affinché il PRO possa essere omologato, tutte le classi di creditori votanti devono approvare il piano a maggioranza di credito (maggioranza in valore dei crediti per ciascuna classe). Quindi, diversamente dal concordato ordinario dove è sufficiente la maggioranza complessiva (e oggi è ammesso il cram-down su classi dissenzienti), qui il requisito base è il consenso di tutte le classi. Se anche una sola classe non approva, il PRO come tale non può essere omologato (salvo eventualmente convertirlo in un concordato preventivo e seguire quella strada, come vedremo). Questo elevato quorum lo rende uno strumento di consenso unanime qualificato: in pratica serve convincere ogni categoria di creditori del piano. In cambio, però, come detto si possono prevedere trattamenti anche in deroga alle priorità: ad esempio, i creditori privilegiati possono accettare di essere soddisfatti parzialmente senza dover essere pagati al 100% o al 80% come invece richiesto nel concordato, e i chirografari possono ricevere anche meno del 20% senza dover apportare risorse esterne, se sono d’accordo.

Ruolo del tribunale: Il tribunale, al momento dell’omologa, verifica la regolarità e la convenienza per eventuali oppositori. In particolare, se qualche creditore (o classe, in ipotesi tutte devono aver detto sì ma un singolo creditore di classe consenziente può comunque opporsi) lamenta una scarsa convenienza, il giudice omologa solo se risulta che tale creditore otterrà col piano non meno di quanto otterrebbe in caso di liquidazione giudiziale. Questo è un principio di tutela minimale per i dissenzienti di minoranza. Nella pratica, considerato che tutte le classi devono dire sì, le opposizioni saranno minoritarie e circoscritte; la legge comunque prevede questo controllo per evitare abusi (ad es. un creditore che è stato costretto in una classe e subisce un trattamento in deroga potrebbe opporsi: il giudice verifica che comunque non sia penalizzato rispetto al fallimento). Ad oggi si è registrata almeno un’applicazione: un tribunale ha omologato un PRO dove i chirografari prendevano lo 0,8%, ritenendolo ammissibile perché in fallimento avrebbero preso 0%.

Misure protettive: Anche nel PRO il debitore può richiedere al tribunale misure protettive (analoghe a quelle del concordato) per congelare le azioni esecutive durante le trattative. Infatti, l’art. 54 CCII (stay) si applica al PRO in quanto richiamato dall’art. 64-bis co.9. Quindi, presentando ricorso per omologa PRO, o anche una domanda prenotativa legata a PRO, si può ottenere la sospensione dei procedimenti esecutivi e cautelari e il divieto di acquisire garanzie sui beni del debitore. Inoltre, gli atti legalmente compiuti dopo il deposito della domanda di PRO e prima dell’omologa godono di esenzione da revocatoria (richiamo art. 46 CCII).

Differenze rispetto al concordato: Riassumendo le differenze principali:

  • Consenso richiesto: PRO richiede consenso di tutte le classi (quindi è più stringente), il concordato richiede maggioranza per classe ma ammette cram-down su classi dissenzienti.
  • Flessibilità contenuto: PRO permette di non rispettare le graduazioni di legge se ciascuna classe accetta (ad es. i chirografari possono prendere più dei privilegiati se questi acconsentono, invertendo priorità). Nel concordato ordinario, salvo consenso individuale dei privilegiati, vige la regola per cui non si può dare a un creditore inferiore più di uno superiore (absolute priority, che però come visto può essere derogata in parte col nuovo cram-down).
  • Soggetti ammessi: PRO solo per fallibili medio-grandi; concordato per tutti gli imprenditori commerciali (anche piccoli possono fare il loro concordato minore in versione semplificata).
  • Procedura: Il PRO non prevede fase di voto con adunanza generale convocata dal tribunale come nel concordato; in pratica, il debitore raccoglie le adesioni (i voti di classe) anche fuori dall’aula, poi presenta il piano con le adesioni per l’omologa. Ciò è possibile perché se una classe non aderisce, semplicemente non c’è PRO da omologare e il debitore dovrà virare sul concordato.
  • Organi: Nel PRO ordinariamente non è nominato un commissario giudiziale durante la trattativa (non c’è procedura aperta prima dell’omologa). Tuttavia, se il debitore contestualmente chiede misure protettive, il tribunale può nominare un ausiliario o commissario ad acta per vigilare nel frattempo (il correttivo 2024 ha previsto la possibilità di nominare un commissario anche nel PRO in caso di contestazioni, analogamente a quanto avviene nel concordato in bianco).

Conversione in concordato: Cosa succede se un PRO non ottiene tutte le classi favorevoli? Il CCII prevede (art. 64-ter) che il debitore possa chiedere, in caso di mancata approvazione integrale, la conversione del procedimento in un concordato preventivo semplificato di tipo liquidatorio. Questa previsione è stata inserita per evitare che uno sforzo di PRO fallito costringa a ripartire da zero: l’idea è che se solo una classe è contraria, si possa trasformare quell’iter in un concordato preventivo e magari ottenere il cram-down su quella classe dissenziente (purché rispetti absolute priority). Il correttivo 2024 ha aggiunto all’art. 64-bis un comma 1-bis che consente di includere la transazione fiscale nel PRO e dispone che in caso di conversione in concordato, operi il cram-down anche sul Fisco. Dunque, se il PRO fallisce per il no del Fisco, si passa a concordato e il giudice può forzare la transazione fiscale se il piano era comunque conveniente per l’Erario.

PRO e sovraindebitamento: Il PRO attualmente non è accessibile ai debitori “civili” né alle imprese minori, come detto. Per essi esiste il concordato minore, che però richiede il voto dei creditori; non è prevista una procedura analoga al PRO per i piccoli, se non tramite possibili implementazioni future.

Esempio pratico 6 – PRO in azione: Zeta S.p.A. (società manifatturiera di medie dimensioni) elabora un piano di ristrutturazione in continuità: prevede che i fornitori (chirografari) accettino un taglio del 30% sul credito, che le banche (privilegiate) convertano parte del credito in strumenti partecipativi e rinuncino a garanzie su asset non strategici, e l’ingresso di un nuovo socio che apporta equity fresca. Zeta costituisce 3 classi: banche, fornitori, obbligazionisti. Tutte e 3 le classi votano il piano (le banche al 100% perché preferiscono sacrificarsi un po’ piuttosto che il fallimento; i fornitori all’80% consapevoli che prenderebbero quasi zero in fallimento con crediti non privilegiati; gli obbligazionisti all’90%). Avendo ogni classe la maggioranza, il PRO può essere presentato in tribunale. Un piccolo fornitore dissenziente fa opposizione lamentando che il 70% che riceverà è modesto; il tribunale verifica che in caso di fallimento quel fornitore forse non avrebbe nulla, e omologa comunque il PRO. Zeta evita il fallimento, prosegue l’attività rilanciata dal nuovo socio, e tutti i creditori (anche i dissenzienti) sono vincolati dall’omologa: i fornitori dissenzienti devono accettare il 70%, le banche dissenzienti (se ve ne erano) subiscono la conversione di credito, ecc., il tutto perché le rispettive classi hanno approvato. Questo scenario mostra come il PRO possa riuscire dove un concordato forse sarebbe stato più rigido: ad esempio, qui le banche hanno accettato di degradare parte del loro credito oltre i limiti legali e i fornitori di prendere percentuali minime, cose fattibili perché c’è stato consenso in classe.

