Come Prevenire ed Evitare l’Insolvenza Con Gli Strumenti di Composizione della Crisi

Hai un’impresa in difficoltà e temi che la situazione possa peggiorare fino all’insolvenza? Le entrate non bastano più, i debiti aumentano e ti chiedi come fare per evitare il fallimento prima che sia troppo tardi?

La legge oggi offre strumenti concreti per prevenire l’insolvenza, intervenire in tempo e ristrutturare i debiti prima che i creditori inizino a colpire i beni dell’azienda. Si tratta degli strumenti di composizione della crisi, previsti dal Codice della Crisi d’Impresa, pensati proprio per salvare imprese ancora vive ma in affanno.

Quando il rischio di insolvenza diventa reale?

– Quando l’impresa non riesce a pagare con regolarità fornitori, banche o fisco
– Quando il margine operativo si azzera e il capitale si erode
– Quando aumentano gli insoluti e calano le vendite
– Quando le richieste dei creditori diventano minacciose e pressanti

L’insolvenza non arriva all’improvviso: si può riconoscere in tempo, ma bisogna agire prima che la crisi diventi irreversibile.

Come prevenire l’insolvenza con gli strumenti previsti dalla legge?

  1. Composizione negoziata della crisi
    È uno strumento riservato e volontario che permette all’imprenditore di affrontare la crisi insieme a un esperto indipendente, dialogare con i creditori, ottenere la sospensione delle azioni esecutive e proporre un piano di risanamento.
  2. Accordi di ristrutturazione dei debiti
    Consente di definire, anche solo con alcuni creditori, un accordo omologato dal tribunale che riduce, sospende o ristruttura i debiti. È utile per evitare il deterioramento dei rapporti bancari o commerciali.
  3. Concordato preventivo semplificato
    In caso di trattative fallite, è possibile presentare un piano diretto per liquidare l’attivo in modo ordinato, con effetti liberatori dai debiti residui e senza bisogno dell’accordo preventivo con i creditori.
  4. Liquidazione controllata
    È una procedura meno traumatica della liquidazione giudiziale (ex fallimento), che consente di chiudere l’impresa senza danni personali e con una gestione protetta degli ultimi beni disponibili.

Perché è fondamentale agire prima dell’insolvenza?

– Perché hai ancora margini di trattativa
– Perché puoi evitare il blocco dei conti, dei beni e della reputazione
– Perché puoi salvare posti di lavoro, clienti e fornitori strategici
– Perché puoi ridurre o rateizzare i debiti, evitando il disastro patrimoniale

Cosa succede se aspetti troppo?

– I creditori agiranno in modo disordinato e aggressivo
– Il tribunale potrebbe aprire una procedura d’ufficio
– Il valore dell’azienda si azzera
– Diventa impossibile risolvere la crisi in modo sostenibile

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto della crisi d’impresa – ti spiega come prevenire l’insolvenza, quali strumenti attivare e perché la composizione della crisi può salvarti prima che tutto crolli.

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Introduzione

Il panorama normativo italiano in materia di insolvenza e gestione della crisi d’impresa è stato rivoluzionato dall’introduzione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) emanato con D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022. Questo Codice ha sostituito integralmente la vecchia Legge Fallimentare del 1942, segnando il passaggio da un approccio principalmente liquidatorio a un sistema che privilegia l’emersione precoce della crisi e il risanamento aziendale ove possibile. In ottica europea, ha recepito i principi della Direttiva UE 2019/1023 (cd. “Direttiva Insolvency”) tramite il correttivo D.Lgs. 83/2022, introducendo nuovi strumenti di ristrutturazione preventiva e adattando la disciplina esistente. Più di recente, con il D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (cosiddetto “Correttivo-ter”), il legislatore ha apportato ulteriori modifiche sostanziali al Codice, risolvendo dubbi interpretativi emersi nella prima applicazione e introducendo alcune novità attese dagli operatori.

Obiettivi del nuovo Codice: il CCII mira a prevenire il dissesto e ad evitare l’insolvenza conclamata, incoraggiando l’imprenditore ad attivarsi tempestivamente. Viene enfatizzata la tempestiva emersione delle difficoltà aziendali (anche tramite strumenti di allerta precoce) e la valorizzazione di soluzioni negoziali della crisi, con un ruolo meno invasivo dell’autorità giudiziaria. Il risanamento dell’impresa in continuità è privilegiato quando possibile, così da salvaguardare posti di lavoro e valore economico, mentre la liquidazione giudiziale (il nuovo termine per il fallimento) diventa l’extrema ratio. In sintesi, l’insolvenza non va affrontata soltanto ex post con il fallimento, ma prevenuta e gestita ex ante attraverso una serie di strumenti negoziali e concorsuali che possano evitare l’esito distruttivo e massimizzare la soddisfazione dei creditori.

Dal punto di vista del debitore (impresa o privato), è essenziale capire quale strumento sia più adatto alla propria situazione. Il Codice prevede un “procedimento unitario” di accesso: in pratica il debitore presenta un unico ricorso iniziale al tribunale e sceglie lo strumento (o la combinazione di strumenti) da utilizzare, fermo restando che ciascuna procedura ha regole proprie. La scelta dipende principalmente da: gravità dello stato di difficoltà, natura e dimensione del debitore, obiettivo perseguito (continuare l’attività, ristrutturare il debito o liquidare i beni) e grado di consenso dei creditori realisticamente ottenibile.

In generale, si possono delineare alcuni scenari tipici e relativi strumenti idonei:

  • Crisi iniziale o rischio di insolvenza incipiente: un’impresa che avverte le prime difficoltà può avviare una composizione negoziata della crisi, purché vi siano ragionevoli prospettive di risanamento. Questo è uno strumento di allerta precoce che consente di affrontare i problemi prima che diventino insolvenza conclamata, coinvolgendo i creditori in trattative guidate da un esperto indipendente (si veda oltre).
  • Crisi conclamata o insolvenza reversibile: un’impresa già in crisi severa o in stato di insolvenza (ma che vuole evitare la liquidazione) può accedere agli strumenti di regolazione concorsuale o ibridi per tentare il risanamento/ristrutturazione del debito. In questa categoria rientrano i piani attestati di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti e il concordato preventivo (nelle sue varianti in continuità o liquidatorie). Questi strumenti permettono di ristrutturare il passivo con vari gradi di coinvolgimento del tribunale e dei creditori, vincolando anche i dissenzienti a certe condizioni.
  • Insolvenza irreversibile: se l’impresa è insolvente in modo irreparabile, l’unica via residua è la liquidazione giudiziale (il “fallimento” in senso tradizionale). Questa procedura liquidatoria mira a soddisfare i creditori attraverso la vendita del patrimonio residuo, comportando però la cessazione dell’attività d’impresa.
  • Debitori non fallibili (sovraindebitamento): i debitori che non possono essere assoggettati a liquidazione giudiziale – ad esempio il consumatore (persona fisica non imprenditore), il professionista, il piccolo imprenditore sotto le soglie di fallibilità, l’imprenditore agricolo, la start-up innovativa – se in stato di crisi o insolvenza accedono alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. Il Codice ha integrato e aggiornato le procedure originariamente introdotte dalla L. 3/2012 (c.d. “legge sul sovraindebitamento”): in particolare il piano di ristrutturazione del consumatore, il concordato minore e la liquidazione controllata del sovraindebitato. Tali strumenti ad hoc permettono anche ai debitori “non fallibili” di trovare sollievo dai debiti, con l’eventuale beneficio dell’esdebitazione finale (cancellazione dei debiti residui).

Questa guida, aggiornata a giugno 2025, esaminerà nel dettaglio tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza previsti dal Codice, fornendo un’analisi chiara e approfondita dal punto di vista pratico del debitore. Il linguaggio sarà giuridico ma al tempo stesso divulgativo, adatto sia ai professionisti del diritto (avvocati, commercialisti) sia a imprenditori e privati cittadini che si trovino ad affrontare una situazione di difficoltà economica.

Per ciascuno strumento vedremo: i presupposti di accesso, il funzionamento della procedura, gli effetti (ad es. sospensione delle azioni esecutive, trattamento dei debiti, esiti possibili), i vantaggi e benefici per il debitore, nonché i costi, rischi e responsabilità connessi. Saranno evidenziate le principali novità normative intervenute fino al 2025 (inclusi i correttivi del 2022 e 2024) e i più rilevanti orientamenti giurisprudenziali – dalle pronunce di legittimità della Corte di Cassazione ai provvedimenti dei tribunali specializzati e della Corte Costituzionale – che hanno interpretato tali strumenti.

Per facilitare la comprensione operativa, verranno presentate tabelle comparative riassuntive che mettono a confronto le caratteristiche salienti dei vari strumenti (tempi di durata, costi indicativi, percentuale di debito trattabile, necessità di consenso dei creditori, esistenza di moratorie, rischi di conversione in liquidazione, ecc.). Sarà inoltre dedicata un’ampia sezione alle domande frequenti (FAQ) dei debitori, con risposte concise ai dubbi più comuni. Infine, alcune simulazioni pratiche illustreranno casi realistici in cui un debitore affronta la crisi applicando le varie soluzioni: ad esempio, vedremo come una PMI possa evitare il collasso grazie a un accordo di ristrutturazione, come una famiglia sovraindebitata possa risollevarsi tramite un piano del consumatore, e come un’altra impresa riesca a ristrutturare i debiti e continuare l’attività attraverso la composizione negoziata.

L’obiettivo finale è fornire una guida operativa completa (di oltre 10.000 parole) che orienti il lettore nella complessa materia della crisi d’impresa e dell’insolvenza, offrendo al contempo i necessari riferimenti normativi e giurisprudenziali per approfondire ogni aspetto. Inizieremo dagli strumenti di natura preventiva e negoziale, per poi passare alle procedure concorsuali in senso stretto e infine a quelle riservate ai soggetti sovraindebitati non fallibili.

Composizione negoziata della crisi d’impresa

La composizione negoziata della crisi è uno strumento di recente introduzione (previsto dal D.L. 118/2021, confluito nel CCII agli artt. 12-25) finalizzato a intercettare precocemente la crisi d’impresa e favorire soluzioni stragiudiziali e concordate con i creditori, grazie all’assistenza di un esperto indipendente. Si tratta di una procedura volontaria e confidenziale, attivata su iniziativa dell’imprenditore commerciale o agricolo in difficoltà, con lo scopo di negoziare con i creditori un accordo che eviti l’insolvenza o ne mitighi le conseguenze. Importante evidenziare che vi si può accedere quando l’impresa si trova in uno stato di crisi incipiente o di insolvenza probabile (ma non ancora insolvenza conclamata), e solo se esistono ragionevoli prospettive di risanamento. In altre parole, deve esservi una possibilità concreta di riequilibrio dell’azienda; se invece il dissesto appare irreversibile, la composizione negoziata non sarebbe efficace e occorrerà ricorrere direttamente alle procedure concorsuali.

Caratteristiche e funzionamento

La composizione negoziata è fondamentalmente un percorso negoziale extragiudiziale. Le trattative si svolgono in modo riservato tra debitore e creditori, senza che un tribunale entri nel merito delle proposte. Tuttavia, il processo è organizzato e facilitato attraverso la nomina di un esperto indipendente, scelto da un apposito elenco presso le Camere di Commercio. L’imprenditore che intende attivare la procedura deve presentare un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale, allegando dettagli sulla propria situazione economico-finanziaria e sulle cause della crisi. Se la domanda è completa, una commissione apposita nomina l’esperto negoziatore (tipicamente un commercialista o avvocato esperto in ristrutturazioni). Da quel momento si apre la fase di negoziazione assistita: l’esperto analizza i dati aziendali, convoca il debitore e i principali creditori e li aiuta a individuare possibili soluzioni consensuali.

Durante le trattative, il debitore può chiedere al tribunale l’adozione di misure protettive temporanee a tutela del patrimonio. In particolare, può essere richiesto il blocco (stay) delle azioni esecutive e cautelari individuali dei creditori e delle istanze di fallimento, così da creare uno spazio di respiro nel quale condurre le negoziazioni senza escalation aggressiva. Tali misure protettive, se concesse, vengono iscritte nel registro imprese e hanno durata iniziale fino a 4 mesi, prorogabili al massimo di altri 4 mesi (durata complessiva fino a 8 mesi). Eventuali procedure esecutive già pendenti possono essere sospese su richiesta. Il Tribunale concede le misure dopo aver verificato la sussistenza dei requisiti (ad esempio, che la società non sia già irrimediabilmente insolvente) e può revocarle in caso di abuso. La giurisprudenza ha mostrato un approccio piuttosto permissivo nell’interpretare queste tutele: ad esempio, il Tribunale di Milano ha chiarito che la protezione può essere concessa anche in assenza di esecuzioni pendenti, a scopo preventivo, per favorire il buon esito delle trattative. Inoltre, con ordinanza del 26 gennaio 2022, il medesimo Tribunale ha affermato che, se la crisi coinvolge un gruppo di imprese, le misure protettive possono essere estese a più società dello stesso gruppo qualora ciò sia funzionale a una soluzione unitaria. Ciò dimostra l’intento di massimizzare l’efficacia dello strumento, consentendone un utilizzo flessibile.

Una significativa novità normativa è stata introdotta nel 2023-2024 per rafforzare l’istituto: oggi anche i debiti tributari possono essere trattati nell’ambito della composizione negoziata. In particolare, il legislatore ha previsto la possibilità di proporre all’Erario una transazione fiscale durante le trattative, superando un limite storico che confinava i debiti fiscali fuori dalle soluzioni stragiudiziali. Ciò significa che l’imprenditore in composizione negoziata può negoziare con l’Agenzia Entrate la ristrutturazione di imposte e contributi (inclusa IVA e ritenute), prevedendo anche stralci o dilazioni, al pari di quanto avviene in concordato preventivo o negli accordi di ristrutturazione. Questa innovazione, accompagnata dalla semplificazione di alcune formalità di accesso (ad es. è ora ammesso allegare bilanci provvisori se quelli definitivi non sono ancora disponibili), denota una maggiore flessibilità e attrattività dello strumento, così da incentivare le imprese ad attivarsi per tempo.

La composizione negoziata si caratterizza per l’estrema flessibilità negli esiti. Non vi è un singolo “prodotto finale” predeterminato: l’esito dipende da ciò che debitore e creditori riescono a concordare. Possibili risultati delle trattative sono, ad esempio:

  • Accordo stragiudiziale privatistico: il debitore e alcuni creditori raggiungono una pattuizione volontaria (es. una moratoria sui debiti bancari, dilazioni di pagamento con i fornitori, ridefinizione di garanzie, ecc.), formalizzata in scrittura privata. In tal caso, la procedura negoziata si conclude con l’accordo e non vi è intervento giudiziario: l’accordo viene semplicemente eseguito tra le parti.
  • Piano attestato di risanamento o accordo di ristrutturazione dei debiti: spesso la composizione negoziata funge da fase preparatoria per attivare successivamente uno di questi strumenti legali (che vedremo a breve). L’esperto aiuta a costruire il consenso necessario affinché poi il debitore possa depositare un accordo di ristrutturazione in tribunale o predisporre un piano attestato certificato. In pratica, si sfrutta la riservatezza e l’assistenza dell’esperto per mettere a punto un piano che sarà formalizzato con gli strumenti previsti dal Codice (omologa giudiziale per l’accordo 182-bis, pubblicazione del piano attestato, ecc.).
  • Ricorso al concordato preventivo: se le trattative non conducono a una soluzione puramente stragiudiziale, ma l’imprenditore intravede comunque la possibilità di salvare l’azienda con l’aiuto del tribunale, può depositare un ricorso per concordato preventivo (anche in bianco). In pratica, la composizione negoziata può “traghettare” il debitore verso un concordato, magari raccogliendo adesioni informali che poi verranno formalizzate in sede concorsuale.
  • Accesso alla liquidazione giudiziale: qualora nessuna soluzione di continuità aziendale sia praticabile e le trattative falliscano totalmente, la strada finale è la dichiarazione di liquidazione giudiziale (fallimento). Questa rappresenta ovviamente l’evento che la composizione negoziata intende evitare; ma se la crisi risulta irrimediabile, il tentativo negoziato, una volta esaurito, lascia il passo alla procedura liquidatoria.

Va segnalata inoltre una particolare possibilità prevista dall’art. 25-sexies CCII (introdotta originariamente dal D.L. 118/2021): in caso di esito infruttuoso della composizione negoziata, l’imprenditore può proporre entro 60 giorni un “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio”. Si tratta di una forma speciale di concordato senza voto dei creditori, utilizzabile solo come via d’uscita successiva a una composizione negoziata fallita. In concreto, il debitore presenta al tribunale una proposta di concordato liquidatorio (ad es. la cessione integrale dei propri beni a beneficio dei creditori) che non viene posta al voto, ma viene valutata direttamente dal giudice. Il tribunale, verificata la regolarità della procedura di composizione negoziata svolta e constatato che non vi erano soluzioni migliori percorribili, può omologare il concordato semplificato. Una volta omologato, il piano liquidatorio diventa vincolante per tutti i creditori, pur senza il loro consenso formale. La Corte di Cassazione ha chiarito che questo concordato semplificato, pur con le sue peculiarità, rientra a pieno titolo tra le procedure concorsuali e soggiace alle regole generali – ad esempio, in tema di competenza territoriale si applica in via analogica il criterio della sede principale dell’impresa debitrice. Dunque il concordato semplificato rappresenta uno strumento rapido e meno oneroso per liquidare l’azienda evitando il fallimento tradizionale, ma può essere utilizzato esclusivamente dopo aver tentato (invano) la composizione negoziata.

Vantaggi per il debitore

Per il debitore imprenditore, la composizione negoziata offre molteplici benefici concreti:

  • Tempestività e riservatezza: si attiva nelle prime fasi della difficoltà, prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. L’intero percorso avviene in modo confidenziale (nessuna pubblicità della procedura, salvo l’eventuale pubblicazione delle misure protettive). Ciò consente di evitare, o quantomeno ritardare, il discredito sul mercato e lo stigma associato a una procedura concorsuale pubblica. Ad esempio, fornitori e clienti potrebbero non venire a conoscenza immediata dei problemi finanziari dell’impresa, preservandone la reputazione durante il tentativo di risanamento.
  • Assistenza professionale indipendente: la presenza di un esperto terzo nominato facilita la comunicazione e le trattative con i creditori. L’esperto conferisce credibilità alle proposte del debitore, potendo certificare i dati e la fattibilità delle soluzioni discusse. Inoltre, garantisce equità nelle negoziazioni, assicurando che tutte le parti siano ascoltate. Di fatto, l’imprenditore non è lasciato solo a gestire creditori ostili, ma ha un negoziatore qualificato al suo fianco.
  • Mantenimento della gestione dell’azienda: a differenza di un fallimento o di un concordato preventivo, qui l’imprenditore rimane alla guida della propria impresa durante la procedura. L’esperto non ha poteri sostitutivi di gestione, ma solo ruoli di facilitazione e monitoraggio. Il debitore conserva dunque l’amministrazione ordinaria, seppur con il dovere di collaborare lealmente con l’esperto e di astenersi da atti pregiudizievoli. Questa continuità gestionale consente di proseguire l’attività corrente senza l’interruzione tipica di un fallimento.
  • “Scudo” dalle azioni esecutive: come detto, su richiesta del debitore il tribunale può accordare uno stay temporaneo che blocca i pignoramenti, le ipoteche giudiziali e le altre azioni individuali dei creditori. Questo scudo protettivo impedisce che un singolo creditore rompa le trattative aggredendo il patrimonio o chiedendo il fallimento mentre è in corso la negoziazione. Ad esempio, il tribunale può sospendere un’asta immobiliare o congelare un’istanza di fallimento presentata da un creditore, se ritiene che vi siano trattative serie in atto. Ciò dà respiro all’azienda e la mette temporaneamente al riparo dalla pressione dei creditori ostili.
  • Flessibilità negoziale: il debitore non è vincolato ad alcuno schema rigido di risanamento. Può proporre soluzioni su misura per i diversi creditori: ad esempio rinegoziare i mutui bancari (allungando le scadenze o riducendo i tassi), dilazionare i debiti verso fornitori, prevedere riduzioni parziali di credito (stralci), conversione di crediti in capitale sociale, cessione di asset non strategici per fare cassa, ingresso di nuovi soci finanziatori, ecc. Non essendo una procedura concorsuale formale, non si applicano le stringenti regole della parità di trattamento tra creditori (par condicio) se non nei limiti di ciò che viene concordato: in pratica ogni creditore può accettare condizioni diverse secondo il negoziato individuale, senza obbligo di uniformità. Questo consente grande creatività e adattabilità nelle soluzioni.
  • Costi contenuti: la composizione negoziata comporta costi inferiori rispetto alle procedure concorsuali giudiziarie. Non vi sono organi come il commissario giudiziale o il comitato dei creditori; gli unici costi diretti rilevanti sono il compenso dell’esperto (stabilito secondo tariffe ministeriali, spesso in misura moderata) e gli eventuali consulenti che il debitore decida di coinvolgere per predisporre il piano. Inoltre, se si raggiunge una soluzione stragiudiziale, si evitano le spese di giustizia (contributo unificato, spese di procedura) di un concordato preventivo o di un fallimento. In sintesi, tentare la via negoziata “costa poco” e i benefici in caso di successo sono notevoli.

