La Rinegoziazione dei Contratti nella Crisi d’Impresa: Le Sovravvenienze Contrattuali

Hai un’impresa in crisi e ti stai chiedendo se puoi rinegoziare i contratti troppo onerosi a causa di eventi imprevisti? Hai fornitori, locatori o partner commerciali con cui i rapporti sono diventati insostenibili ma formalmente ancora vincolanti?

Quando la crisi aziendale è aggravata da sopravvenienze contrattuali – cioè fatti nuovi che alterano l’equilibrio originario del contratto – l’imprenditore ha il diritto e in certi casi anche il dovere di chiedere una rinegoziazione. Oggi, con la composizione negoziata, esistono strumenti giuridici per farlo in modo trasparente e protetto, anche senza dover arrivare alla risoluzione o al contenzioso.

Che cosa sono le sopravvenienze contrattuali?
Sono eventi straordinari e imprevedibili, come l’aumento esponenziale dei costi, crisi settoriali, guerre, pandemie o cambiamenti normativi, che rendono eccessivamente onerosa l’esecuzione di un contratto rispetto a quanto previsto all’origine. In questi casi, può venire meno l’equilibrio tra le prestazioni e l’imprenditore può chiedere di rivedere le condizioni.

È possibile rinegoziare i contratti in fase di crisi?
Sì, soprattutto nel contesto della composizione negoziata della crisi. La legge prevede che, quando l’equilibrio contrattuale è compromesso da sopravvenienze gravi, l’imprenditore può avviare un confronto con la controparte per proporre una modifica delle condizioni. L’obiettivo è adattare il contratto alla nuova situazione economica, garantendo la prosecuzione del rapporto e la sostenibilità dell’attività.

Quali contratti si possono rinegoziare?
Tutti quelli di durata che impattano in modo rilevante sui flussi aziendali:
– Contratti di fornitura a lungo termine
– Affitti commerciali
– Leasing
– Accordi di servizio continuativi
– Appalti
La rinegoziazione non è automatica, ma può essere avviata dimostrando oggettivamente lo squilibrio sopravvenuto.

Come funziona la rinegoziazione nella composizione negoziata?
– L’imprenditore formula la proposta con l’assistenza dell’esperto indipendente
– Illustra alla controparte le ragioni economiche del cambiamento richiesto
– Dimostra, con documenti e dati contabili, che il contratto attuale compromette la continuità aziendale
– Propone modifiche sostenibili e bilanciate per entrambe le parti
Se la controparte rifiuta in modo irragionevole, può esporsi a responsabilità per mancata cooperazione in buona fede.

Cosa succede se non si rinegozia?
– Il contratto resta in vigore, ma può diventare causa diretta dell’insolvenza
– L’imprenditore può trovarsi costretto a risolvere il contratto o cessare l’attività
– La mancata rinegoziazione può ostacolare anche i tentativi di accordo con altri creditori
– Si rischia un peggioramento del rating bancario e la perdita di liquidità

Quali vantaggi comporta la rinegoziazione?
– Consente all’impresa di alleggerire i costi fissi
– Permette di mantenere attivi i rapporti strategici senza arrivare allo scontro
– Dimostra ai creditori la volontà concreta di risanare l’azienda
– Favorisce un ambiente collaborativo utile anche per l’accesso ad altri strumenti di composizione della crisi

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto della crisi d’impresa – ti spiega quando e come puoi rinegoziare i contratti aziendali divenuti insostenibili, quali diritti hai e come usare correttamente la composizione negoziata per proteggere la tua attività.

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Introduzione

La crisi d’impresa – uno stato di difficoltà economico-finanziaria che può preludere all’insolvenza – mette a dura prova l’equilibrio originario dei contratti stipulati dall’imprenditore. In tali frangenti possono verificarsi sopravvenienze contrattuali, ossia eventi straordinari e imprevedibili che alterano radicalmente le circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto, rendendo la prestazione del debitore estremamente onerosa o addirittura impossibile da eseguire. Esempi recenti sono le restrizioni pandemiche da Covid-19, il rincaro repentino delle materie prime o dell’energia, crisi geopolitiche e altre evenienze fuori dall’alea normale del contratto. Di fronte a queste situazioni, il debitore in crisi si chiede quali strumenti giuridici gli consentano di rinegoziare i contratti per adattarli alla nuova realtà, evitando sia la risoluzione contrattuale sia il fallimento dell’impresa.

Nel nostro ordinamento il tema è tradizionalmente affrontato dalla disciplina dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c.), secondo cui se eventi straordinari e imprevedibili rendono una prestazione eccessivamente onerosa, la parte svantaggiata può chiedere la risoluzione del contratto, mentre la controparte può evitare la risoluzione offrendo una modifica equa delle condizioni contrattuali. Questa norma incentiva indirettamente una rinegoziazione: la parte avvantaggiata, per conservare il contratto, ha interesse a proporre un adeguamento equo (riduzione del corrispettivo, modifica di termini, ecc.) prima che il giudice dichiari lo scioglimento. Tuttavia, il codice civile non prevede un obbligo esplicito di rinegoziare. È la clausola generale di buona fede e correttezza (artt. 1175, 1375 c.c.) ad aver ispirato la dottrina e in tempi recenti anche la giurisprudenza verso il riconoscimento di un dovere di rinegoziazione in presenza di sopravvenienze straordinarie. In un influente documento del 2020, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione ha affermato che esiste un principio generale per cui vi è un “obbligo di rinegoziazione dei contratti ogni qualvolta una sopravvenienza rovesci il terreno fattuale e l’assetto giuridico-economico su cui è eretta la pattuizione negoziale”, nel senso che la parte danneggiata “deve poter avere la possibilità di rinegoziare il contenuto delle prestazioni”. Questo obbligo impone di avviare nuove trattative in buona fede, pur senza garantire il raggiungimento di un accordo modificativo: in altre parole, la parte che rifiuta pregiudizialmente di trattare o conduce negoziati di mera facciata viola il dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto.

Tali principi, emersi in chiave ricostruttiva durante l’emergenza pandemica, hanno trovato riscontro parziale nella giurisprudenza recente. Ad esempio, alcuni tribunali hanno adottato provvedimenti d’urgenza per riequilibrare temporaneamente prestazioni (come la riduzione dei canoni di locazione durante i lockdown). La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16113 del 2025, ha poi chiarito i confini dei rimedi offerti dal diritto positivo: il rispetto delle misure anti-Covid è stato considerato “causa non imputabile” del mancato adempimento (escludendo inadempimento e risarcimento), ma non comporta l’esistenza di un potere del giudice di ridurre d’ufficio la prestazione dovuta. In altre parole, pur riconoscendo che la pandemia possa giustificare il mancato adempimento senza colpa del debitore, la Cassazione esclude che il contraente svantaggiato abbia un diritto potestativo di ottenere in giudizio una modifica al ribasso delle proprie obbligazioni contrattuali. Il rimedio tipico resta quello previsto dall’art.1467 c.c.: la risoluzione per eccessiva onerosità, con facoltà della controparte di offrire un riequilibrio equo del contratto per conservarlo. Questa pronuncia, pur ribadendo il principio di tipicità dei rimedi contrattuali, non nega l’importanza della rinegoziazione: al contrario, la facoltà di adeguamento prevista dalla legge implica che le parti, di fronte a sopravvenienze contrattuali, dovrebbero attivarsi per concordare volontariamente modifiche delle condizioni al fine di salvaguardare il rapporto contrattuale.

Alla luce di ciò, la rinegoziazione dei contratti nella crisi d’impresa si pone come un passaggio spesso necessario e vantaggioso dal punto di vista del debitore: consente di evitare sia il tracollo dell’azienda (che potrebbe derivare dal dover adempiere obbligazioni divenute insostenibili) sia l’apertura di procedure concorsuali distruttive, attraverso una modifica consensuale dei termini contrattuali. Naturalmente, la riuscita della rinegoziazione dipende anche dalla cooperazione dei creditori/controparti contrattuali, i quali a loro volta hanno interesse a non provocare il fallimento del debitore (scenario in cui rischiano di subire perdite ancora maggiori). Per agevolare questo processo, il legislatore italiano – in particolare con il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (d.lgs. 14/2019), entrato definitivamente in vigore nel 2022 – ha introdotto strumenti specifici che favoriscono la continuazione dei rapporti contrattuali e la loro eventuale rinegoziazione nell’interesse della risanamento aziendale. Tali strumenti, spesso ispirati anche alla Direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva, mirano a bilanciare la tutela dei creditori con l’esigenza di conservare il valore d’impresa e i rapporti produttivi, considerati fondamentali per superare la crisi.

Di seguito esamineremo, dal punto di vista del debitore, le principali soluzioni giuridiche – ordinamentali e negoziali – per gestire le sopravvenienze contrattuali in situazioni di crisi d’impresa. Partiremo dai rimedi civilistici generali (come l’eccessiva onerosità sopravvenuta) e dalla loro evoluzione, per poi analizzare in dettaglio gli strumenti previsti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII). In particolare tratteremo la composizione negoziata della crisi, i piani attestati di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti, il concordato preventivo (con le tutele per i contratti pendenti e la possibilità di scioglimento/sospensione degli stessi), senza tralasciare le implicazioni in caso di liquidazione giudiziale. Inoltre, esamineremo gli strumenti di natura finanziaria (come le moratorie, i nuovi finanziamenti prededucibili, la transazione fiscale) e quelli di natura lavorativa (come gli ammortizzatori sociali e la gestione dei rapporti di lavoro) che accompagnano i processi di ristrutturazione, ponendo particolare attenzione alla normativa italiana vigente al giugno 2025 e alle più recenti pronunce giurisprudenziali. Saranno fornite tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione di domande e risposte per chiarire i dubbi più frequenti, il tutto con un linguaggio giuridico accurato ma anche divulgativo, adatto sia a professionisti legali sia a imprenditori e privati interessati a comprendere le opportunità offerte dalla legge per affrontare contratti divenuti insostenibili.

Sopravvenienze contrattuali ed eccessiva onerosità: inquadramento generale

Prima di entrare nel vivo degli strumenti della crisi d’impresa, è opportuno definire meglio cosa si intende per sopravvenienze contrattuali e quali rimedi generali l’ordinamento prevede a tutela del contraente gravato da obbligazioni divenute troppo onerose a causa di eventi eccezionali. In diritto civile, il principio cardine è che “i contratti devono essere rispettati” (pacta sunt servanda); tuttavia, questo assioma trova un temperamento nell’art. 1467 del codice civile, dedicato ai contratti di durata o ad esecuzione differita con prestazioni corrispettive. Tale norma stabilisce che se avvenimenti straordinari e imprevedibili (rispetto al momento del contratto) rendono eccessivamente onerosa la prestazione di una delle parti, questa può chiedere la risoluzione del contratto. La controparte, per evitare lo scioglimento, può offrire di modificare equamente le condizioni contrattuali, così da ricondurre il rapporto a giustizia (cioè ristabilire l’equilibrio originario). Questo meccanismo – spesso definito come espressione della clausola rebus sic stantibus implicita nei contratti di durata – rappresenta la valvola di sicurezza generale nel nostro ordinamento per le sopravvenienze perturbative dell’equilibrio contrattuale. Si noti che l’onerosità sopravvenuta, per essere giuridicamente rilevante, deve eccedere la normale alea del contratto: in altri termini, l’evento sopravvenuto deve essere esterno e imprevedibile, tale da stravolgere la base del negozio. Diversamente, se il rischio dell’evento rientrava nelle normali vicende possibili (alea normale) o era stato assunto da una parte mediante clausole contrattuali, l’art.1467 non si applica.

Dal punto di vista del debitore, l’art.1467 c.c. offre sì una via d’uscita dal contratto eccessivamente oneroso (evitando di dover eseguire una prestazione rovinosamente sproporzionata), ma non garantisce automaticamente una conservazione del rapporto a condizioni più eque: la prosecuzione del contratto dipende dalla volontà della controparte di accettare un adattamento. In assenza di accordo, il risultato è la risoluzione, che in molti casi può aggravare la crisi d’impresa (si pensi alla perdita di un contratto di fornitura essenziale per l’azienda, oppure alla risoluzione di un leasing immobiliare che priva l’impresa dei locali in cui opera). Pertanto, il debitore in crisi ha un forte interesse a trovare un’intesa con la controparte contrattuale, piuttosto che giungere alla risoluzione giudiziale: negoziare nuovi termini (ad esempio una riduzione quantitativa della propria prestazione, una dilazione nei pagamenti, una sospensione temporanea dell’esecuzione, etc.) gli consente di evitare tanto l’inadempimento quanto la cessazione del rapporto, preservando così i vantaggi economici futuri del contratto, pur alleggerendone i costi. D’altro canto, anche la controparte (spesso un creditore o fornitore) potrebbe avere convenienza a mantenere vivo il contratto adattandolo, anziché vederlo risolto e dover insinuare un credito chirografario in una eventuale procedura concorsuale del debitore.

Proprio facendo leva sul canone di correttezza e buona fede contrattuale, negli ultimi anni dottrina e giurisprudenza hanno sviluppato il concetto di un obbligo di rinegoziazione in buona fede delle clausole contrattuali in presenza di sopravvenienze eccezionali. Tale obbligo, sebbene non codificato espressamente (fatta salva l’ipotesi particolare dei contratti pubblici, dove oggi esistono clausole di revisione prezzi obbligatorie in taluni casi), è stato argomentato sulla base degli artt. 1374 e 1375 c.c.: ogni contratto va integrato secondo equità e interpretato/eseguito secondo buona fede. Significativamente, la già citata Relazione n.56/2020 dell’Ufficio del Massimario della Cassazione sostiene che la rinegoziazione debba diventare un “passaggio obbligato” per preservare l’originario equilibrio economico del contratto quando questo sia sconvolto da fatti sopravvenuti. In caso di rifiuto ingiustificato di trattare da parte di uno dei contraenti, si configurerebbe addirittura un inadempimento agli obblighi contrattuali di buona fede. Sempre secondo questo orientamento, il giudice potrebbe reagire a tale inadempimento imponendo rimedi specifici: oltre al risarcimento dei danni subiti dalla parte che avrebbe voluto rinegoziare, si ipotizza persino la possibilità di una esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ex art. 2932 c.c., ossia una sentenza che tenga luogo del contratto modificativo non concluso dalle parti. Si tratta, è bene precisarlo, di elaborazioni esegetiche che spingono il diritto vivente oltre il dato positivo tradizionale, e che testimoniano l’esigenza, avvertita in piena emergenza Covid, di trovare soluzioni efficaci per salvare i contratti senza attendere i tempi (e i costi) di un contenzioso risolutorio.

Un esempio illuminante dell’evoluzione giurisprudenziale è offerto dalla sentenza del Tribunale di Firenze n. 6754/2022, emessa nell’ambito della nuova procedura di composizione negoziata (di cui diremo oltre). In quel caso una società debitrice aveva chiesto di rideterminare equamente il prezzo di un contratto di fornitura, divenuto gravoso a causa del perdurare della pandemia. Ebbene, il Tribunale ha riconosciuto “per la prima volta” il potere del giudice di modificare le clausole negoziali in corso di esecuzione, al fine di assicurare la continuità aziendale, ma solo se l’eccessiva onerosità è direttamente riconducibile alla crisi pandemica. In applicazione dell’art. 10, co.2, D.L.118/2021 (norma speciale di cui presto si dirà), il giudice fiorentino ha subordinato l’intervento riequilibratore a rigorosi presupposti: la verifica preliminare dello stato di squilibrio finanziario dell’impresa e della ragionevole prospettiva di risanamento; l’accertamento del nesso causale immediato tra pandemia e squilibrio contrattuale; la constatazione che le parti, pur invitate, non siano riuscite autonomamente a raggiungere un accordo di rinegoziazione; la valutazione della correttezza del comportamento del debitore durante le trattative e della necessità di garantire un indennizzo alla controparte per evitare ingiusti sacrifici a suo carico. Importante, la sentenza ha ribadito che tale potere giudiziale di integrazione temporanea del contratto non si estende ai contratti di lavoro, i quali in caso di eccessiva onerosità vanno risolti secondo le regole ordinarie (licenziamento per motivi economici) e non possono essere modificati coattivamente dal giudice. Questa decisione si muove nel solco tracciato dalla dottrina della buona fede, ampliando – sebbene in un caso eccezionale legato al Covid-19 – lo spazio di intervento eteronomo sul contenuto del contratto nell’esclusivo interesse della continuità aziendale.

In sintesi, a livello generale il quadro normativo sulle sopravvenienze contrattuali vede, da un lato, la disposizione dell’art.1467 c.c. come rimedio principe per il contraente in difficoltà (risoluzione o rinegoziazione volontaria su iniziativa della controparte), dall’altro una tendenza giurisprudenziale a valorizzare i principi di buona fede e solidarietà contrattuale per imporre alle parti quantomeno un tentativo serio di rinegoziazione prima di arrivare allo scioglimento del vincolo. Questo trend, accentuatosi con la crisi pandemica, ha preparato il terreno per alcuni interventi legislativi ad hoc in materia di crisi d’impresa, che hanno codificato specifici strumenti per favorire la conservazione o la revisione dei contratti pendenti quando un’impresa si trova in stato di crisi o insolvenza. Tali strumenti si inseriscono nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) e rappresentano, per il debitore, opportunità concrete di ottenere una rinegoziazione o comunque una gestione controllata dei propri rapporti contrattuali durante la crisi, anche in modo più incisivo rispetto alle generali tutele civilistiche. Nel capitolo seguente analizzeremo in dettaglio questi strumenti, focalizzando l’attenzione sulle possibilità di rinegoziazione dei contratti offerte dalle varie procedure di regolazione della crisi previste dal d.lgs. 14/2019 (come modificato ed integrato fino al 2025).

