Hai deciso di chiudere la tua SRL perché l’attività non è più sostenibile, i debiti crescono o semplicemente non ha più senso tenerla in piedi? Ti stai chiedendo quanto costa avviare una liquidazione volontaria e quali spese dovrai affrontare per arrivare alla chiusura definitiva?
La domanda è più che legittima. Liquidare una società non significa semplicemente “chiuderla” con una comunicazione. Si tratta di una procedura formale e regolata, che comporta atti legali, contabili, fiscali e notarili. E ogni fase ha dei costi precisi da considerare.
Ma quindi: quanto costa davvero liquidare una SRL? E da cosa dipende l’importo finale?
Il costo della liquidazione dipende da diversi fattori, tra cui:
- la situazione contabile e fiscale della società (presenza di debiti, contenziosi, dichiarazioni da sanare);
- il numero di soci e la struttura interna;
- la necessità o meno di assistenza legale e fiscale per la redazione dei documenti;
- il compenso del liquidatore, se nominato esternamente.
In termini pratici, ecco le voci principali da considerare:
- Costi notarili e diritti camerali per l’avvio della liquidazione (di solito dai 500 ai 1.000 euro);
- Compenso per il liquidatore, che può variare da poche centinaia a diverse migliaia di euro, a seconda della durata e della complessità della liquidazione;
- Parcelle di commercialista e consulente legale, se coinvolti per la redazione dei bilanci finali, comunicazioni fiscali e chiusura;
- Eventuali debiti da saldare o regolarizzare, che potrebbero far lievitare i costi.
E se la SRL ha debiti? Si può liquidare lo stesso? E costa di più?
Sì, è possibile avviare la liquidazione anche con debiti, ma in questo caso è fondamentale procedere con cautela. Bisogna rispettare un preciso ordine di pagamento e, in certi casi, verificare se la situazione può comportare responsabilità per amministratori o liquidatori. Ecco perché, quando ci sono debiti o contenziosi aperti, il supporto di un avvocato diventa indispensabile per evitare errori gravi e costosi.
In questa guida, lo Studio Monardo – avvocati esperti in diritto societario, liquidazione di SRL e responsabilità degli amministratori – ti spiega quanto costa liquidare una SRL, quali spese devi mettere in conto, cosa cambia se la società ha debiti e come possiamo aiutarti a chiuderla in sicurezza, nel rispetto delle regole.
Vuoi chiudere la tua SRL ma temi che i costi siano troppo alti o che i debiti ti blocchino? Hai bisogno di sapere se sei esposto a responsabilità come amministratore o socio?
Alla fine della guida puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo: analizzeremo la tua situazione aziendale, valuteremo i costi effettivi della liquidazione e ti accompagneremo in ogni fase, fino alla cancellazione definitiva della SRL dal registro delle imprese.
Introduzione
Liquidare una Società a responsabilità limitata (SRL) significa sciogliere e chiudere definitivamente la società, estinguendone la personalità giuridica. È un processo complesso che può avvenire in due forme principali: liquidazione volontaria (decisa dai soci quando la società è solvibile o comunque in grado di pagare i debiti) e liquidazione giudiziale (dichiarata dal tribunale in caso di insolvenza conclamata, quella che fino al 2022 era chiamata fallimento). Dal punto di vista del debitore (cioè della società e dei suoi soci), è fondamentale capire quali costi comporta ciascuna forma di liquidazione – sia costi diretti (spese legali, notarili, compensi di liquidatori o curatori, imposte e tasse dovute) sia costi indiretti (perdita del capitale investito, impatto fiscale sui soci, tempi e conseguenze giuridiche come responsabilità residue). In questa guida giuridica avanzata, aggiornata a giugno 2025, esamineremo in dettaglio i costi della liquidazione di una SRL secondo l’ordinamento italiano vigente, con un elevato livello di approfondimento.
Dapprima inquadreremo il contesto normativo, citando le fonti rilevanti (Codice Civile, TUIR e normativa fiscale, Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza introdotto dal D.lgs. 14/2019, ecc., con gli aggiornamenti più recenti). Successivamente analizzeremo separatamente:
- i costi e gli oneri di una liquidazione volontaria di SRL,
- i costi della liquidazione giudiziale (procedura concorsuale avviata dal tribunale),
e confronteremo le due situazioni. Approfondiremo gli aspetti fiscali (dalle imposte indirette e di registro, all’IVA e all’IRAP, fino alla tassazione dell’attivo residuo distribuito ai soci) e forniremo strategie utili per ridurre i costi diretti e indiretti della liquidazione. Indicheremo anche le tempistiche tipiche di ciascuna fase del procedimento (dalla decisione di scioglimento alla cancellazione finale) e includeremo tabelle riepilogative dei costi principali (onorari professionali, imposte, compensi del liquidatore o curatore, spese notarili e di procedura, ecc.). Verranno presentate simulazioni pratiche con dati ipotetici realistici in contesto italiano, per mostrare come i costi possono variare in diversi scenari. Infine, troverete una sezione di Domande e Risposte (FAQ) che affronta i dubbi più frequenti di imprenditori e operatori (ad es. cosa accade ai debiti rimasti, se i soci devono pagarli, quanto dura il procedimento, ecc.).
Nota sul metodo: privilegiando la chiarezza espositiva, la guida utilizza intestazioni organizzate e paragrafi brevi. Le informazioni essenziali sono evidenziate con elenchi puntati e tabelle, così da facilitare la consultazione.
Inquadramento normativo: scioglimento e liquidazione di una SRL
Per comprendere i costi, occorre prima delineare il quadro normativo che disciplina lo scioglimento e la liquidazione delle società di capitali (SRL) in Italia al 2025. Le principali fonti sono: il Codice Civile (che regola le cause di scioglimento e la liquidazione ordinaria), il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII, D.lgs. 14/2019, che disciplina le procedure concorsuali come la liquidazione giudiziale), e diverse norme fiscali (TUIR, DPR 602/1973, ecc.) per gli aspetti tributari. Vediamole in sintesi:
- Cause di scioglimento (art. 2484 c.c.) – L’art. 2484 del Codice Civile elenca le cause legali per cui una società di capitali si scioglie di diritto. Tra le cause più comuni vi sono: il decorso del termine di durata eventualmente stabilito, il conseguimento dell’oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di raggiungerlo, l’impossibilità di funzionamento o la prolungata inattività dell’assemblea, la riduzione del capitale sotto il minimo legale senza ricostituzione, la deliberazione volontaria dei soci di sciogliere anticipatamente la società, e ogni altra causa prevista dallo statuto. Dal 2022, con l’entrata in vigore del CCII, tra le cause di scioglimento è inclusa l’apertura di una procedura concorsuale – in particolare l’apertura della liquidazione giudiziale o della liquidazione controllata. Ciò significa che se un tribunale dichiara la liquidazione giudiziale (ex fallimento) di una SRL, essa si considera sciolta automaticamente per legge da quel momento. Analogamente, la “liquidazione controllata” è la procedura concorsuale prevista per i debitori minori (sovraindebitati) non soggetti a fallimento, e la sua apertura scioglie eventuali società coinvolte. Oltre alle cause di legge, lo statuto sociale può prevedere cause specifiche di scioglimento; in tal caso deve anche indicare chi accerta il loro avveramento e cura gli adempimenti pubblicitari.
