Gestisci una mensa aziendale privata o un servizio di ristorazione per imprese e istituti e ti trovi in difficoltà economica per debiti con il Fisco, l’INPS, i fornitori o le banche? È una situazione comune a molte attività di ristorazione collettiva, che devono affrontare costi crescenti e margini sempre più ridotti. Ritardi nei pagamenti da parte dei clienti, aumento del prezzo delle materie prime, energia e personale possono portare rapidamente a un accumulo di debiti fiscali e commerciali. Quando arrivano cartelle esattoriali, pignoramenti o rate di finanziamenti non pagate, il rischio di chiusura o blocco operativo diventa concreto. La buona notizia è che esistono strumenti legali per rateizzare, ridurre o cancellare i debiti, permettendo di salvare la tua attività e il tuo patrimonio personale.
Perché molte mense aziendali private si indebitano
Le mense aziendali e i servizi di ristorazione privata lavorano spesso con margini stretti e tempi di incasso lunghi. Le convenzioni con aziende o enti comportano contratti a pagamento differito, mentre i costi per materie prime, stipendi, forniture e tasse devono essere coperti immediatamente. A ciò si aggiungono gli aumenti di energia, carburante e canoni di locazione, oltre ai contributi previdenziali e alle imposte da versare. Per mantenere il servizio attivo, molti imprenditori rinviano i pagamenti fiscali o bancari, accumulando interessi e sanzioni che nel tempo aggravano la situazione.
Cosa succede se non paghi tasse o contributi
Quando le imposte o i contributi non vengono versati, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione e gli enti previdenziali possono attivare procedure di recupero forzato. Tra queste figurano la notifica di cartelle esattoriali, i pignoramenti dei conti correnti o dei crediti verso le aziende servite, i fermi amministrativi sui veicoli aziendali, le ipoteche sugli immobili e i sequestri dei beni. Gli importi aumentano per effetto di sanzioni e interessi, rendendo i debiti sempre più difficili da gestire. Se la mensa è una ditta individuale o una società di persone, il titolare o i soci rispondono personalmente dei debiti, mettendo a rischio anche il patrimonio familiare.
Cosa fare subito se la tua mensa aziendale ha debiti
Il primo passo è conoscere l’entità precisa dei debiti. Richiedi all’Agenzia delle Entrate-Riscossione l’estratto di ruolo aggiornato per verificare importi, anni e creditori. Poi analizza la legittimità delle cartelle: molte contengono errori di notifica o importi prescritti che un avvocato può contestare. Se i debiti sono corretti, puoi chiedere la rateizzazione fino a 120 rate mensili, sospendendo nel frattempo le azioni di riscossione. Verifica anche se è disponibile una definizione agevolata (rottamazione), che consente di pagare solo il capitale, eliminando sanzioni e interessi. Se hai già ricevuto pignoramenti o ipoteche, puoi ottenere la sospensione immediata con un ricorso o un’istanza di autotutela.
Le soluzioni legali per chi non riesce più a pagare
Quando il debito è troppo alto o la mensa non riesce più a sostenere i costi, puoi accedere alla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, prevista dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019). È una procedura legale rivolta a piccole imprese e lavoratori autonomi che consente di bloccare pignoramenti, sospendere le azioni dei creditori e ottenere la cancellazione totale o parziale dei debiti residui (esdebitazione). È una soluzione riconosciuta dai tribunali italiani e rappresenta un’opportunità concreta per salvare l’attività o chiuderla in modo ordinato, senza lasciare pendenze fiscali o bancarie.
Come difendersi da banche, fornitori e finanziarie
Molte mense aziendali si trovano anche indebitate con banche o fornitori di generi alimentari e attrezzature. In questi casi puoi chiedere la rinegoziazione dei contratti, la sospensione temporanea dei pagamenti o proporre un saldo e stralcio per chiudere le posizioni a un importo ridotto. È possibile inoltre contestare clausole abusive o tassi usurari nei contratti di credito e impugnare decreti ingiuntivi o pignoramenti entro i termini di legge. Un avvocato esperto può rappresentarti nelle trattative con banche e fornitori, difendendo la tua attività e i beni aziendali essenziali per la produzione.
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
Con una strategia legale mirata puoi sospendere pignoramenti e riscossioni, ottenere la rateizzazione o cancellazione dei debiti, proteggere immobili, attrezzature e beni personali, mantenere i contratti con le aziende clienti e continuare a lavorare senza la pressione dei creditori. In molti casi, un piano di rientro ben strutturato permette di rilanciare l’attività e ricostruire la fiducia con fornitori e committenti.
Quando rivolgersi a un avvocato esperto
Devi rivolgerti a un avvocato se hai ricevuto cartelle o intimazioni di pagamento, se i debiti fiscali o bancari sono diventati insostenibili o se rischi pignoramenti e blocchi dei conti aziendali. Un avvocato esperto in diritto tributario e crisi d’impresa può contestare gli atti illegittimi, bloccare la riscossione e guidarti nella procedura di esdebitazione fino alla cancellazione definitiva dei debiti. Agire in tempo è essenziale per salvare la tua mensa e la tua reputazione professionale.
⚠️ Attenzione: ignorare cartelle o avvisi di pagamento può portare rapidamente a pignoramenti, sequestri e blocchi dell’attività. Intervenire subito è l’unico modo per salvare la tua impresa e proteggere i tuoi beni.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario, riscossione e tutela delle imprese del settore ristorazione – spiega cosa fare se gestisci una mensa aziendale privata con debiti, come bloccare la riscossione e come cancellare legalmente le somme dovute grazie agli strumenti previsti dalla legge.
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Introduzione
Le mense aziendali private – tipicamente gestite da società esterne in appalto presso aziende o enti – possono trovarsi esposte a situazioni di crisi finanziaria e accumulare debiti verso Fisco, fornitori, dipendenti, enti previdenziali e altri creditori. La gestione di un servizio di ristorazione aziendale comporta costi fissi elevati (personale, materie prime, attrezzature) a fronte di margini spesso ridotti e pagamenti dilazionati dai committenti. Basta un calo nei ricavi o un aumento dei costi perché la società di gestione mensa inizi ad accumulare debiti tributari, ritardi nei pagamenti ai fornitori o stipendi arretrati ai dipendenti, nonché omessi versamenti contributivi all’INPS. Quando una mensa privata entra in difficoltà economica, è fondamentale che l’imprenditore – assistito da professionisti legali e contabili – conosca gli strumenti giuridici per affrontare la crisi e tutelarsi dalle azioni dei creditori. Questa guida, aggiornata a settembre 2025, analizza in dettaglio cosa fare e come difendersi dal punto di vista del debitore, con un taglio avanzato ma di taglio divulgativo, rivolto sia a consulenti legali che a imprenditori e privati coinvolti. Verranno esaminati i vari tipi di debiti (fiscali, commerciali, verso lavoratori e enti previdenziali), le possibili responsabilità personali di amministratori e soci, le azioni esecutive tipiche (pignoramenti, istanze di fallimento, ecc.) e soprattutto gli strumenti di risanamento introdotti o riformati dal nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 14/2019, in vigore dal 2022) . Sono incluse tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione Domande & Risposte per chiarire i dubbi più frequenti. Tutte le fonti normative, giurisprudenziali (comprese le più recenti sentenze di Cassazione) e di prassi citate sono elencate in fondo alla guida, per consentire ulteriori approfondimenti.
Contesto e primi passi: la mensa aziendale privata e il rischio di indebitamento
Una mensa aziendale privata è un servizio di ristorazione gestito da un soggetto imprenditoriale (es. una S.r.l. di catering o ristorazione collettiva) che fornisce i pasti ai dipendenti di un’azienda committente, tipicamente in base a un contratto di appalto di servizi. In questo contesto, la società appaltatrice della mensa è un’entità giuridica distinta dal committente, con una propria organizzazione di mezzi e personale. Ciò comporta che la società di gestione della mensa è direttamente responsabile dei debiti che contrae nell’esercizio dell’attività (forniture alimentari, stipendi, contributi, imposte, ecc.), mentre l’azienda committente paga un corrispettivo secondo i termini contrattuali. Il contratto di appalto talvolta prevede pagamenti posticipati (es. a 60-90 giorni): se i costi anticipati dal gestore superano gli incassi o emergono imprevisti finanziari, la società della mensa può trovarsi in sofferenza di liquidità e iniziare ad accumulare debiti.
Segnali di crisi: I primi indizi di crisi per una mensa in appalto includono ritardi sistematici nei pagamenti a fornitori (es. fatture di alimenti non saldate), difficoltà nel versare IVA e ritenute fiscali alle scadenze, utilizzo costante degli affidamenti bancari sino al plafond (fidi bancari saturi) e tensioni di cassa che portano a posticipare gli stipendi dei dipendenti. L’ordinamento prevede oggi una distinzione chiave tra “crisi” e “insolvenza”: la crisi è una situazione di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza futura, mentre l’insolvenza è lo stato in cui l’impresa non è più in grado di pagare regolarmente i propri debiti esigibili ed è inadempiente in modo generalizzato . Nel momento in cui si manifestano i segnali di crisi, gli amministratori dovrebbero attivarsi prontamente per evitare di scivolare nell’insolvenza conclamata. A tal fine, il Codice Civile (art. 2086 c.c. riformato nel 2019) impone all’organo amministrativo di dotare la società di “assetti organizzativi adeguati” per rilevare tempestivamente la crisi e gestirla . Ignorare questi campanelli d’allarme può aggravare il dissesto e, in prospettiva, comportare maggiori responsabilità per gli amministratori (ad esempio in caso di successivo fallimento, sarà valutata con severità l’inerzia degli organi societari di fronte a indicatori di crisi) .
Ruolo del committente (azienda cliente): Quando la mensa è gestita in appalto, anche l’azienda committente ha interesse a monitorare la solidità dell’appaltatore. In base alla normativa italiana sugli appalti privati, infatti, il committente può risultare responsabile in solido con l’appaltatore per alcuni debiti di quest’ultimo verso i propri dipendenti e gli enti previdenziali (come dettagliato oltre). Ciò significa che, se la società della mensa non paga stipendi o contributi, i lavoratori (o l’INPS per essi) potrebbero rivalersi anche direttamente sull’azienda committente . Tale responsabilità solidale (disciplinata dall’art. 29 D.Lgs. 276/2003) è un meccanismo di tutela dei lavoratori negli appalti: serve a garantire che essi ricevano comunque le proprie spettanze, potendo chiedere il pagamento al committente in aggiunta (e non in sostituzione) all’appaltatore principale. Per il committente, però, dover pagare debiti altrui rappresenta un esborso imprevisto; questi importi potranno poi essere sottratti dai corrispettivi dovuti all’appaltatore o richiesti in rivalsa, ma spesso quando si arriva a tale punto la continuità del contratto di mensa è già compromessa (il committente può scegliere di risolvere l’appalto e affidarlo ad altro gestore). È dunque interesse di tutte le parti anticipare e gestire la crisi prima che degeneri: il committente vigilerà (anche tramite indici di allerta esterna, se previsti – v. oltre) e l’appaltatore cercherà soluzioni di risanamento.
Normativa di riferimento: Il quadro normativo di riferimento per affrontare una situazione di indebitamento della mensa aziendale include: le disposizioni civilistiche in materia di obbligazioni e procedure concorsuali (Codice Civile e Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza), la legislazione tributaria (D.P.R. 602/1973 per la riscossione delle imposte, D.Lgs. 74/2000 per i reati tributari, norme speciali su definizioni agevolate), la normativa del lavoro e previdenziale (Statuto dei Lavoratori, D.Lgs. 276/2003 per gli appalti, leggi INPS in tema di omissione contributiva) e le recenti riforme in materia di crisi d’impresa (es. D.L. 118/2021 sulla composizione negoziata della crisi, i decreti correttivi al CCII fino al D.Lgs. 136/2024). Nelle sezioni seguenti esamineremo le principali tipologie di debito che una società di gestione di mensa può avere e, per ciascuna, i rischi e le tutele disponibili. Successivamente affronteremo le strategie di difesa del debitore: dalle trattative stragiudiziali agli strumenti di ristrutturazione del debito (piano attestato di risanamento, accordo di ristrutturazione, composizione negoziata, concordato preventivo), senza trascurare le implicazioni di un’eventuale liquidazione giudiziale (ex fallimento) e le responsabilità personali.
Tipologie di debiti e relative problematiche
Gestire una mensa aziendale comporta l’insorgere di diverse categorie di debiti, ciascuna con peculiarità giuridiche e implicazioni specifiche. Prima di scegliere come intervenire, è fondamentale mappare tutti i debiti esistenti, perché non tutti i creditori sono uguali: alcuni vantano privilegi di legge (come Fisco e dipendenti per alcune voci), altri possono attivare azioni esecutive rapide, altri ancora – come gli enti pubblici – possono beneficiare di normative speciali (si pensi alla riscossione a mezzo ruolo dell’Agenzia Entrate-Riscossione). Di seguito analizziamo i principali tipi di debito che tipicamente gravano su una società che gestisce una mensa aziendale privata, evidenziando per ciascuno i rischi per il debitore e gli strumenti di difesa o soluzione.
Debiti fiscali e tributari
I debiti verso il Fisco comprendono tipicamente: IVA non versata sulle somministrazioni di pasti (che sono operazioni imponibili IVA, salvo casi particolari di esenzione), ritenute fiscali non versate (ad esempio le ritenute IRPEF operate sugli stipendi dei dipendenti o sulle fatture dei professionisti), imposte sui redditi dell’impresa (IRES o IRAP) non pagate in acconto o a saldo, eventuali imposte locali (come la TARI sugli ambienti della mensa, se a carico dell’appaltatore).
I debiti tributari sono particolarmente pericolosi perché il loro mancato pagamento attiva un procedimento di riscossione aggressivo e fortemente privilegiato. In sintesi, il percorso è il seguente: l’Agenzia delle Entrate (o altro ente impositore) iscrive a ruolo le imposte non pagate e affida il carico all’Agenzia Entrate–Riscossione (AER), che notifica al contribuente la cartella esattoriale (anche detta cartella di pagamento). Se la cartella non viene pagata entro il termine (60 giorni dalla notifica), la riscossione può procedere con atti esecutivi come il fermo amministrativo di beni mobili registrati (es. automezzi aziendali), l’ipoteca su immobili o il pignoramento di conti correnti e altri beni senza necessità di un decreto ingiuntivo (la cartella è già un titolo esecutivo). Inoltre, i debiti tributari godono di privilegio generale mobiliare sui mobili del debitore e di privilegio immobiliare sugli immobili (per le imposte sui redditi e l’IVA), il che significa che in caso di insolvenza o fallimento, il Fisco verrà soddisfatto con precedenza rispetto ai creditori chirografari (non privilegiati) .
Sanzioni e interessi: Oltre all’importo a titolo di imposta, i debiti fiscali maturano interessi di mora e sono gravati da sanzioni tributarie per il ritardato/omesso versamento. Ad esempio, l’omesso versamento IVA è sanzionato amministrativamente con una percentuale sul dovuto (generalmente il 30% ridotto a metà se pagato tardivamente entro un anno, ecc.), mentre le sanzioni per omesso versamento di ritenute possono arrivare al 20-30%. In sede di definizione agevolata (rottamazione) le sanzioni possono essere condonate (vedi oltre).
Possibili azioni difensive: Se la società della mensa riceve una cartella esattoriale e ritiene che il debito non sia dovuto (in tutto o in parte) – ad esempio per vizi nella notifica degli atti presupposti o errori di calcolo – può presentare ricorso tributario dinanzi alla competente Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria) entro 60 giorni. In assenza di vizi formali sostanziali, però, contestare il merito del debito fiscale è difficile, poiché la cartella deriva da atti ormai definitivi (dichiarazioni non pagate, controlli automatizzati, accertamenti divenuti definitivi). Un profilo procedurale importante è che, per chiamare personalmente gli amministratori o soci a rispondere dei debiti tributari ex art. 36 D.P.R. 602/1973 (v. infra la sezione sulle responsabilità personali), l’Amministrazione finanziaria deve emanare e notificare un atto di accertamento motivato a carico dell’amministratore/socio, prima di emettere cartella a nome loro . Ad esempio, la Corte di Cassazione ha annullato una cartella intestata a un ex amministratore per debiti IVA/IRAP sociali proprio perché non preceduta da atto accertativo e perché, all’epoca dei fatti, la legge non consentiva di riversare su amministratori i debiti IVA (oggi invece possibile) .