Strumenti del Codice della Crisi d’Impresa per la gestione dei contratti in crisi

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), introdotto con d.lgs. 14/2019 e successivamente modificato da vari provvedimenti (d.lgs. 147/2020, D.L. 118/2021 conv. in L. 147/2021, d.lgs. 83/2022 e d.lgs. 136/2024), ha profondamente innovato l’approccio normativo alla gestione dei contratti durante le situazioni di crisi o insolvenza dell’imprenditore. L’obiettivo di fondo è duplice: preservare la continuità aziendale quando possibile, evitando che la mera pendenza di una procedura concorsuale determini la cessazione di rapporti contrattuali vitali, e al tempo stesso consentire al debitore di liberarsi dai contratti maggiormente onerosi o non coerenti con il piano di risanamento, attraverso procedure controllate e con equo indennizzo per la controparte. In questa sezione esamineremo, uno per uno, gli strumenti offerti dal CCII – dalla fase precoce e volontaria della composizione negoziata fino al concordato preventivo e alla liquidazione giudiziale – evidenziando per ciascuno le opportunità di rinegoziazione o ristrutturazione dei contratti dal punto di vista del debitore.

Composizione negoziata della crisi: negoziazione assistita e tutela dei contratti

Uno degli strumenti più innovativi introdotti di recente è la composizione negoziata della crisi (disciplinata originariamente dal D.L. 118/2021, conv. in L. 147/2021, e ora parte integrante del CCII). Si tratta di una procedura volontaria e stragiudiziale, attivabile dall’imprenditore commerciale o agricolo in stato di crisi o insolvenza incipiente, finalizzata a favorire la negoziazione di accordi con i creditori sotto la guida di un esperto indipendente. In altre parole, l’imprenditore in difficoltà può richiedere la nomina di un esperto della crisi (selezionato da un elenco tenuto presso le Camere di Commercio) il quale lo assiste nel tentativo di trovare un accordo con i vari stakeholder (banche, fornitori, fisco, ecc.), evitando di ricorrere subito a procedure concorsuali giudiziarie.

Dal punto di vista dei contratti, la composizione negoziata offre diversi strumenti al debitore. Anzitutto, durante le trattative il debitore può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive a tutela del patrimonio: ad esempio, la sospensione delle azioni esecutive individuali da parte dei creditori e il divieto per questi ultimi di acquisire titoli di prelazione durante le negoziazioni (art. 6, D.L. 118/2021). Tra queste misure protettive rientra anche il blocco di azioni unilaterali dei contraenti in bonis sui contratti pendenti. In particolare, l’art. 6, comma 5 del D.L. 118/2021 (oggi trasfuso nel CCII) dispone che i creditori sottoposti a misure protettive non possono rifiutare la propria prestazione né risolvere anticipatamente il contratto né modificarne le condizioni in danno del debitore per il solo fatto che quest’ultimo non paga i crediti scaduti anteriori. Si tratta, in sostanza, di un divieto delle cosiddette clausole ipso facto: il creditore/fornitore non può interrompere forniture o servizi dovuti in base a contratti di durata pendenti adducendo come unico motivo il mancato pagamento di precedenti fatture o rate scadute prima dell’avvio della composizione negoziata. L’Italia, recependo integralmente quanto previsto dall’art. 7(4) della Direttiva UE 2019/1023, ha esteso tale protezione a tutti i contratti pendenti, evitando distinzioni tra contratti “essenziali” e non essenziali. In questo modo si previene il rischio che, durante le trattative, un fornitore non essenziale ma strategico interrompa la propria prestazione e provochi un effetto domino sull’attività aziendale. Questa tutela, va sottolineato, non legittima il debitore a non pagare per intero le forniture correnti: anzi, nella composizione negoziata il debitore può scegliere se pagare o meno i debiti anteriori man mano che vengono a scadenza (art. 6, co.1 D.L.118/2021), proprio per evitare di pregiudicare i rapporti con taluni creditori e mantenere la fiducia commerciale. Se però decide – per mancanza di liquidità o per moratoria concordata – di sospendere i pagamenti anteriori, i creditori protetti non potranno rivalersi interrompendo i contratti in corso. In pratica, grazie a questa misura, i contratti pendenti proseguono forzosamente alle condizioni originarie, e la controparte viene temporaneamente privata sia del rimedio di autotutela (eccezione di inadempimento ex art.1460 c.c.) sia di quello di risoluzione per inadempimento, limitatamente alle obbligazioni pregresse del debitore. Si è notato infatti che una situazione in cui la legge vieta al creditore la sospensione della propria prestazione non è del tutto nuova: l’art.1460, co.2 c.c. già impedisce di rifiutare la prestazione quando, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto sarebbe contrario a buona fede. Nel contesto concorsuale, si è argomentato che il debitore che non paga i debiti anteriori non lo fa per propria volontà maliziosa ma perché glielo impedisce la legge (nel concordato) o perché cerca di evitare il dissesto (nella composizione negoziata), e che comunque i nuovi crediti maturati dalla controparte sarebbero in prededuzione se la procedura sfocia in concorso. Tuttavia, poiché nella composizione negoziata i nuovi crediti dei fornitori non sono automaticamente garantiti da prededuzione (a differenza del concordato preventivo) né il debitore è obbligato per legge a sospendere tutti i pagamenti, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre questa regola specifica a tutela dei contratti pendenti.

Dal punto di vista del debitore, la continuazione coattiva dei contratti pendenti è un vantaggio fondamentale: gli consente di preservare i rapporti contrattuali vitali (forniture di materie prime, contratti di locazione dell’immobile aziendale, contratti di distribuzione, utenze essenziali, ecc.) durante la fase delicata delle trattative, senza temere che i partner contrattuali, allarmati dallo stato di crisi, recedano o richiedano garanzie aggiuntive o condizioni peggiorative. Ciò mantiene la going concern dell’impresa, indispensabile per qualsiasi prospettiva di risanamento. Di converso, bisogna riconoscere che questa prosecuzione forzosa incide sui diritti del contraente in bonis, il quale viene obbligato a continuare la sua prestazione pur accumulando nuovi crediti che – se la negoziazione fallisse – potrebbero essere non pagati integralmente. La Direttiva Insolvency ammette che gli Stati possano prevedere salvaguardie per le controparti al fine di evitare pregiudizi ingiusti (ad es. possibilità di ottenere pagamenti in prededuzione per le nuove forniture, garanzie aggiuntive, ecc.). L’ordinamento italiano, nella disciplina della composizione negoziata, non ha previsto meccanismi compensativi specifici a favore dei fornitori “coattivamente prigionieri” del contratto. Ciò ha suscitato qualche dubbio di compatibilità costituzionale ed europea, paventandosi il rischio di porre a carico della controparte una sorta di espropriazione del credito futuro senza adeguata tutela. Resta il fatto che, nella prassi, un fornitore essenziale sarà tendenzialmente pagato in via di fatto dal debitore (magari privilegiandolo rispetto ad altri creditori, come consentito in composizione negoziata) per non inimicarselo; viceversa, qualora il debitore non adempia nemmeno le obbligazioni successive all’avvio della composizione negoziata, allora il fornitore potrà legittimamente interrompere la prestazione: infatti il divieto di rifiuto riguarda solo i mancati pagamenti anteriori all’avvio della procedura, mentre se il debitore non paga anche le forniture successive, torna applicabile l’eccezione di inadempimento e la controparte potrà sospendere la propria prestazione.

Oltre alla protezione dei contratti pendenti, la composizione negoziata introduce un ulteriore strumento a disposizione del debitore: la possibilità di ottenere una rinegoziazione guidata o addirittura imposta dal tribunale di alcuni contratti divenuti eccessivamente onerosi. Questo è previsto dall’art. 10, comma 2, D.L. 118/2021 (norma temporanea poi integrata nel CCII), pensata soprattutto per l’impatto della pandemia. La disposizione stabilisce che l’esperto nominato può “invitare le parti a rideterminare, secondo buona fede, il contenuto dei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita” qualora la prestazione di una di esse sia divenuta eccessivamente onerosa per effetto della pandemia da Covid-19. Dunque l’esperto ha il compito di individuare quei contratti di durata (forniture a lungo termine, locazioni commerciali, contratti di finanziamento, ecc.) in cui l’emergenza sanitaria ha alterato profondamente lo scambio contrattuale, e di sollecitare le parti a trovare un nuovo equilibrio negoziale in buona fede. Se le parti non trovano un accordo spontaneo, il debitore può chiedere al tribunale di intervenire: il giudice, acquisito il parere dell’esperto e sentita l’altra parte, può rideterminare equamente le condizioni del contratto per il periodo strettamente necessario e come misura indispensabile ad assicurare la continuità aziendale. In pratica, il tribunale può modificare d’ufficio clausole come il corrispettivo, i termini di pagamento, la durata del contratto, ecc., in modo da ristabilire un equilibrio sostenibile. La legge precisa che, se accoglie la domanda, il giudice deve “assicurare l’equilibrio tra le prestazioni” anche eventualmente stabilendo il pagamento di un indennizzo a favore della parte che subisce la modifica, così da compensare in parte il sacrificio impostole. Questa misura rappresenta una novità dirompente nel panorama civilistico italiano: per la prima volta si attribuisce espressamente al giudice il potere di intervenire sul contenuto di un contratto in corso, senza consenso di entrambe le parti, al fine di salvarlo. La giustificazione risiede nell’eccezionalità della congiuntura pandemica e nell’interesse generale a preservare la continuità delle imprese. Va sottolineato che l’intervento giudiziale è soggetto a condizioni stringenti: deve trattarsi di contratti a esecuzione protratta nel tempo (continuata, periodica o differita) conclusi prima dell’emergenza pandemica; la causa dello squilibrio deve essere direttamente il Covid-19 e le conseguenti misure restrittive; e soprattutto l’impresa debitrice deve trovarsi in una situazione di crisi tale per cui quella modifica contrattuale è indispensabile a evitare il fallimento (continuity test). Inoltre, come già accennato, la norma esclude espressamente i contratti di lavoro dal suo campo di applicazione: i rapporti di lavoro subordinato non possono essere “rinegoziati” dal giudice (ad es. riducendo salari o orario) ma restano soggetti alle tutele giuslavoristiche ordinarie.

Questa facoltà di rinegoziazione coattiva, pur prevista in via emergenziale, è tuttora applicabile (non risulta abrogata al giugno 2025) e costituisce un precedente importante. La citata sentenza del Tribunale di Firenze del marzo 2022 ne ha fatto applicazione, confermando che il giudice può correggere temporaneamente i termini del contratto squilibrato dalla pandemia, purché ciò sia necessario a tenere in vita l’impresa. Si badi: “temporaneamente” significa che la modifica avrà effetto per il periodo strettamente necessario a superare la fase critica, dopodiché le condizioni contrattuali originarie torneranno in vigore (salvo diverso accordo definitivo tra le parti). È quindi un rimedio mirato a traghettare l’azienda fuori dalla crisi, senza stabilmente alterare il sinallagma contrattuale oltre il necessario. Per il debitore, lo strumento dell’art.10 è prezioso perché, in casi estremi, consente di ottenere autoritativamente quella modifica contrattuale che la controparte magari rifiutava di concedere, evitando però la risoluzione del contratto. Di contro, dal lato del creditore/contraente in bonis, tale intervento può essere percepito come impositivo; tuttavia la legge bilancia gli interessi prevedendo appunto l’equilibrio tra prestazioni e un possibile indennizzo, nonché richiedendo il rispetto del principio di buona fede (ad es. il debitore deve dimostrare di aver seriamente negoziato prima di chiedere l’aiuto del giudice). In definitiva, la composizione negoziata fornisce un ventaglio di soluzioni graduali: dalla rinegoziazione volontaria favorita dall’esperto e protetta dal divieto di recesso dei partner contrattuali, fino alla rinegoziazione forzata per via giudiziaria in situazioni eccezionali (pandemia). Essa costituisce quindi un primo presidio normativo per la gestione delle sopravvenienze contrattuali in ottica conservativa, da utilizzare prima di accedere a strumenti più incisivi come il concordato preventivo.

Dal punto di vista procedurale, è utile sapere che la composizione negoziata non è una procedura concorsuale in senso stretto: il debitore rimane in possesso della gestione e non vi è apertura formale di concorso sui beni. Ciò significa che non vi sono automatismi di legge di scioglimento dei contratti: anzi, come visto, la regola generale è la loro prosecuzione. Se tuttavia le trattative falliscono, il debitore potrà scegliere di accedere ad altri strumenti (accordo di ristrutturazione, concordato preventivo, ecc.) entro un breve periodo. In alcuni casi, la legge ha previsto una via d’uscita facilitata: qualora la composizione negoziata non riesca a produrre accordi, l’imprenditore può domandare l’omologazione di un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, senza necessità di approvazione dei creditori (figura introdotta dall’art.18 D.L. 118/2021). Questo però riguarda la liquidazione e non comporta rinegoziazione di contratti, se non eventualmente la cessione degli stessi a terzi insieme all’azienda.

In conclusione, la composizione negoziata rappresenta un importante strumento “di allerta e prevenzione” dal punto di vista del debitore: gli consente di congelare le pretese dei creditori e di mantenere attivi i contratti essenziali (evitando che la crisi faccia terra bruciata attorno all’azienda), il tutto mentre cerca di rinegoziare il proprio indebitamento e i propri impegni contrattuali sotto la supervisione di un esperto. Essa incarna lo spirito della nuova normativa della crisi improntata al principio della continuità aziendale. Naturalmente, se il debitore riesce in questa fase a ottenere accordi modificativi con taluni creditori o fornitori (ad esempio dilazioni di pagamento, riduzione di canoni, nuove condizioni), tali accordi avranno natura negoziale e saranno vincolanti tra le parti secondo le regole comuni (potranno eventualmente confluire in un accordo di ristrutturazione omologato o in un piano attestato, come vedremo). Se invece la composizione fallisce, nulla vieta che il debitore faccia valere in sede di concordato preventivo la sopravvenuta eccessiva onerosità di certi contratti chiedendone lo scioglimento al tribunale, piuttosto che continuare a eseguirli. Nel prossimo paragrafo passeremo agli strumenti propriamente concorsuali o para-concorsuali, che consentono di rinegoziare o regolare i rapporti contrattuali dell’impresa in crisi con effetti più incisivi e, se necessario, con il coinvolgimento di tutte le parti interessate.

Piano attestato di risanamento: rinegoziazione privata con protezione limitata

Il piano attestato di risanamento è uno strumento di natura strettamente privatistica che, pur esistendo già sotto la vecchia Legge Fallimentare (art. 67, co.3, lett. d, l.f.), trova riconoscimento anche nel Codice della Crisi (artt. 56 e 57 CCII). Si tratta, in sostanza, di un piano di risanamento aziendale predisposto dall’imprenditore in crisi (o insolvente reversibile) e attestato da un professionista indipendente circa la sua ragionevole fattibilità. Il piano può consistere in qualsiasi insieme di interventi idonei a ristrutturare l’indebitamento e a garantire l’equilibrio economico dell’impresa: rinegoziazione di debiti, aumento di capitale, dismissione di cespiti, riduzione di costi, ecc. Una volta predisposto, il piano attestato viene comunicato ai creditori interessati, i quali possono spontaneamente aderirvi o comunque comportarsi in coerenza con esso.

Dal punto di vista dei contratti, il piano attestato in sé non impone modifiche unilaterali ai rapporti in essere (non è una procedura concorsuale né genera effetti verso i terzi dissenzienti). Esso opera su base volontaria e consensuale: il debitore negozia individualmente con i singoli creditori o controparti le nuove condizioni previste dal piano e ottiene da ciascuno di essi l’accordo alle modifiche. Ad esempio, un piano attestato potrà prevedere che le banche proroghino le scadenze dei finanziamenti o riducano i tassi; che alcuni fornitori concedano sconti o dilazioni sui crediti vantati; che il locatore dell’immobile riduca il canone per un certo periodo; che i dipendenti accettino temporaneamente il contratto di solidarietà, ecc. Ciascuna di queste misure richiede l’accordo della controparte, non essendoci un provvedimento autoritativo. Il vantaggio del piano attestato per il debitore è principalmente un altro: la legge gli attribuisce una protezione da azioni revocatorie fallimentari qualora il piano dovesse comunque fallire. Infatti, gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione di un piano attestato di risanamento “idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e a assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria” non sono soggetti a revocatoria in caso di successivo fallimento (art. 56 CCII). Ciò serve a incentivare i creditori a collaborare nel risanamento, senza timore che le concessioni fatte o le operazioni compiute possano essere invalidate in futuro. Tuttavia, a differenza degli accordi di ristrutturazione e del concordato, il piano attestato non viene omologato da un tribunale né pubblicato: resta un accordo di fatto, “occulto” se si vuole, conosciuto solo dai partecipanti.

Per il debitore in crisi, il piano attestato rappresenta la massima espressione dell’autonomia privata nella ristrutturazione: egli mantiene il controllo integrale del processo, scegliendo con quali creditori e come rinegoziare. D’altra parte, non avendo la “forza” di un titolo giudiziario, esso richiede tipicamente un elevato grado di consenso e cooperazione volontaria. Spesso il piano attestato funziona in situazioni in cui il numero di creditori rilevanti è limitato (ad es. un pool di banche, qualche fornitore strategico e soci finanziatori) e tutti hanno interesse a evitare una procedura concorsuale. In scenari più complessi, con una pluralità diffusa di creditori, il rischio è che taluni rimangano fuori dall’accordo e possano agire individualmente (pignoramenti, decreti ingiuntivi, ecc.), vanificando lo sforzo di risanamento. Per ovviare a ciò, il debitore può combinare il piano attestato con la richiesta di misure protettive analoghe a quelle viste per la composizione negoziata, ma solo se sfocia in un accordo di ristrutturazione o in un concordato (nel piano attestato in sé non è prevista la concessione di misure protettive da parte del tribunale).

