Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché il conferimento della tua azienda o di un suo ramo è stato qualificato come operazione elusiva? In questi casi, l’Ufficio presume che l’operazione non abbia una reale giustificazione economica e sia stata realizzata solo per ottenere vantaggi fiscali indebiti, come l’abbattimento della base imponibile o il differimento delle imposte. La conseguenza è il recupero delle somme risparmiate, con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: vi sono strumenti difensivi per dimostrare la validità del conferimento.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta un conferimento d’azienda
– Se il conferimento è seguito da cessioni immediate di quote o partecipazioni
– Se l’operazione non ha un reale motivo organizzativo o gestionale, ma solo fiscale
– Se il valore attribuito all’azienda conferita appare incongruo rispetto al valore di mercato
– Se emergono anomalie tra l’assetto societario post-conferimento e l’attività effettiva
– Se l’operazione è ritenuta strumentale a trasferire beni o attività evitando tassazioni dirette
Conseguenze della contestazione
– Riqualificazione del conferimento come atto elusivo o come cessione imponibile
– Recupero delle imposte dirette e indirette considerate evase
– Applicazione di sanzioni per abuso del diritto o infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Maggiori controlli fiscali anche su altre operazioni societarie collegate
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’esistenza di valide ragioni economiche, gestionali e organizzative alla base del conferimento
– Produrre documentazione societaria, contrattuale e valutazioni indipendenti a supporto dell’operazione
– Contestare la riqualificazione dell’operazione se basata solo su presunzioni e non su prove concrete
– Evidenziare vizi di motivazione, difetti procedurali o decadenza dei termini nell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare l’atto di conferimento e la documentazione contabile e fiscale correlata
– Verificare la legittimità della contestazione secondo la normativa fiscale e societaria
– Redigere un ricorso fondato su motivazioni giuridiche e prove documentali
– Difendere la società davanti ai giudici tributari contro pretese fiscali indebite
– Tutelare i soci e gli amministratori da conseguenze patrimoniali eccessive
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– Il riconoscimento della legittimità del conferimento d’azienda
– L’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate dall’Agenzia
– La certezza di gestire le operazioni societarie in modo libero e conforme alla legge
⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Se non si agisce nei termini, la pretesa diventa definitiva e non sarà più possibile difendersi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni sui conferimenti d’azienda e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Nel panorama fiscale italiano, le operazioni straordinarie d’impresa – come i conferimenti d’azienda – possono offrire legittime opportunità di pianificazione fiscale, ma talvolta vengono contestate dall’Amministrazione finanziaria come operazioni elusive. In particolare, il conferimento di un’intera azienda o di un ramo d’azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni ricevute in cambio è spesso oggetto di attenzione da parte del Fisco, che può sospettare un intento di risparmio d’imposta indebito (cd. abuso del diritto). Negli ultimi anni, il dibattito su queste operazioni è stato animato da importanti interventi normativi (come l’introduzione nel 2015 di una clausola generale antielusiva) e da numerose pronunce giurisprudenziali di legittimità, fino alle più recenti del 2024-2025.
Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – offre un’analisi approfondita su come difendersi efficacemente in caso di contestazione di un conferimento d’azienda quale operazione elusiva. Verranno esaminati i riferimenti normativi rilevanti (in materia di imposte dirette, IVA, abuso del diritto e antielusione), il point of view del contribuente (debitore) coinvolto, nonché i profili penal-tributari connessi (ad es. possibili implicazioni ex art. 11 D.Lgs. 74/2000).
Adotteremo un linguaggio tecnico-giuridico, ma con intento divulgativo: ogni concetto sarà spiegato in modo chiaro, arricchito da esempi pratici, domande & risposte, e tabelle riepilogative utili a riassumere i punti chiave. L’obiettivo è fornire a professionisti legali, imprenditori e privati uno strumento completo per comprendere quando un’operazione di conferimento può essere etichettata come elusiva e, soprattutto, quali strategie difensive porre in atto per tutelare il contribuente nei confronti delle pretese fiscali e di eventuali accuse di violazione.
Inizieremo definendo cosa si intende per conferimento d’azienda e come funziona la sua disciplina fiscale, per poi esaminare il concetto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano. Successivamente, focalizzeremo l’attenzione sul caso tipico del conferimento d’azienda seguito dalla vendita delle quote: ne analizzeremo le finalità, i benefici fiscali, il trattamento previsto dalla legge e l’evoluzione della giurisprudenza (spesso oscillante tra la qualificazione come scelta lecita o come schema elusivo). Verranno forniti consigli pratici su come difendersi in sede di accertamento tributario, evidenziando oneri probatori e garanzie procedurali.
Dedicheremo poi uno spazio ai profili penal-tributari, spiegando quando un conferimento d’azienda effettuato in presenza di debiti tributari può sfociare nel reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) e come impostare una corretta difesa anche in sede penale.
La parte finale proporrà una serie di Domande e Risposte frequenti (FAQ), per chiarire i dubbi più comuni, e alcune tabelle riepilogative che condensano le informazioni principali: ad esempio il confronto tra pianificazione fiscale lecita ed abuso, il riassunto delle principali sentenze recenti in materia, e uno schema quantitativo dei vantaggi fiscali ottenibili con certe operazioni rispetto all’alternativa immediata tassata.
Nel corso dell’esposizione verranno citate fonti normative e giurisprudenziali aggiornate (Corte di Cassazione, prassi dell’Agenzia delle Entrate, ecc.), in modo da fornire riferimenti autorevoli a supporto di ogni affermazione chiave.
Passiamo dunque ad esaminare nel dettaglio il tema, iniziando dalla nozione e dalla disciplina del conferimento d’azienda.
Nozione di conferimento d’azienda e disciplina generale
Per conferimento d’azienda si intende quell’operazione mediante la quale un soggetto trasferisce un’intera azienda (o un ramo autonomo di essa) ad un altro soggetto giuridico, tipicamente una società, ricevendo in cambio partecipazioni (azioni o quote) del capitale della società conferitaria. In altri termini, il conferente apporta il complesso aziendale in una società – che può essere preesistente o neo-costituita appositamente – ottenendo come corrispettivo non denaro ma una partecipazione nel capitale sociale. Si tratta di un’operazione di natura extraordinaria, distinta dalla compravendita di azienda in senso stretto (dove il corrispettivo è in denaro), ma che civilisticamente produce un analogo effetto di trasferimento della titolarità dell’azienda.
Il conferimento d’azienda è disciplinato da norme civilistiche (ad es. richiamo alle regole sulla cessione di azienda, artt. 2558-2560 c.c., per effetti su contratti, crediti, debiti, ecc.), ma qui interessa soprattutto il profilo fiscale. Dal punto di vista tributario, infatti, questa operazione può godere di trattamenti di favore: il legislatore ha previsto regimi di neutralità fiscale o di tassazione agevolata per i conferimenti d’azienda effettuati nell’ambito di riorganizzazioni societarie, al fine di non ostacolare i processi di aggregazione o ristrutturazione aziendale. Tali regimi, tuttavia, possono prestarsi ad un uso strumentale qualora l’operazione venga posta in essere essenzialmente per ottenere risparmi d’imposta e non per reali esigenze economiche: in tal caso l’Amministrazione potrebbe invocare la disciplina sull’abuso del diritto (elusione fiscale).
Nei paragrafi seguenti vedremo dapprima come funziona la disciplina fiscale del conferimento d’azienda – distinguendo gli effetti in materia di imposte sui redditi, IVA e imposte indirette (registro) – e successivamente affronteremo il concetto di operazione elusiva (abuso del diritto), per poi combinare le due prospettive nell’analisi delle contestazioni tipiche e delle difese possibili.
Trattamento fiscale del conferimento d’azienda
Imposte dirette (IRES/IRPEF) e regimi di neutralità
In assenza di previsioni specifiche, il conferimento di un’azienda configurerebbe per il conferente una cessione di azienda imponibile, con emersione di plusvalenze tassabili (differenza tra il valore di realizzo – ossia il valore delle partecipazioni ricevute – e il valore contabile netto dell’azienda ceduta). Tuttavia, l’ordinamento tributario italiano prevede un regime di neutralità fiscale per tali operazioni, disciplinato dall’art. 176 del TUIR (D.P.R. 917/1986). In particolare, l’art. 176, comma 1, TUIR consente al conferente di non riconoscere alcuna plusvalenza imponibile al momento del conferimento, a condizione che vengano mantenuti, nella contabilità della società conferitaria, i medesimi valori fiscalmente riconosciuti che l’azienda aveva presso il conferente (cd. “regime di continuità dei valori fiscali”). In alternativa, è possibile optare per un regime di imposta sostitutiva sulle plusvalenze emergenti (pagando un’imposta agevolata per affrancare i maggiori valori). Questo significa che il trasferimento avviene in sospensione d’imposta: il conferente non paga immediatamente le imposte sulla plusvalenza dell’azienda conferita, e la società conferitaria “eredita” i valori fiscali storici (se neutralità pura) o li riallinea parzialmente pagando la sostitutiva.
Accanto a tale regime di favore, il legislatore ha previsto importanti paletti antielusivi. Proprio il citato art. 176, comma 3, TUIR stabilisce espressamente (nel testo vigente fino al 2015) che non si considera elusiva l’operazione di conferimento dell’azienda in regime di continuità di valori (o con imposizione sostitutiva) seguita dalla cessione delle partecipazioni ricevute in cambio, finalizzata a fruire di esenzioni o regimi fiscali agevolati sulla plusvalenza . In altre parole, la legge aveva già riconosciuto che uno degli scopi possibili del conferimento d’azienda è quello di trasformare la natura del cespite (da azienda a partecipazione) per poi cedere quest’ultima usufruendo di regimi più favorevoli – ad esempio la Participation Exemption (PEX) di cui all’art. 87 TUIR (esenzione del 95% delle plusvalenze su partecipazioni societarie detenute da almeno 12 mesi), oppure l’applicazione per le persone fisiche dell’esenzione parziale ex art. 58 e 68, co. 3 TUIR (regime previgente sulle plusvalenze da cessione di partecipazioni qualificate) . Tali combinazioni, per espressa previsione normativa, non costituivano abuso ai tempi dell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 (la norma antielusiva all’epoca vigente).
Esempio: se una società Alfa possiede un ramo d’azienda con valori storici bassi e intende venderlo a terzi per 10 milioni di euro, potrebbe alternativamente: (a) vendere direttamente il ramo, pagando l’IRES sul plusvalore realizzato; (b) conferire il ramo in una NewCo Beta, beneficiando della neutralità (nessuna tassazione immediata) e quindi cedere le quote di Beta al terzo acquirente. Seguendo lo schema (b), Alfa può usufruire dell’esenzione PEX sulla plusvalenza da cessione delle quote Beta (95% esente) se soddisfa le condizioni, con un enorme risparmio fiscale. La Tabella 1 in calce confronta numericamente i due scenari evidenziando il vantaggio ottenuto.
Va evidenziato che, dal punto di vista delle imposte dirette, un’operazione che rispetti i requisiti di legge (continuità dei valori o pagamento della sostitutiva, mantenimento delle partecipazioni ricevute per il periodo richiesto da PEX, ecc.) e rientri nei casi previsti di esclusione non dovrebbe essere considerata elusiva, in quanto il vantaggio fiscale ottenuto è frutto di una scelta esplicitamente consentita dal legislatore. Proprio la norma speciale (art. 176, c.3) “esclude in modo specifico ed indubitabile che l’operazione sopra descritta possa essere aggredita come operazione elusiva” . Questo principio era valido sotto il vecchio regime antielusivo (art. 37-bis) ed è destinato a conservarsi anche sotto l’attuale art. 10-bis L. 212/2000, giacché – come vedremo – un risparmio d’imposta non è abusivo se conforme alla finalità delle norme e se l’ordinamento offre esplicitamente più opzioni al contribuente.
In sintesi, se il conferimento d’azienda e la successiva cessione di partecipazioni avvengono rispettando la normativa fiscale (art. 176 TUIR, requisiti PEX, ecc.), il risparmio di imposta ottenuto (ossia la differenza di tassazione rispetto a una cessione diretta) è da considerarsi, sul piano delle imposte dirette, un risparmio legittimo. Non di meno, l’Amministrazione potrebbe sindacare l’operazione se ritiene che manchino completamente motivazioni economiche sostanziali: su questo profilo, però, entra in gioco la disciplina generale dell’abuso del diritto (che affronteremo più avanti), la quale richiede un’analisi approfondita caso per caso.
IVA e imposte indirette (Registro)
IVA: La cessione (o conferimento) di un’intera azienda è fuori dal campo di applicazione dell’IVA. Ciò è stabilito espressamente dall’art. 2, comma 3, lett. b) del D.P.R. 633/1972, in recepimento di quanto previsto dall’ordinamento UE (art. 19 Direttiva 2006/112/CE): “non sono considerate cessioni di beni […] le cessioni e i conferimenti in società o altri enti che hanno per oggetto aziende o rami di aziende” . Dunque il trasferimento di un complesso aziendale organizzato non genera fatturazione IVA – diversamente dalla vendita di singoli beni – ed è soggetto invece all’imposta di registro. Questo significa che, se un contribuente trasferisce un’azienda come tale, evita l’IVA che avrebbe colpito le cessioni frazionate dei singoli beni che la compongono. Dal punto di vista antielusivo, può porsi il problema inverso: l’Amministrazione finanziaria potrebbe contestare che un’operazione presentata come cessione (o conferimento) d’azienda in realtà mascheri una cessione di beni imponibili IVA. Ciò avviene, ad esempio, quando il complesso trasferito non costituisce un’autonoma organizzazione (mancando elementi essenziali per la funzionalità d’impresa): in tal caso, si configurerebbe una cessione di singoli asset, soggetta a IVA secondo le regole ordinarie. Le dispute in materia IVA concernono quindi la qualificazione del trasferimento – azienda vs beni isolati – più che l’abuso del diritto, ma rientrano comunque nelle attenzioni del contribuente in fase di strutturazione dell’operazione (bisogna assicurarsi che il perimetro conferito integri un ramo d’azienda autentico, con organizzazione propria, per beneficiare della non imponibilità IVA).