Stato dell’arte e prime applicazioni: Il PRO è uno strumento nuovissimo (in vigore dal 15 luglio 2022). Le prime richieste di PRO sono arrivate tra fine 2022 e 2023. Alcune sono state omologate con successo, in casi di aziende con struttura di debito finanziario complessa (es. Tribunale di Milano, nov. 2024 avrebbe omologato un PRO con classi consenzienti, incluso cram-down su minoranza interna ad una classe). Dottrina e giurisprudenza stanno dibattendo su vari aspetti: l’esatto perimetro del cram-down interclassi nel PRO (che formalmente richiede tutte classi consenzienti, ma l’art. 64-ter accenna a ipotesi di omologa parziale? In realtà è più legato alla conversione in concordato), il ruolo dell’esperto indipendente (che comunque deve attestare il piano come per concordato), l’interazione con la composizione negoziata (un PRO può emergere anche da una composizione negoziata di successo).

Per il debitore, il PRO rappresenta uno strumento potenzialmente molto potente: se riesce a costruire consenso tra tutte le categorie di creditori, può davvero “riscrivere” la struttura finanziaria dell’impresa a suo modo, con la benedizione del tribunale e proteggendo l’operazione da aggressioni individuali e revocatorie. È però un percorso che richiede grande abilità negoziale (convincere tutti i gruppi), trasparenza di intenti e, solitamente, la presenza di un piano industriale credibile spesso corroborato da nuovi investimenti o finanza esterna. Non a caso il PRO spesso si vedrà in operazioni di turnaround con fondi di investimento o ingressi di nuovi soci (che vogliono la pulizia di bilancio garantita dall’omologa giudiziale).

Con il PRO si conclude la panoramica degli strumenti di regolazione della crisi rivolti alle imprese “fallibili”. Nel capitolo successivo sposteremo l’attenzione sulle procedure destinate ai debitori non fallibili (piccole imprese sotto soglia, professionisti, consumatori), ossia le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, che nel Codice assumono forme parzialmente nuove (il concordato minore, il piano del consumatore ristrutturazione dei debiti del consumatore e la liquidazione controllata).

Procedure per Sovraindebitati: Piccole Imprese, Professionisti e Consumatori

Il Codice della Crisi ha integrato e sostituito la previgente Legge 3/2012 in materia di sovraindebitamento, uniformando sotto la sua egida anche le procedure riservate ai debitori civili e alle imprese minori. Queste procedure, pur affini concettualmente ai concordati, presentano adattamenti per tenere conto delle dimensioni ridotte e dell’assenza di fallibilità del debitore. Gli strumenti principali ora previsti sono:

  • Concordato minore (artt. 74-83 CCII): è l’equivalente per le imprese sotto soglia e per i professionisti del concordato preventivo. Può accedervi il debitore sovraindebitato che non è consumatore (dunque piccolo imprenditore commerciale, agricolo, start-up innovativa, professionista). Analogamente al concordato, il debitore propone un piano ai creditori, il quale deve assicurare almeno il pagamento integrale dei crediti impignorabili e un’utilità specifica ai creditori privilegiati (salvo consenso alla falcidia). I creditori votano sulla proposta (senza classi, a maggioranza del 60% dei crediti ammessi al voto, stante la minor complessità). Se approvato, il tribunale omologa il concordato minore, che diviene vincolante anche per i creditori dissenzienti. In caso di piano del consumatore (vedi sotto) non c’è voto, ma qui essendo debitore non consumatore, serve il voto. Il concordato minore consente di includere anche la ristrutturazione di debiti fiscali e previdenziali con transazione fiscale (oggi ammessa anche in queste sedi). La riforma 2024 ha allineato alcune norme del concordato minore a quelle del concordato preventivo: ad esempio, è stata esplicitamente prevista la possibilità di mantenere l’abitazione principale in determinate condizioni, analogamente al piano del consumatore.
  • Piano di ristrutturazione del consumatore (già “piano del consumatore”, artt. 67-73 CCII): riservato ai consumatori, cioè persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale (es. famiglie indebitate per mutui, finanziamenti personali). Il consumatore può proporre un piano dettagliato di rientro dal debito (di solito con pagamento parziale, proporzionato alle sue capacità reddituali) senza bisogno di alcun voto dei creditori: decide il tribunale se omologarlo, valutando la fattibilità e – soprattutto – la meritevolezza del consumatore. Già con la L.3/2012, il piano del consumatore richiedeva che il giudice verificasse che il sovraindebitamento non fosse dovuto a comportamento colposo grave o doloso del consumatore (ad esempio spese sproporzionate o mala fede nel contrarre debiti) e che il piano assicurasse ai creditori quanto ricaverebbero dalla liquidazione del patrimonio disponibile. Se queste condizioni sono rispettate, il giudice omologa il piano anche senza consenso dei creditori. I creditori possono solo comparire per contestare eventuali dati, ma non votano. Il Codice conferma questo impianto, e il correttivo 2024 ha persino eliminato alcune disparità: ad esempio, ha previsto espressamente che pure nel concordato minore (non solo nel piano del consumatore) il debitore possa mantenere la casa di abitazione quando ciò non lede i creditori (prima il beneficio era espressamente menzionato solo per il consumatore). Dunque il salvacasa vale per entrambi: se il debitore è in regola con mutui o può provvedere a pagarli, il piano può escludere la vendita della prima casa.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 e 268-277 CCII): è la procedura liquidatoria destinata ai debitori non fallibili. Equivale all’ex “liquidazione del patrimonio” della L.3/2012, ma con alcune modifiche. Può essere chiesta dal debitore sovraindebitato (anche in proprio) o da un creditore o dall’OCC. Se aperta, comporta il spossessamento del debitore persona fisica o la liquidazione della società/impresa minore, con nomina di un liquidatore (figura analoga al curatore). Il procedimento ricalca molto la liquidazione giudiziale: si formano l’elenco crediti, si vendono i beni, si distribuisce il ricavato secondo i privilegi. Importante, però, il Codice ha eliminato un precedente limite temporale: prima, il sovraindebitato doveva attivare la liquidazione entro l’anno dalla cessazione dell’attività d’impresa (per le imprese cessate) o dalla manifestazione dell’insolvenza. Ora, per equità, è stato previsto che anche un’impresa minore cessata possa richiedere la liquidazione controllata entro un anno dalla cancellazione, analogamente a quanto previsto per il fallimento. Inoltre, per le persone fisiche imprenditori individuali, è stata introdotta una deroga: anche dopo un anno dalla cancellazione, l’imprenditore persona fisica può chiedere la liquidazione controllata. Ciò per garantire flessibilità: se Tizio chiude la ditta e dopo 2 anni si ritrova inseguito dai creditori, può comunque attivare la procedura per liberarsene (prima sarebbe stato fuori tempo massimo). La liquidazione controllata è meno complessa del fallimento: è gestita di norma da un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) o da un professionista gestore nominato dal tribunale in composizione monocratica. Al termine, il debitore persona fisica può ottenere l’esdebitazione dei debiti residui.
  • Esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII): Si tratta di una misura innovativa introdotta già dal DL 137/2020 e recepita nel Codice. Prevede che un debitore persona fisica meritevole e privo di beni liquidabili possa chiedere l’esdebitazione immediata anche senza alcun pagamento ai creditori. In pratica è il “fresh start” totale per il debitore incapiente. La concessione è subordinata a criteri di meritevolezza stringenti (non aver colpe nel sovraindebitamento, aver cooperato con l’OCC, non aver già usufruito di esdebitazione nei scorsi 5 anni, ecc.). Se accordata, per 4 anni il debitore ha l’obbligo di comunicare al tribunale eventuali sopravvenienze attive di rilievo (es. eredità, vincite); i creditori potrebbero in tal caso chiedere di recuperare su tali utilità sopravvenute. Il correttivo 2024 ha ridotto da 4 a 3 anni tale periodo di rilevazione delle sopravvenienze, velocizzando la chiusura definitiva. Questa esdebitazione “zero payment” è concettualmente forte: consente al debitore onesto ma sfortunato di ripartire da zero, anche se i creditori non ricevono nulla, sul presupposto che comunque non avrebbero ottenuto nulla neppure inseguendo un debitore nullatenente. È una forma di amnistia civile del debito, ispirata alle migliori pratiche straniere.