Da un punto di vista contrattuale, possiamo dire che il piano attestato è un contenitore di rinegoziazioni: al suo interno si svolge una trattativa contrattuale diffusa, dove ogni relazione negoziale importante per l’impresa viene rivista bilateralmente. Il professionista attestatore ha il compito di verificare che l’insieme di queste rinegoziazioni e operazioni costituisca un percorso realistico di risanamento. Egli dovrà accertarsi, tra l’altro, che il piano non sia fondato su assunzioni irrealistiche o su accordi aleatori: ad esempio, se il piano presume che tutti i fornitori concedano uno sconto del 30% sui crediti e solo metà di essi lo fa, l’attestatore non potrà dichiarare il piano fattibile a meno che non vi siano alternative per coprire la differenza. Ciò spinge il debitore a ottenere impegni solidi dai suoi partners contrattuali prima di finalizzare il piano. Spesso, il piano attestato viene accompagnato da accordi contrattuali formali (ad es. standstill agreements con le banche, contratti modificativi con fornitori, patti sindacali con i soci, ecc.) che vengono firmati contestualmente e allegati al piano.

In definitiva, per il debitore, il piano attestato è uno strumento flessibile e discreto per rinegoziare contratti e debiti senza passare dal tribunale, beneficiando però di alcune tutele (esenzione da revocatoria) che evitano il rischio di azioni destabilizzanti successive. È però uno strumento adatto solo a crisi gestibili in via privatistica, dove c’è sufficiente collaborazione da parte dei creditori. Se mancano queste condizioni, occorrerà ricorrere a strumenti “più forti” come gli accordi di ristrutturazione dei debiti o il concordato preventivo, che analizziamo nelle prossime sottosezioni.

Accordi di ristrutturazione dei debiti: consenso maggioritario e omologazione

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviati in ARD) costituiscono il passo successivo, sul piano formale, rispetto al piano attestato. Previsti originariamente dall’art. 182-bis l.f. e ora disciplinati dal CCII (artt. da 57 a 64 e ss.), gli ARD sono accordi negoziali tra il debitore e una parte significativa dei suoi creditori, che acquistano efficacia vincolante tramite l’omologazione del tribunale. In altre parole, l’imprenditore in crisi può predisporre un piano di ristrutturazione e stipulare un accordo con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (percentuale richiesta dalla legge), per poi chiedere al tribunale di omologare tale accordo rendendolo efficace anche nei confronti di eventuali creditori estranei (limitatamente alla sospensione delle azioni esecutive, ecc., ma non li obbliga al taglio del credito se non hanno firmato). Si tratta quindi di una procedura “mista”: negoziale nell’origine (perché fondata sul consenso dei creditori) ma con intervento giudiziale finale che ne consolida gli effetti e la pubblicità legale.

Dal punto di vista dei contratti e delle obbligazioni, l’accordo di ristrutturazione consente al debitore di rinegoziare collettivamente il proprio debito e alcune posizioni contrattuali, senza coinvolgere necessariamente tutti i creditori. Tipicamente, negli ARD rientrano le posizioni dei creditori finanziari (banche, obbligazionisti), dei principali fornitori e anche dell’erario/enti previdenziali (mediante la cosiddetta transazione fiscale). Ad esempio, un accordo potrebbe prevedere che le banche accettino un haircut (stralcio parziale) dei loro crediti o una conversione di parte di essi in strumenti partecipativi; che i fornitori strategici acconsentano a essere pagati parzialmente e magari a continuare a fornire beni/servizi alle nuove condizioni; che il Fisco e l’INPS approvino un piano di dilazione o falcidia delle loro pretese (secondo le regole speciali della transazione fiscale). Il tutto deve essere accompagnato da un piano attestato che dimostri la sostenibilità della proposta e garantisca che i creditori estranei all’accordo saranno comunque pagati per intero (condizione necessaria per l’omologazione, salvo abbiano trattamento non deteriore di quello che avrebbero in fallimento).

Un aspetto cruciale, introdotto da riforme successive, è la possibilità di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori che non vi hanno aderito, in presenza di determinate condizioni. In particolare, già la legge fallimentare (artt. 182-septies e octies l.f.) prevedeva forme di “accordo esteso” per i creditori finanziari: se il debitore raggiunge un’intesa con una percentuale qualificata (ad esempio il 75%) delle banche e obbligazionisti, può chiedere che l’accordo venga reso efficace anche verso i dissenzienti della stessa categoria, purché siano soddisfatti non meno di quanto otterrebbero in liquidazione e un esperto attesti la convenienza dell’accordo anche per essi. Il CCII ha confermato e ampliato questi strumenti. In pratica, il debitore può cramdown (forzare) una minoranza dissenziente di creditori finanziari o comunque omogenei se ha il consenso di una larga maggioranza di essi. Analogamente, dal 2022 è stata prevista la figura del “accordo di ristrutturazione agevolato”, con soglia di adesione ridotta al 30% ma effetti limitati (non può imporre riduzioni a non aderenti, serve solo per ottenere misure protettive e omologa più snella). Inoltre, per recepire la Direttiva UE, è stato introdotto il “piano di ristrutturazione soggetto a omologazione” anche senza il richiesto 60%: in sostanza, un ibrido tra concordato e accordo, che consente di sottoporre al giudice un piano anche senza l’accordo preventivo dei creditori, a patto di suddividerli in classi e raccogliere le maggioranze di voto in sede di omologazione (si tratta di una sorta di concordato semplificato in cui non vi è voto formale dei creditori ma valutazione giudiziale sulla base di parametri di maggior consenso). Questa figura, introdotta dal d.lgs. 83/2022, va oltre il nostro focus, ma denota la tendenza ad ampliare gli strumenti per superare il veto di pochi creditori dissenzienti.

Per il debitore, l’accordo di ristrutturazione è uno strumento potente di rinegoziazione del debito su base collettiva, meno gravoso e stigmatizzante di un concordato preventivo ma più solido di un piano attestato puramente privato. I vantaggi includono: la possibilità di ottenere le misure protettive (come nel concordato) già nella fase di omologazione – ad esempio il tribunale, su richiesta, può inibire ai creditori di iniziare o proseguire esecuzioni individuali mentre pende la domanda di omologa, proteggendo così il debitore; l’efficacia esdebitativa verso i creditori aderenti una volta omologato (il debitore si libera delle obbligazioni nei termini previsti dall’accordo); la possibilità, come detto, di coinvolgere anche creditori non aderenti se rientranti in categorie particolari (ciò assicura che un 5-10% di “holdouts” non paralizzi l’operazione). Il rovescio della medaglia è che servono comunque elevati consensi: mettere d’accordo almeno il 60% (e spesso di più, per sicurezza) dei crediti non è banale, specie quando la platea è vasta. Inoltre, l’accordo di ristrutturazione non vincola i piccoli creditori estranei: questi ultimi devono essere pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologa (o dalla scadenza se posteriore), altrimenti l’accordo non è omologabile. Quindi il debitore deve procurarsi le risorse per soddisfare cash tutti i creditori non coinvolti (tipicamente trade creditors minori) – ciò spesso richiede liquidità aggiuntiva o finanza esterna.

Quanto ai contratti commerciali in corso, gli accordi di ristrutturazione di regola non prevedono meccanismi di scioglimento unilaterale (come nel concordato). Tuttavia, nulla vieta che l’accordo includa anche la rinegoziazione di contratti in esecuzione: ad esempio, il debitore può inserire come parte dell’accordo una modifica consensuale di un contratto di fornitura importante (col fornitore che aderisce all’accordo accettando nuovi termini) o la risoluzione concordata di un contratto troppo oneroso con liquidazione concordata del danno. Tutto questo rientra nell’autonomia negoziale delle parti. Se invece un contratto è molto gravoso e la controparte non vuole aderire ad alcun accordo, il debitore potrebbe avere convenienza a non includere quel contraente nell’ARD e piuttosto, parallelamente, presentare domanda di concordato con riserva per ottenere in quella sede lo scioglimento del contratto (pratica sofisticata ma talvolta utilizzata: combinare accordo per la maggior parte dei creditori e concordato mirato per liberarsi di alcuni contratti/creditori ostili). Da notare che l’omologazione dell’accordo produce effetti simili al concordato riguardo le clausole contrattuali: con l’omologa scatta il divieto di azioni esecutive e l’eventuale inefficacia delle clausole risolutive basate sul mero fatto dell’avvio della procedura (divieto di ipso facto clausole, come stabilito ora espressamente dall’art. 94-bis CCII per il concordato preventivo in continuità e applicabile in via generale anche agli accordi omologati). Quindi, se un contratto prevedeva la risoluzione automatica in caso di ristrutturazione del debitore, tale patto è nullo e la controparte non può sciogliersi unilateralmente solo perché è stato pubblicato l’accordo di ristrutturazione.

Un particolare tipo di accordo di ristrutturazione previsto dal CCII è quello riservato ai creditori pubblici (transazione fiscale e contributiva). Il debitore può proporre all’Agenzia delle Entrate e agli Enti Previdenziali il pagamento parziale e/o dilazionato dei tributi e contributi, motivando che l’alternativa concorsuale darebbe un soddisfacimento minore. Se l’Erario aderisce, l’accordo viene omologato con quei termini; se non aderisce ma l’adesione era determinante per raggiungere la soglia del 60%, l’intero accordo può sfumare. Tuttavia il DL 118/2021 ha introdotto una norma (ora nel CCII) per cui, sia negli accordi che nei concordati, il tribunale può omologare ugualmente nonostante il diniego del Fisco/INPS, se ritiene che il loro rifiuto sia ingiustificato e la proposta loro rivolta fosse più conveniente della liquidazione. Ciò costituisce un cramdown fiscale, importante per evitare che il fisco (spesso uno dei maggiori creditori) blocchi ristrutturazioni vantaggiose.

In sintesi, gli accordi di ristrutturazione sono un formidabile strumento di rinegoziazione su base collettiva e di gestione concordata della crisi, meno invasivo del concordato e incentrato sul consenso qualificato dei creditori. Dal punto di vista del debitore, se si riesce a costruire l’accordo con il necessario supporto, esso consente di rimodulare l’intero indebitamento contrattualmente, con la benedizione del tribunale, ma senza le complessità di un procedimento concorsuale pieno (ad esempio non c’è il voto di tutti i creditori in classi, non c’è un commissario giudiziale di default, salvo il giudice lo nomini in casi particolari). L’accordo, una volta omologato, vincola i soli creditori aderenti (salvo i casi di estensione visti) e libera il debitore dagli obblighi previsti secondo i nuovi termini. I contratti dell’impresa possono continuare regolarmente, a meno che siano stati oggetto di modifiche concordate nell’accordo stesso. Il successo di un ARD spesso dipende dalla capacità del debitore di convincere i creditori che l’alternativa (fallimento o concordato) sarebbe peggiore per loro, e che aderire all’accordo (accettando magari un sacrificio parziale) è nell’interesse di tutti. Per questo l’attestazione di un esperto e i dati di convenienza comparativa sono cruciali. Se vi sono creditori che non si convincono, come ultima ratio rimane il concordato preventivo, dove il debitore può “forzare la mano” mettendo comunque ai voti una certa proposta e raggiungendo maggioranze.

Concordato preventivo: continuità aziendale, contratti pendenti e scioglimento dei rapporti

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale per eccellenza orientata a risolvere la crisi d’impresa evitando la liquidazione giudiziale (il fallimento). Nel concordato, a differenza degli strumenti visti finora, il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria è più penetrante: il piano e la proposta del debitore devono essere votati dai creditori e approvati dal tribunale con sentenza di omologazione. Il concordato può essere di due tipi principali: in continuità aziendale, quando prevede il proseguimento dell’attività (direttamente da parte del debitore o indirettamente tramite cessione/affitto d’azienda), oppure liquidatorio, quando mira solo a liquidare il patrimonio e soddisfare i creditori con il ricavato (eventualmente tramite un assuntore). Questa distinzione è importante, perché nel concordato in continuità l’aspetto dei contratti pendenti e della loro gestione è centrale, mentre nel concordato liquidatorio i contratti generalmente vengono meno e l’azienda cessa o viene venduta a terzi.

Focalizziamoci sul concordato in continuità aziendale, che più interessa il tema della rinegoziazione contrattuale. Il CCII (art. 84 e ss.) definisce la continuità come la situazione in cui l’impresa, pur in procedura, prosegue l’attività economica, sia essa condotta dallo stesso debitore (continuità diretta) sia da un diverso soggetto che subentra nell’azienda (continuità indiretta, ad es. affittuario o acquirente dell’azienda in esercizio). Nella versione originaria del CCII (2019) si era addirittura previsto un requisito “occupazionale” per il concordato in continuità indiretta, imponendo di mantenere almeno metà dei lavoratori per un anno, ma tale obbligo – molto discusso – è stato eliminato prima dell’entrata in vigore. Resta fermo che la continuità è favorita dal legislatore perché tutela meglio i creditori (l’azienda come going concern genera più valore) e, nella misura del possibile, anche i posti di lavoro.

Una caratteristica fondamentale del concordato in continuità (e in realtà di tutte le procedure di ristrutturazione) è il principio per cui, a differenza della liquidazione, i contratti pendenti proseguono automaticamente, salvo diversa decisione del debitore autorizzata dal tribunale. Questo principio era implicito già nella legge fallimentare (art. 169-bis l.f.) ed è ora esplicito nel CCII (art. 97). Per contratti pendenti si intendono quei contratti bilaterali ancora ineseguiti o non completamente eseguiti da entrambe le parti nelle loro prestazioni principali alla data di presentazione della domanda di concordato. In pratica, equivalgono ai “contratti in corso di esecuzione” o executory contracts del lessico internazionale. La regola generale è che tali contratti rimangono in essere anche dopo il deposito della domanda di concordato: l’impresa continua ad esserne vincolata e la controparte pure, in modo da preservare la normale operatività aziendale. Solo su istanza del debitore, che ritenga alcuni contratti incompatibili con il piano di risanamento, il tribunale può autorizzare la sospensione fino a un massimo di sei mesi o lo scioglimento definitivo di detti contratti (art. 97 CCII). Questa facoltà è uno strumento cruciale per il debitore in concordato: gli permette di liberarsi dai contratti più onerosi o non strategici per la continuità, eliminando passività future. Ad esempio, si potrà chiedere lo scioglimento di un contratto di leasing per macchinari inutilizzati, di una fornitura divenuta antieconomica, di un contratto di affitto di ramo d’azienda in perdita, ecc., se tali rapporti pregiudicano l’attuazione del piano. Il presupposto per l’autorizzazione è che “la prosecuzione non è coerente con le previsioni del piano né con la sua esecuzione”, ossia il contratto in questione ostacola il risanamento. A garanzia della controparte, il debitore che chiede lo scioglimento deve notificare l’istanza al contraente affinché questi possa eventualmente contestare (superando così vecchi dubbi interpretativi sul contraddittorio). Se il tribunale autorizza lo scioglimento, il contratto si intende risolto ex lege alla data del provvedimento e la controparte ha diritto a un indennizzo equivalente al risarcimento del danno conseguente allo scioglimento. Questo indennizzo viene però soddisfatto in prededuzione nel concordato solo per la parte di danno maturata dopo l’apertura; per la parte anteriore è trattato come credito concorsuale pre-petition (ciò tecnicamente secondo le regole di riparto, ma semplificando: la controparte sciolta diviene creditore chirografario per il risarcimento, salvo eventuali diritti di prelazione già esistenti). La sospensione, alternativa meno drastica, consente di prendere tempo (fino a sei mesi appunto) decidendo se riprendere o sciogliere più avanti; durante la sospensione nessuna delle parti può pretendere prestazioni. La sospensione può essere chiesta anche subito all’atto del deposito del ricorso (ad esempio in caso di domanda “prenotativa” di concordato, ex art. 44 CCII), mentre lo scioglimento richiede la presentazione del piano definitivo.

Dunque, nel concordato preventivo in continuità il debitore ha a disposizione un ventaglio di opzioni per la gestione dei contratti:

  • proseguire i contratti pendenti utili alla prosecuzione dell’attività (regime di continuità);
  • sospendere temporaneamente quelli di cui non è certo (magari in attesa di negoziare modifiche con la controparte);
  • sciogliere definitivamente quelli incompatibili col piano di risanamento, sopportandone però il costo (indennizzo dovuto).

Queste facoltà rappresentano, in sostanza, una forma di rinegoziazione indiretta imposta dal contesto concorsuale: sapendo che il debitore in concordato può liberarsi unilateralmente del contratto (con autorizzazione giudiziale), la controparte potrebbe essere spinta a negoziare spontaneamente un adattamento pur di evitare la risoluzione. Ad esempio, un locatore potrebbe preferire ridurre il canone di locazione se l’alternativa è vedersi sciolto il contratto e restare con un credito chirografario per i danni (dal soddisfacimento incerto). In questo senso, il concordato fornisce al debitore una leva contrattuale notevole per indurre controparti riluttanti a rivedere i patti.

Un’altra protezione fondamentale introdotta nel CCII (sulla scia della normativa emergenziale già discussa e dell’implementazione della Direttiva Insolvency) è la norma di cui all’art. 94-bis CCII, applicabile al concordato in continuità aziendale. Questa disposizione, entrata in vigore dal 28 settembre 2024, sancisce in via generale che i creditori non possono, unilateralmente, rifiutare l’adempimento dei contratti in corso né provocarne la risoluzione, né anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell’imprenditore per il solo fatto della domanda di concordato in continuità, dell’apertura della procedura o della richiesta/concessione di misure protettive. Qualsiasi patto contrario (clausole che prevedono risoluzione automatica al verificarsi di tali eventi) è nullo. Inoltre, lo stesso articolo prevede al comma 2 che, se sono concesse misure protettive, i creditori interessati da esse non possono rifiutare o interrompere la fornitura dei contratti essenziali né modificarli in danno del debitore per il solo fatto del mancato pagamento di crediti anteriori al concordato. Sono definiti essenziali quei contratti necessari per la continuazione della gestione corrente, inclusi i fornitori la cui interruzione impedirebbe la prosecuzione dell’attività. Questa norma estende al concordato quanto abbiamo visto per la composizione negoziata: in sostanza, tutela in modo rafforzato i contratti essenziali (forniture chiave, utenze, etc.) impedendo al fornitore di cessare la prestazione sia per la pendenza della procedura, sia per eventuali insoluti pregressi. Ad esempio, una società di energia elettrica non potrà staccare la corrente a un’azienda in concordato preventivo in continuità adducendo i vecchi arretrati non pagati – dovrà continuare a fornire, e il suo credito pregresso sarà trattato nella procedura. Questa previsione recepisce l’art. 7(4) della Direttiva 2019/1023 (che richiedeva di proteggere almeno i contratti essenziali) e, anzi, come già notato, l’Italia ha scelto di proteggere tutti i contratti pendenti in generale, eliminando discussioni su quali siano essenziali o meno. Per il debitore in concordato ciò significa che può affrontare la procedura con maggiore serenità operativa: fornitori e partner contrattuali non possono usare la scusa del concordato o dei crediti passati insoluti per tirarsi indietro. Devono continuare a onorare i contratti, ovviamente con diritto di ricevere l’adempimento delle prestazioni concorrenti del debitore (se il contratto è sinallagmatico, il debitore dovrà pagare le nuove forniture – questi nuovi crediti saranno in prededuzione, ossia privilegiati, perché sorti durante la procedura autorizzata). In pratica, la vita dell’impresa, se ha abbastanza cassa per pagare la gestione corrente, prosegue quasi normalmente nonostante il concordato, evitando per quanto possibile quell’effetto domino di interruzione di rapporti che un tempo spesso accompagnava le “voci” di insolvenza.