Dilazioni e “rottamazioni”: Dal punto di vista della gestione del debito, uno strumento fondamentale è la rateizzazione delle cartelle esattoriali. La normativa è stata recentemente resa più flessibile: a partire dal 1° gennaio 2025, il decreto MEF 27/12/2024 (attuativo della riforma della riscossione – D.Lgs. 110/2024) ha introdotto criteri più ampi per concedere piani di rateizzo fino a 120 rate mensili (10 anni) in presenza di una temporanea situazione di difficoltà . In particolare, per debiti affidati all’AER fino a 120.000 €, il contribuente può ottenere piani a 7–9 anni anche semplicemente autodichiarando lo stato di difficoltà (senza doverlo provare documentalmente) . Ad esempio, per domande di dilazione presentate nel biennio 2025-2026 si possono ottenere fino a 84 rate mensili senza necessità di prova rigorosa; se invece si comprova lo stato di crisi finanziaria (indicando indici di liquidità, indice di indebitamento, ecc.), il piano può estendersi fino al massimo di 120 rate, anche per importi superiori a 120mila € . Queste misure agevolative si affiancano alle ordinarie rateizzazioni “a semplice richiesta” (fino a 72 rate, estese a 120 con la riforma) e consentono alle imprese in difficoltà di evitare azioni esecutive diluendo l’esborso nel tempo.
Un’altra importante opportunità – quando disponibile per legge – è la definizione agevolata dei carichi (le cosiddette rottamazioni delle cartelle). Ad esempio, la “rottamazione-quater” prevista dalla Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) ha consentito di estinguere i debiti affidati all’Agente della riscossione dal 2000 al 30 giugno 2022 pagando solo il capitale e un minimo di spese, con stralcio di sanzioni e interessi, rateizzando l’importo fino a 18 rate (la scadenza della prima rata era il 31 ottobre 2023) . Per un’azienda gravata da ingenti debiti fiscali, aderire a simili sanatorie è un modo per ridurre in modo significativo l’esposizione debitoria. Alla data di aggiornamento di questa guida (settembre 2025), la rottamazione-quater è in corso di esecuzione (con rate semestrali fino al 2027) ; non si esclude che future leggi di bilancio possano introdurre nuove definizioni agevolate (una “rottamazione-quinquies” è ipotizzata per i carichi 2023-2024, ma al momento non vige nulla di definitivo). In ogni caso, il debitore che voglia usufruire di tali misure deve essere tempestivo nel presentare le domande entro i termini di legge e nel rispettare le scadenze di pagamento, poiché il mancato pagamento di una rata di rottamazione fa decadere il beneficio.
Profili penali: Un imprenditore che non paga i debiti tributari deve anche considerare le possibili responsabilità penali. In particolare, la legislazione (D.Lgs. 74/2000) prevede reati tributari per i mancati versamenti più gravi: – Omesso versamento di IVA (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000): è reato se l’imposta non versata, risultante dalla dichiarazione annuale, supera la soglia di 250.000 € per periodo d’imposta. La violazione è consumata alla scadenza del termine di pagamento dell’acconto IVA dell’anno successivo (generalmente il 27 dicembre) . La pena prevista è la reclusione da 6 mesi a 2 anni. Va evidenziato che il D.Lgs. 75/2020 (attuativo della direttiva UE sulla tutela degli interessi finanziari) aveva abbassato la soglia a 150.000 €, ma una norma del 2021 l’ha riportata a 250.000 €. Alla data attuale, la soglia 250.000 € è confermata, con la particolarità che se è in corso una rateizzazione con l’AER e il contribuente la rispetta, il termine per la verifica del superamento della soglia penale slitta in avanti (finché paga le rate, il reato non si perfeziona) . – Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000): è reato il mancato versamento di ritenute fiscali (es. IRPEF trattenuta ai dipendenti, compensi a collaboratori) per un importo superiore a 150.000 € annui. Anche qui la pena è la reclusione fino a 3 anni. La soglia era 50.000 € ma è stata elevata a 150.000 € dal 2015. Attenzione: il conteggio riguarda le ritenute risultanti dalle certificazioni (CU) e dal modello 770 annuale; pertanto, anche in questo caso un eventuale pagamento rateale prima della scadenza per la presentazione del modello 770 può evitare il perfezionarsi del reato. – Dichiarazione fraudolenta o infedele: in situazioni di crisi non è frequente, ma se l’imprenditore, per ridurre artificialmente il debito fiscale, alterasse le scritture o presentasse dichiarazioni false, incorrerebbe in reati più gravi (dichiarazione fraudolenta mediante artifici o uso di fatture false, art. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000, o dichiarazione infedele art. 4). Nel contesto di una mensa aziendale in difficoltà, più che condotte fraudolente può verificarsi la distrazione di liquidità dovuta al Fisco per pagare altre spese: ciò non configura reato tributario in sé, ma può aggravare la posizione dell’amministratore in caso di fallimento (bancarotta preferenziale, v. oltre).
In pratica, dunque, se la società di gestione mensa ha accumulato debiti fiscali elevati (specie IVA), gli amministratori devono considerare il rischio di denuncia penale. In tali frangenti, attivarsi per tempo con un professionista è decisivo: ad esempio, presentare un’istanza di rateizzazione prima che scada il termine di legge per il versamento può evitare il sorgere del reato, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza . In un’ottica difensiva complessiva, includere il debito IVA in un piano di risanamento o concordato approvato dal tribunale può essere una soluzione per scongiurare sia l’aggressione esecutiva che il profilo penale: se il concordato viene aperto prima della soglia penalmente rilevante, i termini penali slittano e, in caso di omologa con soddisfacimento parziale dell’IVA (possibile secondo il CCII, v. oltre), l’obbligazione tributaria viene definita in sede concorsuale.
Conclusione sulla gestione dei debiti fiscali: Il debitore (società mensa) che abbia debiti con il Fisco deve muoversi su due fronti: (a) gestionale, assicurandosi liquidità o accordi (rateazioni, ecc.) per evitare la crescita incontrollata del debito con interessi e sanzioni; e (b) giudiziario/preventivo, monitorando le soglie penali e, se necessario, valutando l’accesso tempestivo a strumenti concorsuali per congelare o ridurre tali debiti. Il nuovo Codice della Crisi ha reso più agevole includere i debiti fiscali in soluzioni di risanamento: oggi anche IVA e ritenute possono essere “falcidiate” (pagate parzialmente) in un accordo di ristrutturazione o concordato preventivo, a condizione che la proposta sia più conveniente della liquidazione fallimentare . In passato IVA e ritenute erano “intoccabili” fuori dal fallimento, ma la riforma consente ora di stralciarle se il piano assicura all’Erario almeno il valore di realizzo che otterrebbe liquidando i beni del debitore . Su questo punto torneremo parlando degli strumenti di risanamento, poiché è un elemento chiave di difesa: il cram-down fiscale (omologazione di accordo o concordato nonostante il dissenso dell’Erario) è oggi possibile nei tribunali italiani , riducendo il potere di veto che prima l’Agenzia delle Entrate aveva nelle trattative.
Debiti verso fornitori e altri creditori chirografari
Le forniture rappresentano il cuore dell’operatività di una mensa: generi alimentari, bevande, materiali di consumo, servizi di pulizia, manutenzione di cucine e impianti, ecc. Quando la società che gestisce la mensa attraversa difficoltà, spesso inizierà a ritardare i pagamenti ai fornitori. Questi debiti commerciali (di solito chirografari, ossia non assistiti da garanzie reali o privilegi, salvo patti di riservato dominio su macchinari) possono degenerare rapidamente: i fornitori, specie quelli “critici” (ad es. il grossista alimentare che fornisce i cibi ogni giorno), se non ricevono i pagamenti pattuiti, potrebbero interrompere le forniture mettendo a rischio la continuità del servizio mensa. Oppure potrebbero agire per vie legali, aggravando la situazione.
Strumenti dei fornitori per il recupero: Un fornitore non pagato può innanzitutto inviare solleciti e poi una formale messa in mora (ai sensi dell’art. 1219 c.c.) intimando il pagamento entro un termine. Se ciò non sortisce effetto, il fornitore ha la facoltà di agire giudizialmente chiedendo un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. In base agli articoli 633 ss. c.p.c., infatti, la presenza di un credito certo, liquido ed esigibile risultante da fatture, DDT firmati o contratti consente di ottenere dal tribunale un decreto ingiuntivo, anche provvisoriamente esecutivo (inaudita altera parte), entro tempi brevi. Notificato il decreto, se il debitore non paga né fa opposizione entro 40 giorni, il creditore potrà procedere con pignoramenti sui beni della società debitrice. Il pignoramento più semplice è quello presso terzi sul conto corrente: il creditore chiede al tribunale di ordinare alla banca di bloccare le somme sul conto aziendale fino a concorrenza del credito ingiunto, per poi assegnargliele. Altri pignoramenti possibili riguardano beni mobili (macchinari, veicoli della mensa) o crediti verso terzi: ad esempio, se l’azienda committente deve corrispondere all’appaltatore delle fatture, un fornitore creditore potrebbe pignorare quel credito (es: pignoramento presso la società committente delle somme dovute all’appaltatore). In tal caso, il committente verrebbe obbligato a pagare il debito direttamente al fornitore procedente, fino a soddisfacimento.
Effetti sul debitore: L’avvio di azioni esecutive individuali contro la società debitrice di norma peggiora il dissesto. Il pignoramento del conto corrente aziendale è spesso un colpo fatale alla liquidità: il conto può essere bloccato per l’importo ingente richiesto, impedendo di fatto all’azienda di pagare altri fornitori o i dipendenti. Anche il pignoramento dei crediti verso il committente priva la società delle entrate necessarie a proseguire l’attività. Inoltre, i beni strumentali pignorati (veicoli per trasporto pasti, forni industriali, ecc.) possono essere sottoposti a vendita forzata, con ulteriore pregiudizio per la continuità aziendale. Di fronte a un decreto ingiuntivo o un atto di pignoramento, quindi, la società della mensa deve reagire prontamente: – Se vi sono motivi validi, può proporre opposizione al decreto ingiuntivo (entro 40 giorni) o opposizione all’esecuzione/ex art. 615 c.p.c. se contesta il diritto del creditore di procedere. Ad esempio, potrebbe eccepire l’inesistenza del credito (merce contestata, importi già pagati in parte, prescrizione, ecc.). Tuttavia, spesso il debito commerciale è pacifico e documentato, quindi l’opposizione avrebbe solo fine dilatorio (col rischio di aggravio di spese legali). – Una strada praticabile se si vuole guadagnare tempo e sospendere l’esecuzione è la conversione del pignoramento (art. 495 c.p.c.): il debitore può chiedere al giudice dell’esecuzione di sostituire i beni pignorati con una somma di denaro, depositando immediatamente almeno 1/5 del dovuto e proponendo un piano di pagamento per il resto (fino a 36 mesi). Se il giudice accetta, l’esecuzione è sospesa e il debitore paga a rate l’importo dovuto . Questo strumento può dare respiro alla società, ma richiede di avere a disposizione almeno una parte del denaro (20%) da depositare subito. – Trattativa e saldo a stralcio: In parallelo (o prima di arrivare a decreti ingiuntivi), è auspicabile aprire un canale di dialogo con il fornitore. Molti fornitori, se vedono l’azienda in difficoltà ma potenzialmente recuperabile, preferiscono accettare un piano di rientro bonario (es. pagamenti rateali dei pregressi in 6-12 mesi) pur di mantenere il cliente, magari ottenendo garanzie personali o cambiali. In altri casi, specie se il rapporto commerciale può interrompersi, il creditore potrebbe acconsentire a un saldo e stralcio, ossia a rinunciare a una parte del credito in cambio di pagamento immediato di una percentuale. Queste intese stragiudiziali vanno ben ponderate: se si tratta alcuni fornitori privilegiandoli e altri no, si rischia in futuro di incorrere in revocatorie fallimentari (pagamenti preferenziali). È quindi consigliabile che eventuali accordi vengano poi inquadrati in un contesto di risanamento complessivo (ad es. inseriti in un piano attestato o accordo di ristrutturazione).
Azioni collettive dei creditori: Se la situazione di insolvenza si aggrava, più fornitori potrebbero coordinarsi o, al contrario, agire in ordine sparso. Un aspetto cruciale da ricordare è che ogni creditore (fornitore, banca, lavoratore, ecc.) con un credito certo, liquido ed esigibile superiore a € 30.000 può presentare una istanza di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) contro la società debitrice, qualora ritenga che questa versi in stato di insolvenza (art. 121 CCII e art. 15 L.Fall. previgente) . La soglia di €30.000 di debiti scaduti complessivi è condizione per dichiarare lo stato di insolvenza (evita cioè che micro-imprese con debiti minimi siano poste in fallimento) . Nel caso di una mensa, non è infrequente che uno o più fornitori presentino istanza quando i ritardi di pagamento si prolungano e la società appare insolvente: ciò sia per tentare di recuperare il credito (in sede fallimentare, magari accedendo al riparto dell’attivo o a una procedura di insolvenza) sia per “punire” la gestione considerata scorretta. Per il debitore, un’istanza di fallimento è molto pericolosa: può portare all’apertura di una liquidazione giudiziale con perdita della gestione e spossessamento dei beni. Pertanto, anche sotto il profilo difensivo, occorre monitorare eventuali notifiche di atti di citazione per fallimento e in tal caso attivarsi immediatamente con un legale per valutare se ci sono margini di opposizione (ad esempio dimostrando che il debito contestato è sotto soglia o non scaduto, o che si è già in trattativa avanzata per una soluzione concordataria).
Riassumendo: i debiti verso fornitori vanno affrontati prima che degenerino in azioni legali. Soluzioni possibili includono: – Rinegoziazione privata (piani di rientro, stralci parziali) – consigliabile farlo in modo trasparente e possibilmente con il coinvolgimento di un professionista che verifichi l’equità di trattamento tra creditori, per evitare conseguenze in caso di procedure concorsuali. – Moratorie concordatarie: se la situazione è generalizzata, l’imprenditore può proporre ai fornitori una moratoria sui pagamenti in attesa di un piano di rilancio; formalmente, questo può avvenire anche mediante la sottoscrizione di una “convenzione di moratoria” ex art. 61 CCII tra debitore e creditori (è un accordo temporaneo per sospendere o dilazionare i crediti, non soggetto ad omologa ma con consenso di almeno il 75% dei creditori della categoria) . – Procedure concorsuali: se il numero di fornitori coinvolti è elevato e gli importi rilevanti, spesso l’unica via per gestirli in modo coordinato è accedere a una procedura di regolazione della crisi (accordo di ristrutturazione o concordato preventivo), che consente di “cristallizzare” i debiti alla data di apertura della procedura e impedire azioni esecutive individuali, trattando tutti i chirografari in modo uniforme secondo un piano.
Debiti verso i dipendenti (retribuzioni e TFR)
I dipendenti della mensa (cuochi, aiuto-cuochi, personale di sala, addetti pulizie, ecc.) sono tra i creditori più tutelati dall’ordinamento, sia in via sostanziale sia procedurale. In una crisi di liquidità, può accadere che la società ritardi il pagamento di stipendi mensili, tredicesime o altre competenze (straordinari, ferie non godute), oppure non versi il TFR ai dipendenti cessati. Questi debiti da lavoro dipendente presentano varie implicazioni:
- Privilegi e tutele concorsuali: I crediti dei lavoratori per retribuzioni degli ultimi 6-12 mesi e per TFR godono di privilegio generale mobiliare di primo grado (art. 2751-bis c.c.), il che significa che, in caso di concorso con altri crediti, saranno soddisfatti con precedenza subito dopo le spese procedurali. Inoltre, per legge esiste il Fondo di garanzia INPS, che – in caso di insolvenza del datore di lavoro – interviene a pagare ai dipendenti il TFR maturato e fino a 3 mensilità di retribuzione . L’accesso a questo fondo richiede o l’apertura di una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta) oppure, per le aziende non fallibili, un tentativo di esecuzione infruttuoso e una dichiarazione giudiziale di insolvenza. In altre parole, se la mensa fallisce o va in liquidazione, i lavoratori potranno recuperare TFR e ultime retribuzioni direttamente dall’INPS (che poi si surroga nel loro credito).
- Inadempimento contrattuale grave: Il mancato pagamento della retribuzione costituisce una grave inadempienza del datore di lavoro. Il lavoratore ha facoltà di dare le dimissioni per giusta causa (ex art. 2119 c.c.) se lo stipendio non viene corrisposto per un periodo rilevante (spesso già 2-3 mensilità di ritardo possono integrare la giusta causa). Le dimissioni per giusta causa danno diritto al dipendente a pretendere l’indennità sostitutiva del preavviso e ad accedere alla NASpI (disoccupazione) come se fosse stato licenziato. Dunque, un effetto a catena del non pagare gli stipendi è la possibile perdita del personale qualificato, con ulteriori danni all’impresa e rischio di penali contrattuali se non viene garantito il servizio mensa al committente.