Ruolo dell’OCC (Organismo di Composizione della Crisi): In tutte le procedure da sovraindebitamento, un ruolo cruciale è svolto dall’OCC, organismo istituito presso enti pubblici (Camere di Commercio, Ordini professionali) che mette a disposizione i Gestori della crisi. Questi ultimi (di solito professionisti iscritti all’albo gestori crisi) assistono il debitore nella predisposizione del piano o dell’istanza di liquidazione, ne attestano veridicità e fattibilità nei casi previsti e svolgono funzioni di supervisione analoghe a quelle del commissario nel concordato. Ad esempio, nel concordato minore e nel piano del consumatore, il gestore/OCC aiuta a formulare il piano e redige una relazione da allegare alla domanda; nel corso della procedura vigila sull’esecuzione. Nella liquidazione controllata, il liquidatore nominato può essere scelto tra i gestori dell’OCC competente. L’OCC è quindi l’interfaccia locale del debitore sovraindebitato, garantendo professionalità e terzietà. I debitori che intendono avvalersi di queste procedure devono in genere rivolgersi a un OCC presente nel proprio circondario (l’elenco è tenuto dal Ministero della Giustizia).

Meritevolezza: Un concetto peculiare di queste procedure è la meritevolezza del debitore. Sia per il piano del consumatore sia per ottenere l’esdebitazione, il tribunale valuta il comportamento tenuto: se il sovraindebitamento è frutto di dolo o colpa grave (ad es. ricorso smodato al credito senza possibilità di rimborso, spese di lusso ingiustificate, o peggio frodi), la protezione può essere negata o revocata. Al contrario, il debitore che ha agito con correttezza, che non ha aggravato volutamente la propria esposizione e che coopera lealmente, è premiato con l’accesso ai benefici (approvazione piano, esdebitazione).

Effetti per i creditori: I creditori, specie nelle procedure di sovraindebitamento, possono trovarsi a subire decurtazioni significative senza poterlo impedire (nei piani del consumatore non votano affatto). Tuttavia, la legge li tutela imponendo che il sacrificio chiesto sia il massimo sostenibile per il debitore. Non si può omologare un piano che lasci al debitore beni superflui non toccati mentre i creditori non vengono soddisfatti adeguatamente. Ad esempio, spesso i tribunali pretendono che il debitore metta a disposizione tutto il patrimonio eccedente il minimo vitale (salvo, come detto, la casa di abitazione se ciò non danneggia i creditori rispetto ad alternative).

Conclusione sulle procedure minori: Le procedure di sovraindebitamento offrono finalmente anche ai piccoli imprenditori e alle famiglie italiane un percorso di uscita dai debiti insostenibili, cosa che in altri ordinamenti (es. Chapter 13 USA per consumer) esisteva da tempo. In questi anni, l’utilizzo di tali procedure è aumentato e con la riforma del 2022-2024 si prevede un ulteriore incremento, complice la crisi post-Covid e il caro vita. L’importante messaggio è che nessuno è più condannato a vita dai debiti: se agisce in buona fede e con trasparenza, oggi anche un privato o un piccolo imprenditore può trovare nella legge uno strumento per ristrutturare o cancellare i propri debiti e tornare a una vita finanziaria normale.

Domande Frequenti sulla Crisi d’Impresa (FAQ)

D: Quali sono i segnali iniziali di una crisi d’impresa da non sottovalutare?
R: I segnali possono essere molteplici. Alcuni tipici indicatori di allerta interna includono: carenza cronica di liquidità e tensioni di cassa (es. ritardi sistematici nei pagamenti a fornitori o stipendi), aumento anomalo dell’indebitamento a breve, utilizzo costante e oltre il limite dei fidi bancari, margini di profitto in drastica riduzione o in negativo per più esercizi, indebitamento finanziario sproporzionato rispetto al patrimonio, nonché indicatori specifici come un DSCR (Debt Service Coverage Ratio) previsto inferiore a 1 (significa che nei prossimi 6-12 mesi l’azienda non genera cassa sufficiente a pagare debiti e interessi). Anche il progressivo accumularsi di debiti scaduti verso fornitori, banche o Erario è un campanello d’allarme importante. In generale, bisogna monitorare costantemente liquidità, solvibilità e redditività: se questi tre parametri presentano squilibri persistenti, l’impresa potrebbe essere in uno stato di crisi latente. Dal 2019 in poi, inoltre, il Consiglio dei Commercialisti ha diffuso indici settoriali che possono aiutare: ad esempio un eccesso di debiti rispetto al MOL (EBITDA) o un indice di liquidità corrente < 1 per più periodi sono segnali. L’importante è che l’imprenditore istituisca un sistema di controllo di gestione e contabilità industriale che gli permetta di cogliere questi segnali per tempo (il Codice lo impone per legge: adeguati assetti organizzativi ex art. 2086 c.c.).

