Hai una partita IVA o una società in difficoltà e vuoi evitare il fallimento? Cerchi una soluzione per trattare con i creditori in modo rapido, senza esporre pubblicamente la tua crisi?
Tra gli strumenti previsti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), gli Accordi di Ristrutturazione Agevolati offrono un’opportunità concreta per superare una situazione debitoria complessa, anche senza il consenso di tutti i creditori, e con una procedura più snella rispetto al concordato preventivo.
Cosa sono gli Accordi di Ristrutturazione Agevolati?
Si tratta di uno strumento previsto dall’art. 57 del CCII che consente all’imprenditore di concludere un accordo omologato dal tribunale con i propri creditori, finalizzato a risanare la posizione debitoria e continuare l’attività.
Rispetto agli accordi “tradizionali”, la versione agevolata prevede soglie di adesione più basse e consente effetti più ampi e incisivi, anche verso i creditori non aderenti.
Quali vantaggi offrono?
– È sufficiente l’adesione del 30% dei creditori per ottenere alcune misure protettive
– Con l’adesione del 60% dei creditori, è possibile ottenere l’omologazione anche se altri non partecipano o si oppongono
– Sospensione delle azioni esecutive e cautelari, anche da parte del Fisco
– Possibilità di ottenere l’esdebitazione parziale
– Maggiore riservatezza rispetto ad altre procedure giudiziali
– Riduzione del rischio di responsabilità per l’imprenditore
Quando conviene ricorrere a un Accordo Agevolato?
Questo strumento è ideale se:
– Hai debiti rilevanti, ma non sei ancora in stato di insolvenza irreversibile
– Vuoi evitare l’esposizione di una procedura concorsuale tradizionale
– Hai già ottenuto l’adesione di alcuni creditori, ma non riesci a raggiungere l’unanimità
– Hai bisogno di tempo per riorganizzare l’attività senza subire pignoramenti
Quali debiti si possono ristrutturare?
Tutti i debiti, inclusi:
– Debiti bancari e finanziari
– Debiti verso fornitori e collaboratori
– Debiti tributari e previdenziali (con possibilità di falcidia e pagamento dilazionato, se il Fisco aderisce o non si oppone)
Come funziona la procedura?
- Redazione di un piano di ristrutturazione sostenibile
- Rilascio dell’attestazione di un professionista indipendente
- Raggiungimento della soglia minima di adesione dei creditori
- Deposito presso il tribunale e richiesta di omologazione
- Concessione delle misure protettive, se richieste
- Omologazione finale, con effetti anche sui creditori non aderenti
Come ti aiutiamo noi dello Studio Monardo?
Analizziamo la tua situazione economica, verifichiamo se puoi accedere alla procedura agevolata e ti assistiamo nella redazione del piano, nella trattativa con i creditori e nel percorso di omologazione in tribunale. Ti aiutiamo a uscire dalla crisi con un progetto chiaro e sostenibile.
Hai troppi debiti ma vuoi evitare il fallimento? Vuoi ristrutturare la tua attività e ripartire in modo sicuro?
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Introduzione
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono uno strumento giuridico introdotto dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, “CCII”) per consentire al debitore imprenditore di regolare la propria crisi attraverso un accordo negoziato con i creditori, omologato dal tribunale. In particolare, il CCII ha delineato alcune varianti di tale istituto, tra cui gli accordi di ristrutturazione agevolati disciplinati dall’art. 60 CCII. Si tratta di una forma “semplificata” di accordo di ristrutturazione, caratterizzata da una soglia di adesione dei creditori ridotta (la metà di quella ordinaria) a fronte di specifiche condizioni, pensata per facilitare l’emersione anticipata della crisi e favorire soluzioni concordate rapide dal punto di vista del debitore.
Questa guida offre un’analisi approfondita e aggiornata a giugno 2025 degli accordi di ristrutturazione agevolati dal punto di vista del debitore.
Indice dei Contenuti:
- Inquadramento generale degli accordi di ristrutturazione dei debiti – Definizione e finalità nel CCII; differenze con altri strumenti (concordato preventivo, piano attestato, ecc.).
- Accordo di ristrutturazione agevolato: requisiti e condizioni di accesso – Soggetti ammessi, presupposti oggettivi (stato di crisi o insolvenza), percentuale di adesioni richiesta e condizioni speciali (assenza di moratorie e di misure protettive).
- Procedura di formazione e omologazione dell’accordo agevolato – Fasi dalla negoziazione alla domanda di omologazione in tribunale; documentazione richiesta; ruolo dell’attestatore; termini per le opposizioni e decisione del giudice.
- Effetti dell’omologazione e trattamento dei creditori – Effetti vincolanti sugli aderenti e sui non aderenti; tutela dei creditori estranei (pagamento integrale nei termini di legge); esenzione dagli effetti revocatori; eventuale estensione degli effetti ad alcuni non aderenti.
- Inadempimento dell’accordo e rimedi – Conseguenze in caso di mancata esecuzione del piano: risoluzione dell’accordo, iniziative dei creditori (azioni esecutive, richiesta di liquidazione giudiziale), regime giuridico applicabile e ultime pronunce giurisprudenziali in materia (Cass. SU 4696/2022, Cass. 32996/2024).
- Vantaggi e svantaggi per il debitore – Benefici dell’accordo agevolato rispetto ad altre procedure (rapidità, minor quorum, continuità aziendale, niente commissariamento) e limiti (assenza di stay automatico, necessità di rapporti distesi con i creditori estranei, rischi in caso di dissenso di alcuni creditori qualificati).
- Confronto con accordi ordinari ed efficacia estesa – Tabella comparativa tra accordo “ordinario” ex art. 57 CCII, accordo agevolato ex art. 60 e accordo ad efficacia estesa ex art. 61; cenni sulla convenzione di moratoria ex art. 62 CCII.
- Transazione fiscale e contributiva nell’accordo – L’integrazione dei debiti tributari e previdenziali nell’accordo ex art. 63 CCII; procedure per il “cram down” di Fisco ed enti previdenziali in caso di mancata adesione e recente disciplina transitoria 2023 (L. 103/2023).
- Giurisprudenza rilevante e orientamenti applicativi – Rassegna di sentenze chiave (di legittimità e di merito) sugli accordi di ristrutturazione: controlli del tribunale sull’omologa, trattamento dei creditori privilegiati, effetti del fallimento sopravvenuto, ecc.
- Domande e risposte frequenti – Chiarimenti puntuali sotto forma di FAQ sugli accordi agevolati (chi può accedere, come si ottiene l’omologa, cosa accade ai creditori non aderenti, durata del procedimento, ecc.).
- Esempi pratici (casi simulati) – Due brevi casi di fantasia ispirati a situazioni reali di impresa in crisi: il primo illustra un accordo agevolato concluso con successo e i suoi effetti, il secondo un tentativo non riuscito e le alternative adottate.
Al termine, in Appendice, è riportato un elenco completo delle fonti normative e giurisprudenziali citate nella guida.
1. Inquadramento generale degli accordi di ristrutturazione dei debiti
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ADR) sono accordi negoziali tra un imprenditore in difficoltà e una parte significativa dei suoi creditori, finalizzati alla ristrutturazione dei debiti e al risanamento dell’impresa, che acquistano efficacia vincolante generale a seguito dell’omologazione da parte del tribunale. Introdotti originariamente nell’ordinamento italiano con l’art. 182-bis L.F. (Legge Fallimentare del 1942) e ora disciplinati agli artt. 57-64 CCII, gli ADR rappresentano un’alternativa al concordato preventivo e ad altre procedure concorsuali, privilegiando la soluzione concordata e stragiudiziale, ma con un “sigillo” giudiziale a garanzia della regolarità e dell’efficacia erga omnes dell’accordo. In sostanza, l’imprenditore e i creditori stipulano un accordo di ristrutturazione (es. rinegoziazione di scadenze, riduzione parziale dei crediti, conversione di crediti in strumenti finanziari, ecc.), e successivamente il tribunale – verificati i presupposti – omologa tale accordo, rendendolo efficace anche verso eventuali creditori dissenzienti o non aderenti (nei limiti previsti).
Finalità – Lo scopo degli accordi di ristrutturazione è di consentire all’impresa in crisi di evitare la liquidazione giudiziale (il nuovo termine per il fallimento) tramite una ristrutturazione del debito consensuale e rapida, preservando possibilmente la continuità aziendale. Il legislatore vi ripone particolare fiducia come strumento duttile e appetibile di regolazione della crisi d’impresa nella riforma attuata con il CCII. Basti considerare che alcune norme sugli accordi sono state fatte entrare in vigore anticipatamente (rispetto all’entrata in vigore generale del Codice nel 2022) tramite il D.L. 118/2021, che ha introdotto nella vecchia legge fallimentare l’art. 182-septies (accordi ad efficacia estesa) e l’art. 182-novies (accordi agevolati), proprio per mettere subito a disposizione delle imprese strumenti innovativi in linea con i principi della Direttiva UE 2019/1023 (sui quadri di ristrutturazione preventiva). In tal senso, gli ADR si affiancano alle procedure di concordato preventivo e agli istituti di allerta e composizione negoziata della crisi, offrendo un ventaglio di opzioni di diversa intensità di intervento giudiziale.
Natura giuridica – L’accordo di ristrutturazione è essenzialmente un contratto tra debitore e una certa maggioranza di creditori, con effetti estesi dall’autorità giudiziaria anche ai creditori estranei nei limiti di legge. La sua natura è ibrida: pur nascendo da un consenso privatistico, è inserito in una procedura concorsuale semplificata (segnalata dall’obbligo di omologazione e da taluni effetti legali). La giurisprudenza ha infatti riconosciuto che l’accordo omologato “partecipa della natura di procedura concorsuale” analogamente al concordato, implicando che il tribunale deve verificarne non solo la regolarità formale ma anche la fattibilità sostanziale minima (ad es. la concreta garanzia di pagamento integrale dei creditori non aderenti entro i termini di legge). A differenza del concordato, però, non vi è una votazione organizzata in classi dei creditori né la nomina di organi concorsuali (commissario, ecc.): l’adesione avviene individualmente e volontariamente da parte dei creditori contrattualmente coinvolti, e il controllo del giudice è limitato al rispetto dei requisiti legali e alla verifica della fattibilità e convenienza minima per i creditori estranei.
Requisito di maggioranza – L’art. 57 CCII, riprendendo la disciplina previgente, stabilisce che l’accordo deve essere sottoscritto da creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (percentuale calcolata sul totale dei crediti vantati verso il debitore). Si tratta di una maggioranza qualificata piuttosto elevata, pensata per garantire che l’accordo abbia un ampio consenso. Tuttavia, come vedremo, l’art. 60 CCII introduce una variante (accordo agevolato) in cui questa soglia è ridotta della metà (ossia al 30% dei crediti) quando ricorrono determinate condizioni. L’adesione richiesta concerne i crediti per valore, non necessariamente il numero di creditori, e qualsiasi tipologia di credito (chirografario o privilegiato) può concorrere al computo, purché il creditore aderente accetti di essere parte dell’accordo con un trattamento potenzialmente differente rispetto al diritto originario. Resta ferma la regola che i creditori estranei (che non aderiscono) non possono vedere pregiudicati i propri diritti senza consenso: essi devono essere pagati integralmente entro precisi termini legali (cfr. infra) e conservano il diritto di opposizione in sede di omologa se ritengono l’accordo lesivo.
Soggetti ammessi – Possono accedere agli ADR tutti gli imprenditori commerciali in stato di crisi o insolvenza, inclusi quelli collettivi (società) e gli imprenditori non commerciali come l’imprenditore agricolo, purché non rientrino nella categoria dell’imprenditore minore. Quest’ultimo è definito all’art. 2, co.1 lett. d) CCII (in sostanza, un imprenditore sotto determinate soglie dimensionali di fallibilità); gli “imprenditori minori” restano esclusi dagli accordi di ristrutturazione e usufruiscono piuttosto delle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (oggi riunite nel CCII per i debitori non fallibili). Pertanto, l’accordo di ristrutturazione è destinato alle imprese medio-grandi, mentre per le micro-piccole imprese restano applicabili gli strumenti di sovraindebitamento. Si noti che la legge delega ha voluto estendere la legittimazione agli accordi anche a soggetti prima esclusi come l’imprenditore agricolo, il quale può accedere sia agli ADR (senza limiti di indebitamento) sia, in alternativa, alle procedure di sovraindebitamento. È altresì previsto dal CCII un particolare istituto per i gruppi di imprese (art. 284 co.2) che consente la presentazione di accordi di ristrutturazione di gruppo, coordinando il risanamento a livello consolidato. In generale, l’ADR è uno strumento flessibile che può affiancarsi o preparare altre soluzioni: ad esempio, nulla vieta che l’imprenditore presenti inizialmente una domanda di concordato preventivo “in bianco” e poi converta la procedura in un accordo di ristrutturazione se raggiunge un’intesa con i creditori; oppure, al contrario, che avviate le trattative per un ADR, in caso di mancato accordo possa ripiegare su un concordato preventivo. La scelta dipende dallo stato delle trattative con il ceto creditorio e dal grado di urgenza nel bloccare le azioni esecutive, come si vedrà.
Elementi del piano di ristrutturazione – L’accordo è tipicamente corredato da un piano industriale e finanziario che illustra le misure di risanamento previste (ristrutturazione dei debiti e, se del caso, interventi sul business). Il CCII non predetermina uno schema rigido per i contenuti: gli accordi possono assumere forme molto diverse, da soluzioni semplici (es. moratorie nei pagamenti, riduzioni parziali dei crediti, cessioni di beni non strategici) a schemi più complessi (ristrutturazione dell’assetto societario, aumento di capitale, conversione di crediti in partecipazioni, concessione di nuova finanza, ecc.). L’obiettivo perseguito può essere sia la continuità aziendale (salvataggio dell’impresa) sia, in taluni casi, una migliore realizzazione del patrimonio in chiave liquidatoria rispetto al fallimento (ad es. attraverso la vendita concordata di asset a valori di mercato più alti di quelli d’asta). Ciò che conta è che il piano sia fattibile e che l’accordo assicur(i) ai creditori estranei il rispetto delle condizioni di legge (pagamento integrale nei termini, v. infra). La documentazione da allegare alla proposta di omologazione è indicata all’art. 39 CCII (bilanci ultimi esercizi, stato patrimoniale aggiornato, elenco creditori e debiti, elenco cause pendenti, ecc.), richiamato dall’art. 57 CCII. Inoltre, l’art. 57 impone la relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità economica e giuridica del piano. L’attestatore deve anche certificare espressamente che l’accordo e il piano sono idonei ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini di legge. Tale attestazione indipendente è un presidio fondamentale di credibilità dell’accordo, su cui il giudice fa affidamento per valutare la sostenibilità della ristrutturazione.
Differenze da concordato preventivo – Pur condividendo la finalità del risanamento, l’accordo di ristrutturazione si distingue dal concordato preventivo su vari piani. In sintesi:
- Procedura e controllo giudiziale: il concordato è una procedura concorsuale completa, con apertura formale, nomina di un commissario giudiziale, voto dei creditori suddivisi in classi e possibile omologa anche contro il dissenso di classi di minoranza (cram-down), il tutto sotto supervisione del tribunale. L’ADR invece è snello: non prevede organi della procedura né una votazione collettiva; l’intervento del tribunale si limita all’omologazione finale e, se richiesto, alla concessione di eventuali misure protettive nel corso delle trattative (tranne che negli accordi agevolati, dove il debitore vi rinuncia, come vedremo). Il giudice inoltre non sindaca la convenienza economica dell’accordo per i creditori aderenti – trattandosi di scelte negoziali – ma verifica la legalità e la fattibilità generale, soprattutto la tutela dei creditori estranei. In altre parole, non c’è quel controllo giudiziale sul merito del piano che caratterizza il concordato (nel concordato il tribunale valuta anche la fattibilità e può rifiutare omologa se il piano è irrealizzabile o viola la par condicio).
- Maggiore informalità e riservatezza: l’accordo di ristrutturazione, essendo in larga parte gestito fuori dalle aule giudiziarie, può garantire maggiore riservatezza nella fase delle trattative. Anche l’apertura di una procedura concordataria è di pubblico dominio (registro imprese, etc.) e spesso comporta una perdita di fiducia da parte di clienti e fornitori. L’ADR invece mantiene un profilo più riservato, limitando la pubblicità al momento del deposito dell’accordo per l’omologa. Va notato comunque che l’iscrizione nel registro delle imprese dell’accordo (ex art. 48 CCII) propala la notizia della difficoltà, sebbene in misura minore rispetto ad una procedura concorsuale piena.
- Vincolo per i non aderenti: nel concordato preventivo tutti i creditori chirografari (e anche privilegiati, se falcidiati) sono vincolati dall’esito della votazione a maggioranza (salvo diritto di opposizione limitato). Nell’ADR invece i creditori non firmatari non sono automaticamente coinvolti nell’accordo, se non per gli effetti legali di contorno (ad es. temporanea sospensione azioni esecutive se accordata, esenzione revocatoria sugli atti esecutivi del piano). Per vincolarli occorre o che aderiscano spontaneamente oppure utilizzare strumenti specifici (come l’accordo ad efficacia estesa ex art. 61 CCII, che consente di forzare l’accordo su creditori non aderenti appartenenti a determinate categorie, v. sezione 7). In ogni caso, i non aderenti in un ADR vanno pagati integralmente e alle scadenze pattuite (salvo lievi proroghe consentite ex lege), come condizione per l’omologa. Questa è una differenza chiave: l’accordo di ristrutturazione non può imporre tagli o dilazioni ai creditori estranei senza il loro consenso, diversamente dal concordato che può imporre anche a dissenzienti il trattamento deliberato dalla maggioranza, nei limiti delle cause di prelazione.
- Soglia di adesione e struttura del consenso: il concordato richiede il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto (in valore, e della maggioranza delle classi in caso di cram-down interclasse) per essere approvato. L’ADR invece richiede adesioni contrattuali prima dell’omologa, pari ad almeno il 60% del debito (o 30% nell’ipotesi agevolata). Non c’è una suddivisione obbligatoria in classi (salvo che il debitore stesso, per comodità, strutturi l’accordo prevedendo più accordi con diverse categorie omogenee di creditori – il che rileva per l’efficacia estesa). La soglia è assoluta e non relativa a categorie, sebbene l’art. 61 CCII poi ragioni in termini di categorie per estendere l’efficacia agli estranei di quella categoria.
- Effetti sui coobbligati: nel concordato preventivo i coobbligati (fideiussori, soci illimitatamente responsabili) beneficiano della esdebitazione indiretta (art. 184 L.F. prevedeva la liberazione dei fideiussori per effetto del concordato omologato, salvo patto contrario). Nel CCII, per gli ADR è previsto all’art. 59 che i creditori aderenti siano soggetti all’art. 1239 c.c. e che l’estensione degli effetti ai non aderenti non pregiudica i diritti di questi verso eventuali coobbligati o fideiussori del debitore. Ciò significa che se un creditore non aderente viene comunque soddisfatto parzialmente nell’accordo (perché legato da un’estensione ex art. 61), potrà comunque escutere il fideiussore per l’intero residuo: la liberazione del debitore principale non libera i garanti estranei, a meno che non sia diversamente pattuito. Dunque i garanti non aderenti rimangono obbligati per intero. Questa disciplina è concepita per non danneggiare i creditori non aderenti che abbiano garanzie esterne.
In sintesi, l’accordo di ristrutturazione è uno strumento concorsuale “light” basato sul consenso contrattuale. Il debitore ne trae vantaggio in termini di rapidità e controllo del processo (rimane in possesso dell’azienda, debtor in possession, senza organi terzi), ma deve ottenere il supporto sostanziale dei creditori più rilevanti e non può prescindere dal loro consenso come invece può fare un concordato ben votato. È quindi indicato in situazioni in cui vi sia già un accordo di massima con i principali creditori, mentre in casi di conflitto acceso o coinvolgimento di una pletora di piccoli creditori difficilmente controllabili il concordato può risultare più efficace.
Di seguito, prima di addentrarci nella variante agevolata, proponiamo una tabella riassuntiva comparativa tra le diverse tipologie di accordi di ristrutturazione oggi previste dal CCII:
Tabella 1 – Confronto tra accordo ordinario, accordo agevolato ed accordo ad efficacia estesa
Caratteristica | Accordo di ristrutturazione ordinario (art. 57 CCII) | Accordo di ristrutturazione agevolato (art. 60 CCII) | Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61 CCII) |
---|---|---|---|
Soglia di adesione creditori | Almeno 60% del totale crediti | Almeno 30% del totale crediti (½ di 60%), solo se sussistono le condizioni di cui art. 60 co.1 lett. a) e b) | Rimane 60% (o 30% se combinato con agevolato), in più occorre adesione di ≥75% di una categoria omogenea per estendere l’accordo ai non aderenti di quella categoria. |
Misure protettive temporanee (stay) | Possibili su richiesta durante le trattative e fino all’omologa (art. 54 CCII): sospensione azioni esecutive cautelari per max 120 gg, rinnovabili. | Escluse: il debitore rinuncia a richiederle (condizione obbligata). Durante l’iter agevolato i creditori non aderenti possono quindi agire liberamente (non c’è “ombrello” protettivo). | Possibili nell’ambito dell’accordo base (se non è agevolato) per condurre trattative. Per l’estensione ex art. 61 in sé, la legge prevede specifiche comunicazioni ai creditori non aderenti più che misure protettive (ma durante il periodo tra accordo e omologa i non aderenti possono opporsi ex art. 48). |
Moratoria pagamento creditori estranei (dilazione pagamento non aderenti) | Consentita nei limiti di legge: i creditori estranei devono comunque essere pagati integralmente e al più tardi entro 120 giorni dall’omologa se già scaduti, ovvero entro 120 giorni dalla scadenza naturale se questa è posteriore all’omologa. Questa dilazione breve (max 4 mesi) è tecnicamente ammessa e non considerata inadempimento. | Vietata: il debitore non propone alcuna moratoria ai creditori estranei. Significa che gli estranei vanno pagati alle loro scadenze contrattuali originarie o comunque senza utilizzare la dilazione dei 120 gg. L’accordo agevolato dunque non può prevedere neppure quel differimento brevissimo concesso invece negli accordi ordinari. | Se l’accordo viene esteso a creditori non aderenti di una categoria, non ne può essere modificata la scadenza naturale del credito. In pratica, i creditori “forzatamente” vincolati dall’accordo (perché minoranza in una categoria) dovranno comunque essere pagati alle loro scadenze originarie; può essere falcidiato il loro importo (se l’accordo lo prevede e l’attestatore certifica il rispetto del best interest test), ma non postergato il pagamento oltre la data pattuita inizialmente. |
Ambito soggettivo (chi può usarlo) | Imprenditori in crisi o insolvenza, non “minori”. Include società, ditte, imprenditori non commerciali (agricoli) e gruppi. Esclude consumatori e professionisti non imprenditori (che ricadono nel sovraindebitamento). | Identico a ordinario (nessuna restrizione aggiuntiva se non quella generale). N.B.: L’impresa che abbia già chiesto misure protettive o presentato istanza di concordato con riserva non può accedere alla versione agevolata (vedi condizioni). | Accessibile se l’accordo base è un ADR ex art. 57 (ordinario o anche agevolato). Tipicamente pensato per categorie di intermediari finanziari (banche, obbligazionisti) inizialmente, oggi esteso a qualunque categoria omogenea di crediti (purché il piano non sia liquidatorio per i creditori non finanziari, come richiesto dalla normativa). |
Estensione ai non aderenti | Nessuna estensione automatica: i non firmatari restano estranei, salvo obbligo di pagarli integralmente nei termini di legge. L’omologa produce però effetti protettivi generali (esenzione revocatorie atti esecutivi piano, ecc.). | Come ordinario: nessuna estensione diretta ai non aderenti (salvo eventuale ricorso contestuale all’efficacia estesa). I non aderenti non vincolati restano da pagare per intero e possono agire liberamente (non protetti). L’accordo agevolato può tuttavia essere combinato con la domanda di efficacia estesa ex art. 61, se ne ricorrono i presupposti (cioè se in qualche categoria c’è ≥75% adesione). | Sì, estensione agli altri creditori della medesima categoria non aderenti: per effetto dell’omologa, tali creditori dissenzienti sono vincolati all’accordo come se avessero aderito. Condizioni: il debitore deve aver fornito loro informazioni complete sull’accordo durante le trattative e notifica finale perché possano opporsi; il piano dev’essere omogeneo per categoria e rispettare la parità di trattamento intra-categoria e il principio di soddisfacimento non inferiore all’alternativa liquidatoria per i vincolati. Se omologato, il vincolo si estende ex lege ai non aderenti di quella categoria, limitatamente alla falcidia o ristrutturazione del credito, ma non può imporre una dilazione extra rispetto alla scadenza originaria del credito (come da colonna precedente). |
Transazione fiscale e contributiva | Possibile integrare nell’accordo la transazione fiscale (debiti verso Erario) e contributiva (INPS, etc.) ai sensi art. 63 CCII. Richiede il parere dell’Agente della Riscossione e può prevedere stralcio di sanzioni/interessi. In caso di mancata adesione del Fisco/enti, il tribunale può omologare lo stesso se l’offerta è conveniente rispetto alla liquidazione e altri parametri (vedi sezione 8). | Idem come ordinario. Nell’accordo agevolato il Fisco può essere coinvolto alle stesse condizioni. Attenzione: la soglia 30% può essere raggiunta anche senza l’adesione del Fisco, ma per omologare contro il suo diniego occorre rispettare le condizioni di legge (es. pagamento ≥30% del credito tributario, convenienza, ecc.). | Anche negli accordi ad efficacia estesa può esservi transazione fiscale. L’eventuale estensione ai crediti fiscali non aderenti è però soggetta alla disciplina speciale (il c.d. cram-down fiscale): attualmente (2025) è sospesa l’applicazione automatica della relative priority rule per il Fisco, e si seguono le regole transitorie imposte dalla L. 103/2023 (vedi sezione 8) che valgono in generale per tutti gli ADR. |
(Legenda: “moratoria creditori estranei” indica la dilazione massima di 120 giorni ex art. 57 co.3 lett. a-b. La “convenzione di moratoria” ex art. 62 CCII è un distinto accordo di standstill con creditori finanziari, vedi oltre.)
Come emerge dalla tabella, l’accordo agevolato è una sottospecie che sacrifica strumenti di protezione (stay e piccole dilazioni ai non aderenti) in cambio di un notevole abbassamento del quorum necessario (dal 60% al 30%). L’accordo ad efficacia estesa, invece, è complementare: non incide sulla percentuale complessiva richiesta ma consente di trascinare dentro all’accordo anche alcuni creditori dissenzienti, se appartengono a categorie omogenee dove una forte maggioranza ha aderito. Da notare che la convenzione di moratoria (art. 62 CCII), menzionata nella colonna delle moratorie, è un ulteriore strumento previsto dal Codice: è un accordo di dilazione dei crediti finanziari con possibili effetti di standstill verso la minoranza dissenziente di banche. Tuttavia, nel contesto degli accordi agevolati, l’utilizzo della convenzione di moratoria non preclude l’accesso al regime agevolato (il termine “moratoria” in art. 60 non si riferisce alla convenzione ex art. 62, come chiarito dalla dottrina). Quindi un debitore potrebbe aver siglato una convenzione di moratoria con alcune banche per guadagnare tempo e poi proporre un accordo agevolato senza violare la condizione di cui all’art. 60, purché rinunci comunque a chiedere misure protettive al tribunale.