- Azioni legali rapide: I crediti di lavoro possono essere accertati in via giudiziale con rito del lavoro, più celere del rito ordinario. Spesso i dipendenti si rivolgono ai sindacati o a un legale e ottengono un decreto ingiuntivo per paghe arretrate in tempi brevi (anche immediatamente esecutivo per crediti di natura alimentare quale è la retribuzione). Oppure, se c’è rischio di dissipazione di beni, possono chiedere un sequestro conservativo sui beni del datore. Queste azioni, al pari di quelle dei fornitori, possono portare a pignoramenti su conti e beni aziendali. In aggiunta, il dipendente può segnalare il fatto all’Ispettorato del Lavoro: il mancato pagamento sistematico degli stipendi, se accertato, può comportare sanzioni amministrative per la società (in base al D.Lgs. sanzioni del 2016, il pagamento ritardato oltre un certo periodo può essere sanzionato con una multa per ciascun lavoratore interessato).
Responsabilità negli appalti: Come anticipato, se la mensa è in appalto, interviene l’art. 29 D.Lgs. 276/2003 che prevede la responsabilità solidale del committente con l’appaltatore per i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti ai dipendenti impiegati nell’appalto (nonché premi assicurativi INAIL) entro il limite di 2 anni dalla cessazione dell’appalto. Ciò significa che il dipendente non pagato può esigere le sue spettanze direttamente dall’azienda committente (es. la società committente Beta S.p.A.), la quale poi potrà rivalersi sull’appaltatore insolvente. La Cassazione ha più volte confermato la natura imperativa di tale solidarietà, chiarendo anche aspetti processuali: ad esempio, Cass. ord. 18 settembre 2025 n. 26245 (in un caso riguardante un appalto nel settore ristorazione a bordo treni) ha ribadito che il lavoratore può fondare la domanda di pagamento nei confronti di tutti i coobbligati anche invocando norme diverse in corso di causa – il giudice applicherà comunque la disciplina corretta (ad es. codice appalti pubblici se pertinente) grazie al principio “iura novit curia” . Per il debitore-appaltatore, la chiamata in causa del committente è un’arma a doppio taglio: se da un lato può alleviare la pressione immediata (il lavoratore viene pagato dal committente), dall’altro la somma pagata diventa un debito verso il committente stesso, spesso immediatamente compensato sui crediti che la società di gestione vantava (il committente tratterrà i corrispettivi dovuti, aggravando la crisi di liquidità). Inoltre, se il committente è costretto a pagare i dipendenti dell’appaltatore, quasi certamente valuterà la risoluzione del contratto di appalto per grave inadempimento.
Omesso versamento di contributi e sanzioni: Oltre ai salari, un capitolo critico è il mancato versamento dei contributi previdenziali e assistenziali all’INPS (e premi INAIL). La quota a carico del dipendente viene trattenuta in busta paga, perciò il suo mancato versamento configura il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali (art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983, conv. in L. 638/1983). La soglia di punibilità penale è attualmente di € 10.000 annui: fino a tale importo l’omissione costituisce illecito amministrativo (sanzione pecuniaria da €10.000 a €50.000), oltre diventa reato con pena fino a 3 anni di reclusione . Attenzione: la soglia si riferisce alle ritenute complessivamente omesse in un anno; quindi, se la mensa non versa i contributi per 5 dipendenti per alcuni mesi e la somma delle trattenute supera €10.000, scatta il penale. È però concessa una sorta di “ravvedimento operoso penale”: il reato è estinto se il datore versa integralmente i contributi dovuti (anche tardivamente) prima dell’apertura del dibattimento . Dunque, gli amministratori hanno un forte incentivo a sanare almeno i contributi prima che si arrivi a processo, per evitare condanne.
In aggiunta alla parte penale, l’INPS applica sulle somme omesse sanzioni civili (interessi e sanzioni per evasione) molto onerose, che aumentano col trascorrere del tempo . Tuttavia, i debiti contributivi verso INPS rientrano anch’essi nei carichi affidabili ad Agenzia Riscossione: quindi, l’azienda può chiedere rateizzazioni anche su di essi o includerli nelle definizioni agevolate (le rottamazioni cartelle hanno incluso i contributi previdenziali, purché affidati entro le date previste) . L’INPS, come l’Erario, rientra inoltre tra i creditori pubblici qualificati che inviano segnalazioni d’allerta: superati certi importi di contributi omessi per oltre 90 giorni, l’INPS deve avvisare formalmente l’azienda affinché prenda provvedimenti (ai sensi dell’art. 25-novies CCII) .
Riepilogo dipendenti: I debiti verso il personale richiedono un approccio prioritario sia per motivi etici che strategici: – Idealmente, non andrebbero mai accumulati: pagare i dipendenti in ritardo mina la fiducia e può paralizzare il servizio (scioperi o dimissioni di massa). – Se tuttavia ci sono mensilità arretrate, conviene concordare con i lavoratori o i loro rappresentanti un piano di pagamento (ad esempio pagando prima le mensilità correnti e dilazionando gli arretrati con accordo scritto). In alcuni casi, i dipendenti possono accettare transazioni su straordinari o indennità minori se vedono uno sforzo credibile di salvare l’azienda. – Attenzione alle azioni legali individuali: un singolo lavoratore potrebbe, con un decreto ingiuntivo, pignorare il conto e mettere in crisi l’intera azienda. È utile quindi il dialogo e, se possibile, fornire qualche garanzia (ad esempio, l’azienda potrebbe offrire una polizza fideiussoria o l’impegno del socio a finanziare la copertura degli stipendi). – In fase di risanamento globale, i lavoratori sono spesso coinvolti mediante accordi sindacali: ad esempio, in un concordato con continuità, si può chiedere ai dipendenti un sacrificio (es. rinuncia a parte del TFR ecc.) a fronte della salvaguardia dei posti di lavoro. Tali accordi devono rispettare l’ordine delle cause di prelazione (non si può ad esempio discriminare tra lavoratori), ma sono possibili con l’assistenza dei sindacati. – Se l’azienda non può più proseguire, meglio attivare una procedura concorsuale che faccia intervenire il Fondo di garanzia INPS, piuttosto che lasciare i lavoratori senza tutela. La composizione negoziata, ad esempio, consente di preservare la continuità e valutare se è possibile vendere l’azienda o rami di essa salvando i posti; se ciò non riesce, si potrà optare per un concordato/liquidazione con accesso al Fondo di garanzia.
Debiti previdenziali e verso enti (INPS, INAIL, Fisco locale)
Affini ai precedenti sono i debiti contributivi verso enti previdenziali (INPS) e assicurativi (INAIL), nonché eventuali debiti verso il Fisco locale (come tributi comunali). Per l’INPS si è detto sopra: la morosità genera sanzioni civili elevate (fino al 30% annuo, ridotte al tasso legale in caso di dilazione), e gli ispettori INPS possono iscrivere a ruolo i contributi dovuti emettendo avvisi di addebito immediatamente esecutivi (che funzionano come cartelle). Sul piano delle tutele del debitore: – È possibile richiedere rateizzazioni dei contributi dovuti direttamente all’INPS (se il debito non è ancora passato all’Agente della Riscossione) oppure, se già in cartella, all’AER con le stesse modalità dei tributi. – Anche i contributi omessi, come visto, rientrano nelle transazioni fiscali/previdenziali all’interno di accordi di ristrutturazione o concordati: dal 2022 il tribunale può omologare un piano che preveda il pagamento parziale o dilazionato di contributi INPS e premi INAIL anche senza il consenso di tali enti, purché il trattamento proposto sia non inferiore a quello ottenibile liquidando i beni (principio di conveniente soddisfacimento) . Questo supera vecchi limiti per cui contributi e IVA dovevano essere pagati integralmente in ogni caso. – L’omissione contributiva protratta può portare l’INPS a denunciare i legali rappresentanti (reato di cui sopra), quindi vale quanto già detto: il profilo penale va gestito con pagamenti riparatori entro le soglie di legge o con il ricorso agli strumenti di composizione della crisi (che, se intrapresi tempestivamente, possono sospendere iniziative punitive e magari permettere un esdebitamento parziale).
Debiti verso altri enti potrebbero includere, ad esempio, omessi versamenti di ritenute d’acconto a professionisti o consulenti (debito verso l’Erario ma derivato da rapporto con professionisti), oppure multe o sanzioni amministrative comminate da ASL o Ispettorati (in caso di infrazioni igienico-sanitarie, di sicurezza sul lavoro, ecc.). Questi ultimi seguono le loro procedure (spesso cartelle esattoriali anch’essi, se non pagati volontariamente). In sede di concordato, le sanzioni pecuniarie puramente amministrative possono essere anche falcidiate integralmente, essendo considerati crediti postergati (ad esempio, le sanzioni tributarie stesse sono degradabili a chirografe postergate e spesso nei concordati vengono pagate in misura molto ridotta).
Debiti bancari e finanziari
Un ulteriore tipo di debito rilevante per un’azienda in crisi è quello verso banche o finanziatori. Nel caso di una mensa privata, potrebbe trattarsi di: – Scoperti di conto corrente o anticipi bancari: molte piccole imprese hanno affidamenti in conto per gestire il circolante. Se la crisi si aggrava, la banca può revocare l’affidamento (specie in presenza di ritardi o sconfinamenti) e chiedere il rientro immediato delle somme utilizzate. Ciò può mettere in grave difficoltà la società, che perde l’ossigeno finanziario. – Mutui o leasing: se la società ha acceso un mutuo (per esempio, per acquistare un immobile destinato a mensa o grosse attrezzature) o un leasing su macchinari, il mancato pagamento delle rate comporta la decadenza dal beneficio del termine e l’azione esecutiva (la banca può pignorare l’immobile ipotecato o il lessor può risolvere il leasing e riprendere il bene). – Fidi su forniture: talvolta i grossisti alimentari concedono dilazioni oltre i 60 giorni di legge, in pratica finanziando il cliente; se c’è un’assicurazione crediti, il mancato pagamento attiva recuperi tramite factor o assicuratore. – Finanziamenti soci: se i soci hanno prestato denaro alla società (finanziamenti infruttiferi o mutui soci), anch’essi sono debiti (subordinati ex lege in caso di fallimento, se fatti in periodo di sottocapitalizzazione).
I debiti verso banche di norma sono assistiti da garanzie: pegni, ipoteche, oppure – molto comune nelle PMI – fideiussioni personali degli amministratori o dei soci. In effetti, gli istituti di credito richiedono spesso ai garanti personali di rispondere delle esposizioni dell’azienda. Pertanto, se la società di gestione mensa non paga il proprio debito, la banca potrà escutere la fideiussione attivando un’aggressione sul patrimonio personale del garante (casa, conto privato, ecc.). Questo scenario porta il problema dal livello societario a quello personale (ne parliamo nella sezione successiva sulle responsabilità).
Come difendersi con le banche: innanzitutto mantenendo un dialogo aperto. Le banche, se informate tempestivamente della crisi e dei piani di risanamento, possono essere disponibili a rinegoziare il debito (allungare le scadenze, congelare il capitale per un certo periodo – “standstill” – o concedere nuova finanza in cambio di garanzie). Esistono strumenti come gli accordi di moratoria ABI per le PMI, che periodicamente consentono di sospendere rate di mutuo o leasing. In contesti più formali, le banche sono spesso i creditori chiave attorno a cui costruire un piano attestato di risanamento o un accordo di ristrutturazione: ad esempio, si può prevedere che le banche convertano parte dei crediti in strumenti partecipativi (equity) o accettino un taglio del credito in cambio di pagamento immediato (se la banca ha svalutato a bilancio il credito, potrebbe acconsentire a transare). Sul piano legale, le banche agiscono di norma più rapidamente e in modo organizzato (tramite procedure monitorie e esecutive ben rodate); pertanto, se la società intravede l’impossibilità di rispettare le scadenze, è bene includere i crediti bancari subito nel perimetro delle trattative o della procedura concorsuale scelta, per evitare azioni individuali (che potrebbero preludere, ad esempio, a un’istanza di fallimento da parte della banca stessa, come talora avviene).
Da notare che, con l’apertura di una procedura concorsuale (concordato preventivo o liquidazione giudiziale), i crediti bancari chirografari restano congelati e soggetti alla falcidia eventuale prevista dal piano; i crediti ipotecari o privilegiati (ad esempio mutuo ipotecario) rientrano come crediti privilegiati e devono essere soddisfatti almeno nei limiti del valore di realizzo dei beni gravati (salvo diverse concordate). Le fideiussioni personali, invece, non sono toccate direttamente dalla procedura: il garante può essere escusso dalla banca nonostante il concordato della società (la banca però, incassando dal garante, trasferisce a quest’ultimo il diritto di credito verso la società, che rimane concorsuale). Spesso, tuttavia, nelle trattative il destino delle garanzie personali è un tema di discussione: i soci-amministratori garantiscono di mettere risorse personali se la banca si astiene dal agire contro di loro, ecc.
Riepilogo tabelle debiti e rischi
Di seguito una tabella riepilogativa delle principali categorie di debito per una mensa aziendale e i relativi rischi e peculiarità:
| Categoria debito | Privilegi o garanzie | Azioni di recupero tipiche | Rischi per il debitore | Strumenti di difesa |
|---|---|---|---|---|
| Debiti fiscali (IVA, imposte) | Privilegio generale e speciale (imposte); possibile ipoteca esattoriale | Riscossione a mezzo ruolo (cartella); fermi amministrativi, ipoteche, pignoramenti senza giudice | – Blocco conti e beni aziendali da parte di Agenzia Entrate-Riscossione<br>– Sanzioni e interessi elevati<br>– Rischio reati (omesso versamento) per IVA/ritenute sopra soglia | – Rateazione fino a 120 rate con AER <br>– Definizioni agevolate (rottamazioni) quando disponibili <br>– Transazione fiscale in accordo/concordato (possibile falcidia IVA) <br>– Ricorso tributario se vi sono vizi negli atti |
| Debiti verso fornitori (merce, servizi) | Di regola chirografari (salvo patti di riserva di proprietà) | Decreto ingiuntivo e pignoramento beni o crediti; possibile istanza di fallimento (se > €30k) | – Pignoramento conti correnti, crediti presso committente, ecc.<br>– Interruzione forniture essenziali (blocco attività)<br>– Procedura concorsuale avviata dai creditori | – Negoziazione privata (piani di rientro, saldo a stralcio)<br>– Moratoria concordata tra più fornitori (accordo art. 61 CCII) <br>– Conversione pignoramento (art.495 cpc) con pagamento a rate <br>– Concordato preventivo o accordo di ristrutturazione per bloccare azioni e imporre dilazioni |
| Debiti verso dipendenti (salari, TFR) | Privilegio generale mobili (ultimi 6 mesi paghe + TFR); intervento Fondo di Garanzia INPS | Decreto ingiuntivo (esecutivo); sequestro conservativo; segnalazione ITL; istanza fallimento (crediti di lavoro non soggetti a soglia) | – Dimissioni per giusta causa dei dipendenti (per mancato pagamento)<br>– Intervento del committente in solido (appalti) a pagare i lavoratori <br>– Azioni esecutive sui beni aziendali<br>– Tensioni sindacali, scioperi, danno reputazionale | – Accordi sindacali per dilazionare pagamenti arretrati<br>– Coinvolgimento del committente (es. pagamento diretto di mensilità correnti)<br>– Concordato con continuazione: pagamento parziale crediti lavoro oltre privilegio con consenso lavoratori<br>– Attivazione Fondo di Garanzia INPS in caso di liquidazione (tutela per lavoratori) |
| Debiti contributivi (INPS, INAIL) | Privilegio generale (come paghe); equiparati a tributi per garanzie (ruolo ecc.) | Avviso di addebito INPS (titolo esecutivo); cartella AER; azione di responsabilità ex art. 239 c.c. verso amministratori se frodi; eventuale segnalazione allerta (CCII) | – Aggressione esattoriale simile al Fisco (pignoramenti, fermi)<br>– Sanzioni civili molto elevate (interessi)<br>– Rischio penale se > €10.000 trattenute omesse | – Rateazione contributi con INPS/AER<br>– Definizioni agevolate (condono di sanzioni)<br>– Inclusione in transazione fiscale/previdenziale in procedura (possibile stralcio contributi) <br>– Pagamento entro limiti per evitare soglia penale |
| Debiti bancari/finanziari | Spesso garantiti da ipoteche su beni o da fideiussioni personali dei soci/amministratori | Decreto ingiuntivo; esecuzione su beni dati in garanzia (es. pignoramento immobile ipotecato); escussione garanzie personali; segnalazione in Centrale Rischi Bankitalia | – Revoca fidi e scoperti → crisi di liquidità immediata<br>– Perdita beni dati in garanzia (es. sede ipotecata)<br>– Escussione fideiussioni → patrimonio personale soci a rischio<br>– Segnalazione “sofferenza” bancaria, pregiudizio reputazionale creditizio | – Rinegoziazione con banche (allungamento piani, nuovi fidi per ripresa)<br>– Moratorie ABI per sospensione rate mutui<br>– Piano attestato di risanamento con nuovi apporti per rassicurare banche<br>– Accordo di ristrutturazione dei debiti con banche (possibile omologa 75% crediti finanziari ex art. 61 CCII – accordo ad efficacia estesa) |
Nota sugli “indizi di crisi” e segnalazioni esterne
Come accennato, la legge prevede meccanismi di allerta precoce. Oltre agli indicatori interni di cui devono dotarsi gli amministratori (es.: DSCR, indici di liquidità, ecc.), vi sono soglie di debito scaduto verso creditori pubblici superate le quali scatta una segnalazione formale: – Agenzia Entrate: mancato versamento di IVA oltre €5.000 con ritardo di oltre 90 giorni; oppure altre soglie per debiti da accertamento. – INPS: inadempimenti contributivi oltre determinate soglie (€50.000 circa) per oltre 90 giorni. – Agenzia Riscossione: carichi affidati scaduti per importi > €100.000 per oltre 90 giorni. Queste segnalazioni, introdotte nel CCII, invitano l’imprenditore a rivolgersi all’OCRI o a utilizzare la composizione negoziata . Attualmente (settembre 2025) l’assetto dell’allerta è in evoluzione: l’OCRI (Organismo di Composizione della Crisi d’Impresa) non è stato attivato come previsto inizialmente, ed è stata potenziata invece la Composizione Negoziata volontaria. Comunque, un amministratore diligente non dovrebbe aspettare le segnalazioni esterne: se riceve, ad esempio, una PEC dall’INPS che lo avverte del superamento soglia, è segno che la situazione è grave e occorre intervenire entro 3 mesi per evitare poi possibili effetti pregiudizievoli (come la perdita di esimenti da responsabilità) .