Imposta di registro: Il trasferimento di azienda sconta l’imposta di registro proporzionale, in misura diversa a seconda dei beni coinvolti (aliquota del 3% sul valore di avviamento e beni mobili, aliquote fisse o diverse per immobili ecc.). Al contrario, gli atti di conferimento d’azienda e la successiva cessione di partecipazioni societarie scontano ciascuno solo l’imposta fissa di registro (attualmente 200 € per ciascun atto). È evidente quindi l’incentivo fiscale, in termini di imposte indirette, nel segmentare l’operazione in due atti: conferimento + cessione di quote comporta un costo fiscale di registro nettamente inferiore rispetto alla cessione diretta dell’azienda (spesso di importo rilevante) .
Proprio su questo terreno (quello dell’imposta di registro) si sono registrate numerose controversie in passato. Fino a qualche anno fa, l’Amministrazione finanziaria tendeva a utilizzare l’art. 20 del D.P.R. 131/1986 (Testo Unico Registro) come strumento per riqualificare ai fini dell’imposta di registro una pluralità di atti collegati secondo la loro “intrinseca natura ed effetti giuridici”. In pratica, gli Uffici sostenevano che un conferimento d’azienda seguito a breve giro dalla cessione delle relative quote dovesse considerarsi, ai fini del registro, un’unica operazione di cessione d’azienda, con applicazione dell’imposta proporzionale sull’intero valore trasferito. Ciò anche senza dover provare alcun intento elusivo specifico a carico delle parti, in virtù dell’interpretazione letterale di art. 20 DPR 131/86 (secondo cui la qualificazione di un atto registrato va fatta in base agli effetti giuridici reali, prescindendo da titolo e forma apparente) .
Questa impostazione ha originato contrasto giurisprudenziale. La Corte di Cassazione inizialmente l’aveva avallata, affermando in sentenze del 2015-2016 che l’art. 20 legittimava la riqualificazione di una cessione totalitaria di quote come cessione d’azienda, in ragione dell’identità economica delle due operazioni (trasferimento della stessa entità produttiva) . Emblematica è la Cass. 8542/2016, la quale dichiarò che, ai fini dell’imposta di registro, il Fisco può riqualificare la vendita dell’intero capitale sociale come vendita dell’azienda sottostante, “senza essere tenuto a provare l’intento elusivo delle parti”, dati gli effetti economici equivalenti (passaggio del controllo e godimento dell’azienda) . Ciò comportava, per i contribuenti coinvolti, un aggravio fiscale notevole (imposta al 3% sul valore d’azienda, anziché imposta fissa) e apriva la via a potenziali contestazioni anche a posteriori, in sede di registrazione degli atti.
Tuttavia, in seguito vi è stato un cambio di rotta normativo e giurisprudenziale. Il legislatore, con la legge di bilancio 2018 (L. 205/2017, art. 1 commi 87-88) e poi con la L. 145/2018 (art. 1 comma 1084), ha chiarito in via di interpretazione autentica che l’art. 20 DPR 131/86 non ha natura antielusiva ma è solo una norma d’interpretazione del singolo atto. In pratica, non è consentito all’Amministrazione, in mancanza di una specifica norma impositiva, considerare atti tra loro collegati per applicare un prelievo maggiore: la qualificazione ai fini del registro deve basarsi sul contenuto dell’atto presentato (e sugli elementi desumibili da esso), “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati”. Questo orientamento è stato definitivamente avallato dalla Corte Costituzionale (sent. 158/2019) e fatto proprio dalla Cassazione. Di conseguenza, oggi la cessione di partecipazioni societarie, anche se totalitaria, sconta sempre l’imposta fissa e non può essere riqualificata come cessione d’azienda ai fini del registro, salvo ipotesi di simulazione . La stessa Cassazione, Sez. Trib., sent. 7495/2024 ha sancito il seguente principio di diritto: “anche in caso di cessione totalitaria della partecipazione al capitale di una società di persone o di capitali, l’imposta di registro deve essere sempre liquidata in misura fissa […], essendo preclusa all’amministrazione finanziaria – in assenza di elementi extratestuali o atti collegati – la riqualificazione della fattispecie nei termini di cessione indiretta di azienda, in forza dell’art. 20 del d.P.R. 131/1986 (come interpretato autenticamente dal legislatore nel 2017-2018)” .
Questa evoluzione è molto favorevole ai contribuenti, poiché di fatto neutralizza il rischio di contestazioni sull’imposta di registro per operazioni di conferimento + cessione poste in essere in epoca recente. Resta inteso che, laddove l’Amministrazione ravvisi profili di abuso del diritto, potrà comunque contestare l’operazione sotto il profilo delle imposte dirette (riprendendo a tassazione la plusvalenza non dichiarata) – ma dovrà seguire la procedura e onorare gli oneri probatori previsti per le contestazioni elusive, non potendo più utilizzare l’art. 20 come scorciatoia. In sostanza, dopo la riforma, il Fisco non può più riqualificare “automaticamente” un conferimento+cessione come cessione unica sul piano del registro; se ritiene che vi sia elusione, deve attivare la disciplina dell’abuso del diritto e dimostrare gli elementi qualificanti (assenza di sostanza economica e vantaggio fiscale indebito). Questo cambio di paradigma è stato evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale, la quale ha osservato che un uso antielusivo dell’art. 20, oltre a essere arbitrario, “consentirebbe all’amministrazione finanziaria di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale e senza riscontro di ‘indebiti’ vantaggi fiscali e operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima pianificazione fiscale” . In altre parole, dopo l’introduzione dell’art. 10-bis L. 212/2000 (clausola generale antielusiva), qualsiasi riqualificazione per contrastare un abuso deve passare per quel filtro, con le sue garanzie, e non può essere surrettiziamente realizzata tramite un’interpretazione economica ai fini del registro.
Conclusione sui profili IVA/Registro: chi effettua un conferimento d’azienda beneficia per legge dell’esonero da IVA (purché si tratti effettivamente di un’azienda/ramo e non di una mera somma di beni) e, se successivamente vende le partecipazioni, paga solo imposta fissa di registro. Tali vantaggi non costituiscono di per sé un abuso, essendo conseguenza dell’applicazione lineare di norme tributarie. Oggi, dopo le modifiche normative, un contribuente può con maggiore tranquillità pianificare operazioni di questo tipo senza temere la “stangata” dell’imposta di registro riqualificata. Rimane però aperta la questione della elusività ai fini delle imposte sui redditi, che verrà analizzata approfonditamente nei prossimi paragrafi, esaminando il concetto generale di abuso del diritto e come esso si applica (o meno) a casi come il conferimento seguito da cessione.
Abuso del diritto ed elusione fiscale: quadro normativo e giurisprudenziale
Per affrontare efficacemente una contestazione di natura elusiva, è fondamentale comprendere cosa si intenda per abuso del diritto in ambito tributario, quali siano i confini tra elusione ed evasione fiscale, e quali strumenti procedurali e di tutela siano previsti. In questa sezione forniremo un inquadramento generale dell’istituto dell’abuso del diritto nel sistema italiano, alla luce della sua evoluzione storica, della normativa vigente (art. 10-bis della Legge 212/2000, introdotto dal D.Lgs. 128/2015) e delle pronunce più autorevoli della Corte di Cassazione. Questo ci permetterà, successivamente, di applicare tali principi al caso specifico dei conferimenti d’azienda contestati.
Nozione di elusione fiscale e clausola antielusiva generale
L’elusione fiscale (o abuso del diritto tributario) si riferisce a quelle condotte del contribuente che, pur rispettando formalmente le leggi tributarie, sono realizzate essenzialmente per ottenere un risparmio d’imposta indebito, sfruttando in modo distorto strumenti giuridici leciti e privi di sostanza economica reale, in contrasto con gli scopi delle norme fiscali. È importante sottolineare che nell’abuso del diritto non vi è una violazione diretta di una disposizione tributaria (come invece accade nell’evasione), ma un uso anomalo di norme o strutture contrattuali finalizzato ad aggirare il principio di capacità contributiva. La Cassazione e la dottrina definiscono l’abuso come “l’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere vantaggi fiscali indebiti”. Esso costituisce oggi un principio di portata generale nel nostro ordinamento, derivato da elaborazioni giurisprudenziali (anche europee) e infine codificato in norma positiva.
In Italia, prima del 2015, l’abuso del diritto era contrastato principalmente attraverso disposizioni antielusive specifiche (come l’art. 37-bis del DPR 600/1973, introdotto nel 1997) e attraverso l’elaborazione giurisprudenziale del concetto di abuso come principio generale antitruffe (celebre la sentenza Cass. SS.UU. n. 30055/2008 che riconobbe l’abuso del diritto fiscale pur in assenza di norma generale). L’art. 37-bis elencava una serie di operazioni potenzialmente elusive (fusioni, scissioni, conferimenti, ecc. fatti senza valide ragioni economiche) e consentiva all’Amministrazione di disconoscerne i vantaggi se realizzate allo scopo prevalente di elusione. Tale norma era però limitata a specifici atti e soggetta a interpretazioni restrittive.
Dal 1° ottobre 2015, con l’attuazione della Delega Fiscale, è in vigore l’art. 10-bis dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000), che rappresenta la clausola generale anti-abuso valida per tutti i tributi. Esso ha abrogato contestualmente l’art. 37-bis e ha definito in termini chiari cosa si intende per operazione abusiva, quali sono gli elementi costitutivi e quali i limiti di applicazione, introducendo contestualmente garanzie procedurali per il contribuente.
In base all’art. 10-bis, configurano abuso del diritto le operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti (cioè contrari alla ratio delle norme fiscali o ai principi dell’ordinamento tributario). È richiesto quindi un concorso di tre elementi:
- Vantaggio fiscale ottenuto dal contribuente;
- Indebito di tale vantaggio, ossia contrastante con la finalità delle norme (aggiramento di obblighi o divieti tributari);
- Assenza di sostanza economica dell’operazione, valutata come inidoneità a produrre effetti economici significativi diversi dal risparmio d’imposta.
Tutti e tre questi elementi devono sussistere contemporaneamente affinché il Fisco possa qualificare l’operazione come abusiva . Vediamoli più in dettaglio, anche secondo le indicazioni fornite dal MEF nell’Atto di Indirizzo 2025:
- Vantaggio fiscale “indebito”: per “vantaggio fiscale” si intende qualunque risparmio d’imposta, rimborso, credito, deduzione, ecc., anche non immediato (inclusi differimenti significativi di imposizione) . Non basta però qualsiasi vantaggio: deve trattarsi di un beneficio “indebito”, cioè ottenuto “tradendo le finalità delle norme fiscali o in contrasto con i principi dell’ordinamento” . In pratica occorre verificare se il risultato fiscale ottenuto, per quanto formalmente aderente alle regole, frustra la ratio che sta alla base di quelle regole. Se invece il risparmio deriva proprio da una scelta che l’ordinamento vuole incentivare o permettere, non vi è indebito (es.: usufruire di un regime opzionale agevolato è di per sé legittimo). Il MEF ha sottolineato che questa valutazione di indebito vantaggio va condotta tenendo conto delle norme vigenti al momento dell’operazione , salvo interventi interpretativi retroattivi.
- Assenza di sostanza economica: l’art. 10-bis la definisce come inidoneità dell’operazione a produrre effetti economici apprezzabili, diversi dai vantaggi fiscali. Si guarda quindi alla realtà oggettiva dell’operazione, più che alle intenzioni dichiarate, valutando se al di là del risparmio tributario l’operazione abbia “effetti di rilievo” per il contribuente . Indici di mancanza di sostanza possono essere: la circularity (operazioni che si annullano o compensano), la presenza di passaggi artificiosi o interposti, la inconsistenza dei rischi o delle modifiche sostanziali nella posizione del contribuente. In termini semplici, un’operazione abusiva è spesso riconoscibile perché “non cambia nulla, tranne le tasse”. Se invece l’operazione modifica significativamente la struttura aziendale, l’allocazione di risorse, i rapporti giuridici, ecc., generando effetti economici genuini, sarà più difficile qualificarla come priva di sostanza.
- Essenzialità dello scopo fiscale (mancanza di valide ragioni extrafiscali): questo è il criterio che collega i primi due elementi. L’art. 10-bis dispone che “non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, rispondenti a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa”. Dunque, se il contribuente è in grado di provare che l’operazione era motivata da ragioni economico-giuridiche non marginali – ad esempio una riorganizzazione per ottenere efficienza, entrare in un nuovo mercato, ottimizzare la governance, esigenze successorie, reperimento di finanziatori, tutela patrimoniale, ecc. – allora non si è in presenza di abuso, anche se l’operazione comporta anche un risparmio d’imposta. La chiave di lettura è: le ragioni extrafiscali devono avere un peso talmente rilevante che, in assenza di quelle, l’operazione non sarebbe stata effettuata . Se invece, spogliata del vantaggio fiscale, l’operazione apparirebbe inutile o irrazionale, allora è segno che le ragioni addotte erano meramente pretestuose (marginali) e lo scopo reale era fiscale. Questo criterio riprende testualmente la nozione di “non marginalità” delle valide ragioni extrafiscali elaborata dalla prassi ministeriale e dalla relazione governativa al D.Lgs. 128/2015 . In sostanza, bisogna verificare la centralità o meno del beneficio fiscale: se quest’ultimo è solo un side effect di un’operazione altrimenti giustificata, niente abuso; se senza il risparmio d’imposta l’operazione non avrebbe avuto senso economico, allora c’è abuso.