Va anche segnalato che, per evitare abusi, l’art. 94-bis comma 2 specifica che la protezione dei contratti essenziali vale solo rispetto ai mancati pagamenti di crediti anteriori alla domanda di concordato. Se invece il debitore, durante il concordato, non paga le forniture che continua a ricevere (post-petition), il fornitore potrà agire (chiedere la risoluzione per inadempimento delle nuove obbligazioni, o sospendere la prestazione futura). È quindi interesse del debitore onorare regolarmente i debiti di gestione corrente, e la legge agevola ciò riconoscendo la prededuzione (priorità di pagamento) a questi crediti d’esercizio: i creditori post-concordato saranno pagati prima degli altri, anche in caso di successiva liquidazione, proprio perché hanno aiutato l’impresa a restare in vita.

Ricapitolando gli strumenti per i contratti nel concordato preventivo in continuità, dal punto di vista del debitore:

  • Prosecuzione automatica dei contratti pendenti utili: l’azienda continua ad usufruirne e deve adempiere le obbligazioni correnti, con i crediti che maturano in prededuzione.
  • Divieto di risoluzione o modifica da parte dei creditori dovuta al concordato o a insoluti pregressi (clausole ipso facto inefficaci).
  • Sospensione o scioglimento di contratti su autorizzazione del tribunale se contrari al piano (art.97 CCII).
  • Indennizzo equo ai contraenti sciolti, che però diventa un credito concorsuale (salvo la parte post-apertura).
  • Possibilità di stipulare nuovi contratti durante il concordato (es. nuovi contratti di fornitura o finanziamento per la continuità) considerati atti di ordinaria amministrazione – se coerenti col piano – e anch’essi in prededuzione.

Tutto ciò serve a rendere possibile l’attuazione del piano di risanamento. Ad esempio, se il piano prevede che l’azienda continui la produzione, allora i contratti di fornitura di materie prime o energia andranno mantenuti e protetti, mentre un eventuale contratto di affitto di un capannone inutilizzato andrà sciolto per ridurre i costi. Il tribunale veglia su questo equilibrio: autorizzerà lo scioglimento solo se giustificato dalle esigenze del piano, e in sede di omologa verificherà che la continuazione dell’attività offra ai creditori una soddisfazione almeno pari alla liquidazione (best interest test). Il CCII originario insisteva molto sull’aspetto della tutela dell’occupazione, come visto, ma nella versione vigente l’accento è tornato sulla tutela dei creditori e sull’efficienza del piano. I creditori, per parte loro, hanno la garanzia che i nuovi crediti sorti in costanza di concordato sono prededucibili e che eventuali abusi (pagamenti preferenziali, atti in frode) possono comportare il diniego di omologa.

Un cenno va fatto anche al concordato preventivo liquidatorio, dove l’impresa non prosegue l’attività (se non per breve esercizio provvisorio strumentale alla cessione dei beni). In tal caso, i contratti pendenti seguono regole analoghe alla liquidazione giudiziale: il debitore può chiedere la sospensione/scioglimento, ma di norma la maggior parte dei contratti si risolverà per cessazione dell’attività. Ad esempio, i contratti di lavoro saranno generalmente risolti (con accesso eventualmente agli ammortizzatori sociali), i contratti di fornitura non più necessari verranno disdetti o lasciati decadere. Il concordato liquidatorio spesso prevede un assuntore (un terzo che rileva beni e/o azienda): in tal caso si applicheranno le regole del trasferimento d’azienda, di cui diremo sotto, per quanto riguarda i lavoratori e i contratti trasferiti.

Prima di passare alla liquidazione giudiziale, va evidenziato un ultimo sviluppo normativo di rilievo derivante dall’attuazione della Direttiva 2019/1023: la possibilità di omologare il concordato anche in presenza del voto contrario di alcune classi di creditori (c.d. cram-down interclassista). Il CCII, come modificato nel 2022, consente infatti al tribunale di approvare ugualmente la proposta concordataria se ritiene che a) abbia avuto il voto favorevole della maggioranza delle classi (escludendo quelle eventuali senza utilità economica) e b) nessuna classe dissenziente riceva meno di quanto otterrebbe in caso di liquidazione, né siano violate certe condizioni di trattamento equo (art. 112-bis CCII, introdotto dal d.lgs. 83/2022). Questo meccanismo, di matrice europea, consente al debitore di superare l’opposizione di intere classi di creditori (ad es. una classe di chirografari dissenziente) purché il piano sia ragionevole e sostenuto da altre classi importanti. Dal punto di vista della rinegoziazione, ciò significa che il debitore non è più ostaggio di una minoranza qualificata in ogni classe, ma – se riesce a convincere una parte significativa dei creditori e rispetta i parametri di legge – può ottenere l’approvazione del suo piano anche contro il loro voto. Questo ovviamente va oltre i contratti pendenti, riguarda il trattamento dei crediti, ma è menzionato per completezza: in un contesto di cram-down, i contratti pendenti sarebbero gestiti come sopra e i creditori dissenzienti subirebbero comunque l’effetto del piano (es. riduzioni nei pagamenti) per decisione giudiziale. È, in un certo senso, la rinegoziazione forzata dei crediti su base concorsuale.

Riassumendo il concordato preventivo dal punto di vista del debitore: esso è un potente strumento di regolazione della crisi, che consente di ridefinire l’insieme delle proprie obbligazioni verso i creditori con efficacia erga omnes, e di gestire i contratti in essere scegliendo quali mantenere (proteggendoli legalmente da risoluzioni) e quali interrompere (con l’autorizzazione del tribunale). In cambio, deve presentare un piano serio, fattibile e conveniente per i creditori, e sottoporsi al controllo di un commissario giudiziale e del tribunale. Il concordato è pubblicizzato nel Registro Imprese e comporta perdita di reputazione, ma se attuato con successo permette all’impresa di risanarsi, liberandosi dai debiti e dai contratti insostenibili, e di proseguire l’attività su basi più solide. Se invece il concordato non riesce (manca l’omologa, o il piano non viene eseguito correttamente), si apre la strada alla liquidazione giudiziale.

Liquidazione giudiziale (fallimento) e contratti: cessazione e trasferimento dell’azienda

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale che ha preso il posto del “fallimento” tradizionale (il CCII ha mutato la denominazione, enfatizzando la funzione liquidatoria). Dal punto di vista dei contratti d’impresa, la liquidazione segna normalmente la fine dei rapporti contrattuali in corso oppure la loro continuazione temporanea solo ai fini della liquidazione. Infatti, con l’apertura della procedura il debitore è spossessato: la gestione passa al curatore, il quale ha il compito di liquidare il patrimonio nell’interesse dei creditori. L’art. 172 CCII (corrispondente al vecchio art. 72 l.f.) prevede che i contratti pendenti alla data della sentenza di liquidazione rimangano sospesi finché il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, decida se subentrare nel contratto al posto del debitore oppure sciogliersi. Se il curatore subentra, il contratto prosegue regolarmente ma le prestazioni fornite dalla controparte dopo l’apertura della procedura saranno pagate in prededuzione (come crediti di massa della procedura). Se il curatore invece opta per lo scioglimento, il contratto si intende risolto e la controparte avrà solo diritto ad un indennizzo danni da far valere in chirografo nel passivo (salvo prelazioni). Il silenzio del curatore oltre un certo termine può essere considerato come scioglimento implicito, ma il codice spinge per una scelta attiva in tempi brevi, perché la sospensione prolungata crea incertezza.

Rispetto al concordato, qui l’ottica è liquidatoria: il curatore subentrerà in un contratto solo se questo ha un’utilità per aumentare il valore liquidabile dell’azienda o dei beni. Ad esempio, il curatore potrebbe decidere di continuare temporaneamente l’esercizio dell’impresa (il CCII prevede l’“esercizio provvisorio” dell’azienda fallita se utile per la migliore vendita, art.211 CCII) e in tal caso subentrerà nei contratti essenziali all’esercizio (forniture, affitti, contratti con clienti, ecc.), almeno fino a quando riuscirà a vendere l’azienda o i beni. In assenza di esercizio provvisorio, la regola generale è che l’attività d’impresa cessa e i contratti pendenti vengono sciolti, a meno che abbiano un valore autonomo da monetizzare (ad esempio un contratto di fornitura vantaggioso potrebbe essere ceduto a terzi insieme all’azienda). Il potere di scelta del curatore serve proprio a massimizzare il valore: se un contratto ha prestazioni utili che superano i costi, il curatore lo tiene; se è svantaggioso, lo scioglie per non accumulare debiti di massa. La controparte non può opporsi allo scioglimento deciso dal curatore (salvo insinuarsi al passivo per i danni). D’altro canto, se il curatore subentra, la controparte ha il diritto di chiedere garanzie adeguate sull’adempimento delle obbligazioni future (per non rischiare di continuare a fornire e poi non essere pagata), e se tali garanzie non sono prestate può rifiutarsi di adempiere ulteriormente.

Un caso particolare riguarda i contratti con clausola intuitu personae o comunque di carattere personale: in genere si ritiene che non possano proseguire con il curatore se la fiducia era riposta nella persona dell’imprenditore poi fallito (es. un mandato, un contratto d’opera intellettuale).

Per il debitore imprenditore, al momento della liquidazione giudiziale, il destino dei contratti non è più sotto il suo controllo: è il curatore a decidere. L’imprenditore (ormai spossessato) non ha più alcun potere negoziale, se non quello di collaborare con il curatore. Dunque la fase di liquidazione è l’opposto del punto di vista del debitore in crisi: qui il focus è sulla tutela dei creditori mediante la vendita del patrimonio, non sul salvataggio dell’impresa. Da notare che l’apertura della liquidazione giudiziale è di per sé una causa legale di scioglimento dei contratti societari (ad es. la società fallita viene posta in liquidazione concorsuale e i soci perdono i loro diritti, salvo residuo). Inoltre, per i rapporti di lavoro, l’apertura del fallimento non li risolve automaticamente, ma il curatore normalmente procederà ai licenziamenti collettivi dei dipendenti in caso di cessazione azienda. Il CCII contiene una norma (art.189) che impone al curatore di rispettare la disciplina dei licenziamenti collettivi nel caso di risoluzione dei rapporti di lavoro in massa; in pratica il curatore deve avviare la procedura di consultazione sindacale ex L.223/1991 prima di licenziare, se continua l’attività anche solo provvisoriamente. Inoltre, la legge prevede (art. 191 CCII) che in caso di trasferimento d’azienda durante la liquidazione giudiziale si applichi l’art.47 L.428/1990, cioè la procedura sindacale per la salvaguardia dell’occupazione. Questo vale anche se l’azienda è ceduta nel contesto di un concordato o di un accordo di ristrutturazione, in ossequio alla direttiva europea sui trasferimenti d’azienda in insolvenza. In sintesi, pure in fallimento il legislatore ha cura di coordinare la liquidazione con le norme a tutela dei lavoratori, imponendo consultazioni sindacali e cercando soluzioni che attutiscano l’impatto sociale.

Per quanto concerne eventuali rin negoziazioni in sede di liquidazione, va detto che lo spazio è limitato: il curatore potrebbe, ad esempio, negoziare una risoluzione consensuale anticipata di un contratto per evitare penalità, oppure accordarsi con la controparte per cedere a terzi il contratto (se il contratto lo consente) ottenendo magari un corrispettivo. Ma sono ipotesi minoritarie. Più spesso il curatore se deve valorizzare un complesso aziendale cercherà un acquirente che subentri in blocco nei contratti desiderati (tramite cessione dell’azienda). In tal caso, l’art.2560 c.c. prevede che nell’acquisto di azienda fallimentare i contratti aziendali seguono la disciplina concorsuale (art. 104-bis l.f. e ora art. 212 CCII), e i crediti restano nella massa passiva salvo accordi diversi. Il trasferimento d’azienda fallimentare permette di salvare ciò che resta vitale: l’acquirente di solito subentra solo nei contratti che intende rilevare (sarà specificato nel bando quali contratti assume). I contratti non trasferiti vengono sciolti.

In definitiva, dal punto di vista del debitore la liquidazione giudiziale non offre strumenti di rinegoziazione, perché a quel punto egli non gestisce più l’impresa. Ogni tentativo di sistemare contrattualmente i rapporti deve essere fatto prima, sfruttando gli strumenti di crisi visti sopra. Se si arriva al fallimento, l’interesse residuo del debitore (o meglio del suo patrimonio) è solo che i contratti siano liquidati al meglio dal curatore, ma ciò attiene alla soddisfazione dei creditori e all’eventuale esdebitazione finale del debitore.

Possiamo a questo punto sintetizzare il trattamento dei contratti nei vari stadi/procedure in una tabella riepilogativa, prima di passare a trattare separatamente gli strumenti finanziari e lavorativi di supporto.

Tabella 1 – Contratti pendenti e gestione nelle diverse procedure di crisi

Strumento/ProceduraContinuità dei contratti pendentiPoteri di modifica/scioglimentoTutela delle controparti
Composizione negoziata (fase stragiudiziale assistita)Prosecuzione normale. Debitore può continuare ad adempiere i contratti (pagando a sua discrezione i debiti pregressi). Se richieste misure protettive, contratti pendenti non possono essere risolti o sospesi dai creditori per i soli insoluti pregressi.Nessun potere unilaterale di scioglimento per il debitore (a differenza del concordato). Possibile però rinegoziazione volontaria con controparti. L’esperto può invitare a rideterminare i contratti squilibrati. In caso di mancato accordo su contratti essenziali divenuti onerosi per Covid, il tribunale può modificare temporaneamente le condizioni (art.10 DL 118/2021).Controparti vincolate a proseguire la prestazione se c’è misura protettiva (non possono invocare inadempimenti passati). Nei contratti essenziali Covid-19, se interviene il giudice, è garantito equilibrio e eventuale indennizzo. Controparti non protette da misure possono agire se non pagate anche sul corrente. Nessuna prededuzione automatica per nuovi crediti (salvo accordi successivi omologati).
Piano attestato di risanamento (accordo privatistico)Prosecuzione normale, nessuna protezione di legge: i contratti restano in vigore secondo i patti. Debitore può pagare o meno a seconda degli accordi individuali.Nessun potere unilaterale. Ogni modifica o risoluzione deve avvenire per accordo fra debitore e controparte nell’ambito del piano (es. riduzione canone concordata, moratoria pagamenti, ecc.). Il piano è essenzialmente un insieme di rinegoziazioni bilaterali volontarie.Controparti non vincolate se non aderiscono. Possono agire liberamente (nessun stay). Le prestazioni nuove non sono prededucibili (ma se piano riesce, saranno adempiute regolarmente). Tuttavia, gli atti in esecuzione del piano non saranno soggetti a revocatoria fallimentare: tutela indiretta per chi collabora.
Accordo di ristrutturazione dei debiti (60% creditori)Prosecuzione normale durante le trattative (si può chiedere sospensione azioni esecutive, ma non c’è gestione controllata dei contratti come nel concordato). Dopo l’omologa, l’attività prosegue secondo i termini dell’accordo. Clausole ipso facto legate all’accordo sono inefficaci (per analogia con art.94-bis CCII).Il debitore può prevedere nell’accordo modifiche contrattuali consensuali (es. nuovi piani di rientro, riduzioni debito, ecc.). Non ha poteri unilaterali di scioglimento salvo ricorso parallelo al concordato. L’accordo omologato vincola solo i creditori aderenti (tranne casi di estensione). Contratti con creditori non aderenti restano secondo patti originali (ma tali creditori devono essere soddisfatti al 100% entro 120gg).Creditori aderenti sono vincolati erga omnes dall’omologa, ma hanno approvato le modifiche. Creditori estranei devono essere pagati integralmente (o il loro credito non è toccato) – quindi sono protetti. Durante omologazione, possibili misure protettive sospendono azioni esecutive. Fornitori essenziali: se non aderenti e non pagati, potrebbero sospendere forniture (non c’è analogo art.94-bis esplicito sugli ARD). Dopo omologa, nuovi crediti per forniture concordate godono di prededuzione come atti legali della procedura (per analogia all’art.6 co.1 CCII).
Concordato preventivo in continuitàProsecuzione di diritto di tutti i contratti pendenti (nessuna interruzione ex lege). Debitore continua a eseguire i contratti essenziali per l’attività. Misure protettive bloccano azioni di terzi. Divieto di sospensione/risoluzione da parte dei creditori per il fatto del concordato o per insoluti pregressi (art.94-bis). Contratti essenziali: fornitori non possono interrompere per mancati pagamenti anteriori.Debitore, con autorizzazione del tribunale, può sospendere (max 6 mesi) o sciogliere contratti pendenti se la continuazione non è coerente col piano (art.97 CCII). Scioglimento produce un indennizzo a carico della procedura. Il piano può prevedere cessione o affitto d’azienda con prosecuzione dei contratti trasferiti all’assuntore.Controparti vincolate a proseguire (non possono rescindere per concordato né attivare clausole ipso facto). Se contratto è eseguito, nuovi crediti hanno prededuzione. Se contratto viene sciolto, la controparte ottiene indennizzo (credito concorsuale). Se contratto prosegue ma controparte subisce moratoria sui pagamenti (es. locatore nel piano può essere pagato parzialmente dopo omologa), ha comunque diritto almeno al valore di liquidazione del suo credito e al voto sul piano.
Concordato preventivo liquidatorioDi regola cessazione dell’attività: la maggior parte dei contratti non prosegue (salvo eventuale esercizio provvisorio limitato per vendere beni). Contratti pendenti possono essere sciolti su istanza debitore come sopra. I contratti trasferiti a un assuntore (se concordato con assunzione) seguono regime cessione (applicazione art.47 L.428/90 per lavoro).Come sopra: sospensione/scioglimento autorizzabili. In più, se previsto assuntore, questi può selezionare quali contratti intende rilevare. Contratti non trasferiti vengono risolti.Controparti: se l’azienda è ceduta a un assuntore, i contratti trasferiti continuano col nuovo soggetto (notificato entro 30 gg dall’omologa). I lavoratori passano con tutele art.47 L.428/90 (accordo sindacale per deroghe). Contratti risolti danno luogo a crediti concorsuali (danni).
Liquidazione giudiziale (fallimento)Contratti pendenti sospesi fino a decisione del curatore (art.172 CCII). Se curatore non subentra, si risolvono. Se il tribunale autorizza esercizio provvisorio, l’azienda continua temporaneamente e il curatore subentra nei contratti necessari.Curatore, con ok comitato creditori, può subentrare (contratto prosegue, curatore lo esegue) o sciogliere (contratto risolto). Se subentra, obbligazioni contrattuali del fallito diventano obbligazioni prededucibili della massa. Se scioglie, controparte ha solo diritto al risarcimento danni in moneta fallimentare. Curatore può anche cedere l’azienda, trasferendo i contratti al compratore.Controparti: non possono esigere esecuzione finché il curatore decide. Possono mettere in mora il curatore dopo un periodo. Se curatore subentra, possono chiedere garanzie adeguate per le prestazioni future (se non date, contratto si scioglie). Se contratto sciolto, la controparte è creditore per i danni (chirografo). Nel trasferimento d’azienda in fallimento, contratti passano con l’azienda previa consultazione sindacale per i lavoratori. I crediti anteriori alla cessione restano in procedura (l’acquirente di regola li esclude).