Rischi e limiti

Di contro, il debitore deve essere consapevole di alcuni limiti e rischi insiti nella composizione negoziata:

  • Mancanza di poteri coercitivi sui creditori: tutto si basa sul consenso volontario. L’esperto non può imporre tagli di debito o dilazioni a creditori non consenzienti. Se uno o più creditori chiave rifiutano ogni proposta, la procedura rischia di fallire. In altri termini, non c’è un “cram-down” automatico come nel concordato preventivo: la composizione negoziata vincola solo chi accetta. La durata massima della procedura è di 180 giorni, prorogabili eccezionalmente di altri 180; trascorso questo termine, se non si è raggiunto un accordo, la composizione negoziata si chiude senza esito e il debitore dovrà valutare altre strade (concordato, accordo di ristrutturazione omologato o, in ultima analisi, liquidazione). Statisticamente, molte composizioni negoziate sinora si sono concluse con un accordo stragiudiziale oppure con l’accesso a un concordato semplificato; poche sono terminate in un nulla di fatto, ma il rischio esiste.
  • Continuità aziendale durante le trattative: ottenere una moratoria sulle azioni dei creditori non significa risolvere i problemi di cassa. Il debitore deve riuscire a mantenere in vita l’azienda durante i mesi della negoziazione. Le spese correnti (stipendi, forniture essenziali, utenze) devono comunque essere pagate. La legge non prevede, di per sé, la possibilità di ottenere nuovi finanziamenti con privilegio di prededuzione (salvo accordi privatistici con eventuali finanziatori o soci): l’impresa deve trovare in autonomia le risorse per operare nel frattempo. Una gestione poco accorta in questa fase potrebbe aggravare il dissesto invece di risolverlo. Il Codice incoraggia l’imprenditore a comportarsi con prudenza e a informare l’esperto prima di compiere atti di straordinaria amministrazione, ma permane il rischio che il ritardo nel raggiungere un accordo consumi quel poco di liquidità rimasta.
  • Pubblicità indiretta e allarme nel mercato: formalmente, la procedura è riservata; tuttavia, se il debitore richiede le misure protettive, il relativo decreto viene pubblicato nel registro delle imprese, diventando conoscibile dai terzi. Inoltre, la necessità di negoziare con vari creditori può far trapelare la notizia della crisi (specie in piazze d’affari ristrette). Questo può generare preoccupazione in fornitori, clienti e partner commerciali. Ad esempio, alcuni fornitori potrebbero irrigidirsi, richiedendo pagamenti anticipati o riducendo il fido, una volta saputo che l’azienda è in composizione negoziata. Il debitore deve dunque mettere in conto un potenziale effetto reputazionale negativo e gestire con attenzione la comunicazione verso gli stakeholder, magari rassicurandoli che è in corso un serio piano di ristrutturazione.
  • Possibile conversione in fallimento: se emergono elementi di insolvenza irreversibile o comportamenti scorretti, un creditore potrebbe comunque presentare istanza di liquidazione giudiziale durante la composizione negoziata. Di norma i tribunali sospendono tali istanze in attesa dell’esito delle trattative; ma in caso di abuso o mancanza di prospettive concrete, il tribunale può comunque dichiarare il fallimento del debitore anche prima dei 180 giorni. L’imprenditore quindi non deve usare la composizione negoziata per “prendere tempo” in malafede: un abuso potrebbe portare a perdere sia la trattativa sia il controllo dell’azienda.
  • Assenza di “esdebitazione” per la società: va ricordato che la composizione negoziata, di per sé, non offre alcuna forma di cancellazione dei debiti non pagati. Se le trattative falliscono e si finisce in fallimento, si applicheranno poi le regole ordinarie (per le società, la liquidazione implica l’estinzione; per l’imprenditore individuale sarà eventualmente possibile l’esdebitazione post-liquidazione). Ma la composizione negoziata non produce effetti liberatori sui debiti residui se non si raggiunge un accordo stragiudiziale che li regoli.

In conclusione, la composizione negoziata è un ottimo strumento di prevenzione dell’insolvenza, che mette al centro l’autonomia negoziale e la responsabilizzazione del debitore. Se avviata per tempo e gestita con trasparenza e buona fede, può consentire di evitare il fallimento e di preservare la continuità aziendale. Va però intrapresa solo quando vi siano concrete chance di accordo: in caso contrario, potrebbe risultare un mero rinvio dell’inevitabile. La tempestività è cruciale: molti casi di successo hanno visto imprenditori muoversi ai primi segnali di crisi, anziché attendere il collasso. Non a caso, la Cassazione a Sezioni Unite ha più volte condannato l’abuso di ritardare gli interventi sino all’insolvenza irreversibile (ad es. Cass. SU 5605/2020).

Piano attestato di risanamento

Il piano attestato di risanamento è uno strumento stragiudiziale di lunga data nel nostro ordinamento (già previsto dalla Legge Fallimentare, ora disciplinato dall’art. 56 CCII) che il nuovo Codice ha mantenuto e rafforzato. Esso consiste in un piano di risanamento unilaterale, predisposto dal debitore (tipicamente un imprenditore), finalizzato a ristrutturare i debiti e a riequilibrare la situazione finanziaria, il tutto senza il coinvolgimento diretto del tribunale. La caratteristica chiave è la presenza di una attestazione da parte di un professionista indipendente che certifica la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano stesso. In altri termini, il debitore elabora un piano industriale-finanziario per superare la crisi e lo sottopone al giudizio di un esperto (un commercialista o revisore) il quale, dopo aver esaminato bilanci, conti e previsioni, dichiara per iscritto che i numeri sono attendibili e che il piano appare realistico e realizzabile.

Il piano attestato è un atto unilaterale del debitore rivolto ai creditori: non richiede alcuna omologazione giudiziaria, né prevede un voto collettivo come nel concordato. Non vi è nemmeno pubblicità obbligatoria (salvo quella eventuale per ottenere taluni benefici fiscali, come vedremo). In sostanza resta un’operazione interamente di diritto privato, basata sull’autonomia negoziale e sulla fiducia che l’attestazione indipendente ispira.

Come funziona in pratica? L’imprenditore redige un documento programmatico (il piano di risanamento) in cui descrive la propria situazione economico-patrimoniale, individua le cause della crisi e soprattutto illustra le misure da adottare per superarla: ad esempio ricerca di nuova finanza, dismissione di beni non strategici, rinegoziazione dei debiti bancari, eventuali aumenti di capitale, taglio dei costi e riorganizzazione aziendale, etc.. Parallelamente, vengono elencati gli accordi che il debitore ha concluso (o intende concludere) con i creditori in attuazione del piano. Infatti, il piano attestato di per sé non impone ai creditori sacrifici senza il loro consenso: non è uno strumento che vincola i dissenzienti. Pertanto, in genere il debitore lo utilizza in combinazione con intese private: ad esempio, predispone il piano con l’attestazione e poi lo sottopone alle banche e ai fornitori principali, chiedendo loro di sottoscrivere accordi di ristrutturazione del credito coerenti col piano. I creditori che accettano, formalizzano accordi bilaterali col debitore (es. accordi di moratoria, patti di rinuncia parziale al credito, rinegoziazione di tassi e scadenze, ecc.). I creditori che non aderiscono invece non sono toccati dal piano: conservano i loro diritti per intero e possono pretenderne il pagamento secondo le scadenze originarie – se il debitore non paga, potranno agire esecutivamente come di consueto. In altre parole, il piano attestato non “cristallizza” la posizione dei non aderenti come farebbe un concordato: è uno strumento contrattuale, non concorsuale.

Un elemento tecnico fondamentale è la data certa del piano. L’art. 56 CCII richiede che il piano e la relativa attestazione siano dotati di data certa (ad esempio tramite deposito al registro delle imprese, atto notarile o altro mezzo idoneo). Ciò serve ad attivare specifici effetti protettivi in caso di successivo fallimento. In particolare, gli atti e pagamenti compiuti in esecuzione del piano attestato non sono soggetti a revocatoria fallimentare, purché eseguiti dopo la pubblicazione del piano. Questo beneficio – previsto dagli artt. 166 e 324 CCII – significa che se il debitore, seguendo il piano, paga ad esempio un fornitore o restituisce un finanziamento, tali atti non potranno poi essere dichiarati inefficaci dal curatore nell’eventuale fallimento successivo. È una notevole tutela: normalmente, in fallimento, i pagamenti preferenziali effettuati nei mesi antecedenti possono essere revocati; invece, se avvenuti nell’ambito di un piano attestato, restano fermi. Similmente, sotto il profilo penale, gli amministratori sono protetti: gli atti compiuti in esecuzione del piano attestato non integrano reati di bancarotta preferenziale o semplice (che altrimenti punirebbero il pagamento preferenziale di taluni creditori a discapito di altri). Questa sorta di “zona franca” legale è un fortissimo incentivo a utilizzare il piano attestato. In pratica, il debitore può compiere operazioni di risanamento – anche aggressive come vendere beni o pagare taluni creditori prima di altri – senza il timore che, se poi la situazione precipita, tali atti vengano annullati o diano luogo a responsabilità penale. Naturalmente, ciò vale nei limiti in cui gli atti siano coerenti e in esecuzione del piano attestato certificato.

Il Codice consente, facoltativamente, di pubblicare il piano, l’attestazione e gli accordi eventualmente conclusi nel registro delle imprese (pubblicità che in passato avveniva ex art. 67, co. 3, lett. d) L.F.). La pubblicazione diventa obbligatoria solo se il debitore intende beneficiare di un importante vantaggio fiscale: la parziale detassazione delle sopravvenienze attive derivanti dalla riduzione dei debiti. In base all’art. 88, co. 4-ter del TUIR, infatti, le remissioni di debito concordate col debitore producono un ricavo tassabile solo per la parte eccedente le perdite di periodo e pregresse. Nel caso dei piani attestati pubblicati, l’agevolazione fiscale è ancora maggiore: le riduzioni di debito accordate dai creditori non concorrono alla formazione del reddito imponibile (entro certi limiti). Dunque, se il debitore vuole approfittarne, deve depositare il piano in camera di commercio rendendolo noto ai terzi. Al di fuori di questo caso, la pubblicità è una libera scelta: molti debitori preferiscono mantenere riservato il piano per non allarmare la clientela, mentre altri lo pubblicano per dare massima trasparenza e rassicurazione al mercato (specie se l’azienda è grande e notizia della crisi circolerebbe comunque).

Quando utilizzarlo e vantaggi per il debitore

Il piano attestato di risanamento si rivela utile soprattutto in determinate circostanze, quando le caratteristiche della crisi e del parco creditori lo rendono più efficace di strumenti concorsuali. In particolare:

  • Crisi contenuta e pochi creditori rilevanti: se l’impresa ha un numero limitato di creditori chiave (ad esempio solo un paio di banche finanziatrici e pochi fornitori principali) e ritiene di poter ottenere da loro un consenso individuale, il piano attestato è lo strumento ideale. In tal caso, infatti, non serve attivare una procedura giudiziale collettiva: si può agire in via privatistica, negoziando direttamente con ciascuno di essi. Il piano attestato, con la sua attestazione indipendente, fornisce una cornice credibile a queste trattative: il professionista attestatore, con la sua relazione, rassicura i creditori sul fatto che aderire al piano conviene e che la strategia proposta è solida. Ciò aumenta le probabilità di ottenere l’adesione di banche e fornitori su base volontaria.
  • Evitare pubblicità e rigidità delle procedure concorsuali: il piano attestato consente al debitore di evitare lo stigma del concordato preventivo o del fallimento. Non essendovi ricorso al tribunale (se non eventualmente per il deposito facoltativo), l’azienda non comparirà nei registri delle procedure concorsuali. Questo aspetto può salvaguardare la reputazione. Inoltre, non essendoci le complesse formalità di un concordato (votazione di tutti i creditori, nomina di commissari, udienze, pareri del PM, ecc.), il debitore gode di maggiore controllo e flessibilità nella gestione del risanamento. Può decidere tempi e modi degli accordi senza i rigidi paletti temporali imposti da un giudice.
  • Prospettive concrete di recupero a medio termine: il piano attestato presuppone che l’impresa abbia realistiche chance di tornare in bonis. Viene spesso utilizzato quando l’azienda necessita principalmente di tempo o di una ristrutturazione finanziaria tutto sommato limitata, senza la complessità di ristrutturare l’intera platea debitoria. Ad esempio, se l’impresa ha sofferto un calo temporaneo di liquidità ma ha ordini e business model valido, può essere sufficiente ottenere dilazioni e nuova finanza, evitando una procedura concorsuale che sarebbe troppo onerosa. Il piano attestato è adeguato in queste situazioni relativamente meno disperate, perché consente un aggiustamento “leggero” e rapido, evitando di dichiarare formalmente la crisi in tribunale.
  • Protezione dai rischi di revocatoria e responsabilità: come visto, uno dei vantaggi principali per il debitore (specie per gli amministratori) è la tutela legale offerta dal piano attestato. Se l’azienda ha bisogno di effettuare pagamenti o atti potenzialmente a rischio (ad esempio pagare fornitori strategici per assicurarsi continuità di forniture, o restituire finanziamenti dei soci per ottenere nuova finanza), farlo nel contesto di un piano attestato li mette al riparo dalla revocatoria in caso di successivo fallimento. Inoltre, gli amministratori saranno più tranquilli nel prendere decisioni di risanamento (come scegliere quali debiti onorare per primi) sapendo di non incorrere in future accuse di bancarotta preferenziale. Questa “protezione preventiva” incoraggia ad agire in modo risoluto per salvare l’impresa.

Rischi e limiti

Pur essendo uno strumento prezioso, il piano attestato presenta anche dei limiti e rischi che il debitore deve ponderare:

  • Adesione volontaria e parziale dei creditori: come detto, il piano attestato non vincola i creditori dissenzienti. Ciò significa che la sua efficacia è tanto maggiore quanti più creditori aderiscono spontaneamente. Se alcuni creditori importanti restano fuori e non accettano modifiche ai propri crediti, il piano potrebbe fallire nel suo intento, poiché quei creditori estranei potrebbero intraprendere azioni esecutive o chiedere il fallimento. In sintesi, il piano attestato funziona se riesce a coinvolgere tutti i creditori strategici; ma se rimangono fuori posizioni rilevanti, il debitore si espone al rischio di aggressioni da parte di questi ultimi. A differenza di un concordato, non c’è alcuno stay automatico: quindi un creditore non aderente può in qualsiasi momento iniziare un pignoramento o agire legalmente, senza che il piano attestato glielo impedisca.
  • Nessuna moratoria generale: collegato al punto precedente, il piano attestato di per sé non offre protezione dagli atti di esecuzione individuale. Non esiste una “ombrello” protettivo come nel concordato (salvo che il debitore in parallelo attivi una composizione negoziata con misure protettive, ma questo è un altro discorso). Pertanto, il debitore deve negoziare velocemente ed eventualmente convincere informalmente i creditori a sospendere le azioni in corso. Se un creditore “si mette di traverso”, il piano rischia di naufragare. Serve dunque un clima di fiducia e collaborazione da parte di tutti i principali creditori, altrimenti è preferibile passare a strumenti giudiziali.
  • Qualità dell’attestazione e buona fede: il valore del piano attestato dipende in larga misura dalla serietà e attendibilità del lavoro svolto dall’attestatore. Se l’esperto certifica frettolosamente dati poco veritieri o ipotesi irrealistiche, il piano sarà debole e potrà essere contestato. In passato la giurisprudenza ha dichiarato inefficaci taluni piani attestati proprio perché l’attestazione era inadeguata: ad esempio, si cita il caso Cass. Trib. Mantova 338/2020 dove l’attestatore si era limitato a formule generiche senza un’analisi puntuale, rendendo il piano privo di reale credibilità. Inoltre, se emergesse che il debitore ha nascosto informazioni o dolosamente falsato dati per ottenere l’attestazione, potrebbero profilarsi responsabilità (l’attestatore risponde anche penalmente di false attestazioni). Quindi il piano attestato richiede un approccio rigoroso e trasparente: va evitato l’“ottimismo irrealistico” nelle previsioni, perché i creditori e il mercato se ne accorgerebbero minando la fiducia.
  • Ipotetica conversione forzosa in accordo o concordato: se il piano attestato non dovesse funzionare (ad esempio, un creditore significativo si rifiuta di aderire e minaccia il fallimento), il debitore potrebbe trovarsi costretto, suo malgrado, a “convertire” la strategia in un accordo di ristrutturazione omologato o in un concordato preventivo, per bloccare il creditore riottoso. Questo però comporta tempi e costi maggiori, e soprattutto espone al rischio che – essendo trascorso del tempo – la situazione si sia aggravata. In sostanza, il piano attestato può far perdere tempo prezioso se le condizioni per la sua riuscita non c’erano fin dall’inizio.
  • Esclusione di taluni benefici concorsuali: il piano attestato, essendo stragiudiziale, non consente ad esempio di spezzare contratti in essere (come invece può fare un concordato risolvendo contratti onerosi) né di imporre la continuazione forzata di forniture essenziali. Inoltre, non consente di accedere al finanziamento prededucibile se non con accordi privati. Sono piccoli svantaggi in termini di “toolbox” rispetto a una procedura concorsuale, che però spesso non pesano se la crisi è gestibile.

In conclusione, il piano attestato di risanamento è uno strumento snello e potente quando c’è cooperazione da parte dei maggiori creditori. Offre un equilibrio tra rapidità (niente tribunale) e tutela legale (zona franca su revocatorie e reati) per il debitore onesto. Va impiegato in situazioni in cui il negoziato privato è praticabile e la crisi non è ancora così acuta da richiedere un intervento dell’autorità giudiziaria. Di certo, se il panorama dei creditori è troppo frammentato o conflittuale, conviene piuttosto valutare un accordo omologato o un concordato, che permettono di vincere le resistenze dei dissenzienti.

Accordi di ristrutturazione dei debiti

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (spesso indicati con l’acronimo ADR) sono uno strumento giuridico “ibrido”, a metà strada tra il piano puramente negoziale e la procedura concorsuale vera e propria. Introdotti nell’ordinamento dall’art. 182-bis L.F. nel 2005, e ora disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, gli accordi di ristrutturazione consistono in accordi negoziali tra un imprenditore in difficoltà e una parte significativa dei suoi creditori, che diventano vincolanti erga omnes a seguito dell’omologazione da parte del tribunale. In sostanza, debitore e creditori stipulano un accordo (ad esempio: riduzione e/o dilazione dei debiti, conferimenti di nuovi capitali, garanzie, conversione di crediti in azioni, ecc.), e poi il tribunale – verificati i presupposti di legge – omologa l’accordo, rendendolo efficace anche verso eventuali creditori non aderenti nei limiti previsti.

Finalità: lo scopo degli accordi di ristrutturazione è consentire all’impresa in crisi di evitare la liquidazione giudiziale attraverso una ristrutturazione consensuale e relativamente rapida del debito. Il legislatore ha puntato molto su questo strumento nella riforma, anticipandone addirittura l’entrata in vigore (alcune norme sugli accordi sono state rese efficaci prima del resto del Codice, tramite il D.L. 118/2021, che ha inserito nella vecchia legge fallimentare l’art. 182-septies sugli accordi ad efficacia estesa e l’art. 182-novies sugli accordi agevolati). Ciò evidenzia la fiducia riposta negli ADR come soluzione flessibile e appetibile di regolazione della crisi d’impresa, in linea con i principi della Direttiva Insolvency. Gli ADR affiancano così il concordato preventivo e la composizione negoziata, offrendo un ventaglio di opzioni con diverso grado di intervento giudiziale.

Natura giuridica: l’accordo di ristrutturazione è essenzialmente un contratto tra debitore e creditori (o meglio, una parte qualificata di essi), che però viene inserito in una cornice concorsuale semplificata. La legge richiede infatti l’omologazione in tribunale e attribuisce all’accordo omologato alcuni effetti legali tipici delle procedure concorsuali (protezione dai sequestri e dalle revocatorie, efficacia verso terzi). Si parla dunque di natura ibrida: nasce da un consenso privato, ma ottiene efficacia generale e cram-down limitato tramite il sigillo del giudice. La giurisprudenza ha riconosciuto che l’accordo omologato “partecipa della natura di procedura concorsuale”, nel senso che il tribunale deve verificarne non solo la regolarità formale ma anche una fattibilità minima sostanziale (ad esempio che i creditori estranei vengano pagati integralmente entro certi termini). D’altro canto, rispetto al concordato, l’ADR non prevede votazioni in classi né organi concorsuali: l’adesione avviene individualmente dai creditori contrattualmente coinvolti, e il controllo giudiziale è limitato al rispetto dei requisiti di legge e alla convenienza minima per i non aderenti.