Libertà di scelta del contribuente: va infine ricordato che l’art. 10-bis (comma 4) tutela espressamente il diritto del contribuente di scegliere tra regimi o operazioni alternativi previsti dalla legge quello fiscalmente meno oneroso, affermando che ciò, di per sé, non configura abuso. Ad esempio, se la legge offre un regime opzionale di tassazione agevolata, il contribuente è libero di optare per esso anziché per il regime ordinario; oppure, se per raggiungere un certo obiettivo economico vi sono due strade giuridiche entrambe lecite, ma con impatto fiscale diverso, optare per quella meno tassata è lecito . Questo principio era stato riconosciuto dalla giurisprudenza ancor prima della codificazione (si citano spesso Cass. 21953/2013 e Cass. SS.UU. 30055/2008: “il contribuente non ha l’obbligo di scegliere la via fiscalmente più onerosa se l’ordinamento gliene offre una lecita più vantaggiosa”). Oggi è legge scritta: solo quando si oltrepassa questo confine, entrando nell’aggiramento artificioso di norme, scatta l’abuso .
Elusione vs Evasione: differenze e implicazioni sanzionatorie
Distinguere l’abuso del diritto dall’evasione è cruciale, perché comporta conseguenze molto diverse sul piano delle sanzioni. Come già anticipato, nell’elusione fiscale il contribuente non viola direttamente una norma tributaria: adempie formalmente agli obblighi (dichiara, registra atti, ecc.), ma ne forza l’applicazione per ottenere un vantaggio improprio. Nell’evasione invece vi è violazione diretta di legge, ad esempio omessa dichiarazione di redditi, fatture false, sovrafatturazioni, simulazioni fraudolente, etc.
La normativa vigente, coerentemente, prevede che le operazioni abusive non diano luogo a violazioni sanzionabili in senso amministrativo o penale (salvo che i fatti integrino altre fattispecie di reato). In particolare, l’art. 10-bis L.212/2000 comma 13 stabilisce che l’abuso del diritto “non è punibile penalmente, né danno luogo a sanzioni amministrative tributarie”. L’unica conseguenza per il contribuente è il recupero delle imposte dovute e dei relativi interessi. Questa esimente però opera a condizione che il contribuente abbia tenuto un comportamento collaborativo e trasparente, ad esempio indicando nelle dichiarazioni fiscali l’esistenza di operazioni potenzialmente elusive (oggi è previsto un apposito campo nel modello dichiarativo) o comunque fornendo i chiarimenti richiesti. In assenza di disclosure, potrebbero applicarsi sanzioni per infedele dichiarazione, ma comunque mai quelle penali tipiche dell’evasione. Il ragionamento è: se l’operazione è solo elusiva ma tutta alla luce del sole, non c’è doloso occultamento, dunque niente sanzioni punitive .
Per contro, se il Fisco riesce a dimostrare che l’operazione non è stata solo un abuso ma una simulazione o una frode vera e propria (dunque un caso di evasione sostanziale), allora si esce dall’ambito dell’abuso e scattano le sanzioni ordinarie. Il confine può essere sottile: ad esempio, creare una società di comodo all’estero per spostare utili potrebbe configurare sia un abuso (se la società è vuota e senza sostanza economica) sia una simulazione (se si prova che il vero soggetto è rimasto il residente). In genere, l’Amministrazione preferisce contestare l’interposizione fittizia (simulazione) quando ha prove sufficienti, perché in tal caso applica sanzioni piene, mentre l’abuso – se dichiarato in trasparenza – non comporta sanzioni . Spesso infatti, in un accertamento tributario, il Fisco formula in via principale l’addebito di simulazione/evasione e in subordine l’abuso del diritto, in modo da coprire ogni evenienza probatoria.
Riassumendo:
- Abuso del diritto (elusione): operazione formalmente lecita ma priva di sostanza e con scopo fiscale predominante. Nessuna sanzione amministrativa, solo recupero della maggiore imposta dovuta; nessuna rilevanza penale. L’onere della prova è in capo all’Amministrazione, che deve dimostrare gli elementi dell’abuso; il contribuente può difendersi provando valide ragioni economiche. È un concetto residuale, sussidiario rispetto a frode/evasione .
- Evasione fiscale: violazione di norme (es. omessa dichiarazione, fatture false, simulazione assoluta). Sanzioni amministrative (spesso pesanti) e possibile rilievo penale (reati tributari) se superate soglie di punibilità. L’onere della prova di simulazioni e artifici è più rigoroso (servono riscontri oggettivi e intenzionali).
Per il contribuente accusato è fondamentale far qualificare la propria condotta come, al massimo, abuso del diritto e non come evasionefraudolenta, per evitare sanzioni e guai penali. È in questa luce che vanno predisposte le strategie difensive, come vedremo: fornire trasparenza, evidenziare la buona fede e l’assenza di intenti fraudolenti, presentare la sostanza economica vera dell’operazione o comunque la conformità alle scelte consentite dall’ordinamento.
Procedura di contestazione dell’abuso e onere della prova
L’art. 10-bis ha introdotto anche una procedura garantita per le contestazioni di abuso del diritto. In particolare, si prevede che il contribuente debba essere informato preventivamente dell’intenzione dell’Ufficio di procedere in tal senso e avere la possibilità di interlocuzione (diritto al contraddittorio preventivo obbligatorio). L’Amministrazione, prima di emettere un avviso di accertamento fondato su abuso del diritto, deve notificare al contribuente un apposito avviso nel quale sono indicati i motivi per cui ritiene configurabile l’abuso e i vantaggi indebiti contestati. Il contribuente ha 60 giorni per presentare osservazioni e controdeduzioni (memorie difensive). Solo trascorso tale termine – e tenendo conto delle risposte ricevute – l’Ufficio potrà emettere l’eventuale avviso di accertamento, motivandolo in riferimento alle deduzioni del contribuente. La violazione di questa procedura rende nullo l’atto impositivo.
In sede contenziosa, poi, valgono i normali principi: spetta all’Amministrazione dimostrare gli elementi oggettivi dell’abuso (collegamento tra atti, mancanza di sostanza economica, vantaggio fiscale ottenuto) e la “indebita” vantaggiosità fiscale. Una volta assolto tale onere, sta al contribuente provare l’eventuale esistenza di valide ragioni extrafiscali non marginali a giustificazione dell’operazione. La giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nel ritenere che la prova dell’abuso non può essere solo indiziaria o presuntiva, ma deve basarsi su elementi oggettivi e sull’analisi della operazione nel suo complesso. In caso di incertezza, vale il principio in dubio pro fisco? In realtà, l’art. 10-bis rappresenta anche un equilibrio: da un lato tutela il diritto del contribuente alla pianificazione fiscale lecita, dall’altro dota il Fisco di uno strumento di “chiusura” per colpire sole operazioni prive di sostanza. Interpretazioni eccessivamente estensive del concetto di abuso sono state sconsigliate dallo stesso MEF, che nel 2025 ha richiamato gli uffici a usarlo solo dove davvero appropriato, evitando di colpire operazioni con valide ragioni .
Dopo questa disamina generale, siamo pronti a rituffarci sul caso specifico che ci interessa: i conferimenti d’azienda seguiti dalla cessione delle partecipazioni ricevute. Si tratta di un classico esempio di operazione che il Fisco potrebbe ritenere sospetta, ma che, se ben strutturata, rientra nelle scelte legittime del contribuente. Analizzeremo il perché di tale operazione, quali sono gli effetti fiscali che genera (risparmi d’imposta), e come negli anni sia stata valutata dalla giurisprudenza – evidenziando i più recenti orientamenti che, come vedremo, la qualificano espressamente come “legittima scelta negoziale” e non come abuso quando vi è un minimo di sostanza economica sottostante.
Conferimento d’azienda seguito da cessione delle partecipazioni: elusione o legittima pianificazione?
Come anticipato, l’operazione di conferimento di azienda in una società neo-costituita seguito dalla cessione a terzi delle quote di partecipazione è uno schema relativamente comune nelle operazioni societarie. Vale la pena ricostruirne le motivazioni pratiche e i benefici fiscali, per poi confrontarli con la posizione del legislatore e della giurisprudenza, e infine delineare le possibili linee difensive per il contribuente a cui il Fisco contesti tale schema come elusivo.
Finalità economiche e vantaggi fiscali dello schema conferimento + cessione
Dal punto di vista economico, suddividere un’operazione di dismissione in due fasi (conferimento e successiva vendita delle quote) può avere diverse finalità lecite: – Separare un ramo d’azienda in una società ad hoc (spin-off) per renderne più agevole la cessione a terzi (soprattutto se l’acquirente vuole acquisire soltanto quella parte e non l’intera azienda originaria). – Limitare la responsabilità per il cedente e/o l’acquirente, isolando il perimetro ceduto in un veicolo societario (la NewCo conferitaria) che sarà trasferito “chiavi in mano” all’acquirente. – Consentire all’acquirente di subentrare indirettamente nella titolarità dell’azienda mantenendo determinati rapporti contrattuali in capo ad essa (in alcuni contesti la cessione di quote può essere più semplice da gestire della cessione di singoli contratti aziendali, benché la cessione d’azienda in blocco li trasferisca comunque ex lege). – Ottenere vantaggi contabili o finanziari: ad esempio, il conferente potrebbe incassare non solo il corrispettivo della cessione ma anche, prima, eventuali dividendi prelevati dalla NewCo (frutto di riserve formatesi con il conferimento), riducendo la consistenza patrimoniale ceduta, oppure potrebbe mantenere temporaneamente un interesse nell’azienda conferita per poi cederlo gradualmente. Insomma, ci possono essere ragioni strategiche e non solo fiscali.
Tuttavia, è innegabile che uno dei principali motivi di utilizzo di questo schema sia il risparmio di imposta. Come già esposto nella sezione sulle imposte dirette, vendere un’azienda direttamente genera una plusvalenza interamente imponibile in capo al venditore; vendere quote societarie può invece beneficiare di regimi di esenzione.
Si consideri un esempio numerico semplificato (ripreso anche nella Tabella riepilogativa 1): – Valore di mercato dell’azienda: 10.000.000 €; valore contabile netto dell’azienda: 1.000.000 € → plusvalenza potenziale: 9.000.000 €. – Caso A – Cessione diretta d’azienda: il venditore (supponiamo sia una S.p.A.) realizzerebbe 9.000.000 € di plusvalenza tassabile IRES al 24%, pagando circa 2.160.000 € di imposte. – Caso B – Conferimento in NewCo e cessione quote: il venditore (S.p.A.) conferisce l’azienda in una sua NewCo beneficiando della neutralità (nessuna tassazione immediata). Dopo almeno 12 mesi, cede la partecipazione in NewCo al terzo acquirente. Se sono rispettati i requisiti PEX (art. 87 TUIR: partecipazione >10%, detenuta >12 mesi, azienda operativa, ecc.), la plusvalenza sulla cessione delle quote (anch’essa di 9.000.000 € teorici) sarà esente al 95% e tassata solo per il 5%, ossia 450.000 €, con imposta di circa 108.000 €. Il risparmio d’imposta complessivo rispetto al caso A è enorme (oltre 2 milioni di euro). Anche considerando che la PEX richiede un anno di holding period, l’operazione appare comunque estremamente vantaggiosa in termini finanziari.
È evidente che un risparmio del genere può costituire un forte incentivo a preferire lo schema conferimento+cessione. E come abbiamo visto, il legislatore non ha vietato questa scelta, anzi l’ha contemplata nel definire i regimi di neutralità e PEX. Dunque, sfruttare un’opportunità offerta dalla legge – quale è la cessione di partecipazioni esente – non è di per sé illecito né abusivo, purché non si traduca in una mera “costruzione artificiosa” priva di sostanza.
La posizione del legislatore e della Cassazione: legittimità dello schema in sé
Come già ricordato, l’art. 176 comma 3 TUIR (nel testo introdotto dal D.Lgs. 344/2003) escludeva espressamente l’applicabilità dell’antielusione al conferimento d’azienda seguito dalla cessione di partecipazioni per fruire di PEX o analoghe esenzioni . Questa norma può essere vista come un “salvacondotto” legislativo, che indica la volontà di considerare lecita la pianificazione fiscale volta a trasformare una cessione di azienda in cessione di quote.
Tale impostazione è stata in parte confermata e in parte messa in discussione dalla giurisprudenza. Sul fronte delle imposte dirette, non risultano pronunce che abbiano mai riqualificato un conferimento+cessione come vendita diretta (anche perché durante la vigenza di art. 37-bis ciò era precluso dalla norma stessa). Sul fronte delle imposte indirette (registro), come visto, vi fu il contrasto poi risolto dal legislatore. Ma ciò che più conta, è interessante osservare come la stessa Corte di Cassazione abbia chiarito che tale schema, in presenza di reali scelte imprenditoriali, NON costituisce abuso del diritto bensì esercizio lecito dell’autonomia negoziale.