Responsabilità personali di amministratori e soci nei debiti della mensa
Una delle domande cruciali per chi gestisce una società di capitali (come tipicamente è la società appaltatrice della mensa, spesso una S.r.l.) è: “In caso di insolvenza, i debiti della società ricadranno sui patrimoni personali degli amministratori o dei soci?”. Il principio generale del diritto societario italiano è quello della autonomia patrimoniale perfetta: nella S.r.l. o S.p.A., la società risponde delle obbligazioni con il proprio patrimonio, e i soci (come tali) perdono al più il capitale conferito. Tuttavia, esistono importanti eccezioni e situazioni in cui amministratori o soci possono essere chiamati a rispondere in prima persona di specifici debiti sociali. Inoltre, vi sono responsabilità di natura penale che colpiscono direttamente gli organi sociali. Analizziamo distintamente i vari profili:
Responsabilità patrimoniale civile di amministratori e soci
1. Obblighi legali di amministratori e liquidatori verso il Fisco (art. 36 DPR 602/1973): La norma cardine in materia tributaria è l’art. 36 del DPR 602/1973. Questa disposizione deroga al principio di separazione patrimoniale stabilendo che, per i debiti tributari di una società, in alcuni casi ne rispondano personalmente: – i liquidatori della società, se durante la liquidazione hanno soddisfatto crediti di ordine inferiore a quelli tributari o distribuito beni ai soci senza prima pagare le imposte dovute; – gli amministratori, se (a) pur essendoci una causa di scioglimento della società, non hanno promosso la liquidazione regolare della stessa, oppure (b) nei due anni precedenti la liquidazione hanno compiuto operazioni liquidatorie o occultato attività sociali in pregiudizio del Fisco; – i soci, limitatamente a: (a) somme e beni da essi ricevuti dagli amministratori negli ultimi 2 esercizi prima della liquidazione (es. utili o rimborsi fittizi di finanziamenti), e (b) beni ricevuti in sede di liquidazione dal liquidatore .
Questa norma, in sostanza, costruisce una forma di responsabilità sussidiaria: Fisco e enti analoghi possono escutere amministratori/liquidatori/soci solo se e nella misura in cui il patrimonio sociale è insufficiente per quei crediti e ricorrono le condizioni di condotta sopra indicate. Ad esempio, un amministratore che abbia continuato l’attività nonostante la società avesse perso il capitale sociale (causa di scioglimento ex art. 2484 c.c.) e abbia aggravato il debito fiscale potrebbe vedersi addebitare dall’Erario l’omesso pagamento delle imposte relative a quel periodo. Oppure un liquidatore che distribuisca ai soci attivi senza pagare le imposte maturate espone sé stesso e i soci al regresso del Fisco.
Va sottolineato che tale responsabilità, per come formulata, non è automatica: deve essere accertata con un atto motivato dell’Ufficio, impugnabile dal destinatario . Inoltre, storicamente riguardava solo le imposte sui redditi; dal 2014 (D.Lgs. 175/2014) è stata estesa anche a IVA e altri tributi erariali. La giurisprudenza, come visto con Cass. 35497/2023, ha chiarito che per chiedere ad un ex amministratore il pagamento di IVA/IRAP di una società (periodi anteriori al 2015) l’ufficio deve prima notificare un avviso di accertamento ad hoc, altrimenti la cartella è nulla . In sede di merito, tribunali e Cassazione sono abbastanza rigorosi nel valutare queste responsabilità: vanno provati gli elementi (distrazione di attivi, pagamenti preferenziali, mancata attivazione liquidazione). In pratica, però, l’Amministrazione finanziaria usa sempre più spesso questo strumento: ad esempio, con riferimento al liquidatore, la Cassazione a Sezioni Unite già nel 2017 (sent. 6070/2013) e poi con numerosi provvedimenti recenti (es. Cass. 20014/2024) ha confermato che il liquidatore può essere escusso dal Fisco anche senza preventiva iscrizione a ruolo del debito in capo alla società cancellata, trattandosi di obbligazione ex lege che sorge al momento della cancellazione . Ciò significa che se la nostra società mensa venisse cancellata con debiti verso l’Erario, il Fisco potrebbe mirare direttamente al liquidatore (o agli amministratori precedenti, a certe condizioni) per recuperare.
2. Responsabilità dei soci dopo lo scioglimento della società (art. 2495 c.c.): Il Codice Civile prevede che, estinta la società, i soci rispondono dei debiti sociali nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione (cioè fino a concorrenza della quota di attivo di liquidazione percepita) . Questa è una responsabilità pro quota e sussidiaria: i creditori insoddisfatti possono agire contro ciascun socio per riprendersi quanto distribuito. La giurisprudenza però ha interpretato in modo estensivo tale successione nei debiti: le Sezioni Unite della Cassazione già nel 2013 (sent. 6070/2013) hanno stabilito che l’estinzione della società produce un fenomeno successorio in cui i soci subentrano in tutti i rapporti obbligatori non definitti, seppur pro rata . Alcune pronunce addirittura hanno ritenuto i soci responsabili anche oltre quanto percepito, soprattutto in ambito fiscale, applicando analogicamente il principio di successione universale (equiparando – con qualche forzatura – la fine della società alla morte di un debitore) . Cass. ord. 20840 del 18/7/2023 ad esempio ha affermato che i soci di una S.r.l. cancellata rispondono dei debiti fiscali sociali anche se non hanno ricevuto nulla in liquidazione, basandosi sul principio di successione dei soci nel patrimonio sociale estinto . Questo orientamento è dibattuto: sul tema specifico delle sanzioni tributarie alla società estinta, per lungo tempo la Cassazione aveva escluso che i soci ne ereditassero l’obbligo (perché le sanzioni sono personali e non si trasmettono mortis causa); tuttavia, la Cass. 23341 del 29/08/2024 ha cambiato rotta affermando che i soci rispondono anche delle sanzioni tributarie della società defunta, sempre nei limiti di quanto riscosso , escludendo l’analogia con la morte della persona fisica (in cui l’art. 8 D.Lgs. 472/97 prevede la non trasmissibilità delle sanzioni) . La stessa sentenza ricorda comunque che resta il limite del concursus quanti: il socio non può essere obbligato a pagare più di quanto ottenuto dal bilancio finale di liquidazione . Dunque, se la nostra società di gestione mensa fosse liquidata e cancellata dal Registro Imprese, qualunque creditore rimasto insoddisfatto potrebbe: – Citare i soci (entro il termine prescrizionale ordinario di 5 anni dalla cancellazione) per ottenere pagamento fino a concorrenza delle somme distribuite a ciascuno. Se nulla fu distribuito, in teoria il socio potrebbe opporre di non dovere nulla. Tuttavia, come visto, in ambito fiscale alcune pronunce estendono la pretesa anche in assenza di distribuzioni, configurando un’obbligazione “di chiusura” a carico dei soci di srl a ristretta base, specie se la liquidazione è apparsa un modo per sottrarsi al fallimento. – Se i soci hanno percepito attivi, dovranno restituirli (magari pro quota tra creditori se più di uno li chiama in causa).
In sintesi, chiusure “improprie” della società con debiti pendenti sono molto rischiose: è preferibile, se la situazione è grave, affrontare una procedura concorsuale che definisca i debiti, piuttosto che cancellare la società sperando di farla franca. I soci e gli amministratori potrebbero trovarsi inseguiti a posteriori dal Fisco e da altri creditori.
3. Responsabilità da mala gestio: azioni di responsabilità e altre fattispecie civili: Indipendentemente dalle norme speciali fin qui viste, gli amministratori di società di capitali sono tenuti a obblighi fiduciari e di corretta amministrazione ex artt. 2392 e 2476 c.c. (nelle S.r.l., la responsabilità verso la società e verso i creditori sociali in caso di patrimonio insufficiente). Se la crisi della mensa è frutto di gravi inadempienze gestionali (es. gli amministratori hanno accumulato debiti per inerzia o per operazioni azzardate), in caso di fallimento il curatore può esercitare l’azione di responsabilità contro di essi per ottenere il risarcimento del danno arrecato al patrimonio sociale (danno che indirettamente va a vantaggio dei creditori) . Un caso tipico è la violazione dell’obbligo di conservazione del patrimonio sociale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (art. 2486 c.c.): se gli amministratori, a capitale azzerato o dimezzato, hanno continuato l’attività aggravando il dissesto, dovranno risarcire l’incremento del passivo ai sensi dell’art. 2486 c.c. (quantificato spesso come differenza tra patrimonio a momento causa scioglimento e patrimonio al fallimento). Questo tipo di azioni può colpire il patrimonio personale dell’amministratore, con conseguenze anche per i soci che fossero stati coadiuvanti (es. soci di fatto amministratori o che abbiano concorso nelle decisioni dannose possono essere anch’essi citati).
Inoltre, i sindaci o revisori (se presenti in società più grandi) potrebbero essere chiamati in causa se hanno omesso di segnalare tempestivamente i sintomi di crisi o di impedire atti distrattivi.
4. Garanzie personali e coobbligazioni: Come anticipato, i soci o amministratori che abbiano firmato fideiussioni personali a garanzia di debiti sociali (verso banche, fornitori strategici, locatori, ecc.) rispondono illimitatamente verso quei creditori in base al contratto di garanzia. Questa non è una “responsabilità per debiti sociali” in senso tecnico, ma un’obbligazione assunta volontariamente dal garante che diventa escutibile se la società non paga. Nel contesto di una crisi della mensa, è frequente che le banche escutano le fideiussioni degli amministratori per recuperare fidi e mutui: il garante dovrà pagare e poi potrà insinuarsi come creditore di regresso verso la società (ormai insolvente). Purtroppo, se la società finisce in liquidazione, il regresso del fideiussore sarà chirografario e probabilmente insoddisfatto; di fatto il sacrificio rimane a carico del garante. Pertanto, dal punto di vista pratico, se i debiti sono molti e il socio ha dato garanzie, un percorso di composizione negoziata può essere utile per negoziare con le banche anche la liberazione (o il cap massimo) delle garanzie personali, magari offrendo un impegno finanziario diretto contestuale (es. il socio versa nuova finanza nel piano in cambio della liberazione da ogni garanzia residua).
5. Reati e responsabilità penale degli amministratori (trattati a parte nella prossima sottosezione) possono avere riflessi civilistici: ad esempio, una condanna per reati di bancarotta può comportare l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o l’incapacità ad esercitare cariche societarie, e soprattutto il dover risarcire il danno cagionato ai creditori (il curatore può costituirsi parte civile nel processo penale per bancarotta).
In conclusione su amministratori e soci: il punto di vista del debitore razionale deve essere quello di minimizzare il rischio personale. Ciò significa: – Mantenere compliance con gli obblighi legali (pagare contributi trattenuti, presentare dichiarazioni fiscali anche se non si riesce a versare tutto, per evitare guai peggiori). – Attivarsi tempestivamente in caso di crisi (principio di early warning): il CCII premia chi avvia una procedura di composizione prima che l’insolvenza conclamata si manifesti . Ciò può evitare l’accusa di tardiva richiesta di fallimento e addirittura escludere la punibilità per bancarotta semplice da ritardata attivazione (art. 25-octies CCII prevede la non punibilità se l’organo gestionale attiva la composizione negoziata in tempo utile) . – Non aggravare il buco: ad esempio, non pagare preferenzialmente alcuni creditori a detrimento di altri quando si è già insolventi – questo verrebbe sanzionato come bancarotta preferenziale in caso di fallimento (reato). – Evitare distrazioni di cassa o di beni a favore dei soci: prelevare utili o restituire finanziamenti soci in fase di insolvenza è pericolosissimo (bancarotta fraudolenta patrimoniale). – Nel dubbio, farsi affiancare da esperti: spesso le decisioni prese in autonomia da amministratori sotto stress (es. vendere sottocosto un cespite per fare cassa) possono poi ritorcersi contro come atti contestati (revocatoria, azione di responsabilità). Un professionista può aiutare a inquadrare ogni mossa all’interno di un piano di salvataggio legittimo.
Responsabilità penale in caso di insolvenza e comportamenti illeciti
La crisi di una società può sfociare anche in illeciti penali a carico degli amministratori (e talvolta dei soci, se partecipi). Abbiamo già menzionato i reati tributari (omesso versamento IVA/ritenute) e contributivi (omissione contributi >10k). Oltre a questi, quando l’insolvenza degenera in fallimento (liquidazione giudiziale), trovano applicazione le norme sulla bancarotta del R.D. 267/1942 (ancora in vigore per via del richiamo nel CCII): – Bancarotta fraudolenta patrimoniale (artt. 216 e 223 L.F.): è il reato commesso dall’imprenditore o amministratore che, prima o durante il fallimento, distrae, occulta, dissipa beni sociali, oppure sottrae o falsifica le scritture contabili, con dolo di recare pregiudizio ai creditori. Ad esempio, l’amministratore di una mensa che vende a prezzo irrisorio un veicolo aziendale a un proprio familiare, incassandone il corrispettivo personalmente, commette distrazione. La pena è molto grave (reclusione da 3 a 10 anni). – Bancarotta preferenziale (art. 216 comma 3): se, in stato di insolvenza, vengono pagati o garantiti alcuni creditori in pregiudizio della par condicio (sapendo dello stato di dissesto), si configura bancarotta preferenziale. Ad esempio, a ridosso del fallimento, l’amministratore paga interamente il debito verso un fornitore “amico” e lascia altri a bocca asciutta: è un reato (punito fino a 2 anni, aumentabile se in concorso con bancarotta fraudolenta). – Bancarotta semplice (art. 217): condotte meno gravi come aver aggravato il dissesto con spese personali eccessive, o non aver tenuto la contabilità regolare, o non aver chiesto il fallimento in tempo. La pena è minore (fino a 2 anni). Come già detto, l’art. 25-octies CCII oggi esenta da bancarotta semplice per ritardata dichiarazione chi abbia attivato tempestivamente strumenti di allerta o composizione negoziata . – Altri reati fallimentari: false comunicazioni al tribunale, mancata consegna di beni ai curatori, ecc., oltre a eventuali reati societari (es. false comunicazioni sociali, se gli amministratori hanno falsificato bilanci per celare il dissesto).
È evidente che, quando entra in gioco il penale, l’amministratore rischia la libertà personale oltre al patrimonio. Dunque la miglior difesa è prevenire queste situazioni: evitare condotte fraudolente e, se il fallimento pare inevitabile, mantenere una gestione trasparente (nessuna sparizione di beni o documenti). In un’ottica di risanamento, attivare una procedura di concordato prima che i creditori chiedano il fallimento può evitare che scattino le indagini tipiche del fallimento (nel concordato infatti, se poi omologato e adempiuto, l’azienda non viene dichiarata fallita e non c’è automatica segnalazione in Procura come avviene per ogni sentenza di fallimento). Inoltre, nel contesto di una composizione negoziata, è possibile ottenere dal tribunale misure protettive che congelano le azioni esecutive e al contempo dimostrare buona fede nel tentativo di salvare l’impresa – elementi che, anche qualora si arrivi comunque a un fallimento, possono attenuare il giudizio di colpevolezza.