(Legenda: prededuzione = credito da soddisfare prioritariamente; ipso facto = clausola di risoluzione automatica per fallimento/domanda di concordato; moneta fallimentare = secondo le regole concorsuali.)

Come si evince dalla tabella, la tendenza delle norme vigenti è quella di favorire la prosecuzione dei contratti nelle procedure volte al risanamento (composizione negoziata, concordato in continuità), limitando il più possibile le risoluzioni unilaterali da parte dei creditori, mentre nelle procedure liquidative prevale la flessibilità per dismettere i rapporti. Il debitore in crisi, pertanto, dispone di vari strumenti per modulare i propri rapporti contrattuali: dalle semplici trattative protette alla possibilità di scioglimento autorizzato e persino all’adeguamento giudiziale dei contratti in casi eccezionali.

Nei prossimi paragrafi analizzeremo più nello specifico due categorie di strumenti che accompagnano e completano la rinegoziazione dei contratti in crisi d’impresa: da un lato gli strumenti di natura finanziaria, ossia gli interventi sui debiti finanziari e le risorse aggiuntive mobilitabili (ad es. nuovi finanziamenti, moratorie bancarie, transazioni fiscali); dall’altro gli strumenti di natura lavorativa, riguardanti la gestione del personale dipendente durante la crisi (ammortizzatori sociali, accordi con i sindacati, ecc.). Questi aspetti sono fondamentali perché la ristrutturazione di un’impresa passa spesso non solo dalla modifica o cessazione di contratti commerciali, ma anche dalla rinegoziazione dei debiti finanziari e dall’ottimizzazione del costo del lavoro, sempre bilanciando la continuità aziendale con i diritti dei lavoratori.

Strumenti di natura finanziaria nella crisi d’impresa

Una crisi d’impresa comporta inevitabilmente tensioni sul fronte finanziario: calo di liquidità, impossibilità di rispettare le scadenze dei debiti, rischio di insolvenza. La rinegoziazione dei contratti in senso lato include quindi anche la rinegoziazione dei debiti finanziari (mutui, linee di credito, obbligazioni) e l’attivazione di strumenti per reperire nuova finanza o alleggerire il peso dei debiti esistenti. Esamineremo qui i principali strumenti finanziari offerti dalla normativa italiana per aiutare l’impresa debitrice, in particolare:

  • Moratorie e accordi con le banche (standstill agreements, accordi ABI);
  • Finanziamenti prededucibili e nuova finanza nella ristrutturazione;
  • Transazione fiscale e contributiva (accordi con il Fisco e enti previdenziali);
  • Esdebitazione dell’imprenditore insolvente (liberazione dai debiti residui post liquidazione).

Moratorie bancarie e accordi di standstill

Spesso la prima cosa che un imprenditore in crisi deve affrontare sono i rapporti con le banche e i creditori finanziari: rate di mutuo non pagate, scoperti di conto, covenant violati, ecc. Per evitare azioni esecutive immediate (pignoramenti, revoca di fidi) e guadagnare tempo per ristrutturare il debito, è prassi consolidata cercare di ottenere una moratoria o accordo di standstill. Le moratorie sono intese come sospensioni temporanee del pagamento del capitale (e talvolta degli interessi) sui finanziamenti: ad esempio, l’azienda chiede alle banche di congelare per 6-12 mesi le scadenze in attesa di un piano. In Italia, l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) periodicamente promuove accordi-quadro di moratoria per le PMI in difficoltà (come avvenuto anche durante la pandemia Covid-19 per legge). Tali accordi, se sottoscritti, danno respiro al debitore e sono a tutti gli effetti accordi contrattuali modificativi dei termini di rimborso, su base volontaria. Un accordo di standstill è simile: i creditori finanziari (magari riuniti in comitato) si impegnano a non revocare le linee di credito e a non intraprendere azioni legali per un certo periodo, durante il quale il debitore elabora una proposta di ristrutturazione. Lo standstill può prevedere condizioni (ad es. che l’imprenditore fornisca informazioni regolari, non peggiori le loro posizioni, paghi almeno gli interessi correnti, ecc.).

Dal punto di vista legale, queste moratorie pre-concorsuali sono del tutto volontarie: non c’è obbligo per i creditori di concederle. Tuttavia, l’introduzione della composizione negoziata ha incentivato i creditori ad aderire a moratorie assistite dall’esperto, specie se c’è una prospettiva di soluzione concordata. In parallelo, il legislatore ha previsto che in sede di accordi di ristrutturazione omologati o concordato, il tribunale possa emanare misure cautelari e protettive che di fatto congelano le pretese dei creditori (ad es. sospensione delle ipoteche giudiziali, blocco delle azioni esecutive). Ad esempio, l’art. 54 CCII regola le misure protettive generali: con il deposito della domanda di concordato o di omologa di un accordo, il debitore può chiedere che per fino a 4 mesi i creditori siano sospesi dal procedere esecutivamente. Questo “congelamento giudiziale” è una sorta di standstill imposto. Inoltre, come visto, per i contratti pendenti i creditori non possono risolvere per il solo mancato pagamento di crediti pregressi durante le misure protettive. Dunque, sul piano finanziario, se un’azienda presenta domanda di concordato con continuità e ottiene le misure protettive, le banche non potranno, ad esempio, risolvere anticipatamente un contratto di mutuo soltanto perché il debitore ha saltato le ultime rate o perché è scattata una clausola di decadenza del termine (che sarebbe un caso di ipso facto clausola). Saranno tenute ad attendere la scadenza naturale o comunque a far valere il loro credito in sede concorsuale. Parimenti, non potranno escutere immediatamente eventuali garanzie se l’azione è sospesa. Questa protezione, unita alle eventuali moratorie contrattuali concordate, serve a stabilizzare la situazione finanziaria durante la crisi.

In aggiunta, il CCII ha mantenuto e raffinato le norme sugli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa per intermediari finanziari. Se l’impresa trova un accordo con una maggioranza qualificata di banche (ad esempio il 75% del debito finanziario), può chiedere al tribunale di estendere gli effetti dell’accordo alle banche dissenzienti minoritarie, purché siano soddisfatte non meno favorevolmente di come sarebbero in fallimento e un esperto attesti la correttezza. Ciò risolve il problema di poche banche “holdout” che rifiutano una moratoria o ristrutturazione quando la maggior parte è d’accordo. In pratica, la moratoria o la rischedulazione dei crediti bancari può divenire vincolante anche per i dissenzienti se la maggioranza la approva e l’accordo viene omologato con quell’estensione.

Nuova finanza e finanziamenti prededucibili

Spesso per sostenere la continuità aziendale durante la ristrutturazione è necessario reperire nuova finanza: ad esempio, liquidità per pagare fornitori essenziali o per effettuare investimenti urgenti. Tuttavia, i nuovi finanziatori sono comprensibilmente riluttanti a prestare soldi a un’azienda in crisi, temendo di non essere rimborsati. Per ovviare a questo problema, la legge prevede il concetto di prededuzione per i finanziamenti effettuati in funzione di un piano di risanamento, di un accordo o di un concordato. Significa che, se poi l’azienda comunque fallisce, questi crediti verranno pagati con precedenza su tutti gli altri (anche su ipoteche, salvo alcune eccezioni).

In particolare, già la Legge Fallimentare con l’art. 182-quater e quinquies aveva introdotto la possibilità che i finanziamenti ricevuti in esecuzione di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione omologato – o anche ante procedura, “in funzione” di essi – fossero dichiarati prededucibili su autorizzazione del tribunale. Il CCII riprende queste previsioni: ad esempio, l’art. 99 CCII consente al tribunale di autorizzare l’impresa, dopo il deposito della domanda di concordato o accordo, a contrarre finanziamenti urgenti e indispensabili, che saranno prededucibili. Similmente, l’art. 100 CCII (già citato per le retribuzioni) consente il pagamento di crediti anteriori essenziali per la prosecuzione, come i lavoratori e fornitori critici, sempre previa attestazione e autorizzazione. La ratio è chiara: mantenere in vita l’impresa fino all’omologa richiede carburante finanziario; chi lo fornisce (sia un nuovo istituto di credito, sia lo stesso fornitore che continua a dare beni a credito) deve essere garantito che avrà la priorità di rimborso.

Un tipo di nuovo finanziamento è quello interinale (bridge financing): soldi necessari giusto per arrivare a omologa. Un altro è il finanziamento che attua il piano (per esempio, un aumento di capitale sottoscritto da un investitore, o un nuovo mutuo finalizzato al pagamento dei creditori secondo l’accordo). Entrambi possono ottenere lo status di prededuzione se autorizzati. Ovviamente ciò richiede la presenza di un professionista indipendente che attesti che quel finanziamento è funzionale e utile a meglio soddisfare i creditori. Infatti, la prededuzione penalizza gli altri creditori (poiché viene prima di loro), quindi va concessa solo se serve a creare valore aggiuntivo a vantaggio di tutti. Un esempio: se un investitore è disposto a prestare 1 milione all’azienda in concordato per comprare materie prime e completare delle commesse redditizie, avrà prededuzione – ciò consente alla produzione di finire le commesse e magari ricavare 2 milioni, migliorando l’attivo e giovando a tutti i creditori.

Accanto ai finanziamenti di terzi, rientrano in questa logica anche i conferimenti o finanziamenti soci: se i soci dell’azienda in crisi apportano nuova finanza (spesso postergata ex art.2467 c.c. in situazioni normali), in un concordato o accordo possono chiedere che non sia postergata, ma anzi prededucibile, sempre con autorizzazione. È un incentivo ai soci a mettere mano al portafoglio per salvare l’impresa (sapendo che se poi fallisce comunque, potranno riavere indietro il prestito prima di altri creditori).

Un aspetto da considerare: la finanza prededucibile viene comunque dopo le spese procedurali e i crediti di lavoro per l’ultima parte (questi ultimi hanno limiti di moratoria, come visto: max 6 mesi in concordato). Inoltre, un eccesso di nuova finanza prededucibile può rendere non conveniente la procedura per i vecchi creditori – c’è quindi un equilibrio da tenere. Ma in generale, per il debitore, la possibilità di attrarre nuova finanza con la “garanzia” della prededuzione è vitale. Spesso si convincono banche o factor a fornire liquidità durante il concordato proprio grazie a questa priorità.

Un altro istituto da menzionare è il concordato con apporto di finanza esterna: se il piano di concordato prevede che un soggetto (spesso l’assuntore o un investitore) immetta risorse fresche destinate a pagare i creditori, tali risorse possono essere allocate preferenzialmente. Ad esempio, la legge consente di soddisfare meglio (anche integralmente) crediti prededucibili o privilegiati con la finanza esterna, lasciando ai chirografari la parte derivante dalla liquidazione interna. Questo tecnicismo serve a incentivare l’afflusso di capitali nei concordati.

Nel contesto finanziario va anche citata l’esdebitazione, benché operi post liquidazione. L’esdebitazione dell’imprenditore (artt. 278 e ss. CCII) è il beneficio per cui, chiuso il fallimento (liquidazione giudiziale) di un imprenditore individuale o piccoli soci illimitatamente responsabili, il debitore persona fisica viene liberato dai debiti residui non soddisfatti, purché abbia collaborato e non ci siano state frodi. Questo meccanismo, introdotto nel 2006 e ora parte integrante del CCII, dà al debitore onesto una “fresh start” dopo la liquidazione. Non è propriamente rinegoziazione di un contratto, ma è rilevante come strumento di politica legislativa: il debitore, sapendo di poter avere la cancellazione dei debiti residui, è più incentivato a intraprendere procedure concorsuali regolamentate (concordato o fallimento stesso) piuttosto che restare in balìa dei creditori a tempo indefinito. Dal punto di vista del creditore, l’esdebitazione è un sacrificio, ma bilanciato dal fatto che ha avuto la distribuzione di quanto ricavato e dall’interesse pubblico a rimettere in circuito un imprenditore non più oppresso dai debiti pregressi.

Infine, non dimentichiamo gli strumenti finanziari pubblici straordinari: in certe crisi di grande impatto, lo Stato ha attivato garanzie o fondi speciali (ad esempio il Fondo di Garanzia PMI durante Covid ha garantito prestiti anche ad aziende decotte per sostenerle temporaneamente; SACE ha garantito prestiti con “Garanzia Italia” in emergenza). Ci sono poi le misure di sostegno del PNRR e i fondi regionali. Questi interventi esulano dal CCII, ma l’imprenditore in crisi deve tenerne conto come possibili risorse: ad esempio, in un concordato in continuità un’azienda potrebbe ottenere un prestito agevolato garantito dallo Stato da usare per il piano, che godrà di prededuzione. Oppure sfruttare misure come il “Fondo SALVAOPERE” o altri destinati a pagare debiti verso fornitori in caso di grandi appalti (settori particolari). Ogni settore a volte ha regole proprie (si pensi all’insolvency delle grandi imprese con amministrazione straordinaria, dove intervengono strumenti specifici).

Riassumendo, gli strumenti finanziari a disposizione del debitore in crisi includono la moratoria negoziata con i creditori finanziari, supportata all’occorrenza da misure protettive giudiziali; la possibilità di ottenere nuova finanza con priorità di rimborso (prededuzione) per sostenere il risanamento; la transazione su debiti fiscali e contributivi (che riduce e diluisce quelle posizioni, spesso cruciali in Italia, con avallo del tribunale); e, in ultima istanza, l’esdebitazione dopo la liquidazione, che quantomeno libera il debitore persona fisica dai debiti insoddisfatti consentendogli di ripartire. Nel Piano di risanamento, il professionista e l’imprenditore dovranno integrare questi aspetti: non basta rinegoziare i contratti operativi, bisogna rinegoziare i debiti finanziari e assicurarsi la finanza necessaria per eseguire il piano. Un buon accordo con banche e fisco può fare la differenza tra un salvataggio riuscito e un fallimento.