Un passaggio fondamentale si trova nella sentenza Cass. 2054/2017 (Sez. Tributaria), la quale – decidendo proprio in materia di imposta di registro su un caso di conferimenti di rami d’azienda seguiti da cessione di quote – ha affermato due principi chiave: (a) l’art. 20 DPR 131/86 non è una norma antielusiva e non consente riqualificazioni economiche; (b) “un’operazione di conferimento di ramo d’azienda seguita dalla cessione delle quote può configurare un’ipotesi di legittima scelta di un tipo negoziale invece di un altro”, quindi non va necessariamente considerata una cessione d’azienda dissimulata . In particolare, la Cassazione, esaminando quel caso, rilevò l’assenza di un intento abusivo e la presenza di ragioni economiche lecite, affermando testualmente che dall’analisi sostanziale “non rileva alcuna elusione nell’operazione esaminata, che appare piuttosto come un’ipotesi di legittima scelta di un tipo negoziale invece di un altro” . Questa frase – “legittima scelta di un tipo negoziale” – è di enorme rilevanza: riconosce in sostanza il diritto del contribuente di scegliere la via conferimento+cessione al posto della cessione diretta, come scelta tra due opzioni contrattuali possibili, senza che ciò implichi di per sé un abuso.
Va detto che in Cass. 2054/2017 il contesto era influenzato anche dal mutato quadro normativo dell’art. 20, ma la Corte ha comunque valutato l’operazione sotto il profilo dell’abuso del diritto sostanziale, concludendo che non ve n’era traccia in quel caso.
Anche successivamente, la giurisprudenza di legittimità ha mantenuto un approccio cauto: la Cassazione tende oggi a sanzionare come abusive solo quelle operazioni che appaiono sprovviste di qualsiasi ragione extrafiscale e attuate in modo artificioso. Ad esempio, la Cass. 23225/2022 (ord.) ha ribadito che costituisce abuso ogni operazione economica in cui l’elemento predominante ed assorbente sia lo scopo elusivo, sottolineando che l’indagine va fatta in concreto e che se invece vi sono ragioni economiche non marginali lo schema non può essere disconosciuto .
In sintesi, lo schema conferimento d’azienda + cessione quote, di per sé, non è vietato. Anzi, se attuato rispettando le condizioni normative (neutralità, PEX) e con un minimo di sostanza (ad esempio mantenendo la struttura per un certo periodo, inserendo l’azienda in un contesto societario operativo), non deve essere automaticamente etichettato come abuso. È una “pianificazione fiscale” ammessa, coerente col principio di libertà di scelta del contribuente tra percorsi alternativi . Naturalmente, come ogni pianificazione fiscale, può essere oggetto di scrutinio: ma il contribuente in sede di difesa potrà far valere sia il dato normativo favorevole, sia la giurisprudenza che riconosce la liceità dello schema in presenza di valide motivazioni.
Difendersi dalla contestazione di elusività: oneri e strategie
Nonostante il quadro normativo-giurisprudenziale tendenzialmente favorevole appena delineato, non sono rari i casi in cui l’Agenzia delle Entrate contesti a posteriori un conferimento d’azienda seguito da cessione sostenendo che si tratti di un’operazione priva di sostanza, effettuata solo per abbattere le imposte (ossia un abuso del diritto). Ciò può avvenire, ad esempio, quando le due operazioni (conferimento e vendita quote) sono avvenute in rapida sequenza temporale o addirittura contestualmente pattuite, suggerendo all’Ufficio che il “giro” societario sia stato meramente strumentale. Oppure quando emergono documenti interni, o dichiarazioni, che lasciano intendere che l’unico motivo del conferimento era risparmiare sulle tasse.
Di fronte a una simile contestazione (in genere formalizzata con un avviso di accertamento che recupera la plusvalenza come se l’azienda fosse stata ceduta direttamente, negando la PEX o la neutralità), il contribuente ha vari argomenti di difesa da far valere:
- Richiamare il dettato normativo e di prassi: evidenziare che l’operazione era perfettamente conforme alle norme vigenti. Ad esempio: il conferimento è avvenuto in neutralità ex art.176 TUIR, la successiva cessione ha rispettato tutte le condizioni per l’esenzione PEX (partecipazione qualificata, possesso >12 mesi, società operativa, etc.), e la stessa normativa fiscale prevedeva espressamente tale facoltà senza considerarla elusiva . In altri termini, il vantaggio fiscale conseguito non è “indebito” ma rientra nelle previsioni legali. Spesso è utile citare anche eventuali documenti di prassi o circolari ministeriali: ad esempio la Circ. Assonime n.21/2016 e le circolari Agenzia Entrate 6/E e 10/E del 2016, che hanno commentato l’art. 10-bis, chiarendo che non c’è abuso quando il risparmio deriva dall’esercizio legittimo di opzioni previste dalla legge. Se l’operazione rientra in un caso espressamente escluso dall’abuso (come da art.176 c.3 per il passato), questo va posto in rilievo sin da subito.
- Dimostrare le ragioni extrafiscali non marginali: è probabilmente l’aspetto più importante. Bisogna fornire al giudice tributario (o al Fisco in sede di contraddittorio) la prova che il conferimento era giustificato da esigenze oggettive, e che la sequenza scelta aveva scopi economici propri. Ad esempio: “Abbiamo conferito il ramo X in una NewCo perché volevamo concentrare quel business separatamente per attrarre investitori, o per poter negoziare meglio con il compratore solo quella parte, isolando passività potenziali; inoltre l’operazione ha permesso di mantenere la continuità contrattuale di forniture e dipendenti all’interno della NewCo, agevolando il passaggio di proprietà. L’acquirente infatti preferiva rilevare quote societarie per subentrare più facilmente in certi contratti.” Queste motivazioni, se supportate da documentazione (verbali CDA, perizie di conferimento, lettere dell’acquirente che richiede una certa struttura, pareri professionali, ecc.), mostrano che c’era una logica commerciale nell’operazione. Anche semplici considerazioni organizzative – ad esempio la volontà di separare il patrimonio ceduto per evitare commistioni di debiti/crediti tra venditore e acquirente – possono costituire “valide ragioni extrafiscali” secondo la norma. Occorre insistere che tali ragioni non erano marginali, ossia erano talmente rilevanti che senza di esse l’operazione non si sarebbe fatta, o si sarebbe fatta in altro modo. Se vi sono prove che inizialmente erano allo studio anche altre opzioni (come la cessione diretta) ma poi fu scelta la via del conferimento per tali ragioni, si può produrle. In mancanza di “prove fumanti”, si può ricorrere a testimonianze o presunzioni semplici: e.g. mettere in evidenza che l’operazione era complessa e costosa (notai, perizie, tempi) e quindi si giustifica solo se c’erano motivazioni serie al di là del fisco.
- Evidenziare la sostanza economica e gli effetti reali: collegato al punto precedente, si tratta di mostrare che l’operazione ha prodotto effetti significativi diversi dal mero risparmio fiscale. Ad esempio, dopo il conferimento la NewCo conferitaria ha operato effettivamente per un certo periodo, o magari sono entrati nuovi soci, oppure il conferente ha utilizzato le azioni ricevute come garanzia per finanziamenti (tutti elementi sintomatici di “non artificialità”). Anche il fatto di aver mantenuto la partecipazione per più di un anno prima di cederla – già richiesto dalla PEX – gioca a favore del contribuente: dimostra che non c’è stato un giro di valzer istantaneo, ma un’operazione diluita nel tempo, potenzialmente suscettibile anche di ripensamenti. La sostanza economica può essere provata pure indicando che, ad esempio, l’acquirente era interessato a quella specifica struttura societaria (NewCo pulita col solo ramo) e che senza quell’operazione preparatoria la vendita non sarebbe avvenuta alle stesse condizioni. In breve, bisogna smontare l’assunto dell’Ufficio che “non è cambiato nulla tranne le tasse”, evidenziando invece i cambiamenti reali apportati.
- Contestare eventuali ricostruzioni inesatte del Fisco: spesso l’atto di accertamento potrebbe contenere affermazioni generiche, del tipo “il complesso avviato è uscito dal patrimonio del conferente e passato al terzo, ergo l’operazione è nella sostanza cessione d’azienda”. Si può replicare che questa visione ignora la forma giuridica effettiva e i passi compiuti, e che comunque l’ordinamento consente risultati giuridicamente differenti pur se economicamente simili (come appunto vendere un’azienda vs vendere una società che la possiede; da un punto di vista economico può sembrare equivalente monetizzare un’azienda o monetizzare la partecipazione, ma “dal punto di vista giuridico le situazioni sono assolutamente diverse” come ben sottolineato dalla Cassazione ). Tale diversità giuridica va fatta valere: il giudice deve capire che accettare la tesi del Fisco significherebbe annullare la distinzione concettuale tra due atti leciti e autonomi, “costruendo artificiosamente una fattispecie imponibile diversa da quella voluta”, cosa che neppure il Fisco può fare .
- Invocare la giurisprudenza favorevole: come visto, abbiamo a disposizione pronunce chiave. In una memoria difensiva, potremo citare:
- Cass. 2054/2017 per il principio che conferimento+cessione può essere legittima scelta e non elusione .
- Cass. 8444/2014 (non citata sopra, ma esistente) che affermava il concetto di libertà di scelta del contribuente in ambito antielusivo.
- Eventuali sentenze di merito (CTR) favorevoli se presenti.
- Cass. 23368/2022 e Cass. 4392/2021 (ord.) che hanno escluso l’abuso in operazioni di leveraged buy-out e cash-box quando c’erano motivi validi (se pertinenti, da citare come analogia).
- Atto di Indirizzo MEF 2025, che può essere menzionato per enfatizzare come linea di policy che non si deve abusare dell’abuso: il MEF ha raccomandato di riconoscere i confini leciti della pianificazione fiscale e la residualità dell’intervento antielusivo .
- Verificare la correttezza formale della procedura seguita dall’Ufficio: ad esempio, se il contribuente non ha ricevuto il preventivo avviso art.10-bis con 60 giorni per controdedurre, ciò costituisce motivo di nullità dell’accertamento. Oppure se l’atto di accertamento non spiega adeguatamente perché mancherebbero le ragioni extrafiscali o quale sarebbe l’indebito vantaggio, si può eccepire difetto di motivazione. Anche questi aspetti procedurali possono portare all’annullamento della pretesa, indipendentemente dal merito.
In definitiva, la linea difensiva consisterà nel dimostrare che il caso concreto non è un abuso: all’operazione si accompagnavano reali esigenze imprenditoriali, il vantaggio fiscale ottenuto è stato solo uno degli effetti (o comunque era previsto dal sistema), e non vi è stata alcuna volontà di aggirare norme, ma solo di scegliere un percorso consentito. Se questa impostazione viene colta, allora – in applicazione della legge – la contestazione di elusività dovrà essere respinta.
È utile aggiungere che, qualora il contribuente avesse dubbi ex ante sulla possibile contestazione, l’ordinamento offre uno strumento preventivo molto efficace: l’interpello anti-abuso (art. 11, co.1, lett. c) L. 212/2000). Presentando un interpello prima di effettuare l’operazione, il contribuente può chiedere all’Agenzia delle Entrate di pronunciarsi sull’assenza di abuso. Un parere favorevole mette al riparo da contestazioni future (nei limiti di quanto esposto). Se invece l’interpello non è stato fatto ed emerge controversia, il contribuente può invocare eventuali interpelli risolti per altri contribuenti in fattispecie analoghe (spesso l’Agenzia pubblica risposte a interpello su schemi societari). Ad esempio, ci sono state Risposte AE del 2019-2020 su scambi di partecipazioni, conferimenti e cessioni, alcune con esito positivo quando c’erano concrete ragioni organizzative.
Nota: Finora ci siamo concentrati sul tipico conferimento seguito da cessione a terzi (c.d. asset deal travestito da share deal). Esistono altri schemi di possibile elusione legati ai conferimenti, come il conferimento di partecipazioni (in luogo di cessione diretta delle stesse) per ottenere step-up di valori o utilizzo del regime PEX in capo a una holding, oppure le fusioni/scissioni realizzate per conseguire vantaggi d’imposta (ad es. far transitare perdite fiscali). Queste rientrano parimenti nell’ambito dell’abuso del diritto e i principi difensivi sono analoghi: dimostrare le valide ragioni e la coerenza con la ratio delle norme. Un esempio molto discusso è il “realizzo controllato” ex art. 177 TUIR, comma 2: conferimento di partecipazioni seguito da cessione, usato per ottenere plusvalenze esenti in capo a persone fisiche; il legislatore è dovuto intervenire (Legge 30/12/2020 n.178, art. 1 co.87) per limitare abusi su questo fronte, stabilendo che se entro 5 anni la società conferitaria cede a terzi le partecipazioni ricevute, la plusvalenza affrancata va tassata in capo al conferente originario. Questo mostra che dove il sistema vede uno svuotamento di imposta non voluto, spesso reagisce con norme specifiche. Sta al difensore far emergere quando invece l’operazione rientra nell’ambito fisiologico di scelte consentite.
Passiamo ora a considerare un aspetto particolare ma cruciale quando si parla di operazioni elusive: i profili penal-tributari. Cosa accade se un conferimento d’azienda viene usato per sottrarre beni alle pretese erariali? In tal caso non parliamo più di “abuso” in senso tecnico, bensì del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Analizziamo quando può delinearsi questa fattispecie e quali sono le possibili difese dal punto di vista del debitore.