- Obblighi degli amministratori in caso di scioglimento – Appena si verifica una causa di scioglimento, gli amministratori hanno il dovere di accertarla formalmente e iscriverla al Registro delle Imprese senza indugio (art. 2485 c.c.). Quindi devono convocare l’assemblea dei soci perché deliberi lo scioglimento formale e la messa in liquidazione, nominando uno o più liquidatori. La delibera di scioglimento (redatta per atto notarile quando richiesta) va depositata entro 30 giorni al Registro Imprese (art. 2484 ult. co. c.c.). Da quel momento, la denominazione sociale deve indicare l’aggiunta “in liquidazione” e i liquidatori assumono la gestione sociale al posto degli amministratori, limitatamente agli atti necessari per liquidare il patrimonio. Gli amministratori cessanti consegnano ai liquidatori i libri sociali e un rendiconto sulla loro gestione dall’ultimo bilancio fino allo scioglimento (art. 2487-bis c.c.). I liquidatori subentrano nei poteri di gestione, ma con l’obbligo di conservare l’integrità del patrimonio sociale e di soddisfare i creditori secondo le regole legali.
- Procedura di liquidazione ordinaria (volontaria) – La liquidazione ordinaria o extra-giudiziale è disciplinata dagli artt. 2487–2496 c.c. In sintesi, i liquidatori nominati dai soci devono: realizzare l’attivo (vendere i beni sociali, riscuotere crediti), pagare i debiti sociali e quindi distribuire l’eventuale attivo residuo ai soci (in proporzione alle quote). Devono redigere il bilancio finale di liquidazione e un piano di riparto finale (art. 2492 c.c.), sottoporli all’approvazione dei soci (oppure depositarli presso il Registro Imprese, comunicandoli ai soci, che hanno 90 giorni per eventuali reclami). Una volta approvato (o decorsi 90 giorni senza reclami), i liquidatori distribuiscono il residuo attivo ai soci e chiedono la cancellazione della società dal Registro delle Imprese (art. 2495 c.c.). Dopo la cancellazione, la società cessa di esistere come soggetto giuridico (estinzione). Da notare che in sede di bilancio finale i liquidatori devono aver calcolato e accantonato un fondo per costi ed oneri di liquidazione, ossia una stima di tutte le spese legali e amministrative della procedura al netto dei proventi realizzati. Questo accantonamento tutela creditori e soci, assicurando che vi siano risorse per coprire i costi di chiusura (compensi dei liquidatori, spese notarili, imposte finali, etc.) prima di distribuire eventuali eccedenze ai soci.
- Liquidazione volontaria e solvibilità – È importante sottolineare che la liquidazione ordinaria presuppone che la società, pur decidendo di cessare l’attività, sia in grado di pagare tutti i debiti con il proprio attivo. Se durante la liquidazione emerge che l’attivo non basta a soddisfare i creditori, i liquidatori devono valutare di ricorrere alle procedure concorsuali (es. chiedere il fallimento/liquidazione giudiziale): proseguire una liquidazione extra-giudiziale in stato di insolvenza significherebbe lasciare crediti impagati e potrebbe esporre liquidatori e amministratori a responsabilità (anche penali, se vengono lesi i diritti dei creditori). In pratica, però, capita che talvolta – soprattutto in passato – società senza attivo decidano di chiudere comunque in via volontaria per evitare i costi e la complessità di un fallimento. La legge consente formalmente di cancellare una SRL anche con debiti residui, ma ciò non estingue i debiti: come vedremo, i creditori potranno rivalersi su soci e liquidatori nei limiti di legge, e i creditori stessi (incluso il Fisco) hanno facoltà di provocare entro certi termini l’apertura di una procedura concorsuale postuma.
- Procedura di liquidazione giudiziale (fallimento) – La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale prevista dal CCII per gli imprenditori insolventi. Ha sostituito la “procedura di fallimento” dal 15 luglio 2022, eliminando il termine fallimento dall’ordinamento (per attenuare lo stigma, il legislatore ora parla di liquidazione giudiziale e curatore invece di curatore fallimentare). Presupposto soggettivo: possono essere assoggettate a liquidazione giudiziale le imprese commerciali non piccolissime (non minori) in stato di insolvenza. Le soglie dimensionali sono rimaste quelle già previste per la fallibilità: aver avuto nei tre esercizi precedenti attivi superiori a €300.000, ricavi superiori a €200.000, oppure debiti (anche non scaduti) oltre €500.000. Se l’impresa non supera nessuno di questi parametri, è qualificata come impresa minore (piccola) e non è soggetta a liquidazione giudiziale ordinaria. Presupposto oggettivo: lo stato di insolvenza, definito dal CCII come l’incapacità di adempiere regolarmente alle obbligazioni (persistente impotenza finanziaria). La domanda per apertura della procedura può provenire dall’imprenditore stesso (cosiddetto autofallimento), da un creditore, o dal Pubblico Ministero in casi particolari. Il tribunale, verificati i presupposti in una fase pre-fallimentare di istruttoria, emette la sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale che apre la procedura. Con la sentenza vengono nominati un Giudice Delegato e il Curatore della procedura. Da quel momento l’imprenditore è spossessato della gestione e dei beni, che passano sotto l’amministrazione del curatore. La sentenza produce vari effetti immediati: blocco delle azioni esecutive individuali, cristallizzazione dei debiti, scioglimento dei contratti pendenti salvo continuazione autorizzata, ecc., in continuità con la vecchia disciplina fallimentare. Procedimento e organi: dopo l’apertura, i creditori devono insinuare i propri crediti nello stato passivo entro termini fissati (di norma 30 giorni prima dell’udienza di verifica). Il Curatore esamina le domande di insinuazione e predispone lo stato passivo; il Giudice Delegato tiene udienza per l’esame dei crediti e rende esecutivo lo stato passivo delle richieste ammesse. Il curatore intanto gestisce l’impresa fallita (se ne è autorizzata la provvisoria continuazione) e/o avvia la liquidazione dell’attivo: vende i beni mobili e immobili (spesso tramite procedure d’asta), riscuote crediti, ed eventualmente esercita azioni legali per recuperare risorse (azioni revocatorie, risarcitorie verso amministratori, etc.). Le somme ricavate confluiscono nella massa attiva e saranno distribuite ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. Chiusura: una volta liquidato tutto l’attivo, il curatore presenta il conto della gestione e un piano di riparto finale delle somme ai creditori (previa approvazione del comitato dei creditori e del giudice). Eseguito il riparto finale, il tribunale dichiara chiusa la procedura con decreto. La società (se ancora esistente) viene cancellata dal Registro Imprese d’ufficio. In molti casi, tuttavia, la società era già stata cancellata prima dell’apertura del fallimento: infatti, la legge consente di dichiarare il fallimento/liquidazione giudiziale anche dopo che la società è stata cancellata, purché l’istanza sia presentata entro 1 anno dalla cancellazione e sia provato che l’insolvenza esisteva già prima di essa. Questo serve ad evitare che i debitori insolventi sfuggano al fallimento semplicemente cancellando la società: i creditori (incluso il Fisco) possono ottenere dal tribunale un fallimento “postumo” entro l’anno, per far accertare lo stato di insolvenza ed eventualmente far valere responsabilità degli ex amministratori. Decorso un anno dalla cancellazione, invece, non è più apribile alcuna procedura concorsuale sulla società defunta.