In sintesi, dal lato del debitore (amministratore/socio): conoscere il confine tra le lecite manovre per salvare l’impresa e le condotte illecite è fondamentale. Pagare i dipendenti e i fornitori essenziali è comprensibile, ma bisogna farlo all’interno di un piano sostenibile e documentato, non in segreto a scapito di altri creditori. Se si devono reperire fondi, meglio farlo con operazioni trasparenti (cessione di un cespite a valore di mercato, magari con perizia, piuttosto che “svenderlo” di nascosto). E se nonostante tutto la bancarotta è dichiarata, collaborare con il curatore consegnando libri e informazioni è l’atteggiamento migliore per evitare guai peggiori.
Come affrontare la crisi e difendersi: strategie e strumenti di risanamento
Di fronte a una situazione debitoria critica, l’imprenditore che gestisce la mensa ha davanti a sé diverse opzioni. Alcune sono soluzioni stragiudiziali (private), altre coinvolgono l’autorità giudiziaria e rientrano nelle cosiddette procedure concorsuali o di regolazione della crisi. La scelta dipende dalla gravità della situazione (crisi temporanea vs insolvenza conclamata), dalla disponibilità dei creditori a negoziare e dalle prospettive future dell’attività (ci sono chances di recupero o no?). In questa sezione esamineremo i principali strumenti di difesa e risanamento, dai più informali ai più strutturati, introdotti o modificati dalla recente riforma della crisi d’impresa.
A) Approccio stragiudiziale: rinegoziazione dei debiti e piani di rientro extra-giudiziali
Valutazione iniziale: Il primo passo è valutare oggettivamente la situazione finanziaria. Bisogna redigere un elenco completo di debiti (importi, scaduti e non, natura privilegiata o meno) e un prospetto di liquidità prevedibile. Se la crisi è ancora reversibile (ad esempio c’è un arretrato modesto che può essere colmato con un anno di utili o con un piccolo finanziamento), potrebbe non essere necessario ricorrere al tribunale: si può tentare una composizione bonaria con i creditori. In caso contrario, se i debiti superano di molto le capacità dell’impresa e questa è di fatto insolvente, andare direttamente verso strumenti concorsuali può essere più efficace.
Trattative individuali: Spesso, la via immediata è contattare i principali creditori per negoziare termini migliori: – Fisco/INPS: come detto, ci sono strumenti specifici (rateazioni, ecc.) che si attivano tramite domanda agli enti competenti. Non c’è molta discrezionalità: o si rientra nei requisiti di legge o no. Importante è non perdere i termini per aderire a eventuali definizioni agevolate. – Banche: chiedere una moratoria, magari presentando un abbozzo di piano industriale di rilancio, può convincerle a standstill, ovvero a non revocare i fidi e congelare le azioni in attesa di vedere se la crisi si risolve. – Fornitori strategici: proporre formalmente un accordo di rientro del tipo “vi pago il 50% del dovuto subito (se si riesce a reperire) e il resto in 6 rate mensili, e continuo ad acquistare da voi” può essere accettato soprattutto se il fornitore ha interesse a mantenere la fornitura (e teme di perdere tutto in caso di fallimento del cliente). – Dipendenti: se possibile, saldare almeno parzialmente gli stipendi arretrati e presentare un piano per il saldo integrale (magari attingendo a risorse dei soci) con la garanzia di non accumulare ulteriori ritardi può placare gli animi. È utile coinvolgere i rappresentanti sindacali aziendali, mostrando i numeri di bilancio per far capire la situazione e magari concordando sospensioni temporanee di alcuni benefit in cambio della salvaguardia occupazionale.
Piano di risanamento “in bianco” (informale): L’imprenditore può redigere un vero e proprio piano di risanamento aziendale da condividere con i creditori. Questo piano, pur non essendo inizialmente asseverato da un esperto, dovrebbe contenere: l’analisi delle cause della crisi (es. aumento costi materie prime, riduzione commensali causa smartworking, ecc.), le misure correttive (es. riduzione personale, rinegoziazione contratto di appalto con il committente per maggior corrispettivo, ricerca socio finanziatore), e la proiezione di come i crediti dei vari creditori saranno soddisfatti. Se i creditori vedono uno storyboard credibile, saranno più inclini a dare fiducia (ad esempio concedendo più tempo). Tuttavia, perché un accordo di ristrutturazione informale funzioni, è preferibile avere tutti o quasi i creditori a bordo. Basta un creditore aggressivo fuori dall’accordo per mandare all’aria lo sforzo (caso tipico: nove fornitori su dieci accettano di attendere, il decimo fa pignoramento e blocca tutto).
Limiti delle soluzioni puramente stragiudiziali: – Non c’è protezione dalle azioni individuali: un accordo privato non impedisce a un estraneo di agire. Neppure vincola legalmente eventuali dissenzienti. Questo può innescare fenomeni opportunistici (chi sta fuori spera di ottenere più degli altri facendo causa). – Possibile rischio di revocatoria fallimentare: se poi l’accordo fallisce e l’azienda viene dichiarata fallita, alcuni pagamenti eseguiti in forza dell’accordo stragiudiziale potrebbero essere revocati (se fatti preferenzialmente entro 6 mesi/un anno dal fallimento). Per ovviare a ciò, il legislatore ha previsto una tutela se il piano resta asseverato e pubblicato – vedi infra il piano attestato di risanamento. – Difficoltà di coordinamento se i creditori sono numerosi: gestire dozzine di accordi bilaterali è complicato e può generare disallineamenti.
Conclusione fase stragiudiziale: È comunque consigliabile tentare un approccio bonario iniziale, soprattutto se la crisi è all’inizio. Tale fase spesso prelude, se le cose non si risolvono subito, al ricorso a strumenti più strutturati con l’ausilio del tribunale o di professionisti indipendenti (attestatori, esperti).
B) Piano attestato di risanamento (art. 56 Cod. Crisi) – risanamento privatistico con asseverazione
Il piano attestato di risanamento è uno strumento previsto dall’art. 56 del Codice della Crisi (già art. 67 L.F. nella legge fallimentare previgente). Si tratta di un piano di risanamento aziendale redatto dall’imprenditore con l’ausilio di professionisti, che viene asseverato da un esperto indipendente (iscritto all’albo dei revisori o avente requisiti di legge) circa la sua fattibilità e idoneità a riequilibrare la situazione finanziaria. Il piano deve avere data certa (viene generalmente pubblicato in Registro Imprese o conservato a fini probatori) e il suo scopo è quello di consentire al debitore di eseguire atti e pagamenti funzionali al risanamento esenti da revocatoria fallimentare futura . In altri termini, se la società poi dovesse fallire, i pagamenti fatti e le garanzie concesse in esecuzione di un piano attestato non potranno essere revocati dal curatore, a patto che il piano fosse idoneo e l’attestazione genuina (art. 166 CCII).
Quando usarlo: Il piano attestato è indicato quando l’azienda è in crisi reversibile, con un numero relativamente limitato di creditori, disposti a collaborare, e si preferisce non attivare procedure formali. Ad esempio, la nostra società di mensa potrebbe usarlo se ha, poniamo, 5-6 principali creditori (Fisco, banca e pochi fornitori) con cui ha già un accordo di massima: il piano attestato formalizza la ristrutturazione (es. la banca proroga il mutuo, il Fisco dà rateazione, i fornitori accettano uno stralcio del 20%) e un esperto attesta che così l’azienda tornerà solvibile.
Vantaggi: – Riservatezza: non c’è intervento del tribunale né pubblicità legale (se non la facoltativa pubblicazione nel Registro Imprese per data certa, che però non è una vera pubblicità come un concordato). – Flessibilità: si può adattare a qualsiasi contenuto negoziato con i creditori (non ci sono le rigide regole di parità di trattamento di una procedura concorsuale, perché è su base contrattuale). – Nessuno stigma: all’esterno (clienti, dipendenti non coinvolti) potrebbe non trapelare nulla; l’azienda continua ad operare normalmente.
Svantaggi: – Nessun vincolo per i dissenzienti: solo chi aderisce al piano ne è parte. Un creditore non aderente può comunque agire per conto suo. – Nessun automatismo protettivo: a differenza di concordato o accordo ex art.57, il piano attestato di per sé non blocca pignoramenti o istanze di fallimento. L’azienda resta esposta: occorre confidare che la predisposizione del piano convinca tutti a desistere da azioni legali nel frattempo. – Onere della attestazione: bisogna pagare un attestatore professionista e fornirgli tutti i dati per farlo lavorare con diligenza. L’attestazione non garantisce il successo, ma quantomeno l’esperto dovrà valutare seriamente la sostenibilità.
Novità riforma: Il CCII vede il piano attestato come “la punta avanzata della privatizzazione della crisi d’impresa” . Non c’è più la distinzione di trattamento che c’era in passato tra fornitori strategici e non: il piano può riguardare tutti i debiti. I decreti correttivi (D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024) hanno ulteriormente chiarito che il debitore può perseguire parallelamente un piano attestato e una composizione negoziata (purché coordinate) . Quindi, nulla vieta che mentre negozia privatamente coi creditori, l’imprenditore chieda anche l’accesso alla composizione negoziata per tutela (vedi dopo). Inoltre, con la riforma è venuta meno l’incertezza su IVA e ritenute: se il piano attestato prevede il pagamento integrale di IVA/ritenute nei termini di legge (o comunque la loro regolarizzazione), esso è efficace; se invece prevede stralci di tributi, perde la protezione, a meno che quei tributi siano poi regolati in un successivo concordato o accordo omologato.
C) Accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII) – soluzione negoziale con omologa giudiziale
L’accordo di ristrutturazione dei debiti è un istituto intermedio tra il piano privato e il concordato. In sostanza, è un accordo giuridicamente vincolante tra l’imprenditore debitore e una parte dei creditori, che viene poi omologato dal tribunale e reso efficace anche verso eventuali dissenzienti in misura limitata. I punti salienti: – Deve coinvolgere creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali (art. 57 CCII) . Non occorre il 100%, ma serve una maggioranza qualificata. I creditori non aderenti vanno pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologazione (o dalle scadenze successive) per legge, a meno che non siano irrilevanti (piccoli crediti) o che si chieda la loro inclusione con omologa estesa (v. infra). – Segue un procedimento davanti al tribunale: il debitore deposita l’accordo con la documentazione, il tribunale nomina un ausiliario (un esperto) per verificare merito e regolarità, poi fissa un’udienza. Se tutto è regolare e i creditori sufficienti aderiscono, il tribunale omologa con decreto. Da quel momento l’accordo produce gli effetti per tutti i firmatari ed eventualmente cristallizza la posizione dei non aderenti (che però, ribadiamo, vanno pagati per intero salvo diverso accordo). – Transazione fiscale: l’accordo può comprendere anche i debiti tributari e contributivi, ma in tal caso è necessario l’assenso dell’Agenzia Entrate e degli enti previdenziali su uno specifico accordo (detto transazione fiscale, art. 63 CCII). Se tali enti non aderiscono, il piano non può automaticamente imporre loro stralci – a meno di utilizzare la nuova norma del cram-down fiscale (art. 48 CCII) introdotta nel 2022, che consente al tribunale di omologare ugualmente l’accordo anche senza il voto decisivo del Fisco/INPS, se ritiene che la proposta formulata a tali enti è migliore rispetto alla liquidazione giudiziale . Questa è una svolta importante: es. se la nostra mensa propone di pagare all’Erario il 30% delle imposte (in quanto in liquidazione prenderebbe zero), e l’Erario non aderisce, il tribunale può comunque omologare e rendere efficace lo stralcio delle imposte. – Sono possibili accordi di ristrutturazione “agevolati” o ad efficacia estesa: ad esempio, accordi ad efficacia estesa (art. 61 CCII) in cui se il 75% degli istituti finanziari aderisce, l’accordo viene esteso ai dissenzienti della stessa categoria . Queste norme facilitano l’adesione collettiva, evitando che poche banche dissenzienti facciano saltare tutto. – Durante le trattative per un accordo, il debitore può chiedere al tribunale misure protettive (simili a quelle del concordato con riserva) per sospendere le azioni esecutive, a patto di depositare la domanda di omologa entro determinati termini.
Quando usarlo: L’accordo di ristrutturazione è utile se c’è un nocciolo duro di creditori con cui si è raggiunto un’intesa, ma non il 100%. Ad esempio, la mensa ha 10 creditori, 7 dei quali (rappresentanti il 80% dei debiti) accettano una proposta di rientro al 50% in 2 anni; i restanti 3 piccoli creditori non aderiscono. Con l’accordo, i 7 vengono obbligati secondo i nuovi termini; i 3 piccoli dissenzienti devono essere pagati integralmente, ma l’accordo può prevedere che vengano pagati al momento dell’omologa (spesso con finanza esterna). Così si risolve l’intera situazione senza passare per il più complesso concordato.
Vantaggi: – Ufficialità e certezza legale: c’è un decreto del tribunale che rende l’accordo vincolante, riducendo il rischio di impugnazioni o incomprensioni. – Rapidità relativa: l’accordo può essere più veloce di un concordato (meno formalità, no votazione in adunanza ma solo raccolta adesioni). – Gestione flessibile: i creditori aderenti possono anche essere pagati parzialmente secondo l’accordo, e se accettano è tutto lecito. – Mantenimento dell’impresa in bonis: durante l’accordo l’impresa non è dichiarata insolvente, gli amministratori restano al loro posto senza commissari (salvo nomina di ausiliari per monitoraggio).
Svantaggi: – Necessita un consenso ampio: raggiungere il 60% non è banale, serve lavoro di convincimento e spesso accordi differenziati per tipi di creditori (che però non deve sfociare in violazione par condicio oltre certi limiti). – Costi professionali: servono avvocati e consulenti per negoziare, predisporre documenti, attestare la fattibilità (anche per l’accordo serve un’attestazione del piano di ristrutturazione sottostante). – I creditori non aderenti restano liberi di agire (anche se di solito, sapendo che verranno pagati integralmente, attendono; tuttavia potrebbero teoricamente provocare il fallimento prima dell’omologa – per questo spesso si chiede una protezione provvisoria al tribunale). – Se l’accordo coinvolge l’Erario o INPS senza il loro accordo, l’omologa può complicarsi (ci sarà probabilmente opposizione in sede di omologa, da risolversi in tribunale).
Esempio pratico: Supponiamo che la società Alfa S.r.l. (mensa) abbia debiti per €500.000: €200k con una banca, €100k con fornitori vari, €150k con Agenzia Entrate, €50k con INPS. Raggiunge un’intesa con banca e fornitori (che sommano 300k, cioè 60%) per pagare il 40% in 5 anni, e propone ad Agenzia Entrate e INPS di pagare il 20%. Se ADE/INPS accettano, ottiene il 100% adesioni e tutto ok. Se non accettano, ha comunque il 60%: può presentare accordo lo stesso chiedendo al tribunale di omologare con cram-down su ADE/INPS, dimostrando che in fallimento questi prenderebbero zero mentre qui prendono il 20%. Se il tribunale concorda, omologa l’accordo: banca e fornitori avranno il 40% in 5 anni come da accordo, ADE e INPS avranno il 20% secondo le scadenze fissate nel piano omologato . Nessuno potrà più pretendere di più né agire esecutivamente, salvo risoluzione dell’accordo per inadempimento.
D) Composizione negoziata per la soluzione della crisi – negoziazione assistita con esperto (D.L. 118/2021 e art. 17 ss. CCII)
La Composizione negoziata è uno strumento innovativo introdotto in via emergenziale nel 2021 (D.L. 118/2021, conv. L. 147/2021) e poi confluito nel Codice della Crisi. Non è una procedura concorsuale in senso stretto, ma un percorso volontario e confidenziale di assistenza all’imprenditore in crisi da parte di un esperto indipendente, volto a facilitare le trattative con i creditori per trovare una soluzione.
Accesso: Possono accedervi imprenditori commerciali e agricoli che si trovano in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario (crisi o insolvenza reversibile) ma ritengono ragionevolmente perseguibile il risanamento. Si presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale gestita dalle Camere di Commercio, allegando dati di bilancio, situazione debitoria e un piano di massima. Un algoritmo/test di autodiagnosi aiuta a valutare la gravità . Se l’istanza è accolta (valutazione di completezza e serietà), una commissione nomina un esperto (un professionista iscritto in apposito elenco) che seguirà la procedura .
Fase di negoziazione riservata: L’esperto nominato convoca l’imprenditore e, insieme, individuano i creditori da coinvolgere. Si tengono incontri (anche da remoto) tra l’impresa e i creditori sotto la supervisione dell’esperto, che ha il compito di favorire una composizione. Tutto avviene in modo riservato: non c’è pubblicità legale inizialmente, e le parti partecipanti sono vincolate alla riservatezza. L’esperto non ha poteri di imporre soluzioni, ma redige via via relazioni sullo stato delle trattative.
Misure protettive: Durante la composizione negoziata, l’imprenditore può richiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive e cautelari, ad esempio il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari, o di acquisire titoli di prelazione senza autorizzazione (in pratica un automatic stay simile al pre-concordato) . Il tribunale concede tali misure se ritiene che ci siano concrete trattative in corso e che la prosecuzione dell’attività non danneggi ulteriormente i creditori. Le misure protettive vengono iscritte nel registro delle imprese (quindi in quel caso i terzi ne vengono a conoscenza) e normalmente durano inizialmente 4 mesi, prorogabili di altri 4 su istanza.