Profili penal-tributari: il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000)
La pianificazione fiscale elusiva fin qui trattata si muove su un crinale lecito/illecito di natura amministrativa, senza implicazioni penali. Tuttavia, vi sono casi in cui la riorganizzazione di patrimoni o operazioni societarie possono integrare estremi di reato tributario, in particolare quando il fine prevalente è quello di rendere inefficace la riscossione di imposte dovute. La norma cardine a riguardo è l’art. 11 D.Lgs. 74/2000, rubricato “Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”. È fondamentale comprenderne la portata per evitare che un conferimento d’azienda (o operazioni analoghe) effettuato in certe situazioni esponga gli autori a responsabilità penali.
Quando si configura il reato (elementi e soglie)
L’art. 11 punisce con la reclusione chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sul reddito o IVA (o relativi interessi/sanzioni) di importo complessivo superiore a 50.000 euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace l’attività di riscossione coattiva . Se l’importo delle imposte (più eventuali accessori) supera 200.000 euro, la pena è aggravata (reclusione da 1 a 6 anni) . In sintesi, gli elementi costitutivi sono: – Scopo specifico di sottrarsi al pagamento di tributi dovuti, quindi la presenza di un debito tributario scaduto o in via di accertamento, e l’intenzione di ostacolarne il recupero. – Condotta: atti fraudolenti sui beni. Questo include sia le alienazioni simulate (trasferimenti fittizi, ad esempio intestazioni a prestanome, vendite fittizie) sia “altri atti fraudolenti” concretamente idonei a vanificare la riscossione. La giurisprudenza considera “fraudolento” qualsiasi atto che implichi un quid pluris di artificio rispetto al lecito, finalizzato a occultare beni al Fisco. – Evento di pericolo: l’atto deve essere idoneo a rendere inefficace (anche solo in parte) l’esecuzione forzata. Non serve che il Fisco tenti effettivamente di escutere senza successo; basta la potenzialità lesiva.
Un classico esempio è il contribuente che, avendo cartelle esattoriali o sentore di un accertamento imminente, svuota il patrimonio: vende immobili sotto costo al parente, crea un fondo patrimoniale conferendovi i beni, trasferisce l’azienda a una newco tenendosi le quote magari intestate a terzi, ecc. Se queste operazioni sono fatte con l’animus di evitare i pagamenti fiscali e superano la soglia (50.000 € di imposte), scatta il reato.
Nel contesto dei conferimenti d’azienda, quale potrebbe essere lo scenario incriminato? Si può pensare alla situazione in cui una società o un imprenditore hanno un debito fiscale rilevante (accertamenti definitivi, cartelle notificate, etc.) e decidono di proteggere il patrimonio aziendale trasferendolo in un’altra società formalmente diversa. Ad esempio: Alfa S.r.l. ha un ingente debito IVA; gli amministratori costituiscono Beta S.r.l., vi conferiscono l’unico ramo d’azienda redditizio di Alfa, lasciando in Alfa i debiti e pochi beni aggredibili, mentre Beta prosegue l’attività con gli asset produttivi. Se Alfa poi non paga il Fisco, il Fisco trova “il guscio vuoto”. Questa operazione può certamente essere vista come atto fraudolento ex art.11, specie se Beta è di fatto riconducibile agli stessi soggetti (costituzione ad hoc, legami personali, ecc.). Non importa che formalmente il conferimento sia avvenuto secondo legge: penalmente rileva l’intento e la conseguenza di rendere più difficile la riscossione.
La Cassazione Penale ha affrontato casi simili, fornendo indicazioni utili: – È stato chiarito che anche un atto a titolo oneroso (non solo gratuiti) può integrare l’art. 11, se fatto con frode. Quindi, ad esempio, trasferire un bene a prezzo di mercato ma in un contesto di sostanziale collegamento tra le parti può comunque costituire reato (non rileva l’eventuale corrispettivo, ma l’effetto di sottrazione). Una vendita simulata di un immobile a terzi compiacenti è tipicamente punita . – Con specifico riferimento alle aziende, la Cass. pen. Sez. III n. 52158/2018 ha affermato che “può integrare il reato di cui all’art. 11 la cessione di un ramo d’azienda indebitata con il fisco, qualora non vengano contestualmente trasferiti, mediante clausola di accollo, i debiti tributari” . Si tratta di un principio molto significativo: in tal caso il ramo d’azienda era venduto a terzi senza debiti, usufruendo solo della responsabilità solidale limitata ex art.14 D.Lgs. 472/97 a carico dell’acquirente (responsabilità circoscritta alle imposte relative all’ultimo periodo e due precedenti, e solo dopo escussione del cedente). La Cassazione ha detto che questa vendita “renderebbe comunque più difficoltosa l’azione esecutiva dell’Erario”, soddisfacendo l’elemento di reato, in quanto il Fisco si troverebbe a dover rincorrere un soggetto diverso (cessionario) con responsabilità limitata . Quindi, anche trasferimenti reali a terzi indipendenti possono ricadere nel reato se hanno l’effetto di frapporre ostacoli alla riscossione. Figuriamoci trasferimenti intra-gruppo o a società create ad hoc. – Ancora, Cass. pen. 46975/2018 (sempre Sez. III) ha confermato la condanna per sottrazione fraudolenta in capo agli amministratori di una S.r.l. che, sapendo la società indebitata verso il fisco, ne hanno progressivamente depauperato il patrimonio a favore di altra società “di famiglia”: era stata costituita una newco controllata dagli stessi soggetti, trasferendovi l’unico asset (un centro commerciale) mediante un aumento di capitale sottoscritto in natura, e lasciando la vecchia società insolvente col fisco . In quel caso la frode era evidente: la seconda società era fittiziamente distinta (stessi soci, sede fittizia), creata solo per isolare il bene e sottrarlo alla garanzia erariale. La condotta è stata ritenuta dolosa e punibile.
Dai principi emersi, un conferimento d’azienda può facilmente ricadere nella previsione penale se: – Il conferente ha debiti tributari rilevanti e insoluti (o pendenti ma non garantiti) e – L’operazione è effettuata al fine di evitare che il Fisco soddisfi su quei beni, tipicamente conferendo l’azienda in una newco controllata e lasciando il debito in capo al conferente impoverito.
In tali frangenti, la conferma di reato penale si affianca all’eventuale riqualificazione fiscale (che però qui è secondaria: non si tratta di recuperare un’imposta evasa, ma di punire l’occultamento di garanzia patrimoniale).
Difesa del contribuente (debitore) in ambito penale
Come può difendersi chi si trovi accusato ai sensi dell’art. 11 in relazione a un conferimento o operazione analoga? Le linee di difesa principali sono: – Negare la natura fraudolenta dell’atto, sostenendo la genuinità economica dell’operazione. Se il conferimento d’azienda era una operazione con normali finalità imprenditoriali (es. ristrutturazione societaria, ingresso di soci, ecc.) e non una manovra per sfuggire al Fisco, occorre dimostrarlo. Ad esempio: “È vero che Alfa aveva debiti col Fisco, ma il conferimento nella Beta aveva lo scopo di salvare l’attività aziendale da un fallimento imminente, trovando nuovi investitori. Non c’era volontà di nascondere i beni: infatti Beta ha pagato un corrispettivo reale ad Alfa (o ha assunto dei debiti di Alfa), oppure Alfa detiene ancora le quote Beta che sono aggredibili dai creditori.” Insomma, si deve contestualizzare l’operazione in un contesto non fraudolento. – Assenza del fine specifico di evasione delle imposte: il dolo specifico di art.11 va provato dall’accusa. Se, ad esempio, al momento del conferimento i debiti non erano ancora definitivi o erano oggetto di contenzioso in cui il contribuente confidava, si può sostenere che l’intento non era “sottrarsi al pagamento” (che magari si riteneva non dovuto o dilazionabile) ma altri scopi. Oppure evidenziare che dopo l’operazione il debitore comunque ha proposto un piano di rientro, una rateazione: ciò mal si concilia con la volontà di sottrarsi. L’importante è creare dubbio sul movente principale dell’atto. – Dimostrare che l’atto non è idoneo a rendere inefficace l’escussione: ad esempio, se Alfa conferisce l’azienda in Beta ma contestualmente Beta si accolla il debito tributario di Alfa, o Beta versa ad Alfa un corrispettivo che Alfa destina a pagare il fisco, allora non c’è pregiudizio per l’Erario. Cass. 52158/2018 lasciava intendere che se ci fosse stata una clausola di accollo dei debiti tributari contestuale alla cessione del ramo d’azienda, probabilmente non si configurerebbe reato . Quindi un conferimento non è fraudolento se accompagnato da misure che preservano la garanzia per il Fisco (es: il debito fiscale segue i beni, oppure resta un patrimonio sufficiente in capo al debitore originario, oppure viene fornita garanzia equivalente – fideiussioni, ipoteche sui beni conferiti a favore del Fisco, etc.). Se tali elementi sono presenti nel caso concreto, vanno evidenziati per escludere l’idoneità decettiva dell’operazione. – Questioni soggettive: l’art. 11 colpisce “chiunque” compia gli atti fraudolenti. In ambito societario, i responsabili di norma sono gli amministratori che deliberano e attuano l’operazione; i soci potrebbero rispondere se istigatori o beneficiari consapevoli. Una difesa può essere di ordine soggettivo: l’amministratore può sostenere di aver agito nell’interesse della società, non per frodare il fisco ma per salvarla, non avendo percezione del carattere fraudolento; oppure un socio che ha ricevuto beni potrebbe dire di essere in buona fede (non era a conoscenza dei debiti fiscali altrui). Se credibile, questo può escludere il dolo. – Cause di non punibilità o attenuanti: se prima della notifica di certe attività penali il contribuente estingue il debito tributario, è prevista una causa speciale di non punibilità per alcuni reati tributari (ma attualmente art.11 non è incluso tra quelli “estinguibili” pagando; resta però una circostanza attenuante comune l’aver risarcito il danno). In fase di definizione, la remissione del debito (pagamento integrale) potrebbe comunque influire sulla valutazione del fatto come non più pericoloso.
In definitiva, dal punto di vista del debitore che voglia riorganizzare l’azienda è essenziale agire con prudenza per non incorrere nell’art. 11. Ciò significa: se si ha un debito fiscale rilevante, non spogliare la società dei beni senza accordi con il Fisco. Meglio ricorrere a strumenti leciti come la rateazione, o al limite predisporre l’operazione in modo trasparente, coinvolgendo l’Erario (ad esempio cedendo l’azienda ma con riserva di parte del prezzo per pagare le imposte). In caso contrario, il rischio penale è concreto, come confermato dalle numerose pronunce. Vale la pena ricordare, a tal riguardo, che la soglia di punibilità di 50.000 € è piuttosto bassa: basta un debito IVA modesto per superarla. E l’esperienza mostra che la Guardia di Finanza e la Procura sono molto attente a operazioni societarie anomale poste in essere da soggetti con cartelle esattoriali o debiti fiscali in corso.
Come best practice, quindi, un imprenditore in difficoltà dovrebbe evitare di fare furbizie con conferimenti o cessioni simulate, perché i sistemi informativi incrociano i dati e simili manovre vengono spesso scoperte (ad es. mediante controlli su scissioni: la scissione totale con trasferimento di patrimonio a nuova società lasciando i debiti nella vecchia è un’altra operazione che facilmente integra il reato ex art.11). Nel dubbio, consultare un legale esperto prima di procedere è d’obbligo.
Con questo si conclude la parte sull’aspetto penal-tributario. Nella prossima sezione, per rendere ancor più fruibili le informazioni, presentiamo una serie di Domande e Risposte che ricapitolano i punti salienti in forma interrogativa, seguite da alcune tabelle riepilogative utili per una comprensione immediata delle differenze tra scenari e dei riferimenti normativi e giurisprudenziali chiave.
Domande frequenti (FAQ)
- D: Che cos’è esattamente un conferimento d’azienda e in cosa differisce da una cessione d’azienda?
R: Il conferimento d’azienda è l’operazione con cui un soggetto (conferente) trasferisce un’intera azienda o un ramo di essa a una società (conferitaria), ricevendone in cambio quote o azioni del capitale sociale, anziché denaro. Si differenzia dalla cessione d’azienda classica perché il corrispettivo non è monetario ma in partecipazioni societarie. Ad esempio, un imprenditore individuale conferisce la sua azienda in una S.r.l. di nuova costituzione: in cambio ottiene quote della S.r.l., divenendone socio. La cessione d’azienda, invece, comporta il pagamento di un prezzo in denaro dall’acquirente al venditore. Fiscalmente, nel conferimento l’eventuale plusvalenza può non emergere subito (grazie alla neutralità, art.176 TUIR), mentre nella cessione è immediatamente tassata come componente straordinario di reddito. - D: Perché conferire un’azienda in una società e poi vendere le partecipazioni invece di vendere direttamente l’azienda?
R: Ci sono vari possibili motivi. Dal lato commerciale/giuridico, l’acquirente potrebbe preferire acquistare una società (che possiede l’azienda) per subentrare più agevolmente in contratti, licenze, dipendenze, oppure il venditore può voler segregare la parte ceduta in un veicolo separato per limitare responsabilità. Dal lato fiscale, il motivo principale è il risparmio d’imposta: vendere un’azienda produce una plusvalenza tassata integralmente, vendere partecipazioni invece può dare diritto a esenzioni. Ad esempio, una società di capitali che venda le quote di una sua controllata (in cui ha conferito l’azienda) può applicare la Participation Exemption, tassando solo il 5% della plusvalenza . Il beneficio è enorme rispetto alla tassazione del 100% che avrebbe vendendo i beni aziendali direttamente. Dunque, lo schema conferimento+cessione consente spesso di ridurre la pressione fiscale sulla vendita di un business in modo legale sfruttando regimi agevolativi previsti dalla legge. - D: L’Agenzia delle Entrate può contestare come elusiva l’operazione di conferimento d’azienda seguito da cessione delle partecipazioni?