- Altre procedure concorsuali e “liquidazione controllata” – Oltre alla liquidazione giudiziale ordinaria, il nuovo Codice della Crisi prevede altri strumenti che, pur non essendo l’oggetto principale di questa guida, vanno menzionati per completezza. In particolare, per le imprese minori non soggette a fallimento, in caso di insolvenza si applicano le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (oggi incluse nel CCII): tra queste, la liquidazione controllata del sovraindebitato è l’equivalente di una liquidazione concorsuale per piccoli imprenditori, anch’essa aperta con decreto del tribunale. La liquidazione controllata ha effetti simili a un fallimento (nomina di un liquidatore nominato dal giudice, spossessamento, ecc.) ma con regole semplificate per debitori minori. Inoltre, esistono strumenti alternativi al fallimento che mirano a risolvere la crisi senza liquidare completamente l’impresa: il concordato preventivo (piano concordato coi creditori e omologato dal tribunale, che può essere in continuità aziendale o liquidatorio), gli accordi di ristrutturazione del debito (accordi negoziati con la maggioranza dei creditori e anch’essi omologati) e la composizione negoziata (procedura stragiudiziale introdotta nel 2021 per favorire la risanamento precoce). Questi strumenti possono avere costi procedurali diversi (ad es. il concordato comporta il costo di un commissario giudiziale, votazioni, ecc.) ma, se ben riusciti, consentono spesso di ridurre l’esposizione debitoria in modo più vantaggioso per il debitore rispetto a una liquidazione totale. Nel prosieguo, tuttavia, ci concentreremo sui costi della liquidazione vera e propria (volontaria o giudiziale) di una SRL, facendo solo cenno comparativo alle alternative quando utile in termini di strategie per contenere i costi.
- Responsabilità di soci e liquidatori verso i creditori – Un aspetto normativo chiave (che incide sul punto di vista del debitore dopo la liquidazione) riguarda cosa accade ai debiti non pagati al termine della liquidazione. Il Codice Civile stabilisce, all’art. 2495 c.c., che dopo la cancellazione della società i creditori sociali insoddisfatti possono far valere i loro crediti verso i soci, ma solo entro il limite di quanto questi hanno riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. Inoltre, i creditori possono agire contro i liquidatori se il mancato pagamento è dovuto a colpa di questi ultimi (ad es. il liquidatore ha ripartito attivo ai soci lasciando debiti impagati). Questa norma tutela i soci: essi non rispondono illimitatamente di tutti i debiti residui, ma solo fino alle somme che hanno eventualmente incassato dalla liquidazione (se non hanno ricevuto nulla, di regola non dovranno pagare nulla ai creditori). Per i debiti tributari c’è una norma speciale, l’art. 36 del DPR 602/1973, che estende la responsabilità ai soci che nei due anni precedenti la messa in liquidazione abbiano ricevuto denaro o beni dai patrimoni sociali (distribuzioni di utili, riserve, ecc.). In pratica il Fisco può chiedere ai soci il pagamento delle imposte dovute dalla società estinta nei limiti del valore di quanto ricevuto, considerando anche assegnazioni antecedenti alla liquidazione (per evitare che i soci si “portino avanti” beni prima di liquidare). Questa responsabilità dei soci per i debiti fiscali rimane comunque limitata al valore ricevuto e “salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile” (ossia resta ferma l’eventuale responsabilità illimitata per i soci di società di persone, non rilevante nel caso SRL, e la responsabilità per colpa del liquidatore ex art. 2495 c.c.). La Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 3625/2025 ha recentemente interpretato in senso estensivo queste disposizioni: ha confermato che la riscossione di somme da parte dei soci è non solo il limite della loro responsabilità, ma anche il presupposto per l’azione del Fisco. Se i soci contestano di non aver ricevuto nulla, l’Amministrazione finanziaria deve provare il contrario per avere titolo ad agire. Tuttavia, le Sezioni Unite hanno anche chiarito che l’“avere riscosso somme” va inteso in senso lato: comprende non solo i riparti finali da bilancio, ma anche eventuali attribuzioni di beni ai soci non risultate a bilancio, o escussioni di garanzie prestate dai soci. Quindi l’interesse ad agire del Fisco non si esclude automaticamente se formalmente il socio non ha ricevuto liquidazione: potrebbe emergere che ha beneficiato di altre utilità patrimoniali. In ogni caso, se il socio non ha ricevuto nulla, potrà far valere questa circostanza per evitare il pagamento, ed essa va accertata in sede propria (con atti rivolti individualmente ai soci). I liquidatori, invece, rispondono personalmente verso i creditori solo ove ci sia colpa nella mancata soddisfazione (ad esempio, hanno pagato alcuni creditori lasciandone altri insoddisfatti in violazione della par condicio, oppure hanno distribuito attivo ai soci indebitamente). La responsabilità del liquidatore ex art. 2495 c.c. è di natura aquiliana (extracontrattuale) secondo la giurisprudenza prevalente, quindi il creditore insoddisfatto deve provare il dolo o la colpa grave del liquidatore nel preferire i soci o altri invece di lui. In generale, un liquidatore che segue l’ordine legale delle prelazioni e adempie agli obblighi informativi (ad es. avvisa formalmente i creditori dell’assenza di attivo) difficilmente sarà ritenuto colpevole se i crediti non vengono pagati.