D: Se la mia azienda mostra segnali di crisi, cosa dovrei fare subito?
R: La parola d’ordine è tempestività. La legge chiede espressamente di non ignorare i segnali di crisi, ma di attivarsi subito. In pratica: 1) analizzare a fondo le cause delle difficoltà (es. calo di mercato? insoluti? costi fuori controllo?); 2) valutare le possibili misure correttive interne (rinegoziare fidi, tagliare spese, cercare soci o finanza nuova, vendere asset non strategici per fare cassa); 3) se la crisi è seria, non attendere oltre e considerare l’accesso a uno degli strumenti previsti dal Codice (ad esempio la Composizione Negoziata della Crisi). Quest’ultima può essere attivata volontariamente tramite la piattaforma telematica delle Camere di Commercio: ti sarà assegnato un esperto indipendente che ti aiuterà a trovare un accordo con i creditori e potrai chiedere al tribunale di sospendere intanto le azioni esecutive. È uno strumento confidenziale e privo di stigma, ideale come primo approccio. Se invece la situazione è già compromessa e hai una soluzione da offrire (es. un piano di ristrutturazione o un investitore disposto a intervenire), potresti valutare di presentare un accordo di ristrutturazione o direttamente un concordato preventivo. L’importante è non restare inerti: l’inerzia espone gli amministratori a gravi rischi di responsabilità (per aggravamento del dissesto) e spesso porta a soluzioni giudiziali d’urgenza molto peggiori (es. fallimento richiesto dai creditori). Meglio muoversi per tempo e gestire proattivamente la crisi.

D: Conviene attivare la Composizione Negoziata o rivolgersi subito al tribunale per un concordato?
R: In linea di massima, conviene partire dalla Composizione Negoziata, salvo nei casi in cui sia già chiaro che servirà un concorso formale. La composizione negoziata è volontaria, riservata, e non toglie il controllo all’imprenditore. Permette di esplorare accordi stragiudiziali con i creditori sotto la guida di un esperto, con costi contenuti e senza gli oneri di una procedura concorsuale. Durante la composizione puoi anche ottenere d’urgenza dal tribunale il blocco dei pignoramenti (stay) per guadagnare tempo. Se le trattative hanno successo, potresti risolvere la crisi senza passare per il “fallimento” o un concordato pubblico, magari con un piano attestato o un accordo omologato (il tutto preparato con l’aiuto dell’esperto). Se invece la composizione fallisce, hai comunque la possibilità di passare rapidamente a un concordato – addirittura semplificato, senza voto creditori, se la negoziazione è fallita ma c’è una proposta liquidatoria accettabile. Andare subito in concordato preventivo può essere opportuno solo quando: (a) l’azienda è già insolvente conclamata e non c’è tempo per trattative informali; (b) servono immediatamente gli effetti protettivi del concordato (ad esempio per bloccare istanze di fallimento pendenti o gestire centinaia di creditori disparati); (c) si è già predisposto un piano con elevata probabilità di approvazione e si vuole rapidamente congelare la situazione con il tribunale. In tutti gli altri casi, la composizione negoziata offre una chance più flessibile e meno invasiva, e non preclude affatto il concordato dopo (anzi, può agevolarlo raccogliendo consensi preliminari). Quindi, salvo emergenze, consigliamo: prima negoziare (con assistenza dell’esperto), poi semmai procedere a concordato.

D: Quali differenze pratiche ci sono tra un piano attestato di risanamento e un accordo di ristrutturazione omologato?
R: Entrambi puntano a evitare la procedura concorsuale formale, ma differiscono per natura e requisiti:

  • Il piano attestato di risanamento è un accordo contrattuale privato, privo di omologazione giudiziaria. Richiede quindi il consenso di fatto di tutti i creditori coinvolti (anche se non firmano un unico accordo, il piano funziona solo se nessuno agisce contro in modo significativo). Il suo punto di forza è la riservatezza (non viene reso pubblico) e la protezione da revocatoria: se poi malauguratamente c’è un fallimento, gli atti eseguiti in adempimento del piano non verranno revocati. Però non offre protezione attiva contro i creditori dissenzienti: se uno non ci sta, può tirarsi fuori e pretendere il pagamento integrale, potenzialmente facendo fallire il piano. Quindi è adatto a crisi in cui c’è sostanziale unanimità e fiducia. I costi sono minori (paghi l’attestatore e i consulenti, nessun tribunale né commissari).
  • L’accordo di ristrutturazione omologato è un procedimento giudiziale semplificato: serve almeno il 60% di consensi in valore, ma poi interviene il tribunale per dare efficacia legale erga omnes limitatamente ai consenzienti (e alcuni effetti protettivi generali). Il vantaggio è che durante il processo di omologa puoi ottenere il blocco delle azioni esecutive (stay), e soprattutto puoi beneficiare di strumenti come l’estensione ai dissenzienti finanziari (se il 75% delle banche aderisce, il tribunale può vincolare anche le restanti). Questo accordo impone quindi meno consenso (basta il 60% generale, non 100%) e permette di gestire minoranze dissenzienti, pur senza vincolarli sul piano del taglio di credito (i dissenzienti non subiscono stralci, devono essere pagati per intero ma possono essere “congelati” temporaneamente con la moratoria). È pubblico (viene iscritto al Registro Imprese con l’omologa) e richiede l’attestazione di un professionista e l’intervento del tribunale, quindi più formalità e costi rispetto a un piano attestato. In sintesi, un accordo omologato è preferibile se non hai consenso unanime ma puoi ragionevolmente raggiungere una forte maggioranza: ti dà la sicurezza giuridica dell’omologa e qualche arma in più contro eventuali dissenzienti (ad es. li congeli con la moratoria, oppure semplicemente procedi lo stesso perché magari sono creditori poco influenti in termini di importi).

In pratica, molte crisi iniziano tentando un piano attestato e, se questo è impossibile per l’opposizione di qualcuno, evolvono in un accordo omologato (o in un concordato). Vale la pena ricordare che la nuova direttiva UE e il CCII incoraggiano l’accordo omologato tramite istituti come la moratoria convenzionale e l’abbassamento della soglia per le protezioni (30% di adesioni iniziali per chiedere lo stay). Quindi l’accordo di ristrutturazione oggi è uno strumento molto duttile e sempre più vicino per efficacia al concordato, pur con minori oneri.

D: La mia piccola impresa (sotto soglia) può accedere alle stesse procedure delle grandi?
R: In parte sì e in parte no, esistono procedure dedicate. Le imprese sotto soglia (attivo ≤ €300k, debiti ≤ €500k ecc.) non sono soggette a liquidazione giudiziale, quindi non possono fare il concordato preventivo ordinario né il PRO. Per loro il Codice prevede: il concordato minore, il piano di ristrutturazione del consumatore (se persona fisica non imprenditore) e la liquidazione controllata. Il concordato minore è analogo a un concordato preventivo ma semplificato e tarato sulle dimensioni ridotte: ad esempio, decide un tribunale monocratico, si può prescindere dal requisito del 20% ai chirografari (basta che i creditori non peggiorino rispetto alla liquidazione), e c’è un OCC (Organismo di Composizione) che aiuta. Il piano del consumatore è riservato alle persone fisiche non fallibili e consente di omologare un piano senza il voto dei creditori (è molto favorevole al debitore meritevole). La liquidazione controllata è di fatto il “piccolo fallimento”: nomina di un liquidatore, vendita beni, ma con procedure semplificate e la possibilità finale di esdebitazione (liberazione dai debiti) in capo al debitore persona fisica.