R: Può tentare di farlo, ma con margini oggi più ristretti rispetto al passato. In ambito imposte dirette, prima del 2015 la legge (art. 37-bis DPR 600/73) escludeva espressamente questa ipotesi dal novero delle operazioni elusivenonostante il Fisco talvolta provasse a ignorare l’agevolazione. Oggi, con l’art. 10-bis L.212/2000, l’Agenzia può contestare l’operazione se ritiene che manchi sostanza economica e che l’unico scopo fosse il risparmio fiscale indebito. Quindi, in teoria sì, può farlo. Tuttavia, il contribuente ha ottime difese: può obiettare che il risparmio non è indebito (la legge volutamente concede PEX e neutralità) e che l’operazione aveva ragioni economiche (es. riorganizzazione societaria) oltre al fisco. In ambito imposta di registro, fino al 2017 l’Agenzia riqualificava spesso la conferimento+cessione come un’unica cessione con art. 20 DPR 131/86 , ma oggi non può più farlo (art.20 è stato chiarito come non antielusivo). Anzi, la Cassazione nel 2024 ha stabilito che anche cessioni totalitarie di quote vanno tassate sempre in misura fissa registro, senza riqualificazioni . Quindi sul registro attualmente non è possibile per l’Ufficio contestare nulla, a meno di frodi documentali. In sintesi, l’unico ambito di contestazione è l’abuso del diritto sulle imposte sui redditi, e solo se l’operazione appare artificiosa e priva di reali motivi. - D: Che cosa si intende per “abuso del diritto” o “operazione elusiva” in ambito tributario?
R: Si intende un’operazione che, pur rispettando la lettera della legge, è effettuata essenzialmente per ottenere un vantaggio fiscale contrario alla ratio o ai principi dell’ordinamento tributario, senza sostanza economica apprezzabile diversa dal risparmio d’imposta. In altre parole, è un uso distorto di strumenti giuridici leciti per aggirare il fisco. L’esempio classico: creo ad hoc una società interposta, senza reale funzione se non ridurre il carico fiscale, e attraverso di essa compio transazioni che mi fanno pagare meno tasse di quanto avrei pagato senza la società. Se l’operazione non ha valide ragioni economiche se non tagliare le tasse, e il vantaggio ottenuto non era voluto dal legislatore, allora è un abuso. Dal 2015 questa nozione è scritta in legge (art. 10-bis L. 212/2000) con tre elementi: vantaggio fiscale indebito, assenza di sostanza economica, essenzialità del vantaggio fiscale . Un’operazione abusiva è lecita in apparenza ma viene riqualificata dal Fisco ignorandone i vantaggi. - D: Come si distingue l’elusione fiscale (abuso) dall’evasione fiscale vera e propria?
R: La differenza sta principalmente nella violazione di norme tributarie. Nell’evasione c’è violazione diretta: ad esempio non dichiaro redditi, emetto false fatture, simulo costi inesistenti. È illecito e punito con sanzioni amministrative e anche penali se rilevante. Nell’elusione (abuso) invece non violo alcuna legge fiscale: dichiaro tutto correttamente secondo le forme, ma ho creato un assetto artificioso per ridurre la base imponibile o usufruire di agevolazioni improprie. Quindi l’abuso è un illecito solo “concettuale”, non c’è una legge violata nero su bianco, ma un insieme di atti leciti che portano a un risultato considerato indebito. Conseguentemente, le sanzioni differiscono: nell’abuso del diritto, se contestato, si richiedono le imposte non pagate e gli interessi, ma non si applicano sanzioni tributarie né penali al contribuente collaborativo . L’evasione invece comporta sanzioni amministrative (tipicamente, ad esempio, il 90% del tributo evaso per infedele dichiarazione) e possibili reati (dichiarazione fraudolenta, omessa dichiarazione, ecc.) se l’importo supera soglie penali. Dunque, l’abuso è una forma di ottimizzazione aggressiva non punibile, mentre l’evasione è un’infedeltà o frode punibile. Va detto che a volte la linea di confine è sottile: se un’elusione sfocia in una simulazione (cioè in realtà i contratti erano finti), allora non è più abuso ma evasione. In pratica, il Fisco se può prova a contestare simulazione o interposizione fittizia (che danno sanzioni), se non riesce allora contesta abuso (senza sanzioni) . - D: Quali sono le norme italiane rilevanti in materia di operazioni elusive e conferimenti?
R: Le principali sono: - Art. 10-bis L. 212/2000: definisce l’abuso del diritto fiscale, i tre elementi costitutivi, le esclusioni (valide ragioni extrafiscali) e disciplina procedurale (contraddittorio obbligatorio) e il divieto di sanzioni. È il riferimento generale per valutare ogni operazione sotto il profilo elusivo.
- (Previgente) Art. 37-bis DPR 600/1973: era la norma antielusiva fino al 2015, ora abrogata. Utile storicamente perché l’art. 176 TUIR vi faceva rinvio per escludere talune operazioni (es. conferimento+PEX).
- Art. 176 TUIR (DPR 917/1986): disciplina i conferimenti d’azienda con neutralità fiscale. In particolare il comma 3 conteneva l’esclusione antielusiva per conferimento e successiva cessione quote .
- Art. 87 TUIR: Participation Exemption (PEX) per plusvalenze da cessione di partecipazioni societarie: esenzione 95% per società, condizioni.
- Art. 2, co.3, lett. b) DPR 633/72: esclude cessioni e conferimenti d’azienda dall’applicazione IVA (operazione fuori campo IVA) .
- Art. 20 DPR 131/86: interpretazione atti ai fini registro. Dopo la modifica del 2018, non consente più riqualificazioni basate su collegamento negoziale estraneo all’atto .
- Art. 11 D.Lgs. 74/2000: reato di sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (rilevante se un conferimento è usato per frodare la riscossione, soglia 50.000 €) .
- Norme correlate: art. 14 D.Lgs. 472/97 (responsabilità solidale dell’acquirente d’azienda per alcuni debiti tributari del cedente), art. 173 TUIR (fusioni), art. 175-177 TUIR (scambi di partecipazioni), che possono entrare in giuoco in altri schemi elusivi.
- D: Quali garanzie ha il contribuente in caso di contestazione di abuso del diritto?
R: Ha diverse garanzie procedurali e sostanziali: - Contraddittorio preventivo obbligatorio: l’Ufficio, prima di emettere un accertamento basato su abuso, deve notificare al contribuente una comunicazione in cui espone la contestazione e dare almeno 60 giorni per controdedurre (salvo casi di particolare urgenza) . Se non lo fa, l’accertamento è nullo. Ciò consente al contribuente di difendersi già in fase amministrativa, portando le proprie ragioni extrafiscali.
- Onere della prova a carico del Fisco: l’Amministrazione finanziaria deve provare l’esistenza dei tre elementi dell’abuso (esistenza di un vantaggio fiscale, assenza di sostanza economica, indebito vantaggio). Spetta invece al contribuente l’onere di provare eventuali valide ragioni extrafiscali e la conformità ai principi tributari . In giudizio, dunque, il contribuente può ottenere l’annullamento dell’atto se il Fisco non fornisce elementi sufficienti a configurare la natura abusiva.
- Nessuna sanzione amministrativa o penale: come detto, se un’operazione viene qualificata come abusiva, al contribuente viene richiesto di pagare le imposte risparmiate (rendendo l’operazione “fiscalmente inefficace”) più gli interessi, ma non viene punito. Nessuna sanzione pecuniaria (multa) e nessun riflesso penale. Questo è espressamente previsto dall’art. 10-bis (che però richiede che il contribuente non abbia tenuto comportamenti omissivi o ostativi: ad esempio, è bene segnalare in dichiarazione l’utilizzo di un regime fiscalmente vantaggioso, tipo l’indicazione nel quadro RS delle operazioni straordinarie).
- Libertà di scelta tutelata: il contribuente può difendersi ricordando che la legge tutela la sua libertà di scegliere forme contrattuali meno onerose. L’accertamento non può basarsi solo sul fatto che si è scelta una via a minori imposte. Deve essere dimostrato che quella via contraddice la ratio delle norme. Se invece era un’opzione prevista e legittima, il contribuente ha diritto di non vedersene pregiudicato l’utilizzo .
- Interpello preventivo: non esattamente una garanzia in sede di accertamento, ma un istituto che il contribuente può attivare per tutelarsi. Se ha ottenuto risposta favorevole a un interpello anti-elusivo presentando fedelmente il caso, l’Ufficio non può muovere contestazione su quegli aspetti (salvo cambiamenti normativi).
- D: È sempre considerato abusivo fare un conferimento d’azienda prima di vendere l’attività?
R: No, assolutamente. Non si può dire che lo sia “sempre”. Come abbiamo spiegato, il legislatore italiano ha di fatto legittimato questo comportamento inserendo norme di salvaguardia. La Cassazione stessa ha riconosciuto che conferire un’azienda e poi vendere le quote può essere una normale scelta imprenditoriale e non un abuso . Diventa eventualmente abusivo se la situazione concreta mostra chiari segni di artificiosità e mancanza di motivazioni sostanziali. Ad esempio, se si costituisce una società-veicolo vuota solo qualche giorno prima, la si usa per il conferimento e immediatamente dopo si vende al compratore già noto, con magari patti occulti che garantivano già dall’inizio l’acquisto: ecco, in casi così estremi l’Ufficio potrebbe dire che la newco è stata creata soltanto per risparmiare tasse, e null’altro. Ma se anche in queste circostanze il contribuente riesce a indicare una logica imprenditoriale (es. “il compratore pretendeva una società pulita per ragioni di due diligence”), potrebbe evitare la sanzione di abuso. Quindi, non è intrinsecamente illecito: dipende dalle circostanze. Oggi come oggi, viste anche le pronunce del 2017-2024, c’è un orientamento a considerare lecito lo schema, purché non emergano elementi di mera costruzione di comodo. - D: Quali sono le sentenze più recenti e importanti su questi temi?
R: Riassumiamo alcune pronunce chiave: - Cass. 8542/2016 (Sez. Trib.) – Caso Pharmacia/Pfizer: ai fini dell’imposta di registro, la Cassazione allora ritenne che conferimento in newco + vendita quote equivalessero a cessione d’azienda, dando prevalenza alla sostanza economica sui contratti. Disse che il Fisco poteva tassare come cessione unica senza dover provare l’intento elusivo . Questa sentenza oggi è superata dai fatti (norma interpretativa 2018).
- Cass. 2054/2017 (Sez. Trib.) – Ha cambiato rotta: ha escluso l’abuso nel conferimento+cessione, definendolo legittima scelta negoziale, e negato l’applicabilità antielusiva dell’art. 20 registro . Rappresenta un punto di svolta: da allora la tesi “non c’è abuso se c’è scelta giuridica lecita” ha preso piede.
- Cass. 25164/2018 (Sez. V) – (Non citata prima ma rilevante) confermò che art.20 non è norma antielusiva e recepì la modifica normativa.
- Cass. 23135 e 23225 del 25/7/2022 (ord.) – Si sono occupate di altre operazioni (affitto studio a propria società, e cessione quote SRL con plusvalenza persona fisica) ribadendo principi di abuso solo se scopo esclusivo è fiscale, altrimenti no .
- Cass. 8474/2024 (Sez. Trib.) – (Menziata su siti specialistici) ha ribadito che l’abuso si manifesta quando l’operazione ha come elemento predominante lo scopo di eludere il fisco, con difetto di sostanza economica, coerentemente col dettato art.10-bis .
- Cass. 7495/2024 (Sez. Trib.) – Principio in materia registro: cessione totalitaria quote = imposta fissa sempre, vietata riqualificazione in cessione d’azienda grazie a legge di interpretazione autentica 2018 .
- Cass. Pen. 52158/2018 (Sez. III) – Penale: cessione ramo d’azienda indebitato senza accollo debiti è atto idoneo a configurare reato di sottrazione fraudolenta .
- Cass. Pen. 46975/2018 – Penale: depauperamento societario tramite conferimento asset in newco fittizia costituisce reato art.11, confermando condanna degli amministratori .
- Corte Cost. 158/2019 – Legittima la norma interpretativa su art.20 registro (ha detto che l’indirizzo del legislatore era ragionevole e coerente col sistema antiabuso generalee col contraddittorio) .
Insomma, le ultime tendenze vedono: sul fronte tributario, riconoscimento della residualità dell’abuso e della legittimità di certe scelte se motivate; sul fronte penale, rigore contro manovre che occultano attivi ai creditori fiscali.
- D: Cosa rischia un contribuente se la sua operazione viene riqualificata come elusiva?