- “Sopravvivenza” fiscale della società estinta – Un ultimo elemento normativo da evidenziare è che, per i soli fini fiscali e contributivi, la legge prevede che la società cancellata continui ad esistere fittiziamente per 5 anni. L’art. 28, comma 4, del D.lgs. 175/2014 (convertito con modificazioni dalla L. 190/2014) dispone infatti che, ai soli fini della liquidazione, accertamento, riscossione dei tributi e contributi, l’estinzione della società ha effetto trascorsi 5 anni dalla richiesta di cancellazione. In altre parole, fino a cinque anni dopo la cancellazione, il Fisco (e gli enti previdenziali come l’INPS) possono ancora notificare avvisi di accertamento, cartelle esattoriali o atti della riscossione in nome della società (indirizzandoli presso l’ultimo domicilio fiscale conosciuto, tipicamente in persona dell’ultimo liquidatore). Ciò consente di perfezionare gli atti impositivi entro i termini decadenziali ordinari, nonostante la società non esista più formalmente. La norma, pensata per bilanciare l’interesse erariale con l’esigenza di certezza, è stata ritenuta costituzionalmente legittima (Corte Cost. sent. n. 142/2020). Trascorsi i 5 anni dalla cancellazione, la società è considerata definitivamente estinta anche agli occhi del Fisco; eventuali nuovi avvisi o cartelle non potranno più essere emessi a nome suo (dovranno semmai essere indirizzati direttamente a soci o liquidatori nei limiti di responsabilità). Anche nei 5 anni di “sopravvivenza fiscale”, comunque, l’effettiva riscossione dei debiti avverrà a carico di soci e liquidatori responsabili, secondo le regole viste sopra (art. 2495 c.c. e art. 36 DPR 602/73). Importante: questa finzione quinquennale vale anche per i contributi previdenziali dovuti a enti come INPS, poiché la norma del 2014 include i “contributi” oltre ai tributi. Sul piano pratico, significa che l’Agenzia delle Entrate o l’INPS potranno ancora notificare, entro il quinquennio, accertamenti o cartelle in capo alla società estinta per contestare imposte o contributi non versati; tali atti, una volta notificati alla società (in persona dell’ex liquidatore), fanno poi proseguire la riscossione contro soci e liquidatori. La prescrizione dei singoli debiti segue comunque le regole ordinarie (es. 10 anni per l’IVA non pagata, salvo atti interruttivi). La chiusura della società non estingue né abbrevia i termini di prescrizione dei debiti fiscali: ad esempio, se una cartella IVA viene notificata a un ex socio nel 2026, essa si prescriverà nel 2036 se non seguita da altri atti. Superato il quinquennio dalla cancellazione, non potranno più essere iniziati nuovi accertamenti verso soggetti non già raggiunti da atti entro quel periodo; ma i procedimenti già avviati (es. cartelle già notificate ai soci) potranno proseguire secondo i loro termini ordinari di prescrizione. In sintesi, per 5 anni dopo la liquidazione il rischio fiscale per soci e liquidatori rimane concretamente aperto.
Riassumendo il quadro normativo, abbiamo due percorsi distinti: la liquidazione volontaria (disciplinata dal codice civile, gestita privatamente dai soci con costi tipicamente minori e maggiore controllo) e la liquidazione giudiziale (disciplinata dal codice della crisi, gestita da organi nominati dal tribunale, con costi procedurali più elevati e tempi più lunghi). Nel primo caso, se la liquidazione si svolge correttamente e l’attivo copre il passivo, la società si chiude pulita senza strascichi; nel secondo caso si attiva una procedura concorsuale costosa ma che garantisce la par condicio creditorum e può portare anche a conseguenze personali (azioni di responsabilità, sanzioni per bancarotta, ecc.) in capo agli amministratori. Nel prossimo capitolo affronteremo nel dettaglio quali sono i costi in gioco nelle due ipotesi, partendo dalla liquidazione volontaria e poi quella giudiziale, per poi considerare come ridurli e quali strategie adottare dal punto di vista dell’imprenditore-debitore.
Costi della liquidazione volontaria di una SRL
La liquidazione volontaria (ordinaria) di una SRL comporta una serie di costi diretti che devono essere sostenuti dalla società stessa nel corso della procedura di chiusura. Questi costi possono essere distinti in: spese amministrative e notarili connesse agli adempimenti formali, onorari professionali (compenso del liquidatore, eventuali consulenti), e oneri fiscali (imposte dovute in sede di liquidazione, tasse sulla distribuzione ai soci, ecc.). In questa sezione elenchiamo i principali costi e le loro entità tipiche, per poi fornire un esempio pratico. Va premesso che i costi effettivi possono variare molto a seconda della dimensione e situazione della società (es. numero di atti da compiere, presenza di beni immobili, importo dell’attivo da distribuire, ecc.). Tuttavia, forniremo valori indicativi e riferimenti normativi dove possibile.
Spese e oneri amministrativi
- Atto di scioglimento e messa in liquidazione – La deliberazione di scioglimento anticipato di una SRL richiede, come atto tipicamente di competenza dell’assemblea straordinaria, l’intervento del notaio (atto pubblico o scrittura autenticata). Fanno eccezione alcuni casi di scioglimento di diritto (ad es. decorso del termine sociale) in cui, secondo prassi semplificate, la dichiarazione degli amministratori può essere iscritta al Registro Imprese senza atto notarile – questo avviene in particolare per le SRL semplificate (SRLs) o quando la causa di scioglimento è oggettiva e incontestabile (come la scadenza del termine sociale, la riduzione del capitale sotto il minimo senza ricostituzione, ecc.). Nella generalità dei casi, però, occorre un verbale assembleare redatto da un notaio. Costo notarile: il costo del notaio per un atto di scioglimento può variare a seconda del tariffario e della complessità, ma per una SRL di piccole dimensioni si aggira spesso tra circa €800 e €1.500 (oltre IVA e oneri). Questo importo include la predisposizione del verbale e gli adempimenti di deposito. A tale spesa vanno aggiunte le tasse d’atto: l’iscrizione della delibera comporta un’imposta di registro fissa di €200 (in quanto atto societario straordinario) e marche da bollo e diritti di segreteria per l’iscrizione al Registro Imprese (circa €90-100 in totale per una SRL). Questi sono importi standard previsti dalla Tabella degli atti societari (DPR 131/1986, Tariffa Parte I, art. 4, e diritti camerali). Nota: In caso di liquidazione semplificata senza notaio, come avviene talora per SRL semplificate, si risparmia ovviamente l’onorario notarile – la pratica viene curata direttamente dall’amministratore o da un intermediario abilitato usando la Comunicazione Unica al Registro Imprese. Ciò comporta costi minori (solo i diritti di segreteria e bolli, e l’eventuale compenso del professionista incaricato se diverso dal notaio).
- Compenso del liquidatore – I soci, nella stessa assemblea che delibera lo scioglimento, nominano uno o più liquidatori e determinano il loro compenso (art. 2487, co. 3 c.c.). Il compenso del liquidatore nella liquidazione volontaria non è fissato da tariffe legali, ma è lasciato all’autonomia privata: tipicamente i soci possono stabilire un compenso forfettario o parametrato alle attività da svolgere, oppure anche nessun compenso (ad esempio se nominano liquidatore uno dei soci stessi o l’amministratore già in carica, può accettare di operare senza onorario ulteriore). In società di piccole dimensioni, spesso il liquidatore coincide con uno dei soci o con il commercialista della società; in tal caso è comune prevedere un compenso modesto. Se invece si nomina un professionista esterno (ad es. un commercialista, avvocato o altro esperto), i suoi onorari dipenderanno dall’impegno stimato: per una liquidazione semplice, il compenso può essere nell’ordine di qualche migliaio di euro. Ad esempio, liquidazioni “brevi” (senza beni immobili e senza contenziosi) possono comportare compensi al liquidatore di circa €2.000–5.000. Per liquidazioni più complesse (vendita di immobili, gestione di molti creditori, durata pluriennale) i compensi possono salire in proporzione alle attività svolte – talora concordati come percentuale sull’attivo liquidato o sulle somme distribuite, ma comunque liberamente negoziati con i soci all’atto della nomina. Si noti che, se i soci non determinano il compenso, il liquidatore può richiedere a fine mandato la determinazione del compenso in sede giudiziale secondo equità, ma è una situazione rara (conviene definire prima). Oneri previdenziali: se il liquidatore è un professionista iscritto a cassa (es. commercialista), al compenso andranno aggiunti il 4% per la cassa di previdenza e l’IVA 22% se dovuta (a meno che operi come amministratore con ritenuta d’acconto).