Tipologie di accordi di ristrutturazione

Il Codice della crisi ha innovato significativamente la disciplina degli accordi di ristrutturazione rispetto al passato, introducendo vari modelli di accordo con soglie di adesione e condizioni differenti. In particolare, oltre all’accordo “standard” ex art. 57 CCII, oggi esistono:

  • Accordo ordinario (art. 57 CCII): richiede che abbiano aderito creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. È la versione tradizionale: il debitore deve convincere una maggioranza qualificata di creditori (in valore) a firmare l’accordo. Non importa il numero di creditori, conta la percentuale di credito. Ad esempio, se due banche detengono il 70% dei debiti e aderiscono, la soglia è soddisfatta anche se altri 100 piccoli creditori (30%) restano fuori. Questo accordo vincola solo i creditori aderenti, mentre i non aderenti rimangono estranei (devono per legge essere pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologazione se già scaduti, o entro 120 giorni dalla scadenza originaria se successiva). L’omologazione da parte del tribunale estende alcuni effetti legali: in primis, rende l’accordo opponibile anche ai terzi (cioè i non aderenti non possono agire in contrasto con esso, purché vengano soddisfatti alle condizioni di legge) e tutela l’accordo da azioni revocatorie. Questo modello è adatto quando si riesce a coinvolgere gran parte dei crediti, ma non tutti.
  • Accordo “agevolato” (art. 60 CCII): è una variante con soglia di adesione ridotta al 30% dei crediti. È pensato per facilitare la ristrutturazione quando magari pochi creditori principali detengono buona parte del passivo. La contropartita di questa soglia bassa è che il debitore deve garantire una tutela piena ai creditori estranei: in particolare, l’accordo agevolato è ammesso solo se il piano prevede che i non aderenti siano pagati integralmente senza dilazioni (moratorie) rispetto alle scadenze di legge. In pratica, non si possono far aspettare i creditori estranei: vanno saldati regolarmente (o al massimo con minimi slittamenti consentiti). Ciò implica che l’accordo agevolato può ridurre o dilazionare il debito solo verso quei creditori che hanno accettato, mentre verso chi non firma il debitore deve comunque rispettare le scadenze originarie (o pagarli subito alla data di omologa se erano già scaduti). Questo limita l’utilizzo agli scenari in cui i creditori principali (che aderiranno) sono disponibili a prendersi il sacrificio, e i pochi estranei possono essere soddisfatti cash o poco dopo. Il vantaggio è che basta il 30% del consenso. Per esempio, se un’unica banca ha il 35% del debito e aderisce tagliando credito, e tutti gli altri creditori (65%) sono piccoli fornitori che verranno pagati regolarmente, l’accordo agevolato è possibile.
  • Accordo a efficacia estesa (art. 61 CCII): consente, a certe condizioni, di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori non aderenti appartenenti a una determinata categoria omogenea. È stato concepito soprattutto per le banche e gli intermediari finanziari. Funziona così: se i crediti finanziari (banche, obbligazionisti, leasing, ecc.) rappresentano ad esempio almeno il 75% di una certa categoria di debiti e le banche che detengono tale percentuale hanno aderito all’accordo, il tribunale può estendere l’accordo anche alle poche banche dissenzienti rimanenti. La logica è evitare che un paio di istituti dissenzienti facciano saltare una ristrutturazione approvata dalla quasi unanimità del ceto bancario. Ci sono paletti: l’estensione può riguardare solo istituti finanziari (non fornitori commerciali, ad esempio), e richiede che ai dissenzienti vengano offerte condizioni non peggiori di quelle offerte agli aderenti (principio di parità intraclasse). Inoltre è necessario il parere favorevole dell’Organismo di composizione della crisi (OCC) sulla convenienza dell’estensione. Se queste condizioni sono rispettate, l’omologazione rende l’accordo vincolante anche per quei pochi creditori finanziari che non avevano firmato. Si tratta di una sorta di “cram-down settoriale” circoscritto, pensato per facilitare i cosiddetti accordi di sistema con le banche. Da notare che per i creditori estranei non appartenenti a quella categoria (es. fornitori), valgono le regole normali: restano estranei e vanno pagati integralmente come nell’accordo ordinario.
  • Convenzione di moratoria (art. 62 CCII): pur non essendo un accordo di ristrutturazione in senso stretto, merita menzione. È un accordo stipulato tra l’imprenditore e banche/fornitori per sospendere o posticipare le scadenze dei crediti per non più di 6 mesi. Se vi aderiscono almeno il 75% dei creditori di quella categoria, la moratoria concordata può essere estesa per legge anche ai dissenzienti della stessa categoria. Questa convenzione è uno strumento di standstill temporaneo e settoriale, utile per congelare il debito a breve termine mentre si prepara un piano più completo. È spesso complementare alla composizione negoziata o preludio a un accordo ex art. 57.
  • Transazione fiscale e contributiva (art. 63 CCII): all’interno di un accordo di ristrutturazione, il debitore può inserire il trattamento dei debiti verso l’Erario e gli enti previdenziali, previo assenso delle relative amministrazioni. In pratica, è la versione in ambito ADR della transazione fiscale prevista per il concordato: se Agenzia delle Entrate e INPS aderiscono, l’accordo conterrà la riduzione o dilazione di quei debiti tributari. Importante, dopo le riforme recenti, è consentito includere anche IVA e ritenute fiscali (cosa prima vietata). In caso di mancata adesione del Fisco, il giudice può comunque omologare l’accordo applicando il cosiddetto cram-down fiscale (art. 63, co. 3 CCII), purché ritenga la proposta verso il Fisco conveniente – cioè che lo Stato incasserebbe almeno quanto otterrebbe in una liquidazione. È una norma introdotta per recepire le indicazioni della Corte di Giustizia UE (caso Degano Trasporti, 2017) e allineare l’Italia ai paesi dove l’IVA può essere falcidiata nelle procedure concorsuali. Ad esempio, la Cassazione ha sancito che il tribunale può omologare un concordato o un accordo anche senza voto favorevole dell’Erario, se appunto il trattamento proposto al Fisco è almeno pari a quello risultante dal fallimento.

In definitiva, oggi gli accordi di ristrutturazione offrono un ventaglio di strumenti modulabili in base alle esigenze: dal modello base (60%) a quello agevolato (30%) o all’esteso (75% per le banche), con la possibilità di includere banche, Fisco, ecc., e con eventuali moratorie mirate. Questa flessibilità consente di cucire su misura la soluzione di risanamento in base alla composizione del debito e al grado di consenso che il debitore può ottenere da specifici gruppi di creditori.

Procedimento di omologazione e effetti

Il procedimento per ottenere l’efficacia di un accordo di ristrutturazione si articola essenzialmente in due fasi:

  1. Raggiungimento delle adesioni necessarie: inizialmente, il debitore elabora un piano di ristrutturazione del debito e lo sottopone ai creditori, raccogliendo le firme (adesioni) di quelli disponibili. Non esiste un “commissario” o un giudice in questa fase: è una trattativa privata. Possono volerci vari mesi di negoziati con banche e fornitori per arrivare al quorum richiesto (60%, 30%, ecc.). Spesso il debitore sarà assistito da advisor finanziari e legali nella predisposizione del piano e nell’approccio ai creditori.
  2. Ricorso in tribunale per omologazione: una volta ottenute le firme necessarie, il debitore deposita il ricorso presso il tribunale competente (sezione specializzata in crisi d’impresa), allegando il testo dell’accordo, il piano, l’attestazione di un professionista indipendente sulla fattibilità del piano e sull’integrale soddisfacimento dei creditori estranei nei termini di legge, nonché le dichiarazioni di adesione sottoscritte dai creditori che hanno acconsentito. Può anche chiedere contestualmente la sospensione di eventuali azioni esecutive fino all’omologa (il giudice in genere concede misure protettive analoghe a quelle del concordato, se necessario, benché non sia automatico). Il tribunale verifica la regolarità formale (raggiungimento delle percentuali, completezza documenti) e fissa un’udienza. I creditori non aderenti o contrari possono presentare opposizione entro 30 giorni dal deposito.
  3. Omologazione: se non vi sono opposizioni (o se vengono respinte), e se il tribunale ritiene soddisfatti i requisiti (convenienza dell’accordo per i non aderenti, ecc.), emette il decreto di omologazione. Da quel momento l’accordo acquista efficacia vincolante anche per i creditori dissenzienti nei limiti previsti. Ad esempio, un fornitore che non aveva aderito e avrebbe dovuto ricevere 100% entro 120 giorni viene comunque vincolato a ricevere il pagamento come da piano (integrale ma nei termini fissati dalla legge). L’accordo omologato produce inoltre gli effetti protettivi: in primis, blocca eventuali azioni esecutive individuali relative ai crediti ristrutturati (i creditori sono tenuti ad attendere i pagamenti secondo l’accordo) e impedisce l’apertura di un fallimento per quegli stessi debiti. Gli atti esecutivi già iniziati si estinguono. Inoltre, come accennato, gli atti attuativi dell’accordo godono dell’esenzione dalle revocatorie fallimentari.
  4. Esecuzione dell’accordo: dopo l’omologa, il debitore deve eseguire puntualmente gli impegni presi nell’accordo (pagamenti nelle nuove scadenze, eventuali operazioni straordinarie previste, ecc.). Non c’è un commissario che supervisiona, ma spesso i creditori chiedono di inserire un covenant di monitoraggio (es. un professionista che verifichi periodicamente l’andamento). Se il debitore esegue correttamente, alla fine l’azienda risulta risanata con debiti ridotti/dilazionati secondo l’accordo. Se invece l’accordo non viene rispettato (inadempimento), i creditori riacquistano libertà di azione: potrebbero chiedere la risoluzione dell’accordo e avviare istanze di fallimento, e le eventuali protezioni decadono. La legge non prevede un discharge automatico: perciò i debiti residui non pagati (perché stralciati) si intendono definitivamente rinunciati dai creditori aderenti una volta completata l’esecuzione.

Un punto delicato è l’opposizione dei creditori estranei. Se uno o più creditori non aderenti ritengono l’accordo pregiudizievole per loro, possono fare opposizione prima dell’omologa. Il tribunale dovrà valutare che il piano assicuri, come richiesto dalla legge, che i creditori estranei ricevano almeno ciò che avrebbero ottenuto in caso di liquidazione giudiziale del debitore. Questa valutazione di convenienza comparativa è fondamentale e si basa sulla relazione del professionista attestatore e su eventuali perizie. In passato, tipici motivi di diniego di omologa erano la mancata piena soddisfazione del Fisco o di creditori privilegiati non aderenti. Oggi, grazie al meccanismo di cram-down fiscale e all’estensione ai dissenzienti finanziari, questi ostacoli sono più gestibili: ad esempio, se il Fisco non aderisce ma l’accordo gli offre almeno il valore di realizzo in caso di fallimento, il giudice può comunque omologare.

Se il tribunale rifiuta l’omologa (caso raro, ma possibile in presenza di opposizioni fondate o irregolarità), l’accordo non diventa efficace e tutto torna come prima: i creditori non sono vincolati e possono agire per intero. A quel punto il debitore ha poche alternative: o tenta di modificare l’accordo per superare i rilievi del giudice e lo ripresenta (sempre che i creditori siano disponibili a negoziare ancora), oppure – se la situazione è grave – potrebbe subire o dover richiedere un fallimento. In alcuni casi, il tribunale nel rigettare l’omologa segnala esattamente i punti da correggere, dando una chance al debitore di riprovarci. In altri, se il piano è irrealistico o vi è forte dissenso, è probabile che segua l’insolvenza conclamata e quindi la liquidazione giudiziale. È dunque cruciale preparare bene l’accordo, con dati veritieri e rispetto rigoroso delle regole per i non aderenti, onde evitare un esito negativo.

Vantaggi per il debitore

Gli accordi di ristrutturazione offrono al debitore diversi vantaggi rispetto sia a soluzioni puramente private sia alle procedure concorsuali complete:

  • Rapidità e semplicità procedurale: l’iter di omologa di un accordo è più snello e generalmente più rapido di un concordato preventivo. Non ci sono votazioni con adunanza, non c’è un commissario nominato, né si coinvolge il pubblico ministero, ecc. Spesso l’omologazione avviene in pochi mesi (talora in 2-3 mesi) se non vi sono opposizioni. Questo consente al debitore di ottenere una soluzione definitiva alla crisi in tempi brevi, elemento cruciale per limitare incertezza e danni reputazionali.
  • Minor invasività giudiziale: il controllo del tribunale è limitato e non c’è spossessamento dell’imprenditore. Il debitore mantiene la gestione ordinaria e straordinaria (salvo impegni contrattuali presi con i creditori aderenti, come certe restrizioni operative), senza la figura di un commissario. Questo garantisce maggiore autonomia rispetto a un concordato, dove ogni atto di straordinaria amministrazione richiede autorizzazione. L’impresa può dunque proseguire la propria attività più serenamente durante la fase di negoziazione e anche dopo l’omologa, rispetto al clima più vincolato di un concordato.
  • Meno pubblicità negativa: benché l’accordo omologato sia pubblicato (registro delle imprese) e dunque pubblico, la percezione del mercato spesso è meno negativa rispetto a un “fallimento” o a un concordato. Si tratta comunque di un accordo volontario tra debitore e creditori – quasi una soluzione concordata fuori dalle aule di tribunale, sebbene con l’avallo del giudice. Pertanto, molti imprenditori vedono negli ADR uno strumento per gestire la crisi in modo più discreto, comunicando ai partner che si tratta di una ristrutturazione negoziata e non di una procedura concorsuale che li espropria.
  • Protezione mirata dei non aderenti senza coinvolgere tutti: negli accordi, a differenza del concordato, non occorre coinvolgere per forza tutti i creditori. Il debitore può scegliere di trattare solo con alcuni (tipicamente banche e grandi fornitori) e lasciare fuori altri che preferisce pagare integralmente. Ciò riduce le parti in causa e semplifica le trattative. Finché i creditori estranei ricevono il 100%, essi non hanno motivo di opporsi e l’accordo può procedere. Ad esempio, se ho 100 piccoli fornitori per un totale del 20% dei debiti, potrei decidere di non includerli nell’accordo e di saldarli regolarmente, concentrandomi nel ristrutturare solo l’80% del debito (banche) che mi opprime. Nel concordato invece devo necessariamente sottoporre tutti i creditori alla falcidia/voto, il che rende il procedimento più complesso e potenzialmente conflittuale.
  • Flessibilità di contenuto: l’accordo di ristrutturazione non deve rispettare alcune rigidità tipiche del concordato. Ad esempio, non c’è l’obbligo di assicurare un pagamento minimo del 20% ai chirografari in caso di liquidazione (questo vincolo esiste nel concordato liquidatorio, mentre in un accordo se le banche accettano il 40% di rimborso, i fornitori possono anche non essere falcidiati affatto – basta pagarli integralmente). Si possono trattare diversamente categorie di creditori senza doverli mettere formalmente in classi, perché il criterio è contrattuale. Inoltre si può prevedere la continuazione dell’attività senza i formalismi del concordato in continuità. Tutto è lasciato alla libera pattuizione col vincolo soltanto di rispettare i creditori estranei. Questa capacità di “personalizzare” l’operazione è un enorme vantaggio per imprese con situazioni complesse ma con creditori negoziabili.
  • Possibilità di cram-down parziale: grazie alle norme su efficacia estesa e transazione fiscale, l’ADR consente in parte di superare l’opposizione di alcune minoranze qualificate senza dover per forza ricorrere al concordato. Ad esempio, se 8 banche su 10 sono d’accordo, le altre 2 non possono bloccare l’operazione, perché il tribunale può estendere l’accordo anche ad esse (se ricorrono i presupposti). Questo è un progresso notevole rispetto al passato, in cui bastava un dissenso per pregiudicare tutto. Similmente, se il Fisco non sta al gioco ma la proposta è ragionevole, il giudice può omologare comunque. In sostanza, l’ADR oggi combina consenso e qualche elemento di imposizione, offrendo un mix efficiente.
  • Continuità aziendale: durante e dopo l’accordo, l’impresa può continuare ad operare senza le interruzioni di una procedura concorsuale. Non vi è un curatore che liquida i beni: al contrario, spesso l’accordo prevede che l’imprenditore conservi gli asset essenziali e magari ne venda solo alcuni per pagare i debiti. Questo aiuta a preservare il valore aziendale e la continuità, se il piano è in continuità. Anche nei casi liquidatori, si possono vendere beni in modo negoziato (magari a prezzi migliori di un’asta fallimentare).

Rischi e considerazioni

I rischi e i limiti per il debitore includono alcuni aspetti da non sottovalutare:

  • Raggiungimento del quorum di consenso: ottenere l’adesione del 60% (o anche solo del 30% in altri casi) può rivelarsi tutt’altro che facile. Serve una notevole capacità negoziale e la disponibilità di dare contropartite ai creditori. Se il debito è molto frammentato tra tanti creditori, convincerne una maggioranza qualificata può essere complesso. Paradossalmente, a volte un concordato potrebbe essere più gestibile, perché lì basta la maggioranza dei votanti e c’è il meccanismo delle classi con possibili cram-down di classi dissenzienti. L’accordo di ristrutturazione invece funziona bene quando pochi creditori detengono la gran parte del debito, ad esempio banche e obbligazionisti principali: in tal caso è fattibile trovare un accordo con loro. Se invece ci sono centinaia di creditori ognuno con piccole quote, l’ADR non è lo strumento ideale.
  • Necessità di liquidità per i creditori estranei: il debitore che voglia un accordo omologato senza coinvolgere tutti i creditori deve comunque disporre delle risorse per pagare integralmente e subito quelli rimasti fuori. Questo può essere un ostacolo serio: per ottenere l’omologa, i creditori estranei non possono essere penalizzati né fatti aspettare troppo. Dunque, se l’azienda non ha cassa sufficiente, deve procurarsi finanza esterna (es. un nuovo prestito o capitali dei soci) per pagare questi estranei. Talvolta, per trovare tali liquidità, il debitore potrebbe dover ricorrere a finanziamenti con promessa di prededuzione (cioè garantiti come privilegiati nel caso di un eventuale successivo fallimento) – ma ciò, se l’accordo poi saltasse, complicherebbe la situazione nel fallimento. Insomma, c’è bisogno di tenere pronta liquidità per i dissenzienti, il che non è sempre banale.
  • Possibili opposizioni e incertezza fino all’omologa: fino a quando il decreto di omologa non viene emesso, l’esito non è certo. Un creditore escluso o che si ritenga pregiudicato può fare opposizione, allungando i tempi e introducendo incertezza. Anche pochi creditori possono rallentare la procedura se sollevano obiezioni (che il tribunale dovrà valutare). Ci sono stati casi di accordi non omologati perché il piano era ritenuto non fattibile o lesivo per i creditori estranei. Quindi, finché non arriva l’omologa, il debitore non ha la certezza assoluta di aver risolto la crisi; deve comunque tenersi pronto al piano B (ad esempio aver già pronto un ricorso di concordato qualora l’omologa fallisca).
  • Gestione “scoperta” nel frattempo: diversamente dal concordato preventivo, nell’ADR non c’è un commissario che vigila sul debitore prima dell’omologa. Questo è un vantaggio (più libertà), ma anche un rischio: se il debitore compie atti imprudenti in quel lasso di tempo – ad esempio paga qualcuno fuori accordo o aggrava l’insolvenza contrattando nuovo debito oneroso – l’accordo può saltare e in più gli amministratori potrebbero esporsi a responsabilità. Nulla impedisce inoltre, in linea teorica, a un creditore di presentare istanza di fallimento mentre le adesioni sono in corso. In pratica, i tribunali sono abbastanza disponibili a sospendere le istanze di fallimento se informati che è in via di chiusura un accordo al 60%; ma se ravvisano abuso o presa di tempo eccessiva, potrebbero procedere con la liquidazione giudiziale. Quindi il periodo “interinale” va gestito con autodisciplina e velocità.
  • Effetto reputazionale e creditizio: anche se meno di un fallimento, un accordo di ristrutturazione non passa inosservato nel mondo degli affari. L’accordo omologato è pubblicato, e spesso i rumors delle trattative filtrano prima. Ciò può influire sulla reputazione e sul comportamento dei partner: ad esempio, qualche fornitore spaventato potrebbe ridurre le forniture o chiedere pagamento anticipato temendo di restare escluso (se non coinvolto nell’accordo). Certo, l’effetto è minore rispetto a un concordato, ma c’è. Occorre quindi una buona gestione della comunicazione e delle relazioni durante l’incertezza.
  • Limitazione nell’uso reiterato: il Codice prevede che non si possano omologare due accordi di ristrutturazione per lo stesso debitore nell’arco di 5 anni. Questo per evitare abusi (la c.d. serial restructuring). Quindi l’imprenditore ha essenzialmente un colpo solo nel breve-medio termine: se conclude un accordo e poi dopo 2 anni ricade in crisi, non potrà farne un altro subito, ma dovrà semmai optare per un concordato. Ciò spinge ad essere molto prudenti e lungimiranti nella redazione del piano: l’accordo deve risolvere i problemi in modo duraturo, perché non si potrà tornare dai creditori ogni anno a chiedere ulteriori sacrifici.

In conclusione, gli accordi di ristrutturazione dei debiti rappresentano uno strumento efficace per debitori in crisi che possono contare sul consenso di una parte importante dei creditori, in particolare per imprese che vogliono evitare le rigidità del concordato e gestire la crisi in modo negoziale. La presenza di vari modelli (ordinario, agevolato, esteso) rende l’istituto adattabile a diverse configurazioni del debito e del parterre di creditori. Ad esempio, dottrina e prassi segnalano che l’accordo agevolato (30%) è molto utile per aziende medio-piccole dove basta coinvolgere i principali creditori finanziari, mentre l’accordo ad efficacia estesa (75%) è prezioso in grandi ristrutturazioni bancarie (accordi di sistema con pool di banche).

Sul piano giurisprudenziale, la Cassazione ha confermato importanti principi: ad esempio, Cass. Sez. I, 6 giugno 2023 n. 15790 ha ribadito che l’omologa dell’accordo non impedisce al Fisco di effettuare compensazioni di crediti IVA di segno opposto spettanti al debitore (il Fisco può ancora compensare crediti tributari, salvo i limiti di legge). Inoltre, in via ipotetica, la giurisprudenza di legittimità riconosce il potere del tribunale di omologare l’accordo anche in presenza di opposizione di creditori estranei, purché sia dimostrato che tali creditori ricevono almeno quanto in liquidazione (principio di convenienza comparativa). Tribunali di merito hanno applicato rigorosamente le nuove norme: ad esempio, il Tribunale di Bergamo, decreto 21 settembre 2022, ha dichiarato inammissibile un accordo agevolato in cui il debitore chiedeva una moratoria di 6 mesi verso i creditori estranei, ritenendolo in violazione del divieto di moratoria per i non aderenti (art. 61 CCII). Il Tribunale di Torino, decreto 15 marzo 2023, ha omologato un accordo ad efficacia estesa con un pool di banche, estendendone gli effetti anche su due banche dissenzienti – esempio concreto dell’art. 61. Sul fronte del cram-down fiscale, si segnala la decisione del Tribunale di Milano del 30 marzo 2023 (in Fallimento 2023, nota di Maltoni) che, applicando il nuovo art. 63 CCII, ha omologato un accordo nonostante il diniego dell’Erario, giudicando la proposta fiscale comunque conveniente. Complessivamente, la giurisprudenza sta confermando la fiducia nello strumento degli ADR, pur mantenendo alta l’attenzione sulla tutela dei creditori estranei e sulla fattibilità economica dei piani.

Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO)

Una novità di rilievo introdotta in attuazione della Direttiva UE 2019/1023 è il Piano di Ristrutturazione Soggetto ad Omologazione, spesso abbreviato in PRO. Questo istituto rappresenta un ulteriore strumento ibrido, collocandosi a metà strada tra l’accordo negoziale e il concordato preventivo classico. In sostanza, il PRO è una procedura concorsuale “su misura” in cui il debitore propone un piano di risanamento con caratteristiche di grande flessibilità (può prevedere deroghe alle regole di parità di trattamento tra creditori) ma che richiede il consenso di tutte le classi di creditori votanti e l’omologazione del tribunale.

Accesso e presupposti: il debitore in stato di crisi o insolvenza reversibile può presentare al tribunale un piano attestato di ristrutturazione con richiesta di omologazione, senza passare per una votazione classica come nel concordato preventivo. Tuttavia, il debitore deve suddividere i creditori in classi omogenee e ottenere l’adesione (voto favorevole) della maggioranza di crediti in ciascuna classe. È quindi necessario il consenso di ogni classe di creditori coinvolta: se anche una sola classe vota contro, il PRO non può essere omologato (non è previsto un cram-down interclassi nel PRO, a differenza del concordato ora possibile in certe condizioni). Questo significa che il PRO funziona solo in presenza di ampio accordo: tutti i gruppi di creditori devono essere persuasi dal piano. Ecco perché viene talora definito un concordato “consensuale”. Il presupposto oggettivo è analogo al concordato: stato di crisi o insolvenza, purché il risanamento appaia attuabile. Inoltre, serve l’attestazione di un professionista indipendente sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano, come nel concordato.