R: Se l’Agenzia delle Entrate vince in una contestazione di abuso del diritto, l’operazione viene “disconosciuta” nei suoi effetti fiscali vantaggiosi. Ciò significa che si ricalcolano le imposte come se l’operazione abusiva non fosse mai avvenuta o fosse avvenuta nella forma meno tax-driven. Nel nostro esempio, il Fisco tasserebbe il conferimento+cessione come una vendita diretta di azienda: dunque recupererebbe la plusvalenza non tassata (o tassata al 5%) chiedendo le relative imposte, più interessi dal giorno in cui sarebbero state dovute (generalmente dalla data di saldo imposte di quell’anno). Non vengono applicate sanzioni amministrative, quindi niente sanzione per infedele dichiarazione (che altrimenti sarebbe del 90% dell’imposta). Inoltre l’art.10-bis esclude anche ogni profilo penale, quindi non c’è il rischio di reati di infedele dichiarazione per l’importo non pagato. In sostanza, il contribuente dovrà pagare la differenza d’imposta + interessi. Se però il contribuente avesse occultato l’operazione (ad esempio non dichiarando affatto la plusvalenza né di conferimento né di cessione), l’Ufficio potrebbe contestare anche l’evasione. Ma solitamente, in casi di abuso, il contribuente ha dichiarato tutto secondo la forma giuridica scelta. Ecco perché l’ordinamento non lo punisce: c’è stata trasparenza formale. Vale la pena notare che, se il contribuente durante l’accertamento comprende che probabilmente perderà la causa sull’abuso, potrebbe valutare di aderire alla definizione per pagare subito senza ulteriori interessi (non essendoci sanzioni, la definizione agevolata consiste solo nel pagare il dovuto) oppure utilizzare strumenti come la conciliazione giudiziale. - D: Quando un conferimento d’azienda può sfociare in un reato penale tributario?
R: Può succedere quando l’operazione non è volta solo a risparmiare tasse future, ma a sfuggire al pagamento di tasse pregresse dovute. Se un imprenditore o una società hanno debiti tributari (ad es. cartelle esattoriali, accertamenti definitivi o IVA non versata) e trasferiscono in modo fraudolento i propri beni – ad esempio conferendo l’azienda in una nuova società controllata da prestanome, o vendendola a un prezzo fittizio a un’altra società compiacente – per togliere quegli asset dal patrimonio aggredibile dal Fisco, si configura il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000). Questo reato richiede la prova che l’atto è fatto “al fine di sottrarsi al pagamento” di imposte dovute e che sia idoneo a rendere inefficace la riscossione . Un conferimento d’azienda seguito magari dalla cessione delle quote a un familiare, lasciando la società originaria debitore senza beni, è un esempio tipico. La soglia di punibilità è bassa (debiti > 50.000€). In tali casi, i responsabili (amministratori, titolari) rischiano da 6 mesi a 4 (fino a 6) anni di reclusione. Dunque, se si conferisce un’azienda e lo scopo era deliberatamente quello di non far trovare nulla al Fisco, non solo l’accertamento potrà rendere inefficace l’operazione (es. revocandola con misure cautelari, revocatoria fallimentare, etc.), ma partirà anche un procedimento penale. Da sottolineare: non importa che l’operazione di per sé fosse lecita civilmente – es. un conferimento con tutti i crismi – se il contesto la rende fraudolenta (stesso controllo societario, simulazione, prezzo simbolico, ecc.). - D: Come difendersi se accusati penalmente per un conferimento d’azienda considerato sottrattivo (art.11 D.Lgs.74/2000)?
R: In sede penale, la difesa punterà a dimostrare che l’operazione non aveva natura fraudolenta e non era finalizzata a eludere il Fisco. Si può argomentare che:- L’operazione aveva uno scopo lecito alternativo (es. ristrutturazione aziendale per salvare l’azienda e pagare anche i debiti, magari con nuovo investitore).
- Non vi era simulazione: se c’è stato un conferimento reale e una cessione a terzi indipendenti a valori di mercato, l’atto non è fraudolento di per sé (il problema è se i terzi non sono veramente indipendenti o il valore è gonfiato/abbassato artificiosamente). Quindi, provare che tutto è avvenuto alla luce del sole, pubblicità, a prezzo congruo.
- Mancanza del dolo specifico: ad esempio il debitore credeva di poter pagare il Fisco in altro modo, o ignorava la portata del debito (non facile, ma dipende dai casi).
- Atti riparatori: se si è nel frattempo pagato il debito fiscale o comunque sono stati messi a disposizione del Fisco i beni, evidenziarlo: mostra che l’intento iniziale non era di scappare dal Fisco per sempre. Pagare il dovuto prima della sentenza può evitare la condanna o attenuarla (nel 2020 era stato proposto di estendere la non punibilità per pagamento anche all’art.11, ma al momento conta solo come attenuante).
- Vizi procedurali: meno frequenti in penale, ma ad esempio contestare la perizia di valutazione come non corretta (se il valore di conferimento era legittimo e non volutamente sottostimato).
- In pratica, serve far emergere una narrazione alternativa: il conferimento non era una furbata per fregare il Fisco, ma magari un tentativo disperato di salvare l’impresa che poi comunque avrebbe soddisfatto i creditori. Ogni documento che mostri buona fede (es: il contribuente propose un piano di rateazione, oppure informò il Fisco del progetto e non ricevette risposta) può aiutare. Naturalmente, se gli indizi di frode sono schiaccianti (es. società conferitaria gestita dal prestanome del titolare, cessione a prezzo irrisorio a un parente, etc.), la difesa diventa difficile. In quei casi, la strategia migliore può essere cercare un patteggiamento con pena sospesa, puntando a risarcire il danno (pagando il dovuto) per dimostrare ravvedimento.
- D: Cosa posso fare prima per prevenire contestazioni di elusione su un’operazione di conferimento?
R:Pianificazione e trasparenza. Ecco alcuni consigli:- Interpello anti-abuso: se l’operazione è pianificata e c’è tempo, inviare un interpello all’Agenzia delle Entrate descrivendola e chiedendo conferma che non costituisca abuso. L’Agenzia risponde entro 120 gg. Se dice che è tutto ok, si ha protezione. Se dice che è abusiva, almeno si sa e si può rimodulare l’operazione.
- Documentare le ragioni extrafiscali: predisporre delibere societarie, perizie, studi di fattibilità che evidenzino le motivazioni non fiscali (es. “Conferiamo il ramo X in NewCo per focalizzare l’attività e attrarre partner strategici…”). Questo tornerà utile in caso di verifica, per mostrare che il fine non era solo fiscale.
- Evitare tempistiche sospette: se possibile, non vendere le quote il giorno dopo il conferimento. Aspettare un tempo congruo (che comunque per PEX è minimo 12 mesi). Un intervallo più lungo e operatività reale della newco in quel periodo aiutano a dissipare l’idea di costruzione artificiale.
- Valutazioni peritali solide: il conferimento deve avvenire a valori normali. Se gonfio il valore per avere più capitale (magari da annullare dopo) o lo sottostimo, entrambi i casi destano sospetti (nel primo, potrei star spostando utili latenti in esenzione; nel secondo, potrei star regalando asset per occultarli). Quindi perizia by an independent expert e valutazione in linea con mercato.
- Comunicare in dichiarazione: usare correttamente il quadro di disclosure (mi pare RS) per segnalare operazioni straordinarie potenzialmente elusive, come richiesto dall’art.10-bis. Così, in caso di futura contestazione, non potranno contestare oscurità o malafede (e le sanzioni rimangono azzerate).
- Rispettare tutte le condizioni normative: ad esempio, se voglio la PEX, devo detenere per almeno 12 mesi la partecipazione. Farlo scrupolosamente, altrimenti do un appiglio certo per la contestazione (più che abuso, proprio decadenza dall’agevolazione).
- Evitare meccanismi troppo complessi se inutili: un’operazione estremamente complicata, con più passaggi societari, aumenta il rischio che il Fisco vi veda un disegno elusivo. Se il risultato si può ottenere in modo più lineare, è preferibile. Ad esempio, se l’obiettivo finale è vendere a Tizio, forse non serve passare da tre società intermedie se non c’è un reale perché.
- In generale, se l’operazione ha senso, la regola d’oro è “aggiungere sostanza”: coinvolgere partner industriali, far risultare che la newco svolge attività vera, ecc. Così, in caso di verifica, si potrà guardare l’insieme e dire: “vedi, non era fatta solo per le tasse”. Prevenire è meglio che curare!
Passiamo ora alle tabelle riepilogative, che forniranno un colpo d’occhio su alcuni dei concetti e dati discussi.
Tabelle riepilogative
Tabella 1 – Confronto fiscale: vendita diretta d’azienda vs conferimento + cessione partecipazioni
Questa tabella confronta gli effetti fiscali (imposte dirette e registro) tra due modalità di cessione di un’attività economica, ipotizzando una società di capitali venditrice.
Scenario | Vendita diretta di azienda | Conferimento d’azienda + vendita partecipazioni |
---|---|---|
Struttura dell’operazione | Unico atto di cessione dell’azienda dal venditore all’acquirente. | Due atti: 1) conferimento dell’azienda in una NewCo (società conferitaria) contro quote; 2) cessione delle quote della NewCo all’acquirente finale. |
Plusvalenza realizzata | La differenza tra prezzo di cessione e valore contabile dell’azienda (avviamento incluso) è plusvalenza tassabile interamente in capo al venditore. Esempio: prezzo 10 mln, valori contabili 1 mln → plusvalenza 9 mln imponibile. | Atto 1: conferimento neutro (plusvalenza non rilevante fiscalmente se si applica art.176 TUIR). Atto 2: cessione quote – plusvalenza pari a (prezzo – valore fiscale partecipazione). Valore fiscale della partecipazione ricevuta = patrimonio netto conferito (1 mln). Quindi plusvalenza su quote ~9 mln. Tuttavia: se il venditore è società di capitali e la partecipazione è detenuta >12 mesi, si applica PEX (95% esente) . Solo il 5% di 9 mln = 0,45 mln tassabile. |
Imposte dirette dovute dal venditore | Tassazione della plusvalenza ai sensi art.86 TUIR: per società, 24% IRES su 9 mln = €2.160.000. (Per persone fisiche imprenditori, la plusvalenza sarebbe parte del reddito d’impresa con aliquota IRPEF progressiva, salvo esenzioni per aziende possedute da >5 anni). | Società di capitali venditrice: tassazione solo sul 5% della plusvalenza grazie a PEX art.87 TUIR (partecipazione qualificata, >12 mesi, requisiti attività svolta) . Quindi imponibile 0,45 mln, imposta 24% = €108.000. Risparmio rispetto a vendita diretta: ~€2.052.000. (Se venditore persona fisica non imprenditore: la cessione di partecipazioni qualificate è soggetta a imposta sostitutiva del 26% sul 100% dal 2019; prima aveva parziale imponibilità del 49,72%. Conferire l’azienda e poi vendere quote per persone fisiche può in alcuni casi ridurre l’aliquota effettiva se si beneficia di regimi transitori o si fraziona la cessione, ma dal 2019 la convenienza è meno marcata per PF). |
IVA | Cessione di azienda – operazione esclusa da IVA (art.2 co.3 lett. b DPR 633/72), quindi no IVA in entrambi i casi, ma soggetta a registro proporzionale . | Conferimento d’azienda – escluso da IVA (come sopra). Cessione quote – fuori campo IVA per natura (cessione di partecipazione non è cessione di bene né servizio ai fini IVA). |
Imposta di Registro | Proporzionale sul valore dell’azienda (al netto di eventuali passività accollate). Aliquote: 0,5% su valori mobiliari, 3% su valore avviamento e beni mobili, 9% su immobili (se inclusi) oltre imposte ipocatastali, ecc. Esempio semplice: se azienda ha avviamento di 5 mln e macchinari 2 mln, registro ~3%7 mln = €210.000* (più eventuale 9% su immobili). | Conferimento d’azienda in società – imposta di registro fissa €200 (atto societario). Cessione di quote societarie – imposta di registro fissa €200 (atto di trasferimento di partecipazioni sociali). Totale registro: circa €400. Risparmio: l’operazione frazionata paga registro fisso, contro migliaia o milioni di euro di registro proporzionale su cessione diretta . (Nota: dal 2018 l’art.20 DPR131/86 non consente di sommare gli atti per chiedere registro proporzionale, confermato da Cass. 7495/2024 ). |
Rischio di contestazione fiscale | Nessuno sullo schema in sé: la vendita diretta è la transazione standard, senza profili elusivi (potrebbero emergere altri tipi di accertamento: rettifica valore d’avviamento, ecc., ma non abuso del diritto). | Moderato: lo schema conferimento+cessione può essere oggetto di contestazione antiabuso se manca sostanza economica. In passato si rischiava la riqualifica ai fini registro (ora non più applicabile) . Oggi il rischio è un accertamento per abuso del diritto sulle imposte dirette: il Fisco potrebbe cercare di disconoscere la PEX e tassare come vendita d’azienda. Tuttavia, vi sono robuste difese normative (art.176 c.3 TUIR) e giurisprudenziali . Se ben pianificata (ragioni extrafiscali, intervallo temporale, ecc.), l’operazione è difendibile come lecita. |
Tabella 2 – Principali orientamenti giurisprudenziali recenti su conferimenti d’azienda e abuso
Sentenza (anno) | Oggetto | Principio espresso | Fonte |
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Cass. Sez. Trib. n.8542/2016 (2016) | Imposta di registro su conferimento di ramo d’azienda + vendita quote (Caso “Pharmacia”) | La cessione totalitaria di quote può essere riqualificata come cessione d’azienda ai fini registro, in base all’art.20 DPR 131/86, senza necessità di provare l’intento elusivo, data l’identità della funzione economica (trasferimento dell’azienda) . Nota: orientamento superato in seguito. | (Cass. 8542/16) |