- Altre spese amministrative – Durante la liquidazione, il liquidatore deve depositare presso il Registro Imprese eventuali bilanci annuali o situazioni patrimoniali periodiche se la liquidazione si protrae a lungo (art. 2490 c.c.), e infine il bilancio finale di liquidazione e il piano di riparto. Il deposito del bilancio finale presso il Registro Imprese prevede anch’esso il pagamento di bolli e diritti (circa €120 complessivi). Se vi sono atti di trasferimento di beni durante la liquidazione, andranno considerati i relativi costi: ad esempio, vendita di un immobile comporterà le spese di un atto notarile di vendita e le imposte relative (imposta di registro, catastale, ecc. a carico dell’acquirente di regola), che non sono costi della procedura in senso stretto ma influenzano il ricavato. Se il liquidatore assegna beni ai soci in conto riparto finale (possibile, se i soci decidono di prendere in natura ad esempio un immobile residuo anziché liquidarlo in denaro), tale assegnazione sconta imposte indirette: in generale l’assegnazione di un immobile ai soci è soggetta a imposta di registro proporzionale (9% per fabbricati a uso non prima casa, 15% per terreni agricoli, ecc., con eventuali riduzioni se agevolata – si veda oltre) oppure IVA se la società è soggetto IVA e l’operazione rientra nel campo IVA (in tal caso al socio può essere fatturato l’immobile con IVA al 22% o aliquota propria, ma spesso le assegnazioni di liquidazione non sono imponibili IVA e ricadono in registro). Tali costi fiscali sull’assegnazione possono incidere significativamente e vanno valutati in sede di scelta (a volte conviene vendere il bene sul mercato e distribuire denaro, altre volte utilizzare regimi fiscali agevolati per assegnarlo ai soci).
- Assistenza professionale – In aggiunta, la società potrebbe sostenere costi di consulenza per assistenza durante la liquidazione: ad esempio il commercialista per redigere i bilanci di liquidazione e curare le dichiarazioni fiscali finali, oppure un legale se occorre gestire cause pendenti o transazioni con creditori. Queste spese dipendono dal caso concreto. Per una SRL senza particolari pendenze legali, il supporto del commercialista per gli adempimenti fiscali di chiusura è spesso incluso nel normale onorario annuale o può costare alcune centinaia di euro extra (es. €500-1.000 per predisporre il bilancio finale e le ultime dichiarazioni).
Oneri fiscali durante la liquidazione
La liquidazione di per sé non è un evento tassabile, ma durante e al termine della procedura sorgono specifiche obbligazioni fiscali sia per la società sia per i soci. I costi fiscali principali includono:
- Imposte sulle plusvalenze da realizzo dei beni – Quando il liquidatore vende i beni aziendali per fare cassa, la società realizza eventuali plusvalenze o minusvalenze che confluiscono nel reddito imponibile. Ad esempio, se viene ceduto un macchinario o un immobile ad un prezzo superiore al valore contabile, la differenza è tassata come componente positivo di reddito d’impresa (soggetto a IRES al 24% e IRAP dove dovuta). Fino al 2024 la normativa fiscale (art. 182 TUIR) prevedeva che il reddito d’impresa durante la liquidazione fosse determinato in modo provvisorio anno per anno, con un ricalcolo globale alla fine della liquidazione (un conguaglio che teneva conto di tutte le plus/minusvalenze realizzate durante la procedura). Dal 1° gennaio 2025, per effetto del D.lgs. 192/2024, questo meccanismo è cambiato: i redditi di ciascun esercizio di liquidazione sono considerati definitivi, senza più conguaglio finale, salvo la facoltà di un carry-back delle perdite finali se la liquidazione si chiude entro 5 anni. In pratica, ogni anno di liquidazione viene tassato autonomamente con le regole ordinarie, e se la liquidazione dura non più di 5 anni, la società può rideterminare il reddito dell’ultimo esercizio e progressivamente quelli precedenti compensando eventuali perdite finali (riportandole a ritroso). Questo evita di dover aspettare il bilancio finale per sapere il carico fiscale e semplifica i calcoli (non c’è più “conguaglio” finale). D’altro canto, se la liquidazione genera utili nei primi anni e una perdita nell’ultimo, il carry-back entro 5 anni consente di recuperare le imposte pagate (nei limiti delle perdite). Quindi, la società in liquidazione dovrà presentare dichiarazioni IRES e IRAP per ogni anno fino alla chiusura, pagando di volta in volta le imposte sui redditi maturati. Costi: in molti casi le società in liquidazione presentano perdite (specie se vendono beni a meno del valore di libro), quindi il carico IRES può essere nullo; se invece ci sono plusvalenze significative, la società pagherà l’IRES ordinaria (24% sugli utili) e l’IRAP (3.9% circa, se dovuta, tipicamente sì per società di capitali fino all’abolizione eventuale di questa imposta). Occorre dunque considerare tra i costi della liquidazione anche le imposte finali sui redditi, che riducono l’attivo distribuibile. (Esempio: la società Alfa Srl vende l’immobile sociale ricavando €100.000 di plusvalenza: dovrà pagarci €24.000 di IRES, riducendo l’attivo utile per i creditori/soci). Va evidenziato che dal 2025 non è più possibile rinviare la tassazione all’ultimo atto: le imposte vanno versate annualmente, con possibile ricalcolo solo in caso di chiusura entro 5 anni.