Una novità interessante: dal 2024 anche le start-up innovative (che la legge 179/2012 escludeva dal fallimento) possono scegliere volontariamente di accedere agli strumenti delle imprese maggiori, se lo ritengono più adeguato. Quindi una start-up che in teoria sarebbe “non fallibile” può optare per fare un concordato preventivo o altro (volontariamente). Questo amplia le scelte.

In sintesi, se sei sotto soglia normalmente userai le procedure da sovraindebitamento. Ciò non è necessariamente un male: ad esempio nel concordato minore le maggioranze richieste sono più basse (basta il 60% invece che classi, ed è comunque omologabile anche con il 50% se non vi sono opposizioni rilevanti) e il contesto è più informale. Inoltre, la meritevolezza del debitore conta molto: per piccoli debitori onesti, il giudice tende a facilitare soluzioni che diano un fresh start (come l’esdebitazione). Quindi, pur diverse, le procedure minori sono efficaci.

D: Se la mia azienda va in liquidazione giudiziale (fallimento), i soci o amministratori rischiano qualcosa a livello personale?
R: Dipende dal tipo di società e dal loro operato. Se la tua azienda è una società di capitali (es. S.r.l. o S.p.A.), in linea generale i soci beneficiano del principio di responsabilità limitata: non rispondono con il proprio patrimonio dei debiti sociali (salvo abbiano prestato garanzie personali come fideiussioni, evento molto comune con le banche). Quindi, il fallimento di per sé non coinvolge i beni personali dei soci (a meno di comportamenti illeciti come distrazione di beni sociali a loro favore, che potrebbero essere revocati o far sorgere azioni contro di essi). Gli amministratori invece possono essere chiamati a rispondere civilmente per i danni causati alla società o ai creditori se hanno violato i loro doveri. Il curatore fallimentare spesso promuove l’azione di responsabilità ex art. 2476 o 2394 c.c. (verso amministratori e sindaci) se emerge che la gestione è stata negligente o dolosa, in particolare se l’amministratore ha aggravato il dissesto continuando l’attività quando avrebbe dovuto fermarsi. La recente modifica dell’art. 2486 c.c. facilita queste azioni, presumendo il danno uguale all’aggravamento del passivo durante la prosecuzione indebita. Quindi gli amministratori rischiano sul patrimonio personale di dover risarcire, ad esempio, l’incremento del deficit patrimoniale dalla perdita del capitale alla data del fallimento. Se però l’amministratore ha agito diligentemente, tentando soluzioni e non commettendo irregolarità gravi, potrà difendersi meglio.

Inoltre c’è il profilo penale: se nel corso della gestione pre-fallimentare l’amministratore ha commesso reati di bancarotta (fraudolenta documentale, distrazione di beni, pagamenti preferenziali, ecc.), subentrerà il procedimento penale con possibili condanne personali (anche detentive). I soci non amministratori potrebbero rispondere penalmente solo se complici in condotte distrattive o simili.

Quindi, riassumendo: i soci di capitali solitamente perdono solo il capitale investito (e copriranno eventuali garanzie date). Gli amministratori rischiano azioni risarcitorie e sanzioni penali se hanno gestito male o illecitamente. In una società di persone (S.n.c., S.a.s.), invece, i soci illimitatamente responsabili rispondono con tutti i loro beni dei debiti sociali e il fallimento travolge anche loro personalmente (fallimento esteso ai soci). Questo è un aspetto importante: le società di persone implicano un rischio personale totale per i soci. Pertanto, nelle S.n.c./S.a.s., se la società fallisce, vengono dichiarati falliti anche i soci illimitatamente responsabili in solido e il curatore aggredirà i loro patrimoni per soddisfare i creditori. I soci accomandanti delle S.a.s., invece, godono di responsabilità limitata e non falliscono salvo abbiano abusivamente operato come accomandatari.

D: Cos’è l’“esdebitazione”? Dopo un fallimento o un concordato i debiti residui si cancellano?
R: L’esdebitazione è l’istituto che consente al debitore persona fisica di essere liberato dai debiti non soddisfatti al termine della procedura liquidatoria. Nell’ordinamento italiano esisteva già per i fallimenti (art. 142 l.fall.), ora è confermata nel CCII (artt. 278-281 per la liquidazione giudiziale). Significa che una volta chiuso il fallimento/liquidazione, se il debitore ha collaborato e non ha commesso atti di frode, può chiedere al tribunale di essere esdebitato: i creditori chirografari non pagati non possono più pretendere nulla e il debitore “riparte da zero” (restano però esclusi dall’esdebitazione alcuni debiti, come quelli per alimenti, risarcimenti da illecito extra contrattuale e sanzioni penali/amministrative, che per legge non si cancellano). Oggi l’esdebitazione è concessa quasi automaticamente ai falliti onesti e meritevoli, ed è immediata dopo la chiusura (non c’è più il periodo di prova di anni come ipotizzato in passato). Per il concordato preventivo, se il debitore (anche persona fisica) adempie al piano omologato, i creditori vengono soddisfatti nella misura concordataria e per la parte eccedente non possono agire: di fatto c’è un effetto esdebitatorio automatico con l’omologa e la successiva attuazione del piano (i crediti rimasti insoddisfatti si estinguono secondo legge). Quindi sì, sia il concordato adempito sia la liquidazione giudiziale chiusa portano a una liberazione dai debiti pregressi.

Una novità enorme è l’esdebitazione del sovraindebitato incapiente: se sei persona fisica nullatenente e la procedura di liquidazione non recupera nulla, puoi ottenere la cancellazione dei debiti residui anche senza aver pagato nulla, purché la tua situazione derivi da sfortuna e non da malafede. È un one-shot ammesso ogni 4 anni circa. Ciò incarna il principio del “fresh start” totale per chi è finito schiacciato dai debiti senza colpa.