Esito: La composizione negoziata può concludersi in vari modi: – Accordo stragiudiziale: le parti raggiungono un accordo di ristrutturazione “privato” (potrebbe poi essere formalizzato in un piano attestato o accordo ex art.57 se si vuole). – Contratto con uno o più creditori: ad esempio una convenzione di moratoria, o un aumento di finanziamento, o la cessione dell’azienda a terzi con accollo di debiti. – Nessun accordo: se non si trova soluzione, l’esperto lo segnala. L’imprenditore a quel punto può decidere di accedere a una procedura concorsuale (concordato preventivo, liquidazione) oppure, novità del DL 118, presentare un concordato semplificato per la liquidazione. – Altra soluzione: l’esperto può proporre una conclusione alternativa come la convenienza di un accordo minore o di misure societarie (fusioni, ecc.).
Concordato semplificato (art. 25-sexies DL 118): se la composizione non ha prodotto accordo e l’azienda è insolvente, l’imprenditore può, entro 60 giorni dalla relazione finale dell’esperto, proporre un concordato “liquidatorio” senza voti dei creditori, chiedendo direttamente al tribunale l’omologazione di un piano che prevede la liquidazione dei beni e la distribuzione del ricavato secondo le priorità di legge. È “semplificato” perché non c’è voto dei creditori, ma il tribunale omologa se ritiene che i creditori non riceverebbero di più dalla liquidazione giudiziale classica . In pratica è un modo per chiudere rapidamente la vicenda con una liquidazione consensuale, evitando il fallimento.
Vantaggi della composizione negoziata: – Tempestività e prevenzione: è uno strumento studiato per intervenire prima che la crisi diventi irreversibile. Consente di coinvolgere i creditori in anticipo e in modo non conflittuale. – Costi ridotti e flessibilità: non c’è una procedura giudiziaria formale se non per le eventuali misure protettive. L’esperto va remunerato (di solito secondo tariffe stabilite) ma i costi sono inferiori a un lungo concordato. – Possibilità di atti urgenti autorizzati: l’imprenditore può chiedere al tribunale, sentito l’esperto, di autorizzare atti per reperire finanza durante le trattative (ad esempio accendere un finanziamento prededucibile) o cedere beni non strategici. Ciò dà strumenti di finanza interinale utili a tenere in vita l’impresa durante la negoziazione. – Nessuno stigma di fallimento: la procedura è volontaria e può concludersi senza alcuna dichiarazione di insolvenza o altro; se si riesce a risanare, l’azienda prosegue come prima.
Svantaggi e limiti: – È efficace se c’è collaborazione dei creditori: l’esperto può metterci impegno ma se i creditori (es. banche o Erario) non vogliono trattare, la negoziazione può fallire. – Manca una soluzione imposta: non c’è cram-down se non ricorrendo poi a concordato o accordo; quindi la fase negoziata serve a scongelare la situazione, ma la conclusione deve essere simile a un accordo o concordato. – Richiede che l’imprenditore abbia la volontà di mettersi in gioco: deve fornire dati trasparenti, accettare l’affiancamento dell’esperto e anche eventuali indicazioni (es. l’esperto può suggerire di rimuovere un dirigente inetto, o di tagliare rami d’azienda, ecc.).
Caso pratico applicato alla mensa: Alfa S.r.l. richiede la composizione negoziata presentando l’istanza a ottobre 2025 dopo aver ricevuto segnalazioni di allerta da INPS e notato di non poter pagare fornitori. L’esperto viene nominato e nei primi incontri con creditori emerge che: la società potrebbe risollevarsi se il committente aumentasse il corrispettivo pasto (per far fronte a costi saliti) e se i fornitori accettassero uno sconto sul pregresso. Durante le trattative l’esperto convince l’azienda committente a concedere un adeguamento di prezzo (magari minacciando di perdere il servizio se la mensa fallisce), e i fornitori chiave accettano un taglio del 30% sui loro crediti con pagamento del restante 70% garantito da un nuovo investitore (un’altra società di ristorazione interessata a entrare in società). Banca e Fisco accettano di dilazionare. Si arriva così a un accordo stragiudiziale completo: a quel punto l’azienda esce dalla composizione negoziata con un risanamento privatistico (che potrebbe essere formalizzato in un accordo ex art.57 per sicurezza giuridica). Se invece, malgrado gli sforzi, non si fosse trovato accordo, l’esperto avrebbe dichiarato che il risanamento non è possibile se non liquidando: Alfa a quel punto può presentare entro 60 gg un concordato semplificato offrendo ai creditori la vendita di tutti i beni (in blocco magari a un concorrente) con pagamento ai creditori in percentuale. In mancanza anche di ciò, non resterebbe che il fallimento su istanza dei creditori.
Novità 2023-2024: I decreti correttivi hanno ampliato l’uso della composizione negoziata: D.Lgs. 83/2022 l’ha stabilizzata e D.Lgs. 136/2024 ne ha semplificato l’accesso, permettendo anche a chi ha già in corso un piano attestato di poter accedere (prima c’era dubbio) , e ha chiarito che si può accedere più volte a composizioni negoziate differenti purché per crisi differenti. Inoltre, ha previsto alcuni benefici fiscali: ad esempio, se all’esito della composizione si conclude un accordo con transazione fiscale, il debitore può ottenere esenzioni da alcune imposte sui debiti ridotti (in pratica agevolazioni su tassazione sopravvenienze attive, ecc.). Questo per incentivare l’uso di tale strumento.
E) Concordato preventivo – cenni
Il concordato preventivo meriterebbe un’analisi estesa a sé, ma qui lo citiamo solo come ultimo stadio se le misure sopra non bastano. Esso consiste nella procedura concorsuale in cui l’imprenditore propone ai creditori un piano che può prevedere la continuità aziendale (diretta o indiretta) oppure la liquidazione del patrimonio, soddisfacendo i creditori anche parzialmente, secondo determinate regole di maggioranza (maggioranza per teste e per crediti nelle classi, di solito 2/3) e con omologazione finale da parte del tribunale. Nel contesto di una mensa aziendale, un concordato in continuità potrebbe significare proseguire l’attività di ristorazione con un nuovo assetto (ad esempio con nuovi investitori o taglio costi) e pagare i creditori nel tempo con i flussi generati; un concordato liquidatorio significherebbe cessare il contratto di appalto (o cedere la posizione contrattuale a un altro operatore) e vendere tutti i beni, distribuendo il ricavato ai creditori in percentuale.
Il concordato è una soluzione di ultima istanza quando serve vincolare tutti i creditori dissentienti e non si è riusciti con accordi meno formali. Offre la massima protezione (dall’ammissione si bloccano tutte le azioni, e si ha un commissario giudiziale che controlla, il che rassicura i creditori) ma ha i massimi costi e rigidità (tempi lunghi, pubblicità negativa, maggioranze da raggiungere, ecc.). Con la riforma, oggi è possibile presentare concordato “in bianco” (istanza riserva) per bloccare subito le azioni e poi negoziare un piano da sottoporre al voto . Ed è possibile, come visto, anche l’omologazione senza voto (concordato semplificato) se la composizione negoziata fallisce, ma solo per liquidazione.
Per brevità non entriamo oltre nei dettagli del concordato preventivo, se non per sottolineare che nel 2022-2023 è stato modernizzato: ora prevede obbligatoriamente classi di creditori, consente stralci di crediti erariali (con lo stesso meccanismo di convenienza già detto) e prevede anche la figura del concordato minore (una sorta di concordato per piccole imprese non fallibili, nell’ambito del sovraindebitamento). Ma per la nostra ipotesi di mensa, trattandosi di società commerciale, la distinzione è tra concordato ordinario o altre procedure, non rientrando nel “minore” se supera le soglie di fallibilità.
F) Strumenti di allerta interni e ristrutturazioni extra-giudiziali in extremis
È opportuno accennare che, accanto agli strumenti formali sopra elencati (piano attestato, accordo omologato, composizione negoziata, concordato), l’ordinamento stimola le imprese a prevenire la crisi tramite: – Assetti organizzativi adeguati (art. 2086 c.c.): come già detto, i nuovi obblighi impongono di dotarsi di sistemi di controllo che facciano scattare segnali. Ad esempio, l’organo amministrativo di Alfa S.r.l. avrebbe dovuto rilevare dagli indici che la liquidità stava scendendo sotto soglie critiche e agire prima di accumulare 6 mesi di debiti IVA. – Intervento dei soci: in certe situazioni, i soci potrebbero decidere una ricapitalizzazione o un finanziamento soci per ripianare i debiti e riportare la società in bonis, evitando le procedure. Questo è spesso l’esito preferibile se i soci dispongono di mezzi e credono ancora nel business (e se la crisi è dovuta magari a fattori temporanei, come uno shock nei costi delle materie prime). Tuttavia, va bilanciato con il rischio: finanziando la società in crisi, i soci poi diventano creditori postergati; sarebbe preferibile trasformare i finanziamenti in patrimonio (capitale) per non avere restituzioni che aggravino in futuro. – Operazioni straordinarie: talvolta la via d’uscita è un’operazione di M&A: vendere l’azienda (o rami) a un competitor più grande disposto a farsi carico di parte dei debiti (subentro nel contratto di appalto mensa e accollo di debiti verso fornitori, ad esempio), oppure fondersi con un’altra società in salute che porti capitali freschi. Queste operazioni possono essere facilitate all’interno della composizione negoziata o anche fuori, se c’è urgenza e opportunità (previo comunque accordo con creditori per la parte di debiti non rilevata dall’acquirente).
Tabella comparativa strumenti di risanamento:
Per chiarire le differenze, ecco una tabella riassuntiva dei principali strumenti concorsuali/preventivi e le loro caratteristiche:
| Strumento | Ambito | Adesione creditori | Intervento tribunale | Protezione da azioni | Esiti sui debiti |
|---|---|---|---|---|---|
| Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) | Stragiudiziale assistito da attestatore | Volontaria, individuale (non richiede % minima, ma serve accordo con i creditori chiave per funzionare) | No omologa (solo eventuale pubblicazione per data certa) | Nessuna autom. protezione (possibile negoziare standstill privatamente) | Debiti ristrutturati secondo accordi presi. Atti e pagamenti eseguiti nel piano esenti da revocatoria . Nessun cram-down su dissenzienti. |
| Accordo di ristrutturazione (art. 57 CCII) | Procedura negoziale omologata | Necessario ≥ 60% crediti aderenti . Non aderenti pagati integralmente salvo diverso accordo/cram-down . | Sì, omologa dal tribunale (verifica consensi e fattibilità) | Sì, su richiesta misure protettive pre-omologa (simili a concordato “in bianco”). Dopo omologa, vincola aderenti; non aderenti non possono agire se vengono soddisfatti come da piano. | Possibile pagamento parziale/dilazionato dei crediti aderenti come da accordo. Fisco/INPS: richiede adesione su transazione fiscale, salvo cram-down giudiziale . Effetti vincolanti tra parti dal decreto di omologa. |
| Composizione negoziata (art. 17-25 CCII) | Procedura volontaria confidenziale | Non predefinito: si punta al massimo consenso ma è strumento di trattativa, non di voto. | Tribunale non coinvolto salvo per misure protettive/autorizzative. Nomina esperto tramite commissione CCIAA. | Sì, ma solo se richiesto: misure protettive fino a 12 mesi max . Senza misure, nessun vincolo e procedura riservata. | Dipende dall’esito: può sfociare in un accordo stragiudiziale o in una procedura (concordato, accordo omologato) o liquidazione. Durante la negoziazione, i debiti sono normalmente sospesi se misure protettive attive. Eventuale concordato semplificato liquida i debiti secondo proposta omologata senza voto. |
| Concordato preventivo (artt. 84-120 CCII) | Procedura concorsuale giudiziale | Voto favorevole di ≥ 2/3 crediti in ogni classe (salvo cram-down su classi dissenzienti se certe condizioni). | Sì, autorizzazione apertura (ammissibilità), nomina commissario, omologa finale con sentenza. | Sì, automatico da ammissione: sospese azioni esecutive e cautelari ex lege. Continuano solo pagamenti autorizzati in continuità. | A omologa, i debiti sono novati secondo il piano: es. percentuale pagata e saldo stralciato, o scadenze differite. Privilegi rispettati salvo soddisfazione migliore di alternativa. Transazione fiscale come per accordo (possibile falcidia IVA) . Se eseguito, l’imprenditore è esdebitato nei limiti del piano. |
| Liquidazione giudiziale (Fallimento) | Procedura concorsuale liquidatoria | Nessun accordo: è coattiva. Creditori possono insinuarsi al passivo, senza voti. | Sì, sentenza dichiarativa di insolvenza, nomina curatore, giudice delegato. | Sì, dal giorno della sentenza tutte azioni individuali si fermano. | I debiti pregressi sono accertati e soddisfatti in ordine di prelazione con il ricavato dei beni. Quelli non soddisfatti restano insoluti, ma la società è estinta. Soci non esdebitati salvo procedure personali. L’imprenditore persona fisica può chiedere esdebitazione residui post chiusura. |
G) Simulazioni pratiche di risanamento
Per concretizzare quanto illustrato, esaminiamo due scenari pratici riguardanti una mensa aziendale privata indebitata, con diversi gradi di gravità, e le possibili soluzioni adottate.
Caso 1: Crisi moderata, attività salvabile (risanamento in continuità).
Scenario: Alfa Ristorazione S.r.l. gestisce la mensa di una grande azienda. Ha accumulato €150.000 di debiti (di cui €40k con fornitori alimentari, €30k di canoni di locazione cucina arretrati, €50k di debiti fiscali tra IVA e ritenute, €30k con banca per scoperto). Le cause: durante la pandemia la mensa ha ridotto gli incassi ma ha mantenuto il personale, utilizzando fidi bancari e rinviando pagamenti IVA. Ora con la ripresa ha flussi mensili positivi, ma non abbastanza per colmare l’arretrato in un colpo. L’azienda committente è soddisfatta del servizio e vorrebbe mantenerlo.
Azioni: Gli amministratori di Alfa decidono di attivarsi prima che i fornitori perdano la pazienza. Con l’aiuto di un commercialista, elaborano un piano di risanamento su 3 anni: chiedono alla banca di mantenere il fido aperto e trasformare €15k di scoperto in finanziamento a medio termine; propongono ai 3 principali fornitori uno stanzionamento (pagamento 50% subito attingendo a una piccola ricapitalizzazione dei soci per €20k, e saldo 50% in 6 mesi); con il locatore trattano una dilazione di 12 mesi sugli arretrati; presentano all’Agenzia Entrate domanda di rateizzazione delle cartelle per €50k in 72 rate (6 anni) ottenendo un piano di rientro sostenibile . Questo piano viene sottoposto a verifica di un esperto indipendente che lo attesta come ragionevole e perseguibile, evidenziando che la mensa, a regime, genera €5k/mese di surplus che permette di onorare i nuovi piani di pagamento. Il piano attestato è formalizzato e comunicato ai creditori: tutti accettano perché vedono l’impegno concreto (i soci hanno messo soldi, l’azienda committente garantisce volumi pasti stabili). Non è stato necessario coinvolgere il tribunale. A 18 mesi, Alfa ha regolarizzato la posizione fornitori e locatore; resta la coda della rateizzazione fiscale, ma in assenza di nuove crisi verrà gestita ordinariamente. L’impresa ha evitato sia procedure concorsuali sia contenziosi, grazie a un intervento tempestivo e concordato.
Commento: In questo caso la soluzione stragiudiziale con piano attestato ha funzionato perché la crisi era limitata e reversibile: l’azienda era fondamentalmente sana, solo appesantita da debiti di periodo eccezionale. I creditori erano pochi e ragionevoli, interessati a proseguire il rapporto. I soci hanno contribuito (segno di fiducia nel futuro). Nessun creditore ha tentato azioni legali, anche perché tutti hanno visto di essere trattati equamente e meglio di quanto avrebbero ottenuto forzando un fallimento. La presenza di un attestatore ha dato credibilità al piano (i numeri sono stati vagliati da terzi). Alfa S.r.l. ha quindi scongiurato l’insolvenza e tutelato il valore aziendale (contratto con il cliente e posti di lavoro salvi).
Caso 2: Insolvenza grave, troppi debiti (ristrutturazione o liquidazione assistita).