- IVA e imposte indirette – Durante la liquidazione, la società continua ad essere soggetto passivo IVA per le operazioni di vendita dei beni rimasti. Ad esempio, la vendita di beni merce o di beni strumentali aziendali sconta l’IVA alle aliquote ordinarie, salvo sia esente o fuori campo per natura (la liquidazione non costituisce di per sé causa di esenzione). Il liquidatore dovrà continuare a presentare le dichiarazioni IVA periodiche fino alla cessazione dell’attività e chiudere la partita IVA al termine. L’IVA riscossa sulle vendite è un debito verso l’Erario da versare nei termini ordinari, mentre l’IVA su eventuali acquisti fatti dal liquidatore (es. spese per custodire beni, ripararli prima della vendita, ecc.) è detraibile. Quindi l’IVA è un costo neutro nella misura in cui viene rivalsa sugli acquirenti; può diventare un costo se al termine restano crediti IVA non rimborsati. Per esempio, se il liquidatore svende beni sotto costo accumulando più IVA a credito che a debito, potrà chiedere il rimborso dell’IVA a credito nell’ultima dichiarazione (ma i rimborsi IVA richiedono tempi e adempimenti). Le imposte di registro, bollo, ipotecarie, catastali possono invece incidere in alcuni atti: la già citata registrazione dell’atto di scioglimento (€200), eventuali trasferimenti immobiliari ai soci (imposta di registro proporzionale, ipotecaria 2% e catastale 1% se dovute, oppure IVA con imposte fisse, a seconda dei casi). Nel 2023-2025, il legislatore ha previsto una misura agevolata per le assegnazioni di beni ai soci in liquidazione: la Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) e prorogata dalla L. 205/2024 (Bilancio 2025) consente alle società di capitali di assegnare ai soci beni immobili o mobili registrati non strumentali pagando un’imposta sostitutiva ridotta pari all’8% (10,5% per società non operative) sulla plusvalenza dei beni assegnati, in luogo di IRES e IRAP. Inoltre l’imposta di registro sull’assegnazione è ridotta all’1,5% (anziché 9%) e le ipotecarie-catastali a €200 cadauna. Questa agevolazione è applicabile alle assegnazioni ai soci effettuate entro il 30 settembre 2025. Si tratta di una strategia fiscale importante: se una SRL in liquidazione ha un immobile da devolvere ai soci, aderire al regime agevolato permette un forte risparmio di imposta indiretta e una tassazione della plusvalenza più bassa rispetto all’IRES ordinaria. Ad esempio, un immobile non strumentale del valore di €300.000 con valore contabile €100.000, se assegnato ai soci fuori agevolazione comporterebbe IRES su €200.000 (24% = €48.000) più registro 9% (€27.000) = totale €75.000 di tasse, mentre con l’assegnazione agevolata l’imposta sostitutiva sarebbe 8% su €200.000 = €16.000 e registro 1,5% su €300.000 = €4.500, totale solo €20.500. Chiaramente, la convenienza va valutata caso per caso (nell’esempio i soci però assumono un valore fiscalmente rivalutato delle quote). In generale, le imposte indirette più significative da tenere in conto nella liquidazione volontaria sono quelle legate ai trasferimenti di proprietà degli ultimi beni ai soci o a terzi.
- Tassazione dell’attivo residuo ai soci – Se, una volta pagati tutti i debiti, resta un attivo finale da distribuire ai soci (ad esempio cassa residua o beni), questo costituisce il rimborso del capitale sociale e degli utili ai soci. Fiscalmente, per i soci persone fisiche (non imprenditori) si applica il regime di cui all’art. 47 comma 7 del TUIR: le somme o beni ricevuti in sede di liquidazione sono equiparate a dividendi per la parte che eccede il costo fiscale della partecipazione (ossia il capitale investito dal socio, eventualmente aumentato di versamenti successivi o ridotto da distribuzioni precedenti). In pratica, se il socio riceve meno o pari a quanto ha investito, non ha reddito imponibile; se riceve di più, l’eccedenza è considerata utile distribuìto. E la società deve applicare la ritenuta a titolo d’imposta del 26% su tale eccedenza, come per i dividendi ordinari. Esempio: socio che ha versato €10.000 di capitale, riceve €15.000 dalla liquidazione – i €5.000 eccedenti sono tassati al 26%, quindi €1.300 di ritenuta. Questa tassazione è definitiva per i soci individuali (la ritenuta del 26% è un’imposta sostitutiva). Se il socio è una società di capitali, la distribuzione in liquidazione è assimilata a dividendo partecipativo e gode dell’esenzione al 95% (quindi in capo al socio società risulterà tassabile il 5% come da art. 89 TUIR, senza ritenuta alla fonte). La società liquidata deve quindi effettuare la ritenuta sulle somme eccedenti il capitale, consegnando al socio certificazione, e versarla al Fisco. Questa ritenuta costituisce per la società un esborso finanziario al momento del riparto finale (anche se è a carico del socio economicamente). In fase di calcolo del piano di riparto, i liquidatori ne tengono conto: il patrimonio finale deve coprire non solo quanto distribuito al netto, ma anche il 26% di ritenuta sull’eventuale quota imponibile. Esempio numerico: attivo residuo €100.000, capitale sociale €80.000: i soci ricevono €100.000 ma sul surplus di €20.000 la società trattiene €5.200 di ritenuta (26%) da versare all’Erario, distribuendo netto €94.800 ai soci. Nota: la normativa non distingue tra utili accumulati e riserve di capitale nel patrimonio netto finale – l’art. 47(7) TUIR considera globalmente le somme ricevute rispetto al costo della partecipazione. Dunque non c’è possibilità di dire “sto restituendo capitale non tassabile prima e utili poi”: tutto fa cumulo. Ci sono state discussioni su come imputare i riparti parziali in corso di liquidazione (se intaccano prima il capitale investito o proporzionalmente); l’Agenzia delle Entrate non si è espressa ufficialmente, ma dottrina e prassi propendono per un criterio proporzionale (cioè ogni acconto di liquidazione contiene in proporzione una quota capitale ed una quota utile tassabile) per evitare differimenti impropri di imposta. Ad ogni modo, per il socio persona fisica, l’importante è che l’eventuale plusvalore finale sarà tassato al 26%. Per il socio impresa, sarà un provento partecipativo con regole ordinarie (in massima parte escluso da IRES). In aggiunta, ricordiamo che le perdite fiscali pregresse della società non compensano gli utili distribuiti ai soci (quelli servono solo a ridurre l’eventuale utile imponibile IRES della società, ma non rilevano per i soci che subiscono la ritenuta sui dividendi). Inoltre, eventuali riserve di capitale (es. sovrapprezzi azioni) distribuite in liquidazione non sarebbero tassate se il socio è persona fisica – ma come detto il TUIR non le distingue dal resto, per cui nella pratica l’unico modo per non tassare nulla è che il totale distribuito non ecceda il capitale versato.
Riassumendo i punti fiscali: la liquidazione volontaria comporta potenziali costi tributari in capo alla società (imposte su plusvalenze, IVA su realizzi, registro su assegnazioni) e in capo ai soci (tassazione del residuo liquidato al 26%). Questi oneri non vanno sottovalutati quando si pianifica una liquidazione, perché possono assorbire una parte importante dell’attivo. Ad esempio, specialmente la distribuzione di riserve occulte o beni può generare imposte rilevanti. Più avanti discuteremo strategie per minimizzare tali costi (come l’assegnazione agevolata ai soci, o effettuare prima della liquidazione alcune operazioni, ad es. trasformazioni, che riducono il carico fiscale).