Tabella 2 – Principali strumenti finanziari nella ristrutturazione

Strumento finanziarioDescrizione e funzioneRiferimenti normativiVantaggio per il debitore
Moratoria / Standstill bancarioAccordo con le banche per sospendere o rinviare pagamenti di rate e non intraprendere azioni esecutive per un periodo definito. Può essere bilaterale o aderire a protocolli ABI.– (accordo contrattuale; linee guida ABI; D.L. 18/2020 art.56 per Covid, ecc.)Congela i pagamenti, evitando default e incameramento garanzie, dando respiro di cassa per preparare il piano di ristrutturazione.
Misure protettive giudizialiSospensione generale delle azioni esecutive e cautelari dei creditori durante trattative o procedura (concordato/ARD). Include blocco ipoteche giudiziali e divieto di interrompere forniture essenziali.Art. 54 CCII (misure protettive); Art. 6 DL 118/21 (comp. negoz.); Art.94-bis CCII (clausole ipso facto contratti pendenti).Impone ai creditori uno standstill ex lege: tutela il patrimonio e i contratti cruciali mentre si negozia, prevenendo aggressioni e risoluzioni unilaterali.
Accordo di ristrutturazione con banche (estensione)Accordo omologato che vincola anche banche dissenzienti se aderisce la maggioranza qualificata (75%).Art. 61 CCII (ex 182-septies l.f.).Evita che poche banche oppositrici facciano fallire l’accordo: il debitore può ristrutturare l’intero indebitamento bancario se convince la maggioranza.
Transazione fiscale e contributivaAccordo con Fisco/INPS nell’ambito di ARD o concordato per ridurre e/o dilazionare i debiti tributari e previdenziali. Necessita che l’offerta sia almeno pari al ricavabile in liquidazione. Possibile omologa forzosa se rifiuto ingiustificato.Art. 63 CCII (ARD); Art. 88 CCII (concordato) e norme colleg. (derivano da art.182-ter l.f. e DL 125/2020).Riduce il carico fiscale, spesso ingente, allineandolo alle possibilità dell’impresa. Unisce l’Erario alla ristrutturazione. Cram-down fiscale evita veto del Fisco irragionevole.
Finanziamenti interinaliPrestiti ottenuti prima dell’omologazione, durante la procedura (es. in concordato “in bianco” o composizione negoziata), necessari per urgenze di continuità. Devono essere autorizzati e attestati.Art. 99 CCII (finanziamenti prededucibili in pendenza di procedura); Art. 10 c.2 DL 118/21 (protetti nel comp. negoz.).Fornisce liquidità immediata per continuare l’attività (pagare fornitori, stipendi) salvaguardando l’azienda nel frattempo. Il finanziatore ha garanzia di prededuzione, quindi è più propenso a erogare.
Nuovi finanziamenti in esecuzione del pianoFinanza fresca apportata per attuare il piano di rilancio (dopo l’omologa). Può essere credito bancario, emissione obbligazioni, apporti soci. Spesso condizionato all’omologa stessa.Art. 100 CCII e segg.; Art. 101 CCII (finanziamenti soci).Consente di finanziare investimenti e fabbisogno del piano post-ristrutturazione. Prededuzione li mette al sicuro: il debitore ottiene i fondi che da solo non avrebbe, investitori tutelati.
Prededuzione dei crediti strategiciRiconoscimento di prededuzione a crediti nascenti da rapporti essenziali per la continuità (es. forniture post-petition, canoni locazione di azienda in concordato, ecc.). Molti di questi sono già prededucibili ex lege come funzionali al concordato (art.6 co.1 d)).Art. 6, c.2, lett. d) CCII (atti legalmente compiuti in esecuzione del concorso); Giurisprudenza applicativa.Garantisce i partner contrattuali chiave durante la procedura, spingendoli a continuare rapporti (sanno di avere priorità di pagamento). Così l’impresa mantiene fornitori e contratti vitali.
Esdebitazione (fresh start)Cancellazione dei debiti residui per l’imprenditore (persona fisica) una volta chiusa la liquidazione, se meritevole. Non copre debiti da dolo o sanzioni pecuniarie penali, etc.Artt. 278-281 CCII.Libera il debitore fallito da ogni pendenza non soddisfatta, permettendogli di ripartire senza l’ombra perenne dei debiti pregressi. Motiva a collaborare e usare procedure legali invece di restare sommerso dai debiti.

Esempio pratico – Ristrutturazione finanziaria integrata ai contratti

Si consideri un’azienda manifatturiera Alfa S.p.A. in crisi di liquidità: ha mutui bancari per 5 milioni, debiti verso fornitori per 3 milioni, e contratti di fornitura in corso (ad esempio un contratto di fornitura di componenti elettronici essenziali). Inoltre, deve 1 milione al Fisco per IVA e contributi non versati. Alfa avvia una composizione negoziata con l’ausilio dell’esperto. Ottiene subito dalle banche uno standstill di 6 mesi sulle rate dei mutui (moratoria) e chiede misure protettive al tribunale: le esecuzioni vengono sospese e i fornitori essenziali (tra cui il fornitore di componenti elettronici) non possono interrompere le consegne a causa dei mancati pagamenti precedenti. Nel frattempo Alfa negozia un piano di risanamento: trova un investitore disposto a apportare 2 milioni di nuova finanza per rilanciare la produzione, e propone alle banche un accordo: rimborso del 80% dei loro crediti in 5 anni, con nuovi covenants e garanzie, mentre al Fisco propone di falcidiare sanzioni e interessi pagando solo l’IVA in 5 anni. I fornitori strategici accettano uno stralcio del 20% dei loro crediti e di continuare a fornire dando dilazioni di pagamento per i prossimi 12 mesi. Tutto ciò confluisce in un accordo di ristrutturazione dei debiti sottoscritto dall’80% delle banche (le restanti verranno cramate) e dall’Erario. L’investitore eroga i 2 milioni come finanziamento prededucibile autorizzato dal tribunale, garantito da privilegio generale. Con questi fondi Alfa paga regolarmente i fornitori per le nuove consegne (prededucibili) e versa le 3 mensilità arretrate ai dipendenti (anch’esse autorizzate in prededuzione). L’accordo viene omologato: i contratti di fornitura proseguono con le nuove condizioni concordate (prezzi leggermente ribassati e tempi di consegna flessibili); le banche dissenzienti sono obbligate a rispettare la ristrutturazione (niente più azioni esecutive individuali); il Fisco è vincolato alla dilazione approvata. Dopo l’omologa, Alfa riceve anche un credito garantito dallo Stato di 500 mila euro (previsto dal DL Liquidità 2020) per supportare il circolante: si tratta di ulteriore finanza che, se usata secondo l’accordo, gode di prededuzione come atto esecutivo di piano. In questo esempio, vediamo integrati vari strumenti: moratoria contrattuale, misure protettive giudiziali, nuova finanza prededucibile, transazione fiscale, accordo con banche. Tutti concorrono a riequilibrare la posizione finanziaria di Alfa e a permetterle di continuare ad operare, con soddisfazione migliore per i creditori rispetto a un fallimento (dove avrebbero recuperato forse il 40-50%). I contratti cruciali (fornitura componenti) non solo sono stati mantenuti ma anche adeguati a condizioni sostenibili; i debiti finanziari sono stati “rinegoziati” in sede collettiva; i dipendenti hanno conservato il posto (grazie alla continuità) e ricevono le retribuzioni correnti, mentre quelle arretrate sono garantite entro 6 mesi dall’omologa come impone la legge.

Strumenti di natura lavorativa nella crisi d’impresa

La gestione del personale dipendente è un capitolo delicatissimo nelle situazioni di crisi d’impresa. Spesso, per risanare un’azienda, non basta rinegoziare contratti con fornitori e banche: occorre anche ridurre il costo del lavoro o adeguare l’organico alle mutate esigenze produttive. D’altra parte, i lavoratori sono soggetti deboli da tutelare, e un’impresa che prosegue l’attività in concordato o composizione deve farlo nel rispetto (per quanto possibile) dei loro diritti. La normativa italiana, anche recependo direttive UE, predispone vari strumenti per contemperare le due esigenze: salvaguardia dell’occupazione e necessità di ristrutturazione dell’impresa. Analizziamo i principali strumenti lavorativi disponibili dal punto di vista del debitore:

  • Ammortizzatori sociali in costanza di rapporto: Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) per crisi o riorganizzazione, contratti di solidarietà;
  • Procedure di riduzione del personale: licenziamenti collettivi con causale crisi, esodi incentivati, accordi sindacali;
  • Tutela dei lavoratori nelle procedure concorsuali: limiti alla dilazione dei crediti di lavoro, intervento del Fondo di Garanzia INPS, trasferimento d’azienda con protezione occupazionale;
  • Accordi sindacali di prossimità: intese aziendali per modificare temporaneamente condizioni di lavoro (orari, mansioni, retribuzioni) al fine di gestire la crisi;
  • Clausole sociali nei concordati: (ormai abrogate le soglie di mantenimento del 50% dipendenti, ma resta l’attenzione ai posti di lavoro come elemento di valutazione del piano).

Ammortizzatori sociali: CIGS e contratti di solidarietà

Quando un’azienda in crisi ha un esubero temporaneo di personale o deve ridurre l’attività per ristrutturare, può ricorrere agli ammortizzatori sociali previsti dalla legge, in particolare la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS). La CIGS per crisi aziendale o per riorganizzazione consente all’impresa di sospendere i lavoratori (o ridurne l’orario) per un determinato periodo, durante il quale una parte della retribuzione è pagata da un fondo pubblico (INPS) invece che dal datore. Ciò riduce drasticamente il costo del lavoro per l’azienda, evitando però i licenziamenti immediati. In cambio, l’azienda deve presentare un piano di risanamento o di riorganizzazione e seguire una procedura con sindacati e Ministero del Lavoro. La durata massima della CIGS per riorganizzazione/crisi è generalmente 12 mesi (eventualmente prorogabili fino a 24 in casi complessi), e comporta un costo indiretto (contributo addizionale) per l’impresa, ma molto inferiore al mantenere il personale a vuoto.

Durante la CIGS, i contratti di lavoro restano in essere, ma la prestazione è sospesa o ridotta; i lavoratori percepiscono un’indennità (solitamente intorno all’80% della retribuzione netta, con massimali). Per il debitore, ciò significa guadagnare tempo: può alleggerire il costo del lavoro mentre implementa altre misure del piano. Ad esempio, se l’impresa deve riconvertirsi, la CIGS copre la fase di transizione senza costringerla a licenziare subito e magari perdere maestranze qualificate.

Uno strumento simile sono i contratti di solidarietà difensivi: accordi collettivi aziendali in cui i lavoratori accettano una riduzione dell’orario (e proporzionalmente della retribuzione) per evitare che una parte di essi venga licenziata. Lo Stato integra una quota parte della retribuzione persa (solitamente il 60% della perdita salariale) sempre tramite la CIGS. Così tutti lavorano un po’ meno, tutti prendono un po’ meno stipendio, ma si evita di mandare a casa alcuni lavoratori. Dal lato impresa, il vantaggio è duplice: riduce il costo del lavoro e mantiene forza lavoro per la ripresa. Spesso i contratti di solidarietà sono preludio ad un rilancio, ma se il risanamento non riesce, possono anticipare comunque un ridimensionamento.

È frequente che, nei concordati in continuità, l’impresa faccia ricorso alla CIGS straordinaria per ristrutturazione (le norme la consentono se c’è un piano di concordato in corso). Questo viene visto di buon occhio anche dai tribunali: un piano che prevede l’uso di ammortizzatori per gestire gli esuberi temporanei appare più credibile e meno traumatico socialmente.

Riduzione del personale e accordi sindacali

Se però la crisi è tale che occorre diminuire stabilmente l’organico (esuberi strutturali), l’azienda deve passare attraverso la procedura di licenziamento collettivo prevista dalla legge n. 223/1991. Questa procedura scatta quando si intendono licenziare almeno 5 dipendenti in 120 giorni per motivi economici. Consiste nel dare comunicazione preventiva ai sindacati e agli enti pubblici, aprire un confronto per 45 giorni sulle possibili soluzioni alternative o sui criteri di scelta dei licenziandi, e solo alla fine (in mancanza di soluzioni alternative come la solidarietà, trasferimenti, ecc.) si possono intimare i licenziamenti, seguendo criteri di legge (anzianità, carichi di famiglia, ecc.) o concordati. Nelle situazioni concorsuali, questa procedura è semplificata in parte: ad esempio, nel fallimento il curatore può ridurre i termini e non c’è obbligo di rispettare criteri ex art. 16 L.223 ma solo comunicare (ci sono state perplessità, ma la riforma Fornero 2012 aveva esteso la 223 anche ai fallimenti in esercizio provvisorio).

Nel concordato preventivo, essendo una procedura volontaria del debitore in bonis, se l’azienda vuole licenziare deve seguire la L.223 regolarmente. Quindi il debitore in concordato in continuità può licenziare per riduzione di personale, ma dopo aver espletato la consultazione sindacale e nel rispetto dei criteri. Tuttavia, proprio per la natura conservativa del concordato in continuità, c’è da aspettarsi che il piano cerchi di minimizzare i licenziamenti, magari combinandoli con misure sociali (CIGS, esodi incentivati). Ad esempio, il piano potrebbe prevedere l’uscita di 50 dipendenti su 200, offrendo loro un incentivo all’esodo (una somma extra se accettano il licenziamento volontario) e magari sfruttando l’isopensione o la NASpI (sussidio di disoccupazione) per accompagnarli alla pensione se vicini all’età.

Gli accordi sindacali possono facilitare questa fase: spesso l’azienda in crisi, con il supporto delle organizzazioni sindacali, stipula un accordo quadro dove i sindacati accettano un certo numero di esuberi in cambio di tutele come incentivi economici, ricollocazione assistita, etc. Oppure, se c’è un investitore che rileva l’azienda (concordato con assuntore), l’accordo sindacale può prevedere che il nuovo soggetto riassuma solo una parte dei dipendenti (quelli strettamente necessari) e che per gli altri si attivino CIGS e outplacement. Ciò è possibile grazie all’art. 47 L. 428/1990: in caso di trasferimento d’azienda in crisi in sede concorsuale, è ammessa una deroga alla continuità dei rapporti di lavoro, purché ci sia un accordo con i sindacati. In pratica, se un concordato (o un accordo ex art. 182-bis o una amministrazione straordinaria) prevede la cessione di un ramo d’azienda a un investitore, questi potrà concordare con i sindacati di prendersi, ad esempio, solo 100 dipendenti su 150, senza che ciò configuri una violazione della direttiva sui trasferimenti (normalmente il trasferente dovrebbe trasferire tutti i lavoratori). Il legislatore considera il contesto di crisi come giustificazione a una protezione attenuata, a patto che vi sia compensazione (spesso il MISE richiede all’acquirente di farsi carico di pagare parte del TFR o contributi per i pensionamenti anticipati degli esclusi, etc.). Il punto di vista del debitore: poter vendere l’azienda liberandosi di parte del personale eccedente, grazie a un accordo sindacale, è spesso la chiave per attirare investitori e rendere fattibile il salvataggio. Senza tale flessibilità, molte operazioni di M&A in crisi salterebbero per i costi del personale in eccesso.

Tutele dei crediti di lavoro nelle procedure

Abbiamo accennato prima che il CCII prevede specifiche garanzie per i crediti da lavoro nelle procedure di concordato:

  • Non è ammesso un concordato in continuità che dilazioni il pagamento dei crediti di lavoro per oltre 6 mesi dall’omologazione. Questo vuol dire che stipendi arretrati e TFR dei dipendenti devono essere pagati subito (o entro massimo 180 giorni) dopo l’approvazione del piano, altrimenti il tribunale non omologa. Ciò ha comportato che i debitori debbano trovare finanza ad hoc per saldare i dipendenti (spesso anticipata dal Fondo di Garanzia INPS in caso di fallimento; nel concordato il fondo interviene solo per TFR e 3 mensilità se c’è cessione d’azienda e lavoratori esclusi).
  • Il tribunale può autorizzare già durante il concordato il pagamento delle retribuzioni arretrate dei lavoratori addetti all’attività in continuità (come visto art.100 CCII). Questo assicura che i dipendenti restino motivati e che la continuità prosegua senza scioperi o defezioni, e tutela anche la dignità dei lavoratori durante la procedura.
  • I lavoratori hanno un rango di privilegio altissimo (privilegio generale sui mobili ex art. 2751-bis n.1 c.c.) e anche nelle misure protettive di solito si escludono i loro crediti, permettendo loro di agire (nel concordato però si è scelto di includerli nelle protezioni, confidando nelle altre garanzie come detto).
  • Se l’azienda fallisce, i dipendenti licenziati possono accedere al Fondo di Garanzia INPS che paga loro il TFR e le ultime 3 mensilità impagate. Questo non incide direttamente sul passivo (il Fondo si surroga nel credito) ma garantisce che i lavoratori non rimangano privi del loro trattamento di fine rapporto e di uno stipendio di cuscinetto. In concordato, se c’è cessione e non si trasferiscono alcuni lavoratori, anch’essi hanno diritto all’intervento del Fondo come se fosse un fallimento (grazie al rinvio del CCII all’art.47 L.428/90).
  • Nel caso di concordati con continuità indiretta (trasferimento a terzi), come detto, l’art.191 CCII impone di applicare la disciplina lavoristica ordinaria del trasferimento, che comporta la continuazione dei rapporti di lavoro con l’acquirente salvo accordo sindacale in deroga. Questa norma era esplicitamente voluta per armonizzare la legge italiana con la direttiva 2001/23/CE, dopo vicende in cui l’Italia era stata condannata (caso Mercatone Uno e altri).
  • Infine, in diversi luoghi la legge delega e il CCII parlano di salvaguardia dei livelli occupazionali come uno degli scopi delle procedure (ad esempio la Relazione alla riforma ricorda di conservare posti di lavoro per quanto possibile). Anche se non c’è più un obbligo rigido di mantenimento, è un criterio di merito: un piano che salvi più posti potrebbe essere valutato preferibilmente (nei limiti, perché prioritaria è comunque la convenienza per i creditori).

Accordi aziendali di prossimità e altre flessibilità

Un ulteriore strumento che il debitore può usare, specialmente nelle crisi meno formalizzate, è l’accordo di prossimità ex art. 8 del D.L. 138/2011. Questa norma consente ai contratti collettivi aziendali (firmati dalle rappresentanze sindacali e da associazioni comparativamente più rappresentative) di introdurre deroghe anche peggiorative rispetto al contratto collettivo nazionale o alla legge, su materie come orario, mansioni, inquadramento, contratti a termine, ecc., purché allo scopo di salvaguardare l’occupazione o rilanciare l’azienda. In situazioni di crisi, molte aziende hanno utilizzato accordi aziendali per ridurre temporaneamente voci di costo del lavoro: ad esempio congelare scatti di anzianità, ridurre indennità o premi, aumentare flessibilità di orario, in cambio dell’impegno a non licenziare. Tali accordi in deroga sono vincolanti per tutti i dipendenti se approvati dalla maggioranza delle rappresentanze. Ad esempio, l’azienda in crisi può contrattare con i sindacati: “per i prossimi 2 anni niente aumento contrattuale e sospensione di un benefit, così evitiamo 50 licenziamenti”. Legalmente, con l’art.8, ciò è lecito anche se peggiora condizioni previste dal CCNL.

Anche i patti individuali con i dirigenti o dipendenti chiave possono essere uno strumento: un manager può accettare una riduzione volontaria dello stipendio o la sospensione di un bonus se crede nel rilancio dell’azienda (spesso preferisce quello anziché vedere fallire la società e perdere tutto). Tali patti vanno maneggiati con cura (non ci sia coercizione), ma sono possibili.