Scenario: Beta Catering S.r.l. gestisce da 5 anni la mensa di un grande complesso industriale con 300 dipendenti utenti. Purtroppo ha perso controllo dei conti: i debiti totali sono circa €1,2 milioni (di cui €200k debiti IVA e €100k ritenute non versate da 2 anni, €400k debiti verso fornitori vari, €150k verso banca per mutuo macchinari e fido, €100k TFR maturato per dipendenti che hanno lasciato, €50k INPS, €200k altri). L’attività operativa è in perdita; l’azienda committente ha comunicato che a fine anno non rinnoverà l’appalto (lo affiderà a terzi), quindi Beta rischia di perdere la fonte di ricavo. Beta di per sé non ha immobilizzazioni di rilievo (macchinari in leasing, scorte alimentari modeste). I soci non intendono (o non possono) apportare capitale: la società appare insolvente e priva di prospettive di continuare a operare in utile.
Azioni: Gli amministratori di Beta, pressati da decreti ingiuntivi di fornitori e dalla minaccia di un’istanza di fallimento, decidono di utilizzare gli strumenti del Codice della Crisi. Presentano al tribunale un’istanza di composizione negoziata, ottenendo misure protettive immediate (blocco dei pignoramenti in corso) e la nomina di un esperto. L’esperto esplora la possibilità di trovare un investitore per Beta o di cedere l’azienda: contatta la società Gamma (concorrente nel settore), la quale sarebbe interessata a subentrare nel nuovo appalto (dopo la scadenza) e ad assorbire parte dei dipendenti, ma non vuole farsi carico dei debiti pregressi di Beta. Le trattative con i creditori non portano ad alcuna proposta di accordo sostenibile: l’Erario avrebbe troppo da perdere su IVA, i fornitori chiedono almeno il 40% ma Beta non ha risorse. Relazione finale dell’esperto: il risanamento come azienda non è perseguibile, si suggerisce la liquidazione del patrimonio residuo alle migliori condizioni, magari vendendo il know-how e gli asset (contratti, personale) a Gamma. Beta a quel punto, su suggerimento legale, opta per un concordato semplificato liquidatorio: predispone un piano in cui Gamma S.r.l. acquista (tramite affitto d’azienda con opzione di acquisto) l’intera azienda Beta, impegnandosi a riassorbire 20 dipendenti su 30 e a pagare un corrispettivo di €200k. Questi €200k, insieme al realizzo di crediti verso il cliente e magazzino (altri €50k), sono destinati a soddisfare i creditori Beta con una percentuale stimata del 20% ai chirografari, mentre i debiti verso Fisco e INPS (privilegiati) assorbono la gran parte (ricevendo, poniamo, 30% del dovuto, che è più di quanto avrebbero preso liquidando Beta senza affitto d’azienda). Il tribunale verifica che in caso di fallimento “ordinario” i creditori avrebbero preso forse il 5-10%, mentre col concordato semplificato prenderanno il 20%. Omologa quindi il piano senza passare da voti. Beta S.r.l. viene liquidata: il ricavato viene distribuito secondo il piano, l’azienda viene ceduta formalmente a Gamma (che la esercita con nuova società e nuovi capitali), i creditori incassano la percentuale prevista (non integrale, purtroppo). Gli amministratori di Beta evitano le lungaggini di un fallimento e auspicabilmente bancarotta fraudolenta (hanno agito tramite concordato, quindi in maniera ordinata e trasparente). I soci di Beta escono di scena senza nulla (la loro partecipazione è azzerata), ma anche senza azioni di responsabilità particolari perché hanno cooperato nella procedura.
Commento: In questo caso grave, la continuità aziendale non era salvabile sotto Beta S.r.l., ma grazie agli strumenti concorsuali si è potuta trasferire la mensa ad altro operatore (evitando disservizi al cliente e salvando parte dei posti di lavoro) e si è proceduto a soddisfare i creditori meglio che in un fallimento. La presenza dell’esperto e la cornice del concordato semplificato hanno permesso di realizzare in pochi mesi ciò che un fallimento avrebbe fatto in anni con costi superiori. Certo, molti creditori non hanno ricevuto integralmente il dovuto (subendo uno stralcio del credito), ma la legge lo consente se era l’unica via, e comunque essi han percepito più di zero (che era il rischio concreto vista la situazione). Per i debiti fiscali e contributivi è stata probabilmente necessaria una valutazione di convenienza (che il 30% offerto era > 0% ricavabile da fallimento), superando così l’opposizione del Fisco in sede di omologa . Questo scenario evidenzia come, dal punto di vista del debitore, utilizzare per tempo le procedure consente di governare l’insolvenza con un esito meno traumatico rispetto a subire passivamente i pignoramenti e il fallimento richiesto dai creditori. Gli amministratori hanno evitato implicazioni peggiori (in un fallimento, la curatela avrebbe potuto indagare sulle cause, magari contestando perché hanno atteso tanto; qui invece hanno preso l’iniziativa). I fornitori e la banca hanno accettato la perdita parziale perché certificata dal giudice come il massimo ottenibile. Il committente ha dovuto cambiare fornitore ma con transizione guidata dall’esperto per minimizzare interruzioni.
Domande frequenti (FAQ)
D: La mia società di gestione mensa rischia il fallimento se ha troppi debiti? Come funziona la soglia dei €30.000 di cui ho sentito parlare?
R: Sì, se la società è insolvente (incapace di pagare regolarmente i debiti) può essere assoggettata a liquidazione giudiziale (l’equivalente dell’ex fallimento). La legge prevede una soglia di €30.000 di debiti scaduti e non pagati per poter aprire la procedura . Ciò significa che se il totale dei debiti scaduti è inferiore a 30k, nessun creditore può chiederne il fallimento. Superata quella soglia, un singolo creditore (o la società stessa in teoria) può presentare un’istanza. Nel caso di una mensa con dipendenti, fornitori e Fisco non pagati, è facile superare i 30k, quindi il rischio c’è. Tuttavia, se la società attiva in tempo una procedura di composizione (ad esempio presenta domanda di concordato o composizione negoziata con misure protettive), il fallimento su istanza dei creditori viene sospeso fino a vedere l’esito di quella procedura. È sempre preferibile muoversi proattivamente (concordato, accordi) piuttosto che subire il fallimento passivamente.
D: Gli amministratori o i soci devono pagare di tasca propria i debiti della società della mensa?
R: In linea generale, no per i soci (se parliamo di S.r.l. o S.p.A., rispondono solo col capitale conferito) e no per gli amministratori in assenza di condotte illegittime. Tuttavia, come spiegato, ci sono molte eccezioni: – Se gli amministratori violano i doveri gestionali e causano danni (ad es. aggravano i debiti non attivandosi per tempo), possono essere citati per responsabilità e dover risarcire. – Per i debiti fiscali, la legge (art. 36 DPR 602/73) consente al Fisco di chiedere conto a liquidatori, amministratori e soci in certi casi di mancato pagamento in liquidazione . Esempio: se l’amministratore non liquida la società quando doveva e nel frattempo paga fornitori anziché l’IVA, l’Agenzia Entrate potrà esigere quell’IVA dall’amministratore personalmente. – I soci inoltre rispondono dei debiti fino a concorrenza di quanto preso in liquidazione (se la società viene chiusa senza fallimento) . Quindi se i soci si sono distribuiti utili o riserve prima di pagare i creditori, dovranno restituirli per pagare i debiti. Cassazioni recenti confermano questo principio anche per le sanzioni . – Se soci o amministratori hanno firmato fideiussioni o garanzie, ovviamente ne risponderanno senza limite: es. molto comune è la garanzia personale del socio per un finanziamento bancario. In pratica, se la mensa ha accumulato debiti, i soci possono perdere il capitale e gli amministratori rischiano azioni di responsabilità se non gestiscono bene la crisi. Per evitare guai, conviene onorare almeno i debiti “sensibili” (IVA, contributi) o trovare accordi. Inoltre attivare presto procedure di composizione può anche limitare le responsabilità (ci sono esimenti, come la non punibilità per bancarotta semplice se si attiva la composizione negoziata tempestivamente ).
D: Ho un decreto ingiuntivo da un fornitore e temiamo un pignoramento sul conto: possiamo fare qualcosa per fermarlo?
R: Se il decreto è già esecutivo, il fornitore può pignorare il conto corrente aziendale. Per evitarlo o reagire: – Si può chiedere al giudice la conversione del pignoramento (art.495 c.p.c.) offrendo un pagamento a rate (fino a 36 mesi) e depositando subito almeno il 20% del dovuto . Questo sospende l’esecuzione, ma serve disporre di quel 20%. – Si può tentare un accordo last-minute col creditore: ad esempio offrendo una percentuale immediata se sospende il pignoramento. Spesso però, quando è già a livello esecutivo, il creditore vuole l’intero. – Se l’azienda presenta una domanda di concordato preventivo o un’istanza di composizione negoziata con misure protettive, dal momento in cui il provvedimento viene pubblicato, tutti i pignoramenti in corso vengono sospesi ex lege (o per ordine del giudice). Nel concordato, si dispone la sospensione delle esecuzioni; nella composizione negoziata, il tribunale emette un decreto di protezione che impone lo stop. Quindi, attivare una procedura formale è un modo per congelare i pignoramenti. – Se il pignoramento è appena partito, si può anche proporre opposizione all’esecuzione per guadagnare tempo, ma occorrono motivi validi (es. contestare la regolarità della notifica, o sostenere che il debito non era scaduto – difese spesso pretestuose, che servono solo a rinviare). In sintesi, la via più efficace per difendersi da un pignoramento imminente è entrare in una procedura concorsuale (concordato o ristrutturazione) che abbia effetti sospensivi, oppure trovare all’istante la liquidità da offrire come garanzia al giudice (conversione) o al creditore (transazione).
D: Si può continuare l’attività della mensa durante la ristrutturazione del debito? O bisogna chiudere subito per fare ordine?
R: Nella maggior parte dei casi è auspicabile continuare l’attività, se c’è possibilità di risanarla, anche durante la ristrutturazione. Tutti gli strumenti moderni (piano attestato, accordo, composizione negoziata, concordato in continuità) sono pensati per consentire la prosecuzione aziendale mentre si tratta coi creditori. Ad esempio, in composizione negoziata l’imprenditore resta alla guida e l’attività prosegue normalmente (l’esperto verifica che non peggiori il dissesto); nel concordato “con continuità” l’azienda va avanti (anche con nuovi contratti) e anzi i creditori chirografari possono essere pagati con i ricavi futuri generati . Chiudere subito (cioè interrompere l’attività) ha senso solo se è chiaro che l’azienda non è più sostenibile o che la prosecuzione creerebbe ulteriori perdite. In una mensa, ad esempio, se si perde l’appalto principale e non ci sono altre commesse all’orizzonte, continuare sarebbe inutile: meglio liquidare l’esistente. Ma se c’è ancora la commessa e magari può diventare profittevole correggendo alcuni costi, allora conviene tenerla in piedi mentre si ristrutturano i debiti. La legge tutela la continuità perché preserva il valore aziendale (goodwill, posti di lavoro, contratti) e in genere porta a una soddisfazione maggiore dei creditori rispetto a uno stop immediato e vendita spezzatino dei beni. Quindi: no, non bisogna chiudere per forza; anzi, l’obbiettivo delle procedure di risanamento è evitare la chiusura, se possibile.
D: In caso di fallimento o concordato, che fine fanno i contratti in corso, ad esempio l’appalto con il committente e i contratti di lavoro dei dipendenti?
R: Dipende dalla procedura: – Nel concordato preventivo in continuità, i contratti in corso (compreso l’appalto col committente della mensa) proseguono regolarmente, salvo diversa richiesta del debitore. Il debitore può anche chiedere l’autorizzazione a sciogliere o sospendere alcuni contratti se ciò è funzionale al piano (art. 95 CCII) – per esempio, potrebbe sospendere un contratto di fornitura troppo oneroso. Ma di default i contratti proseguono. I dipendenti rimangono in forza; se il piano prevede esuberi, questi vanno gestiti con le regole lavoristiche (procedure di licenziamento collettivo) anche all’interno del concordato. – Nella liquidazione giudiziale (fallimento), invece, i rapporti pendenti sono gestiti dal curatore: il curatore può subentrare nei contratti utili o scioglierli pagando eventuali indennizzi. Un contratto di appalto di servizi spesso si scioglie perché il committente ha diritto di affidarlo altrove se l’appaltatore fallisce (spesso i contratti contengono clausole risolutive in caso di fallimento). I dipendenti del fallito vengono licenziati dal curatore entro breve, con pagamento delle ultime spettanze in prededuzione, e poi possono accedere al Fondo di Garanzia INPS per TFR e arretrati . Nel nostro caso, se la mensa fallisse, l’azienda committente farebbe un nuovo appalto con un’altra ditta e i dipendenti di Beta S.r.l. sarebbero licenziati e dovrebbero, se possibile, farsi assumere dal nuovo fornitore (ma senza obbligo di legge se non in certi casi di subentro ex art. 2112 c.c. se si trasferisce un ramo d’azienda). – Nella composizione negoziata, durante la negoziazione i contratti restano in essere; se poi sfocia in concordato, vale quanto sopra; se sfocia in cessione d’azienda, il contratto di appalto può essere trasferito al cessionario con consenso del committente (diviene un transfer del contratto ai sensi dell’art. 1406 c.c., spesso nei contratti c’è clausola che la cessione necessita assenso del committente). Quindi, in sintesi: le procedure di continuità cercano di preservare i contratti, quelle liquidatorie li sciolgono ma c’è il meccanismo di trasferimento dei rapporti (ad esempio cessione d’azienda) che può salvare in blocco contratti e dipendenti (con applicazione dell’art. 2112 c.c., mantenimento dei lavoratori con il nuovo acquirente).
D: Cosa comporta per gli amministratori aprire una procedura concorsuale o di composizione? È visto come un’ammissione di colpa?
R: Culturalmente, molti imprenditori vivono il concordato preventivo o simili come uno stigma, un fallimento personale. In realtà, oggi la legge incoraggia gli amministratori ad utilizzarli come strumenti di buona gestione: agire per salvare l’impresa è un dovere, non una colpa. Anzi, non attivarsi può essere visto come colposo. L’apertura di una procedura come il concordato comporta certo una perdita di riservatezza (si viene esposti pubblicamente come in crisi) e l’organo di controllo del tribunale (commissario) verifica l’operato degli amministratori. Ma non è affatto un’ammissione di reato o simili: al contrario, può costituire una scriminante per evitare accuse di tardivo fallimento, come detto. Dunque, un amministratore diligente che capisce di non poter pagare tutti dovrebbe valutare seriamente il concordato o l’accordo di ristrutturazione: questo verrà valutato positivamente in caso di scenari peggiori. Ad esempio, se poi la procedura non va a buon fine e si converte in fallimento, il fatto che l’amministratore abbia tentato il concordato e abbia cooperato con le autorità può evitargli una condanna per bancarotta semplice e costituire attenuante anche in altre contestazioni. Quindi no, non è un’ammissione di colpa, è semmai una scelta di responsabilità e può ridurre i rischi di responsabilità personale. Chiaramente, devono aver gestito onestamente prima: il concordato non li proteggerà da eventuali reati commessi in precedenza (se hanno distratto soldi, quello rimane). Ma li protegge dal rischio di essere accusati di aver fatto nulla mentre l’azienda affondava. Oggi c’è la tendenza culturale a vedere il ricorso tempestivo agli strumenti di crisi come un comportamento virtuoso, contrapposto alla vecchia abitudine di “tirare a campare” finché i creditori fanno fallire l’azienda.
D: I debiti fiscali e contributivi si possono tagliare? Ho sempre sentito dire che IVA e INPS vanno pagati al 100%.
R: Fino a qualche anno fa era così: IVA e contributi erano considerati intoccabili nelle procedure (bisognava pagarli integralmente, salvo forse interessi e sanzioni). La transazione fiscale era facoltativa e se l’Erario diceva no, non c’era verso di imporgli uno stralcio. Dal 2022 invece le cose sono cambiate: sia negli accordi di ristrutturazione che nei concordati, è espressamente ammesso il pagamento parziale o dilazionato di IVA, ritenute e contributi, purché l’Erario e gli enti previdenziali ricevano almeno quanto otterrebbero in una liquidazione . Se questi enti non aderiscono all’accordo, il tribunale può comunque omologare (cram-down) se quella condizione di convenienza è rispettata . Significa che, ad esempio, se l’azienda fallendo farebbe incassare zero all’Erario (perché magari non ci sono beni su cui il privilegio attecchisce), nel concordato può proporgli anche il 5% e il giudice può approvarlo d’ufficio anche se l’Erario ha votato contro. Questo è stato confermato e rafforzato dal Codice della Crisi e dalle prime applicazioni giurisprudenziali . Naturalmente, non è un liberi tutti: bisogna sottoporre al giudice un piano serio e dimostrare con perizia che quella è la migliore soddisfazione possibile per il Fisco. Fuori dalle procedure, invece, rimane in piedi la regola che IVA e contributi non si possono transare: quindi in un accordo stragiudiziale privato l’Erario non aderisce a stralci (può concedere rate, ma non rinuncia al capitale). Solo attraverso l’omologa giudiziale si ottiene la falcidia. Quindi, se la mensa ha grossi debiti IVA/INPS che non può pagare integralmente, realisticamente dovrà passare per un accordo ex art.57 o un concordato per ridurli legittimamente. In un semplice piano attestato o composizione negoziata senza accordo omologato, dovrebbe comunque prevederli al 100% (o sperare in rottamazioni legislative esterne). Concludendo: oggi si può tagliare anche IVA e contributi, ma solo in sede di procedure di crisi omologate e a condizioni rigorose.