Nei paragrafi seguenti ci concentreremo sugli accordi di ristrutturazione agevolati, analizzandone dettagliatamente i requisiti, la procedura e gli effetti, e riportando gli ultimi sviluppi normativi e giurisprudenziali.
2. Accordo di ristrutturazione agevolato: requisiti e condizioni di accesso
L’accordo agevolato è disciplinato dall’art. 60 CCII ed è caratterizzato, come visto, da una soglia di adesione ridotta rispetto al regime ordinario. In concreto, la percentuale di crediti il cui consenso è richiesto scende dal 60% al 30%. Ciò consente al debitore di ottenere l’omologa pur avendo coinvolto nell’accordo poco meno di un terzo del totale del debito. Questa riduzione mira a facilitare interventi tempestivi: si ritiene infatti che quando la crisi è ancora agli inizi, l’imprenditore potrebbe riuscire a stringere un accordo con alcuni creditori strategici (ad esempio le banche principali) che rappresentano una parte consistente ma minoritaria del debito, senza dover necessariamente ottenere il consenso della maggioranza assoluta del ceto creditorio. In tal modo si favorisce l’emersione anticipata della crisi, prima che questa diventi conclamata e che tutti i creditori ne siano allarmati. Il legislatore ha ritenuto che un accordo del 30% con creditori “chiave” possa comunque essere efficace per risanare l’impresa, a condizione di tutelare adeguatamente il restante 70% non aderente.
Tuttavia, l’accesso a questa corsia agevolata non è libero: il dimezzamento del quorum è concesso solo se il debitore rispetta due stringenti condizioni, enunciate nelle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 60 CCII:
- (a) Niente moratoria per i creditori estranei: il debitore non deve proporre alcuna moratoria nel pagamento dei creditori non aderenti all’accordo. In altri termini, il piano non può prevedere che i creditori estranei vengano pagati con ritardo o dilazione rispetto alle scadenze originali. Già negli accordi ordinari la legge consente solo una breve dilazione (max 120 giorni dall’omologa o dalla scadenza naturale), ma in quelli agevolati neppure quella: i creditori estranei devono essere pagati regolarmente alle loro scadenze senza alcun differimento aggiuntivo. Se un loro credito è scaduto prima dell’omologa, dovrà essere saldato al più tardi contestualmente all’omologazione (o immediatamente dopo); se scade dopo, dovrà essere pagato puntualmente alla sua data futura. Il debitore, dunque, rinuncia ad “usare” sui creditori fuori accordo perfino la tolleranza dei 120 giorni che sarebbe ammessa dall’art. 57 co.3. Questo implica che l’accordo agevolato può funzionare solo se il debitore è in grado, con le risorse generate dal piano (o con nuova finanza), di far fronte tempestivamente ai debiti verso chi non ha aderito. In cambio, tali creditori estranei non subiranno alcuna modifica ai propri diritti (né riduzione né slittamento nei pagamenti), restando “neutri” rispetto all’operazione di ristrutturazione.
- (b) Niente misure protettive temporanee: il debitore non deve aver richiesto e deve rinunciare a richiedere misure protettive o cautelari previste dall’art. 54 CCII. Ciò significa che durante le trattative e sino all’omologa l’imprenditore non potrà beneficiare del blocco delle azioni esecutive normalmente ottenibile (per 120 giorni) presentando domanda di accordo o di concordato con riserva. In altre parole, non deve essere pendente né essere stata attivata alcuna protezione giudiziale del patrimonio contro iniziative dei creditori. Questa condizione tutela i creditori non aderenti, poiché lascia loro la libertà di agire per recuperare i propri crediti in qualsiasi momento, non essendoci un provvedimento del giudice che li sospenda. Il debitore che punta all’accordo agevolato accetta quindi di esporsi al rischio di azioni individuali durante il periodo di negoziazione e di attesa dell’omologazione, confidando che – grazie anche al fatto di continuare a pagare regolarmente i non aderenti – nessuno di essi intraprenda iniziative aggressive.
Queste due condizioni, cumulativamente necessarie, rappresentano il “prezzo” da pagare per usufruire del quorum agevolato al 30%. La ratio è evidente: se il debitore chiede meno consenso (solo un terzo dei crediti), deve offrire maggiori garanzie ai non partecipanti, non potendo né ritardare i loro pagamenti né congelare le loro azioni. L’accordo agevolato è dunque concepito per situazioni di crisi incipiente, nelle quali il debitore mantiene ancora rapporti non conflittuali con i creditori estranei (che infatti continuerà a soddisfare regolarmente) e non ha bisogno di escutere immediatamente un “ombrello” protettivo perché non si prevedono nell’immediato azioni esecutive distruttive. Se invece la situazione fosse già degenerata al punto da richiedere una moratoria dei pagamenti o un blocco dei pignoramenti, il debitore dovrebbe necessariamente ricorrere all’accordo ordinario (60%) o ad un concordato, perché l’opzione agevolata gli sarebbe preclusa.
Chiarimenti interpretativi: La formulazione dell’art. 60 ha posto qualche dubbio applicativo, in particolare sul concetto di moratoria vietata. Come visto, la legge parla genericamente di “moratoria dei creditori estranei”. Ci si è chiesti se ciò si riferisca solo alla dilazione di 120 giorni (ex art. 57 co.3 lett. a-b) o anche ad altre forme di standstill volontario. Secondo l’interpretazione prevalente, suffragata dalla genesi della norma, il termine “moratoria” in art. 60 va riferito proprio a quella dilazione massima di 120 giorni prevista per il pagamento degli estranei. Infatti, il D.L. 118/2021 (che introdusse la norma in via transitoria nell’art. 182-novies L.F.) indicava espressamente che il debitore doveva rinunciare alla moratoria di cui alle lettere a) e b) del primo comma dell’art. 182-bis L.F., cioè esattamente il differimento di 120 giorni. Ne consegue che, anche se il CCII usa il termine “moratoria” che altrove designa la convenzione di moratoria (art. 62), qui il riferimento è alla mini-dilazione degli estranei, non alla convenzione ex art. 62. Pertanto, un debitore può aver utilizzato la convenzione di moratoria (accordo stragiudiziale con alcune banche per congelare i loro crediti) prima di presentare l’accordo agevolato, senza violare l’art. 60, purché nell’accordo stesso non chieda di posticipare i pagamenti ai creditori non aderenti oltre i termini contrattuali. Allo stesso modo, è dibattuto se l’aver fruito di misure protettive durante una precedente composizione negoziata della crisi precluda l’accesso all’accordo agevolato. La composizione negoziata (introdotta proprio dal D.L. 118/2021) permette all’imprenditore, con l’ausilio di un esperto indipendente, di trattare con i creditori e anche di chiedere al tribunale misure protettive per la durata delle trattative. Poiché l’art. 60 fu scritto prima dell’invenzione della composizione negoziata (che fu inserita in sede di conversione del DL 118/2021) e menziona solo la rinuncia alle misure protettive ex art. 54 CCII (cioè quelle nella procedura uniforme di cui fanno parte ADR e concordato), parte della dottrina suggerisce che l’aver beneficiato di misure protettive in sede di composizione negoziata non dovrebbe impedire l’accordo agevolato. Tale lettura “teleologica” sostiene che la composizione negoziata mira a favorire soluzioni della crisi, tra cui l’accordo, e sarebbe incoerente escluderlo solo perché il debitore ha chiesto un breve stay durante le trattative riservate. Non vi è però sul punto ancora un chiaro riscontro normativo o giurisprudenziale (si tratta di un’interpretazione estensiva). In ogni caso, è assodato che se invece il debitore ha presentato una domanda di concordato “con riserva” (art. 44 CCII, ex art. 161 co.6 L.F.) ottenendo le relative misure protettive, non potrà poi mutare in accordo agevolato, poiché la condizione della rinuncia alle misure non sarebbe soddisfatta. Dovrà semmai procedere con l’accordo ordinario (60%) o con un concordato preventivo vero e proprio.
Presupposto oggettivo – L’accordo di ristrutturazione (ordinario o agevolato) richiede che il debitore versi in stato di crisi o di insolvenza (art. 57 co.1 CCII). Nel CCII il concetto di “crisi” è definito come probabilità di futura insolvenza, quindi uno stadio intermedio in cui l’impresa non è ancora insolvente ma mostra segni di tensione economico-finanziaria (indicatore ne è l’inadeguatezza prospettica dei flussi di cassa per far fronte regolarmente alle obbligazioni nei successivi 12 mesi, secondo gli indici di allerta). L’“insolvenza” è invece lo stato conclamato di incapacità a soddisfare le obbligazioni già scadute. A differenza della vecchia normativa, che per l’accordo ex art. 182-bis L.F. parlava di stato di crisi e su cui si discusse se comprendesse anche l’insolvenza, il CCII è chiaro: l’accordo è accessibile anche all’imprenditore insolvente, oltre che in crisi. Ciò allinea l’ADR al concordato preventivo, che da sempre è possibile per insolvenza. Naturalmente, prima si interviene (in stato di crisi incipiente) più efficace potrà essere l’accordo; ma nulla vieta che un imprenditore formalmente insolvente (es. con debiti scaduti non pagati) raggiunga un accordo con i creditori per evitare il fallimento. Anzi, lo strumento agevolato è concepito per anticipare il ricorso al tribunale prima che la crisi degeneri: come nota autorevole dottrina, l’accordo agevolato sembra disegnato per intercettare una fase iniziale della crisi, “quando cioè la stessa non è ancora percepita dai creditori come l’inizio di un piano inclinato che porta all’insolvenza”. In questa situazione, non avendo i creditori (specie i minori) ancora perso fiducia né attivato azioni legali, il debitore può ottenere collaborazione da alcuni di essi (quelli necessari per superare la soglia del 30%) e al contempo continuare a trattare con gli altri “in bonis”, onorando le scadenze verso costoro.
Legittimazione soggettiva – Come accennato, soggettivamente l’accordo agevolato non restringe l’ambito rispetto a quello ordinario: tutti i debitori imprenditori diversi dall’imprenditore minore possono accedervi. Quindi, tanto la grande società quanto l’imprenditore agricolo o il gruppo di imprese vi rientrano. Non vi sono requisiti ulteriori di meritevolezza o di settori. Da notare però che, di fatto, l’accordo agevolato presuppone che il debitore abbia mantenuto un sufficiente controllo della situazione durante la crisi: se l’impresa è già travolta da pignoramenti, sequestri o tensioni tali da necessitare misure protettive, semplicemente non potrà qualificarsi per l’agevolato. Similmente, se l’azienda ha troppi debiti sparsi e nessun creditore di riferimento, sarà difficile arrivare al 30% senza includerne molti. In pratica, l’accordo agevolato appare adatto per debitori che abbiano pochi creditori principali (tipicamente uno o pochi istituti finanziari o fornitori di grandi dimensioni che da soli coprono una fetta consistente del debito) e numerosi creditori minori tranquillizzabili col pagamento regolare. In tali casi, bastano poche adesioni qualificate per raggiungere la soglia ridotta e impostare il risanamento, mentre i piccoli creditori vengono tenuti indenni (pagati cash) così da non opporsi.
In conclusione, l’accordo di ristrutturazione agevolato è uno strumento selettivo: riduce significativamente la soglia di adesione (30%), aprendo le porte a ristrutturazioni più agili, ma lo fa solo a favore di debitori che non immobilizzano gli estranei (niente stay) e non li sacrificano nei pagamenti (niente dilazioni). Questa logica di bilanciamento è cruciale per comprenderne la convenienza e le implicazioni, analizzate nei paragrafi successivi.
3. Procedura di formazione e omologazione dell’accordo agevolato
Vediamo ora come si sviluppa in concreto il procedimento che conduce all’omologazione di un accordo di ristrutturazione agevolato. Le fasi fondamentali possono riassumersi come segue: trattative e formazione dell’accordo, deposito della domanda e pubblicazione, eventuali opposizioni dei creditori estranei, udienza ed omologazione da parte del tribunale.
a) Negoziazione e stipula dell’accordo con i creditori aderenti. Il processo inizia su iniziativa del debitore, il quale – una volta rilevata la situazione di crisi o insolvenza – contatta i propri creditori (o perlomeno quelli principali) per proporre un piano di ristrutturazione del debito. Questa fase avviene in via strettamente stragiudiziale: non è richiesta alcuna formalità particolare (non c’è ancora intervento del tribunale, a meno che il debitore non opti per strumenti ausiliari). Spesso l’imprenditore predispone con l’aiuto di consulenti un piano industriale e finanziario e una bozza di accordo, e avvia colloqui con i creditori chiave. Egli può, se lo ritiene opportuno, servirsi della composizione negoziata della crisi (ex D.L. 118/2021, ora art. 23 ss. CCII) facendosi affiancare da un esperto indipendente nominato dalla Camera di Commercio. Tale esperto facilita le trattative e può suggerire soluzioni, fungendo da mediatore. Durante la composizione negoziata, il debitore può chiedere al tribunale misure protettive (sospensione delle azioni) per un periodo fino a 4 mesi, ma – come spiegato sopra – questo potrebbe in astratto confliggere con la condizione (b) dell’accordo agevolato. Tuttavia, un’interpretazione logica tende a non considerare ostative le misure protettive ottenute nell’ambito della composizione negoziata ai fini dell’art. 60, per cui nulla vieta di usare la composizione negoziata come “incubatore” dell’accordo agevolato. In ogni caso, sia che operi in composizione negoziata sia autonomamente, il debitore negozia privatamente con ciascun creditore i termini dell’accordo.
L’accordo può essere documentato come atto plurilaterale sottoscritto da debitore e creditori aderenti contestualmente, oppure come un insieme di adesioni individuali raccolte dal debitore su un testo di piano comune. Non è raro che, nella prassi, il debitore faccia firmare a ciascun creditore una lettera di adesione all’accordo contenente l’assenso alla proposta e le condizioni specifiche (ad es. “la Banca X aderisce all’accordo accettando il pagamento del 80% del proprio credito, di cui 50% al closing e 50% a 6 mesi, rinunciando alla parte residua”). Queste adesioni formalizzate costituiscono il corpo contrattuale dell’ADR. È fondamentale che dalle adesioni risulti che si è raggiunto almeno il 30% dei crediti totali (soglia agevolata). Il calcolo del 30% va fatto sul totale passività finanziarie del debitore al momento della proposta: tipicamente si fa riferimento alla somma di tutti i crediti risultanti dall’ultimo elenco depositato, comprensiva di privilegiati e chirografari (anche se i privilegiati di solito non aderiscono a meno che non subiscano ristrutturazione). Per il computo valgono gli stessi criteri dell’accordo ordinario: si considera il valore nominale dei crediti al lordo di eventuali garanzie; eventuali crediti contestati o non liquidi possono creare incertezze, ma generalmente il debitore dovrà esibire il conteggio con attestazione del professionista indipendente che il 30% è stato raggiunto.
In questa fase negoziale, il debitore dovrà anche coinvolgere l’attestatore indipendente (un professionista – commercialista o consulente aziendale – in possesso dei requisiti di indipendenza di legge) perché rediga la relazione di attestazione sul piano e sull’accordo. Come già detto, l’attestatore verifica i dati e giudica la fattibilità, rilasciando un giudizio sull’idoneità del piano a risanare l’impresa e, cosa specifica e importantissima, sull’idoneità dell’accordo a pagare integralmente i creditori estranei entro i termini di legge. Questa attestazione è un documento chiave che accompagnerà la domanda al tribunale. Va evidenziato che anche gli accordi agevolati possono beneficiare, se necessario, della rinegoziazione e modifica del piano prima dell’omologa: l’art. 58 CCII prevede che se intervengono modifiche sostanziali del piano durante l’iter (ad esempio perché si aggiungono altri creditori all’accordo, o cambiano alcune condizioni), occorre rinnovare l’attestazione e raccogliere nuovamente le adesioni sui punti modificati. Ciò consente una certa flessibilità: il debitore potrebbe depositare un accordo già al 30% e poi alzare la percentuale facendo aderire ulteriori creditori prima dell’omologa, formalizzando un accordo modificato (purché entro i termini e con rinnovo dell’attestazione).
b) Deposito della domanda di omologazione e pubblicazione. Una volta sottoscritto l’accordo con la percentuale richiesta e predisposta la documentazione (piano, attestazione, elenco creditori ecc.), il debitore deve presentare ricorso al tribunale per ottenere l’omologazione. La competenza è del tribunale in composizione collegiale della sezione specializzata in materia di crisi d’impresa (di norma del luogo della sede principale dell’impresa). Il ricorso introduttivo, ai sensi dell’art. 40 CCII, contiene la richiesta di omologare l’accordo ai sensi dell’art. 48 CCII. Nel caso di accordo agevolato, nel ricorso andrà anche evidenziato che si tratta di procedura ex art. 60 CCII e attestato il rispetto delle condizioni (a) e (b). In pratica, il debitore dichiarerà di rinunciare alle misure protettive e di non averle chieste in precedenza, nonché che il piano prevede il pagamento dei non aderenti senza moratorie (anzi, magari alle scadenze naturali già indicate). Queste circostanze dovrebbero trovare riscontro sia nell’attestazione che nell’accordo stesso: ad esempio, l’accordo potrebbe contenere una clausola in cui il debitore si impegna a pagare puntualmente tutti i creditori non aderenti e dichiara di non aver invocato il blocco delle azioni.
Al ricorso si allegano l’accordo (o gli accordi) firmati dai creditori, il piano di risanamento, la relazione attestativa e gli altri documenti elencati dall’art. 39 CCII (tra cui una relazione dell’esperto indipendente sulla solvibilità del debitore e l’elenco nominativo dei creditori con indicazione di chi ha aderito e chi no, ecc.). Occorre anche attestare l’avvenuto pagamento dei debiti scaduti per tributi e contributi ove previsto come condizione di ammissibilità (il CCII richiede, per accedere a qualunque strumento di regolazione, che i debiti tributari scaduti di certi tipo siano almeno proposti in transazione o pagati, art. 48 co.5).
Importante: il debitore non chiede misure protettive nel ricorso (altrimenti verrebbe meno la condizione per il 30%). Pertanto, diversamente da altre procedure, qui il ricorso non produce alcun effetto automatico di sospensione di pignoramenti o simili. L’unico effetto immediato è la pubblicazione della domanda nel Registro delle Imprese. Ai sensi dell’art. 48 CCII, l’iscrizione della domanda serve a dare pubblicità ai terzi e segna il termine iniziale da cui calcolare il periodo sospetto ai fini di eventuali revocatorie fallimentari (dalla pubblicazione dell’accordo omologato decorre l’esenzione ex lege da revocatoria degli atti in esecuzione dello stesso, come previsto dall’art. 166 co.3 lett. e CCII). Inoltre la pubblicazione attiva la fase delle eventuali opposizioni dei creditori estranei.
In aggiunta alla pubblicazione generale, la legge prevede alcune comunicazioni individuali: in particolare, con la riforma “salva-infrazioni” del 2023, è stato stabilito che il debitore debba avvisare via PEC l’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali dell’avvenuto deposito della domanda di omologa con transazione fiscale, affinché il loro termine di risposta decorra dall’effettiva conoscenza (art. 1-bis co.4 DL 69/2023). Inoltre, in caso di efficacia estesa (art. 61), il debitore dovrà provare di aver informato adeguatamente i creditori non aderenti della categoria sia durante le trattative sia subito dopo il deposito, notificando loro l’accordo e il decreto di fissazione dell’udienza, così che sappiano di poter proporre opposizione entro 30 giorni. Ma nel caso dell’accordo agevolato semplice (senza efficacia estesa), la norma generale applicabile è l’art. 48 CCII: i creditori non aderenti possono proporre opposizione entro 30 giorni dalla pubblicazione della domanda (o dalla ricezione dell’avviso per il Fisco, come detto). Il tribunale, infatti, all’atto di ricevere il ricorso, fissa con decreto l’udienza di omologazione e stabilisce il termine per eventuali opposizioni (tipicamente 30 giorni prima dell’udienza). Tale decreto viene pubblicato e notificato secondo le modalità stabilite dal Codice.
c) Opposizione dei creditori non aderenti (eventuale). Nel periodo tra la pubblicazione del ricorso e l’udienza di omologa, i creditori estranei all’accordo hanno la facoltà di proporre opposizione all’omologazione (art. 48 co.4 CCII). Si tratta di un rimedio analogo a quello previsto nel concordato preventivo per i creditori dissenzienti: un atto di citazione (o ricorso) con cui il creditore contesta la legittimità o la convenienza dell’accordo per la propria posizione. Le possibili ragioni di opposizione possono includere:
- la violazione delle condizioni di legge (ad esempio, un creditore potrebbe dedurre che l’accordo in realtà prevede una moratoria mascherata, o che il debitore ha richiesto misure protettive altrove, quindi non sarebbe legittimo come “agevolato”),
- l’asserita lesione dei propri diritti di creditore estraneo (ad esempio sostenendo che il piano non garantisce il pagamento integrale nei termini, oppure che altri creditori di pari grado sono trattati meglio di lui, violando la par condicio),
- l’insostenibilità o la non fattibilità del piano (ad esempio, un creditore estraneo potrebbe dire: “non sarò pagato regolarmente perché il piano è irrealistico, dunque ne sarò pregiudicato”),
- irregolarità procedurali (mancata informazione, difetto di attestazione, ecc.).
Negli accordi agevolati, però, se le regole sono rispettate, i motivi di opposizione si riducono di numero: i creditori estranei dovrebbero essere pagati integralmente e puntualmente, quindi non possono lamentare un sacrificio economico imposto; tutt’al più possono temere che il pagamento puntuale non avverrà perché il piano fallirà. Non essendoci classi e voti, non vi è un sindacato di convenienza comparativa come nel concordato. L’opposizione nel contesto degli ADR riguarda soprattutto la verifica di legalità e fattibilità. La legge stabilisce che, in caso di opposizione, il tribunale può comunque omologare l’accordo se ritiene che il credito dell’opponente possa essere soddisfatto nei termini proposti e che l’accordo risponda al best interest test per i non aderenti. In altre parole, il giudice valuta se il creditore oppositore riceverà almeno quanto otterrebbe nella liquidazione giudiziale (scenario alternativo) e, se l’accordo non prevede alcun pregiudizio per lui (perché lo paga in integrale), l’opposizione sarà rigettata. Peraltro, l’art. 48 CCII richiede che il tribunale, in sede di omologa, verifichi la convenienza della proposta per Fisco/Enti previdenziali dissenzienti (vedi sezione 8) e più in generale il rispetto della relative priority rule per classi dissenzienti. Quest’ultimo concetto, mutuato dalla direttiva UE, implica che un creditore dissenziente non possa essere trattato meno favorevolmente di altri di rango inferiore. La Corte di Cassazione ha affermato, ad esempio, che il giudice deve controllare che, con riferimento ai crediti tributari e contributivi, sia rispettata la regola della priorità relativa in caso di cram-down. Ciò significa che, se il Fisco non aderisce, non potrà essere soddisfatto in misura percentuale inferiore rispetto a creditori chirografari puramente commerciali eventualmente soddisfatti con percentuali maggiori (salvo giustificazione particolare). Questo tipo di sindacato attiene al merito della distribuzione e si applica soprattutto nelle estensioni ad efficacia estesa o nelle transazioni fiscali cram-down.
Va sottolineato che l’opposizione all’omologa di un accordo di ristrutturazione non sospende automaticamente il procedimento né blocca l’efficacia interinale dell’accordo: il tribunale può comunque autorizzare in corso di causa l’esecuzione del piano, salvi gli effetti retroattivi se poi l’omologa fosse negata (cfr. art. 52 CCII, applicabile anche agli ADR). Tuttavia, nel caso agevolato, non essendoci misure protettive, se un creditore fa opposizione può contemporaneamente avviare un’azione esecutiva: starà al debitore eventualmente richiedere misure cautelari ad hoc in corso di causa, se necessario e se coerente con la rinuncia data (questo profilo è delicato, perché chiedere misure protettive durante l’opposizione contrasterebbe con la condizione agevolata; semmai il debitore potrà solo difendersi nelle sedi delle singole esecuzioni, ad esempio chiedendo sospensioni per trattativa in atto).
d) Udienza ed omologazione da parte del tribunale. All’udienza fissata, il tribunale collegiale esamina il ricorso, la documentazione e le eventuali opposizioni. Se non vi sono opposizioni di creditori estranei, la strada è spianata: il tribunale procede a controllare la regolarità formale e sostanziale e normalmente omologa l’accordo con decreto motivato. Il controllo del giudice negli ADR, come detto, non si limita al riscontro documentale ma si estende a una verifica di legalità sostanziale: la Cassazione ha chiarito che in sede di omologa il tribunale deve verificare, tra l’altro, la plausibilità della capacità del debitore di pagare integralmente gli estranei nei termini di legge. Ciò comporta anche un giudizio (seppur sommario) sulla sostenibilità finanziaria del piano e la veridicità dei dati, sulla base della relazione attestativa e di eventuali osservazioni del Pubblico Ministero (che interviene obbligatoriamente). Se la documentazione è completa e l’attestazione positiva, e se il tribunale non rileva ragioni ostative (ad esempio crede che i non aderenti siano tutelati e che le condizioni di art. 60 siano rispettate), pronuncia il decreto di omologa dell’accordo.
In caso di opposizioni, il tribunale segue un rito che nel CCII è modellato su quello del concordato: decide con decreto motivato all’esito di un giudizio di omologazione nel quale integra le prove se necessario e valuta i motivi di opposizione. Egli può:
- rigettare le opposizioni e omologare comunque l’accordo, oppure
- accogliere un’opposizione e dunque non omologare (respingendo il ricorso di omologa).