Esempio pratico – Gestione della forza lavoro in un concordato

Riprendiamo la nostra Alfa S.p.A. e supponiamo abbia 200 dipendenti, ma a causa del calo di produzione ne può occupare stabilmente solo 150. Nel piano concordatario, Alfa prevede:

  • CIGS per riorganizzazione per 12 mesi per tutti i 200 dipendenti, con una riduzione media dell’orario del 30% (rotazione su linee produttive). Ciò le consente di risparmiare costi e intanto ristrutturare lo stabilimento.
  • Entro i 12 mesi, Alfa conta di incrementare i volumi grazie ai nuovi finanziamenti, ma se ciò non avverrà attiverà una riduzione personale. Già contestualmente al piano, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 50 esuberi strutturali, con l’impegno di ricollocare tali persone in aziende fornitrici o consociate. I licenziamenti effettivi saranno intimati solo dopo la CIGS, se non c’è riassorbimento.
  • Con i sindacati firma un accordo in sede di Ministero: i criteri di scelta dei 50 esuberi privilegeranno le uscite volontarie e i pensionandi; ai volontari che escono offre un incentivo di 12 mensilità; per chi è a 2 anni dalla pensione verrà attivato un accompagnamento (ad esempio l’isopensione o la NASpI fino alla pensione).
  • Nell’accordo sindacale, inoltre, Alfa e le RSU convengono su un contratto di solidarietà per i restanti 150: dopo la CIGS, se il lavoro non basta per full-time a tutti, ridurranno l’orario di 4 ore settimanali ciascuno per altri 6 mesi, evitando ulteriori licenziamenti.
  • Alfa inserisce nel piano finanziario i costi degli incentivi e chiede allo Stato l’accesso a un Fondo per il re-training dei lavoratori (qualora alcuni da full-time diventino part-time, li forma per mansioni diverse).
  • Tutti gli stipendi correnti vengono garantiti (prededucibili) e quelli arretrati – supponiamo ce ne siano 2 – verranno pagati immediatamente grazie a un finanziamento autorizzato (nessun dipendente resterà con arretrati oltre l’omologa, rispettando il limite dei 6 mesi).
  • Nel piano la conservazione di 150 posti su 200 (75%) viene evidenziata come indice della volontà di salvaguardare l’occupazione “nella misura possibile”.

Con queste misure, Alfa riesce a contenere la spesa del personale, ad evitare conflitti sociali (i sindacati hanno concordato il percorso) e a dare un futuro ai dipendenti rimasti con carichi di lavoro adeguati. I 50 in esubero ricevono comunque un trattamento equo (incentivo + ammortizzatori) e non vengono semplicemente abbandonati. Dal punto di vista del debitore, l’utilizzo combinato di CIGS, solidarietà e accordi per esodi volontari consente di ridurre il costo del lavoro rapidamente ma senza incorrere in contenziosi e soprattutto mantenendo la “pace sociale” durante la delicata esecuzione del concordato. Un’azienda in concordato ha infatti bisogno che la produzione continui e che i lavoratori collaborino – scioperi o tensioni metterebbero a repentaglio la continuità stessa. Ecco perché la legge (e la prassi) incoraggiano soluzioni condivise e strumenti come la cassa integrazione.

Domande Frequenti (FAQ) sulla rinegoziazione dei contratti in crisi d’impresa

D.1: Cosa si intende esattamente per sopravvenienze contrattuali?
R.1: Il termine sopravvenienze contrattuali si riferisce a eventi o circostanze straordinarie, imprevedibili al momento della conclusione del contratto, che sopravvengono durante la sua esecuzione alterandone profondamente l’equilibrio economico. Sono tipici esempi le calamità naturali, cambi normativi drastici, crisi economiche generali o fatti specifici come la pandemia da Covid-19. Tali sopravvenienze possono rendere la prestazione di una parte enormemente più onerosa rispetto a quanto previsto (eccessiva onerosità sopravvenuta) o addirittura impedirla. In questi casi, l’ordinamento prevede rimedi come la risoluzione per eccessiva onerosità (art.1467 c.c.) salvo che la parte avvantaggiata offra una modifica equa delle condizioni. Nel contesto della crisi d’impresa, le sopravvenienze contrattuali assumono rilievo perché spesso la crisi stessa è una sopravvenienza (es. perdita improvvisa di mercato, rincari imprevisti) che richiede di rinegoziare i contratti per evitare il fallimento.

D.2: Il debitore può obbligare l’altra parte a rinegoziare un contratto divenuto squilibrato?
R.2: In linea di principio, il debitore non ha un diritto soggettivo pieno ad ottenere una rinegoziazione del contratto a suo favore. Il nostro codice civile offre la via della risoluzione per eccessiva onerosità: il debitore può chiedere al giudice di sciogliere il contratto, e solo in tal caso la controparte può evitare la risoluzione proponendo un’adeguata modifica (1467 c.c.). Non esiste invece un rimedio codificato che consenta al giudice di imporre direttamente la modifica senza passare per la risoluzione (salvo casi particolari come 1468 c.c. per contratti gratuiti). Tuttavia, sulla base del dovere di buona fede, dottrina e giurisprudenza (specialmente dalla crisi Covid) riconoscono un obbligo di avviare trattative di rinegoziazione in presenza di sopravvenienze eccezionali. Ciò significa che la controparte deve quantomeno sedersi al tavolo e discutere in buona fede possibili adattamenti; se si rifiuta categoricamente o finge di negoziare, può essere considerata inadempiente ai doveri contrattuali di correttezza. In pratica, dunque, il debitore non può “obbligare” l’altro a concludere un nuovo accordo alle sue condizioni, ma può attivare meccanismi legali (domanda di risoluzione, richiesta all’esperto nella composizione negoziata) che mettono pressione alla controparte affinché negozi seriamente. In casi eccezionali (es: contratti di affitto d’azienda durante pandemia), la legge speciale ha persino previsto la possibilità di richiedere al giudice di modificare temporaneamente il contratto, ma si tratta di ipotesi limitate.

D.3: Che differenza c’è tra chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità e rinegoziare il contratto?
R.3: Chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità (ex art.1467 c.c.) significa avviare un’azione legale per far sciogliere il contratto a causa di un evento straordinario che ha rotto l’equilibrio delle prestazioni. È un rimedio unilaterale e giudiziale: spetta al giudice pronunciare la risoluzione, con effetto retroattivo (si torna alla situazione pre-contrattuale, salvo equo indennizzo per la parte che ha ricevuto prestazioni). In tale procedimento, l’altra parte può evitare la risoluzione offrendo una modifica equa – in sostanza accettando spontaneamente di rinegoziare nei termini proposti dal giudice per ristabilire equilibrio. La rinegoziazione del contratto, invece, è un processo bilaterale e volontario: le parti si siedono e, alla luce delle nuove circostanze, concordano spontaneamente nuovi termini (riduzione del prezzo, proroga dei termini, diversa quantità, ecc.) per proseguire il rapporto. La rinegoziazione tende a conservare il contratto, semplicemente adattandolo. In pratica, la minaccia (o la prospettiva) della risoluzione giudiziale è spesso la leva che induce le parti a rinegoziare extragiudizialmente: la parte “forte” può preferire fare concessioni e mantenere il contratto, piuttosto che perderlo e ricevere solo un risarcimento limitato. Ad esempio, se un conduttore di immobile commerciale invoca la risoluzione per crollo del fatturato dovuto a cause eccezionali, il locatore potrebbe offrire di abbassare il canone del 20% per evitare di perdere il contratto e trovarsi l’immobile sfitto. In sintesi: la risoluzione è un rimedio estremo che scioglie il vincolo; la rinegoziazione è la soluzione concordata che preserva il vincolo modificandolo. La legge incoraggia la seconda opzione (con l’art.1467 comma 3, e la buona fede contrattuale) pur prevedendo la prima come exit strategy.

D.4: Durante il Covid-19, il conduttore di un negozio poteva ridurre autonomamente il canone di locazione?
R.4: No, il conduttore non poteva autonomamente ridurre o sospendere il pagamento del canone senza accordo col locatore o pronuncia del giudice. All’inizio della pandemia, alcuni tribunali in via d’urgenza hanno concesso riduzioni temporanee dei canoni per i periodi di lockdown, appellandosi a cause di forza maggiore o alla buona fede. Tuttavia, la Corte di Cassazione è intervenuta chiarendo che le misure anti-Covid, pur costituendo causa di impossibilità temporanea e non imputabile (art.91 D.L.18/2020), non introducono un meccanismo legale di riduzione equitativa del canone nei contratti a prestazioni corrispettive. In altri termini, il conduttore poteva legittimamente non usare l’immobile causa lockdown (e ciò non era colpa sua, dunque niente penali né risarcimenti dovuti al locatore per il mancato uso), ma ciò non gli attribuiva il diritto di pagare meno. Il suo rimedio teorico era chiedere la risoluzione per eccessiva onerosità se il contratto era di lunga durata (molti l’hanno invocata), oppure invocare la impossibilità parziale sopravvenuta (art.1464 c.c.) se applicabile. La Cassazione ha però escluso che il giudice potesse “inventare” un taglio del canone al di fuori dei casi previsti. Quindi, la via praticabile era la rinegoziazione volontaria: difatti molti locatori e conduttori hanno trovato intese (es. sconto del 50% per i mesi di chiusura) pur di non arrivare a contenzioso o a risoluzione. Inoltre, il governo introdusse crediti d’imposta sugli affitti commerciali per incentivare i locatori a concedere sconti. In sintesi, senza accordo, il conduttore rischiava, non pagando interamente, di essere inadempiente (salvo far valere in giudizio la causa di forza maggiore per evitare la risoluzione per inadempimento, ma il contratto restava in vigore a quel canone). La Cassazione nel 2025 ha ribadito che il giudice non può ridurre d’ufficio la prestazione di un contratto a prestazioni corrispettive colpito da pandemia, potendo solo pronunciare la risoluzione se richiesto. Quindi la riduzione del canone doveva scaturire da un accordo oppure, in mancanza, si poteva arrivare alla risoluzione del contratto (molti negozi hanno scelto questa strada, cessando l’attività).

D.5: La legge impone un obbligo di rinegoziazione in buona fede? Cosa succede se la controparte rifiuta di trattare?
R.5: Non esiste una norma specifica del codice civile che sanzioni il rifiuto di rinegoziare. Tuttavia, l’orientamento emerso (soprattutto da Cass. rel. n.56/2020 e seguito) è che l’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede comporta anche il dovere di cooperare per adattare il contratto quando eventi straordinari ne compromettano l’equilibrio. Quindi sì, possiamo dire che l’ordinamento, in via interpretativa, riconosce un obbligo (o quanto meno un onere) di rinegoziazione. Se la controparte lo viola – ad esempio rifiutando perfino di sedersi al tavolo, oppure fingendo di negoziare ma senza alcuna intenzione di cedere (trattative maliziose) – incorre in un inadempimento degli obblighi contrattuali accessori. Ciò può avere due conseguenze: (1) sul piano risarcitorio, la parte che subisce un danno da questo rifiuto potrebbe chiedere il risarcimento (anche se non è semplice dimostrare il danno specifico di una mancata trattativa); (2) sul piano dei rimedi specifici, la dottrina prospetta che si possa chiedere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ex art.2932 c.c., cioè rivolgersi al giudice affinché emetta una sentenza che tiene luogo del contratto rinegoziato che la parte renitente non ha voluto concludere. Questa seconda ipotesi è molto avanzata e non risultano applicazioni pratiche ancora. In concreto, se la controparte rifiuta di trattare e si limita a pretendere l’adempimento integrale nonostante la situazione stravolta, il debitore può giocare la carta della risoluzione per eccessiva onerosità, sperando così di forzare la mano. Oppure, se possibile, rivolgersi a strumenti come la composizione negoziata, dove l’esperto invita formalmente le parti a ridiscutere il contratto, e in caso di rifiuto palese il giudice – come nel caso di Firenze – potrebbe valutare quella condotta ai fini dell’equità dell’eventuale provvedimento. In definitiva: l’obbligo di rinegoziazione esiste a livello di principio e la controparte dovrebbe partecipare lealmente alle trattative; se non lo fa, rischia di trovarsi in posizione di torto davanti a un giudice (che potrebbe risolvere il contratto alle sue spese e anche condannarla a danni o a una decisione equitativa).

D.6: Quali contratti può sciogliere unilateralmente il debitore in un concordato preventivo?
R.6: Nel concordato preventivo, il debitore può chiedere al tribunale di sciogliere o sospendere i contratti pendenti (cioè non completamente eseguiti) che non ritenga sostenibili o compatibili col piano di concordato. Non c’è un elenco chiuso di contratti scioglibili: possono essere contratti di locazione (sia attivi che passivi), leasing, forniture a lungo termine, appalti, contratti distribuzione esclusiva, affitto d’azienda, ecc., purché al momento del deposito della domanda risultino ancora prestazioni reciproche da eseguire in misura rilevante. Sono esclusi i contratti già eseguiti o in cui rimane un’unica prestazione solo da una parte (quelli sono crediti o debiti). Anche contratti con la Pubblica Amministrazione (salvo peculiarità di legge) possono teoricamente essere sciolti in concordato – ad esempio un appalto pubblico pendente, anche se lì intervengono normative di settore. Il tribunale autorizzerà lo scioglimento caso per caso, valutando che la prosecuzione del singolo contratto contrasti con gli obiettivi del piano. Ad esempio, può essere autorizzato lo scioglimento di un contratto di mutuo non più assistito da garanzie se il piano prevede di rinegoziare l’esposizione con quella banca in altro modo. Oppure di un contratto di leasing per un macchinario che l’azienda non usa più, per evitare di pagare ulteriori canoni. Non può invece il debitore scegliere di sciogliere arbitrariamente contratti vantaggiosi per lui, solo per liberarsi di un obbligo di fare: serve la coerenza col piano. In ogni caso, la controparte avrà diritto a un indennizzo equivalente al danno da scioglimento, che diventa un suo credito chirografario. Dunque il debitore può liberarsi del contratto, ma “si compra” questa libertà al prezzo di dover risarcire (in percentuale concordataria) l’altro. Va detto che alcuni contratti specifici hanno regole ad hoc: per l’affitto d’azienda, il CCII stabilisce che l’apertura della liquidazione giudiziale del concedente non scioglie il contratto (salvo recesso del curatore entro 60gg) e analoghe previsioni valgono nel concordato (il contratto di affitto d’azienda prosegue salvo diversa decisione, data la sua importanza). Ma in generale, il concordato offre una notevole flessibilità: è uno dei motivi per cui un imprenditore sceglie il concordato – perché può “pulire” il perimetro aziendale dai contratti onerosi (dietro autorizzazione). Nella composizione negoziata invece, come confronto, il debitore non ha questo potere unilaterale: deve convincere la controparte oppure passare dal concordato se vuole sciogliersi da un contratto.

D.7: Cosa sono le clausole ipso facto e sono valide in Italia?
R.7: Le clausole ipso facto sono pattuizioni contrattuali che fanno dipendere la risoluzione o modifiche del contratto dal mero verificarsi di uno stato di crisi o insolvenza di una parte (ad esempio: “il presente contratto si risolve automaticamente se il cliente propone concordato preventivo o viene dichiarato fallito”). Nella prassi contrattuale, soprattutto anglosassone, erano frequenti. In Italia, già prima del CCII, la giurisprudenza tendeva a considerarle nulle perché in contrasto con norme imperative e con i principi concorsuali, almeno per la parte in cui colpivano procedure concorsuali (si diceva che violavano la par condicio e la finalità conservativa del concordato). Con la riforma, oggi lo afferma espressamente l’art. 94-bis CCII: sono inefficaci i patti che consentono al contraente di alterare o sciogliere il contratto per il solo fatto della domanda di concordato preventivo o dell’ammissione a misure protettive. Similmente, nel concordato in continuità, il creditore non può risolvere il contratto essenziale solo perché il debitore non gli ha pagato pregresse fatture pre-concordato. Quindi, ad esempio, una clausola di un contratto di fornitura che preveda “in caso di ammissione del cliente a concordato, il fornitore può sospendere le forniture” è nulla e inattuabile: il fornitore dovrà continuare a fornire. Nel contesto della composizione negoziata, pur mancando norma espressa all’epoca (2021), si introdusse un analogo divieto per i contratti pendenti soggetti a misure protettive. Quindi oggi nel nostro ordinamento le clausole ipso facto legate a procedure di regolazione della crisi non hanno effetto. Attenzione: ciò non significa che un fornitore sia obbligato a contrarre in eterno – può sempre risolvere per altre cause (inadempimenti successivi del debitore, scadenza naturale, ecc.), ma non può farlo automaticamente solo perché c’è stata la crisi. Questa regola protegge il debitore: evita reazioni a catena ove tutti rescindono i contratti appena c’è odore di crisi, rendendo impossibile il risanamento. E tutela anche i creditori nel loro complesso, perché mantiene in piedi contratti che generano valore per l’azienda in ristrutturazione. Per completezza, è giusto dire che se un contratto ipso jure si è risolto prima dell’ammissione alla procedura, quella risoluzione resta valida (non è retroattiva la norma). Ma in sostanza, qualsiasi clausola contrattuale che metta il debitore alla mercé della controparte in caso di crisi è oggi inefficace.