D: Una volta concluso un concordato o accordo e pagato quanto dovuto, la società è “libera” dai debiti residui?
R: Sì, l’omologa del concordato preventivo o il completamento di un accordo di ristrutturazione comportano l’esonero dal pagamento della parte di debiti stralciata. Ad esempio, se col concordato pago il 30% a un fornitore, il restante 70% si estingue definitivamente e non potrà più richiederlo. La società ne esce “ripulita” (al netto ovviamente dei debiti eventualmente esclusi dalla procedura, tipo quelli che la procedura non copriva, ma di solito li copre tutti). Attenzione: se la società non rispetta il piano (inadempimento), allora si può arrivare alla risoluzione del concordato o accordo e i creditori riacquistano i loro diritti per intero (meno quanto intanto ricevuto). Ma se tutto va a buon fine, i creditori sono definitivamente soddisfatti secondo l’accordo e non possono pretendere altro. Nel caso del concordato preventivo liquidatorio, dopo aver eseguito il piano, la società di solito si scioglie ed è cancellata, quindi cessa di esistere. Nel caso di concordato in continuità, la società prosegue l’attività con quel taglio di debiti che la riporta in equilibrio. Per l’imprenditore persona fisica (non il nostro caso di S.r.l., ma se fosse un ditta individuale), esiste anche l’esdebitazione: dopo il fallimento o liquidazione, può chiedere di essere liberato dai debiti rimasti insoddisfatti . Le società invece non hanno bisogno di esdebitazione perché con la cancellazione muoiono assieme ai debiti (che però possono riflettersi sui soci nei limiti visti). Quindi, rispondendo: sì, se onori quanto stabilito nel concordato/accordo, i residui vengono cancellati (stralciati) e non sono più esigibili dai creditori originari.
D: Quanto tempo ci vuole per uscire da questa situazione di crisi?
R: I tempi variano molto a seconda della soluzione adottata e della complessità: – Un piano attestato può essere fatto in poche settimane (il tempo di redigere il piano e farlo attestare) se i creditori sono già allineati, dopodiché l’esecuzione del piano magari dura mesi o anni (per pagare le rate). Ma legalmente la situazione è sistemata quando tutti aderiscono e si firma l’accordo. – Una composizione negoziata prevede per legge un periodo di 3-6 mesi prorogabile fino a 12 : idealmente in pochi mesi si dovrebbe capire se c’è un accordo. Se c’è, poi si implementa (che duri 6 mesi o 5 anni dipende dai termini). Se non c’è accordo, si passa ad altro (concordato o fallimento). – Un accordo di ristrutturazione formalmente, tra preparazione e omologa, può richiedere qualche mese (diciamo 4-6 mesi se le adesioni sono già state raccolte). Anche qui poi l’esecuzione magari dura anni, ma la crisi si considera risolta all’omologa (perché i vecchi debiti sono “sospesi” e ristrutturati). – Un concordato preventivo è più lungo: tra deposito della domanda, eventuale prenotativa, predisposizione piano, votazione e omologa, spesso passano 6-12 mesi (per procedure più semplici) o anche 18 mesi per le più complesse con molte classi. Durante quel periodo l’azienda opera sotto vigilanza. Dopo l’omologa, c’è poi la fase di esecuzione del concordato (che può durare anch’essa anni, specie se ci sono pagamenti dilazionati). – La liquidazione giudiziale (fallimento) mediamente dura 5 anni (possono essere di meno per imprese piccole e di più per grandi), perché bisogna liquidare i beni e distribuire. Ma in fallimento l’imprenditore non esce con l’azienda risanata – l’azienda di solito muore lì.
Quindi, se l’obiettivo è continuare l’attività, occorre considerare almeno 6 mesi – 1 anno di “cura” per riequilibrare e concludere accordi con i creditori. Se l’obiettivo è liquidare e chiudere, un concordato semplificato può risolversi in pochi mesi, mentre un fallimento può pendere per anni. Temporeggiare senza far nulla spesso allunga solo l’agonia e peggiora la situazione. Muoversi decisi con uno strumento adeguato invece dà una fine certa al tunnel, che sia attraverso il salvataggio o attraverso una chiusura ordinata.
D: Le sentenze che avete citato (Cassazione 2023/2024 ecc.) cosa indicano in pratica per il mio caso?
R: Le pronunce più recenti della Cassazione confermano una tendenza di rigoroso controllo ma anche di nuove opportunità: – Cass. 35497/2023 ha invalidato un tentativo del Fisco di far pagare all’amministratore tutti i debiti IVA/IRAP della società fallita, ricordando che l’azione ex art.36 DPR 602 va fatta con criterio (avviso dedicato e solo per imposte coperte dalla legge all’epoca) . Quindi dà una tutela procedurale agli amministratori: se il Fisco li chiama in causa, bisogna controllare che abbia seguito la procedura corretta, altrimenti l’atto è annullabile. – Cass. 20840/2023 e Cass. 23341/2024 ampliano invece la responsabilità dei soci: dicono sostanzialmente che i soci non possono pensare di cancellare la società e far perdere le tracce, restando impuniti. Anche le sanzioni tributarie ormai possono colpirli (entro il limite di attivo liquidato) . Quindi se un lettore fosse socio di una mensa e pensasse “la chiudo e nessuno mi chiederà nulla”, deve ricredersi: il Fisco e altri creditori potrebbero bussare a lui. – Cass. 26245/2025 (richiamata dal caso LexCED) ribadisce tutele per i lavoratori in appalto, sancendo che il giudice può applicare d’ufficio la normativa più favorevole (es. legge appalti pubblici) se i fatti sono quelli . Questo significa che in cause di lavoro i committenti in solido difficilmente sfuggiranno per questioni formali: la sostanza (i lavoratori non pagati) prevale. Dunque, per un imprenditore debitore, sapere ciò è utile perché può spingerlo a coinvolgere correttamente il committente negli sforzi di soluzione (meglio concordare un aiuto dal committente che trovarselo contro in giudizio). – Le varie pronunce sul cram-down fiscale e sulla falcidia IVA mostrano che i tribunali ormai omologano piani dove il Fisco prende meno del 100% (cosa prima impensabile) . Ciò rassicura che utilizzare accordi o concordati per risolvere i debiti fiscali non è più un salto nel buio: ci sono precedenti che dimostrano come funziona (ad esempio, Tribunale di Milano e altri hanno già applicato queste norme). Quindi un imprenditore può, con l’assistenza di legali, contare su quell’opportunità se necessaria. In sintesi, la giurisprudenza recente tutela i creditori (soci ed ex amministratori non la passeranno liscia se hanno colpe), ma fornisce anche strumenti innovativi per le soluzioni negoziate (non blocca più i tagli ai debiti pubblici se giustificati). Questo significa che, per difendersi bene, un debitore deve agire correttamente (niente furbizie di chiusure fittizie) e sfruttare i nuovi poteri offerti dalle norme in sede di concordato/accordo.
D: In tutto questo, che ruolo ha l’azienda committente della mensa? Può fare qualcosa per aiutare o per rivalersi?
R: Il committente, se non è parte correlata, è essenzialmente un cliente che però nei contratti di appalto può avere interesse a non far fallire il fornitore di mensa per evitare disservizi. Quindi può collaborare ad esempio concedendo anticipi sui corrispettivi dovuti, rinegoziando prezzi per rendere sostenibile la gestione, o come visto pagando direttamente i dipendenti (in caso di inadempimento) ed esercitando la rivalsa. In alcuni casi, se l’appalto è pubblico, il committente può attivare procedure di avvalimento o sostituzione dell’appaltatore in crisi. Se la mensa entra in concordato, il committente può decidere di continuare il contratto (se il servizio viene garantito) oppure potrebbe chiedere la risoluzione per inadempimento (dipende dalle circostanze e dalle clausole contrattuali). Dal punto di vista giuridico, il committente è un creditore (se ha dato anticipi) e un debitore (per i corrispettivi futuri) della società di mensa. Se la società della mensa fallisce, il committente dovrà trovarsi un nuovo gestore ma nel frattempo potrebbe dover gestire il passaggio dei dipendenti (spesso nelle gare è previsto il cambio appalto con assorbimento dei dipendenti alle stesse condizioni). In sintesi: il committente non ha obbligo di salvare il subappaltatore, ma ha convenienza a monitorarne la salute e magari supportare soluzioni di ristrutturazione se questo garantisce la continuità del servizio. Di contro, se subisce danni dal disservizio (es. mensa chiusa per sciopero perché l’appaltatore non paga gli stipendi), potrà rivalersi per i danni contrattuali: altro incentivo per intervenire prima che la situazione degeneri.
Gestisci una mensa aziendale privata, un servizio di ristorazione per imprese o enti, e ti ritrovi con debiti verso fornitori, banche, dipendenti o Agenzia delle Entrate? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Gestisci una mensa aziendale privata, un servizio di ristorazione per imprese o enti, e ti ritrovi con debiti verso fornitori, banche, dipendenti o Agenzia delle Entrate?
Hai cartelle esattoriali, mutui o leasing per attrezzature da cucina non pagati, contributi INPS arretrati o fatture scadute, e temi pignoramenti, blocchi bancari o la chiusura del servizio?
👉 Non farti travolgere: la legge oggi ti consente di bloccare i creditori, ridurre o cancellare i debiti, e proteggere la tua attività grazie agli strumenti previsti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019).
In questa guida scoprirai perché molte mense aziendali private finiscono in difficoltà, quali strategie legali adottare, e come difenderti per salvare o chiudere in modo protetto la tua impresa.
🍽️ Perché le mense aziendali si indebitano
Il settore della ristorazione aziendale privata, anche se stabile, è spesso esposto a forti pressioni economiche. Le principali cause di crisi sono:
- Ritardi nei pagamenti da parte di aziende o enti convenzionati;
- Aumenti dei costi alimentari ed energetici;
- Mutui o leasing onerosi per cucine industriali e impianti di refrigerazione;
- Tassazione e contributi elevati rispetto ai margini;
- Personale numeroso e costi del lavoro difficili da sostenere;
- Errori fiscali, multe sanitarie o cartelle esattoriali.
📌 Tutto questo può generare rapidamente debiti fiscali, bancari e commerciali, con il rischio di chiusura forzata e perdita di commesse.
🧾 Tipologie di debiti più comuni nelle mense aziendali
✅ Debiti fiscali e contributivi
- IVA, IRPEF, INPS, INAIL, TARI, cartelle esattoriali e accertamenti.
✅ Debiti bancari e finanziari
- Leasing per cucine, celle frigorifere, attrezzature di ristorazione o automezzi.
- Mutui per ristrutturazione o ampliamento dei locali.
✅ Debiti commerciali
- Fatture non pagate a fornitori di alimenti, bevande, detergenti o servizi di trasporto.
✅ Debiti verso dipendenti e collaboratori
- Stipendi arretrati, TFR e contributi previdenziali non versati.
✅ Debiti personali o garanzie fideiussorie
- Garanzie personali firmate dai titolari o amministratori su prestiti aziendali.
⚠️ Cosa rischia una mensa aziendale indebitata
Se non affronti la situazione in tempo, potresti subire:
- pignoramenti di conti correnti o attrezzature da cucina;
- revoca di fidi o leasing bancari;
- blocchi nei pagamenti delle aziende clienti;
- iscrizioni di ipoteche o azioni giudiziarie;
- chiusura del servizio per mancanza di liquidità o di personale.
👉 Tuttavia, puoi bloccare tutto legalmente, ristrutturare i debiti e salvare la tua attività, anche se la situazione è già compromessa.
🧩 Le soluzioni legali per mense aziendali con debiti
💠 1. Rinegoziazione dei debiti con banche e fornitori
Con l’assistenza di un avvocato, puoi ottenere:
- riduzioni delle somme dovute (saldo e stralcio);
- piani di rientro sostenibili;
- sospensioni temporanee dei pagamenti per recuperare liquidità.
👉 È la soluzione ideale per chi ha ancora contratti attivi e vuole continuare a lavorare.
💠 2. Procedura di sovraindebitamento (D.Lgs. 14/2019 – Codice della Crisi d’Impresa)
È lo strumento perfetto per microimprese o ditte individuali che non riescono più a pagare.
Consente di:
- bloccare tutte le azioni dei creditori (cartelle, pignoramenti, decreti);
- proporre un piano di rientro parziale, basato sulle entrate reali;
- ottenere la cancellazione totale dei debiti residui (esdebitazione).
📌 È ideale per attività gestite in forma familiare o individuale.
💠 3. Concordato minore (per SRL, cooperative o società di ristorazione)
È una procedura approvata dal Tribunale che permette di:
- bloccare subito pignoramenti e riscossioni;
- ridurre legalmente i debiti fiscali e bancari;
- preservare la continuità aziendale e i rapporti con aziende clienti.
📌 È la soluzione adatta per mense strutturate che gestiscono più sedi o convenzioni.
💠 4. Liquidazione controllata dei beni (ex fallimento personale)
Se l’attività non è più sostenibile, puoi chiudere in modo ordinato e protetto, mettendo a disposizione solo i beni non indispensabili (attrezzature dismesse, scorte alimentari, veicoli).
Al termine, il Tribunale cancella tutti i debiti residui, permettendoti di ricominciare senza pendenze.
💠 5. Verifica e contestazione di cartelle e accertamenti fiscali
Molte cartelle contengono errori di calcolo o importi prescritti.
Un avvocato può:
- controllare la prescrizione (5 o 10 anni);
- eccepire vizi di notifica o duplicazioni;
- chiedere la sospensione o l’annullamento del debito.
🍲 Cosa fare subito
✅ 1. Analizza la situazione debitoria nel dettaglio
Raccogli cartelle, bilanci, contratti, leasing, mutui, fatture e spese di personale.
✅ 2. Blocca i creditori con una procedura legale
Con il deposito di un piano in Tribunale (sovraindebitamento o concordato), tutti i creditori devono sospendere le azioni di recupero.
✅ 3. Evita nuovi debiti o rateizzazioni improvvisate
Molte rateizzazioni “veloci” peggiorano la situazione. Serve una strategia legale completa e approvata dal Tribunale.
📋 Documenti utili per la difesa
- Documento d’identità e codice fiscale del titolare o amministratore.
- Visura camerale e bilanci societari.
- Dichiarazioni fiscali e posizione INPS/INAIL.
- Contratti di mutuo, leasing e finanziamenti.
- Cartelle esattoriali e accertamenti fiscali.
- Elenco fornitori, clienti e dipendenti.
- Estratti conto bancari e documentazione contabile.
⏱️ Tempi e risultati possibili
- Analisi e strategia legale: 1–3 settimane.
- Deposito della procedura: 1–2 mesi.
- Sospensione dei creditori: immediata al deposito.
- Durata del piano di rientro: da 1 a 5 anni.
🎯 Risultati concreti:
- Stop a pignoramenti, ipoteche e cartelle.
- Riduzione o cancellazione legale dei debiti residui.
- Tutela dell’attività e dei contratti con clienti aziendali.
- Ripartenza economica e reputazionale.
⚖️ I vantaggi principali
✅ Blocco immediato di tutte le azioni dei creditori.
✅ Riduzione legale dei debiti fino all’80%.
✅ Continuità operativa e mantenimento dei contratti.
✅ Tutela del personale e dei beni aziendali.
✅ Possibilità di chiudere legalmente e ripartire senza pendenze.
🚫 Errori da evitare
- Ignorare cartelle, diffide e notifiche fiscali.
- Accumulare nuovi debiti per coprire i vecchi.
- Pagare solo alcuni creditori peggiorando la situazione complessiva.
- Affidarsi a “consulenti del debito” non avvocati o non qualificati.
- Aspettare troppo tempo prima di agire.
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🔁 Ti assiste fino alla cancellazione definitiva dei debiti o alla ristrutturazione completa dell’attività di ristorazione.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto commerciale, tributario e crisi d’impresa.
✔️ Specializzato nella difesa di imprese della ristorazione e servizi alimentari con debiti fiscali e bancari.
✔️ Gestore della crisi da sovraindebitamento iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Essere una mensa aziendale privata con debiti non significa dover chiudere o rinunciare alla propria attività.
Con una difesa legale tempestiva e mirata, puoi bloccare i creditori, ridurre o cancellare i debiti fiscali e bancari, e continuare a offrire i tuoi servizi in modo regolare e sicuro.
Il Codice della Crisi d’Impresa tutela chi agisce con trasparenza e vuole davvero risolvere la propria situazione debitoria.
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