Simulazione pratica – Liquidazione volontaria
Per concretizzare i costi esposti, consideriamo un caso ipotetico ma realistico di liquidazione volontaria:
Caso Alfa Srl (liquidazione con patrimonio sufficiente) – La società Alfa S.r.l. opera nel commercio, i soci decidono nel 2025 di cessare l’attività perché vogliono ritirarsi. La società è solvibile: ha alcuni debiti verso fornitori (€30.000) e debiti tributari arretrati (€50.000 tra IVA e imposte), ma possiede un magazzino di merci e attrezzature che il liquidatore riesce a vendere ricavando €100.000 netti. Non ci sono altri beni significativi. Il capitale sociale di Alfa Srl è €20.000. Durante la liquidazione, il liquidatore incassa i €100.000 dalla vendita attivo e li utilizza per pagare: (a) i fornitori €30.000, (b) il Fisco €50.000 (erario e Agenzia Riscossione). Coperti tutti i debiti per €80.000, rimangono €20.000 in cassa come attivo residuo. I costi diretti della procedura sono stati: €1.000 di notaio per la delibera di scioglimento; €3.000 di compenso al liquidatore (accordato dai soci data la mole di lavoro modesta: vendite e adempimenti base); circa €2.000 tra commercialista e altre spese minori (depositi bilanci, bolli, ecc.). Questi costi (totale circa €6.000) sono stati pagati attingendo dall’attivo sociale durante la liquidazione, riducendo conseguentemente le somme disponibili per creditori e soci. Fortunatamente i €100.000 incassati coprivano oltre ai debiti (€80.000) anche tali costi. Dunque attivo finale distribuibile ai soci: €100.000 – €80.000 (debiti) – €6.000 (costi) = €14.000. Questo importo viene ripartito tra i soci (diciamo due soci 50/50, quindi €7.000 ciascuno). A fini fiscali, ciascun socio aveva un costo fiscale delle quote di €10.000 (metà capitale): ricevendo €7.000, inferiore al costo, nessuna tassazione sulle somme percepite (non hanno recuperato nemmeno tutto il capitale investito). L’ultimo bilancio di liquidazione evidenzia zero debiti e zero attività rimaste; la società viene cancellata dal Registro Imprese. Esito: tutti i creditori sono stati pagati integralmente (liquidazione in bonis), i soci hanno recuperato una parte del capitale (senza utili eccedenti), nessun strascico post-chiusura. Vantaggi: procedura rapida (durata 6 mesi), nessun contenzioso o intervento del tribunale, costi relativamente contenuti (in totale €6.000, cioè circa il 6% dell’attivo liquidato) – “fisiologicamente” l’attivo è stato quasi tutto usato per saldare i debiti, ma questa era la normale destinazione. Dal punto di vista dei soci e amministratori, non vi sono conseguenze negative: avendo pagato tutti, evitano rivalse e responsabilità. Anche sotto il profilo penale, avendo versato interamente l’IVA e le ritenute dovute, gli ex amministratori non incorrono in reati tributari (es. omesso versamento).
Caso Beta Srl (liquidazione “a zero” con debiti residui) – Consideriamo ora un caso diverso, di liquidazione volontaria nonostante l’insolvenza, per capire i rischi e i costi indiretti. Beta S.r.l. è una società inattiva da tempo, che ha accumulato debiti tributari (IVA e IRAP non versate) per €40.000 e una cartella esattoriale di €20.000, più €30.000 di debiti verso banche. In totale €90.000 di debiti. Dall’altro lato, Beta Srl non possiede praticamente nulla: nessun immobile, poca o zero liquidità; l’unico cespite (un macchinario) è stato già pignorato dalla banca e venduto senza soddisfare interamente il credito. I soci, stanchi di mantenere la società, decidono nel 2025 di liquidarla comunque, confidando nel fatto che tanto non ci sono beni. Nominano liquidatore uno di loro, senza compenso. Costi diretti: il notaio per la delibera (€1.000, supponiamo), bolli e registro €300 circa. Nessun attivo da liquidare: il liquidatore ovviamente non paga nessun debito perché non ci sono fondi. Redige un bilancio finale a zero (attivo zero, passivo €90.000) e chiude la società, comunicando ai creditori che non c’è nulla da distribuire. Viene chiesta la cancellazione dal Registro Imprese. Esito: Beta Srl è estinta, ma restano €90.000 di debiti insoddisfatti (verso Erario, agente della riscossione e banca). Cosa succede a questi debiti? Secondo la legge, i creditori possono agire verso i soci nei limiti di quanto riscosso in base al bilancio finale: i soci di Beta non hanno ricevuto nulla, dunque teoricamente non devono pagare nulla. Il Fisco potrà notificare, entro 5 anni, accertamenti intestati a Beta Srl per consolidare i suoi crediti e contestualmente notificarne copia ai soci, chiedendo magari €40.000 agli ex soci. Però, come chiarito dalla Cassazione (Cass. 25108/2023 e SS.UU. 3625/2025 citate sopra), l’assenza di riparti ai soci non rende nullo l’accertamento, ma nel successivo giudizio i soci potranno far valere di non aver ricevuto nulla, facendo decadere la pretesa. In pratica i soci, esibendo il bilancio finale a zero, dovrebbero ottenere ragione e non pagare (perché non hanno beneficiato di alcun attivo). La banca parimenti non può chiedere nulla ai soci, essendo SRL a responsabilità limitata e non avendo i soci prestato garanzie personali. Dunque, parrebbe che i debiti restino in gran parte inesigibili e i soci “salvi”. Tuttavia, ci sono rischi indiretti: i creditori potrebbero tentare azioni di responsabilità contro amministratori o liquidatore se sospettano sottrazioni di beni. Nel caso Beta, il liquidatore ha agito correttamente (ha constatato l’assenza di attivo e chiuso), per cui difficilmente sarà ritenuto colpevole. Gli amministratori precedenti potrebbero essere citati se emergesse che l’insolvenza fu causata da mala gestio (ma spesso, data la mancanza di attivo, i creditori non perseguono cause costose). Il maggior rischio per i soci e amministratori è che un creditore (ad es. la banca o il Fisco) chieda il fallimento postumo entro 1 anno dalla cancellazione. Nel nostro scenario Beta, la società era chiaramente insolvente (attivo zero, debiti €90k). Un creditore potrebbe convincere il tribunale a dichiarare la liquidazione giudiziale postuma di Beta Srl. Se ciò accade, verrà nominato un curatore che cercherà eventuali attivi nascosti o azioni di responsabilità (ad esempio, potrebbe indagare se gli amministratori hanno distratto fondi prima della chiusura). Però, essendo Beta nullatenente, probabilmente la procedura fallimentare verrebbe chiusa presto per insufficienza di attivo, non trovando nulla da distribuire. I costi di questo eventuale fallimento (curatore, spese) ricadrebbero sullo Stato o sui creditori istanti (il tribunale di solito chiede un anticipo spese a chi presenta l’istanza, che se non recuperato dall’attivo resta a carico di chi l’ha versato). Quindi, spesso se i creditori sono rassegnati a non recuperare nulla, non promuovono neppure l’azione di fallimento perché comporta ulteriori costi senza beneficio. In conclusione, Beta Srl è stata liquidata con spese minime immediate (~€1.300 per notaio e oneri vari), ma gli effetti indiretti sono: creditori insoddisfatti (che potrebbero infastidire i soci con atti di accertamento, sebbene destinati a cadere), debiti formalmente pendenti per 5 anni (ai fini fiscali), e per gli amministratori la possibile responsabilità per aver chiuso insolventi. Dal punto di vista penale, c’è da notare che Beta Srl ha lasciato €40.000 di IVA non versata. Fortunatamente questa cifra è sotto la soglia di punibilità prevista per il reato di omesso versamento IVA (attualmente €250.000 annui); dunque l’ex amministratore non è punibile per questo (se fosse stata una cifra molto maggiore, avrebbe rischiato un procedimento penale ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000). Anche i contributi previdenziali non versati se superiori a €10.000 annui integrano reato contravvenzionale, ma supponiamo che Beta non avesse dipendenti o comunque non superasse soglie penali. Perciò, i soci di Beta hanno “evitato” spese di fallimento, ma restano con una situazione potenzialmente scomoda (creditori insoddisfatti che possono tentare azioni nei limiti visti). Questo scenario illustra perché la liquidazione volontaria pur in insolvenza può sembrare vantaggiosa per evitare i costi di una procedura concorsuale, ma comporta incertezza e rischi di iniziative postume.