D.8: In caso di cessione dell’azienda in crisi, i dipendenti passano al nuovo acquirente?
R.8: Sì, in generale se c’è un trasferimento di azienda, i rapporti di lavoro in essere proseguono automaticamente con il nuovo datore, in base all’art.2112 c.c. e all’art.47 L.428/1990 (che recepisce la direttiva europea). Questo vale anche se l’azienda è venduta durante un concordato o venduta dal curatore fallimentare, salvo che si attivi una procedura sindacale che consenta qualche deroga. Infatti, l’art.47 prevede che, in caso di trasferimento di azienda nell’ambito di una procedura concorsuale (concordato, amministrazione straordinaria, liquidazione, accordo) o di imprese comunque in crisi, il cedente o il cessionario possano avviare una consultazione sindacale e raggiungere un accordo sindacale in cui, per esigenze occupazionali, vengano stabilite condizioni differenti: tipicamente, l’acquirente può non assumere tutti i lavoratori o riassumerli con trattamenti economici diversi (entro certi limiti). Questa è un’eccezione permessa dall’ordinamento per favorire il salvataggio di imprese in crisi, altrimenti un potenziale acquirente potrebbe essere dissuaso dal dover prendere in blocco un organico sovradimensionato o costi del personale insostenibili. Il CCII all’art.191 richiama espressamente l’applicazione di tale procedura di consultazione sindacale per tutti i casi di trasferimento d’azienda in concordato preventivo, negli accordi di ristrutturazione e nella liquidazione giudiziale. Quindi la regola è: se cedi l’azienda durante il concorso, devi notificare ai sindacati e discutere con loro; se trovi un accordo, puoi trasferire solo parte dei dipendenti (o modificarne i contratti nei limiti concordati). Se non trovi un accordo, allora si applica la tutela piena di 2112 c.c. e il compratore deve prendere tutti i lavoratori con gli stessi contratti. In pratica, quasi sempre si giunge a un accordo, perché anche i sindacati sanno che senza quell’intesa l’acquirente potrebbe ritirarsi. Spesso l’accordo prevede incentivi o tutele per i lavoratori non riassorbiti (es. cigs, precedenza per future assunzioni, ecc.). Quindi, per rispondere in breve: di default, sì, i lavoratori seguono l’azienda; nelle procedure di crisi c’è però spazio per stabilire un perimetro occupazionale ridotto per chi subentra, se sindacati e autorità pubbliche (es. il Ministero dello Sviluppo) concordano, salvaguardando comunque almeno in parte i diritti di quelli esclusi (indennità, accesso a sussidi).

D.9: I dipendenti possono subire modifiche al contratto di lavoro in un piano di ristrutturazione?
R.9: Unilaterlamente, il datore non può ridurre la retribuzione o peggiorare le condizioni di lavoro dei dipendenti nemmeno in crisi – qualsiasi modifica sostanziale sfavorevole richiede consenso (individuale o collettivo). Tuttavia esistono vie per ottenere tali modifiche con il consenso: ad esempio i contratti di solidarietà sono accordi collettivi che riducono orario e paga in modo legittimo e con integrazione salariale pubblica; oppure gli accordi di prossimità (art.8 D.L.138/2011) possono introdurre deroghe peggiorative temporanee su alcuni istituti (turni, mansioni, premi) se finalizzate a gestire la crisi con l’accordo dei sindacati maggioritari. Inoltre, nell’ambito di un concordato o accordo, l’azienda può proporre (e spesso lo fa) dei patti transattivi con i dipendenti: ad esempio, può chiedere ai dirigenti di rinunciare a parte dei crediti per bonus o straordinari maturati, in cambio della continuità aziendale e del pagamento in prededuzione degli stipendi correnti. Questi patti vanno negoziati e sottoscritti (magari con l’assistenza sindacale), ma una volta firmati riducono il debito e valgono come qualsiasi accordo novativo. Quanto a mansioni e organici: il datore può ristrutturare l’organizzazione del lavoro – ad esempio chiudere reparti, accentrare funzioni – e ciò può implicare recesso di alcuni e ricollocazione di altri secondo la legge (jus variandi nei limiti, art.2103 c.c. per mansioni, e licenziamenti per altri). Se invece la domanda è se un piano di concordato possa, di per sé, imporre tagli di stipendi o ferie, la risposta è no: qualsiasi intervento sul contratto di lavoro richiede accordi sindacali o attivazione di strumenti giuslavoristici (CIG, solidarietà) che presuppongono il coinvolgimento delle parti sociali e/o delle autorità. Un concordato non può ad esempio stabilire unilateralmente “tutti i dipendenti prenderanno il 20% in meno per 1 anno” – dovrebbe arrivarci tramite un contratto di solidarietà difensivo approvato dai sindacati e autorizzato dal Ministero del Lavoro. Dunque, i dipendenti possono subire modifiche, ma attraverso i meccanismi di diritto del lavoro (accordi collettivi, ammortizzatori) e non per imposizione diretta della procedura concorsuale. Il CCII garantisce peraltro che i loro crediti per stipendio siano tra i più protetti (pagamento entro 6 mesi, prededuzione, Fondo di garanzia INPS), quindi non si può semplicemente falcidiare i loro crediti come per gli altri chirografari senza rispettare i paletti di legge.

D.10: Cosa succede se un’azienda in crisi non riesce a rinegoziare i contratti e i debiti e non accede a nessuna procedura?
R.10: Se un’impresa in difficoltà non adotta nessuno degli strumenti di regolazione della crisi (né accordi stragiudiziali efficaci, né composizione negoziata, né concordato o altro) e contemporaneamente i suoi tentativi di negoziazione informale con fornitori e creditori falliscono, inevitabilmente si andrà verso il default. I segnali tipici: i fornitori interrompono le forniture per mancato pagamento, le banche revocano gli affidamenti e iniziano i pignoramenti, i clienti perdono fiducia, i dipendenti magari iniziano cause o si licenziano. Questa situazione porta rapidamente all’insolvenza conclamata, con probabile istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) da parte di qualche creditore insoddisfatto o dell’azienda stessa. In sede fallimentare, come visto, i contratti ancora in corso saranno gestiti dal curatore in ottica liquidatoria: molti verranno sciolti, l’attività chiuderà a meno di un improbabile esercizio provvisorio, i beni saranno venduti all’asta e il ricavato distribuito. I debiti insoddisfatti andranno in gran parte perduti per i creditori (le percentuali di realizzo nei fallimenti sono spesso basse, specie per chirografari). Il debitore imprenditore individuale potrà poi chiedere l’esdebitazione, come detto, ma avrà comunque perso l’azienda. In pratica, se non ci si siede al tavolo per tempo per rinegoziare e non si sfruttano le procedure di risanamento, il mercato applicherà la sua soluzione brutale: l’impresa verrà espulsa dal circuito economico e i suoi asset liquidati. È quello che il Codice della Crisi vuole evitare incentivando l’allerta precoce e le composizioni negoziate. Naturalmente non sempre la rinegoziazione è possibile (ci sono crisi irreversibili); in quei casi la soluzione corretta è la liquidazione, possibilmente ordinata. Ma spesso un piano concordato avrebbe potuto salvare valore. Quindi, non riuscire o non voler rinegoziare e ristrutturare di solito significa distruzione di valore: i creditori recuperano meno e il debitore perde l’attività. Per questo si insiste che il debitore colga tempestivamente i segnali di crisi e attivi gli strumenti di composizione prima di arrivare al punto di non ritorno.

D.11: Quali vantaggi concreti ottiene il debitore rinegoziando i contratti rispetto a lasciare che l’azienda fallisca?
R.11: I vantaggi sono molteplici:

  • Continuità aziendale: rinegoziare contratti chiave (forniture, affitti, finanziamenti) può permettere all’impresa di proseguire l’attività invece di cessarla. Mantenere la continuità preserva il valore d’impresa (know-how, avviamento, clientela) a beneficio anche dei creditori, e consente al debitore di avere chance di recupero. Nel fallimento questo valore va disperso.
  • Salvaguardia del patrimonio personale (per soci/imprenditore): se la ristrutturazione evita il fallimento, l’imprenditore individuale o i soci che hanno garantito debiti sociali proteggono il proprio patrimonio personale da escussioni. Inoltre evitare il fallimento evita possibili azioni di responsabilità aggravate contro amministratori e sindaci, e spesso anche indagini penali (il concordato esclude il reato di bancarotta semplice, ad esempio).
  • Controllo sul processo: rinegoziando contratti e debiti in un quadro concordato, il debitore mantiene più controllo sugli esiti (può proporre un piano, scegliere quali asset cedere, ecc.). Nel fallimento, il controllo passa totalmente al curatore e al giudice.
  • Risparmio di costi e tempo: un accordo, se raggiunto, può concludersi più rapidamente e con costi minori (anche se comunque serve l’attestatore, etc.) rispetto a una procedura fallimentare lunga anni. Ciò significa poter tornare prima “sul mercato” ripuliti.
  • Miglior soddisfacimento dei creditori: sembra paradossale parlarne come vantaggio per il debitore, ma lo è: se i creditori recuperano di più con la ristrutturazione, saranno più disponibili a supportare il piano e magari a continuare rapporti commerciali con l’impresa risanata. Il debitore quindi preserva relazioni d’affari e la propria reputazione in qualche misura.
  • Tutela di fornitori e clienti strategici: rinegoziando con loro invece di lasciarli tra i creditori di un fallimento, il debitore può salvare partnership importanti. Ad esempio, un fornitore potrebbe accettare un taglio del credito ma continuare a fornire materiale: l’azienda continua a produrre e quel fornitore manterrà un cliente per il futuro – scenario win-win rispetto al fallimento in cui il fornitore perde il cliente e prende solo briciole.
  • Salvataggio dei posti di lavoro: per un imprenditore responsabile, mantenere l’occupazione dei propri dipendenti è un valore. Con la continuità e la ristrutturazione, molti lavoratori conservano il posto (pur magari con sacrifici temporanei) – cosa che un fallimento non garantisce (anzi, spesso comporta licenziamenti pressoché totali).
  • Evita le sanzioni interdittive: un imprenditore fallito può incorrere in limitazioni (es. divieto di ricoprire cariche se condannato per bancarotta). Uscire con un concordato evita tali strascichi negativi sul piano legale.
  • Possibilità di esdebitazione: vero, c’è anche nel fallimento l’esdebitazione, ma l’imprenditore deve subire comunque la procedura. Con un concordato, di fatto l’effetto è simile: paga una parte di debiti e il resto viene stralciato dall’omologa; è un’esdebitazione concordataria. Lo stigma è minore e la ripartenza più immediata.
    In sintesi estrema, rinegoziare contratti e debiti attraverso gli strumenti offerti consente al debitore di tentare il rilancio dell’impresa su basi sostenibili, mentre il fallimento è la fine dell’impresa. È la differenza tra un percorso di cura e guarigione rispetto a uno di scioglimento e sepoltura. Ecco perché dal punto di vista del debitore vale quasi sempre la pena provare la strada negoziale prima di arrendersi alla liquidazione.

Conclusioni

La rinegoziazione dei contratti nella crisi d’impresa – intesa in senso ampio come rinegoziazione di tutte le obbligazioni e i rapporti pendenti – si rivela un elemento cruciale per il successo dei processi di risanamento. Il nuovo quadro normativo italiano, adeguato alle direttive europee, fornisce al debitore una serie articolata di strumenti per affrontare le sopravvenienze contrattuali e riequilibrare i propri impegni: dalle soluzioni negoziali e volontarie (piani attestati, accordi di moratoria, composizione assistita) fino agli interventi concorsuali e autoritativi (concordato con scioglimento di contratti onerosi, intervento giudiziale su clausole ipso facto, protezione dei contratti essenziali). Il punto di vista del debitore in questi istituti è stato finalmente considerato dal legislatore: oggi l’imprenditore in difficoltà, se agisce con tempestività e trasparenza, può proporre modifiche dei contratti e dei debiti ai suoi partner in un alveo giuridico protetto, senza il timore che ogni iniziativa di risanamento si traduca in una corsa dei creditori a risolvere contratti o a pignorarne i beni.

Naturalmente, l’equilibrio con la tutela dei creditori deve sempre essere mantenuto: nessuna rinegoziazione imposta può penalizzare ingiustamente le controparti, e il successo di ogni piano di ristrutturazione dipende dalla sostenibilità e dalla convenienza dello stesso per i creditori (nessuno accetterà un accordo o voterà un concordato se percepisce di ricevere meno di quanto otterrebbe altrimenti). In questo senso, la rinegoziazione in buona fede dei contratti rappresenta il terreno sul quale debitore e creditori possono incontrarsi a metà strada: il debitore ottiene sollievo e può evitare la rovina, i creditori ottengono una soddisfazione almeno pari o superiore a quella di un fallimento, scommettendo sul rilancio aziendale. Il Codice della Crisi, con i suoi strumenti innovativi (composizione negoziata, piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione, divieto di clausole ipso facto, ecc.), incoraggia proprio questa ricerca di soluzioni concordate e flessibili, lasciando la liquidazione coatta come extrema ratio solo quando ogni tentativo di aggiustamento contrattuale e finanziario sia fallito.

In conclusione, gestire le sopravvenienze contrattuali è oggi parte integrante del ruolo dell’imprenditore in crisi e dei professionisti che lo assistono. Che si tratti di ridurre un canone, posticipare una scadenza, ottenere uno sconto, sciogliere un contratto o trovare un nuovo assetto con i lavoratori, rinegoziare significa guadagnare tempo e opportunità per l’impresa. Il legislatore ha fornito la cassetta degli attrezzi; spetta al debitore usarla prontamente e con competenza. Un’impresa può emergere dalla crisi rigenerata e competitiva, ma solo se ha saputo adattare i propri obblighi contrattuali alla nuova realtà: in una parola, se ha saputo rinegoziare, equamente e coraggiosamente, il proprio patto con creditori, fornitori, finanziatori e dipendenti. È questo, in definitiva, il filo conduttore di un diritto della crisi moderno: trasformare il vincolo contrattuale, da rigidità potenzialmente letale in tempi avversi, a strumento di flessibilità e risanamento quando le circostanze lo esigono.


Fonti e Riferimenti

  • Codice Civile (artt. 1375, 1463-1467 c.c. – buona fede nell’esecuzione, impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità sopravvenuta).
  • Cassazione Civile, sez. III, 17 giugno 2025 n.16113 – Principio di diritto su effetti delle misure anti-Covid nei contratti di locazione: conferma impossibilità non imputabile ex art.91 D.L.18/2020, ma nega potere di riduzione equitativa giudiziale dei canoni.
  • Cassazione – Ufficio Massimario, Relazione n.56/2020 – Elabora il principio generale dell’obbligo di rinegoziazione per sopravvenienze straordinarie, fondato su buona fede ed equità contrattuale.
  • Tribunale di Firenze, sez. imprese, sent. 1 marzo 2022 n. 6754 – In composizione negoziata, primo caso di rideterminazione giudiziale di un contratto (fornitura) divenuto eccessivamente oneroso causa Covid, ai sensi dell’art.10 comma 2 D.L.118/2021.
  • D.L. 24/08/2021 n.118, conv. L.147/2021, art.10 co.2 – Normativa emergenziale sulla composizione negoziata: poteri dell’esperto e del tribunale di invitare e, in difetto, imporre la rinegoziazione di contratti di durata squilibrati dalla pandemia.
  • D.Lgs. 12/01/2019 n.14 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza) e successive modifiche:
    • Art.54 CCII: misure protettive (sospensione azioni esecutive e cautelari).
    • Art.56-57 CCII: piano attestato di risanamento (non soggetto ad omologa, protezione da revocatoria).
    • Art.60-64 CCII: accordi di ristrutturazione dei debiti e varianti (agevolati, ad efficacia estesa).
    • Art.84 CCII: finalità del concordato e tipologie (continuità aziendale diretta/indiretta).
    • Art.86 CCII: (nel testo originario) limite di dilazione dei crediti pre-deducibili con garanzia (poi modificato per tutela lavoratori: max 6 mesi per crediti di lavoro).
    • Art.94-bis CCII: introdotto nel 2022/2024 – Divieto di rifiuto di adempimento o risoluzione dei contratti pendenti per il solo fatto del deposito di domanda di concordato o concessione misure protettive; esteso a tutti i contratti pendenti e specificamente rafforzato per contratti essenziali in continuità.
    • Art.97 CCII: disciplina dei contratti pendenti nel concordato preventivo – prosecuzione automatica salvo richiesta di sospensione/scioglimento da parte del debitore autorizzata dal tribunale.
    • Art.100 CCII: pagamento di crediti pregressi indispensabili (specie retribuzioni) autorizzabile dal tribunale anche prima dell’omologa.
    • Art.191 CCII: trasferimento d’azienda e rapporti di lavoro in procedure concorsuali – rinvio all’art.47 L.428/90 (consultazione sindacale; possibilità di accordo in deroga).
  • Fonti normative sul lavoro: L. 223/1991 (licenziamenti collettivi); L. 428/1990 art.47 (trasferimento azienda e comunicazioni sindacali); D.Lgs. 148/2015 (disciplina CIGS); art.8 D.L.138/2011 conv. L.148/2011 (accordi di prossimità derogatori). Queste norme non sono citate testualmente sopra ma costituiscono il quadro di riferimento integrato con CCII art.189-191.
  • Relazione Illustrativa D.Lgs.83/2022 (att. direttiva) – chiarisce ratio modifiche a tutela lavoratori (clausola di non regresso, equiparazione tutela concorsuale a pregresso).

Crisi aziendale in corso? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Quando un’impresa entra in crisi, alcuni contratti possono diventare insostenibili. Le condizioni pattuite in tempi di stabilità non sempre reggono agli shock economici, ai mutamenti del mercato o agli imprevisti.
In questi casi, si parla di sopravvenienze contrattuali: eventi nuovi, esterni e imprevedibili che alterano l’equilibrio economico originario del contratto.

Il diritto riconosce la possibilità di:

  • Chiedere la rinegoziazione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta
  • Modificare i termini economici e le prestazioni per ristabilire un equilibrio
  • Intervenire giudizialmente se la controparte si rifiuta di trattare

La rinegoziazione è ancora più efficace quando inserita in un contesto di composizione negoziata della crisi, che rafforza il potere dell’imprenditore nel chiedere modifiche contrattuali ragionevoli, tutelando al contempo la continuità aziendale.


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✔️ Difensore in controversie legate a contratti squilibrati e sopravvenienze
✔️ Supporta PMI, imprese familiari, start-up e professionisti in difficoltà


Conclusione

Rinegoziare i contratti nella crisi d’impresa è un diritto e una strategia intelligente. Le sopravvenienze non devono affondare l’impresa, ma possono essere gestite legalmente per riequilibrare gli impegni e tutelare la continuità aziendale.
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