Caratteristica distintiva: nel PRO, a differenza del concordato preventivo ordinario, il debitore può proporre deroghe al principio della parità di trattamento e alla graduazione legale dei crediti. Ovvero, con il consenso delle classi interessate, è possibile che alcuni creditori privilegiati non vengano soddisfatti integralmente, o che creditori chirografari ricevano percentuali più alte di creditori privilegiati di grado inferiore non completamente soddisfatti – cose normalmente vietate salvo consenso unanime in un concordato standard. Il PRO quindi consente di “riscrivere le priorità” di pagamento in funzione di un accordo globale tra le parti. Ad esempio, il debitore potrebbe proporre nel PRO di pagare solo parzialmente i creditori ipotecari e, nel contempo, pagare integralmente taluni chirografari strategici (forse fornitori essenziali), distribuendo dunque il valore non secondo la graduatoria legale ma secondo la logica del piano condiviso. Operazioni di questo tipo sarebbero impossibili in un concordato preventivo ordinario senza il consenso di tutti i privilegiati interessati; nel PRO invece diventano praticabili, purché ciascuna classe approvi.

Procedimento: il PRO si svolge dinanzi al tribunale con modalità simili al concordato, ma con alcune differenze. Il debitore deposita ricorso con il piano, la documentazione e l’attestazione. Il tribunale, valutati i presupposti di ammissibilità, ammette la procedura e nomina un commissario giudiziale (analogo al concordato). Quindi si apre la fase di voto nelle classi: i creditori di ciascuna classe esprimono il proprio voto e serve la maggioranza in valore in ciascuna classe per l’approvazione di quella classe. Se tutte le classi approvano a maggioranza interna, il tribunale procede all’omologazione finale, verificando la legalità del procedimento e il rispetto dei requisiti (incluso il test di convenienza: che i dissenzienti in ciascuna classe ottengano almeno quanto avrebbero in liquidazione). Se invece anche una sola classe rifiuta, il PRO non può essere omologato; il debitore in tal caso potrebbe eventualmente convertire l’istanza in un concordato preventivo ordinario (se vuole tentare quell’altra via con cram-down).

Vantaggi per il debitore: il PRO offre alcuni vantaggi specifici:

  • Flessibilità massima nel contenuto del piano: come detto, si può derogare alle regole di absolute priority. Non vi sono limiti legali di soddisfacimento minimo: ad esempio, nel PRO non valgono le soglie del 20% minimo ai chirografari né l’obbligo di apporti esterni del 10% nei casi liquidatori. Ciò significa che si potrebbe concepire un PRO liquidatorio che paga i chirografari anche meno del 20% e senza apporti, cosa che un concordato preventivo ordinario non consente (salvo classi dissenzienti superate in cram-down, che però richiede almeno una classe di voto favorevole). Ovviamente, una proposta così penalizzante passerebbe solo se i creditori in quelle classi la accettano, ma la legge non la vieta a priori. Questa libertà consente al debitore di proporre soluzioni creative e tagli profondi del debito che altrimenti sarebbero preclusi.
  • Possibilità di ristrutturare l’ordine delle cause di prelazione: il PRO consente, con il consenso delle classi interessate, di trattare in modo differenziato creditori di rango diverso, persino invertendo priorità. Ad esempio, si può coinvolgere anche i soci o portatori di strumenti partecipativi, prevedendo sacrifici per loro (riduzioni delle partecipazioni, diluizioni) in un’ottica di ristrutturazione complessiva. Si può anche convertire parte dei debiti in capitale (debt-to-equity swap) e modulare diversamente la soddisfazione dei creditori rispetto ai privilegi. Questa elasticità è preziosa in situazioni complesse dove la struttura finanziaria va riequilibrata radicalmente: tipicamente grandi ristrutturazioni con molte classi di creditori (banche, bondholder, fornitori, leasing, ecc.) e magari necessità di coinvolgere anche gli azionisti.
  • Stabilità e efficacia erga omnes garantita dal giudice: pur essendo costruito sul consenso quasi unanime (tutte le classi), il PRO culmina comunque in un’omologazione giudiziaria. Ciò conferisce al piano una stabilità legale: diventa vincolante per tutti i partecipanti e non può essere impugnato se non per motivi di legittimità. In più, l’omologa comporta effetti come la prededuzione per i nuovi finanziamenti autorizzati e la protezione dai creditori estranei simili a quelle del concordato. Quindi il PRO offre il meglio dei due mondi: accordo consensuale però dentro una procedura concorsuale che lo rende blindato e opponibile.
  • Assenza di fattispecie penali specifiche: mentre nel concordato preventivo esistono reati fallimentari ad hoc (es. bancarotta concordataria, frode in procedure concorsuali), nel PRO tali fattispecie non sono espressamente previste (trattandosi di novità recente). Questo ovviamente non significa immunità penale – rimarrebbero applicabili i reati comuni quali bancarotta semplice o fraudolenta se ne ricorrono gli estremi – ma il quadro è meno dettagliato e punitivo. Ciò riduce in parte l’ansia degli amministratori rispetto al rischio di imputazioni penali connesse alla procedura (sebbene, ripetiamo, resta la responsabilità generale in caso di condotte distrattive o fraudolente).

Rischi e limiti: come contraltare, i rischi/limiti del PRO includono:

  • Necessità di consenso molto ampio: il PRO richiede il consenso di tutte le classi, seppur espresso a maggioranza interna di ciascuna. Ciò significa che basta il dissenso di un’intera classe (ad esempio tutti gli obbligazionisti votano no) per far naufragare la procedura. Non è previsto un cram-down interclassi (a differenza del concordato preventivo, dove con la riforma è divenuto possibile omologare anche con classi dissenzienti se almeno un’altra classe approva e i dissenzienti sono soddisfatti almeno al valore di liquidazione). Dunque il PRO o è consensuale o non è: richiede abilità negoziale eccellente e disponibilità ad accomodare i vari stakeholder. Questo lo rende uno strumento di nicchia, adatto a circostanze in cui c’è già un sostanziale accordo.
  • Procedura pur sempre concorsuale: benché “soft”, il PRO è comunque una procedura concorsuale in tribunale. C’è un commissario giudiziale, ci sono le votazioni, c’è un decreto di omologa. Quindi i costi e i tempi non sono trascurabili: è più oneroso di un accordo 182-bis standard e simile a un concordato quanto a struttura, pur senza la fase di omologazione conflittuale. Il debitore deve essere pronto a sostenere tali costi e formalità.
  • Incertezza se fallisce il voto: se la votazione nelle classi fallisce (una classe dice no), il debitore ha sprecato tempo e risorse. Può provare a riconvertire la domanda in un concordato ordinario, ma avrebbe dovuto sin dall’inizio presentare anche un piano conforme alle regole del concordato (ad es. rispettare i 20% minimi se liquidatorio, ecc.). Quindi spesso fallito il PRO, rimane solo la strada del fallimento o di un accordo minore, con ulteriore perdita di tempo e peggioramento delle condizioni. In altre parole, il PRO è un colpo unico: se non va a buon fine, non c’è una rete di sicurezza robusta, se non tornare all’inizio.
  • Limitata esperienza applicativa: essendo strumento nuovo (introdotto col correttivo 2022) vi è ancora poca giurisprudenza consolidata e qualche incertezza interpretativa. Ad esempio: come si concilia il PRO con l’assenza di soglie minime di pagamento? Fin dove può spingersi il tribunale nel valutare la meritevolezza del piano? Quali parametri usare se una classe dissente (anche se poi ciò impedisce l’omologa, potrebbe però portare a una dichiarazione d’insuccesso con eventuale fallimento contestuale, come succede nel concordato)? Questa incertezza può rendere i creditori più cauti nell’accettare un PRO.
  • Coinvolgimento degli equity holder: nel PRO è possibile (e talvolta necessario) coinvolgere i soci nel sacrificio – es. riduzione del capitale, perdita del controllo. Ciò può creare conflitti di governance e persino cause legali da parte dei soci scontenti. La legge prevede che nel PRO possano essere previste classi di soci per approvare eventuali misure su di loro, ma anche qui serve il loro consenso (o comunque il meccanismo di classi soci). Se i soci resistono, il PRO potrebbe complicarsi.

Giurisprudenza: data la novità, poche pronunce esistono. Si segnala però un importante precedente: Tribunale di Udine, 9 marzo 2023, che ha ammesso un PRO nonostante prevedesse la falcidia di debiti tributari e contributivi, osservando che nessuna norma nel CCII esclude di proporre il pagamento parziale o dilazionato di tali crediti nel PRO, purché in apposite classi e con adeguata informativa. Ciò conferma che nel PRO è possibile trattare anche l’Erario non integralmente (cosa prima dubbia) e che il giudice valuterà caso per caso se l’offerta è migliorativa rispetto al fallimento. La Cassazione deve ancora esprimersi direttamente sul PRO; tuttavia alcuni principi generali sono stati anticipati: ad esempio, Cass. Sez. Un. 13 maggio 2021 n. 8500 aveva già affermato, in tema di concordato, che il giudice può omologare anche in caso di classe dissenziente se i creditori dissenzienti ottengono almeno il valore di liquidazione. Questo principio, riferito al concordato in continuità, è in linea con la logica del PRO in cui tutte le classi devono comunque essere soddisfatte almeno a quel livello. Sarà interessante vedere come verrà applicato il PRO nei prossimi anni: probabilmente in situazioni straordinarie dove le regole standard del concordato risulterebbero un ostacolo e vi sia però larga parte dei creditori disposta ad accordarsi.

In definitiva, il PRO mette a disposizione un contenitore legale flessibile per piani di risanamento altamente consensuali, con il suggello dell’omologazione giudiziale a conferirgli stabilità. È uno strumento specialistico, da usare quando c’è la possibilità di ottenere il sostegno di tutti i creditori rilevanti ma le soluzioni necessarie deviano dalle regole concorsuali ordinarie (priorità, percentuali minime, ecc.). In tali casi, il PRO offre ciò che un concordato tradizionale non permette, massimizzando la libertà negoziale del debitore.

(Segue tabella comparativa degli strumenti fin qui analizzati:)

StrumentoTipo di proceduraRuolo del tribunaleConsenso dei creditori richiestoProtezione (stay)Vincolatività
Composizione negoziata (artt. 12-25 CCII)Extragiudiziale assistita (allerta precoce, volontaria) – Obiettivo: accordo stragiudiziale con prospettive di risanamento.Nomina di esperto indipendente; eventuali misure protettive concesse dal tribunale. Nessuna omologazione finale.Consenso volontario dei creditori coinvolti nelle trattative. Nessuna soglia legale: accordi bilaterali con chi aderisce (ogni creditore decide per sé).Opzionale: misure protettive temporanee (fino 4+4 mesi) su richiesta, bloccano azioni esecutive e istanze fallimento. Altrimenti, nessuno stay automatico.Limitata: vincola solo i creditori che sottoscrivono accordi col debitore. I non aderenti restano estranei e possono agire per intero.
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII)Stragiudiziale unilaterale (privatistico) – Obiettivo: risanare l’impresa con accordi privati supportati da un’attestazione indipendente.Nessun intervento del tribunale (salvo deposito volontario per data certa/pubblicazione). Efficacia basata sull’attestazione e sugli accordi privati con creditori.Consenso individuale di ciascun creditore rilevante. Nessuna maggioranza collettiva: ogni creditore deve aderire volontariamente agli accordi previsti dal piano.Nessuno stay: il piano non sospende azioni esecutive. (Può ottenersi indirettamente avviando una comp. negoziata in parallelo).Parziale: vincola contrattualmente solo i creditori che aderiscono agli accordi previsti. I non aderenti vanno pagati integralmente (pena inadempimento e possibili azioni o fallimento).
Accordo di ristrutturazione (artt. 57-64 CCII)Procedura ibrida omologata (giudiziale semplificata) – Obiettivo: ristrutturazione del debito consensuale con “sigillo” giudiziario.Tribunale omologa l’accordo; possibile nomina OCC. Niente voto collettivo, ma controllo legale su percentuali e tutela estranei.Maggioranza qualificata di crediti aderenti: >= 60% (ordinario); >= 30% (agevolato) se non arreca moratorie ai non aderenti. Adesione individuale, no voto in assemblea. Classi non obbligatorie salvo per estensioni settoriali (>=75% banche).Sì, previa richiesta: il debitore può chiedere misure protettive analoghe al concordato durante l’omologa (sospensione esecuzioni). Non è automatico, ma prassi le concede in presenza del quorum raggiunto.Erga omnes parziale: vincola tutti i creditori aderenti ai termini pattuiti. I non aderenti restano con diritto al 100% ma con pagamento nei termini di legge (max 120 gg dall’omologa se scaduti). Possibile estensione ad alcuni non aderenti (banche) ex art. 61 CCII.
PRO – Piano di ristrutturazione omologato (artt. 64-bis e ss. CCII)Procedura concorsuale flessibile (giudiziale con alto consenso) – Obiettivo: ristrutturazione radicale con possibili deroghe alle priorità legali.Tribunale ammette la procedura, nomina commissario; votazione per classi; omologa necessaria. Forte controllo su legalità e meritevolezza piano.Consenso di tutte le classi di creditori create: serve maggioranza in valore in ciascuna classe coinvolta. Nessun cram-down interclassi: se una classe dissente, PRO inammissibile.Sì, automatico dal ricorso: come nel concordato, divieto di azioni esecutive individuali dopo l’ammissione. Protezione durante negoziazione/votazione.Erga omnes: vincola tutti i creditori delle classi partecipanti una volta omologato. Anche i dissenzienti in classi approvate sono vincolati. Deroghe di trattamento ammesse solo come da piano. Effetti concorsuali (sospensione azioni, ecc.) come concordato.
Concordato preventivo (artt. 40-64 CCII)Procedura concorsuale giudiziale – Obiettivo: regolare la crisi con il coinvolgimento di tutti i creditori (salvare azienda o liquidare patrimonio).Tribunale controlla tutto il procedimento; nomina commissario e GD; omologa finale (eventuale cram-down su classi dissenzienti).Maggioranza di voti sul totale crediti ammessi al voto: >50% dei crediti votanti (esclusi privilegiati soddisfatti per intero). Voto per classi se previste; possibile omologa con classi dissenzienti (cram-down) se almeno una classe approva e dissenzienti soddisfatti >= liquidazione.Sì, automatico: dalla pubblicazione del ricorso, sospensione di azioni esecutive e cautelari ex lege. Divieto di pagamenti anteriori non autorizzati. Moratoria per privilegiati in continuità (max 6-12 mesi) possibile se attestata conveniente.Erga omnes totale: vincola tutti i creditori anteriori una volta omologato. I creditori sono soddisfatti secondo il piano omologato anche contro la loro volontà, con cause estintive delle obbligazioni originarie. Prevista esdebitazione per il debitore persona fisica dopo completamento.
Concordato semplificato (art. 25-sexies CCII)Procedura concorsuale “atipica” – Liquidazione del patrimonio post composizione negoziata senza voto creditori.Tribunale verifica esito negativo comp. negoziata; nomina eventuale liquidatore; omologa d’ufficio se piano equo e fattibile. Nessun commissario né voto.Nessun voto creditori: creditori non chiamati ad approvare. Possono presentare osservazioni, ma decisione è del tribunale. Accessibile solo a chi ha tentato comp. negoziata.Sì, di fatto: la presentazione del ricorso concordato semplificato fa seguito a misure protettive della comp. negoziata (già in essere). Il tribunale può estendere protezioni fino all’omologa.Erga omnes: vincola tutti i creditori anteriori. Il decreto di omologa dispone la cessione/liquidazione dei beni e la ripartizione ai creditori secondo il piano (anche se contrari). Nessun voto significa accettazione coattiva.
Liquidazione giudiziale (artt. 121 e ss. CCII)Procedura concorsuale liquidatoria (ex fallimento) – Obiettivo: liquidare il patrimonio insolvente e distribuire attivo ai creditori secondo prelazioni.Tribunale dichiara apertura su istanza; nomina curatore e giudice delegato; procedura pubblica a carattere esecutivo universale.Nessun consenso richiesto: è una procedura coattiva avviata per insolvenza conclamata. I creditori non “approvano” nulla; subiscono la liquidazione.Sì, automatico: dalla sentenza di apertura, divieto assoluto di azioni esecutive individuali (cristallizzazione del passivo) e atti cautelari. Creditore procedono solo tramite insinuazione al passivo.Erga omnes: tutti i creditori anteriori partecipano al riparto fallimentare secondo ordine di prelazione. Alla chiusura, il debitore persona fisica ottiene (salvo eccezioni) l’esdebitazione residua; le società vengono estinte.

Nota: la tabella semplifica alcune condizioni (ad es. soglie precise, eccezioni normative) per offrire un colpo d’occhio comparativo. Per i dettagli si rimanda al testo dei singoli articoli del CCII e ai paragrafi esplicativi sopra.

Dalla tabella emerge come esistano strumenti graduali: si passa da soluzioni extragiudiziali volontarie e riservate (comp. negoziata, piano attestato) a strumenti ibridi (accordi omologati, PRO) fino alle procedure concorsuali piene (concordato, liquidazione). Ciascuno strumento ha pregi (maggior controllo, minor stigma, rapidità) e limiti (mancanza di effetti coattivi, necessità di consenso, costi procedurali, ecc.), che il debitore deve valutare attentamente.

Concordato preventivo

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale per eccellenza finalizzata alla regolazione della crisi d’impresa col coinvolgimento di tutti i creditori. Rappresenta storicamente l’alternativa al fallimento quando si vuole evitare la liquidazione e tentare un risanamento. Con la riforma del Codice, il concordato preventivo mantiene un ruolo centrale, seppur con importanti innovazioni (classi obbligatorie in certi casi, possibilità di cram-down interclassi, nuove percentuali, ecc.).

Forme di concordato: in continuità e liquidatorio

Il Codice distingue principalmente due forme di concordato:

  • Concordato in continuità aziendale: quando il piano prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa (in tutto o in parte). Può essere diretta (l’azienda resta al debitore che la gestisce durante e dopo il concordato, ricavando reddito per pagare i creditori) oppure indiretta (il piano prevede la cessione o il conferimento dell’azienda a un terzo che ne continua l’attività, ad es. affitto con successiva vendita a un nuovo imprenditore, garantendo così la continuità operativa e occupazionale). Nel concordato in continuità, l’obiettivo è salvare l’azienda come going concern: i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dai proventi derivanti dalla continuazione dell’attività (utili futuri, vendita di prodotti/servizi, oppure apporto di investitori interessati all’azienda funzionante). La legge consente qui maggiore flessibilità: ad esempio è ammessa la moratoria fino a 6 mesi (estendibile a 12 in casi eccezionali) per il pagamento dei creditori privilegiati, purché un esperto attesti che ciò non li pregiudica. È anche possibile la falcidia (pagamento non integrale) dei creditori privilegiati nel concordato in continuità, purché: (a) un perito attesti che riceveranno almeno l’equivalente del valore di liquidazione dei beni su cui vantano garanzia, e (b) la classe cui appartengono voti a favore. Questo consente di ridurre ad esempio il debito ipotecario fino al valore dell’immobile ipotecato se quest’ultimo vale meno del credito (il residuo diventa chirografario). Per i creditori chirografari nel concordato in continuità non c’è una percentuale minima di legge, se non quella derivante dalla convenienza (devono prendere almeno di più che in liquidazione).
  • Concordato liquidatorio: quando il piano prevede essenzialmente la liquidazione del patrimonio del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori, senza proseguire l’attività (o proseguendola solo ai fini della miglior liquidazione). In questo caso il Codice fissa alcune condizioni più rigide a tutela dei creditori chirografari: in particolare, il concordato liquidatorio puro è ammissibile solo se assicura il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari, salvo che il debitore apporti risorse esterne aggiuntive che aumentino in misura apprezzabile la percentuale (in passato si parlava di un 10% di “apporto esterno” se non si raggiungeva il 20% interno). Inoltre, nel concordato liquidatorio tutti i creditori privilegiati devono essere soddisfatti integralmente, a meno che rinuncino espressamente alla parte eccedente il valore di stima delle garanzie. Dunque, se i beni non bastano a pagare i privilegiati per intero, il debitore non può unilateralmente ridurli: deve o far sì che quei creditori accettino uno stralcio, oppure il concordato liquidatorio non è fattibile e si dovrebbe optare per la liquidazione giudiziale. Il concordato liquidatorio è quindi accompagnato da soglie e vincoli stringenti (il 20% ai chirografari, privilegiati al 100% salvo rinuncia). In contropartita, però, esso consente al debitore persona fisica di ottenere l’esdebitazione immediata a fine procedura senza attendere la liquidazione giudiziale, e offre ai creditori una soddisfazione tipicamente maggiore e più rapida di quella di un fallimento (poiché c’è un piano già strutturato di realizzo beni, spesso con acquirenti individuati, evitando lungaggini).

Tra questi due poli, esistono fattispecie intermedie: ad esempio concordati misti (parte in continuità e parte liquidatoria: l’azienda prosegue ma alcuni asset vengono liquidati). In tal caso, l’obbligo del 20% minimo ai chirografari si applica solo alla parte liquidatoria del piano. Se c’è prevalenza di continuità, la giurisprudenza tende a non richiedere il 20%. La distinzione ha rilevanza anche per il trattamento dei creditori privilegiati e per gli obblighi informativi: nel concordato in continuità è necessario presentare un piano industriale dettagliato e un elenco di contratti pendenti con indicazione se proseguirli o scioglierli; nel liquidatorio occorre dettagliare modalità e tempistiche di liquidazione dei beni.