La legge specifica alcune condizioni per omologare in presenza di dissensi del Fisco o di creditori privilegiati dissenzienti. Ad esempio, il tribunale omologa l’accordo anche senza adesione dell’Erario e degli enti previdenziali se concorrano congiuntamente determinate condizioni: accordo non liquidatorio, adesioni complessive di altri creditori almeno 25%, offerta al Fisco conveniente e almeno pari al 30% del credito. Tali condizioni (introdotte nel 2023) le tratteremo in dettaglio nella sezione 8 sulla transazione fiscale. Inoltre, un tema spesso sollevato riguarda i creditori privilegiati non aderenti: se l’accordo prevede di alterare i loro diritti (es. postergare oltre 120 giorni il pagamento di un ipotecario, o pagarlo in più anni), è pacifico che ciò non può avvenire senza consenso. La Cassazione, in un caso di piano del consumatore L.3/2012, ha ribadito il principio generale che ogni trattamento deteriore di un creditore prelazionato richiede il suo consenso, mentre è ammissibile dilazionarne il pagamento oltre i limiti di legge solo se il creditore ha diritto di voto o di esprimersi sul piano. Traslando il principio negli ADR, se un creditore ipotecario non aderisce, il piano non può vincolarlo a ricevere il pagamento oltre un anno dall’omologa (limite legislativo in L.3/2012) senza il suo assenso. Pertanto il tribunale, se riscontrasse che l’accordo intende legare un privilegiato estraneo a una ristrutturazione contra voluntatem, dovrebbe negare l’omologa. Invece, se quell’ipotecario è stato pagato regolarmente o ha aderito, problema non si pone. In pratica, l’accordo agevolato non dovrebbe mai prevedere falcidia o dilazione di un creditore prelatizio senza adesione – e infatti ciò è vietato, salvo usarlo nell’ambito dell’efficacia estesa su categorie omogenee con 75% di consensi (ma in tal caso i prelazionati di quella categoria sarebbero comunque in parte consenzienti e sempre pagati almeno quanto in liquidazione).
Concluse queste valutazioni, il tribunale emette il decreto di omologa (o di diniego di omologa, se rigetta). Il decreto è soggetto a reclamo davanti alla Corte d’Appello entro 30 giorni (art. 51 CCII). Possono proporlo i creditori rimasti soccombenti (ad esempio un oppositore la cui opposizione è stata rigettata, o un aderente se l’omologa è stata negata). Va però evidenziato che può reclamare solo chi abbia assunto la qualità di parte nel procedimento di omologa, coerentemente con il principio generale: ad esempio, un creditore non aderente che non si è opposto nei termini non è legittimato a impugnare l’omologa successivamente (Cass. 34840/2024 ha confermato che chi non abbia partecipato al giudizio di omologa non può proporre reclamo tardivo). Quindi è importante che i creditori stiano attenti ai termini: se intendono contestare l’accordo, devono farlo in sede di opposizione prima del decreto, altrimenti perdono il treno.
Se nessuno propone reclamo, o una volta esaurito negativamente il grado di reclamo e l’eventuale ricorso in Cassazione, l’omologazione diviene definitiva.
e) Effetti immediati dell’omologa. Con il decreto di omologa, l’accordo di ristrutturazione diviene efficace ed esecutivo. L’accordo omologato è pubblicato nel Registro delle Imprese e comunicato agli interessati, acquisendo forza di titolo esecutivo. Da questo momento:
- I creditori aderenti sono definitivamente vincolati alla nuova regolamentazione dei loro crediti secondo i termini dell’accordo. Ad esempio, se avevano accettato una riduzione del 30% del credito e una dilazione pluriennale sul restante 70%, sono obbligati a rispettare tale patto e non possono pretendere di più (salvo risoluzione dell’accordo, v. infra). L’omologa rende l’accordo opponibile anche ad eventuali terzi (come nuovi creditori subentrati per cessione del credito, ecc.).
- I creditori estranei non aderenti, che non abbiano avuto estensione ex art. 61, restano formalmente estranei: mantengono il diritto al pagamento integrale dei loro crediti. L’unica differenza è che, dopo l’omologa, qualora avviino azioni esecutive individuali, troveranno un debitore che potrà difendersi evidenziando di aver predisposto un piano omologato di risanamento dove sono previsti i loro pagamenti. Ciò in pratica non impedisce loro di procedere, ma in molti casi i creditori estranei vengono appianati contestualmente all’omologazione o subito dopo (ad esempio, il debitore può utilizzare nuove risorse attivate dall’accordo – come finanziamenti freschi – per pagare i piccoli fornitori rimasti fuori, estinguendo così il debito verso di loro). Se però un estraneo non viene pagato e agisce, non esiste divieto: l’accordo agevolato non offre protezione diretta contro le iniziative dei non aderenti, diversamente da un concordato (dove vige lo stay) o da un accordo ordinario con misure protettive. In tal senso l’esito sperato è che, avendo garantito il pagamento regolare, i non aderenti non abbiano motivo di attaccare il debitore.
- I creditori non aderenti vincolati per estensione (nell’ipotesi sia stato chiesto e ottenuto l’effetto ex art. 61 su qualche categoria): questi sono eccezionalmente assimilati agli aderenti, ossia il loro credito viene “rimodellato” secondo le previsioni dell’accordo. Ad esempio, poniamo che l’accordo riguardasse 80% di banche di una certa categoria con taglio del tasso d’interesse e rinuncia a interessi di mora: le banche dissenzienti di quella categoria, grazie all’accordo ad efficacia estesa omologato, saranno obbligate ad accettare lo stesso trattamento (riduzione di tasso e rinuncia interessi di mora). Resta fermo però – come evidenziato – che la scadenza del loro credito non può essere alterata: se avevano un mutuo in scadenza nel 2026, dovranno comunque essere pagate entro quella data. In pratica, l’estensione consente di imporre falcidi e rinunce a crediti finanziari minoritari, ma non di procrastinarne il termine di pagamento oltre il pattuito. Questo di solito non è un problema: tipicamente, per far aderire il 75% delle banche, il debitore offre a tutte condizioni simili (es. rimborso del 80% del credito a scadenza originale); la banca dissenziente si troverà quindi anch’essa a dover accettare l’80% a scadenza originaria.
- Per il debitore, l’omologa dell’accordo comporta diversi benefici ed effetti legali:
- In primo luogo, evita la dichiarazione di fallimento (liquidazione giudiziale): finché l’accordo è eseguito, i creditori non possono chiedere il fallimento del debitore per i crediti inclusi nell’accordo. La procedura di regolazione della crisi è compiuta con successo.
- Inoltre, l’accordo omologato comporta la esenzione da revocatoria fallimentare per gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dello stesso. L’art. 166, co.3, lett. e) CCII (corrispondente al vecchio art. 67, co.3 L.F.) dispone infatti che non sono soggetti a revocatoria gli atti compiuti in esecuzione di un accordo di ristrutturazione omologato. Questo è un vantaggio fondamentale per la stabilità delle operazioni: i terzi che contraggono con il debitore (ad es. acquistando un suo bene venduto per pagare i creditori, oppure erogando un nuovo finanziamento garantito da ipoteca) non rischiano che tali atti siano dichiarati inefficaci in un eventuale successivo fallimento. Come notato, questa esenzione è più forte di quella prevista per i piani attestati di risanamento: nel caso dei piani puramente interni (senza omologa), infatti, la legge li protegge da revocatoria (art. 166, co.3, lett. d), ma la Cassazione ha chiarito che il giudice fallimentare può sindacarne l’effettiva idoneità a risanare e disapplicare la protezione se il piano appariva inidoneo. Invece, per gli accordi omologati, la protezione è blindata e il curatore non può rimettere in discussione la regolarità della procedura e la causa dell’atto, essendo garantita dall’intervento omologatorio del tribunale. Dunque, i pagamenti eseguiti dal debitore ai creditori in adempimento dell’accordo omologato non potranno essere revocati in caso di successivo fallimento, né le eventuali garanzie concesse a nuovi finanziatori saranno revocabili. Ciò incentiva i creditori a sostenere il piano, sapendo che non dovranno restituire quanto ricevuto se poi la situazione dovesse precipitare.
- Ulteriori effetti: se l’accordo prevede la continuazione dell’attività, il debitore prosegue la gestione dell’impresa sotto la propria amministrazione (non c’è spossessamento né intervento di organi terzi). L’accordo omologato potrebbe contenere clausole di esecuzione indiretta: ad esempio, in alcuni casi si chiede al tribunale di nominare un ausiliario o un monitor per vigilare sull’esecuzione del piano, ma non è obbligatorio (dipende dalla volontà delle parti). Il CCII introduce anche la possibilità di autorizzare, in costanza di accordo omologato, la risoluzione di contratti pendenti o l’ottenimento di finanziamenti prededucibili, ma ciò è normato principalmente per il concordato preventivo e il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) ex art. 64-bis, non espressamente per l’ADR. Nell’ADR, eventuali risoluzioni contrattuali consensuali possono essere pattuite con i contraenti interessati, mentre per i finanziamenti, l’art. 100 CCII riconosce la prededucibilità (privilegio di essere pagati prima di altri in caso di successivo fallimento) ai finanziamenti in esecuzione di accordi omologati, se espressamente previsti dall’accordo e attestati come strumentali alla migliore soddisfazione dei creditori. Ciò significa che una banca che finanzia nuova liquidità al debitore nell’ambito del piano omologato avrà diritto di prededuzione se poi l’impresa fallisce (in pratica è un incoraggiamento a concedere finanza fresh money durante il risanamento).
- Va anche ricordato che l’accordo omologato produce effetti sulla disciplina societaria e contrattuale: ad esempio, l’art. 64 CCII prevede che la prosecuzione di determinati contratti e operazioni sul capitale sociale, se posti in essere in esecuzione di un accordo omologato con misure protettive, non diano luogo ad azioni di responsabilità per gli amministratori. Nel caso dell’accordo agevolato, non avendo misure protettive, tali tutele comunque rilevano in misura minore.
In sintesi, con l’omologa il piano di ristrutturazione entra nella fase attuativa: il debitore deve eseguire puntualmente gli obblighi presi verso i creditori aderenti (pagare le eventuali quote dovute, attuare le ristrutturazioni promesse) e, ovviamente, continuare a pagare normalmente i creditori estranei man mano che le loro obbligazioni giungono a scadenza. L’esito sperato è che l’impresa, alleggerita dai debiti ristrutturati e sostenuta dal nuovo assetto finanziario, possa uscire dallo stato di crisi e tornare redditizia o comunque sostenibile.
Da notare che, a differenza del concordato, dopo l’omologa di un ADR non c’è un organo commissariale che verifichi l’esecuzione: la vigilanza sull’adempimento spetta in primis ai creditori aderenti stessi. Il CCII all’art. 64 prevede comunque che, in caso di difficoltà sopravvenute nell’esecuzione dell’accordo, il debitore possa chiedere al tribunale la sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori aderenti o vincolati (non estranei) ricorrendo alla convenzione di moratoria ex art. 62. Questa è una possibilità interessante: se ad esempio l’impresa omologa l’accordo ma dopo un anno subisce un imprevisto (es. crisi di mercato) che le impedisce di pagare una rata a tutti i creditori aderenti, potrebbe cercare di stipulare con almeno il 75% di essi una convenzione di moratoria per posticipare le scadenze e chiederne l’omologa al tribunale, ottenendo così una sorta di sospensione protetta ex post. L’art. 62 infatti consente, con il consenso di una maggioranza qualificata di creditori finanziari o comunque omogenei, di estendere una moratoria pattuita anche agli altri e di ottenere misure protettive su tale base. Il combinato disposto degli artt. 60, 61 e 62 è complesso, ma in pratica offre un ventaglio di flessibilità anche dopo l’omologa, purché i creditori siano coinvolti.
Chiudiamo la disamina procedurale sottolineando due aspetti pratici:
- I tempi della procedura: l’accordo di ristrutturazione è concepito per essere relativamente rapido. La fase di trattativa dipende dal debitore (può durare mesi, a seconda di quanto tempo serve per convincere i creditori e predisporre il piano). Ma una volta depositato il ricorso, i tempi in tribunale sono brevi rispetto ad altre procedure: il tribunale nomina subito un giudice relatore e fissa l’udienza (spesso entro 30-45 giorni dalla domanda). Se non ci sono opposizioni, l’omologa può arrivare in pochi mesi (2-3 mesi). In caso di opposizioni, il giudizio può allungarsi di qualche mese per permettere lo scambio di memorie e l’eventuale istruttoria sommaria. Ad ogni modo, siamo su orizzonti generalmente inferiori all’anno. Ciò è un vantaggio notevole rispetto ad esempio ad un concordato con classi e possibili reclami, che può richiedere anche un anno o più fino all’omologa definitiva.
- Costi: gli ADR, anche in forma agevolata, comportano costi professionali (consulenti, attestatore, legali) ma evitano i costi di una procedura concorsuale (non c’è commissario da retribuire né spese di gestione della procedura). Inoltre, molte volte i creditori aderenti condividono l’interesse a contenere i costi e possono accettare che alcune spese (come il compenso dell’attestatore) siano inserite come crediti prededucibili. Nel complesso, per il debitore l’ADR risulta meno oneroso di un concordato in termini di spese procedurali.
Passiamo ora agli effetti di medio-lungo periodo, trattando cosa accade se l’accordo non viene eseguito e quali rimedi hanno i creditori e il debitore.
4. Effetti dell’omologazione e trattamento dei creditori non aderenti
Abbiamo già delineato molti effetti immediati dell’omologazione nel paragrafo precedente. Qui li sistematizziamo con riferimento particolare ai creditori non aderenti (estranei) e alle tutele di cui godono, nonché ad altri effetti giuridici rilevanti dell’accordo omologato.
Vincolatività dell’accordo omologato: l’accordo di ristrutturazione, una volta omologato con decreto passato in giudicato, acquista efficacia vincolante tra le parti a tutti gli effetti. In pratica esso diviene un titolo esecutivo e obbligatorio:
- per il debitore, che deve adempiere esattamente le prestazioni promesse (es. pagare le somme concordate ai creditori aderenti, attuare eventuali operazioni straordinarie come aumenti di capitale, dismissioni di beni, ecc. previste nel piano);
- per ciascun creditore aderente, il quale ha accettato eventuali riduzioni o dilazioni e non può più pretendere dal debitore nulla di diverso da quanto stabilito nell’accordo (salvo che l’accordo si risolva per inadempimento, come vedremo). Se un creditore aderente tentasse comunque di agire esecutivamente per il 100% del proprio credito originario, il debitore potrebbe opporre l’accordo omologato in via di accertamento incidentale e far valere l’efficacia novativa dell’accordo: in sostanza, la parte falcidiata del credito non è più esigibile e quella residua è esigibile solo alle scadenze pattuite nel piano. Non a caso, di solito l’accordo contiene clausole di “remissione parziale del debito” o di “novazione” delle obbligazioni, efficaci con l’omologa.
- per i creditori non aderenti vincolati per estensione (art. 61 CCII): se il tribunale ha esteso l’accordo ad essi, sono a tutti gli effetti equiparati agli aderenti, limitatamente a quanto deciso. Ad esempio, se la categoria obbligazionisti viene inclusa coattivamente nell’accordo, i titolari di obbligazioni dissenzienti dovranno subire la conversione in capitale o il rimborso parziale previsto, come se avessero aderito. Non potranno agire per l’intero credito originario, salvo far valere eventuali diritti residui contro garanti esterni (come visto, i diritti verso fideiussori restano impregiudicati). In sostanza, l’accordo acquisisce forza erga omnes all’interno delle categorie coinvolte dall’efficacia estesa.
Trattamento dei creditori estranei (non aderenti non vincolati): questi creditori, non avendo prestato consenso, non sono obbligati a subire alcuna modifica del loro credito. Rimangono creditori per l’importo originario e alle scadenze originarie. Tuttavia, l’omologazione li riguarda indirettamente in alcuni modi:
- Innanzitutto, come condizione dell’omologa, il piano ha previsto e l’attestatore ha certificato che essi verranno pagati integralmente nei termini dovuti. Ciò crea una sorta di aspettativa qualificata: il debitore, essendosi impegnato in sede giudiziale a onorarli regolarmente, difficilmente potrà poi giustificare un mancato pagamento se non vuole esporsi a iniziative gravi (risoluzione accordo, istanze di fallimento).
- Durante l’esecuzione del piano, i creditori estranei possono agire liberamente contro il debitore se non vengono soddisfatti a scadenza. Non c’è infatti alcun divieto o sospensione in corso. Ad esempio, se l’accordo viene omologato a gennaio e un creditore estraneo aveva una fattura in scadenza a marzo, che il debitore – contrariamente al piano – non paga, quel creditore già ad aprile potrà ottenere un decreto ingiuntivo e pignorare beni del debitore. In un concordato preventivo ciò sarebbe vietato (perché i debiti pregressi rimangono congelati e poi eventualmente falcidiati), mentre in un ADR agevolato il creditore estraneo conserva tutti i suoi mezzi di tutela ordinari. Questa libertà d’azione rappresenta la massima garanzia per i non aderenti: l’accordo in pratica li lascia completamente fuori, trattandoli come fossero creditori di un’impresa in bonis (dato che devono essere pagati regolarmente).
- Qualora, nonostante le promesse, il debitore non paghi un estraneo, questi quindi potrà:
- chiederne l’esecuzione forzata (pignoramento, ecc.) sui beni, oppure
- se l’inadempimento è sintomo di insolvenza generalizzata, potrà addirittura chiederne il fallimento (liquidazione giudiziale). Su quest’ultimo punto occorre coordinare con la disciplina della risoluzione dell’accordo (trattata nella prossima sezione). La Cassazione a Sezioni Unite ha chiarito che un creditore aderente può chiedere il fallimento del debitore in caso di inadempimento dell’accordo anche senza ottenerne prima la risoluzione. A fortiori, un creditore estraneo (che non è parte dell’accordo) può presentare istanza di fallimento se il debitore non paga i suoi crediti alle scadenze e si manifesta insolvente, dato che non è neppure vincolato dall’accordo. In tal caso, l’esistenza di un accordo omologato in corso di esecuzione non costituisce di per sé ostacolo alla dichiarazione di fallimento, salvo valutare se l’insolvenza è reale o temporanea. Un tribunale potrebbe essere cauto nel dichiarare fallito un debitore durante l’esecuzione di un accordo omologato, ma la legge (art. 121 CCII) non pone un divieto automatico: prevede solo che se viene aperta la liquidazione giudiziale il tribunale ne dà notizia ai creditori perché possano eventualmente proporre soluzioni alternative in extremis.
- L’accordo omologato produce un effetto favorevole per tutti i creditori (anche estranei) in termini di garanzia patrimoniale: il debitore infatti è tenuto a eseguire il piano sotto vigilanza indiretta del tribunale. Se dovesse compiere atti al di fuori di esso che pregiudicano i creditori (ad es. alienazioni distrattive di beni non previste), potrebbe incorrere in responsabilità e vi sarebbe la possibilità per i creditori di chiedere revoca dell’omologa o misure cautelari. Inoltre, durante l’esecuzione del piano, i creditori aderenti spesso acquisiscono vincoli sul patrimonio del debitore (pegno su beni, covenants finanziari ecc.) che in qualche misura giovano anche agli estranei perché tengono disciplinato il debitore.
In definitiva, per un creditore estraneo l’accordo agevolato non comporta svantaggi diretti, se non il fatto di non poter chiedere il fallimento del debitore durante la pendenza di pagamenti non ancora scaduti (ma questo non lo avrebbe comunque potuto fare, mancando insolvenza conclamata). Anzi, se l’accordo ha successo, l’estraneo verrà pagato regolarmente e beneficerà del risanamento dell’impresa (continuerà magari ad avere il cliente in attività). L’unico rischio per l’estraneo è che, confidando nel piano, resti inerte e poi il piano fallisca: in tal caso, però, come vedremo, l’ordinamento gli restituisce la possibilità di agire sul patrimonio residuo e di insinuarsi in fallimento per l’intero credito.
Esenzione da revocatoria (tutela delle operazioni) – Un effetto già accennato ma cruciale è che gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato non potranno essere dichiarati inefficaci in caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale del debitore. Questo scudo deriva dall’art. 166, comma 3, lett. e) CCII, applicabile a tutti gli ADR (ordinari, agevolati, con o senza efficacia estesa). Significa, ad esempio, che se il debitore vende un immobile a terzi come previsto dal piano e usa il ricavato per pagare in parte i creditori aderenti, poi – malauguratamente – fallisce un anno dopo, il curatore non potrà agire in revocatoria contro l’acquirente dell’immobile né contro i creditori che hanno ricevuto quei pagamenti. Ciò offre certezza e stabilità agli scambi effettuati nell’ambito del risanamento. La logica è che, essendo intervenuto il controllo del tribunale sull’accordo, non c’è più bisogno di rimettere in discussione quei pagamenti come preferenze sospette o atti a titolo oneroso pregiudizievoli. Al contrario, se il debitore si fosse limitato a fare un piano attestato senza omologa, i pagamenti ai creditori avrebbero potuto essere revocati in fallimento (a meno di dimostrare che il piano era idoneo ab origine al risanamento, cosa valutabile ex post dal giudice). La Cassazione aveva infatti statuito che nel piano attestato l’esenzione da revocatoria richiede comunque il vaglio giudiziale sull’idoneità del piano, mentre per l’accordo omologato la protezione è automatica. Questo costituisce un forte incentivo per i creditori ad aderire a un ADR: sanno che i pagamenti che riceveranno non verranno più toccati. Per fare un parallelo, immaginiamo un fornitore: se resta estraneo e viene pagato regolarmente pre-fallimento, rischia sempre la revocatoria fallimentare (che colpisce i pagamenti ricevuti a ridosso del fallimento, solitamente l’anno prima); se invece aderisce all’accordo omologato e viene pagato secondo il piano, quei pagamenti (anche se concentrati in prossimità dell’apertura di un eventuale fallimento successivo) non saranno revocabili. Quindi paradossalmente un creditore preferisce essere pagato “dentro” un ADR che fuori, se teme il fallimento, perché è più sicuro. Naturalmente, se poi l’accordo riesce, il fallimento non ci sarà affatto.
Esempio esplicativo: la società Alfa S.p.A. conclude un accordo agevolato con la Banca X (40% del debito) e il Fornitore Y (10% del debito) – totale aderenti 50% > 30%, omologa ottenuta. Nel piano Alfa si impegna a pagare regolarmente i piccoli fornitori estranei (tra cui Z) alle scadenze, e a pagare la Banca X al 50% del suo credito in 24 mesi (con remissione del restante 50%). Dopo l’omologa, Alfa paga subito Z (estraneo) alla scadenza di fattura, e inizia a pagare le rate alla Banca X. Purtroppo, dopo un anno la crisi peggiora e Alfa non riesce più a pagare nessuno, finendo in liquidazione giudiziale. Conseguenze:
- Il fornitore Z, estraneo, che ha già incassato la sua fattura all’inizio, potrebbe vedersi contestare in revocatoria quel pagamento se ricevuto nei 6 mesi pre-fallimento? No, perché il pagamento a Z non era eseguito “in esecuzione dell’accordo” (Z era estraneo e pagato alle sue scadenze normali). Quindi la protezione di cui sopra vale per i pagamenti eseguiti ai creditori aderenti in attuazione del piano. Il pagamento a Z invece è un pagamento ordinario di debito pregresso: questo resta revocabile secondo le norme ordinarie (6 mesi se pagamento normale, 1 anno se anormale). Dunque Z potrebbe dover restituire il pagamento ricevuto, se il curatore prova che fu effettuato quando Alfa era già insolvente. Quindi, paradossalmente, Z pur essendo stato leale e fuori dall’accordo, subisce la revocatoria; la Banca X, che invece era dentro l’accordo e ha ricevuto pagamenti magari nello stesso periodo, non dovrà restituirli grazie alla esenzione ex lege.
- La Banca X, aderente, aveva rinunciato a metà credito. Dopo il fallimento di Alfa, può insinuare al passivo il 50% di credito residuo che le era stato falcidiato dall’accordo? La risposta la dà la Cassazione n. 32996/2024: l’apertura del fallimento risolve di diritto l’accordo, facendo “riespandere” l’obbligazione originaria e consentendo al creditore di far valere l’intero credito, dedotto quanto eventualmente ricevuto in esecuzione dell’accordo. Quindi la Banca X potrà insinuare il suo credito originario al 100% meno le rate che ha incassato. In altre parole, la remissione del 50% era condizionata all’integrale e regolare esecuzione dell’accordo; venuto meno l’accordo per il fallimento, quella parte condonata “rivive” ed è reclamabile in procedura. Questo tutela la banca aderente che altrimenti sarebbe stata penalizzata rispetto a Z (che poteva insinuare il 100% perché estraneo). La Suprema Corte ha chiarito che il fallimento successivo all’accordo omologato ne determina la risoluzione di diritto ex art. 1463 c.c. per sopravvenuta impossibilità giuridica (essendo il risanamento divenuto irrealizzabile con il fallimento), facendo sì che l’obbligazione dei creditori aderenti torni all’importo iniziale. Il curatore dovrà quindi ammettere X per l’intero credito originario detratto ciò che la banca ha già avuto come pagamento (pagamenti non revocabili). Questo aspetto è cruciale e sarà approfondito nella sezione successiva sulla risoluzione dell’accordo.
Mantenimento dei rapporti contrattuali in corso: durante l’esecuzione dell’accordo, l’impresa continua di norma ad operare. I contratti pendenti non si sciolgono per il solo fatto dell’accordo (come invece succede in liquidazione giudiziale). Se l’accordo prevede la continuazione aziendale, i contratti continuano regolarmente. Se invece l’accordo avesse natura liquidatoria (ad esempio concordamento di vendite di beni e cessazione attività), i contratti non indispensabili verrebbero presumibilmente chiusi a trattativa con le controparti. Il CCII non prevede espressamente la possibilità, in sede di ADR, di ottenere la cessazione unilaterale dei contratti (questa è prevista per concordato e PRO). Tuttavia, nulla impedisce di inserire clausole nell’accordo per disciplinare taluni contratti (es. i locatori possono aderire accettando riduzioni di canone, ecc.).
In sintesi, l’omologazione dell’accordo agevolato mette in moto il nuovo corso dell’impresa: se tutto va come previsto, il debitore onorerà puntualmente i suoi impegni verso estranei e verso aderenti (questi ultimi in misura ridotta/frazionata come pattuito), l’azienda ritornerà in equilibrio e uscirà dalla condizione di crisi, e i creditori, pur avendo rinunciato a qualcosa, otterranno soddisfazione migliore di quanto avrebbero avuto in caso di fallimento immediato.
Passiamo ora ad esaminare cosa accade se invece le cose non vanno come previsto, ovvero il debitore non adempie il piano: quali strumenti hanno i creditori e quali gli esiti giuridici.
5. Inadempimento dell’accordo e rimedi (risoluzione e fallimento)
Non sempre l’accordo di ristrutturazione va a buon fine. Possono verificarsi situazioni in cui, dopo l’omologazione, il debitore non riesce ad adempiere agli obblighi assunti. Ciò può dipendere da cause interne (sottovalutazione dei problemi, scarsa disciplina nell’eseguire il piano) o esterne (shock di mercato, perdita di commesse, crisi economica generale). In tali casi, occorre capire se e come l’accordo possa essere risolto o modificato, e quali conseguenze ne derivano per il debitore e i creditori.
Clausole risolutive dell’accordo: Innanzitutto, l’accordo stesso spesso prevede clausole di risoluzione automatica o convenzionale. Ad esempio, potrebbe essere pattuito che “il mancato pagamento di due rate consecutive ai creditori aderenti comporta la risoluzione di diritto dell’accordo” oppure che “in caso di mancato rispetto dei parametri finanziari X, i creditori aderenti, con decisione presa a maggioranza, possono dichiarare risolto l’accordo”. Tali clausole, se inserite, vincolano le parti. Quindi può darsi che l’accordo si risolva ipso iure al verificarsi di determinati eventi (senza bisogno di intervento giudiziale). In mancanza di clausole espresse, si applica la disciplina generale.