D: Che differenza c’è tra fallimento (liquidazione giudiziale) e liquidazione controllata?
R: Liquidazione giudiziale è il “fallimento” vero e proprio, applicabile agli imprenditori commerciali sopra soglia e gestito con un tribunale fallimentare (collegiale), un giudice delegato, un curatore, ecc. Comporta spossessamento pieno del debitore e coinvolge anche i soci di società di persone. Liquidazione controllata è la procedura liquidatoria semplificata per i soggetti non fallibili (imprese minori, consumatori): la gestisce un giudice monocratico, in genere con l’ausilio di un OCC/gestore come liquidatore, ed è pensata per masse attive/passive ridotte. Dal punto di vista operativo entrambe portano alla vendita del patrimonio e al riparto tra i creditori secondo i gradi di privilegio. Ma la liquidazione controllata tendenzialmente è più snella: ad esempio, non c’è lo stato passivo formale con udienza di verifica davanti al giudice delegato, bensì un elenco dei crediti a cura del liquidatore da approvare; inoltre l’attivo spesso è di modesta entità e la procedura si chiude più velocemente. Un’altra differenza è chi può chiederle: la liquidazione giudiziale può essere avviata anche d’ufficio su istanza di creditori o del PM, mentre la liquidazione controllata in linea di massima la chiede il debitore (i creditori possono solo segnalarla tramite OCC se il debitore è inerte). Tuttavia, attenzione: la riforma consente ai creditori di presentare istanza di liquidazione controllata per imprese minori, quindi in casi di abuso anche il piccolo debitore può essere spinto in liquidazione controllata suo malgrado.

In sintesi, il fallimento è la grande procedura concorsuale a vocazione punitiva (anche se ora si cerca di destigmatizzarla), la liquidazione controllata è la “piccola” che assicura pari dignità di trattamento ai creditori ma con minori formalità e spesso con esdebitazione finale del debitore persona fisica.

D: Ho debiti personali (banche, finanziarie) e non sono un imprenditore: cosa posso fare per liberarmene?
R: Puoi ricorrere alle procedure di sovraindebitamento pensate per i privati. In particolare:

  • Puoi proporre un Piano di ristrutturazione del consumatore (ex piano del consumatore). Devi rivolgerti a un OCC della tua zona: con l’aiuto del gestore preparerai un piano sostenibile (es. pagare in 5 anni il 50% dei debiti con rate mensili, oppure liquidare certi beni per pagare una quota e azzerare il resto). Se il tribunale ritiene che il piano è fattibile e che sei stato meritevole (ovvero non hai colpe gravissime nell’aver contratto quei debiti e stai mettendo tutto ciò che puoi a disposizione), potrà omologarlo anche se le finanziarie o banche sono contrarie. Una volta omologato, tu pagherai secondo il piano e, ad esecuzione completata, i debiti residui saranno cancellati. È uno strumento molto potente perché bypassa il consenso dei creditori, che spesso nelle composizioni stragiudiziali mancherebbe (basta una finanziaria che dica no a un saldo e stralcio per impedire un accordo). Con il piano omologato dal giudice, invece, la decisione è imposta a tutte le finanziarie. Naturalmente devi offrire il massimo sforzo possibile: se il giudice percepisce che potresti pagare di più ma non lo fai, non omologa.
  • Se non hai alcuna capacità di pagare (es. niente reddito disponibile né beni liquidabili), puoi valutare la esdebitazione del debitore incapiente. In pratica dici al tribunale: “sono nullatenente, non potrò mai pagare nulla, vi prego di cancellare i miei debiti per permettermi di ripartire”. Se risulti in buona fede e non hai nascosto patrimoni, il giudice può concederla. Per 3 anni dovrai comunicare eventuali nuove entrate rilevanti e, se capitano, potrebbero essere in parte destinate ai vecchi creditori. Ma se la tua situazione resta disperata, dopo 3 anni sei definitivamente libero. Questo strumento è pensato per chi è davvero insolvente senza rimedio (pensiamo a chi garantì coi propri beni un’azienda fallita e ora ha debiti miliardari, o una persona sommersa da debiti di gioco/piccoli prestiti senza nulla in proprietà).
  • In alternativa, puoi attivare una Liquidazione controllata del tuo patrimonio personale: se hai qualche bene (es. una casa che vuoi vendere per pagare almeno in parte i creditori) ma i debiti superano il valore, puoi far nominare un liquidatore OCC che vende tutto, distribuisce ai creditori quello che c’è, e poi chiedi l’esdebitazione per il resto. Questo percorso è utile se, ad esempio, vuoi evitare pignoramenti scoordinati e vendere in modo ordinato massimizzando il ricavato (il liquidatore può vendere meglio di un’asta su istanza di un singolo creditore), e soprattutto se i creditori non sono d’accordo su una soluzione di piano.

In conclusione, anche come privato cittadino sovraindebitato oggi hai strumenti legali per uscire dal tunnel: la chiave di volta è la meritevolezza. Se non hai colpe gravi e cooperi, la legge tende a darti una seconda chance. Rivolgiti a un OCC o a un professionista esperto in crisi da sovraindebitamento per scegliere la soluzione adatta.

D: Un concordato preventivo è meglio per i creditori o per il debitore?
R: In teoria il concordato deve cercare un equilibrio tra gli interessi dei creditori (massimizzare la soddisfazione possibile) e quelli del debitore (evitare la liquidazione distruttiva e consentire la continuità o un esdebitamento). Dal lato creditori, un concordato ben congegnato può offrire tempi più rapidi e recuperi superiori rispetto a un fallimento. Ad esempio, se con la continuità aziendale l’impresa produce valore, i creditori potrebbero ricavare una percentuale più alta e salvare il cliente/fornitore come controparte in vita. Oppure, se un fallimento darebbe 0 ai chirografari dopo 5 anni, un concordato che offre subito il 20% è un buon affare. Dal lato debitore, il concordato evita gli effetti afflittivi del fallimento: l’impresa può continuare (se in continuità), gli amministratori mantengono la gestione (sia pure vigilata dal commissario), non ci sono le decadenze tipiche del fallito (ad esempio non scatta l’interdizione legale) e, a termine, il debitore esce con i debiti stralciati. Quindi è vantaggioso.

In pratica, un concordato serio conviene a entrambi rispetto al fallimento: i creditori ottengono più e prima, il debitore evita la fine dell’attività e la stigmatizzazione. Se però il concordato è proposto solo per interesse del debitore (es. per prendere tempo o salvare i propri asset a discapito dei creditori), allora diventa uno strumento di abuso. La legge infatti prevede che il tribunale non omologhi concordati non convenienti per i creditori (principio del “best interest test”: i creditori devono prendere almeno quanto in fallimento). Con le ultime riforme, anche se i creditori votano no ma la proposta era oggettivamente migliore del fallimento, il giudice può imporla (cram-down). Questo fa capire che l’ottica è comune vantaggio: il concordato deve creare un valore aggiunto rispetto alla liquidazione, se ben fatto.

Dunque, in sintesi: un concordato conviene ai creditori se e solo se offre loro un outcome almeno pari (meglio superiore) a quello di un fallimento, possibilmente in tempi minori e con meno incertezze. Converrebbe poi perché consente di evitare costose azioni legali, anni di attesa, ecc. Conviene al debitore perché gli consente di gestire l’uscita dalla crisi in modo ordinato e col minimo sacrificio necessario, talvolta di restare alla guida e salvare l’azienda. Quando c’è contrapposizione, il tribunale fa da arbitro: se percepisce un concordato squilibrato (troppo favorevole al debitore a danno dei creditori), può non ammetterlo o non omologarlo. Viceversa, se i creditori irragionevolmente rifiutano un’offerta vantaggiosa, può omologarla comunque. Insomma, mira ad equità.