Procedura di concordato: dal ricorso al voto

La procedura di concordato preventivo si avvia con un ricorso presentato dal debitore al tribunale competente. Il ricorso può essere in due forme:

  • Ricorso “in bianco” (concordato con riserva): il debitore deposita una domanda contenente solo l’intenzione di accedere al concordato, chiedendo un termine (da 60 a 120 giorni, prorogabile) per presentare il piano e la proposta definitiva. In questo periodo, gode immediatamente delle protezioni (stay delle azioni esecutive) ma deve poi depositare tutta la documentazione entro la scadenza. È un’opzione utile quando il debitore vuole bloccare subito i creditori (ad esempio per fermare un’asta imminente) ma ha bisogno di tempo per finalizzare il piano con i professionisti. Il tribunale di solito nomina un commissario “provvisorio” durante il periodo di riserva e dà alcune prescrizioni (ad esempio limitazione atti di straordinaria amministrazione).
  • Ricorso completo: se il debitore ha già predisposto il piano, deposita direttamente proposta, piano e documenti fin dall’inizio. Il tribunale verifica l’ammissibilità (presenza di tutti i documenti richiesti, attestazione di fattibilità da parte di un professionista indipendente, ecc.) ed emette un decreto di apertura del concordato, nominando il commissario giudiziale (un professionista terzo, di solito un commercialista esperto in procedure) e fissando l’udienza dei creditori per il voto.

Da quel momento: il commissario svolge le sue funzioni di vigilanza e raccolta informazioni (effettua sopralluoghi, analizza la contabilità, redige una relazione per i creditori sulla veridicità dei dati e sulla fattibilità del piano). Il debitor in possesso: il debitore rimane alla guida dell’impresa (non c’è spossessamento), ma sotto la supervisione del commissario e del giudice delegato. Può compiere gli atti di ordinaria amministrazione liberamente; per quelli di straordinaria amministrazione (vendite importanti, ipoteche, nuove finanze) deve chiedere autorizzazione al tribunale o almeno informare il commissario. In caso di concordato in continuità, spesso il tribunale autorizza fin da subito il pagamento di fornitori strategici o la contrazione di debito prededucibile per proseguire l’attività.

Contestualmente il tribunale ordina la convocazione di tutti i creditori a un’udienza (che oggi può essere anche svolta con voto scritto o telematico). Il commissario invia a ogni creditore la proposta e il piano, la sua relazione e una scheda per esprimere il voto (se non partecipa all’adunanza). I creditori sono divisi in classi se il piano lo prevede (obbligatorio se trattamenti differenziati per posizione giuridica omogenea, facoltativo in altri casi). Ogni classe vota separatamente.

Votazione: Hanno diritto di voto i creditori chirografari e i privilegiati per l’eventuale parte non soddisfatta dal piano. I creditori completamente soddisfatti (es. privilegiati 100%) non votano, in quanto non toccati. Il concordato è approvato se ottiene il voto favorevole di creditori che rappresentino la maggioranza del credito ammesso al voto. Cioè, si sommano tutti i crediti dei votanti (escludendo gli eventuali astenuti non espressi) e se più del 50% in valore ha detto sì, la proposta è approvata. Se ci sono classi, vale la regola generale (maggioranza del totale) e in presenza di classi dissenzienti si applicano le regole del cram-down (vedi oltre). Dunque, il concordato può passare anche se qualche classe ha detto no, purché almeno un’altra classe con diritto di voto abbia detto sì e i dissenzienti siano trattati equamente secondo la legge (cioè prendano almeno quanto il fallimento, ecc.). Esempio: 5 classi, 4 approvano e una no; se quella no comunque riceve >= il liquidation value, il tribunale può omologare nonostante il dissenso (questa facoltà di cram-down è stata introdotta per recepire la Direttiva Insolvency). La Cassazione a Sezioni Unite ha avallato questo meccanismo (SU 8500/2021) per i concordati in continuità, legittimando l’omologa malgrado il dissenso di una classe, a certe condizioni.

Terminata la votazione, se la maggioranza richiesta c’è, il tribunale procede all’omologazione. Se manca, dichiara il concordato non approvato e normalmente apre contestualmente la liquidazione giudiziale (fallimento). In sede di omologa, il giudice esamina eventuali opposizioni (creditori dissenzienti possono opporsi lamentando ad es. violazioni di legge o convenienza insufficiente) e verifica d’ufficio la legalità e fattibilità del piano. Non può sindacare il merito economico (scelte imprenditoriali), ma deve controllare che il piano non sia manifestamente inattuabile o contrario a norme (ad esempio assicurandosi che i privilegiati dissenzienti prendano almeno il valore di perizia dei loro beni, che i chirografari in liquidatorio abbiano il 20%, ecc.). Se tutto è a posto, omologa con decreto motivato.

Con l’omologa, il concordato diventa definitivo e vincola tutti i creditori anteriori. L’azienda procederà all’esecuzione del piano sotto il controllo, di solito, del commissario giudiziale (che post-omologa assume il ruolo di Liquidatore Giudiziale se il piano prevede liquidazioni, oppure di supervisore in piani in continuità). A completamento, se il debitore è una persona fisica, può chiedere l’esdebitazione per far cancellare eventuali debiti residui non soddisfatti dal piano (ma in genere nel concordato c’è già integrale definizione dei debiti, quindi l’esdebitazione è concettualmente già insita nell’efficacia erga omnes dell’omologa). Se il debitore è una società, a fine esecuzione del piano (specie se liquidatorio) la società viene cancellata dal registro imprese e i debiti insoddisfatti si estinguono con essa.

Effetti del concordato e posizione del debitore

Durante il concordato preventivo, il debitore conserva l’amministrazione dei beni, ma con alcune limitazioni e sotto vigilanza. Si parla di autogestione controllata (debtor in possession). In concreto:

  • Dalla pubblicazione della domanda di concordato, tutti i creditori anteriori non possono iniziare né proseguire azioni esecutive o cautelari sui beni del debitore. È un effetto automatico (un vero e proprio stay generale) che congelando le posizioni evita la corsa al patrimonio e preserva la par condicio. I creditori dovranno presentare le loro ragioni solo nella procedura concordataria.
  • Gli interessi sui debiti chirografari restano sospesi (come in fallimento) fino all’omologa. I contratti pendenti possono proseguire; il debitore può anche chiedere l’autorizzazione a scioglierne qualcuno se oneroso, pagando un indennizzo al contraente (novità introdotta per favorire il risanamento liberandosi da contratti svantaggiosi).
  • Atti di gestione: il debitore compie gli atti di ordinaria amministrazione (gestione corrente) liberamente. Per gli atti di straordinaria amministrazione (vendite immobiliari, pegni, ipoteche, nuova finanza etc.), deve richiedere autorizzazione al giudice delegato o al tribunale, che valuta se l’atto è nell’interesse della massa creditoria ed eventualmente impone condizioni. Ad esempio, un imprenditore in concordato può vendere un macchinario obsoleto solo se autorizzato e di norma depositando il ricavato vincolato per i creditori.
  • Gli amministratori della società debitrice restano in carica ma sottoposti ai doveri di informazione e alla sorveglianza del commissario giudiziale. Devono agire secondo le regole del piano e a tutela del ceto creditorio. In caso di abusi o atti in frode, il tribunale può revocare l’ammissione al concordato e dichiarare il fallimento (es. se scopre occultamenti di attivo, distrazioni, o se il debitore aggravasse il passivo violando i limiti).
  • Il commissario giudiziale è l’organo di controllo: verifica le scritture, chiede chiarimenti al debitore, riferisce al giudice. Redige una relazione particolareggiata per i creditori sulla situazione dell’impresa e sulle cause della crisi, e dà un giudizio sulla fattibilità del piano e sulla sua convenienza rispetto all’alternativa fallimentare. I creditori leggendo la relazione del commissario possono formarsi un’idea più oggettiva su come votare.
  • Non c’è (nel concordato preventivo) spossessamento: diversamente dal fallimento, il patrimonio resta in capo al debitore. Tuttavia, nel concordato liquidatorio spesso il piano prevede la nomina di un liquidatore (che può essere lo stesso commissario o altro soggetto) incaricato di vendere i beni e distribuire le somme secondo il piano. In tal caso, dopo l’omologa, il liquidatore giudiziale subentra nella gestione di quella parte di patrimonio da liquidare.

Per il debitore, il concordato produce diversi effetti positivi (ma anche restrizioni). Tra i vantaggi della procedura di concordato preventivo possiamo elencare:

  • Protezione onnicomprensiva dalle azioni individuali: come detto, il concordato offre un ombrello protettivo completo: nessun creditore può agire separatamente. Questo toglie il fiato sul collo al debitore e consente di lavorare ordinatamente al piano senza il timore di pignoramenti o misure conservative da parte di singoli creditori impazienti.
  • Possibilità di risolvere la crisi in modo unitario: il concordato è lo strumento più ampio e inclusivo: consente di affrontare l’intera massa debitoria con un’unica soluzione omnicomprensiva. Anche situazioni molto complesse, con migliaia di creditori, possono trovare nel concordato una definizione coordinata. Tutti i creditori vengono coinvolti e trattati secondo regole uniformi, evitando disparità di trattamento che esporrebbero a contestazioni. Si superano i problemi del holdout (creditore che non aderisce) perché l’omologa vincola tutti.
  • Vincolatività erga omnes: a differenza di piani e accordi stragiudiziali (che lasciano fuori i dissenzienti), il concordato una volta omologato impone il suo piano a tutti i creditori concorsuali. Ciò significa che anche eventuali oppositori o indifferenti saranno comunque tenuti a subirne gli effetti: ad esempio, un creditore chirografo che abbia votato no a prendere il 30% invece del 100%, se il concordato è approvato dalla maggioranza e omologato, riceverà comunque solo il 30% e dovrà rinunciare al resto del credito. Questa efficacia coattiva è un enorme vantaggio perché evita al debitore di dover inseguire ciascun creditore per convincerlo: basta convincere la maggioranza.
  • Flessibilità in continuità: il concordato offre strumenti per preservare l’azienda: dalla moratoria ai privilegiati, alla possibilità di ottenere finanziamenti prededucibili (il tribunale può autorizzare nuovi finanziamenti durante la procedura, garantendo a chi li concede che verranno rimborsati con priorità su altri debiti se il concordato va a buon fine, o addirittura anche se poi si va in fallimento, entro certi limiti). Inoltre il debitore in concordato può, con autorizzazione, cedere l’azienda o rami d’azienda, stipulare accordi transattivi, sciogliere contratti e affittare l’azienda. Queste leve consentono di ristrutturare attivamente l’impresa (non è solo passiva liquidazione). Si può in sostanza operare un risanamento aziendale vero e proprio sotto l’egida del tribunale, riducendo debito e riorganizzando l’attività.
  • Risoluzione definitiva del debito e fresh start: una volta eseguito il concordato, il debitore persona fisica ottiene l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui) in tempi rapidi – la legge attuale prevede che per il fallito occorrano 3 anni post chiusura, ma per il concordato il discorso è diverso: completato il piano concordatario, i creditori hanno già ottenuto quanto stabilito e nulla più possono pretendere. Quindi di fatto l’esdebitazione è incorporata nell’esecuzione del concordato omologato. Ciò permette al debitore onesto di ripartire con un “saldo e stralcio” generale. Per le società, il concordato può significare la prosecuzione dell’attività con una struttura patrimoniale alleggerita (nel caso di concordato in continuità) oppure la chiusura della società stessa ma senza strascichi per garanti e soci (salvo le garanzie personali, che però a volte i creditori rinunciano a escutere se il concordato le prevede).
  • Possibilità di impiegare risorse terze: nel concordato è abbastanza comune che soggetti terzi (soci, nuovi investitori) apportino risorse fresche per migliorare la soddisfazione dei creditori. Questi apporti, se effettuati in conformità al piano e autorizzati, godono di prededuzione (cioè se poi la società fallisse, quei finanziatori verrebbero rimborsati prima di altri creditori). Ciò incentiva nuovi investimenti. Ad esempio, un socio può capitalizzare la società concordataria per 100, destinati a pagare i creditori al fine di evitare il fallimento, sapendo che se pure il concordato fallisse in seguito, quei 100 gli sarebbero restituiti con privilegio. Questo strumento aiuta a aumentare i recovery dei creditori e a convincerli del piano.

Accanto ai vantaggi, il concordato presenta anche rischi e svantaggi per il debitore:

  • Procedura complessa e costosa: il concordato preventivo è la procedura concorsuale più articolata e onerosa. Prevede organi (commissario giudiziale, giudice delegato), adempimenti formali, predisposizione di documentazione voluminosa (piano dettagliato, relazione attestatore, inventari, elenchi creditori, bilanci). I costi professionali sono elevati: il debitore deve pagare l’attestatore, spesso consulenti legali e finanziari per preparare il piano, e alla fine il commissario e gli altri organi (secondo parametri di legge). Anche le spese di giustizia (marche, contributo unificato) sono significative. Insomma, è un investimento costoso: pertanto va intrapreso solo se ne vale la pena (di solito per aziende di dimensioni medio-grandi o situazioni con molti creditori).
  • Tempi relativamente lunghi: sebbene si cerchi di accelerare, un concordato dura spesso 6-12 mesi solo per arrivare all’omologa, e poi diversi anni per l’esecuzione integrale (specialmente se ci sono vendite immobiliari da fare). Questo periodo prolungato in stato concorsuale può logorare l’azienda (clienti diffidenti, banche che riducono fidi, ecc.). Quindi il debitore sopporta un periodo di incertezza prolungato in cui la gestione è difficoltosa.
  • Perdita di autonomia decisionale: durante la procedura, come visto, il debitore deve operare sotto controllo del commissario e del giudice. Molte scelte strategiche richiedono ok esterni. Sebbene gli amministratori restino, di fatto l’impresa è in amministrazione controllata. Questo può generare lentezze e la sensazione di “perdere il timone” da parte dell’imprenditore.
  • Esito non garantito: il concordato può sempre fallire se i creditori non lo approvano o se il tribunale non lo omologa. Il rischio di un esito negativo è presente e in tal caso il danno può essere grave: la legge prevede che, se il concordato non viene omologato (per bocciatura al voto o per diniego del giudice), il tribunale dichiara contestualmente la liquidazione giudiziale (salvo rare eccezioni). Quindi intraprendere il concordato è come camminare su una fune: se si cade, sotto c’è il fallimento. Ciò è un forte incentivo a presentare solo piani genuinamente fattibili e onesti, ma rappresenta un rischio.
  • Impatto reputazionale e contrattuale: aprire un concordato è un evento pubblico (iscrizione al registro imprese, comunicati ai creditori). L’azienda viene vista come insolvente dal mercato. Ciò può portare fornitori a interrompere rapporti (se non obbligati a continuarli), clienti a dubitare delle forniture future, banche a revocare affidamenti (spesso scattano clausole di default nei contratti di finanziamento). Insomma, c’è uno stigma non irrilevante. Anche i dipendenti potrebbero temere per i propri posti (anche se la CIGS per concordato in continuità può aiutare, e spesso l’impresa continua l’attività). In sintesi il concordato è un’arma potente ma “rumorosa”: non passa sotto silenzio.
  • Responsabilità penali in caso di abusi: la gestione di un’impresa in concordato è soggetta a potenziali incriminazioni se vengono commessi atti fraudolenti. Esistono reati specifici: bancarotta concordataria (se prima o dopo la domanda di concordato il debitore distrae beni o froda i creditori), reati di falso in attestazioni o documenti, ecc. Dunque l’imprenditore deve stare attentissimo: ogni bugia nel piano, ogni occultamento di attivo o sopravvalutazione artificiosa può sfociare in conseguenze penali severe. In pratica, il concordato impone massima trasparenza; diversamente, oltre a un probabile fallimento, vi sarebbe il rischio concreto di denuncia penale.

Giurisprudenza rilevante

Il concordato preventivo ha generato negli anni una vastissima giurisprudenza, che va ben oltre lo scopo di questa guida. Possiamo tuttavia richiamare alcuni spunti importanti, soprattutto alla luce delle novità del Codice e delle pronunce più recenti fino al 2025:

  • Cram-down fiscale: Storicamente, uno dei nodi era il trattamento dell’IVA e delle ritenute: le norme (art. 182-ter L.F. e ora art. 88 CCII) vietavano di falcidiare IVA e ritenute nel concordato, a meno di pagamento integrale. La Corte di Giustizia UE nel caso Degano (2016) chiarì però che il diritto UE non impedisce tagli di IVA se giustificati in procedure concorsuali. L’ordinamento si è adeguato: oggi è possibile proporre il pagamento parziale dell’IVA in concordato tramite la transazione fiscale, e in caso di dissenso del Fisco il tribunale può omologare ugualmente se quella proposta è almeno pari al ricavabile in fallimento. La Cassazione, Sez. I, 10 marzo 2022 n. 8236 ha confermato questo: il giudice può omologare un concordato nonostante il voto contrario dell’Erario sulla transazione fiscale, applicando l’art. 48 CCII (cram-down) se giudica la proposta conveniente per il Fisco. Ciò ha ridotto il potere di veto del Fisco e risolto tanti casi in cui l’Agenzia rifiutava piani ragionevoli costringendo al fallimento.
  • Classi e cram-down interclassi: Un’altra novità è la possibilità di omologa malgrado il dissenso di intere classi di creditori. Cass. Sez. Un. 13 maggio 2021 n. 8500 (a Sezioni Unite) ha sancito che il tribunale può omologare il concordato in continuità anche se una classe ha votato contro, a condizione che i creditori di quella classe ricevano almeno il pari trattamento di quello che avrebbero in caso di fallimento (liquidazione giudiziale). Questo è un vero overruling rispetto al passato: prima serviva il sì di tutte le classi se costituite. Ora, recependo la Direttiva UE, è ammesso il cram-down interclassi. Il CCII lo codifica: art. 112 CCII (credo) prevede che se almeno una classe di creditori non inferiore ricevente il valore di liquidazione ha accettato, il giudice può imporre il concordato anche alle classi dissenzienti, garantendo comunque che queste non siano trattate peggio di altre di pari rango e che non prendano meno del valore di liquidazione. Questo consente di superare l’opposizione di minoranze organizzate (es. fondi speculativi che acquistano crediti per bloccare il concordato) e premia i concordati in continuità meritevoli.
  • Controllo di fattibilità: Le Sezioni Unite della Cassazione già nel 2013 (sent. 1521/2013) e poi nel 2020 (SU 34447/2020) hanno delineato i confini del controllo giudiziale sui piani di concordato. In particolare, Cass. SU 30 gennaio 2020 n. 34447 ha ribadito che il giudice deve valutare d’ufficio la fattibilità giuridica del piano e l’assenza di manifesta inidoneità sul piano economico, ma non può spingersi a sindacare nel merito le scelte imprenditoriali né la fattibilità economica in senso lato. Spetta ai creditori valutare la convenienza economica. Dunque il giudice può bocciare un concordato se ad esempio prevede una condotta contraria a norme imperative, o se è palesemente irrealistico (numeri fantasiosi) ma non può dire “questo piano non mi convince sul mercato, meglio fallire”. Questo orientamento, cristallizzato dal CCII, mantiene la linea di separazione: legittimità e fattibilità minima al giudice, convenienza ai creditori.
  • Abuso del concordato e revoca: Giurisprudenza e legge reprimono l’uso strumentale del concordato per procrastinare il fallimento. Ad esempio, presentare concordati in bianco solo per prendere tempo e poi ritirarli può condurre a pronunce di abuso. Cass. SU 7 febbraio 2020 n. 5605 ha affrontato il tema del ritardo colpevole nella richiesta di procedure concorsuali (caso di amministratori che presentano tardivamente la domanda) affermando il principio che il concordato non deve diventare un espediente per aggravare la situazione a danno dei creditori. Inoltre, la legge prevede che se emergono atti in frode ai creditori (es. distrazioni pre-domanda nascoste), il tribunale non ammette proprio il concordato (art. 48 co. 5 CCII). Questo per assicurare che accedano al concordato solo debitori corretti.
  • Rapporti pendenti: sul tema della continuità, una pronuncia importante è stata Cass. Sez. I, 3 marzo 2023 n. 6508, in cui la Corte ha chiarito gli effetti di un successivo fallimento dopo un concordato non omologato: ha stabilito che la sospensione del decorso degli interessi (art. 55 L.F., ora art. 153 CCII) retroagisce alla data della domanda di concordato, non alla dichiarazione di fallimento. Questo perché se il concordato poi sfocia in fallimento, per evitare vantaggi o penalizzazioni, si considera la continuità temporale tra le procedure. È una questione tecnica ma rilevante per il calcolo degli interessi sui crediti.
  • Tutela dell’affidamento dei terzi: un istituto peculiare del CCII è la possibilità di convalidare atti di finanziamento effettuati in esecuzione di un concordato poi risolto. Cass. Sez. I, 14 febbraio 2022 n. 4696 ha precisato che se un concordato viene risolto per inadempimento e si apre il fallimento, questo fallimento “retroagisce” alla domanda di concordato per certi effetti, come la sospensione degli interessi, ma non per altri, come gli atti autorizzati nel concordato che restano validi. Questa e altre pronunce mostrano lo sforzo di bilanciare la tutela dei creditori con la necessità di dare effettività agli istituti del concordato.

Va ricordato infine che il concordato preventivo, pur essendo uno strumento di salvaguardia, non è esente da possibili conseguenze sfavorevoli: ad esempio, se il debitore non rispetta il piano, il concordato viene risolto e su istanza di un creditore o d’ufficio si apre la liquidazione giudiziale. Dopo la risoluzione, i creditori riacquistano le azioni per la parte di credito non soddisfatta e il debitore (persona fisica) non può ottenere esdebitazione per quei debiti non pagati (l’esdebitazione è preclusa se il concordato viene risolto per inadempimento doloso).

Liquidazione giudiziale (fallimento)

La liquidazione giudiziale è il nome che il Codice della Crisi attribuisce a quella che tradizionalmente era la procedura di fallimento. È disciplinata dagli artt. 121 e ss. CCII e rappresenta la procedura concorsuale liquidatoria “classica”, cui si ricorre quando l’insolvenza è conclamata e irreversibile.