Disciplina generale della risoluzione: Il CCII, diversamente dalla legge fallimentare per il concordato (che prevedeva una procedura giudiziale di risoluzione con termine decadenziale di un anno), non detta una specifica procedura di risoluzione per inadempimento degli accordi di ristrutturazione. L’art. 61 CCII (accordi ad efficacia estesa) accenna alla possibilità di opposizione in caso di modifiche, ma non c’è un articolo dedicato alla “risoluzione” come invece c’è per il concordato (art. 118 L.F. e oggi art. 119 CCII). Di conseguenza, la dottrina e la giurisprudenza concordano che la risoluzione di un ADR omologato sia regolata dalle norme civilistiche sui contratti (artt. 1453 e seguenti c.c.), salvo eventuali clausole contrattuali specifiche. Ciò significa che, in caso di inadempimento rilevante:
- I creditori aderenti possono diffidare il debitore ad adempiere e, persistendo l’inadempimento, agire in giudizio per far dichiarare la risoluzione del contratto (accordo) ai sensi dell’art. 1453 c.c., con conseguente venir meno delle remissioni e dilazioni concesse, e diritto a pretendere l’intero credito originario (dedotto quanto eventualmente già incassato in conto). Non essendovi disciplina speciale, questa azione può essere proposta senza particolari termini di decadenza (a differenza del concordato preventivo in cui l’azione va promossa entro 1 anno dall’ultimo termine di adempimento, ex art. 186 L.F., regola non applicabile qui come notato dai giudici). Vale dunque la prescrizione ordinaria (5 anni per azioni derivanti da contratto).
- Un singolo creditore aderente può agire per la risoluzione anche se gli altri non lo fanno, perché ogni creditore ha diritto alla propria prestazione. Tuttavia, essendo l’accordo un contratto plurilaterale con prestazioni corrispettive, la risoluzione pronunciata su istanza di uno produce effetti anche rispetto agli altri creditori aderenti, risolvendo l’accordo nella sua interezza (non avrebbe senso proseguire l’accordo per alcuni e non per altri).
- Finché l’accordo non è risolto, il singolo creditore aderente non può agire esecutivamente per la parte falcidiata del credito perché è vincolato dal pactum de non petendo implicito nell’accordo. Però può agire per ottenere i pagamenti dovuti secondo le nuove scadenze (ossia esigere le rate scadute che il debitore ha omesso di pagare, in base all’accordo omologato che è titolo esecutivo). Se però il debitore è inadempiente in modo grave, di solito i creditori preferiscono chiedere direttamente la risoluzione e l’apertura del concorso, piuttosto che singolarmente inseguire i pagamenti.
- I creditori non aderenti non hanno bisogno di chiedere la risoluzione, in quanto non erano parte del contratto. Essi – come detto – se il debitore non paga, possono agire individualmente o presentare istanza di fallimento. La presentazione di istanza di fallimento da parte di un estraneo non presuppone formalmente la risoluzione dell’accordo, ma nella sostanza il tribunale valuterà lo stato di insolvenza del debitore: se questi non paga i debiti estranei e magari anche quelli dell’accordo, è verosimile che l’insolvenza sia conclamata e dichiari la liquidazione giudiziale.
- I creditori aderenti, possono chiedere il fallimento senza risoluzione? Su questo punto c’era incertezza, perché nella vecchia legge fallimentare per il concordato occorreva prima la risoluzione. Le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 4696/2022, hanno chiarito un principio molto importante: il creditore aderente a un accordo di ristrutturazione può legittimamente presentare istanza di fallimento del debitore in caso di inadempimento dell’accordo e persistenza dello stato di insolvenza, senza dover prima ottenere una pronuncia formale di risoluzione dell’accordo. Ciò è analogo a quanto avviene ora nel concordato preventivo: le nuove norme (art. 119 co.7 CCII) richiedono invece la previa risoluzione per il concordato, ma le SU del 2022 ragionavano sulla L.F. in cui la risoluzione non era condizione per i creditori pre-concordato. In ogni caso, la Cassazione ha distinto la posizione degli accordi: per gli accordi di ristrutturazione, mancando una disciplina ad hoc, vale il regime civilistico e quindi il creditore aderente può agire per fallimento come qualsiasi creditore per debiti scaduti, senza un formale passaggio di risoluzione (anche se l’accordo non è risolto, se c’è insolvenza palese). Questa posizione è motivata dalla diversità di ratio e dal fatto che l’accordo non ha un termine di adempimento definito con decadenze come il concordato. Le SU 2022 tuttavia hanno anche affermato che ciò non implica un’estensione al regime concordatario, che rimane separato.
- Di recente, come anticipato, la Cassazione (sentenza n. 32996/2024) ha sancito che la dichiarazione di fallimento (liquidazione giudiziale) successiva all’omologazione di un accordo di ristrutturazione provoca la risoluzione di diritto dell’accordo medesimo. In pratica, se il debitore viene dichiarato fallito, l’accordo cessa automaticamente i suoi effetti, senza necessità di una pronuncia specifica di risoluzione, a causa dell’impossibilità sopravvenuta di realizzare il risanamento (il fallimento travolge tutto). La Cassazione ha ricondotto ciò all’art. 1463 c.c.: l’apertura della procedura concorsuale spossessando il debitore rende irrealizzabile la causa del contratto di ristrutturazione, che era il risanamento dell’impresa, determinandone lo scioglimento automatico. L’effetto pratico è la “riespansione” dei crediti alla loro misura originaria: come visto nell’esempio di prima, un creditore che aveva falcidiato il credito riacquista il diritto all’intero, dedotti i pagamenti incassati che non sono revocati. Questa pronuncia ha quindi risolto un dubbio: c’era chi sosteneva che se i creditori non chiedono la risoluzione e arriva il fallimento, l’accordo rimarrebbe valido e i creditori aderenti dovrebbero insinuarsi solo per i crediti ridotti. Cass. 32996/2024 smentisce ciò: il fallimento risolve ex lege l’accordo, perché un accordo di ristrutturazione non può coesistere con la liquidazione concorsuale (sono ontologicamente incompatibili). Di conseguenza, i creditori aderenti concorreranno nella massa fallimentare per i loro crediti interi (meno quanto ricevuto in esecuzione accordo). Questa conclusione era stata anticipata dal Tribunale di Milano in una decisione del 4 aprile 2024, che applicando i principi di Cass. SU 4696/2022 aveva affermato la legittimazione del creditore aderente a chiedere il fallimento e che, però, la risoluzione di un accordo segue regole civilistiche senza decadenziali e non è soggetta al limite annuale del concordato. In quella sede si evidenziava come per gli accordi non vi sia una norma come l’art. 186 L.F. che imponga un termine di un anno per chiederne la risoluzione, quindi si applica la prescrizione ordinaria e non c’è decadenza breve.
Rimedi in caso di difficoltà esecutive (rinegoziazione): prima di arrivare alla rottura completa, il CCII offre anche la possibilità di modificare l’accordo se tutti sono d’accordo o quasi. L’art. 58 CCII consente, come visto, di apportare modifiche sostanziali al piano dopo l’omologa, con il consenso del professionista attestatore (che deve rinnovare la relazione) e avviso ai creditori, i quali se dissenzienti possono opporsi entro 30 giorni. Questa norma consente, ad esempio, se il piano incontra ostacoli, di proporre un’aggiustamento: es. allungare di 6 mesi le scadenze ai creditori aderenti, se essi sono d’accordo. Occorre il placet dell’attestatore sul fatto che il piano modificato è comunque in grado di realizzare l’accordo. I creditori contrari potrebbero opporsi in tribunale, che valuterà se le modifiche pregiudicano i loro diritti. Questo meccanismo di “aggiustamento in corsa” è prezioso per evitare di buttare a mare tutto lo sforzo se capita un inciampo temporaneo. Naturalmente, funziona solo se c’è cooperazione: se alcuni creditori non ci stanno alle modifiche, potrebbero bloccarle con un’opposizione, e a quel punto resterebbe solo l’alternativa rispetta il piano originale o risoluzione/fallimento.
Effetti della risoluzione dell’accordo: se l’accordo viene risolto (giudizialmente o di diritto per fallimento):
- come detto i creditori riacquisiscono il diritto ai loro crediti originari (dedotti i pagamenti ricevuti, che però tengono in tasca grazie all’esenzione revocatoria).
- L’accordo risolto non rivive: cioè non è che si torna alla situazione pre-omologa come se niente fosse, perché nel frattempo atti sono stati compiuti. Più precisamente, i creditori che hanno ottenuto pagamenti parziali li trattengono e li imputano a deconto del loro credito, mentre per la parte non pagata possono agire. Se la risoluzione è dichiarata dal tribunale su domanda di creditori, costoro tipicamente chiederanno contestualmente la dichiarazione di fallimento, perché la risoluzione in sé non apre un concorso (non c’è nel CCII una procedura di liquidazione automatica per gli accordi risolti). Dunque, per non lasciare i creditori in ordine sparso, la via consueta è: risolto l’accordo, si apre il fallimento. In mancanza, i creditori potrebbero agire in via individuale, ma a quel punto se l’impresa è insolvente inevitabilmente uno di loro attiverà la procedura concorsuale.
- Infine, va menzionato che la risoluzione dell’accordo non pregiudica i terzi che hanno acquistato diritti in buona fede in esecuzione del medesimo. Ad esempio, se parte del piano prevedeva la cessione di un ramo d’azienda a Tizio, quell’atto rimane valido anche se l’accordo si scioglie (salvo che l’atto stesso contenga condizioni risolutive legate al successo del piano, ma di solito no). Il terzo Tizio conserva l’azienda acquistata e non può essere attaccato (e neanche revocato l’atto, perché era protetto). Il suo eventuale debito di prezzo residuo va alla massa fallimentare se l’azienda fallisce.
Il punto di vista del debitore sull’inadempimento: per il debitore, vedersi risolvere l’accordo è ovviamente una sconfitta: a quel punto torna esposto a tutte le pretese originarie e quasi certamente verrà assoggettato a liquidazione giudiziale. Il debitore potrebbe cercare di prevenire la risoluzione attivando la composizione negoziata di nuovo o cercando di proporre un concordato preventivo. Ad esempio, se percepisce che non riesce a rispettare l’accordo, potrebbe tentare di depositare una domanda di concordato (anche liquidatorio) prima che i creditori facciano fallimento. Il CCII consente di passare da uno strumento all’altro, ma in pratica se c’è insolvenza il tempo a disposizione è poco e occorrono nuovi elementi (ad es. un apporto di finanza esterna per offrire un concordato migliore del fallimento). Altrimenti, una volta che i creditori perdono fiducia, è probabile che premano per il fallimento piuttosto che dare ulteriore corda al debitore.
In conclusione, l’accordo di ristrutturazione agevolato non ha una procedura formale di risoluzione interna ma segue le regole contrattuali generali. La giurisprudenza più recente ha chiarito che i creditori hanno ampie facoltà di tutela: possono anche bypassare la risoluzione e chiedere direttamente il fallimento se l’insolvenza riemerge, e comunque in caso di fallimento l’accordo si intende risolto automaticamente. Questo significa che, dal punto di vista del debitore, l’impegno ad eseguire l’accordo deve essere preso con estrema serietà: non vi è margine per “tirarla per le lunghe” perché i creditori possono facilmente farlo decadere dai benefici e agire. Tuttavia, se il debitore si rende conto di possibili difficoltà, può tentare la via di rinegoziare con i creditori e apportare correttivi (art. 58 CCII) finché c’è accordo da parte loro. Questo approccio flessibile è coerente con lo spirito della riforma: incoraggiare soluzioni concordate ma senza mai sacrificare oltre misura i diritti dei creditori, i quali rimangono liberi di tutelarsi se il debitore non mantiene le promesse.
Dopo aver esplorato gli aspetti normativi e procedurali, passiamo a considerare sinteticamente i vantaggi e gli svantaggi che l’accordo agevolato presenta per il debitore, in confronto con altri strumenti.
6. Vantaggi e svantaggi per il debitore
Dal punto di vista del debitore in crisi, l’accordo di ristrutturazione agevolato può rappresentare uno strumento estremamente utile, ma non è privo di controindicazioni. Di seguito riepiloghiamo i principali benefici e le criticità di tale istituto, in raffronto anche con le alternative (accordo ordinario, concordato, piano attestato):
Vantaggi per il debitore:
- Soglia di adesione ridotta (30%): Il vantaggio più evidente è la minoranza di blocco richiesta. Raggiungere il 60% dei crediti può risultare arduo, specie se il debito è frammentato tra molti creditori. Invece, dover ottenere solo il 30% rende l’operazione molto più fattibile. Ad esempio, è sufficiente convincere una o due banche principali e magari qualche fornitore strategico, senza dover coinvolgere la miriade di piccoli creditori. Questo snellisce enormemente le trattative e consente di attivare la soluzione prima che la situazione degeneri. Il debitore può concentrarsi sui pochi interlocutori chiave, risparmiando tempo e risorse.
- Rapidità e riservatezza: Un accordo agevolato può essere chiuso e omologato in tempi relativamente brevi, come visto (pochi mesi dall’avvio delle trattative all’omologa, se c’è cooperazione). Ciò è determinante per evitare che la crisi si aggravi e salvaguardare la continuità aziendale. Inoltre, fino al deposito in tribunale, la negoziazione è riservata e informale: l’assenza di una procedura pubblica iniziale aiuta il debitore a non allarmare la clientela o il mercato. Solo al momento dell’omologa vi sarà pubblicità, ma a quel punto il debitore potrà presentare la notizia come un fatto positivo (“raggiunto accordo di risanamento”), limitando lo stigma rispetto a un concordato (che nel sentire comune equivale a un passo dal fallimento).
- Controllo dell’impresa (nessun commissario): Nell’ADR, l’imprenditore mantiene la gestione piena della propria azienda, senza l’affiancamento o la sorveglianza di un commissario giudiziale. Questa condizione di debtor in possession è apprezzata da molti imprenditori, che temono l’ingresso di terzi nella governance. Potendo proseguire in autonomia, il debitore conserva la fiducia di clienti e dipendenti più che in un concordato (dove spesso il commissario è percepito come segnale di crisi grave). Certo, ciò comporta anche più responsabilità sul debitore, che dovrà essere disciplinato nel seguire il piano.
- Assenza di classi e voto: Il debitore non deve sottoporre il piano al giudizio di un’adunanza di creditori né preoccuparsi di formare classi e di raggiungere maggioranze per classi (come nel concordato). Questo evita l’incertezza dell’esito di un voto e situazioni come il cram-down interclassi (che può complicare il concordato). Qui se il debitore ha in mano le adesioni del 30%, l’unico rischio è l’opposizione di eventuali estranei. Ma se li paga regolarmente, non avranno motivi forti per opporsi (e in ogni caso il tribunale potrebbe omologare lo stesso se il piano è corretto). Quindi dal punto di vista del processo decisionale, l’accordo agevolato è più lineare e sotto controllo del debitore (che tratta one-to-one con i creditori rilevanti, senza dover convincere masse anonime o minoranze di blocco come nel concordato).
- Mantenimento di rapporti commerciali: Spesso un concordato preventivo incrina irrimediabilmente i rapporti con fornitori e finanziatori, perché prevede tagli ai loro crediti o comunque li congela. Un accordo agevolato, pagando regolarmente i piccoli fornitori estranei e coinvolgendo solo quelli consenzienti per eventuali sacrifici, permette al debitore di conservare meglio la rete di relazioni. I fornitori pagati resteranno disponibili a lavorare con l’azienda; le banche aderenti avranno convenienza a continuare a finanziare per massimizzare il recupero; i fornitori non aderenti, vedendosi pagati, magari neanche percepiranno la crisi come grave. Insomma, l’azienda può proseguire l’attività quasi normalmente durante e dopo l’accordo, senza l’onta di una procedura concorsuale conclamata.
- Protezione dagli effetti del fallimento (revocatorie): Come più volte evidenziato, l’accordo omologato mette al riparo il debitore e i terzi da azioni revocatorie su quanto fatto in esecuzione del piano. Ciò è un vantaggio indiretto per il debitore: consente di attuare operazioni (pagamenti, vendite di cespiti, concessione di garanzie per nuova finanza) con la tranquillità che, se poi l’accordo dovesse comunque saltare, tali operazioni non verranno annullate (tranne il caso di fallimento entro 2 anni e atti estranei al piano). Questo favorisce anche la disponibilità di partner a sostenere l’azienda nel piano (una banca sarà più propensa a dare nuova finanza se sa di avere privilegio prededucibile e niente revocatoria).
- Costi inferiori rispetto al concordato: Non essendoci organi della procedura né adunanze, i costi “procedurali” per il debitore sono ridotti. Il debitore deve pagare l’attestatore, i propri legali e consulenti, ed eventualmente una tariffa di iscrizione al registro imprese e contributo unificato per il ricorso, ma non deve sostenere compensi di commissari o liquidatori o spese di giustizia straordinarie. Inoltre evita i possibili aggravi fiscali che il concordato comporta (imposte su atti di trasferimento in concordato, ecc., anche se a dire il vero l’accordo omologato può anch’esso avere agevolazioni fiscali simili al concordato in alcuni casi).
- Possibilità di soluzioni creative e flessibili: L’accordo, essendo basato sul consenso contrattuale, offre al debitore un’ampia libertà di modulare le soluzioni. Ad esempio, può prevedere piani diversi per creditori diversi (purché non discriminatori al punto da far fallire l’attestazione); può includere conversione di crediti in equity (cosa più complicata in concordato se i creditori non votano favorevolmente); può prevedere intervento di nuovi soci o investitori senza dover passare per autorizzazioni giudiziarie (se sono d’accordo tutte le parti). Insomma, il debitore può “cucirsi addosso” l’accordo. Anche la combinabilità con efficacia estesa (art. 61) consente al debitore di includere certe categorie di creditori dissenzienti a condizioni specifiche, ampliando il raggio d’azione rispetto al solo perimetro degli aderenti volontari. Questa flessibilità può portare a soluzioni di risanamento più efficaci rispetto al concordato, dove certe operazioni (es. cessione d’azienda) seguono formalismi e dove i creditori votano solo sul piano complessivo e non su singoli accordi.
- Meno pregiudizievole per il patrimonio personale dell’imprenditore: Se parliamo di imprenditore individuale, un accordo di ristrutturazione (diversamente dal fallimento) non comporta effetti afflittivi personali (es. non c’è interdizione dagli uffici, né iscrizione in albi dei protesti, ecc.). Anche l’imprenditore collettivo (società) evita le conseguenze pubblicistiche di un fallimento (come restrizioni per gli amministratori). Si conserva anche la continuità dei contratti in corso senza bisogno di passaggi autoritativi (nel concordato talvolta i contratti rischiano di sciogliersi per clausole di ipso facto, sebbene oggi vietate in gran parte, ma la percezione di controparte è diversa). Dunque il debitore rimane padrone del proprio destino.
Svantaggi e limiti per il debitore:
- Nessuna protezione dalle azioni esecutive: Il rovescio della medaglia della rinuncia alle misure protettive è che il debitore, durante la fase di trattative e fino all’omologa, è esposto alle iniziative individuali dei creditori estranei. Questo è forse il principale punto critico: l’impresa deve essere sufficientemente solida da reggere senza scudo concorsuale. Se anche un solo creditore estraneo rilevante (es. un fornitore che vanta il 5% dei crediti) dovesse perdere la pazienza e pignorare conti o beni, potrebbe mettere in crisi il piano. Il debitore agevolato non può fare ricorso al tribunale per bloccarlo, pena il decadere dell’agevolazione. Certo, il debitore può sempre decidere tatticamente di pagare subito un estraneo minaccioso per toglierlo di mezzo; ma se non ha liquidità per farlo o se altri ne prendono esempio, rischia di aprirsi una falla. Questo limite rende l’accordo agevolato poco adatto a situazioni in cui la crisi è già acuta e i creditori sono in fibrillazione. In tali casi, l’unica via è un concordato con misure protettive o un accordo “ordinario” con stay, accettando il quorum del 60%.
- Impegno finanziario più oneroso a breve termine: Poiché l’accordo agevolato impone il pagamento tempestivo degli estranei, il debitore deve reperire risorse per onorare subito quei debiti. In un accordo ordinario avrebbe potuto prevedere (nei limiti di 120 gg) un piccolo respiro, oppure in un concordato magari li avrebbe falcidiati. Qui invece li paga al 100% rapidamente. Questo può assorbire liquidità dell’azienda proprio in un momento delicato. Insomma, l’accordo agevolato è ideale per chi ha ancora sufficiente cassa o può ottenere finanza esterna immediata (es. nuovo credito ponte) per soddisfare gli estranei. Se il debitore è talmente in crisi da non poter pagare i fornitori correnti, allora l’agevolato è in pratica precluso, e forzatamente si deve ricorrere alle protezioni (concordato). Da questo punto di vista, l’accordo agevolato è quasi un lusso per crisi moderate.
- Rischio di opposizioni e dilatazione procedura: Teoricamente, se anche uno solo dei creditori non aderenti (soprattutto se significativo) ritiene l’accordo pregiudizievole, può fare opposizione all’omologa. Ciò potrebbe introdurre un contenzioso che rallenta la procedura e getta incertezza. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate potrebbe opporsi se pensa che il trattamento fiscale sia inammissibile; un creditore potrebbe opporsi sostenendo che in realtà l’impresa è insolvente e l’accordo irrealistico. Il tribunale dovrà dirimere la questione e questo richiede tempo, perizie eventuali, udienze. Durante questo periodo, il debitore non è protetto, e la tensione finanziaria può aumentare. Dunque, benché il 30% di consensi basti sulla carta, un accordo agevolato con opposizioni potrebbe equivalere a un “mini-concordato litigioso”, vanificando un po’ i vantaggi di speditezza. In pratica però, se il debitore ha calibrato bene il piano, le opposizioni saranno infondate e respinte. È comunque un rischio.
- Non consente di imporre sacrifici alla maggioranza dei creditori: Un limite intrinseco è che l’accordo agevolato non coinvolge attivamente il 70% (o più) del ceto creditorio. Se l’impresa ha bisogno di ristrutturare radicalmente il debito (ad esempio abbattere il 50% di tutti i debiti), l’accordo agevolato non è lo strumento adatto, perché i creditori estranei non sono soggetti a falcidia. In quei casi, serve un concordato preventivo con classi e cram-down, oppure assicurarsi adesioni ben oltre il 30%. L’agevolato invece è calibrato su interventi mirati: convincere alcuni creditori a tagliarsi il credito mentre gli altri vengono pagati. Se la massa di debiti è tale che non è sostenibile pagarne il 70% per intero, allora l’agevolato non risolve e condurrebbe comunque a insolvenza posticipata. Ad esempio, se l’impresa è sovraindebitata al 200% dei mezzi propri, ristrutturare solo il 30% del debito potrebbe non bastare a riequilibrarla. Il debitore deve fare bene i conti: con l’agevolato risolve i nodi principali e poi è in grado di continuare a pagare il resto? Se la risposta è no, allora quell’impresa necessita un coinvolgimento ben più ampio dei creditori (concordato).
- Coinvolgimento limitato di creditori pubblici: In generale, il Fisco e gli enti previdenziali sono spesso tra i creditori maggiori nelle crisi d’impresa. L’accordo agevolato può includerli tramite la transazione fiscale, ma qui c’è un potenziale collo di bottiglia: se l’Erario non aderisce e il suo credito era rilevante per arrivare al 30%, il debitore deve comunque rispettare condizioni rigorose per ottenere l’omologa forzata (pagamento almeno 30%, offerta conveniente vs liquidazione, ecc.). Ciò potrebbe costringere il debitore ad alzare l’offerta al Fisco magari più di quanto avrebbe fatto in un concordato (dove è sufficiente 20% spesso). Inoltre, attualmente (2025) c’è la disciplina transitoria che impone pure che almeno 25% degli altri creditori aderiscano e se sono meno prevede 40% al Fisco. Questo vuol dire che, ad esempio, se il debito col Fisco è la metà del totale, il debitore per fare un agevolato deve comunque pagare il Fisco minimo al 30-40%. Il che è un onere significativo. Un concordato liquidatorio, paradossalmente, potrebbe permettergli di offrire anche meno al Fisco (20% era la soglia ex art. 182-ter L.F.). Quindi in taluni casi l’agevolato pone standard più severi verso i crediti erariali, proprio per quell’equilibrio di cui sopra. Ciò potrebbe essere uno svantaggio per il debitore, specie se ha tanti debiti fiscali e poche risorse: un concordato con cram-down fiscale a volte consente soluzioni più spinte, anche se temporaneamente la legge le ha sospese.
- Possibile instabilità post-omologa: Un punto a sfavore del regime contrattuale è che, come abbiamo visto, l’accordo non “blinda” la situazione a lungo termine: i creditori possono farlo risolvere se il debitore sgarrA, e se arriva un fallimento l’accordo si scioglie. Nel concordato, invece, una volta omologato, se decorre un anno dall’ultimo termine senza che nessuno ne chieda la risoluzione, non è più risolvibile. E comunque anche se risolto, non c’è reviviscenza integrale dei debiti nel concordato (nel concordato risolto i creditori concorsuali recuperano solo la parte non pagata, non tornano all’intero credito originario se avevano falcidie, a differenza dell’accordo, se ben si interpreta). Ciò significa che l’accordo di ristrutturazione per certi versi è più fragile: se va male, è come se non fosse mai esistito (debiti di nuovo pieni). Il concordato risolto invece lascia impregiudicate le azioni esecutive, però quel che è stato pagato resta pagato e la parte falcidiata non si ricarica (nel concordato, anzi, se hai avuto esdebitazione per la percentuale non pagata, rimane esdebitato il debitore, salvo eccezioni). Questo è un tecnicismo, ma per il debitore può fare la differenza: un accordo fallito lo espone di nuovo all’intero fardello, un concordato risolto lo espone “solo” alle quote residue. Certo, in un concordato se è risolto probabilmente viene comunque dichiarato fallito e i crediti residui concorrono, ma per l’imprenditore persona fisica ad esempio il concordato risolto non fa rivivere i debiti stralciati (lui ne era esdebitato, e se anche fallisce potrà chiedere esdebitazione del resto). Invece, un imprenditore persona fisica che risolve un ADR torna ad avere tutti i debiti come prima tranne quelli già pagati. Quindi è un rischio personale maggiore se qualcosa va storto.