Cass. Sez. Trib. n.2054/2017 (2017) | Imposta di registro; abuso del diritto in conferimento+cessione | Cambia orientamento: Art.20 DPR131 non è norma antielusiva; un conferimento di ramo d’azienda seguito da cessione quote può rappresentare una legittima scelta di un negozio invece che un altro, non rilevandosi abuso se l’operazione ha autonomia giuridica. Non si può riqualificare come cessione d’azienda unica . | (Cass. 2054/17) |
Cass. Sez. Trib. n.24288/2015 (2015) – SS.UU. intervenute nel 2018 su art.20 | Interpretazione art.20 DPR 131/86 (antielusione?) | (Prima della norma interpretativa) Le Sezioni Unite nel 2018 (sent. 12108/2018) hanno stabilito che l’art.20 è norma d’interpretazione atti e non di riqualificazione antielusiva, in coerenza con lo Statuto contribuente. Ciò ha portato alla conferma che ai fini registro conta la forma giuridica dell’atto. | (Atto indirizzo 2025 cit. Corte Cost) |
Cass. Sez. V ord. n.23135/2022 (2022) | Caso locazione di studio a società del professionista (sospetta elusione) | Richiama la definizione di abuso: “costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia come elemento predominante lo scopo elusivo”. Se invece vi sono ragioni extrafiscali apprezzabili (esigenze organizzative), non si configura abuso . Nel caso specifico, affitto di studio dalla propria società non è abuso se risponde a reali esigenze e a valori normali. | (Cass. 23135/22 – nota Eutekne) |
Cass. Sez. Trib. n.8474/2024 (2024) | (Probabile principio generale su abuso del diritto) | Ribadisce i criteri di abuso post art.10-bis: l’abuso si manifesta quando l’operazione ha come suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di elusione fiscale, senza sostanza economica, a fronte di vantaggi indebiti. Al contrario, libertà di scelta se motivazioni economiche serie. | (Avv. cartellesatt. cita Cass.8474) |
Cass. Sez. Trib. n.7495/2024 (2024) | Imposta di registro su cessione totalitaria di quote | Principio di diritto: “Anche in caso di cessione 100% di partecipazioni (società di persone o capitali), l’imposta di registro è dovuta in misura fissa, ai sensi dell’art.11 Tariffa, ed è preclusa la riqualificazione come cessione d’azienda in mancanza di elementi extra-testuali o atti collegati”. Ciò in forza dell’art.20 DPR131 interpretato autenticamente (L.205/2017 e L.145/2018) . | (Cass. 7495/24 – StudioCerbone) |
Cass. Pen. Sez. III n.52158/2018 (2018) | Reato sottrazione fraudolenta – cessione ramo d’azienda indebitata | “Può integrare il reato ex art.11 D.Lgs.74/2000 la cessione di un ramo d’azienda indebitato con il fisco, qualora non vengano contestualmente trasferiti (con clausola di accollo) i debiti tributari”. L’atto è fraudolento perché, pur con responsabilità solidale limitata del cessionario, rende più difficoltosa l’azione di riscossione erariale . | (Cass. pen. 52158/18 – ItaliaOggi) |
Cass. Pen. Sez. III n.46975/2018 (2018) | Reato sottrazione fraudolenta – conferimento asset a newco fittizia | Confermata la condanna degli amministratori per sottrazione fraudolenta: la società debitrice era stata spogliata del suo asset principale a favore di una newco fittiziamente intestata a terzi ma di fatto controllata dagli stessi, con sede fittizia. Operazione considerata artificiosa e diretta a sottrarre il bene alla garanzia del Fisco . | (Cass. pen. 46975/18 – ItaliaOggi) |
Tabella 3 – Elusione vs Evasione vs Sottrazione fraudolenta: differenze essenziali
Profilo | Elusione fiscale (abuso del diritto) | Evasione fiscale (violazione/frode) | Sottrazione fraudolenta ex art.11 D.Lgs.74/2000 |
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Condotta tipica | Uso di strumenti leciti in modo improprio per ottenere un indebito vantaggio fiscale (es. costruzione societaria artificiosa, operazioni circolari, interposizione di entità “vuote” solo per risparmiare imposte). | Violazione diretta di norme tributarie: omissione di dichiarazione di redditi, annotazione di operazioni inesistenti (fatture false), sottofatturazione volontaria, doppia contabilità, simulazione di contratti (es. far apparire una vendita come donazione o viceversa) al fine di non pagare le imposte dovute. | Atti dispositivi sui beni con carattere fraudolento per sottrarsi alla riscossione di imposte già dovute. Esempi: alienazioni simulate (intestare beni a terzi di comodo), costituzione di fondi patrimoniali o trust per schermare il patrimonio, conferimento d’azienda a società compiacente, vendite sottoprezzo a familiari, ecc., quando c’è un debito fiscale scaduto. |
Elemento chiave | Liceità formale, ma finalità fiscale prevalente e mancanza di sostanza economica. Non c’è violazione letterale di legge. Indebito vantaggio = aggiramento di norme anti-**. | Violazione di legge palese (o mediante artifici fraudolenti). C’è malizioasa inattantanza delle regole tributarie. Tipicamente comporta occultamento di materia imponibile. | Atto fraudolento ai danni del Fisco creditore. Qui il focus non è sulla sottrazione di base imponibile (che magari era accertata), ma sulla sottrazione di garanzie patrimoniali. Presuppone un debito tributario esistente o imminente e la volontà di renderne difficile il recupero. |
Normativa di riferimento | Art. 10-bis L.212/2000. In passato art.37-bis DPR600. Principi derivati da giurisprudenza (Cass., Corte UE). | Varie: es. art.4 D.Lgs.74/2000 (dichiarazione infedele), art.2 (frode con fatture false), art.3 (frode con artifici diversi), art.5 (omessa dichiarazione), art.37 DPR600 (interposizione fittizia accertamento), ecc. Norme sostanziali tributarie violate (TUIR, IVA) e corrispondenti sanzioni. | Art. 11 D.Lgs.74/2000 (reato penale specifico). Norme civilistiche sui trust/fondi patrimoniali possono venire in rilievo per valutare simulazione. |
Prova e onere | In sede tributaria, onere all’Agenzia di dimostrare mancanza di sostanza e vantaggio indebito; contribuente può difendersi provando valide ragioni extrafiscali . Standard probatorio: ponderato, basato su indizi concordanti (non basta l’esistenza del risparmio fiscale da solo). | Onere in capo al Fisco/Procura di provare l’elemento oggettivo (omissioni, falsità) e il dolo. Spesso tramite verifiche contabili, documenti, testimonianze. Standard: prova “oltre ogni ragionevole dubbio” in penale. | Onere alla Procura di provare: esistenza debito > soglia, atto compiuto, dolo specifico di sottrazione, natura simulata/fraudolenta. Si basa su indizi (es. legami tra soggetti, anomalia dell’operazione) e sul contesto (temporale: atto fatto subito prima o dopo iniziativa riscossiva; materiale: mantenimento controllo sui beni, ecc.). |
Effetti se accertata | L’operazione è disconosciuta fiscalmente: si ricalcola il tributo come se i vantaggi abusivi non spettassero. Recupero imposte e interessi. No sanzioni tributarie (se contribuente collaborativo) e no conseguenze penali per il contribuente . L’abuso “costituzionalmente non punibile” (Cass. 2008). | Applicazione di sanzioni amministrative (in genere dal 90% al 180% del tributo evaso per infedele; 30% per omessi versamenti, ecc.). Possibile denuncia penale se superate soglie (es. evaso > 100k in infedele, > 50k IVA non versata, ecc.). In caso di condanna penale: pene detentive variabili, interdizioni. | Sequestro/confisca dei beni oggetto degli atti fraudolenti (di regola fino a concorrenza del debito). Conseguenze penali: reclusione 6 mesi – 4 anni (fino 6 anni aggravata) , generalmente rivolta a chi ha posto in essere gli atti (amministratori, soci, beneficiari effettivi). Possibile estensione responsabilità 231 societaria se l’ente ne ha tratto vantaggio. |
Esempio pratico | Una società scorpora fittiziamente un ramo in una newco solo per far emergere perdite da compensare, ma quel ramo in realtà non ha autonomia (era un artificio contabile). Cassazione: abuso, disconosciute le perdite utilizzate. | Un imprenditore emette fatture false da una società fittizia per dedurre costi inesistenti e abbattere l’utile imponibile. È reato di dichiarazione fraudolenta (art.2 DLgs 74/2000) e sanzione per indebita detrazione IVA e deduzione costi. | Un contribuente con cartelle esattoriali trasferisce proprietà immobiliari a parenti simulando vendite, oppure la sua srl indebitata conferisce l’intera azienda a una nuova srl di cui occulta la titolarità. Obiettivo: rendere la riscossione infruttuosa. Questo è art.11: atto simulato/fraudolento volto a vanificare il recupero . |
Note finali: come si evince dalle tabelle e dalla trattazione, la legittimità o meno di un conferimento d’azienda in ottica elusiva dipende moltissimo dalle intenzioni comprovate e dalla sostanza dell’operazione. Il contribuente accorto, ben consigliato da un professionista, saprà strutturare le operazioni straordinarie in modo da evitare sia le trappole dell’abuso del diritto sia, ancor più, i rischi ben più gravi di violazioni o reati. In caso di contestazione, conoscere i propri diritti (contraddittorio, oneri probatori) e i precedenti favorevoli può fare la differenza nell’esito del contenzioso. L’importante è agire con trasparenza e documentare le ragioni economiche reali: ciò permetterà di difendere con successo la propria operazione di pianificazione fiscale, distinguendo la “legittima scelta negoziale” dall’abuso.
Fonti
- CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 8542 del 29 aprile 2016 – l’Amministrazione finanziaria puo’ riqualificare come cessione di azienda la cessione totalitaria delle quote di una societa’, senza essere tenuta a provare l’intento elusivo delle parti, attesa l’identita’ della funzione economica dei due contratti – Studio Cerbone
- Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. n. 74/2000)
- Cassazione 23225/2022 – Osservatorio Giustizia Tributaria
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Il conferimento d’azienda è un’operazione legittima che permette di trasferire un’attività o un suo ramo in una società, spesso come passaggio preliminare a fusioni, cessioni o riorganizzazioni. Tuttavia, il Fisco può ritenere che l’operazione sia stata realizzata unicamente per ottenere vantaggi fiscali indebiti (es. evitare imposte su plusvalenze o beneficiare di regimi agevolati) e contestarla come abuso del diritto.
👉 Prima regola: dimostrare che il conferimento risponde a reali esigenze economiche e organizzative, non solo fiscali.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Conferimenti strumentali a una successiva cessione di quote, per evitare la tassazione diretta della plusvalenza;
- Assenza di reali ragioni economiche, con l’operazione utilizzata solo per risparmiare imposte;
- Valutazioni artificiose dell’azienda per creare basi imponibili favorevoli;
- Operazioni a catena (conferimento + cessione o fusione) viste come pianificazione fiscale aggressiva;
- Incoerenza tra il contenuto economico e la forma giuridica scelta.
📌 Conseguenze della contestazione
- Disconoscimento dei benefici fiscali previsti per il conferimento;
- Recupero delle imposte su plusvalenze o altre basi imponibili;
- Applicazione di sanzioni tributarie;
- Interessi di mora;
- Possibili ulteriori controlli su altre operazioni societarie.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Motivazioni economiche: il conferimento era finalizzato a una riorganizzazione, espansione o tutela patrimoniale?
- Documentazione: esistono perizie, delibere e atti che giustifichino l’operazione?
- Valutazioni dell’azienda: sono state effettuate da professionisti indipendenti?
- Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia deve dimostrare che l’operazione è priva di sostanza economica;
- Regolarità della notifica e rispetto dei termini di decadenza.
🧾 Documenti utili alla difesa
- Atto notarile di conferimento e allegati;
- Perizie di stima del valore dell’azienda o del ramo;
- Verbali di assemblea e delibere societarie;
- Relazioni illustrative sulle motivazioni dell’operazione;
- Bilanci prima e dopo il conferimento;
- Contratti successivi (fusioni, cessioni, ecc.) che provino la coerenza della riorganizzazione.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare le ragioni extrafiscali (gestionali, patrimoniali, organizzative) alla base del conferimento;
- Contestare l’abuso del diritto se il Fisco non prova l’assenza di motivazioni economiche;
- Eccepire vizi formali: motivazione insufficiente, notifica irregolare, decadenza dei termini;
- Chiedere autotutela in presenza di documentazione già depositata ma ignorata;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni, con possibilità di sospendere la riscossione;
- Mediazione tributaria (quando obbligatoria) per ridurre sanzioni e chiudere la lite.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza l’atto di conferimento e la documentazione collegata;
📌 Verifica la legittimità della contestazione dell’Agenzia delle Entrate;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi per dimostrare la validità dell’operazione;
⚖️ Ti rappresenta nel contraddittorio e nei giudizi tributari;
🔁 Suggerisce strategie preventive per strutturare conferimenti e riorganizzazioni societarie in modo sicuro.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali su conferimenti e operazioni straordinarie;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e soci contro contestazioni di elusione fiscale;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui conferimenti d’azienda come operazioni elusive non sempre hanno basi solide: spesso derivano da presunzioni e interpretazioni restrittive.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale sostanza economica e organizzativa dell’operazione, evitare la riqualificazione come abuso del diritto e proteggere la tua impresa da pretese fiscali indebite.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sui conferimenti d’azienda inizia qui.