D: In caso di insolvenza di una grande azienda (centinaia di dipendenti), si applicano procedure diverse?
R: Sì, per aziende di rilevante dimensione esiste la procedura di Amministrazione Straordinaria delle grandi imprese insolventi (d.lgs. 270/99 e L. 39/2004 “Prodi-bis” e “Marzano”). I requisiti tipici sono: almeno 200 dipendenti e debiti oltre certi limiti. È una procedura volta principalmente a consentire la continuazione dell’attività e la salvaguardia occupazionale attraverso straordinari poteri concessi a commissari nominati dal Ministero (non dal tribunale). È riservata a casi come Parmalat, Ilva, Alitalia, etc. Se un’impresa rientra in quei parametri, può essere avviata l’A.S. al posto del fallimento. Il Codice della Crisi non disciplina l’A.S. (che resta legge speciale), ma ne tiene conto: ad esempio, in sede di competenza territoriale, il tribunale delle imprese è competente anche per chi potrebbe essere soggetto a A.S.. Quindi, se sei una PMI o anche un’azienda di 100 dipendenti, no, l’A.S. non si applica: seguirai il CCII. Ma se sei una very large corporation con migliaia di lavoratori, il Governo potrebbe decidere di salvaguardare l’interesse pubblico tramite l’A.S. (che consente iniezioni di fondi pubblici, cessione di complessi aziendali in esercizio, ecc.). In quell’evenienza saresti gestito da Commissari straordinari e non da un curatore fallimentare.

Va detto che l’A.S. è rara e discrezionale (serve decreto ministeriale). Molte aziende grandi preferiscono usare concordati o accordi se possibile (es. Cirio fece concordato, molte altre hanno fatto accordi di ristrutturazione). Ma l’opzione esiste.

Per i creditori di grandi imprese, l’A.S. è simile ad un fallimento ma con finalità di programma di ristrutturazione: i commissari presentano un programma entro 180 giorni (di solito cercano di vendere l’azienda o spezzettarla). I creditori non votano nel regime Prodi-bis, subiscono le decisioni ministeriali (nel Marzano invece c’è un programma più spinto che può prevedere soluzioni come un concordato straordinario). In ogni caso, è un mondo a sé. Se la tua domanda è: “la mia grande azienda è insolvente, devo fare concordato o verremo messi in A.S.?”, la risposta è: provate il concordato, ma sappiate che se siete strategici a livello nazionale, il Governo potrebbe intervenire con A.S. (pensiamo a compagnie aeree, acciaierie, ecc.). Comunque, il numero di dipendenti e l’indotto sono discriminanti principali.

D: Come faccio a scegliere il professionista giusto per farmi assistere nella crisi?
R: Affrontare una crisi d’impresa è un compito multidisciplinare: occorre competenza legale, finanziaria e spesso settoriale. Per questo spesso ci si affida a un team di consulenti: tipicamente un avvocato specializzato in diritto fallimentare e crisi (per la strategia legale, la predisposizione degli atti per tribunale, i rapporti con quest’ultimo) e un dottore commercialista esperto in risanamenti (per la parte numerica: analisi di bilancio, predisposizione di piani economico-finanziari realistici, proiezioni, eventuale ruolo di attestatore o di advisor nelle trattative con banche). A volte un unico professionista (es. un commercialista esperto iscritto all’albo gestori crisi) può coprire entrambe le sfere per casi semplici, ma spesso è bene avere entrambi i profili.

Criteri di scelta:

  • Esperienza comprovata in procedure concorsuali: idealmente qualcuno che abbia già seguito concordati o accordi analoghi. La materia è tecnica, meglio evitare chi “improvvisa”.
  • Iscrizione all’Albo dei Gestori della Crisi e dell’Insolvenza: da marzo 2023 esiste un albo nazionale; se il tuo consulente ne fa parte, significa che ha i requisiti di legge (anni di esperienza, formazione) ed è aggiornato.
  • Conoscenza del tuo settore: ad esempio, se la tua è un’impresa edile, può giovare un consulente che ha già gestito crisi edili, per sapere come trattare con banche e fornitori tipici del settore.
  • Rete di contatti: un buon advisor di crisi spesso ha contatti con investitori, banche, factor, possibili acquirenti di rami d’azienda ecc. Queste relazioni possono fare la differenza per trovare soluzioni (nuovi soci, finanza ponte).
  • Fiducia personale e trasparenza: devi poter comunicare apertamente. Evita quei professionisti che minimizzano i problemi o che, viceversa, prospettano soluzioni miracolose senza spiegare; cerca chi ti illustra realisticamente opzioni e conseguenze.

Attenzione a figure non qualificate: purtroppo nel campo del sovraindebitamento, ad esempio, proliferano sedicenti “agenzie debiti” che promettono cancellazioni facili ma poi spariscono o non hanno solide basi giuridiche. Rivolgiti preferibilmente a un avvocato o commercialista iscritto a ordini professionali e abilitato, oppure direttamente all’OCC pubblico istituito (ad esempio presso la Camera di Commercio locale c’è un Organismo pubblico dove potrai essere seguito a costi calmierati).

In definitiva, la scelta va ponderata come faresti per un chirurgo in un’operazione delicata: valuta curriculum, chiedi magari referenze (se altri imprenditori si sono salvati con quell’aiuto), e soprattutto non aspettare l’ultimo secondo – un bravo professionista può aiutarti solo se gli dai tempo e modo di lavorare sul caso.

Conclusioni e Consigli Operativi

Gestire proattivamente la crisi: Dalla trattazione svolta emerge chiaramente un messaggio: la crisi d’impresa non va subita passivamente, ma gestita attivamente e tempestivamente. Il legislatore ha messo a disposizione un intero “arsenale” di strumenti di allerta, negoziazione e concorsuali per evitare esiti distruttivi. Il primo dovere dell’imprenditore è dotarsi di un cruscotto aziendale che faccia emergere subito gli squilibri e – all’occorrenza – avere il coraggio di ammettere la difficoltà e attivare le contromisure.

Pianificazione e trasparenza: Se la tua impresa sta attraversando turbolenze finanziarie, pianifica ogni mossa: prepara con consulenti un piano di risanamento credibile, anche solo ipotetico, da tenere pronto. Sii trasparente con i tuoi principali creditori: in molti casi, banche e fornitori preferiscono collaborare in una ristrutturazione concordata piuttosto che vedere il cliente fallire (perdendo magari l’intero credito). Mostrare dati chiari e un piano realistico può guadagnarti tempo e fiducia.