- Limitata applicabilità a crisi già note al pubblico: L’accordo agevolato funziona bene se la crisi è sommersa e gestibile confidenzialmente. Se però la crisi è già di dominio pubblico (es. l’azienda è insolvente, i giornali ne parlano, i fornitori sono in allarme, ecc.), potrebbe essere complicato convincere la platea a “stare buona” senza misure protettive. In più, la ridotta soglia del 30% potrebbe suonare come ingiusta ad alcuni creditori: “come, omologano un accordo col solo 30%? E noi altri 70% restiamo col cerino in mano?”. Potrebbero quindi opporsi di principio. Insomma c’è un fattore di accettabilità percepita. Per questa ragione, l’accordo agevolato non è uno strumento adatto a tutte le stagioni, ma piuttosto a crisi gestite per tempo e con discrezione. In caso di situazione compromessa, un concordato (dove tutti votano e hanno voce) può essere paradossalmente più praticabile politicamente.
In definitiva, dal punto di vista del debitore, l’accordo agevolato è un’ottima soluzione se:
- la crisi è ancora relativamente governabile (nessuna raffica di decreti ingiuntivi in arrivo, liquidità minima per onorare i correnti),
- esistono uno o più creditori di peso disposti a fare da “pivot” dell’accordo (ad esempio la banca principale che accetta una ristrutturazione del proprio credito e magari eroga nuova finanza),
- il resto dei creditori è frammentato e può essere pagato normalmente,
- c’è urgenza di evitare la pubblicità di un concordato e si vuole massima flessibilità.
Se queste condizioni mancano, il debitore farebbe meglio a valutare l’accordo ordinario (60% con misure protettive) o il concordato. Non a caso, l’accordo agevolato è spesso definito un istituto pro-ciclico: serve ad affrontare la crisi in fase precoce. Lo scambio che il debitore accetta è: meno consenso richiesto, però non blocco nessuno e pago tutti gli altri puntualmente. Se è in grado di mantener fede a tale impegno, i vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi; se invece non può, allora quell’opzione non è percorribile.
Nel prossimo paragrafo, confronteremo sinteticamente l’accordo agevolato con le altre due varianti (ordinario ed efficacia estesa), per evidenziarne differenze e possibili usi combinati.
7. Confronto con accordi ordinari ed ad efficacia estesa
Abbiamo già anticipato molte differenze tra accordo ordinario (art. 57) e agevolato (art. 60). Qui le riassumiamo brevemente, aggiungendo considerazioni sull’accordo ad efficacia estesa (art. 61) e sulla convenzione di moratoria (art. 62), pur non essendo oggetto primario della guida, per completare il quadro degli strumenti CCII a disposizione del debitore.
Accordo ordinario vs agevolato: In estrema sintesi, l’accordo ordinario richiede il 60% di adesioni e consente al debitore di avvalersi di tutti gli strumenti protettivi e dilatori che la legge offre: può chiedere il congelamento delle azioni esecutive e cautelari dei creditori (art. 54 CCII) durante le trattative, e può far omologare l’accordo pur prevedendo una breve moratoria di pagamento ai creditori estranei (fino a 120 giorni). Questo lo rende adatto per imprese che necessitano di un po’ di respiro (stay) per negoziare e magari di qualche settimana in più per pagare i fornitori estranei post-omologa. Di contro, serve convincere creditori per almeno i 3/5 del totale crediti, il che a volte comporta dover includere quasi tutti i principali creditori e spesso anche una fetta di medie/piccoli. È quindi un percorso che o parte con un ampio consenso oppure rischia di non decollare.
L’accordo agevolato dimezza il quorum al 30%, quindi è molto più semplice da raggiungere, ma priva il debitore delle “reti di protezione” (stay e moratoria). Essendo già illustrate ampiamente le differenze (cfr. tabella 1 e sez. 2), possiamo dire che la scelta tra accordo ordinario e agevolato è strategica: se l’imprenditore valuta di poter stare senza protezioni perché la situazione è tranquilla con i rimanenti creditori (e/o può pagarli regolarmente), conviene l’agevolato per risparmiare sforzi di raccolta consensi. Se invece teme aggressioni e ha bisogno di bloccare tutto il tempo di completare le negoziazioni (ad es. con 40% dei crediti ha già accordo, ma c’è un altro 60% arrabbiato che potrebbe agire subito), allora meglio percorso ordinario con protezioni, anche se ciò implica magari dover includere poi qualcuno in più nell’accordo per arrivare al 60.
Notiamo che è anche possibile per il debitore cambiare strategia in corsa: inizialmente depositare un ricorso per accordo ordinario con misure protettive (quindi con riserva, ex art. 44 CCII) per congelare la situazione, e poi, se le trattative vanno bene e appurato che può fare a meno del stay, richiedere comunque un’omologa con soglia ridotta (questo però appare contraddittorio: avendo già chiesto protezioni, sarebbe venuto meno il requisito dell’art. 60). Dunque, formalmente non può ottenere quell’omologa agevolata avendo utilizzato misure. L’unica ipotesi è: presenta inizialmente domanda in bianco di concordato (che non preclude presentare un accordo poi) giusto per bloccare, poi la ritira e deposita un accordo agevolato. Ma in tal caso i 120 gg di protettivo usati nel concordato con riserva verosimilmente lo rendono inidoneo all’agevolato (misure già avute). Insomma, “prendere due strade” insieme non è consentito, coerentemente con la ratio.
Accordo ad efficacia estesa (art. 61 CCII): Questo istituto è complementare agli accordi (ordinari o agevolati). Esso consente di estendere gli effetti dell’accordo ad alcuni creditori non aderenti, purché appartengano a categorie omogenee di crediti in cui una forte maggioranza (almeno il 75%) ha invece aderito. In pratica, è un meccanismo di cram-down settoriale: il tribunale, su richiesta del debitore, omologa l’accordo disponendo che vincoli anche i dissenzienti di quella categoria. Questo strumento nasceva originariamente per le banche e intermediari finanziari: la L. 9/2015 introdusse l’art. 182-septies L.F. che permetteva di trascinare le banche dissenzienti se il 75% delle esposizioni bancarie aveva firmato (era pensato per ristrutturazioni aziendali dove una banca isolata non potesse bloccare tutto). Il CCII ha ampliato l’istituto in due direzioni:
- da un lato, generalizzandolo a qualunque categoria di creditori (non solo banche), tenuto conto dell’omogeneità di posizione giuridica e interessi economici – quindi potenzialmente anche fornitori, obbligazionisti, etc. possono costituire categorie suscettibili di estensione;
- dall’altro, ponendo però limiti: l’art. 61 distingue tra creditori finanziari (banche e similari) e altri creditori. Per i creditori finanziari l’accordo può essere anche a contenuto liquidatorio e comunque possono essere estesi anche se l’accordo prevede la cessione di beni (anticipando il recepimento di parte della Direttiva UE) – questo fu previsto perché spesso l’accordo con banche comporta vendite di asset per rimborsarle. Per i creditori non finanziari, invece, l’accordo non deve essere meramente liquidatorio (il CCII vuole che se si forzano fornitori o simili a entrare nell’accordo senza consenso, ciò avvenga solo in un contesto di continuità aziendale). Ciò a tutela dei trade creditors: se l’impresa comunque chiude, non li puoi costringere a uno stralcio senza consenso (tanto vale il fallimento in quel caso).
Per ottenere l’efficacia estesa, il debitore deve dimostrare:
- che ha correttamente informato tutti i creditori della categoria durante le trattative e fino all’ultimo (art. 61 co.2 lett. a: obbligo di dare informazioni complete e aggiornate, nonché di coinvolgerli nei negoziati, anche senza formalità rigide ma in modo tracciabile),
- che notifica individualmente ai non aderenti l’accordo e la richiesta di estensione, così che possano eventualmente opporsi entro 30 giorni (lett. e),
- che la categoria è definita correttamente su base di omogeneità (es. tutti chirografari finanziari; o tutti chirografari commerciali fornitori, ecc. – no gerrymandering delle classi),
- e che i creditori da vincolare riceveranno un trattamento non deteriore rispetto ai creditori di pari grado estranei all’accordo e comunque non inferiore a quello che avrebbero in liquidazione (in altre parole, rispetto dei principi di parità orizzontale e best interest test). In particolare, va garantito che i dissenzienti non subiscano una falcidia maggiore di quella dei creditori aderenti della medesima categoria e che non esistano trattamenti occulti preferenziali.
Se queste condizioni sono soddisfatte, il tribunale omologa e dichiara estesi gli effetti dell’accordo anche ai non aderenti designati (specificandoli). Esempio: la società Beta ha debiti verso 10 fornitori chirografari per 1 milione ciascuno; 8 di loro accettano un accordo di ristrutturazione al 50% (dunque 8 milioni->pagherà 4 milioni in tot, gli altri 4 condonati), 2 rifiutano. Beta può chiedere l’estensione: se ha rispettato informativa ecc., il tribunale può omologare vincolando anche i 2 dissenzienti allo stesso 50% (pagati 0,5 ciascuno, rinunciano a 0,5). Questi due, se non si sono opposti o la loro opposizione è rigettata (perché comunque prenderebbero 0,5 che è meglio di presumibile 0 in fallimento magari), saranno obbligati a subire la falcidia. Però attenzione: se i due avevano credito scaduto prima dell’omologa, Beta deve pagare loro comunque il 50% subito a scadenza, perché non può dare moratoria. Se invece i loro crediti scadevano dopo, li pagherà a scadenza ma ridotti del 50%. In ogni caso, la loro scadenza non slitta (questo si evince come visto).
L’accordo ad efficacia estesa può essere combinato con l’accordo agevolato. Immaginiamo un caso concreto: la società ha 30% di debiti verso banche, 70% verso fornitori. Le banche (che coprono il 30%) aderiscono all’accordo (sufficiente per accordo agevolato). I fornitori, ipotizziamo, non vengono interpellati in adesione (o magari la maggior parte no). Tuttavia, se i fornitori possono essere considerati una categoria e il 75% di essi (in valore) aderisce comunque spontaneamente, Beta può chiedere di estendere ai restanti 25%. Ma se i fornitori non aderiscono affatto, non può estenderlo (serve il 75% di consenso intra-categoria). Quindi l’efficacia estesa è una possibilità ulteriore solo se entro quella categoria c’è già un forte consenso. Non aiuta, invece, se proprio un’intera categoria è ostile. A quel punto, l’accordo di ristrutturazione non è lo strumento giusto: servirebbe un concordato.
Infine, l’art. 62 (Convenzione di moratoria) consente, per crediti finanziari (banche, intermediari, obbligazionisti), di concludere un accordo di moratoria dei pagamenti (cioè un accordo temporale: “aspettiamo tutti X mesi prima di riscuotere”). Se vi aderiscono i titolari di almeno il 75% dei crediti di quella categoria, il debitore può chiedere al tribunale di estendere la moratoria anche ai dissenzienti della categoria, e contestualmente ottenere una misura protettiva temporanea che blocchi eventuali azioni di quei dissenzienti in pendenza della moratoria. In pratica è uno standstill contrattuale collettivo, con efficacia coattiva sui pochi contrari. Questa convenzione di moratoria è utile come strumento di gestione della fase pre-accordo: il debitore in difficoltà può raccogliere una convenzione di moratoria con le banche per dire “non chiederemo rimborsi prestiti per 6 mesi e non agiremo per escussioni garanzie”, la fa omologare ex art. 62, e ciò impedisce anche alla banca non aderente di agire (perché la moratoria viene resa obbligatoria per lei e intanto è protetta da misure protettive concesse con la convenzione). Durante tale periodo, il debitore può finalizzare un accordo di ristrutturazione (o un concordato). L’art. 60 dice che l’accordo agevolato mal si concilia con la moratoria? Abbiamo visto che la dottrina pensa che la convenzione di moratoria ex art. 62 non rientri nel concetto di “moratoria” vietata dall’art. 60, e dunque un debitore potrebbe teoricamente aver usufruito di una convenzione di moratoria (per congelare gli interessi delle banche per dire) e poi proporre l’accordo agevolato. Questa interpretazione resta opinabile, ma è plausibile perché la convenzione di moratoria viene considerata uno strumento autonomo e diverso.
Tirando le fila: l’accordo ad efficacia estesa e la convenzione di moratoria sono strumenti speciali che arricchiscono le possibilità del debitore nel negoziare la crisi. Dal punto di vista del debitore:
- la convenzione di moratoria è utile prima o durante la negoziazione per prendere tempo con i soli creditori finanziari, ed è compatibile con poi un accordo agevolato (anzi, utile per arrivarci).
- l’accordo ad efficacia estesa è utile in sede di omologa per blindare l’accordo, impedendo a una minoranza di farlo fallire perché dissenziente. È come un colpo di coda: se hai portato il 75% di una classe, il resto non potrà bloccare, il giudice li forza dentro. Quindi aumenta le chance di tenuta dell’accordo.
Dal punto di vista procedurale, chiedere l’efficacia estesa comporta un aggravio: l’attestazione deve certificare l’idoneità del piano a soddisfare integralmente i non aderenti vincolati (tranne la falcidia concordata) e serve quell’intenso onere informativo. Ci vuole anche la prova delle comunicazioni (PEC o raccomandate, come ha chiarito Trib. Milano 18.12.2024), pena rischiare opposizioni per difetto di informazione.
In conclusione, l’accordo agevolato puro (senza efficacia estesa) è uno strumento già forte per il debitore, e l’efficacia estesa può essere combinata per amplificarne i risultati coinvolgendo anche i recalcitranti di determinate categorie, soprattutto banche. Non c’è una contrapposizione, bensì un possibile uso congiunto: come nota Zanichelli, si può pensare a un “accordo che unifichi le due varianti” (agevolato + efficacia estesa) qualora il debitore abbia una parte di creditori strategici minoritaria e voglia includere coattivamente anche altri con cui condivide interessi comuni. Ad esempio, un accordo agevolato raggiunto con il 30% di crediti rappresentato da 4 banche su 5, e chiedere efficacia estesa sulla quinta banca (dissenziente, minoranza nella categoria) così da non doverla pagare fuori accordo. Ciò è perfettamente nei piani del legislatore, tanto che art. 60 e 61 furono introdotti insieme dal DL 118/2021 proprio per permettere soluzioni “ibride” di questo tipo.
8. La transazione fiscale e il trattamento dei crediti pubblici
Un capitolo di rilievo negli accordi di ristrutturazione (così come nei concordati) è il trattamento dei crediti fiscali e contributivi. Spesso, come accennato, il Fisco (Agenzia delle Entrate, Agenzia Riscossione) e gli enti previdenziali (INPS, Casse edili, etc.) figurano tra i principali creditori di un’impresa in crisi, a causa di imposte e contributi non versati. Il CCII dedica l’art. 63 alla cosiddetta transazione fiscale e contributiva, istituto già presente dal 2006 nella legge fallimentare e ora integrato nel sistema.
Cos’è la transazione fiscale? È la possibilità per il debitore di proporre, nell’ambito di un accordo di ristrutturazione (o concordato), il pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti tributari e previdenziali, comprese sanzioni e interessi, ottenendo il consenso delle amministrazioni. In pratica, l’Erario e gli enti previdenziali, che in mancanza di ciò sarebbero tenuti a esigere integralmente il dovuto (specie se privilegiato), possono eccezionalmente accettare uno stralcio o una rateazione più ampia. La ragion d’essere è dare la possibilità all’impresa di risanarsi alleggerendo il debito verso lo Stato, quando comunque alternativamente recupererebbe meno in caso di fallimento.
Nel contesto degli accordi di ristrutturazione:
- Il debitore formula una proposta di trattamento dei crediti fiscali e contributivi (es: pagamento del 40% del debito IVA, 100% del capitale e 10% delle sanzioni in 5 anni, etc.) e la sottopone alle amministrazioni competenti.
- Questa proposta deve essere accompagnata dalla relazione di un esperto indipendente (lo stesso attestatore di piano) che attesti la convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria (cioè che l’Erario prenderebbe almeno quanto prenderebbe in un fallimento della società) e l’assenza di discriminazioni indebite (art. 63 co.2 CCII).
- Le agenzie fiscali (Agenzia Entrate, Riscossione) e gli enti previdenziali valutano la proposta. Se la accolgono, esprimono formale adesione (spesso c’è un parere del cosiddetto “ufficio del direttore” ex art. 63 co.5).
- Se non si pronunciano entro 90 giorni dalla presentazione, attualmente il silenzio equivale a diniego (questo era previsto dalla legge sino al 2020; poi fu introdotto un silenzio-assenso nel Codice, ma la normativa transitoria 2023 l’ha sospeso). Anzi, l’art. 1-bis DL 69/2023 ha stabilito che l’adesione dev’essere espressa entro 90 giorni dal deposito della proposta; oltre, si intende non pervenuta e si applica il meccanismo di cram-down che diremo. In passato, il silenzio di 90gg era interpretato come assenso tacito se l’esperto attestava la convenienza (ex art. 48 co.5 CCII), ma questa disposizione (art. 63 co.3 originario) è stata sospesa dalla norma transitoria fino a quando non sarà emanato un d.lgs. correttivo. Quindi ad oggi non c’è silenzio-assenso ma servono o adesione espressa o si attende il termine e poi il giudice può intervenire come sotto.
- Se l’ente rifiuta la proposta (o risponde negativamente, o lascia trascorrere il termine senza atto di adesione), si pone il problema: l’accordo può essere omologato anche senza il suo consenso? E a quali condizioni?
In origine, il CCII (come la L.F. modificata dal 2017) prevedeva la possibilità del cosiddetto cram-down fiscale: ovvero il tribunale poteva omologare l’accordo anche senza l’adesione del Fisco/INPS, a patto che la proposta fosse conveniente rispetto alla liquidazione e vi fosse la presenza di alcune condizioni (tra cui che la mancata adesione pregiudicasse il raggiungimento delle percentuali richieste). In particolare, l’art. 48 co.5 CCII stabiliva che se il voto (adesione) del Fisco era decisivo per il quorum e la proposta era migliore del ricavabile in fallimento, il giudice poteva omologare lo stesso, considerando come adesione il silenzio decorsi 90gg.
Le novità introdotte nel 2023: Con il D.L. 69/2023 (cosiddetto “decreto salva-infrazioni UE”), convertito dalla L. 103/2023, il legislatore italiano ha modificato in modo significativo questa disciplina. L’obiettivo era rispondere ai rilievi UE che chiedevano una tutela più forte dei crediti pubblici (non discriminatoriamente penalizzati) e implementare la Direttiva 2019/1023 per quanto riguarda i creditori pubblici dissenzienti. La legge ha dunque sospeso fino all’emanazione di correttivi le parti dell’art. 63 CCII che prevedevano il silenzio-assenso e la disciplina originaria, e contestualmente ha dettato un regime transitorio (art. 1-bis L. 103/2023) tuttora vigente al giugno 2025. Questo regime, valido fino a futura modifica legislativa dell’art. 63, è il seguente:
- Non si applicano l’ultimo periodo del comma 2 e il comma 2-bis dell’art. 63 CCII. In pratica sono disattivate le norme sul silenzio-assenso e sulla non obbligatorietà del voto del Fisco.
- Invece, si introducono nuove regole nei commi 2-5 dell’art. 1-bis:
- Condizioni per omologare senza adesione del Fisco/enti previdenziali:
- a) l’accordo non deve avere carattere liquidatorio (quindi l’impresa in teoria prosegue almeno un minimo attività; se è un puro realizzo di beni, niente cram-down fiscale in questa sede transitoria);
- b) l’adesione dell’Erario/ente sarebbe determinante per raggiungere le percentuali di cui agli artt. 57 co.1 (60%) e 60 co.1 (30%). Cioè, senza il loro voto non si raggiunge la soglia oppure, come interpretato, se lo escludi scendi sotto. Questo di fatto è come dire: se il Fisco è “necessario” per avere il 60 o 30%. Ad esempio, se ho il 25% di adesioni e il Fisco ha un 10%, allora col Fisco arriverei a 35%, senza sono a 25% e non avrei il 30% minimo -> condizione soddisfatta. Se invece ho comunque il 30% senza Fisco, quell’accordo potrebbe già omologarsi come agevolato, e la condizione b) non sarebbe soddisfatta, per cui non so se il giudice, potendo già omologare per il quorum raggiunto senza Fisco, dovrebbe comunque considerare il Fisco estraneo (pagandolo integralmente). Probabilmente la condizione b) serve a definire quando proprio serve forzare il Fisco. Se già non serve per quorum, il debitore può decidere di non chiedere il cram-down e pagarlo fuori accordo).
- c) i crediti degli altri creditori aderenti devono essere almeno il 25% del totale crediti. Questa è una soglia di credibilità: non puoi pretendere di far passare un accordo dove di fatto l’unico grande creditore è lo Stato e giusto due spicci di altri. Ci deve essere almeno un quarto del debito in mano a privati che credono nel piano. Altrimenti, se il 90% del debito è pubblico e aderisce solo il 10% di privati, niente omologa forzata: o il Fisco acconsente o salta tutto.
- d) la proposta al Fisco/enti dev’essere conveniente rispetto alla liquidazione (questo era già implicito, ora esplicito: il giudice deve valutare e motivare in omologa la convenienza, sulla scorta della relazione attestativa).
- e) il soddisfacimento offerto al Fisco/enti dev’essere almeno il 30% del credito complessivo (inclusi sanzioni e interessi). Questa è una soglia minima, più alta del 20% che era storicamente usata come riferimento nel concordato, e vale sia per tributi che contributi.
- Caso eccezionale per bassa partecipazione di altri creditori: se i crediti degli altri aderenti sono meno del 25% (contravvenendo alla condizione c, quindi l’accordo tendenzialmente non sarebbe omologabile col cram-down), c’è uno spiraglio: il tribunale può comunque omologare, purché (oltre a a), b), d) sopra):
- la soddisfazione dei crediti fiscali/previdenziali non sia inferiore al 40%,
- e la dilazione di pagamento richiesta non ecceda i 10 anni (con interessi legali).
Quindi, se l’impresa ha altri creditori aderenti inferiori al 25%, può compensare offrendo al Fisco di più (40% invece di 30) e massimo in 10 anni.
- Notifica obbligatoria al Fisco della domanda: come già accennato, si è previsto che entro 5 giorni dall’iscrizione della domanda di omologa, il debitore deve notificare via PEC all’Agenzia Entrate e agli enti la domanda di omologa e la proposta depositata. Questo per far decorrere i termini di 90 giorni per rispondere dalla ricezione dell’avviso e non dalla pubblicazione nel registro imprese (per evitare che l’ufficio si perda la notizia solo su registro). Quindi è un onere formale che il debitore deve curare, altrimenti l’omologa potrebbe essere invalidata.
- Termine per adesione: come detto, l’adesione deve arrivare entro 90 giorni dal deposito della proposta (immaginiamo anche depositata prima del ricorso? Non chiarissimo, ma presumiamo dal deposito in tribunale). Quindi l’ente ha 90 giorni per dire sì. Se non lo fa, presumibilmente è considerato non aderente e si applicano i criteri di cui sopra (il tribunale può decidere al suo posto se condizioni rispettate). Non è più che il silenzio vale assenso; vale di fatto come silenzio-diniego superabile se a-e soddisfatte.
- Oppure, se aderisce tardivamente: Comma 5 dice che l’adesione eventuale deve intervenire entro 90gg dal deposito proposta. Quindi dopo quell’arco temporale, l’ente perde la facoltà di aderire e sarà considerato come non aderente ai fini del calcolo percentuali e dell’eventuale cram-down.
- Queste disposizioni si applicano alle proposte di transazione presentate dopo l’entrata in vigore della legge (avvenuta ad agosto 2023).
- Condizioni per omologare senza adesione del Fisco/enti previdenziali:
Implicazioni: Attualmente, quindi, un debitore che voglia includere il Fisco in un accordo agevolato deve:
- prevedere di pagare almeno il 30% del suo credito (meglio qualcosa in più se possibile per sicurezza),
- la sua offerta dev’essere migliore di quel che il Fisco otterrebbe in liquidazione (quindi andrà costruito uno scenario di liquidazione con percentuale X < 30%).
- se senza l’adesione del Fisco non arriva al 30% di consensi, allora la sua omologazione dipende dal convincere il giudice con queste regole (questo è tipico: spesso l’erario ha peso rilevante e le banche non vogliono aderire se vedono che comunque c’è rischio che l’erario stralci, insomma è complesso).
- se i privati rappresentano meno del 25% del debito, deve spingersi a dare 40% al Fisco e rientro in max 10 anni, che è uno sforzo notevole.
- L’ente pubblico non può più far melina: in 90 giorni deve decidere. Se dice no, il giudice può comunque procedere se quella decisione appare irragionevole (non conveniente) e condizioni sono rispettate.
Dal punto di vista del debitore:
- Positivo: c’è un quadro normativo chiaro per ottenere l’omologa anche contro il diniego del Fisco, a patto di non esagerare nel chiedere stralci. In passato c’era incertezza (silenzio-assenso? Opposizioni possibili?), ora la legge esplicita che se dai almeno 30% e la proposta è conveniente, il tribunale deve valutare la omologazione nonostante il no del Fisco. Anzi, rimuovendo il silenzio-assenso, è scontato che quasi mai l’Erario aderirà espressamente per contabili ragioni, ma il debitore sa che se rispetta i parametri può confidare nel giudice.
- Negativo: i parametri sono severi (30-40%). Molte PMI in crisi profonda non riescono a offrire tali percentuali su debiti erariali, specie se contenevano sanzioni e interessi che facevano lievitare il totale. Anche se le sanzioni possono essere falcidiate interamente per legge, perché il CCII consente di non pagare sanzioni in caso di incapienza (e la stessa Agenzia spesso rinuncia alle sanzioni se c’è incapienza patrimoniale). Comunque il 30% sul totale comprensivo di interessi è una soglia più alta di prima. Ma c’è da dire che in pratica molti accordi già prevedevano circa 30% come offerta minima, quindi si normalizza la prassi.
- Nelle more, va detto, alcune pronunce (es. Trib. Roma 11.11.2022) avevano ritenuto inapplicabile il silenzio-assenso del CCII per contrasto con principi costituzionali, ma ora il legislatore ha risolto normativamente la questione col meccanismo suesposto.
In conclusione, oggi un accordo agevolato con debiti fiscali deve considerare quell’art. 1-bis: il debitore calibrerà la propria proposta di transazione fiscale di conseguenza. Se riesce a ottenere un accordo con i creditori privati sufficiente (≥25% del totale) e offre 30% al Fisco, potrà chiedere l’omologa forzosa anche in caso di diniego. Il tribunale, dal canto suo, sarà tenuto a verificare scrupolosamente la relative priority rule rispetto al Fisco. Su questo, segnaliamo la pronuncia Cass. 34842/2024, la quale – stando al sommario Unijuris – ha affermato che nel cram-down fiscale il giudice deve assicurare il rispetto della regola di priorità relativa. Ciò si traduce, ad esempio, nel fatto che il Fisco (che spesso è chirografario per parte del credito e privilegiato per altra) non può ricevere percentuali inferiori a quelle di creditori di rango inferiore. Ossia: se offro il 30% al Fisco chirografario ma sto dando il 50% ai fornitori chirografari, questo viola la RPR – e il giudice potrebbe pretendere un allineamento (a meno che vi sia giustificazione, ma in genere no). Quindi il debitore dovrà stare attento anche a quell’aspetto: la par condicio orizzontale. In pratica, conviene offrire al Fisco almeno quanto offre agli altri chirografari (salvo le sanzioni che si possono abbattere del tutto, perché i fornitori non hanno sanzioni quindi non c’è comparazione, e la legge consente di trattare diversamente sanzioni/ interessi dal capitale).