Presupposti: il presupposto oggettivo per l’apertura della liquidazione giudiziale è lo stato di insolvenza del debitore, definito come l’incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (art. 121 CCII). L’insolvenza deve essere attuale e non meramente prospettica; può manifestarsi con inadempimenti, protesti, fuga del debitore, chiusura improvvisa dell’attività, ecc. Quanto ai soggetti, la liquidazione giudiziale si applica agli imprenditori “fallibili” (imprese commerciali sopra soglie dimensionali minime) e agli altri soggetti indicati dall’art. 121. Restano esclusi i piccoli imprenditori, imprenditori agricoli, enti pubblici e in generale i soggetti sotto la disciplina del sovraindebitamento. La richiesta può provenire dal debitore stesso (istanza di auto-fallimento), da uno o più creditori, o dal Pubblico Ministero in taluni casi (es. insolvenza manifestatasi in procedure esecutive infruttuose).

Dichiarazione di apertura: la competenza è del tribunale del luogo della sede principale dell’impresa. Il procedimento prefallimentare (oggi di apertura liquidazione giudiziale) prevede la convocazione del debitore per essere sentito. Il tribunale, accertata l’insolvenza e la soggettività fallibile, dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale. La sentenza di apertura ha numerosi effetti: nomina il curatore (che gestirà la procedura), nomina il Giudice Delegato (magistrato che sovrintende alla procedura) e il Comitato dei creditori (organo consultivo di 3 o 5 creditori maggiori). Inoltre, spossessa il debitore dell’amministrazione e disponibilità dei suoi beni (dal momento della sentenza il patrimonio passa sotto controllo del curatore) e impone al debitore obblighi di cooperazione e consegna documenti. Viene ordinata la pubblicazione e l’annotazione della sentenza nei registri e il registro imprese, e la comunicazione ai creditori.

Fase di accertamento del passivo: il curatore invita i creditori a presentare domande di insinuazione entro un termine (generalmente 30 giorni prima dell’udienza di verifica). I creditori insinuano i propri crediti e eventuali diritti reali. Il curatore redige uno stato passivo, il Giudice Delegato tiene l’udienza di verifica e forma lo stato passivo con i crediti ammessi, distinte le varie cause di prelazione (privilegi, ipoteche, pegni). I crediti contestati possono dar luogo a cause di opposizione.

Liquidazione dell’attivo: il curatore predispone un programma di liquidazione (da approvare dal comitato creditori e autorizzato dal GD) dove indica le modalità di vendita dei beni del fallito. Si possono vendere beni mobili, immobili, aziende, crediti, con procedure competitive (aste telematiche, trattative private competitive) volte a massimizzare il ricavato. Nel frattempo il curatore può proseguire temporaneamente l’esercizio d’impresa se utile per la vendita (max per un anno prorogabile a due, in casi eccezionali). Il ricavato delle vendite confluisce nella cassa fallimentare.

Riparto: una volta liquidato un certo attivo, il curatore, col permesso del comitato, effettua riparti parziali ai creditori: distribuisce le somme secondo l’ordine delle cause di prelazione. Prima soddisfa i creditori prededucibili (costi della procedura, finanziamenti autorizzati, ecc.), poi i creditori con garanzia reale (ipotecari, pignoratizi) col ricavato dei beni su cui vantano prelazione, poi i privilegiati generali secondo graduatoria, e infine i chirografari proporzionalmente. In caso di incapienza per i privilegiati, i residui diventano chirografari. Se qualche credito è oggetto di causa, si accantonano riserve. Si fanno quanti riparti parziali possibili e poi un riparto finale a chiudere.

Chiusura e esdebitazione: esaurite le operazioni (attivo venduto, incassi distribuiti), il curatore presenta un rendiconto finale. Approvato, il tribunale dichiara chiusa la procedura. A questo punto, il debitore persona fisica ha diritto (introdotto prima nel 2012 e ora potenziato) all’esdebitazione: la liberazione dai debiti residui non pagati in fallimento. Il CCII prevede che l’esdebitazione scatti automaticamente dopo 3 anni dalla chiusura per il debitore persona fisica meritevole, salvo opposizione di creditori o revoca se emergono elementi di dolo. In pratica, se Tizio è fallito e i creditori hanno avuto il 10%, dopo tre anni dalla chiusura Tizio ottiene la cancellazione del restante 90% dei debiti (tranne alcune eccezioni come debiti alimentari, risarcimenti per fatti illeciti, ecc. che restano comunque dovuti). Questa è una differenza fondamentale col passato: oggi il fallimento non è più una condanna a vita per il debitore onesto, ma un percorso con un fresh start finale abbastanza rapido, in linea col principio europeo della seconda chance.

Per le società, invece, non si parla di esdebitazione in quanto la società una volta liquidata si estingue e i crediti insoddisfatti si estinguono con essa (salvo che vi siano soci illimitatamente responsabili, i quali rimangono obbligati personalmente).

Dal punto di vista del debitore, la liquidazione giudiziale ha conseguenze drastiche. È vero che rappresenta la fine dell’assillo debitorio (perché i creditori possono soddisfarsi solo in quella sede e poi come visto vi è esdebitazione), ma comporta la perdita totale del patrimonio e del controllo dello stesso. Il curatore prenderà possesso di tutti i beni del fallito e li venderà. Il fallito (persona fisica) perde la capacità di disporre dei propri beni, non può aprire conti, ecc. – ha solo il diritto a percepire un assegno di mantenimento eventualmente, se ne ha bisogno per vivere, prelevato dall’attivo, a discrezione del giudice. Inoltre, vi sono conseguenze personali: durante la procedura e per una certa durata dopo, il fallito può subire limitazioni (ad esempio non può ricoprire cariche direttive in società fino all’esdebitazione, salvo autorizzazione).

La liquidazione giudiziale è dunque invasiva e afflittiva. I pochi aspetti positivi per il debitore persona fisica potrebbero essere: la fine delle pressioni individuali dei creditori (tanto sono tutti nel fallimento), la prospettiva dell’esdebitazione e la chiusura relativamente ordinata della vicenda, che pone un punto finale. C’è anche un effetto “catartico”: dopo il fallimento, si volta pagina (mentre nelle soluzioni stragiudiziali, se non efficaci, il debitore poteva rimanere cronicamente esposto ai creditori).

Da segnalare: il CCII prevede anche la figura del “debitore incapiente” che può chiedere l’esdebitazione di tutti i suoi debiti anche senza dare nulla ai creditori, se proprio non ha beni. È l’istituto dell’esdebitazione del debitore meritevole incapiente (art. 283 CCII). Impone alcuni requisiti, tra cui la condizione che nei 4 anni successivi all’esdebitazione se sopravvengono utilità rilevanti (vincite, eredità, ecc.), debbano essere in parte pagate ai vecchi creditori. Ma rappresenta un forte avanzamento verso la misericordia per chi davvero non può pagare nulla. Dunque oggi anche il “fallito nullatenente” può aspirare a una liberazione dai debiti pressoché immediata, se dimostra la propria buona fede.

Riepilogando dal lato debitore, la liquidazione giudiziale è il peggior scenario in termini di perdita di controllo e patrimonio, ma garantisce quantomeno una chiusura definitiva della vicenda debitoria con la pace dell’esdebitazione (per le persone fisiche). A differenza del passato, il fallimento non comporta più l’onta perpetua dei debiti insoddisfatti: l’ordinamento attuale, con un occhio alla riabilitazione, consente al fallito di tornare economicamente attivo dopo pochi anni, libero da debiti pregressi. Naturalmente, ciò non toglie che subisca le altre conseguenze: i suoi beni sono dispersi per pagare i creditori, eventuali fideiussori o coobbligati restano obbligati (l’esdebitazione è personale e non si estende ai coobbligati, art. 279 CCII), e in caso di comportamenti fraudolenti il debitore può incorrere in sanzioni (anche penali, come la bancarotta fraudolenta).


Arrivati a questo punto dell’analisi, abbiamo passato in rassegna tutti i principali strumenti che l’ordinamento italiano offre per prevenire ed evitare l’insolvenza, dal più informale al più drastico: composizione negoziata, piano attestato, accordi di ristrutturazione (e PRO), concordato preventivo (in continuità o liquidatorio) e infine la liquidazione giudiziale. Abbiamo anche accennato alle procedure minori di sovraindebitamento per i soggetti non fallibili. Nella sezione successiva, risponderemo ad alcune domande frequenti per chiarire i dubbi più comuni dal punto di vista del debitore, e infine proporremo delle simulazioni pratiche di casi reali (o verosimili) per illustrare come questi strumenti trovino applicazione concreta.

Domande frequenti (FAQ)

Domanda: Qual è la differenza tra composizione negoziata e concordato preventivo?
Risposta: La composizione negoziata è una procedura volontaria, confidenziale e stragiudiziale, in cui l’imprenditore cerca un accordo con i creditori con l’aiuto di un esperto, ma senza coinvolgere il tribunale nell’approvazione dell’accordo (il tribunale interviene solo per eventuali misure protettive o autorizzazioni). Non c’è voto dei creditori né un piano imposto: tutto dipende dal consenso volontario di ciascun creditore. Il concordato preventivo, invece, è una procedura concorsuale giudiziaria: prevede la redazione di un piano formale, il voto di tutti i creditori (organizzati eventualmente in classi) in una procedura davanti al tribunale e l’omologazione finale da parte di un giudice. In sintesi, la composizione negoziata è più informale e flessibile (non vincola i dissenzienti, ciascun creditore può rifiutare e far fallire le trattative), mentre il concordato è più strutturato e una volta omologato vincolante erga omnes, anche per chi non era d’accordo. Spesso la composizione negoziata serve ad evitare o preparare un eventuale concordato: l’imprenditore prova prima la via negoziale soft e, solo se non ottiene risultati, ricorre al tribunale con il concordato. Un’altra differenza pratica: nella composizione negoziata l’imprenditore mantiene il pieno controllo della sua azienda (l’esperto è solo un facilitatore senza poteri gestori), mentre nel concordato l’impresa opera sotto la vigilanza di un commissario nominato dal tribunale e con gli atti di gestione straordinaria soggetti ad autorizzazione.

Domanda: Il piano attestato di risanamento ha valore legale verso i creditori che non lo sottoscrivono?
Risposta: Il piano attestato di risanamento di per sé non vincola i creditori dissenzienti, perché – ricordiamo – è un atto unilaterale del debitore. La sua efficacia dipende dal fatto che i creditori rilevanti aderiscano volontariamente agli accordi esecutivi del piano. In pratica, un creditore che non abbia sottoscritto alcun accordo rimane libero di agire per il pagamento integrale del proprio credito. Tuttavia, se il piano riesce (cioè se il debitore esegue gli accordi e torna in bonis), alla fine tutti i creditori vengono soddisfatti secondo quanto previsto dal piano – quelli aderenti in modo ridotto o dilazionato come accettato, quelli non aderenti in modo integrale perché così il piano disponeva. Il vantaggio legale del piano attestato sta altrove: risiede nel fatto che gli atti e pagamenti compiuti in esecuzione di esso non possono essere revocati in un futuro fallimento, e certi reati fallimentari non si applicano. In altri termini, il piano attestato protegge il debitore e gli amministratori: se più tardi interviene comunque un fallimento, le transazioni fatte secondo il piano restano valide e il debitore/amministratore non incorre in responsabilità per aver preferito alcuni creditori nell’ambito di quel piano. Ma per obbligare i creditori dissenzienti a una riduzione del credito servirebbe comunque uno strumento concorsuale vero e proprio – ad esempio un accordo di ristrutturazione omologato o un concordato preventivo – perché solo il tribunale può imporre tagli ai creditori che non accettano.

Domanda: Cosa accade se l’accordo di ristrutturazione dei debiti non viene omologato dal tribunale?
Risposta: Se il tribunale rifiuta l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione (ad esempio perché un creditore ha fatto opposizione e il giudice ritiene che l’accordo non assicuri il pagamento integrale ai dissenzienti, oppure perché ravvisa atti in frode alla legge), l’accordo non produce effetti vincolanti erga omnes. In tal caso, di solito si aprono due scenari: (1) il debitore può tentare di modificare l’accordo e presentarlo nuovamente (se c’è tempo e se i creditori disponibili sono disposti a rivedere i termini); (2) oppure – soprattutto se c’è già insolvenza conclamata – i creditori potrebbero chiedere la liquidazione giudiziale (fallimento). Spesso il tribunale, negando l’omologa, evidenzia i punti critici da correggere: se tali punti sono emendabili (es. assicurare meglio il pagamento dei creditori estranei, oppure ottenere l’adesione del Fisco o ricalcolare meglio i valori), il debitore può provare a riproporre l’accordo correggendo il tiro. Se invece il piano appare proprio irrealizzabile o c’è forte conflitto, è probabile che segua l’insolvenza conclamata e quindi il fallimento. Negli anni passati un caso tipico di diniego di omologa riguardava la mancata soddisfazione adeguata dei creditori fiscali: ora, con il meccanismo di cram-down fiscale, il giudice può comunque omologare se il Fisco ottiene almeno quanto otterrebbe dal fallimento. Questo riduce i rischi di rigetto per motivo fiscale. In generale, per il debitore è cruciale preparare bene l’accordo (dati veritieri, rispetto delle regole per i creditori estranei, fattibilità concreta) per evitare il diniego e le sue gravi conseguenze.

Domanda: Nel concordato preventivo, i creditori privilegiati devono essere pagati per intero?
Risposta: In linea di principio, sì, i creditori privilegiati (ipotecari, pignoratizi, privilegi speciali o generali) hanno diritto a essere soddisfatti integralmente nel concordato, salvo che accettino un trattamento inferiore. Detto in altri termini: se il piano di concordato vuole falcidiare un creditore privilegiato – ossia non pagarlo al 100% del suo credito oppure pagarlo in forma dilazionata oltre i limiti di legge – è necessario il suo consenso (espresso tramite voto favorevole della classe di appartenenza) e la verifica da parte di un perito che quel creditore riceva almeno quanto otterrebbe in un fallimento. Vi sono però differenze tra concordato in continuità e liquidatorio:

  • Nel concordato in continuità, sono ammesse moratorie di pagamento per i privilegiati fino a 6 mesi (estendibili a 12) e perfino la falcidia (riduzione parziale del credito), purché due condizioni siano rispettate: (a) un esperto indipendente attesti che ciascun creditore privilegiato falcidiato riceve almeno il valore di realizzo del bene su cui ha prelazione; (b) la classe di quel creditore approvi la proposta. Ad esempio, se una banca ha un’ipoteca su un immobile e il debito è €100 ma l’immobile vale solo €70, il piano può prevedere di pagare la banca soltanto €70 (falcidiando il 30% residuo considerandolo chirografario). Ciò è possibile se un perito attesta che €70 è il presumibile ricavato in caso di vendita forzata in fallimento e se la classe dei creditori ipotecari vota a favore.
  • Nel concordato liquidatorio, la regola è più stringente: i creditori privilegiati devono essere pagati integralmente (100%) salvo rinuncia esplicita alla parte eventualmente non coperta dai beni. Dunque se i beni non bastano, il concordato liquidatorio per definizione non può imporre una falcidia ai privilegiati – a meno che quei creditori accettino volontariamente di rinunciare a parte del loro credito. Per questo spesso nei concordati liquidatori, se un immobile vale meno del mutuo, la banca deve formalmente rinunciare all’eccedenza per permettere l’omologa.
    In sintesi: non è automatico che i privilegiati prendano il 100% in ogni concordato, ma per pagarli meno servono condizioni e consensi specifici. I creditori chirografari, invece, non hanno diritto a una percentuale minima di per sé, salvo appunto il caso del concordato liquidatorio dove la legge impone almeno il 20% (salvo eccezioni per apporto esterno). La tutela forte dunque è prevista per i privilegiati (che hanno garanzie reali o legali) e per i chirografari solo in scenari liquidatori per evitare concordati “troppo al ribasso”.

Esempio pratico: se un immobile aziendale ipotecato vale meno del mutuo residuo, il piano di concordato può prevedere di pagare la banca ipotecaria solo fino al valore stimato dell’immobile (diciamo il 70% del credito) e considerare la restante parte (30%) come chirografaria, falcidiandola poi come tale (magari pagando di quel 30% solo una percentuale). Questa operazione richiede: una perizia che attesti il valore di realizzo (€70 su €100 di credito) e il consenso della classe in cui la banca è inserita. Se la banca (o la maggioranza nella sua classe) vota sì, la banca accetta di fatto €70 come trattamento integrale ipotecario; il 30% residuo confluisce nei chirografi, dove magari riceverà, poniamo, il 20%, cioè €6, per un totale di €76 (meglio del realizzo fallimentare?). Se invece la banca vota no pretendendo €100, il tribunale non può imporle €76 perché verrebbe violata la regola di priorità (a meno che si applichi un cram-down di classi se tutte le altre classi hanno detto sì e la banca comunque prende almeno €70, ma qui entriamo nelle complicazioni del nuovo cram-down interclassi). In ogni caso, di regola i privilegiati devono essere soddisfatti integralmente o convincerli a votare a favore di un trattamento inferiore.

Domanda: Cos’è in concreto il “concordato semplificato” e quando si può usare?
Risposta: Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (previsto dall’art. 25-sexies CCII) è una speciale forma di concordato senza voto dei creditori, utilizzabile solo dall’imprenditore che abbia tentato senza successo la composizione negoziata della crisi. In concreto, se dopo la fase di composizione assistita l’imprenditore non riesce a trovare un accordo con i creditori, entro 60 giorni dalla chiusura di quella procedura può proporre questo concordato semplificato al tribunale. È detto “semplificato” perché semplifica la fase deliberativa: ecco le sue caratteristiche peculiari:

  • Nessuna votazione dei creditori: il piano viene presentato direttamente al giudice. I creditori non esprimono un voto formale; hanno solo la possibilità di depositare osservazioni o opposizioni all’udienza di omologazione.
  • Controllo del tribunale sulla procedura precedente: il tribunale verifica innanzitutto che la composizione negoziata sia stata condotta regolarmente e che l’esperto abbia concluso con una relazione negativa (attestando l’impossibilità di trovare soluzioni migliori). Inoltre valuta la fattibilità del piano liquidatorio proposto: il piano deve prevedere la liquidazione del patrimonio del debitore e la distribuzione ai creditori secondo regole di priorità, in modo equo.
  • Omologa d’ufficio se il piano è meritevole: se il piano è fattibile e rispondente all’interesse dei creditori (nel senso che offre il massimo risultato possibile date le circostanze), il tribunale omologa il concordato semplificato. A supporto della valutazione, è richiesta una relazione di un esperto indipendente (può essere lo stesso esperto della composizione negoziata o un altro nominato) che attesti il valore di liquidazione dei beni e la correttezza della proposta. I creditori, come detto, possono solo presentare osservazioni ed eventualmente opporsi, ma non hanno potere di veto col voto.
  • Rapidità e ruolo attivo del debitore: l’idea è permettere una liquidazione più rapida e gestita dal debitore stesso sotto controllo giudiziario, invece di far partire un fallimento tradizionale. Ad esempio, l’imprenditore può nel frattempo aver individuato un acquirente per l’azienda o per beni importanti, e inserire nel piano la vendita già concordata (massimizzando valore).

In pratica, il concordato semplificato è un “concordato liquidatorio” in cui non c’è il passaggio della votazione, derivante dalla composizione negoziata fallita. Serve ad evitare il fallimento e consentire una liquidazione più rapida e sotto il controllo (ancora) del debitore proponente. Quando usarlo? Quando l’imprenditore, dopo aver esplorato la negoziazione assistita, si rende conto che l’unica soluzione è liquidare tutti i beni, ma vuole farlo in modo ordinato e senza attendere che i creditori ottengano un fallimento giudiziale. Presentando il concordato semplificato, il debitore mantiene un ruolo attivo: diventa il proponente del piano liquidatorio e spesso ha già pronti acquirenti per i beni, così da massimizzare il valore. I creditori sono vincolati dal decreto di omologa del giudice.

Esempio: Alfa Tech S.r.l. (di cui parleremo nelle simulazioni) prova la comp. negoziata e non raggiunge accordo. Entro 60 giorni propone concordato semplificato offrendo di vendere l’intera azienda a un competitor per €1,5 milioni, con cui pagherà i creditori al ~50%. I creditori partecipano all’udienza, alcuni dicono “meglio 50% subito che un fallimento incerto” e magari uno si oppone sostenendo che l’azienda vale di più. Il giudice però valuta che l’offerta è seria, che in un fallimento probabilmente non si sarebbe ottenuto di meglio, e omologa il concordato. A quel punto: l’azienda viene ceduta all’acquirente prescelto, i dipendenti vengono assorbiti, e un liquidatore distribuisce i €1,5 milioni ottenuti a tutti i creditori in percentuale. Alfa Tech così evita il fallimento, i creditori ottengono in pochi mesi metà dei loro crediti (forse più di quanto avrebbero visto in fallimento dopo anni) e la vicenda si chiude.

Il vantaggio per il debitore è la velocità e l’assenza di quorum da raggiungere; il rischio è che i creditori insoddisfatti possano opporsi e far emergere criticità: tuttavia la decisione finale spetta al tribunale, che se ritiene il piano conveniente può confermarlo nonostante le lamentele. Bisogna sottolineare che questo strumento non è accessibile liberamente: bisogna aver esperito la composizione negoziata e aver ottenuto la relazione finale negativa dell’esperto. È quindi un “piano B” per chi ha tentato la via stragiudiziale senza successo.

Domanda: Un imprenditore sovraindebitato (non fallibile) può accedere al concordato preventivo?
Risposta: No. Se un imprenditore non supera le soglie di fallibilità (art. 2 CCII) oppure appartiene alle categorie non assoggettabili (ad es. è un imprenditore agricolo), non può utilizzare il concordato preventivo destinato alle imprese maggiori. Deve invece ricorrere alle procedure di sovraindebitamento predisposte ad hoc nel Capo II del CCII. In particolare, l’equivalente del concordato per un piccolo imprenditore è chiamato oggi concordato minore. Ad esempio, un artigiano sotto soglia o un agricoltore non fallibile non può depositare ricorso per concordato preventivo presso la sezione fallimentare; dovrà presentare una proposta di concordato minore presso la sezione competente per il sovraindebitamento (che spesso coincide con la sezione fallimentare ma segue un iter distinto e semplificato). Il concordato minore richiede anch’esso una maggioranza di consensi: la legge 3/2012 richiedeva il 60% dei crediti chirografari, il nuovo Codice prevede che votino tutti i creditori salvo i privilegiati soddisfatti integralmente e che per l’approvazione basti la maggioranza (probabilmente semplice o forse qualificata, a seconda delle interpretazioni – il CCII su questo ha generato dibattiti, ma l’orientamento è di mantenere un quorum simile al concordato preventivo, se non il 60%). In ogni caso, ha un iter semplificato rispetto al concordato preventivo “grande”: ad esempio, nel concordato minore normalmente non c’è un commissario giudiziale nominato di default, bensì l’OCC (Organismo di Composizione della Crisi) assiste il debitore e funge da attestatore e controllore. Inoltre non interviene il PM, e ci sono meno formalità.