Utilizzare gli strumenti adeguati: Ogni situazione ha lo strumento più adatto. Crisi reversibile e circoscritta? – tenta accordi stragiudiziali o un piano attestato, magari attivando la composizione negoziata per sicurezza. Crisi grave ma con base di consenso? – un accordo di ristrutturazione omologato può risolvere senza il peso del concordato. Crisi gravissima con insolvenza diffusa? – probabilmente il concordato preventivo (con continuità se c’è un nucleo sano, o liquidatorio se bisogna vendere tutto) è la via da seguire. Nessuna speranza di risanamento? – meglio optare per una liquidazione (fallimentare o controllata) volontaria, così da gestire con dignità la chiusura e massimizzare il residuo per i creditori, piuttosto che attendere i pignoramenti e il fallimento d’ufficio.

Punto di vista del debitore: Ricorda che il sistema attuale non è più punitivo a priori verso chi fallisce onestamente. Anzi, premia il debitore collaborativo con esdebitazione e possibili esoneri da responsabilità. Quindi, se ti trovi dalla parte del debitore, sappi che collaborare conviene: comunica con il tribunale, rispetta gli obblighi informativi, non fare il “furbo” nascondendo attivi (verresti scoperto e perderesti i benefici), e prendi l’iniziativa tu di attivare la procedura adatta. Un debitore che propone lui un concordato serio, o che chiede lui la liquidazione quando capisce di non avere alternative, verrà visto di buon occhio e avrà molte più chance di uscire pulito (debiti stralciati, niente bancarotta semplice, ecc.). Invece un debitore che subisce passivamente fino a farsi trascinare a forza in fallimento, rischia poi di subire azioni e sanzioni (perché ha aggravato la situazione).

Tutela del patrimonio personale: Per gli imprenditori, specie di società di persone o ditte individuali, è fondamentale proteggere nei limiti del lecito il patrimonio familiare. Ad esempio, valutare per tempo il passaggio a forme societarie a responsabilità limitata (pur con le cautele contro abusi, perché non vale farlo last minute con debiti già accumulati), oppure segregare alcuni beni in fondi patrimoniali o trust – ma attenzione: tali atti se fatti quando si è già in stato di crisi possono essere revocati o considerati in frode. Bisogna pensarci in bonis. In ogni caso, non confondere il patrimonio aziendale con quello personale: evita prelievi o commistioni che poi possano apparire distrazioni. Mantieni una contabilità rigorosa: molte condotte di bancarotta (anche solo la bancarotta semplice per scritture confuse) si evitano con una gestione trasparente.

Ascoltare i professionisti e la propria struttura di controllo: Se hai sindaci o revisori che ti segnalano problemi, non viverli come intralcio ma come alleati preziosi – stanno facendo il loro dovere ed eventualmente, se ignori, potranno attivarsi essi stessi. Meglio lavorare con loro su una soluzione. Idem per consulenti esterni: un buon consulente di crisi può vedere vie d’uscita dove tu, preso dall’emotività, non ne vedi.

Imprenditore “garante” di se stesso: Molti imprenditori hanno garantito personalmente i debiti aziendali verso banche. In tali casi, attenzione: anche se la società si salva con un concordato pagando chessò il 60%, la banca potrebbe rivalersi sul garante (amministratore) per il restante 40% salvo la garanzia sia stata parzialmente esonerata in transazione. Perciò quando negozi col ceto bancario, cerca di includere la liberazione (o limitazione) della tua garanzia personale nell’accordo. Altrimenti rischi di fare un concordato efficace per l’azienda ma poi avere un sovraindebitamento personale. La legge consente procedimenti “coordinati” tra società e socio garante in crisi, quindi valuta anche la possibilità di un concordato congiunto o di un piano del consumatore parallelo per te come fideiussore.

Conclusione ottimistica: Il percorso normativo italiano è andato verso un approccio più moderno e second chance-oriented. Imprenditori e privati ora hanno una gamma completa di opportunità per gestire le difficoltà finanziarie in modo ordinato, minimizzando le perdite comuni. La crisi d’impresa non è più una condanna irreversibile ma un fenomeno fisiologico da affrontare con strumenti giuridici appropriati. L’auspicio è che sempre più debitori e creditori ne prendano consapevolezza: prevenire è meglio che curare, ma se la malattia arriva, oggi si può “curare” l’insolvenza con soluzioni equilibrate e guardare oltre, verso il rilancio o una ripartenza pulita.


Fonti e Riferimenti (Normativa, Giurisprudenza e Dottrina)

  1. D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), in vigore dal 15 luglio 2022. Art. 2 (Definizioni): definizioni di crisi, insolvenza, sovraindebitamento, impresa minore, etc.. Art. 2086 c.c. novellato: obbligo di assetti adeguati. Art. 2486 c.c. novellato: criteri presuntivi di danno per gestione oltre il punto di scioglimento.
  2. Direttiva (UE) 2019/1023 del 20 giugno 2019 – Insolvency Directive (sui quadri di ristrutturazione preventiva, esdebitazione e interdizioni). Ha influenzato profondamente la riforma italiana: introduzione del PRO, misure di cram-down interclasse, protezioni per negoziazioni, ecc..
  3. Il correttivo ter – D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136: ulteriori modifiche al CCII in vigore da fine 2024. Ha chiarito tra l’altro: concordato semplificato (art. 25-sexies), possibilità di modifica del piano omologato (art. 118-bis), transazione fiscale estesa al PRO, allerta interna (revisori equiparati ai sindaci), liquidazione controllata avviabile entro 1 anno dalla cessazione (parificando imprese minori alle maggiori), deroga per imprenditori individuali oltre l’anno, startup facoltativamente in procedure maggiori.
  4. Tribunale di Roma – Sentenza n. 12042/2023 del 2 agosto 2023 (Sez. Fallimentare): esempio di azione di responsabilità verso amministratori e sindaci per omessa reazione alla crisi. Condanna solidale per danno da aggravamento del dissesto.
  5. Corte di Cassazione, Sez. I, 17 ottobre 2022 n. 30383 e 13 marzo 2023 n. 7279: pronunce sulla natura retroattiva dell’art. 2486 c.c. comma 3 novellato e sulla sua applicabilità ai giudizi pendenti. Cass. 29 maggio 2024 n. 15054 (ord.): conferma responsabilità di amministratori e sindaci per atti contrari alla conservazione integrità patrimoniale in violazione obblighi di cui all’art. 2086 c.c..
  6. Gazzetta Ufficiale – Relativo al CCII: Pubblicazione del D.Lgs. 14/2019 e successivi decreti. In particolare, G.U. Serie Gen. n.38 del 15-02-2019, Art.2 Definizioni.
  7. Camera dei Deputati – dossier tematico (temi.camera.it): “Il decreto legislativo n.14 del 2019 e successive modifiche” – analisi parlamentare sulla legge delega 155/2017, il CCII e decreti correttivi. Illustra la ratio delle misure di allerta e composizione assistita.
  8. Agenzia Entrate – Interpello 79/E 2025: chiarimenti sulla possibilità di emissione di note di variazione IVA in caso di PRO omologato. Rileva per gestione fiscale delle procedure di concordato/accordo.

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