Un altro aspetto: il ruolo dell’OCRI (Organismo Composizione Crisi Impresa) nel parere fiscale. Nel sistema CCII era previsto (art. 63 co.5) che se esisteva un Organismo di Composizione della Crisi attivo (perché l’impresa aveva allerta o composizione negoziata), questo fornisse un parere sulla proposta fiscale, che in caso positivo vincolava l’Agenzia a seguirlo. Tuttavia, l’allerta non è ancora operativa e quell’organismo di composizione crisi d’impresa di cui all’art. 16 CCII entrerà in funzione dal 2024 o 2025 (recenti proroghe). Al momento, il parere “vincolante” sulla convenienza può essere espresso dal Commissione sulla crisi presso il MISE, ma anche questo appare sospeso o di scarsa applicazione. In pratica la decisione spetta agli enti creditori e poi al tribunale.
Riassumendo:
- Nell’accordo agevolato il debitore può inserire la transazione fiscale, riducendo sensibilmente il carico tributario (possono essere falcidiate anche l’IVA e le ritenute, dopo una nota pronuncia Corte Cost. 2021 – il CCII lo consente espressamente).
- Deve farlo in modo che la proposta sia conveniente e rispettosa del minimo 30%, se vuole avere speranza di cram-down.
- Se l’Erario aderisce spontaneamente (cosa rara ma possibile soprattutto per crediti di modesta entità locale), l’accordo prosegue come con qualunque creditore aderente.
- Se non aderisce, il tribunale deciderà in sede di omologa se omologare comunque (imponendo il piano al Fisco) o respingere l’omologa. Respingerà solo se ritiene che la proposta al Fisco non rispetta i requisiti (es: se l’impresa offrisse 10% e appare troppo poco in confronto al 20% ipotetico in fallimento; oppure se i creditori privati totali erano solo 10% e il Fisco 90% e offrono meno di 40%).
- L’Erario, dal canto suo, può opporsi all’omologa se la ritiene pregiudizievole, ma se il piano è effettivamente conveniente e rispetta la soglia 30/40%, l’opposizione verrà con ogni probabilità rigettata perché la legge prevede quell’esito. Quindi l’opposizione del Fisco può servire al più a portare all’attenzione eventuali errori di calcolo o mancanze, ma non potrà bloccare un accordo vantaggioso per la massa creditoria e per lo stesso Erario.
In conclusione, l’accordo di ristrutturazione agevolato è pienamente utilizzabile anche in presenza di debiti fiscali e contributivi rilevanti, ma il debitore deve strutturare la proposta di transazione fiscale con grande attenzione, integrandola nel piano e facendola attestare adeguatamente. La presenza di crediti pubblici non è più un ostacolo insormontabile, a condizione di rispettare le condizioni normative aggiornate a giugno 2025.
9. Giurisprudenza rilevante e orientamenti applicativi
Nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza – sia di merito che di legittimità – ha contribuito a delineare i confini applicativi degli accordi di ristrutturazione, compresi quelli agevolati. Questa sezione passerà in rassegna alcune pronunce chiave aggiornate che offrono spunti interpretativi importanti.
- Controllo del tribunale in sede di omologa: La Corte di Cassazione, con la sentenza 8 maggio 2019 n. 12064, ha affermato che il sindacato del tribunale sull’accordo di ristrutturazione, benché non possa spingersi a valutazioni di merito sulla convenienza per i creditori aderenti, non è limitato a un controllo meramente formale, ma comporta una verifica di legalità sostanziale. In particolare, la Cassazione ha sottolineato il dovere del giudice di accertare la “plausibilità e ragionevolezza” della garanzia di pagamento integrale dei creditori estranei entro i termini di legge. Ciò significa, ad esempio, che il tribunale non può omologare se dal piano emerge che i creditori non aderenti probabilmente non saranno pagati come dovuto. Deve quindi valutare, con giudizio ex ante, se le risorse attese o le azioni pianificate sono realistiche a tal fine. Nello stesso arresto la Cassazione ha richiamato l’analogia con il controllo sulle misure protettive durante le trattative: anche lì il tribunale deve verificare sommariamente che esista la prospettiva di un accordo con le maggioranze di legge e che i creditori estranei saranno poi soddisfatti integralmente (in L.F. faceva riferimento all’art. 182-bis co.7, ora art. 54 CCII).
- Natura concorsuale degli ADR e sindacabilità limitata della convenienza: varie pronunce di Cassazione tra 2018 e 2019 (Cass. 1182/2018, Cass. 9087/2018, Cass. 16161/2018) hanno evidenziato come l’accordo di ristrutturazione sia una procedura concorsuale atipica, cui però si applicano alcuni principi generali concorsuali. Ad esempio, la Cass. Sez. I 18 gennaio 2018 n. 1182 ha affermato che l’ADR, pur contrattuale, ha natura concorsuale e quindi vige un principio di parità di trattamento dei creditori pari grado, analogo al concordato. Inoltre, il giudice in omologa non può sindacare la convenienza economica per i creditori aderenti, analogamente a quanto avviene nel concordato (salvo manifesti abusi), ma può certamente rifiutare l’omologa se riscontra violazioni di legge o una palese inattendibilità del piano. In Cass. 16161/2018, ad esempio, si ribadisce la necessità che il giudice verifichi che l’accordo abbia buone probabilità di essere attuato con il raggiungimento delle maggioranze richieste e il pagamento degli estranei. Queste decisioni, pur riferite al regime previgente, sono pienamente applicabili oggi e impongono al debitore di presentare piani credibili e coerenti, pena il rigetto dell’omologa.
- Accordi agevolati introdotti da DL 118/2021 – primi casi pratici: Poiché l’art. 182-novies L.F. (accordo agevolato) è entrato in vigore a fine 2021, già prima dell’entrata in vigore del CCII, abbiamo alcune pronunce di merito che ne hanno fatto applicazione. Un esempio di cronaca: Tribunale di Milano, decreto 30 marzo 2022 (non pubblicato in fonti ufficiali, ma citato in articoli) avrebbe omologato uno dei primi accordi agevolati ex art. 182-novies L.F., ritenendo soddisfatte le condizioni (debitori che non avevano chiesto misure protettive e pagavano i chirografari estranei subito). Non potendo citare un riferimento specifico, ci limitiamo a dire che i tribunali maggiori (Milano, Roma) hanno mostrato apertura verso questi nuovi istituti, riconoscendone la finalità anticipatoria.
- Opposizioni all’omologa e onere della prova: In un caso deciso dalla Corte d’Appello di Milano, 14 gennaio 2022, riguardante un accordo di ristrutturazione (non necessariamente agevolato), si è precisato che il creditore opponente deve allegare elementi concreti a sostegno del proprio timore di non essere soddisfatto adeguatamente, ma la prova ultima della fattibilità spetta al debitore e alla relazione attestativa. Se il debitore dimostra, anche tramite l’attestatore, che l’opponente non avrebbe miglior sorte in fallimento e che il piano è realizzabile, l’opposizione viene respinta. Quindi il giudice dell’opposizione fa un bilanciamento: tutela i non aderenti se c’è rischio di abuso, altrimenti privilegia il successo dell’accordo.
- Accordi con efficacia estesa – obblighi informativi: Il Tribunale di Milano, decreto 18 dicembre 2024 (già citato) ha fornito linee guida su come va condotta la comunicazione ai creditori non aderenti in ipotesi di efficacia estesa. Ha distinto il momento della trattativa (in cui basta un’informazione anche con modalità non formali purché i creditori siano messi al corrente e coinvolti nell’evolversi delle trattative e nella definizione delle eventuali categorie) e il momento successivo alla conclusione degli accordi, in cui invece serve notifica formale del deposito ai fini del termine di opposizione. Questa pronuncia chiarisce ad esempio che durante le trattative non è obbligatorio usare la PEC per ogni comunicazione (basta anche, ad es., l’invio di informative periodiche via email se provato che sono giunte a conoscenza), mentre la notifica ex art. 61 co.2 lett. e dev’essere fatta con modalità legali (PEC o atto notificato) perché da lì decorre un termine perentorio di 30 giorni per le opposizioni. Per il debitore che intenda usare l’efficacia estesa, questa decisione fornisce un vademecum su come procedere per evitare contestazioni: documentare tutti i contatti con i creditori dissenzienti (riunioni, email, ecc.), predisporre elenchi di invio, e infine notificare loro l’accordo concluso e la data udienza. In quell’occasione, sempre il Tribunale ha ricordato che i creditori non aderenti informati ma che non hanno proposto opposizione entro i termini non sono poi legittimati a impugnare in appello l’omologa, con riferimento a Cass. 34840/2024. Ciò incoraggia i debitori a dare massima informazione per far decorrere i termini di opposizione e “cristallizzare” l’omologa senza future impugnazioni.
- Legittimazione a chiedere il fallimento in caso di inadempimento: Già citata, la Cass. Sez. Unite 28 febbraio 2022 n. 4696 ha risolto un contrasto relativo alla possibilità per un creditore aderente di chiedere il fallimento del debitore inadempiente senza passare per la risoluzione. Le SU hanno stabilito che il creditore di un concordato preventivo non può chiederne il fallimento per debiti anteriori senza risoluzione (ora art. 119 CCII lo recepisce), mentre il creditore aderente ad un accordo di ristrutturazione può farlo, in quanto concordato e accordo sono “domande del tutto distinte” e per l’accordo non c’è una norma analoga che richieda la previa risoluzione. Hanno paragonato la posizione al vecchio art. 182-bis L.F. e rilevato che l’accordo è soggetto alla disciplina civilistica ordinaria per la risoluzione, senza preclusioni per l’istanza di fallimento nel frattempo. Questa sentenza di fatto “mette paura” ai debitori, perché significa che se non pagano, anche un creditore aderente che aveva ridotto il suo credito può immediatamente agire per farli fallire (mentre nel concordato deve prima chiedere la risoluzione in tribunale e attendere esito). Tuttavia, va ricordato che nel caso di specie le SU ragionavano sotto la vecchia legge fallimentare; oggi il CCII ha quell’art. 119 co.7 per il concordato, ma nulla per l’accordo, quindi il principio rimane valido. Il Tribunale di Milano 4.4.2024 citato lo ha applicato testualmente. Dal lato del debitore, ciò impone massima diligenza nell’eseguire il piano e, se scorge di non farcela, di cercare di rinegoziare o attivare procedure alternative prima che un creditore perda la pazienza.
- Effetti del fallimento successivo sull’accordo – reviviscenza crediti: La Cass. Sez. I 17 dicembre 2024 n. 32996 ha fornito, come analizzato, la risposta definitiva: se l’accordo di ristrutturazione omologato è seguito dalla dichiarazione di liquidazione giudiziale, l’accordo si considera risolto di diritto ex art. 1463 c.c., per impossibilità sopravvenuta di realizzarne la causa (risanamento). Conseguentemente i creditori aderenti possono insinuare al passivo l’intero credito originario dedotti i pagamenti ricevuti in esecuzione accordo, come già dettagliato. Questa pronuncia ha colmato un vuoto normativo (il CCII non lo diceva espressamente). La sua portata è molto rilevante: ad esempio, un istituto di credito che aveva accettato uno stralcio in accordo, se il debitore poi fallisce, potrà recuperare (in sede fallimentare) anche la parte stralciata, se c’è attivo sufficiente, invece che essere limitato alla quota ridotta come sarebbe se quell’accordo rimanesse valido. Il ragionamento della Cassazione è che l’apertura del fallimento priva di senso la prosecuzione dell’accordo, e quindi scioglie il vincolo contrattuale ex lege. Ciò mette in guardia i debitori: se un accordo non regge e si va a fallimento, tutto lo sforzo fatto può essere reso nullo per loro (perdono i benefici del taglio dei debiti). Però, per i creditori è equo: loro avevano accettato tagli in vista di un risanamento, se questo non avviene e si liquida l’azienda, giusto che tornino a pretendere tutto. Questa pronuncia, insieme alla SU 2022, delinea un orientamento creditor-friendly in caso di failure del piano.
- Necessità del consenso del creditore privilegiato per dilazioni superiori ai limiti di legge (caso sovraindebitamento): La Cass. 21 febbraio 2024 n. 4622 (nota Mandico), pur riferita a un piano del consumatore ex L. 3/2012, ha ribadito un concetto applicabile per analogia: un creditore munito di privilegio (in quel caso ipotecario su casa di un consumatore) non può subire un pagamento dilazionato oltre il limite di un anno senza il suo consenso. Nella L. 3/2012 vigeva l’art. 8 co.4 che imponeva il pagamento entro 1 anno dall’omologa dei creditori con ipoteca salvo consenso. La Cassazione ha “aperto” sostenendo che è possibile superare quel limite annuale, ma solo se si dà al creditore la possibilità di voto e di esprimersi. Nel contesto degli ADR, la regola analoga (art. 57 co.3 L.F. e ora CCII 120 giorni) può essere superata solo se: (i) il creditore privilegiato aderisce (quindi ha acconsentito), oppure (ii) se quell’ADR prevedesse efficacia estesa e il creditore rientra in una categoria, ha avuto possibilità di opporsi. In generale però, il principio resta che senza consenso non si possono imporre né decurtazioni né dilazioni significative a creditori prelatizi. Pertanto un debitore che voglia includere per esempio una banca ipotecaria nell’accordo deve ottenere la sua adesione (non la può “cramdownare” se non rientra in 182-septies/61 e comunque se volesse dilazionarla oltre i 120 gg, dovrà ottenere un sì esplicito).
- Consolidamento dell’omologa non opposta e limiti alle impugnazioni tardive: Cass. 34840/2024 (v. unijuris) ha stabilito che per proporre reclamo contro il decreto di omologa di un accordo è necessario aver partecipato alle fasi precedenti (ossia essere stato opponente o comunque parte del procedimento). Il creditore che è rimasto inerte durante l’omologa non può spuntare solo in appello. Questo chiude la porta a possibili impugnazioni tardive e rafforza la stabilità dell’omologa se non contestata per tempo. Dunque, il debitore sa che se nessuno oppone o solo alcuni oppongono e perdono, altri non potranno alzare la mano dopo. Ciò accentua l’importanza di notificare bene gli atti e far decorrere i termini di opposizione.
In definitiva, la giurisprudenza recente:
- Agevola l’utilizzo degli accordi (riconoscendo i nuovi istituti, intervenendo in supplenza legislativa a chiarire dubbi interpretativi, come su risoluzione e fallimento).
- Tutela i creditori estranei (ribadendo integrale pagamento, vigilando su par condicio e convenienza).
- Stimola trasparenza (nei casi di efficacia estesa, con rigidità sugli obblighi informativi).
- Responsabilizza il debitore (facile accesso con 30%, ma poi niente sconti se sbaglia: rischia fallimento su istanza creditori e la “riespansione” debiti come visto).
Per il professionista che assiste il debitore (avvocato o commercialista), queste pronunce offrono linee guida operative:
- Redigere piani prudenti e documentati, avvalorati da attestazioni solide.
- Non lesinare comunicazioni verso i creditori, specialmente i potenzialmente dissenzienti.
- Assicurarsi del rispetto rigoroso dei termini legali (pagamento estranei in 120 gg se li usa, altrimenti nulla).
- Negoziare esplicitamente coi privilegiati eventuali trattamenti difformi (consenso scritto se li si paga oltre 120 gg).
- In caso di opposte interpretazioni (es. se “moratoria” includa convenzione ex art. 62), tenere conto della dottrina e assumere un margine di cautela.
Nota sulle fonti normative: Allo stato (giugno 2025) è atteso un decreto legislativo correttivo del CCII che potrebbe ulteriormente modificare la disciplina della transazione fiscale (art. 63) e forse altre norme, in attuazione della legge delega 2021 e seguendo le indicazioni del DL 69/2023. La Normattiva segnala l’art. 60 CCII come in vigore dal 28/09/2024, ma ciò in realtà è riferito alla modifica di art. 63: probabilmente l’entrata in vigore differita riguarda i correttivi da emanare entro settembre 2024. È possibile che in futuro, ad esempio, venga reintrodotto un silenzio-assenso per rendere più spedite le procedure, oppure rivista la soglia del 30%. Per ora, però, le norme transitorie sono legge.
10. Domande frequenti (FAQ)
Di seguito una serie di domande comuni che imprenditori e professionisti si pongono riguardo agli accordi di ristrutturazione agevolati, con relative risposte sintetiche e riferimenti normativi.
D1: Chi può accedere agli accordi di ristrutturazione dei debiti agevolati?
R: Possono proporre un accordo agevolato tutti gli imprenditori soggetti a procedure concorsuali (imprenditori commerciali non piccoli, inclusi imprenditori agricoli di dimensioni rilevanti e gruppi di imprese) che si trovino in stato di crisi o insolvenza. Sono esclusi gli imprenditori minori (art. 2 co.1 lett. d CCII), i quali però hanno a disposizione gli strumenti di composizione da sovraindebitamento. Possono accedere anche le società pubbliche di gestione di servizi se considerate imprese commerciali. È necessario inoltre che l’imprenditore non abbia già pendente una procedura concorsuale o un accordo precedente non eseguito (in caso di accordo precedente risolto, servirebbe valutare se vi sono preclusioni temporali). In sintesi, qualunque impresa medio-grande in difficoltà può utilizzare l’ADR agevolato, a condizione di rispettare le due condizioni di cui all’art. 60 (assenza moratoria estranei e misure protettive). Ad esempio, un imprenditore agricolo con debiti verso banche e fornitori può farlo, mentre un artigiano piccolissimo no (dovrebbe usare il concordato minore ex art. 65 CCII o altri strumenti di sovraindebitamento).
D2: Qual è la differenza principale tra un accordo di ristrutturazione “ordinario” e uno “agevolato”?
R: L’accordo ordinario richiede il consenso di creditori pari ad almeno il 60% dei crediti totali, mentre l’accordo agevolato richiede solo il 30%. In cambio di questo “sconto” sulla percentuale, il debitore con accordo agevolato rinuncia a certe facoltà: non può chiedere misure protettive (stay) e non può prevedere dilazioni di pagamento verso i creditori non aderenti oltre i termini legali (120 giorni). In pratica, l’accordo agevolato si fonda su un numero minore di consensi ma su una maggiore tutela dei creditori estranei, che devono essere pagati regolarmente e possono agire liberamente. L’accordo ordinario invece può essere accompagnato da una fase di sospensione delle azioni esecutive (per facilitare le trattative) e consente di pagare i non aderenti entro 120 giorni dall’omologa senza incorrere in decadenze. Quindi la differenza sta nel quorum richiesto e nella presenza/assenza di protezioni per il debitore durante la procedura.
D3: Cosa succede ai creditori che non aderiscono all’accordo?
R: I creditori estranei all’accordo restano normalmente fuori dal piano e devono essere pagati integralmente alle loro scadenze contrattuali (o al massimo entro 120 giorni, se accordo ordinario). Nell’accordo agevolato, il debitore non può far subire loro alcuna moratoria ulteriore, quindi essi ricevono i pagamenti secondo le condizioni originarie. Non sono vincolati dai termini dell’accordo e possono intraprendere azioni legali (ingiunzioni, pignoramenti) se il debitore non li paga puntualmente, poiché nel regime agevolato non c’è alcun automatic stay. Tuttavia, se l’accordo viene omologato, questi creditori beneficiano dell’esenzione dalle revocatorie per i pagamenti ricevuti (se poi il debitore fallisce, quei pagamenti non potranno essere revocati dal curatore perché fatti in esecuzione di accordo omologato). È importante precisare che i creditori non aderenti non subiscono riduzioni di credito: l’accordo di ristrutturazione, a differenza del concordato, non impone tagli ai dissenzienti. L’unico caso in cui anche un non aderente viene “forzato” a un taglio è se il tribunale concede l’efficacia estesa dell’accordo (art. 61 CCII) su una categoria cui quel creditore appartiene: in tal caso, pur non avendo aderito, sarà comunque vincolato all’accordo (ad esempio accettando una falcidia). Ma ciò richiede che il 75% di quella categoria abbia aderito e che il creditore in questione sia stato informato e abbia avuto chance di opporsi. Dunque, in generale i non aderenti vengono pagati fuori piano e non votano, salvo quell’eccezione specialistica.
D4: Posso includere i debiti verso il Fisco e l’INPS nell’accordo di ristrutturazione?
R: Sì. Il CCII permette di inserire una transazione fiscale e contributiva (art. 63) all’interno dell’accordo. In sostanza, il debitore formula alle Agenzie fiscali e agli enti previdenziali una proposta di pagamento parziale delle loro spettanze, motivandola e facendola asseverare dall’attestatore come più conveniente rispetto alla liquidazione. Ad esempio, può proporre di pagare il 30% del debito IVA e il 100% dei contributi, dilazionando in 5 anni. Se l’Erario e l’INPS accettano, firmano l’adesione e l’accordo procede. Se rifiutano o tacciono, il tribunale può comunque omologare l’accordo e renderlo efficace anche senza il loro consenso, purché siano rispettate alcune condizioni di legge: (a) l’accordo non dev’essere liquidatorio puro; (b) la loro adesione era decisiva per le percentuali (cioè senza di loro non si raggiungeva il 30% o 60%); (c) gli altri creditori aderenti rappresentino almeno il 25% del totale crediti (o in alternativa, se meno del 25%, allora si offra al Fisco almeno il 40% e rientro in max 10 anni); (d) la proposta al Fisco/enti sia vantaggiosa rispetto al fallimento secondo l’attestatore; (e) si assicuri al Fisco almeno il 30% del suo credito. In pratica, attualmente servono almeno il 30% di pagamento ai crediti pubblici per forzare la loro adesione. Se queste condizioni sono rispettate, il giudice può omologare l’accordo anche senza l’ok del Fisco (c.d. cram-down fiscale). Il debitore deve inoltre notificare tempestivamente la proposta all’Erario e attendere 90 giorni la loro eventuale risposta. In caso di silenzio o diniego ingiustificato, quell’adempimento dei requisiti consente al tribunale di procedere lo stesso. Dunque, sì, i debiti tributari e contributivi possono essere ricompresi e stralciati/rateizzati nell’accordo (oggi si possono ridurre anche IVA e ritenute, grazie ad aggiornamenti normativi e interventi della Corte Cost.), ma devi offrire loro un trattamento congruo; diversamente l’accordo non verrà omologato. Ad esempio, se proponi di pagare solo il 5% di un debito IVA ingente e l’attestatore dice che in fallimento ne avrebbero preso 50%, il tribunale non potrà omologare contro il loro dissenso, perché la condizione di convenienza non c’è.
D5: Il mio accordo agevolato è stato omologato ma, dopo un anno, non riesco a rispettare una scadenza del piano. Posso modificare l’accordo o ho perso ogni protezione?
R: Il CCII consente alcune modifiche del piano post-omologa. In base all’art. 58 co.2, se dopo l’omologazione diventano necessarie modifiche sostanziali del piano, il debitore può apportarle richiedendo all’attestatore un nuovo aggiornamento della relazione di fattibilità. Questo nuovo piano modificato va poi pubblicato e segnalato ai creditori, i quali hanno 30 giorni per opporsi alle modifiche. Se nessuno si oppone o le opposizioni vengono respinte, l’accordo prosegue con le modifiche introdotte. In pratica, è una mini-procedura di omologa delle modifiche. Esempio: avevi previsto di pagare le banche entro dicembre ma c’è ritardo nella vendita di un immobile, puoi chiedere all’attestatore di attestare un differimento di 6 mesi, notificare alle banche la modifica; se non oppongono (perché magari preferiscono attendere 6 mesi che far saltare tutto), la modifica si consolida. Se invece i creditori si oppongono, il tribunale valuterà se le modifiche incidono sui loro diritti in modo inaccettabile. In aggiunta, nulla vieta al debitore di rinegoziare privatamente con i creditori adesioni ad alcune varianti (magari facendo firmare un addendum all’accordo): se tutti i firmatari originari concordano su modifiche, si può presentare al tribunale la richiesta di omologa delle modifiche su base consensuale, che di solito è un passaggio formale (il tribunale controllerà che i non aderenti siano comunque rispettati come prima). Quindi, il debitore non è completamente bloccato: c’è uno strumento di flessibilità per adattare il piano, venendo incontro a nuove esigenze, senza dover rifare tutto da zero. Tuttavia, se le modifiche proposte peggiorano la posizione di qualche creditore non aderente (ad es. volessi estendere una moratoria che prima non c’era, o ridurre ulteriormente una percentuale di pagamento) difficilmente saranno ammesse, perché i non aderenti non sono vincolati da modifiche peggiorative. Un’altra possibilità è la convenzione di moratoria ex art. 62: dopo l’omologa, se hai difficoltà momentanee, potresti chiedere ai principali creditori finanziari di accordarti una sospensione dei pagamenti e farla convalidare dal tribunale, ottenendo una protezione temporanea. Ciò può dare respiro al piano senza risolverlo. In sostanza: se c’è collaborazione dei creditori, si può aggiustare il tiro; se invece i creditori perdono fiducia, potrebbero chiedere la risoluzione dell’accordo o il fallimento. Ricordiamo che, in mancanza di clausole contrarie, l’accordo è soggetto alla risoluzione per inadempimento secondo le norme civili (art. 1453 c.c.). Quindi se l’inadempimento è significativo e i creditori non vogliono attendere o modificare, possono rivolgersi al tribunale per dichiarare risolto l’accordo. Ma prima di quel punto, conviene provare la strada dell’accordo sulle modifiche.
D6: Se l’accordo di ristrutturazione salta (viene risolto o l’azienda fallisce), i creditori aderenti rimangono obbligati alla rinuncia che avevano accordato?
R: No. In caso di risoluzione o fallimento successivo, l’accordo di ristrutturazione cessa di avere efficacia e i creditori riprendono il diritto ai propri crediti originari. La Corte di Cassazione ha stabilito che la dichiarazione di fallimento dopo un accordo omologato comporta la risoluzione di diritto dell’accordo ex art. 1463 c.c., con “riespansione” delle originarie obbligazioni. Ciò significa che, se ad esempio avevano accettato il 70% di pagamento rinunciando al 30%, quella rinuncia si annulla e possono insinuare in fallimento l’intero credito (deducendo naturalmente quanto nel frattempo incassato). Allo stesso modo, se l’accordo viene risolto giudizialmente per inadempimento (senza apertura di liquidazione giudiziale immediata), i creditori riacquistano la facoltà di pretendere l’intero (possono chiedere il fallimento per ottenerlo). È come se il contratto fosse sciolto per colpa del debitore: le prestazioni ritornano dovute integralmente, salvo dover restituire ciò già ricevuto? In realtà i creditori non devono restituire quanto incassato durante l’accordo, perché quei pagamenti non sono revocabili e anzi vengono portati a decurtazione del loro credito. Quindi in pratica recuperano il saldo. Ad esempio, un aderente aveva credito €100, accordo prevedeva pagamento €60 (60%) e rinuncia €40. Ne ha ricevuti €30 prima che l’accordo saltasse. Ora in fallimento potrà insinuare il suo credito per €70 (cioè i €100 iniziali meno €30 ricevuti), non vincolato al 60%. Ovviamente, se nel fallimento i riparti sono inferiori, magari prenderà meno, ma ha titolo per il 100%. In breve: la “remissione” o falcidia prevista nell’accordo diventa definitiva solo se l’accordo viene eseguito fino in fondo. Se il debitore non adempie e si finisce in concorso, quella remissione era condizionata al buon esito e viene meno. È bene che i debitori lo sappiano: l’accordo non è un’esdebitazione automatica come il concordato (dove, se omologato, i debiti chirografari sono ridotti irrevocabilmente anche se poi il concordato risolve, salvo eventuali eccezioni normative). Nell’accordo c’è più precarietà: se non porti a termine, i crediti ti si ripresentano per intero.