Allo stesso modo, un consumatore persona fisica (non imprenditore) non può accedere al concordato preventivo né al concordato minore: per lui c’è l’altra procedura dedicata, cioè il piano di ristrutturazione del consumatore (ex piano del consumatore). Quindi la regola è: debitori non fallibili usano gli strumenti di sovraindebitamento (piano del consumatore, concordato minore, liquidazione controllata); debitori fallibili usano concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, ecc..

C’è però una eccezione interessante: l’imprenditore agricolo, pur non fallibile, può utilizzare gli accordi di ristrutturazione dei debiti ordinari (art. 57 CCII) perché il Codice lo consente espressamente. Quindi un grosso agricoltore indebitato potrebbe fare un accordo ex art. 182-bis (oggi 57 CCII) con le banche, ma non potrebbe fare un concordato preventivo. Se quell’accordo poi fallisce, l’imprenditore agricolo non andrà comunque in fallimento (liquidazione giudiziale), ma in liquidazione controllata (procedura liquidatoria per non fallibili). Questo particolarissimo incrocio deriva dal fatto che il Legislatore ha voluto estendere alcuni strumenti anche agli agricoli, che storicamente erano esclusi solo dal fallimento ma potevano beneficiare di accordi stragiudiziali.

Domanda: Quali debiti si possono falcidiare (ridurre) nelle procedure di sovraindebitamento? Ad esempio, si possono ridurre i debiti verso Agenzia delle Entrate?
Risposta: Nelle procedure di sovraindebitamento (piani del consumatore, accordi di composizione ora chiamati concordati minori), tutti i tipi di debito possono essere ristrutturati, incluse le cartelle esattoriali per tasse e contributi, con poche eccezioni. In passato c’erano limiti stringenti sulla falcidia di IVA e ritenute fiscali (non potevano essere toccate), ma tali limiti sono stati superati: oggi il debitore può proporre il pagamento parziale di IVA e altre imposte sia nel piano del consumatore sia nel concordato minore, attraverso la cosiddetta transazione fiscale. L’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali partecipano come creditori: nel concordato minore hanno diritto di voto (di solito esprimono parere tramite l’Avvocatura dello Stato); nel piano del consumatore non votano ma possono presentare opposizione. Il giudice può comunque omologare anche in caso di loro dissenso, a condizione che la proposta verso il Fisco sia almeno pari a quella ottenibile in una liquidazione e che i creditori in generale traggano un beneficio ragionevole. Ad esempio, un debito IVA di €50.000 può essere proposto pagato al 20% (€10.000) se in caso di liquidazione il Fisco non prenderebbe nulla – il giudice può approvare tale falcidia forzando il dissenso del Fisco, applicando il cram-down fiscale.

Le eccezioni riguardano debiti di natura personale non eliminabili: non si possono falcidiare o cancellare in alcun modo debiti per mantenimento familiare, alimenti, risarcimenti da illecito con sentenza penale (ad es. multe per reati) – questi rimangono dovuti per intero anche dopo la procedura, non rientrano nell’esdebitazione. Ma i debiti tributari e contributivi, sì: rientrano e possono essere ridotti o dilazionati come gli altri. Naturalmente occorre includerli nella procedura e seguire le regole: ad esempio, nel concordato minore serve il voto favorevole se si offre meno del 100% a un creditore privilegiato o se si chiede lo stralcio di sanzioni e interessi; nel piano del consumatore bisogna dimostrare che il Fisco non viene trattato peggio degli altri e che il sovraindebitato non ha colpe gravi (meritevolezza).

La Corte Costituzionale e la Cassazione hanno ormai consolidato la legittimità di falcidiare l’IVA nelle procedure concorsuali minori. Ad esempio, la Corte Costituzionale, 22 ottobre 2020 n. 195 ha dichiarato illegittime alcune norme della L.3/2012 nella parte in cui non consentivano la falcidia dell’IVA nel piano del consumatore, aprendo quindi la strada a trattare anche quell’imposta. Allo stato attuale, dunque, , i debiti verso Agenzia Entrate, INPS, ecc. possono essere ristrutturati anche per i piccoli debitori: se il piano viene omologato, si pagherà la quota stabilita e il resto verrà stralciato definitivamente con l’omologa.

Domanda: Dopo una liquidazione giudiziale o una liquidazione controllata, il debitore è libero dai debiti?
Risposta: Sì, potenzialmente. Sia la liquidazione giudiziale (ex fallimento) sia la liquidazione controllata del sovraindebitato prevedono la possibilità per il debitore persona fisica di ottenere l’esdebitazione, ossia la cancellazione dei debiti rimasti insoddisfatti. Nel fallimento, dal 2012 in poi è previsto questo beneficio su istanza; il Codice della Crisi lo rende ancora più agevole: decorso un certo periodo dalla chiusura (3 anni), il debitore persona fisica ottiene di diritto l’esdebitazione dei debiti residui, salvo revoca se emergono frodi. Nella liquidazione controllata (procedura per i non fallibili), l’art. 282 CCII prevede in modo analogo che il debitore persona fisica è esdebitato di diritto a fine procedura, salvo opposizione dei creditori se il debitore ha tenuto comportamento in malafede o frodatorio.

In pratica, se il debitore ha agito lealmente, alla fine della procedura viene liberato dai debiti residui. Ad esempio: un piccolo imprenditore subisce una liquidazione controllata, i creditori ottengono il 10% di soddisfazione, lui perde tutti i suoi beni. A procedura chiusa, il restante 90% di debiti viene cancellato – i creditori non possono più pretenderlo – e lui può ricominciare senza pendenze. Bisogna fare attenzione che l’esdebitazione non si applica alle società (perché una volta liquidate si estinguono e i crediti insoddisfatti muoiono con esse) né ad alcuni debiti di natura personale “imprescrittibili” (obblighi di mantenimento, alimenti, debiti derivanti da dolo, multe penali, ecc., che restano comunque dovuti – non rientrano nell’esdebitazione).

Ma, ad eccezione di queste categorie, i debiti civili e commerciali, fiscali, bancari ecc. , vengono spazzati via. Nel nuovo Codice esiste persino l’esdebitazione del debitore incapiente: un debitore persona fisica, onesto, che non ha nulla da offrire ai creditori, può chiedere di essere liberato dai debiti anche se paga zero, a condizione di sottostare per 4 anni a un monitoraggio sulle eventuali sopravvenienze (se gli arriva qualche eredità o vincita, deve in parte darla ai vecchi creditori). Questo meccanismo – innovativo – consente il fresh start anche a chi è completamente privo di risorse, in un’ottica di dare una seconda chance e non mantenere indebitate a vita persone che non possono oggettivamente rimborsare.

Quindi, la risposta è: dopo la procedura concorsuale, il debitore persona fisica onesto è di norma libero dai debiti residui, può beneficiare di un nuovo inizio (fresh start). Viceversa, se il debitore ha tenuto comportamenti fraudolenti o gravemente colposi, il giudice può escludere o revocare l’esdebitazione (non si premiano i disonesti). Da notare infine: l’esdebitazione è personale per il debitore – cioè libera solo lui; i garanti e coobbligati dei debiti restano obbligati. Ad esempio, se Caio era garante, i creditori possono ancora agire contro di lui anche se Tizio debitore principale è stato esdebitato.

Domanda: Quale procedura conviene di più a un imprenditore in crisi?
Risposta: Non c’è una risposta univoca, dipende dal caso concreto (tailor-made). In generale, si può delineare una sorta di gerarchia di convenienza, dal punto di vista del debitore, partendo dagli strumenti meno invasivi verso quelli più drastici:

  • Se l’azienda ha prospettive di recupero e il debitore vuole conservarla: conviene iniziare con gli strumenti meno invasivi e più riservati. Dunque: composizione negoziata e piani attestati, cercando un accordo stragiudiziale con i principali creditori. Questi strumenti lasciano il controllo al debitore e non attivano procedure pubbliche, evitando lo stigma iniziale. Si tengono come “asso nella manica” le procedure pesanti come il concordato solo se la via morbida fallisce. In pratica: prima provare l’allerta e la negoziazione volontaria; solo se non funziona, si passa al giudiziale.
  • Se l’azienda è in crisi ma ancora risanabile con un taglio del debito e magari nuovo apporto di risorse: il concordato preventivo in continuità è lo strumento più potente, perché permette di ristrutturare i debiti mantenendo l’impresa in vita e vincolando anche i creditori dissenzienti. Tuttavia è costoso e lungo, quindi va scelto se ne vale la pena – tipicamente per aziende di dimensioni significative, con molti creditori eterogenei, dove una soluzione negoziale privata non regge. Se l’impresa è piccola e non fallibile, l’analogo è il concordato minore (che però implica cercare il voto dei creditori, quindi se possibile un piccolo imprenditore può anche preferire direttamente il piano del consumatore se i debiti sono per lo più personali, ma supponiamo un caso di PMI sotto soglia: lì c’è il concordato minore come procedura strutturata con voto).
  • Se il problema è principalmente di debito finanziario (es. troppi debiti bancari) e serve rinegoziarlo con le banche, un accordo di ristrutturazione può essere preferibile al concordato: ha meno pubblicità, è più veloce, e costa meno. Ad esempio, se ho poche banche e posso offrire di pagarle al 40%, posso cercare un accordo ex art. 182-bis (oggi 57 CCII) invece di un concordato che coinvolgerebbe anche altri creditori. Con l’accordo raggiungo il 60% di consenso e ottengo l’omologa, risolvendo la situazione senza passare per il voto di fornitori e procedure complesse.
  • Se la crisi è talmente avanzata che l’unica è liquidare i beni: paradossalmente, prima lo si fa, meglio è. Cioè conviene il prima possibile attivare una liquidazione ordinata: o tramite un concordato liquidatorio (se l’azienda è di grandi dimensioni e fallibile, e magari permette di vendere l’azienda in blocco meglio che in fallimento), oppure tramite la liquidazione controllata (se è una piccola impresa non fallibile). L’importante è evitare di accumulare ulteriori danni. Ad esempio, se l’imprenditore vede che non potrà salvare l’azienda, potrebbe essere meglio che chieda egli stesso la liquidazione giudiziale (o controllata) e collabori col curatore per vendere i beni e poi chiedere l’esdebitazione, piuttosto che lasciare aggravare il dissesto e arrivare a un fallimento su istanza dei creditori in condizioni peggiori. Insomma, quando non c’è nulla da fare per salvare, conviene arrendersi presto e passare alla pulizia, per potersi ricostruire più rapidamente (il nuovo codice incentiva la tempestività anche qui: un debitore che chiede presto la propria liquidazione e collabora lealmente viene premiato con esdebitazione rapida; chi fa danni ritardando rischia sanzioni e perdita di benefici).
  • Per il consumatore privato (persona fisica non imprenditore): di solito conviene provare il piano del consumatore perché non necessita del consenso dei creditori e permette di conservare i beni se il piano è sostenibile. La liquidazione del patrimonio personale (perdere la casa, l’auto, etc.) è l’ultima spiaggia. Quindi tipicamente: prima cercare un piano (magari con l’aiuto dell’OCC si propone di pagare una parte dei debiti in 5–7 anni in base al reddito disponibile), se non fattibile (perché non c’è proprio reddito sufficiente) allora procedere con la liquidazione controllata o, se proprio nulla, chiedere l’esdebitazione del debitore incapiente. In sostanza, per il consumatore: prima opzione è il piano, seconda la liquidazione (o l’esdebitazione diretta se proprio nullatenente).

In termini di beneficio netto per il debitore: le procedure concorsuali (concordati, liquidazioni) portano alla esdebitazione – cioè alla pace totale dai debiti – ma a costo di sacrifici maggiori (perdita di controllo, spesso perdita del patrimonio, costi elevati). Le procedure negoziali (piani, accordi) mantengono più controllo e flessibilità, e spesso conservano meglio il patrimonio, ma se falliscono fanno perdere tempo e potenzialmente erodono la fiducia dei creditori. Quindi, un imprenditore dovrebbe farsi assistere da esperti e valutare: ho tempo e possibilità di negoziare privatamente? Ho il consenso di alcuni creditori chiave? – allora provo comp. negoziata, accordo o piano attestato. Se invece il tempo stringe, i creditori mi aggrediscono e serve congelare subito la situazione – allora il concordato (o eventualmente il PRO) è preferibile perché offre protezione immediata e risultati vincolanti.

Una regola d’oro è quella già menzionata: prima si usa l’allerta e la negoziazione, poi – se necessario – si passa al giudiziale. E mai aspettare troppo: il Codice insiste molto sulla tempestività. Molte sentenze, tra cui Cass. SU 5605/2020, condannano l’abuso di ritardare fino all’insolvenza irreversibile. In altre parole, ogni soluzione ha più chance di successo se attivata quando la situazione non è disperata. Se si arriva col fiato corto perfino al concordato, è probabile che pure quello fallisca. Quindi la prontezza nel riconoscere la crisi e agire è fondamentale.

In pratica: conviene la procedura che massimizza la soddisfazione ai creditori compatibilmente col salvataggio dell’impresa, perché così sarà più facile da approvare e meno traumatica per il debitore. Se l’impresa non si salva affatto, allora conviene quella che chiude prima la vicenda (liquidazione concorsuale con esdebitazione) in modo che il debitore possa voltare pagina e ripartire. Insomma, scegliendo tra le opzioni, il debitore deve bilanciare: salvaguardia dell’azienda (se possibile) vs liberazione personale dai debiti. Il tutto calibrato sulle dimensioni e sulle circostanze specifiche.

Simulazioni pratiche

Per comprendere meglio il funzionamento concreto degli strumenti trattati, ecco tre casi pratici ipotetici che illustrano come un debitore può affrontare la crisi applicando le varie soluzioni a disposizione. Si tratta di scenari semplificati ma realistici – basati su situazioni tipiche – con indicazione del percorso seguito e dell’esito finale.

Caso 1: Impresa agricola in crisi trova un accordo di ristrutturazione

Scenario: La società agricola Fattoria Verde S.r.l. (azienda agricola familiare) ha accumulato debiti per circa €500.000. In particolare: €300.000 verso la banca (mutui e scoperti di conto), €100.000 verso fornitori di mangimi e attrezzature, e €100.000 verso l’Agenzia delle Entrate (IVA e contributi previdenziali arretrati). Negli ultimi due anni l’azienda ha sofferto per eventi avversi (maltempo, crollo dei prezzi dei prodotti agricoli), ma ha ancora buone prospettive di mercato se riesce a ridurre l’indebitamento e ristrutturare i finanziamenti. Poiché un’impresa agricola non può essere dichiarata fallita, la società vuole evitare la liquidazione coatta amministrativa (riservata alle grandi imprese agricole cooperative) o la mera cessazione, e cerca uno strumento per risolvere la crisi in modo negoziato.

Soluzione scelta: Accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 CCII (il cosiddetto accordo 182-bis). La società agricola, pur non soggetta a fallimento, può accedere agli accordi di ristrutturazione ordinari grazie alla norma che lo consente agli imprenditori agricoli. I soci decidono di rivolgersi a un Professionista OCC per predisporre un piano di risanamento e negoziare con i creditori. L’idea di fondo: chiedere alla banca una riduzione del debito e una lunga dilazione, offrire ai fornitori un pagamento parziale su un paio d’anni e proporre al Fisco una transazione sul debito IVA e contributivo.

Azioni intraprese:

  • Viene elaborato un piano di ristrutturazione sostenibile: Fattoria Verde propone di pagare il 60% del debito totale (€300.000 su 500.000) in 5 anni, così suddiviso: alla banca il 50% del dovuto (quindi €150.000 su 300.000) in 5 anni, in cambio di mantenere aperte le linee di credito per permettere la continuità; ai fornitori il 40% (quindi €40.000 su 100.000) in 2 anni; all’Erario il 30% (quindi €30.000 su 100.000) in 5 anni, con stralcio di sanzioni e interessi. Queste percentuali sono calibrate sulla base di un business plan che mostra come, ridotti gli oneri finanziari, l’azienda possa generare utili di circa €60.000 l’anno da destinare ai creditori.
  • Si apre la trattativa con i principali creditori, assistita dall’esperto OCC (che qui funge da mediatore e attestatore del piano): l’azienda contatta in primis la banca (creditore principale, 60% del debito) per sondare la disponibilità. La banca è consapevole che se la Fattoria Verde chiude, probabilmente realizzerebbe poco dall’eventuale vendita dei terreni agricoli all’asta. Dopo vari incontri, la banca accetta in linea di massima la proposta: preferisce incassare il 50% in 5 anni piuttosto che affrontare un’incognita in tribunale (anche perché come credito agrario non c’è un fallimento, ma rischierebbe un lungo recupero sui beni agrari dal valore incerto). I fornitori, trattandosi per lo più di partner locali interessati a mantenere il cliente, si dicono disposti al 40% (magari continuando a fornire beni all’azienda con pagamento corrente, pur scontando il pregresso). L’Agenzia delle Entrate inizialmente respinge l’idea di uno stralcio, ma la società presenta un’istanza di transazione fiscale evidenziando che, in caso di liquidazione controllata (cioè chiusura dell’azienda), il Fisco probabilmente non otterrebbe nulla, perché i terreni sono ipotecati dalla banca e i macchinari agricoli sono di scarso valore. Questo argomento fa sì che l’AdE si mostri propensa ad un accordo per incassare almeno €30.000 (il 30%) dilazionato.
  • Raggiunti questi accordi informali, la società deposita in tribunale la richiesta di omologa dell’accordo di ristrutturazione, allegando il piano e le adesioni firmate: la banca (che rappresenta il 60% del debito totale) e i fornitori (che rappresentano un altro 20%) hanno firmato. In totale l’80% dei crediti ha aderito. L’Erario formalmente non firma, ma non si oppone alla transazione fiscale presentata contestualmente.

Esito:

  • Omologazione del tribunale: trascorsi i termini di legge, nessuna opposizione rilevante viene presentata (l’Erario non si oppone perché la convenienza per esso è stata dimostrata; un fornitore minore non aderente con un credito esiguo non contesta, anche perché il piano prevede di soddisfare integralmente i piccoli creditori estranei in tempi brevi). Il tribunale verifica che i creditori estranei sono trattati a norma di legge (nel caso, restano solo pochi fornitori minori che verranno pagati al 100% entro 120 giorni dall’omologa, come prevede l’art. 57 CCII) e che il piano è fattibile, sulla base dell’attestazione OCC. Quindi omologa l’accordo di ristrutturazione dei debiti. Ciò rende l’intesa vincolante anche per i creditori eventualmente dissenzienti (in questo caso non ce ne sono di peso, ma se ci fossero, sarebbero comunque tenuti a rispettare i termini dell’accordo omologato).
  • Esecuzione: la società agricola continua regolarmente l’attività. Con l’alleggerimento del servizio del debito (meno rate e interessi grazie al taglio concesso), torna presto in utile operativo. Essa paga puntualmente le rate concordate con i creditori. In due anni i fornitori vengono saldati al 40% (il restante 60% è stralciato). In cinque anni la banca riceve i €150.000 previsti e il Fisco €30.000 – dopodiché i residui crediti vengono cancellati per effetto dell’accordo omologato.
  • Follow-up: l’azienda, liberata da gran parte del debito, può investire in nuove tecnologie agricole e migliorare i margini. I rapporti con la banca normalizzati le consentono di ottenere nuovi finanziamenti per la crescita (gradualmente, dopo aver adempiuto all’accordo). Dal punto di vista legale, l’accordo di ristrutturazione concluso ed eseguito ha evitato qualsiasi procedura concorsuale: la Fattoria Verde prosegue la propria attività normalmente. I creditori hanno ricevuto più di quanto avrebbero preso se l’azienda fosse collassata – la banca, in particolare, avrebbe forse incassato il 40% vendendo all’asta i terreni (non più di €120.000), mentre col piano ne ha ottenuti 50% (150.000) e ha mantenuto la cliente.

Commento: Questo caso illustra come un’impresa agricola, non fallibile, possa utilizzare efficacemente lo strumento dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Ha beneficiato della flessibilità di poter trattare diversamente con vari creditori (non c’è la rigida par condicio di un fallimento: fuori dall’omologa ogni creditore può accettare condizioni ad hoc) e di un intervento mirato del tribunale solo per ratificare l’accordo raggiunto. Elemento cruciale è stato mostrare convenienza comparativa: ogni creditore ha compreso che l’accordo gli dava di più rispetto allo scenario di liquidazione disordinata (che per un’agricola non fallibile sarebbe stata la liquidazione controllata volontaria). Inoltre si nota l’utilità del cram-down fiscale: l’accordo è stato omologato anche se l’Erario non aderiva formalmente, poiché il giudice ha valutato che la sua soddisfazione fosse comunque adeguata rispetto alle alternative. In conclusione, la Fattoria Verde ha evitato la cessazione dell’attività e il dissesto totale grazie a una soluzione concordata e sostenibile: i creditori principali hanno accettato un sacrificio perché confidavano nel recupero dell’impresa (ben assistita dall’OCC) e perché il piano era credibile, mentre la società ha potuto continuare a operare e a generare valore per onorare l’accordo.

Caso 2: Persona fisica sovraindebitata ottiene un piano del consumatore

Scenario: Il signor Mario Rossi è un impiegato 45enne con un reddito netto di circa €1.800 al mese. Negli anni scorsi ha contratto vari prestiti personali e utilizzato carte di credito revolving per far fronte a spese impreviste (cure mediche e sostegno ai genitori anziani). Inoltre, a seguito di un divorzio, deve pagare un piccolo assegno di mantenimento. Ora ha cumulato circa €50.000 di debiti: restano €20.000 di finanziamenti con finanziarie, €10.000 di utilizzo carta revolving (a tassi elevati), €15.000 di debiti con l’Agenzia delle Entrate (tra vecchie cartelle per imposte e qualche multa) e €5.000 di bollette arretrate. Mario paga €600 di affitto e ha spese fisse mensili (utenze, alimentari, trasporti) per ~€800. Dunque, gli resterebbero teoricamente €400 al mese per i creditori, che però non bastano a coprire nemmeno gli interessi sui debiti. È chiaro che, da solo, non riuscirà mai a rimborsare i €50.000 interamente, se non in decenni. Mario vuole evitare il pignoramento del suo stipendio, che diversi creditori minacciano, e risolvere la sua situazione debitoria.