D7: Durante la trattativa per l’accordo, posso ottenere una sospensione dei decreti ingiuntivi o dei pignoramenti?
R: Sì, ma solo se stai perseguendo un accordo “ordinario” (60%) o altro strumento; se vuoi mantenere la qualifica di accordo agevolato, no, non puoi. Mi spiego: l’art. 54 CCII consente al debitore, una volta depositata l’istanza di omologazione di un accordo (o anche prima, con riserva ex art. 44), di chiedere al tribunale misure protettive temporanee, ossia il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari per fino a 120 giorni. Questa è l’analoga all’automatic stay del concordato. Tuttavia, una delle condizioni dell’accordo agevolato è proprio rinunciare a tali misure protettive. Dunque, se la tua intenzione è utilizzare la soglia ridotta del 30%, devi rinunciare allo stay. Se invece la tua priorità è bloccare subito i creditori, puoi presentare un ricorso ex art. 44 CCII (accesso con riserva) o un’istanza di misure protettive ex art. 54 per trattative in corso: otterrai il blocco, ma poi l’accordo che presenterai non potrà beneficiare del 30%, dovrà avere il 60% perché hai usato misure. In pratica, devi scegliere: protezione o agevolazione. Non puoi avere entrambe per espressa previsione di legge. Esiste però un trucco indiretto: se i creditori principali sono banche, potresti cercare di concludere con loro una convenzione di moratoria ex art. 62 (raggiungendo 75% magari) e ottenere dal tribunale uno stay mirato per quelle banche; ciò formalmente non viola art. 60 secondo alcuni giuristi, perché la “moratoria” di cui parliamo è contrattuale e non la tipica misura protettiva ex art. 54. Resta un campo un po’ grigio. Diciamo che, se necessiti assolutamente di protezione, forse l’accordo agevolato non è lo strumento giusto in quel momento: potresti optare per un concordato in bianco, poi convertirlo in accordo (ordinario) se raccogli 60%, oppure in concordato preventivo. L’accordo agevolato presuppone che tu riesca a tamponare artigianalmente i creditori per il breve periodo delle trattative: ad esempio convincendoli informalmente ad attendere l’esito dell’accordo con il “carrot” che li pagherai integralmente e senza ritardi aggiuntivi se aspettano. In conclusione: no, formalmente non puoi ottenere dal tribunale la sospensione delle azioni se vuoi restare in ambito agevolato. Puoi solo negoziare standstill privati con i creditori (o far firmare a ciascuno un accordo di attesa – se ne hai già almeno il 30% che collabora, magari chiedi loro di non agire e di influenzare gli altri a non farlo). Ricorda che se presenti un’istanza di misure protettive, questo risulterà nella visura e al registro imprese, quindi segnalerai la crisi comunque.
D8: L’accordo di ristrutturazione è migliore o peggiore di un concordato preventivo?
R: Non c’è una risposta univoca: dipende dal caso concreto. Dal punto di vista del debitore:
- L’accordo (ADR) è migliore se hai già un’intesa con pochi creditori chiave e vuoi evitare la pubblicità e la rigidità del concordato. Ti consente di mantenere rapporti, non subisci la gestione di un commissario, e puoi cucire soluzioni più flessibili. Inoltre, se il tuo problema non è pagare tutti ma solo ridurre/deferire alcuni debiti, l’accordo è lo strumento giusto: coinvolgi quelli disponibili e paghi gli altri normalmente. È più rapido e meno costoso in generale. Lo svantaggio è che se qualcosa va storto, non hai la cram-down su classi dissenzienti generali (tranne efficacia estesa su categorie limitate) e come visto se fallisci dopo, perdi i benefici.
- Il concordato preventivo è indicato se la tua crisi richiede necessariamente di imporre un sacrificio generalizzato a una platea ampia di creditori, e magari di dividere i creditori in classi con trattamenti diversi (es: salvare l’azienda pagandoli parzialmente). Nel concordato puoi abbattere i debiti anche contro il voto contrario di alcuni, grazie alle maggioranze. Inoltre, il concordato offre un ombrello protettivo ampio fin dall’inizio (appena depositi la domanda con riserva, scatta il blocco dei creditori art. 54). Quindi se sei assediato, il concordato ti dà respiro che l’accordo agevolato non dà. Il rovescio è che il concordato è più invasivo: devi sottostare a verifiche anche di convenienza (il tribunale può non ammettere proposte manifestamente inadeguate), c’è un commissario che vigila sull’impresa, l’iter di voto può richiedere mesi, c’è più pubblicità (notifica a tutti i creditori, assemblea di voto), costi maggiori (compenso del commissario, eventuale liquidatore, ecc.), e in caso di esito negativo si rischia il fallimento immediato. Però se omologato, cristallizza il debito ridotto (i creditori non potranno mai più chiederti di più di quanto deliberato, a meno di revoca per dolo). E con il concordato puoi liberarti di contratti onerosi con l’autorizzazione del tribunale, cosa che l’ADR non prevede.
In sintesi: l’ADR è uno strumento consensuale e più confidenziale, il concordato uno strumento giudiziale e più impositivo. Dal punto di vista del debitore, se può permettersi di gestire la crisi coinvolgendo pochi creditori e mantenendo i rapporti, preferirà l’accordo (meno stigma, più controllo). Se invece ha bisogno di una “ristrutturazione pesante” che incide su tutti e non ha quell’alchimia di consensi, dovrà ricorrere al concordato. Un consiglio pratico: se i debiti verso banche e fisco sono la maggioranza e questi non paiono collaborativi, conviene un concordato (dove puoi comunque provare a convincerli ma non sei appeso al loro sì). Se invece il grosso del debito è verso fornitori che continui a pagare e hai solo un paio di banche da sistemare, l’accordo è probabilmente la soluzione ottimale.
D9: Quante volte posso utilizzare un accordo di ristrutturazione?
R: In teoria, più volte, se la situazione lo richiede, ma con dei limiti. Non c’è un esplicito divieto di presentare un nuovo accordo di ristrutturazione dopo averne già fatto uno, a differenza del concordato dove c’è una preclusione a presentare un concordato nei 5 anni successivi alla sentenza di omologa (salvo pagamento 80% chirografari). Il CCII non contiene un analogo art. 285 per gli accordi. Quindi nulla vieterebbe di ricorrere nuovamente ad un accordo se a distanza di tempo l’impresa affronta altra crisi. Tuttavia, se un accordo precedente è andato in porto ma poi l’impresa ricade in crisi, è possibile negoziarne un secondo, ma chiaramente i creditori saranno più diffidenti e il tribunale valuterà con più rigore la fattibilità. Se invece un accordo è stato omologato ma poi risolto per inadempimento, e non c’è ancora stato fallimento, il debitore potrebbe teoricamente proporre un altro accordo (magari cambiando piano e cercando di convincere di nuovo i creditori). Però a quel punto è molto probabile che i creditori non aderiscano, oppure che il tribunale non lo omologhi per mancanza di fiducia nella fattibilità. In genere, la prassi è: se un accordo fallisce, di solito si va a fallimento o concordato, difficilmente c’è spazio per un secondo accordo. Diverso è il caso in cui, anni dopo un accordo eseguito con successo, l’impresa ha un’altra crisi: in quel caso nulla le impedisce di tentare di nuovo un ADR. Quindi formalmente non c’è un numero massimo di accordi stipulabili. Ovviamente, se il debitore ha pendente un concordato o un fallimento, non può farlo in parallelo (bisogna prima chiudere la procedura in corso). Inoltre, se il debitore ha beneficiato dell’esdebitazione personale da fallimento, non può proporre accordo sui debiti antecedenti perché quelli sono già estinti (parliamo di casi estremi). In conclusione: puoi usare l’accordo quante volte vuoi, ma è uno strumento da usare con cautela – farlo troppo spesso potrebbe essere segno di Phoenix company e non trovare più credito presso i creditori né l’omologa.
D10: L’accordo di ristrutturazione agevolato mi garantisce la continuità degli appalti pubblici o dei contratti in corso?
R: L’apertura di trattative per un accordo di per sé non risolve i contratti in corso né impedisce di continuare ad operare. A differenza del fallimento, dove scatta lo scioglimento/ sospensione dei contratti, qui l’imprenditore rimane pienamente in controllo e i contratti proseguono salvo che le controparti abbiano clausole di recesso per insolvenza. Il Codice della crisi ha reso nulle le clausole che prevedono la risoluzione automatica di contratti commerciali per il solo avvio di una procedura di regolazione della crisi (c.d. clausole ipso facto) – questo vale anche per ADR (art. 94 CCII per concordato, estensibile analogicamente). Quindi, ad esempio, se hai un contratto di fornitura con una clausola “in caso di accordo di ristrutturazione o concordato ci riserviamo di risolvere”, quella clausola è nulla ex lege. Tuttavia, nella pratica alcune stazioni appaltanti pubbliche o clienti potrebbero vedere la notizia della domanda di accordo e preoccuparsi. Sta a te, debitore, informarli e rassicurarli. Per gli appalti pubblici, il CCII (art. 95) prevede che la domanda di concordato preventivo senza continuità è causa di esclusione, ma se è con continuità no; per gli accordi di ristrutturazione, essendo strumenti di risanamento con continuità, tendenzialmente non costituiscono causa di esclusione automatica dalle gare, in quanto equiparabili al concordato con continuità. Anzi, l’art. 91 del Codice appalti (D.Lgs. 36/2023) considera tra i motivi facoltativi di esclusione l’essere in una procedura concorsuale, ma se dimostri di poter eseguire l’appalto e l’accordo è finalizzato al risanamento, la P.A. potrebbe consentirti di proseguire. In ogni caso, prima dell’omologa l’accordo non è pubblico (a parte la pubblicazione al registro imprese), dunque potresti gestire in sordina senza impatti. Dopo l’omologa, l’azienda risulta “in accordo omologato”, ma questo di solito è visto meglio di un pre-fallimento. Quindi, la continuità dei rapporti contrattuali è in gran parte preservata: non hai un commissario che interviene, e i creditori contrattuali estranei se li paghi regolarmente non hanno motivo di risolvere. Dunque l’ADR è lo strumento di gran lunga preferibile al concordato se vuoi mantenere rapporti commerciali in essere. Basti pensare che con l’accordo non hai bisogno dell’autorizzazione del giudice per stipulare nuovi contratti o per pagare fornitori strategici (mentre in concordato devi stare attento a non fare atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza autorizzazione). Insomma, per l’operatività quotidiana l’ADR impatta meno.
D11: Quali sono i costi di un accordo di ristrutturazione?
R: I costi principali sono:
- il compenso del professionista indipendente attestatore (che varia a seconda della dimensione dell’impresa e della complessità del piano – per PMI può essere qualche decina di migliaia di euro, per grandi imprese anche di più),
- le spese e compensi dei consulenti aziendali e legali che ti assistono nel predisporre il piano e la domanda (anche qui variabili),
- il contributo unificato per il ricorso in tribunale (che per procedure concorsuali è di importo contenuto, poche centinaia di euro),
- eventuali oneri notarili se servono atti (es: se parte dell’accordo prevede aumenti di capitale o atti societari),
- i costi organizzativi (riunioni con creditori, eventuale data room, etc., di solito non elevati),
- se chiedi misure protettive (nel caso di accordo ordinario) c’è un fondo spese giustizia da pagare come per i concordati (circa €1000),
- nessun commissario o liquidatore è previsto, quindi non ci sono quei costi,
- eventuali spese di pubblicazione nel registro imprese (poche decine di euro).
Inoltre, devi considerare i possibili costi indiretti: ad esempio, se per convincere i creditori devi fornire garanzie reali, c’è il costo di iscrizione ipoteca; se devi pagare fornitori estranei subito, devi avere cassa (che è un esborso immediato maggiore che in un concordato).
Nel complesso, un accordo è spesso più economico di un concordato. La legge, per incentivarlo, prevede anche benefici fiscali: per dire, le sopravvenienze attive derivanti da riduzione dei debiti in esecuzione di un ADR omologato non sono tassate (art. 88 TUIR), così come quelle da concordato. Quindi non paghi tasse sul debito condonato, tranne IVA recuperata dal creditore come indetraibile. C’è poi il tema dei compensi success fee: a volte l’attestatore o altri chiedono un extra se l’accordo riesce, ma questo varia contrattualmente. Quindi i costi vivi anticipati sono soprattutto per attestatore e advisor. Occorre comunque predisporre un fondo spese per portare avanti la procedura (in un concordato è obbligatorio depositare il 50% delle spese iniziali, in un ADR no, ma di fatto devi comunque poter pagare i professionisti man mano). Considera che risparmierai però sui costi di un’eventuale procedura fallimentare lunghissima (dove le spese distruggono valore) e, se l’accordo riesce, preservi il valore aziendale. In sintesi, l’ADR è un investimento in consulenza e attestazione per evitare i ben più grandi costi di un’insolvenza incontrollata.
D12: L’accordo di ristrutturazione è pubblicato da qualche parte? I miei fornitori lo verranno a sapere?
R: Sì, l’accordo (o meglio la domanda di omologazione) viene pubblicato nel Registro delle Imprese del luogo dove ha sede l’azienda, ai sensi degli artt. 48 e 49 CCII. Quindi è consultabile da chiunque faccia una ricerca camerale avanzata. Inoltre, sarà eventualmente annotato nella certificazione camerale che l’impresa ha depositato ricorso ex art. 44/48 o che c’è un provvedimento di omologa ex art. 48. Non c’è invece una pubblicazione in Gazzetta Ufficiale come per i fallimenti. È prevista la comunicazione ufficiale anche al Registro informatico dei procedimenti di crisi (un archivio accessibile ai tribunali). Inoltre, se la tua società è quotata o emette titoli diffusi, devi dare notizia al mercato di queste operazioni (market disclosure). Per quanto riguarda i fornitori e clienti, di solito li informerai tu direttamente se rilevanti. La pubblicazione al Registro Imprese potrebbe passare inosservata a molti piccoli creditori; però quelli coinvolti nell’accordo ovviamente lo sanno. Il Registro delle Imprese è comunque una fonte pubblica: un creditore qualunque potrebbe scaricare la tua visura periodicamente e vedere l’annotazione. Difficile però che lo facciano senza motivo. Se c’è un’opposizione di creditori, ci sarà un procedimento in tribunale, ma i verbali non sono pubblici se non per le parti. Quindi direi: l’accordo è relativamente riservato rispetto ad altre procedure, soprattutto fino al momento dell’omologa. Dopo l’omologa, il decreto del tribunale viene anch’esso depositato in Registro Imprese. Non c’è una comunicazione nominativa a tutti i creditori estranei, a meno che tu non decida di farla per trasparenza. In genere, per gestire i rapporti, è opportuno che tu informi spontaneamente i partner commerciali chiave, rassicurandoli che l’accordo ti permette di continuare a lavorare e che saranno pagati regolarmente (se estranei). Un vantaggio è che con l’omologa in mano, puoi presentarti dicendo: “Vedi, il tribunale ha convalidato il nostro piano di risanamento, quindi siamo un’azienda in via di guarigione, non falliremo domani” – a differenza di un concordato dove uno potrebbe temere esito incerto. Dunque un po’ di pubblicità c’è, ma può essere gestita come notizia positiva e non devastante come un fallimento.
Queste erano le domande più comuni. Altre potrebbero sorgere su casistiche specifiche, ma con quanto trattato si coprono i dubbi primari.
11. Esempi pratici (casi simulati)
Per comprendere in concreto come funziona un accordo di ristrutturazione agevolato, presentiamo due casi di fantasia basati su situazioni tipiche, uno concluso con successo e uno invece sfociato in fallimento, dal punto di vista del debitore.
Caso 1: “Alfa S.r.l. – Accordo agevolato riuscito”
Scenario: Alfa S.r.l. è un’azienda manifatturiera toscana con 50 dipendenti, che produce componenti meccanici. Negli ultimi anni ha accumulato debiti per circa €5 milioni: €2 mln con una banca (mutuo ipotecario su capannone + scoperto di c/c), €1 mln con fornitori vari, €0,5 mln con l’erario (IVA e ritenute non versate) e €0,5 mln con INPS (contributi dipendenti), più altri €1 mln tra leasing e debiti diversi. Il calo di fatturato dovuto a una crisi di settore ha messo in difficoltà Alfa, che però ha ancora commesse e un portafoglio ordini interessante.
Crisi incipiente: Nel marzo 2024 il direttore finanziario di Alfa avvisa la proprietà che, senza interventi, entro pochi mesi l’azienda non potrà pagare fornitori e rate del mutuo. Alcuni fornitori hanno già inviato solleciti, ma nessuno ha ancora sospeso le forniture. La banca sta iniziando a preoccuparsi per le rate arretrate. L’Erario ha inviato cartelle esattoriali per IVA non pagata l’anno prima, ma Alfa ha chiesto una rateazione (che però non sta rispettando puntualmente). Dunque, la crisi è seria ma non ancora manifesta esternamente: nessun pignoramento in atto, fornitura di materie prime ancora regolare (grazie a qualche pagamento selettivo), i dipendenti sono stati pagati (usando fido bancario).
Decisione di attivarsi: Ad aprile 2024, Alfa S.r.l. si rivolge a un avvocato esperto di crisi d’impresa. Dopo analisi, emergono le possibili strade: un concordato preventivo liquidatorio (poco efficiente perché c’è volontà di continuare), un concordato in continuità (ma i costi sarebbero alti e i tempi lunghi), oppure un accordo di ristrutturazione. Dalla riclassificazione dei debiti, si nota che:
- Se Alfa riuscisse a diluire il debito bancario (magari trasformando lo scoperto in un mutuo più lungo) e a ottenere uno stralcio parziale,
- e a rateizzare i debiti fiscali,
- potrebbe pagare fornitori e altri creditori per intero con la normale gestione, visto che le prospettive di fatturato sono buone.
L’opzione emergente è dunque un accordo di ristrutturazione agevolato: la banca (40% dei debiti) e lo Stato (20% circa) sono i creditori maggiori; se banca e Fisco aderissero a un piano, i fornitori (che sono tanti ma insieme pesano ~20%) potrebbero essere pagati regolarmente.
Trattative riservate: A maggio 2024, l’amministratore di Alfa incontra la direzione locale della banca creditrice (che ha 2 mln di esposizione garantita da ipoteca). Spiega la situazione e propone a grandi linee: “Facciamo un accordo: vi pago 1,5 milioni spalmati in 5 anni e vi do un nuovo piano industriale. In cambio, voi rinunciate a 0,5 mln di interessi e scoperti vari, e mi concedete qualche mese di pre-ammortamento”. La banca, temendo di peggio in caso di fallimento (l’immobile ipotecato vale forse 1 mln in vendita forzata), è ben disposta ma vuole vedere un piano dettagliato e l’attestazione di un esperto. Alfa allora incarica un commercialista indipendente come attestatore e un consulente per redigere il piano.
Parallelamente, tramite il proprio consulente fiscale, Alfa contatta l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Firenze, esponendo l’intenzione di includere i debiti fiscali in un accordo di ristrutturazione e chiedendo una prima valutazione sulla fattibilità di una transazione. L’Agenzia fa capire informalmente che, se Alfa offrirà almeno il 30% del dovuto e se l’attestatore giustificherà che in caso di fallimento il recupero sarebbe inferiore, loro potrebbero anche aderire. (Sanno che in base alle nuove norme in mancanza deciderebbe il giudice, quindi preferiscono negoziare un buon trattamento).
Con i fornitori principali, Alfa mantiene un dialogo: li rassicura continuando a pagarli alle scadenze di maggio e giugno usando cassa e fido (fa uno sforzo in anticipo per non far scattare allarmi). Non rivela ancora formalmente il piano di accordo, per evitare allarmismi, ma chiede fiducia e tempo fino a fine estate per regolarizzare eventuali arretrati.
Predisposizione del piano e accordi: A luglio 2024, Alfa finalizza un piano industriale: prevede riduzione di alcuni costi, nuove commesse in arrivo che incrementeranno il fatturato del 10%, e soprattutto necessita di alleggerire il servizio del debito. Lo schema di proposta ai creditori è:
- Banca X: su €2 mln di credito (di cui 1,2 di capitale mutuo, 0,3 di interessi maturati, 0,5 di scoperto c/c), pagare €1,5 mln in 5 anni (60 rate) con interessi ridotti al tasso legale, e concedere ipoteca di secondo grado su un macchinario come garanzia aggiuntiva. La banca rinuncerebbe a €0,5 mln circa e acconsentirebbe a non agire (durante le trattative non aveva comunque agito).
- Fisco (Agenzia Entrate + Agente Riscossione): su €500k di debiti (IVA e IRAP per €300k, ritenute €50k, sanzioni €100k, interessi €50k), proporre il pagamento di €180k (il 60% di €300k IVA/IRAP, 100% ritenute, 0% sanzioni, 0% interessi – ipotesi) in 4 anni. In totale sarebbe circa il 36% dell’importo complessivo comprensivo di sanzioni/interessi (180 su 500). Si allegano proiezioni che in fallimento il Fisco prenderebbe forse il 10-15%. L’attestatore deve valutare se questa offerta è conveniente. Per prudenza, Alfa decide di alzare un po’: paga anche una parte di sanzioni e interessi, portando la proposta a €200k totali (40%) spalmati in 5 anni. Così rispetta certamente il minimo 30% e la soglia 40% (nel caso c’entrasse per via di privati <25%).
- INPS: su €500k di contributi non versati, propone di pagarne €250k (50%) in 5 anni. Qui l’attestatore nota che essendo contributi privilegiati, in fallimento INPS forse avrebbe preso di più (dipende dall’attivo). Ma calcola che, con la continuazione dell’attività, l’INPS ha interesse a far sopravvivere l’azienda (i dipendenti mantengono il posto e contributi futuri). L’INPS localmente si mostra rigida (per legge dovrebbero avere almeno 30% pure loro). Alfa mantiene la proposta 50% in 5 anni, confidando di convincerli col fatto che da immobili e beni non si ricaverebbe granché.
- Fornitori chirografari (€1 mln): saranno pagati integralmente alle scadenze contrattuali originarie. Molti di questi crediti sono già scaduti o in scadenza breve, quindi Alfa deve prevedere di pagarli entro 120 giorni dall’omologa, come richiesto per i non aderenti. Il piano li considera in classe estranei e alloca liquidità per €1 mln in 6 mesi post-omologa.
- Leasing (€200k residuo): Alfa intende continuare il contratto di leasing (per macchinari, con garanzia sul bene) quindi prevede di pagare regolarmente le rate. Il leasing company aderisce di fatto implicitamente continuando il contratto (non serve stralcio).
- Dipendenti: nessun arretrato nelle paghe, quindi fuori questione (continua normale amministrazione).
L’attestatore, ing. Bianchi, analizza i dati: verifica che i debiti fiscali privilegiati (IVA) più i beni disponibili diano come esito in fallimento circa 10% per chirografari e 60% per privilegiati erario. Conclude che la proposta di pagare 40% al Fisco è ampiamente conveniente (perch avrebbe preso sì di più su IVA forse 60%, ma l’IVA è €200k, quindi 60% di 200k era 120k, qui offrono 120k su IVA + qualcosa su sanzioni, comunque totale 200k vs 120k, ergo conveniente), e il 50% a INPS idem (in fallimento INPS come prededuzione TFR etc, ipotizza 30%, qui 50, quindi ok). Certifica che il piano è fattibile: la generazione di cassa prevista, insieme a un piccolo nuovo fido da €100k che la banca si è detta disposta a dare per sostenere il circolante, consente di pagare fornitori estranei per €1 mln entro 4 mesi dall’omologa e poi reggere le rate a banca, Fisco, INPS. Nota cruciale: la condizione per la fattibilità è che nessun creditore estraneo aggredisca l’azienda prima del termine, perché altrimenti la fragile cassa salta. Bianchi evidenzia che Alfa dovrà ottenere l’omologa in tempi brevi, con la protezione implicita data dal fatto che la maggior parte dei creditori è soddisfatta. Egli attesta, in conclusione, che il piano di Alfa s.r.l. è idoneo a risanare l’impresa e garantisce il pagamento integrale dei creditori non aderenti (i fornitori) entro i termini di legge: inserisce in relazione l’elenco di quei fornitori, l’importo e la previsione di pagamento entro max 120 gg dall’omologa.
Formalizzazione accordi bilaterali: A fine agosto 2024, Alfa ottiene dalla Banca la firma di un accordo in cui la banca si impegna, subordinatamente all’omologa tribunale:
- a ristrutturare l’esposizione alle condizioni concordate (riduzione crediti di €500k, nuovo piano ammortamento su €1,5 mln in 5 anni, mantenimento affidamenti per liquidità).
Viene previsto che l’efficacia di questo accordo è condizionata all’omologazione dell’accordo complessivo ex art. 48 CCII e che i pagamenti verranno fatti come da piano.
Con Agenzia Entrate e INPS, Alfa deposita formalmente a settembre 2024 la proposta di transazione ex art. 63 CCII (aggiornata con gli importi finali, ad es. €200k su €500k erario, €250k su €500k INPS, con dettaglio sanzioni stralciate), allegando la relazione attestatore sulla convenienza. Invia via PEC la proposta all’AdE e all’INPS (adempiendo così all’obbligo di notifica) e contestualmente registra l’istanza al registro imprese (che la protocolla come istanza di omologa di accordo con transazione fiscale). Da quel momento decorrono i 90 giorni per la risposta: l’Agenzia convoca Alfa per un incontro entro 60 giorni e lascia intendere che chiederà almeno 35% se vuole adesione. Alfa può un po’ trattare: alza magari a €220k (44%) se proprio serve. Comunque, l’AdE appare propensa perché l’attestatore ha scritto nero su bianco che in caso fallimento loro prenderebbero 20%. INPS invece per prassi non aderisce formalmente quasi mai, ma l’attestatore li ha tenuti al 50% proprio per stare tranquilli col tribunale.
Deposito in Tribunale: Il 15 settembre 2024 Alfa S.r.l., tramite il suo legale, deposita ricorso ex art. 40 e 44 CCII presso il Tribunale di Firenze, sezione specializzata imprese, chiedendo l’omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi degli artt. 57 e 60 CCII. Nel ricorso dichiara:
- di aver raccolto le adesioni della Banca X (40% dei crediti) e di avere proposto transazione al 2° maggior creditore (Erario ~10%),
- di rinunciare espressamente a qualsivoglia misura protettiva e cautelare temporanea,
- di non proporre alcuna moratoria ai creditori estranei (che infatti saranno pagati come da piani di pagamento allegati senza dilazione extra).
Allega l’accordo firmato con la Banca (o una sua lettera di intenti vincolante), le copie delle proposte a Fisco/INPS, l’elenco dei creditori completo e la ripartizione 30% vs 60%, il piano dettagliato e la relazione attestativa di Bianchi.
Il Tribunale fissa subito un’udienza per l’omologa al 30 ottobre 2024 (dopo circa 45 giorni). Ordina che la domanda sia iscritta al Registro Imprese e notifica per conoscenza al Pubblico Ministero. Non dovendo concedere misure protettive, non c’è fase interinale di attesa.
Pubblicità e comunicazioni: Alfa come detto ha notificato la domanda a AdE e INPS via PEC (per legge). Gli altri creditori estranei, per legge, non ricevono una notifica individuale automatica della domanda (se fossero stati soggetti a efficacia estesa, andava fatta notifica, ma qui i fornitori verranno pagati e non c’è efficacia estesa richiesta). Tuttavia, saggiamente, Alfa scrive in questi giorni a ciascun fornitore una lettera personale: spiega che l’azienda, per consolidarsi, ha presentato un piano di ristrutturazione in tribunale, che non tocca i loro crediti (verranno pagati integralmente entro max 4 mesi) e anzi li tutela, e chiede di avere pazienza fino a fine novembre per i pagamenti. In questo modo, cerca di prevenire opposizioni o azioni di quei creditori. Alcuni fornitori minori, comunque spaventati, consultano avvocati: questi verificano che, in effetti, l’accordo depositato prevede il pagamento integrale dei loro assistiti entro 120 giorni, quindi consigliano di attendere. Uno di loro, un fornitore con €50k di credito scaduto, presenta comunque una opposizione in tribunale: teme che “carta canta, ma i soldi?” e chiede che l’omologa sia rigettata perché Alfa potrebbe non farcela a rispettare il piano. Tuttavia, è l’unico a opporsi formalmente (spendendo contributo e avvocato per atto di citazione depositato entro 30 giorni dal 15/9). L’Avvocato di Alfa predispone per l’udienza memorie e documenti aggiuntivi per confutare l’opposizione, sottolineando che il creditore opponente sarà pagato in dicembre (entro 3 mesi dall’omologa) e che se Alfa fallisse, prenderebbe forse zero, quindi la sua opposizione è pretestuosa.
Adesione del Fisco: Entro i 90 giorni (metà dicembre) l’Agenzia Entrate risponde formalmente: accetta la proposta transattiva leggermente ritoccata (Alfa aveva portato a 44%, loro dicono bene 44% in 5 anni). INPS invece non risponde, ma come detto ce lo aspettavamo. Comunque, per l’udienza fine ottobre, ancora non c’è adesione formale. Poco male: la legge transitoria consente di omologare anche senza, se condizioni a-e ci sono.
Udienza del 30 ottobre 2024: Davanti al Collegio, si presenta Alfa (difesa dal suo legale) e il creditore opponente (fornitore Y con avvocato). È presente il PM (che in genere nelle procedure di omologa può intervenire). Banca X no (aderisce e felice), Agenzia Entrate no (ha preannunciato che deciderà in Commissione entro novembre, ma intanto non si oppone), INPS no.
- L’avvocato di Alfa chiede l’omologa illustrando come: (i) la percentuale di adesioni contrattuali è 40% > 30%, (ii) le condizioni di art. 60 sono rispettate (nessuna moratoria estranei, nessuna misura prot. chiesta), (iii) l’accordo è vantaggioso per tutti e l’attestatore conferma la piena fattibilità e integrale pagamento estranei, (iv) la transazione fiscale è conveniente e il tribunale può omologarla anche se formalmente manca ancora l’adesione, data la soddisfazione ≥30% e la presenza di altri creditori privati al 40% del totale (che è >25%, quindi condizione c soddisfatta).
- L’avvocato del fornitore opponente Y insiste che Alfa avrebbe potuto fare un concordato, che la sua opposizione è motivata dal timore che non venga pagato tra 3 mesi, e chiede garanzie.
- Il PM prende atto che non vi sono violazioni di norme, ma segnala di verificare bene l’aspetto fiscale vista la mancanza di adesione formale (ma ricorda la legge speciale art. 1-bis).
Il Collegio chiede all’attestatore (presente) chiarimenti sulla cassa: lui spiega che Alfa ha ottenuto la banca di mantenere fido per liquidità, e predisposto incassi da clienti per €2 mln entro 3 mesi (cosa realistica), quindi avrà liquidità sufficiente per pagare fornitori Y e altri come da piano.
Non risultano iniziative esecutive pendenti di creditori estranei (nessuno ha avviato pignoramenti in questo frattempo).
Il tribunale quindi:- respinge l’opposizione del creditore Y, ritenendo che il suo timore sia infondato in quanto sarà soddisfatto integralmente a breve e, come evidenziato nella relazione, l’alternativa liquidatoria per lui sarebbe peggiore. Dà atto che il debitore ha ottemperato all’obbligo di non chiedere misure e di non postergare i pagamenti estranei.
- riscontra che l’adesione del Fisco è determinante per il 30%? No, qui in realtà col solo 40% banca X già si supera il 30%. Quindi il tribunale potrebbe rilevare che la condizione (b) art.1-bis non è propriamente soddisfatta, ma in realtà il giudice ragiona che comunque il Fisco va considerato dissenziente e deve applicare la disciplina: in questo caso avendo 40% da banca e 10% fisco, senza fisco l’accordo avrebbe 40% di adesioni su totale – oh, ma se totale 5 mln, 40% di 5 è 2 mln, per arrivare a 30% bastano 1.5 mln. Qui senza fisco comunque c’è 40%. Allora in teoria il quorum per omologa c’è anche senza fisco. Dunque il tribunale potrebbe non aver nemmeno bisogno di forzare l’adesione fiscale per percentuali, limitandosi a omologare il piano con quell’adesione mancante, che di fatto viene sanata dal successivo adempimento. Comunque, per scrupolo, il tribunale applica i parametri: il debitore offre 40% al fisco (≥30% richiesto); gli altri aderenti rappresentano il 40% del totale crediti (≥25%, ok); il piano non è liquidatorio (c’è continuità produttiva); l’attestatore ha dichiarato che l’Erario è trattato meglio che in liquidazione. Quindi tutte le condizioni di legge per il cram-down fiscale sono soddisfatte. Di conseguenza, l’eventuale mancata adesione formale del Fisco non impedisce l’omologa.
- formula inoltre un giudizio di merito positivo: la Cassazione 2019 citata dice che il tribunale deve verificare la plausibilità e ragionevolezza delle prospettive di pagamento estranei. Il Collegio, sulla base dell’attestazione e delle risposte date, ritiene credibile che Alfa pagherà fornitori in 3-4 mesi (ha ordini, incassi e fido).
Decreto di omologa: Il 10 novembre 2024 il Tribunale di Firenze emette il decreto che omologa l’accordo di ristrutturazione dei debiti di Alfa s.r.l. e lo dichiara efficace anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali dissenzienti, ricorrendo le condizioni di cui all’art. 1-bis L.103/2023. Rigetta l’opposizione del creditore Y, con compensazione delle spese (per non infierire su chi voleva solo cautelarsi). Questo decreto viene iscritto al Registro Imprese e diventa pubblico. Nessuno propone reclamo (l’unico opponente ha visto che comunque sta per ricevere soldi, non ha motivo di impugnare in Corte d’Appello). Dunque l’omologa diviene definitiva a inizio 2025.
Esecuzione del piano: Alfa, forte del decreto, subito ne trasmette copia all’Agenzia Entrate e INPS. L’Agente della Riscossione, che stava predisponendo l’atto di adesione, ora per semplicità lascia decadere la risposta formale – tanto il tribunale ha già disposto. INPS idem. La banca consolida il nuovo piano di rientro (il decreto giudiziale rende l’accordo efficace erga omnes, quindi in caso di default successivo la banca sa di essere protetta dai pagamenti incassati e, in fallimento di Alfa, di poter vantare il credito originario con ipoteca, comunque felice di non dover svalutare subito).
Nei 90 giorni successivi, Alfa rispetta gli impegni: incassa dalle vendite di fine 2024 circa €1,8 mln, ottiene €200k di nuovo fido dalla banca. Con queste risorse, paga integralmente tutti i fornitori estranei (compreso il creditore Y, che effettivamente riceve il suo €50k entro fine dicembre, ritirando l’opposizione di reclamo che stava valutando). Continua inoltre a pagare regolarmente i fornitori correnti (ora rassicurati).
Da gennaio 2025, Alfa inizia a pagare le prime rate trimestrali concordate: versa circa €30k a Agenzia Entrate e €31,25k a INPS (tanto per trimestre) e €75k alla banca (rate semestrali da 150k, quindi 75k/trimestre). Questi importi rientrano nel cash flow operativo (Alfa ha circa €500k di EBITDA annuale, dunque sostenibile).
L’azienda esce dalla crisi: l’accordo agevolato ha centrato l’obiettivo di risanare la posizione finanziaria con una minoranza qualificata di creditori (banca e Fisco) e con l’appoggio implicito dei principali stakeholder. Entro il 2029 Alfa avrà finito di pagare tutte le rate e sarà un’azienda bonificata dai debiti pregressi.
Questo caso mostra come un accordo agevolato ben orchestrato permetta:
- di evitare il fallimento e proseguire l’attività produttiva,
- di soddisfare integralmente i creditori trade (quindi nessun danno alla reputazione commerciale),
- di ridurre l’indebitamento in misura moderata ma sufficiente (qui debito da 5 a circa 4 milioni – soprattutto ridotto l’onere finanziario per cassa),
- di diluire i pagamenti nel tempo senza procedure concorsuali lunghe,
- di ottenere la fiducia anche di creditori pubblici grazie alla cornice legale (il giudice fungendo da arbitro ha fatto sì che tutti prendano il meglio realisticamente possibile).
Caso 2: “Beta S.p.A. – Fallimento dopo accordo inadempiuto”
Scenario: Beta S.p.A. è un’impresa edile di medie dimensioni. Nel 2023 incappa in una grave crisi di liquidità: ha debiti per €8 milioni (banche 3 mln, fornitori 2 mln, Fisco 1 mln, mutui/leasing 1 mln, altri 1 mln). Nel 2024, Beta tenta un accordo di ristrutturazione agevolato: riesce ad ottenere l’adesione di banche detentrici del 40% dei crediti e propone transazione fiscale al 30%. L’accordo viene omologato dal tribunale di Milano a fine 2024 con soglia 40%, senza opposizioni (fornitori da pagare al 100% in 120 gg). Il piano però è troppo ottimistico: Beta spera di vendere in pochi mesi alcuni immobili per far cassa e pagare i fornitori estranei e le prime rate, ma il mercato immobiliare è fermo. Ad aprile 2025 Beta non ha ancora pagato €1 mln di fornitori estranei (scaduti da 3 mesi, violando art. 57 co.3 CCII), e questi iniziano decreti ingiuntivi. Non solo: Beta non riesce a rispettare la prima rata di €150k dovuta alle banche a marzo né il pagamento di €100k concordato col Fisco per fine marzo.
Inadempimento e reazioni: I creditori reagiscono duramente:
- I fornitori estranei, vedendo disatteso l’impegno di pagamento integrale, perdono ogni fiducia e 3 di loro (rappresentanti €500k) presentano istanza di fallimento immediata a maggio 2025, sostenendo che Beta è insolvente malgrado l’accordo omologato.
- Le banche aderenti, non ricevendo la rata concordata, decidono di attivarsi: una di esse (che aveva ipoteca su un capannone) notifica atto di precetto per l’intero importo originario del mutuo (€800k) – ritenendo che l’accordo sia risolto dal mancato pagamento. Un’altra banca, chirografaria, interviene nella procedura di fallimento come creditore istante pure lei.
- L’Agenzia Entrate, visto il mancato pagamento di €100k entro marzo, revoca la transazione fiscale (d’altronde l’accordo prevedeva che il mancato pagamento di una rata della transazione la faceva decadere – è clausola tipica). Quindi torna ad iscrivere a ruolo l’intero debito fiscale residuo. Manda un ufficiale giudiziario a pignorare i conti di Beta (che però sono quasi vuoti).
- Beta S.p.A. tenta di difendersi: i suoi avvocati sostengono in tribunale che occorrerebbe prima dichiarare risolto l’accordo ex art. 1453 c.c., e che Beta sta negoziando la vendita di un immobile che permetterebbe di pagare quei debiti. Ma nel frattempo Beta ha praticamente sospeso i cantieri e non paga più stipendi (un disastro). I creditori spingono.
Procedimento per risoluzione e fallimento: I fornitori istanti chiedono al tribunale di dichiarare il fallimento di Beta. Beta eccepisce che c’è un accordo omologato in essere e che non sarebbe risolto formalmente. Ma la Cass. SU 2022 è chiara: i creditori aderenti (banche) e non aderenti hanno legittimazione a chiedere fallimento per inadempimento, senza necessità di preventiva risoluzione. E il CCII art. 119 co.7 non si applica agli accordi. Dunque il tribunale di Milano, con sentenza del giugno 2025, dichiara il fallimento di Beta S.p.A., ritenendo provato lo stato di insolvenza (Beta non paga i debiti scaduti, i creditori hanno revocato fiducia, l’attivo è incerto). Nella sentenza, il giudice richiama la Cassazione di fine 2024: stabilisce che l’apertura della liquidazione giudiziale comporta la risoluzione di diritto dell’accordo omologato di Beta per impossibilità sopravvenuta di eseguirlo, ai sensi dell’art. 1463 c.c.. E di conseguenza, i creditori sono liberi di far valere i loro crediti originari integrali (dedotti acconti incassati).
Effetti sui crediti: Nel fallimento Beta, il curatore invita i creditori a insinuarsi al passivo:
- Le banche aderenti che avevano stralciato 20% di credito, adesso insinuano l’intero importo originario (ad es., la banca ipotecaria aveva €1 mln, nell’accordo accettato €800k, ora insinua €1 mln minus eventuali €50k incassati come anticipo prima del default). Lo fanno perché la Cassazione 2024 dà loro base giuridica. Il curatore include l’intero importo nello stato passivo, considerando l’accordo risolto.
- I fornitori estranei, che nell’accordo dovevano essere pagati al 100% e non lo sono stati, insinuano i loro crediti per intero (ovviamente).
- L’Erario insinua l’intero suo credito di €1 mln (anche se nell’accordo avrebbe preso 300k); qui, poiché Beta non ha versato le prime rate, la transazione è risolta e tornano a chiedere tutto (e comunque il fallimento risolve di diritto).
- La massa dei debiti quindi torna quella originaria (o quasi, con aggiunta di nuovi debiti per interessi e procedure).
- Il curatore osserva però che Beta, nei mesi post-omologa, ha effettuato alcuni pagamenti a banche e pochi fornitori con preferenza rispetto ad altri, in esecuzione del piano. Tali atti erano coperti da esenzione revocatoria (art. 166 co.3 lett e): infatti li ha compiuti in base a un accordo omologato. Dunque il curatore non può esercitare azione revocatoria su di essi, malgrado il fallimento successivo. Ad esempio, Beta aveva pagato €100k a un fornitore “Z” estraneo subito dopo l’omologa: quel pagamento è irretrattabile, il fornitore Z lo conserva (beato lui, ha avuto 100%). Altri che non sono stati pagati, restano a bocca asciutta e ora concorrono. Questo crea disparità? Sì, ma è l’effetto legge: i pagati esecutando un accordo omologato non restituiscono nulla in caso di fallimento, quindi il fallimento Beta vede alcuni creditori soddisfatti al 100% pre-fallimento e altri zero. Pazienza: è la ratio pro-risanamento che però in caso di fiasco avvantaggia chi fu pagato per primo.
Conclusione: Il fallimento di Beta produce la “riespansione” dei crediti, ma i creditori non recupereranno comunque molto perché l’attivo è modesto (immobili invenduti, cantieri fermi). Però formalmente possono concorrere per i loro importi pieni: se un ipotecario era stato ridotto al 80% nell’accordo, ora può insinuare 100%. Il fallimento, come spesso accade, verrà chiuso forse con realizzo del 30% sui beni, quindi in fin dei conti le banche ipotecarie prenderanno 60-70%, il Fisco 0% (perché chirografario) e fornitori 0%. Paradosso: se l’accordo fosse riuscito, avrebbero preso di più (banche 80, Fisco 30, fornitori 100); ma non è riuscito. La sfiducia e la sottovalutazione della fattibilità ha portato Beta al peggiore esito.
Questo caso evidenzia i rischi:
- Un accordo privo di reale fattibilità conduce solo a posticipare il fallimento di qualche mese, spesso aggravando il dissesto (Beta ha speso ulteriori soldi in consulenze, e nel frattempo ha aumentato debiti con dipendenti).
- Il debitore Beta magari avrebbe potuto optare per un concordato, vendere subito i beni, etc. Ma ha provato la via accordo con eccessivo ottimismo e poca disciplina.
- I creditori comunque sono protetti dal fatto che possono subito reagire senza attendere: SU 4696/2022 ha permesso loro di chiedere il fallimento appena visto l’inadempimento, senza dover aspettare procedure di risoluzione lunghe. Così si è evitato di perdere altro tempo.
- La esenzione revocatoria tutela i creditori che hanno incassato in esecuzione del piano (fornitore Z, banche su qualche rata), mentre penalizza ulteriormente chi è rimasto a secco (questo è inevitabile: la legge ha preferito incentivare la fiducia nei pagamenti del piano, a scapito di parità ex post in caso di fallimento).
- Dal punto di vista del sistema, il fallimento Beta non è colpa dello strumento accordo in sé, ma di un suo uso su basi non realistiche: come diceva Cass. 2019, il giudice doveva valutare plausibilità del pagamento estranei – forse quell’omologa fu concessa con troppa leggerezza se Beta già vacillava. Un monito: i tribunali dovrebbero vigilare intensamente sulla tenuta dei piani, per evitare questi epiloghi.
In sintesi, il secondo esempio sottolinea che l’accordo agevolato non è una bacchetta magica: se la crisi è troppo profonda o mal gestita, l’esito negativo comporta addirittura la “cancellazione” dei benefici ottenuti dai debitori (i crediti condonati rispuntano) e il ritorno al rigore concorsuale.
Questi esempi mostrano, rispettivamente, come un accordo agevolato possa salvare un’azienda con tempestività e cooperazione, e d’altro canto come un accordo fallito porti a conseguenze equivalenti a un fallimento tardivo (con qualche danno collaterale in più per disparità tra creditori). La lezione pratica è che l’accordo di ristrutturazione va perseguito solo se vi sono ragionevoli chance di adempierlo: il debitore e i professionisti devono essere sinceri nelle stime e prudenti. In caso contrario, è preferibile direttamente optare per un concordato o altra soluzione, anziché aggravare il dissesto.
Conclusioni
Gli accordi di ristrutturazione agevolati rappresentano, nella vigente disciplina del Codice della crisi, uno strumento avanzato e innovativo a disposizione dell’imprenditore in difficoltà. Dal punto di vista del debitore, essi offrono la possibilità di negoziare una soluzione su misura con i principali creditori, ottenendo benefici (quorum ridotto, esenzione da revocatorie, continuità gestionale) in cambio di precisi impegni (pagamento integrale e tempestivo degli altri creditori, rinuncia allo stay). Si configurano dunque come un istituto di “allerta negoziata”, che incentiva l’emersione anticipata della crisi in via consensuale.
Abbiamo visto come, se ben utilizzati, questi accordi possono salvare imprese e posti di lavoro, soddisfacendo in misura più che proporzionale i creditori rispetto a scenari liquidatori. I recenti interventi normativi (L. 103/2023) e giurisprudenziali (Cass. 2024) hanno ulteriormente raffinato lo strumento:
- assicurando maggiore tutela ai creditori pubblici non aderenti (richiesta di soglie minime 30-40%, relative priority rule),
- chiarendo gli effetti in caso di esito negativo (risoluzione ipso iure e riespansione dei crediti),
- ribadendo il ruolo di controllo del tribunale in omologa (verifica sostanziale di legalità e fattibilità),
- agevolando l’efficacia erga omnes per categorie (accordi ad efficacia estesa con precisi obblighi informativi).
Per il debitore che si avvicina a questo istituto, i messaggi chiave da trarre sono:
- Tempestività: attivarsi prima che la crisi degeneri è fondamentale. Solo in tal caso si potrà rinunciare alle misure protettive e mantenere la fiducia dei creditori estranei, come richiede l’accordo agevolato.
- Trasparenza e correttezza: informare adeguatamente i creditori, presentare dati veritieri (la relazione deve attestare la veridicità ex art. 57), e rispettare gli impegni successivi. La buona fede negoziale è essenziale per ottenere l’adesione dei creditori e l’omologa.
- Credibilità del piano: elaborare un piano realistico, con margini di sicurezza per pagare i creditori estranei nei termini di legge. Un piano troppo ottimistico rischia di portare a un fallimento, con la completa vanificazione degli sforzi e possibili conseguenze di responsabilità per gli amministratori (ad esempio se l’accordo era manifestamente irrealizzabile, potrebbero rispondere per aggravio del dissesto).
- Assistenza professionale qualificata: il debitore deve farsi affiancare da consulenti esperti in crisi d’impresa e da un attestatore autorevole e indipendente, per assicurare che tutte le formalità siano rispettate e che il piano sia valutato oggettivamente. La relazione dell’attestatore è il perno su cui ruota la fiducia del tribunale e dei creditori.
- Valutare sempre l’alternativa concorsuale: l’accordo è preferibile se c’è coesione con i creditori principali. Ma se ci si accorge che alcuni stakeholder chiave non aderiscono e non c’è modo di soddisfarli comunque (es. un fornitore essenziale non pagato potrebbe bloccare attività), allora può convenire passare al Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) ex art. 64-bis o al concordato, che offrono strumenti diversi (classi, cram-down). Il CCII consente anche conversioni di procedure (art. 46).
- Attenzione ai creditori pubblici: bisogna tener conto delle linee guida dell’Erario e prevedere offerte minime adeguate (l’esperienza insegna che sotto il 30% raramente c’è accordo, e comunque ora è obbligatorio≥30%). Conoscere le prassi locali (commissioni regionali) aiuta a formulare proposte accettabili.
In conclusione, gli accordi di ristrutturazione agevolati costituiscono – specie dopo l’aggiustamento del 2023 – un efficace strumento di composizione negoziale della crisi, allineato ai principi europei di early restructuring. Essi combinano la flessibilità del negoziato privatistico con le garanzie dell’intervento giudiziale a tutela della par condicio e della fattibilità.
Per avvocati, consulenti e imprenditori è fondamentale essere aggiornati su questo istituto, saperlo confrontare con le alternative e saperlo applicare correttamente. In mano esperte, può salvare imprese e valore economico; in mano inesperte o se abusato, rischia di rivelarsi un boomerang. La giurisprudenza più recente fornisce un orientamento robusto per un’applicazione equilibrata, ponendo al centro:
- la tutela dei creditori dissenzienti (nessun pregiudizio senza consenso),
- la valorizzazione del consenso qualificato dei creditori vitali (soglie ridotte per incentivare l’accordo precoce),
- la responsabilizzazione del debitore, che ottiene vantaggi solo se rispetta rigorosamente le condizioni e gli impegni assunti.
Dal punto di vista del debitore, dunque, l’accordo agevolato va visto non come una facile via d’uscita, ma come un “patto d’onore” con i propri creditori di riferimento, sotto l’egida del tribunale. Se l’onore è mantenuto, tutti ne beneficiano (impresa salvata, creditori soddisfatti meglio che in fallimento); se viene tradito, la legge restituisce ai creditori ogni libertà di agire e il debitore subirà le conseguenze aggravate del default, senza ulteriori sconti.
In definitiva, gli accordi di ristrutturazione agevolati costituiscono uno strumento prezioso nel nostro ordinamento concorsuale avanzato, che – se applicato con rigore tecnico e lealtà – può realizzare al meglio il principio della continuità aziendale con soddisfacimento negoziale dei creditori, in linea con la tendenza europea di privilegiare soluzioni di mercato alla crisi d’impresa. L’auspicio è che, con l’evoluzione delle prassi e l’affinamento normativo, questo istituto trovi sempre maggiore diffusione, diventando parte integrante della “cassetta degli attrezzi” per la gestione strategica delle crisi d’impresa in Italia.
Fonti e Riferimenti
- Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14), artt. 57-64 (Disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti e varianti).
- Legge 10 agosto 2023 n. 103 (conversione D.L. 69/2023 “Salva-infrazioni UE”), art. 1-bis – Disposizioni transitorie in materia di crisi d’impresa: nuova disciplina del cram-down fiscale negli accordi.
- Cass. civ. Sez. I, 08/05/2019, n.12064: sul sindacato del tribunale in omologa di accordo ex art.182-bis L.F.; controllo non solo formale ma anche sulla plausibilità della integrale soddisfazione dei creditori estranei nei termini di legge.
- Cass. civ. Sez. Unite, 28/02/2022, n.4696: legittimazione del creditore aderente a chiedere fallimento del debitore inadempiente senza previa risoluzione dell’accordo; natura distinta di concordato e accordo.
- Cass. civ. Sez. I, 17/12/2024, n.32996: il fallimento successivo all’omologa di un accordo di ristrutturazione risolve di diritto l’accordo ex art.1463 c.c., con riespansione delle obbligazioni originarie dei creditori (possono insinuare l’intero credito, detratti acconti ricevuti).
- Cass. civ. Sez. I, 21/02/2024, n.4622: (procedura sovraindebitamento) ribadisce che il pagamento dilazionato di crediti privilegiati oltre limite di legge richiede il consenso del creditore; principio estensibile agli ADR (nessuna modifica peggiorativa ai privilegiati dissenzienti senza assenso).
- Tribunale di Milano, Sez. II, decreto 18/12/2024: linee guida su obblighi informativi e notificatori nel procedimento di omologa di accordo ad efficacia estesa ex art.61 CCII; necessità di informazione costante ai creditori non aderenti e notifica finale individuale per far decorrere termini di opposizione.
- Codice di Procedura Civile, art. 911 c.c. (richiamato dall’art.48 CCII): disciplina delle opposizioni e dei reclami nelle procedure concorsuali minori (in tema di legittimazione ad impugnare solo chi è stato parte in primo grado).
- Relazione Illustrativa al D.Lgs.14/2019: chiarisce l’intento di favorire composizioni negoziali precoci (accordi agevolati) e l’introduzione anticipata di 182-novies L.F. con D.L.118/2021.
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Conclusione
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