Soluzione scelta: Piano di ristrutturazione del consumatore (ex “piano del consumatore” della L.3/2012). Mario si rivolge all’OCC (Organismo di Composizione della Crisi) della sua provincia. L’OCC analizza la sua situazione, verifica che Mario è un “consumatore” meritevole (si è indebitato per ragioni di necessità, non per eccessi voluttuari o colpa grave) e lo assiste nel predisporre un piano di ristrutturazione del debito da sottoporre al tribunale.

Azioni intraprese:

  • Viene redatto un piano che tiene conto delle sue effettive capacità di pagamento: Mario propone di destinare €300 al mese per 5 anni (totale €18.000) ai creditori chirografari, ripartiti proporzionalmente tra tutti. Inoltre, offre €2.000 in un’unica soluzione attingendo al TFR maturato (può chiedere un anticipo dal fondo pensione). Quindi, in totale i creditori riceverebbero circa €20.000 su €50.000 di debito, pari al 40% medio. In particolare, il piano prevede di soddisfare:
    • L’Agenzia delle Entrate (Equitalia) con circa il 40% del suo credito (€15.000 → €6.000), che secondo l’OCC è più o meno quanto recupererebbe pignorando una parte dello stipendio per qualche anno (calcolando che, al netto del minimo vitale, potrebbero prendergli al massimo €180/mese, cioè 1/10 dello stipendio, il che in 5 anni farebbe ~€10.000; ma essendoci anche altri creditori in competizione, la soddisfazione effettiva del Fisco sarebbe minore – dunque €6.000 non è irragionevole).
    • I creditori finanziari (banche/finanziarie delle carte e prestiti) vedrebbero una perdita intorno al 60%, recuperando circa il 40%. L’alternativa per loro sarebbe quasi nulla, perché Mario è nullatenente (non ha casa né beni di valore, solo un’auto vecchia) e un pignoramento del quinto stipendio genererebbe €360/mese complessivi per tutti i creditori, e con la concorrenza tra loro i chirografari prenderebbero poco – il piano spiega nel dettaglio questo scenario per dimostrare la convenienza comparativa).
    • Mario si impegna a mantenere uno stile di vita frugale per poter destinare €300/mese ai creditori. Nella relazione dell’OCC viene evidenziato che l’indebitamento è dipeso da fattori meritevoli (spese mediche, assistenza familiare) e non da sprechi, e che Mario non ha compiuto atti in frode (non ha ceduto beni né contratto nuovi debiti dissennati).
  • Il tribunale esamina la proposta. Viene verificato che Mario soddisfa i requisiti soggettivi (consumatore, sovraindebitato, meritevole) e oggettivi. L’OCC, nel frattempo, ha attestato che il piano è fattibile: Mario ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato, quindi le entrate mensili sono stabili; versare €300 su €1.800 gli lascia un margine sufficiente per le spese di base (non compromette il minimo vitale). Inoltre, l’OCC attesta la convenienza per i creditori: nessuno subisce un pregiudizio rispetto all’alternativa del fallimento personale (liquidazione), anzi ottengono forse leggermente di più rispetto al caos di pignoramenti multipli. Per dire: i creditori finanziari prendono 40% mentre in un concorso avrebbero forse visto 10-20% massimo).
  • Nonostante l’Agenzia delle Entrate non abbia formalmente “approvato” di prendere solo €6.000 su €15.000, il tribunale applica il meccanismo di cram-down fiscale e omologa il piano, ritenendo sufficiente quella quota per il Fisco data la situazione. I creditori chirografari (finanziarie) non hanno potere di veto nel piano del consumatore, dunque l’omologa viene concessa se il giudice valuta la meritevolezza e la fattibilità – cosa avvenuta, con parere positivo OCC e nessuna opposizione rilevante (le finanziarie di solito non si oppongono se vedono che il debitore non può dare di più).
  • Per 5 anni Mario vive con i restanti €1.500 al mese, stringendo la cinghia. L’OCC monitora che versi puntualmente i €300 mensili (Mario li deposita in un conto dedicato da cui poi vengono ripartiti ai creditori secondo il piano). Alla fine dei 5 anni, Mario ha pagato €20.000 in totale. Il tribunale emette decreto di attestazione di avvenuto adempimento e dichiara la conseguente esdebitazione: gli ~€30.000 di debiti non pagati sono definitivamente cancellati. Mario potrà ricostruirsi una vita creditizia, ovviamente con più prudenza in futuro (viene anche seguito da un consulente su educazione finanziaria per evitare di ricadere nel vortice del debito).

Commento: Questo caso mostra l’utilità per un privato consumatore del piano di ristrutturazione del consumatore. Mario è riuscito, con l’aiuto dell’OCC e del tribunale, a ridurre il suo debito complessivo di circa il 60% e a dilazionare il resto in 5 anni, così da renderlo sostenibile. Ha evitato il pignoramento del quinto stipendio (che lo avrebbe angustiato per forse 7-8 anni senza risolvere tutto) e soprattutto ha ottenuto la cancellazione definitiva dei debiti residui, potendo ripartire con un bilancio pulito. I creditori, dal canto loro, hanno ottenuto in tempi relativamente brevi ciò che realisticamente Mario poteva dare – e probabilmente in misura non inferiore a quanto avrebbero racimolato inseguendolo con esecuzioni individuali. Notiamo che il tribunale ha potuto forzare il dissenso del Fisco applicando la regola del cram-down fiscale (v. art. 69 CCII) e ha accordato l’omologa valorizzando la meritevolezza di Mario (che non aveva colpe gravi, anzi i debiti erano legati a eventi sfortunati). Questo riflette il cambio di mentalità: oggi l’ordinamento consente anche al consumatore onesto ma sfortunato di uscire dal tunnel dei debiti e riabilitarsi, laddove in passato quei debiti l’avrebbero perseguitato a vita.

Dal punto di vista pratico, Mario ha dovuto rispettare rigorosamente il piano per 5 anni, cambiando abitudini e vivendo in modo austero – ma con la prospettiva concreta di liberarsi dai debiti e senza perdere beni essenziali (non aveva casa, ma se l’avesse avuta avrebbe potuto chiedere di tenerla pagando i creditori con altre risorse, se compatibile). Inoltre, i creditori chirografari nel piano del consumatore non votano, quindi a differenza di un concordato, qui il debitore non rischia bocciature: il fattore chiave è convincere il giudice della propria buona fede e della ragionevolezza della proposta. Nel caso di Mario, i numeri parlavano chiaro e l’esito è stato positivo. Questo scenario è esemplificativo di tante situazioni reali di sovraindebitamento familiare risolte tramite i piani del consumatore.

Caso 3: PMI in pre-insolvenza utilizza composizione negoziata e concordato semplificato

Scenario: La Alfa Tech S.r.l. è una PMI manifatturiera (fatturato €5 milioni, 30 dipendenti) che sta attraversando gravi difficoltà finanziarie. Negli ultimi mesi ha accumulato ritardi nei pagamenti sia ai fornitori sia alle banche: è in crisi conclamata ma non ancora formalmente insolvente (riesce ancora a operare, ma vede arrivare decreti ingiuntivi e richieste di rientro). L’amministratore avverte che, se non ristruttura i debiti e ottiene nuova liquidità, entro pochi mesi l’azienda sarà insolvente e costretta a chiudere. Il passivo scaduto ammonta a €1,2 milioni tra debiti verso 2 banche e diversi fornitori. La società ha però un portafoglio ordini promettente per l’anno successivo, quindi c’è lavoro, ma ha bisogno di tempo e di alleggerimento del debito per poterlo portare a termine. Non vuole licenziare i dipendenti né disperdere il know-how.

Soluzione scelta: Composizione negoziata della crisi come primo passo, eventualmente seguita (in caso di fallimento delle trattative) dal concordato semplificato liquidatorio. In pratica, Alfa Tech attiva la composizione negoziata per verificare se può trovare un accordo stragiudiziale con i creditori (magari ottenere una moratoria sul debito e nuovi finanziamenti per completare le commesse). Se le trattative non dovessero andare a buon fine, userà la via d’uscita predisposta dalla legge: il concordato semplificato, con cui chiudere in modo ordinato la crisi liquidando l’azienda senza passare dal fallimento.

Azioni intraprese nella composizione negoziata:

  • Alfa Tech presenta istanza sulla piattaforma online dedicata, chiedendo la nomina di un esperto indipendente. Allega gli ultimi bilanci, la situazione debitoria dettagliata e un piano di risanamento preliminare. Dichiara di trovarsi in “stato di crisi” (difficoltà finanziaria seria) ma di avere prospettive di recupero se riesce a dilazionare i debiti e ottenere un socio finanziatore. L’istanza viene ammessa e viene nominato un esperto, il dott. Gamma, commercialista con esperienza in ristrutturazioni.
  • L’esperto Gamma studia l’azienda e concorda che c’è margine per salvarla: se i creditori concedono tempo e se entra liquidità fresca, Alfa Tech può evitare il fallimento e continuare. Convoca quindi i principali creditori: le 2 banche (che detengono l’80% dell’esposizione totale) e i 5 fornitori principali (che rappresentano un altro 15%). Prova a negoziare una moratoria di 6 mesi sui pagamenti scaduti e uno stralcio parziale dei debiti (ad esempio propone che banche e fornitori rinuncino al 30% dei crediti e dilazionino il resto in 5 anni). Nel frattempo, l’esperto cerca possibili investitori.
  • Si tengono varie riunioni. Le banche sono titubanti: chiedono garanzie o un piano più robusto. L’esperto suggerisce che un investitore esterno (un fondo locale) potrebbe entrare con capitale fresco di €500.000 se i creditori tagliano del 30% i debiti e dilazionano il resto in 5 anni. I fornitori sono abbastanza aperti all’idea (preferiscono mantenere il cliente vivo e recuperare almeno parte dei crediti nel tempo piuttosto che perderlo). Purtroppo, una delle due banche rifiuta categoricamente di rinunciare a qualunque parte di credito: è già esposta in sofferenza su Alfa Tech e vuole azioni immediate. Dopo 3 mesi di negoziazioni intense, appare chiaro all’esperto che non si raggiungerà un accordo totale: una banca e alcuni fornitori minori restano contrari a qualunque concessione. L’esperto redige quindi la relazione finale: la composizione negoziata non ha portato a un accordo completo. Tuttavia, evidenzia che Alfa Tech ha tentato in buona fede ogni strada e che la proposta finale avrebbe avuto il sostegno della maggior parte dei creditori in valore, ma non dell’unanimità.

Svolta verso concordato semplificato:

  • Appena chiusa la composizione negoziata senza esito positivo, l’amministratore di Alfa Tech decide di usare la chance prevista dall’art. 25-sexies CCII. Entro 60 giorni, deposita in tribunale una proposta di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. Il piano proposto prevede: vendere l’intera azienda Alfa Tech a un competitor (che si è fatto avanti fiutando l’occasione) per €1,5 milioni, e distribuire il ricavato ai creditori chirografari con una stima di soddisfacimento intorno al 50% dei loro crediti. In pratica, la società verrebbe ceduta in blocco a questo competitor (Beta Industry S.p.A.), il quale continuerebbe l’attività assorbendo anche tutti i dipendenti. L’offerta di acquisto era emersa proprio durante le trattative: uno dei fornitori maggiori, preoccupato di perdere il cliente, aveva contattato un competitor di Alfa Tech e stimolato il suo interesse per rilevare l’azienda. Questo scenario consente di dare continuità indiretta all’impresa, sebbene sotto nuova proprietà.
  • Nel concordato semplificato non c’è voto dei creditori, ma essi vengono convocati a un’udienza per discutere la proposta. Alcuni creditori che durante la comp. negoziata erano stati collaborativi (i fornitori principali) sostengono la proposta davanti al giudice, dicendo: “meglio prendere 50% subito che attendere un fallimento incerto da cui forse otterremmo il 30% fra anni”. Una banca (quella che aveva rifiutato l’accordo) si oppone formalmente, sostenendo che l’azienda vale più di €1,5 milioni e che il piano la penalizza (perché il 50% è troppo poco, a suo dire).
  • Il tribunale esamina la situazione: c’è la relazione finale dell’esperto della composizione negoziata che attesta lo stato dell’azienda e le trattative condotte; c’è un’offerta vincolante di acquisto dell’azienda da parte di Beta Industry per €1,5 milioni. Si valuta anche la convenienza per i creditori dissenzienti: il giudice considera che in un fallimento la vendita dell’azienda, frammentata e senza la guida dell’imprenditore, forse avrebbe fruttato meno (perché col fallimento si sarebbero persi clienti, know-how e valore di avviamento).
  • Tenuto conto che la maggioranza dei creditori (per valore) appare favorevole o comunque non contraria, e che la procedura negoziata precedente è stata condotta regolarmente, il tribunale omologa il concordato semplificato. Ciò viene formalizzato con sentenza che rende efficace il trasferimento dell’azienda al competitor acquirente e fissa le percentuali di riparto ai creditori come da piano.

Esito:

  • L’azienda Alfa Tech viene venduta interamente a Beta Industry S.p.A. Beta versa €1,5 milioni sul conto della procedura concordataria, assumendo la proprietà di tutti gli asset di Alfa Tech.
  • Il tribunale nomina un liquidatore giudiziale (spesso lo stesso commissario nominato in sede di omologa o altro professionista fiduciario) che provvede a pagare i creditori secondo quanto stabilito: tutti ricevono circa il 50% del loro credito.
  • Alfa Tech S.r.l., avendo ceduto tutti i beni e l’azienda, di fatto viene chiusa e poi cancellata dal registro imprese (liquidata e priva di attivo).
  • I creditori, anche quelli inizialmente recalcitranti come la banca, ricevono metà dei loro crediti in tempi brevi (pochi mesi). Non sono stati soddisfatti integralmente, ma probabilmente hanno ottenuto di più e più velocemente di quanto avrebbero preso nel fallimento dopo anni (questa fu la valutazione del giudice in sede di omologa, valutazione non contestata con successo da alcun creditore).
  • I dipendenti di Alfa Tech non perdono il lavoro: Beta Industry li assume come parte dell’operazione (questo in un concordato non era obbligatorio, ma era condizione posta dall’acquirente e ben vista dal giudice come salvaguardia della continuità produttiva “indiretta” e dell’occupazione).
  • L’imprenditore di Alfa Tech (titolare delle quote) perde la società, ma evita un fallimento con possibili strascichi personali. Non risultando atti distrattivi a suo carico, non subirà azioni per responsabilità civile o penale ulteriori: anzi, avendo collaborato attivamente nel traghettare l’azienda al nuovo acquirente, la procedura si è chiusa bene. Egli non ha debiti personali residui perché le esposizioni erano tutte della società (e non aveva garanzie personali, ipotizziamo). Potrà magari ricominciare una nuova attività imprenditoriale altrove con la reputazione in parte salvaguardata dal fatto di aver gestito la crisi in modo ordinato invece di finire in fallimento.

Commento: Questo caso esemplifica una situazione in cui, nonostante gli sforzi, una ristrutturazione negoziata non è stata possibile per l’opposizione di alcuni creditori chiave, ma il nuovo Codice ha previsto una exit strategy vantaggiosa per il debitore e tutto sommato anche per la maggior parte dei creditori: il concordato semplificato post composizione negoziata. Alfa Tech ha fatto bene a tentare prima la via della composizione negoziata (se foss’altro perché era condizione per accedere al semplificato); ciò le ha permesso di guadagnare tempo sotto protezione e anche di scoprire un potenziale acquirente per l’azienda durante le trattative. Quando una banca ha bloccato l’accordo stragiudiziale, l’imprenditore ha potuto rapidamente ripiegare sul concordato semplificato, presentando in sostanza al tribunale la vendita già pronta in mano. Il tribunale ha colto la bontà della soluzione (continuità salvaguardata, creditori soddisfatti meglio che in fallimento) e l’ha omologata nonostante il dissenso di un creditore rilevante (ricordiamo che nel semplificato il giudice non è vincolato dal voto, decide in autonomia).

Dal punto di vista del debitore, la scelta del semplificato gli ha permesso di evitare un fallimento potenzialmente disastroso in termini di tempi, costi e responsabilità personali: la crisi si è risolta in pochi mesi e senza l’infamia del fallimento (per quanto la differenza sia sottile, a livello di cronaca e fiducia, dire che “Alfa Tech è stata ceduta tramite concordato” suona meglio di “Alfa Tech è fallita”). Certo, l’imprenditore ha perso la società, ma l’avrebbe persa comunque in fallimento; almeno così l’ha “ceduta” lui attivamente. I creditori dal canto loro hanno beneficiato di un recupero migliore e più celere: la banca dissenziente ha ricevuto €0.5M subito invece che forse €0.4M dopo anni, e i fornitori hanno salvato un cliente e incassato 50% (verosimilmente più che in fallimento). I dipendenti hanno mantenuto il posto, cosa che in un fallimento sarebbe stata improbabile (in caso di esercizio provvisorio incerto o cessazione immediata).

Questo scenario evidenzia come gli istituti introdotti nel 2021-2022 possano fornire soluzioni win-win relative, dove nessuno ottiene il 100% (è pur sempre una crisi), ma il danno complessivo viene minimizzato rispetto alle vie tradizionali. Inoltre, mette in luce il valore della tempestività e della buona fede: Alfa Tech ha agito prima di diventare insolvente irreversibile, e ciò le ha consentito di valorizzare l’azienda (ancora vendibile come business funzionante) invece di arrivare a farla a pezzi in fallimento. L’esperto indipendente ha giocato un ruolo determinante anche nel dare credibilità alla procedura: la sua relazione finale ha convinto il giudice che l’imprenditore aveva operato correttamente e che la proposta finale era la migliore possibile. Infine, notiamo che la Cassazione (Sez. I, 12 aprile 2023 n. 9730) ha confermato che il concordato semplificato, pur atipico, è a tutti gli effetti una procedura concorsuale soggetta alle regole generali, incluse quelle sulla competenza territoriale (legata alla sede dell’impresa): ciò era stato eccepito in alcune opposizioni, ma i giudici hanno ritenuto corretto trattarlo come un concordato a tutti gli effetti sotto il profilo giurisdizionale.


Conclusione: I tre casi pratici presentati – l’azienda agricola risanata con un accordo, la famiglia sovraindebitata salvata con un piano del consumatore, la PMI “salvata a metà” con un concordato semplificato dopo tentativo negoziale – mostrano la gamma di soluzioni disponibili e come possano essere applicate efficacemente in situazioni diverse. Dal punto di vista del debitore, l’importante è muoversi per tempo, valutare con professionisti l’opzione più adatta e non aver timore di usare gli strumenti messi a disposizione dalla legge. Insolvenza non significa più fine inevitabile: con gli strumenti di composizione della crisi, chi agisce con responsabilità può spesso evitare gli esiti peggiori, riequilibrare la propria posizione debitoria e ripartire su basi sostenibili, nell’interesse proprio e dei creditori.

Fonti

Codice Civile e Leggi collegate: art. 2740-2743 c.c. (responsabilità patrimoniale e par condicio), Legge Fallimentare R.D. 267/1942 (per confronti storici), art. 88 TUIR (tassazione sopravvenienze da riduzione debiti nei piani attestati).

D.Lgs. 14/2019 e s.m.i. – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), in vigore dal 15 luglio 2022 (come modificato dai decreti correttivi, tra cui D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024).

D.L. 118/2021 conv. con mod. in L. 147/2021 – Introduzione della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa.

Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio (cd. Direttiva Insolvency) – Principi recepiti dal CCII in materia di ristrutturazioni preventive e insolvenza.

Corte Costituzionale 22 ottobre 2020 n. 195 – Legittimità della falcidia dell’IVA nelle procedure di sovraindebitamento (dichiarata l’illegittimità parziale della L.3/2012).

Corte di Giustizia UE, 7 aprile 2016 (caso C-546/14, Degano Trasporti) – Principio: il diritto UE non osta a riduzioni dell’IVA nei concordati preventivi, se giustificate nell’ambito di procedure concorsuali.

Cass., Sez. Un., 13 maggio 2021, n. 8500 – Concordato in continuità: omologazione possibile anche con classe dissenziente, purché i dissenzienti ricevano almeno il valore di liquidazione.

Cass., Sez. Un., 7 febbraio 2020, n. 5605 – Dovere di tempestiva emersione della crisi e abuso da ritardo nell’accesso a procedure concorsuali.

Cass., Sez. I, 10 marzo 2022, n. 8236 – Transazione fiscale nel concordato: il tribunale può omologare il concordato nonostante il voto contrario dell’Erario, applicando l’art. 48 CCII (cram-down) se la proposta al Fisco è conveniente.

Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2020, n. 34447 – Controllo del giudice sul concordato: valutazione d’ufficio della fattibilità giuridica e della non manifesta inidoneità economica, escluso sindacato sul merito delle scelte imprenditoriali.

Cass., Sez. Un., 12 aprile 2023, n. 9730 – Natura del concordato semplificato ex art. 25-sexies CCII: procedura concorsuale soggetta alle regole generali (competenza territoriale del centro principale d’interessi, ecc.).

Tribunale di Milano, 30 marzo 2023 – Omologazione di accordo di ristrutturazione ex art. 63 CCII con cram-down fiscale: accordato nonostante il dissenso dell’Erario, giudicato soddisfatto almeno come in fallimento.

Tribunale di Udine, 9 marzo 2023 – Omologato un PRO (piano di ristrutturazione omologato) con falcidia di debiti IVA e INPS, ritenendo lecita la deroga alla par condicio nel PRO, purché approvata dalle classi e conveniente.

Tribunale di Bergamo, 21 settembre 2022 – Accordo di ristrutturazione “agevolato” rigettato: il debitore proponeva una moratoria di 6 mesi verso creditori estranei non pagati subito, in violazione dell’art. 61 CCII (che non consente moratorie ai non aderenti).

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