Considerazioni sui costi nella volontaria: come si vede dai due esempi estremi, i costi diretti di una liquidazione volontaria ordinaria sono relativamente contenuti rispetto al patrimonio della società – specialmente se paragonati a quelli di una procedura giudiziale. Non vi sono spese di giustizia né organi esterni da retribuire (tutto avviene privatamente): questo è un vantaggio notevole . Nella liquidazione volontaria Alfa i costi diretti (6k) hanno inciso per circa il 6% sull’attivo; in Beta, i costi immediati sono stati irrilevanti (0.1% del passivo) ma con il rovescio della medaglia di lasciare creditori a bocca asciutta. In generale, una liquidazione volontaria ben pianificata massimizza l’attivo per creditori e soci e minimizza le spese: ad esempio i soci possono nominare un liquidatore di loro fiducia a basso costo, evitare consulenze superflue e sbrigare alcuni adempimenti in proprio (specie oggi con modalità telematiche semplificate). Inoltre, come vedremo nelle strategie, i soci possono approfittare di definizioni agevolate (rottamazione cartelle, assegnazioni agevolate) prima o durante la liquidazione per ridurre il peso di certi debiti, aumentando ciò che rimane per loro.
Di seguito viene presentata una tabella riepilogativa dei principali costi nella liquidazione volontaria di una SRL, con indicazione delle voci e degli importi indicativi:
Tabella 1 – Principali costi della liquidazione volontaria di una SRL
Voce di costo | Importo (indicativo) e descrizione |
---|---|
Notaio per delibera di scioglimento (atto pubblico di liquidazione) | ~€800 – 1.500 + IVA e oneri Spesa una tantum per verbalizzare la decisione dei soci; include di norma registrazione e deposito atto. |
Imposte e bolli su atto (imposta di registro, diritti CCIAA) | ~€300 (fisso) €200 registro + ca. €100 tra marche da bollo e diritti. |
Compenso del liquidatore | Variabile (€0 se socio senza compenso, altrimenti p.es. €2.000 – 5.000 per SRL piccola) Stabilito dai soci all’atto della nomina; può essere forfettario o parametrato al lavoro. |
Spese gestione liquidazione (assistenza contabile, legale, pratiche) | Variabile (€500 – 2.000 per pratiche standard) Bilanci intermedi/finali (commercialista), chiusura partita IVA, eventuali consulenze. |
Imposte su realizzo attivo (IRES, IRAP su plusvalenze) | Variabile secondo utile/perdita 24% IRES sull’utile di liquidazione; IRAP 3.9% se dovuta. Se la liquidazione chiude in perdita, nessuna imposta. |
IVA su vendite di beni | Neutra in teoria Si versa l’IVA sulle vendite; se beni venduti hanno IVA, l’incasso lordo include IVA da riversare. IVA a credito compensabile o rimborsabile. |
Imposte su assegnazione beni ai soci (registro o IVA su beni in natura) | Variabile secondo beni Esempio: assegnazione immobile non strumentale: registro 9% valore (o 1.5% se agevolata entro 2025), ipotecarie-catastali €200 cad. |
Tassazione somme ai soci (ritenuta 26% su eccedenza rispetto al capitale) | Variabile secondo attivo finale Applicabile solo se attivo distribuito > capitale sociale versato. Ritenuta a titolo d’imposta per soci persone fisiche. |
(N.B.: Importi medi indicati per SRL piccola; per società più grandi o situazioni complesse i costi possono aumentare in proporzione. Non sono inclusi eventuali costi straordinari – es. cause legali pendenti, penali per recesso anticipato da contratti, ecc. – che vanno valutati caso per caso.)
Come evidenziato, la liquidazione volontaria comporta costi diretti relativamente bassi e perlopiù controllabili dai soci. Il debitore (società/soci) mantiene il controllo e può cercare di minimizzare le uscite: nessun intervento del tribunale, costi contenuti, soci che scelgono il liquidatore di fiducia. Il rovescio della medaglia è che, a differenza delle procedure concorsuali, la liquidazione volontaria non dà una liberatoria formale dai debiti – se restano crediti insoddisfatti, i creditori potranno ancora agire verso soci e liquidatore, come visto. Pertanto è uno strumento ideale se la società è in bonis o comunque riesce a pagare tutti, mentre se la società è insolvente i soci potrebbero valutare soluzioni concorsuali (concordato) per ottenere l’esdebitazione, come discuteremo nelle strategie.
Costi della liquidazione giudiziale (fallimento) di una SRL
Passiamo ora ad analizzare i costi della liquidazione giudiziale, ovvero la procedura concorsuale avviata dal tribunale quando la SRL si trova in stato di insolvenza. Qui i costi assumono una dimensione diversa: intervengono organi della procedura (curatore, giudice, eventuale commissario se continuità, ecc.) che hanno diritto a compensi secondo legge; vi sono spese giudiziarie e amministrative, e le tempistiche si allungano, aumentando anche costi indiretti. Dal punto di vista del debitore società, molti di questi costi non vengono pagati direttamente dalla società (che spesso non ha liquidità), ma prelevati dall’attivo della procedura prima di pagare i creditori (sono prededucibili, art. 6 CCII). Tuttavia, se l’attivo è scarso, ciò significa che i creditori rimarranno in parte o completamente insoddisfatti, mentre i costi procedurali avranno comunque priorità. Inoltre, se la procedura non ricava abbastanza da coprire i costi, alcuni oneri possono restare a carico dello Stato o di chi ha richiesto il fallimento. Esamineremo i principali costi diretti di un fallimento (contributi e anticipi, compenso del curatore, spese di giustizia, oneri fiscali durante la procedura, ecc.), fornendo poi esempi pratici.
Contributo unificato e anticipazione spese
L’apertura di una liquidazione giudiziale comporta innanzitutto delle spese di procedura sin dal ricorso: chi presenta l’istanza di fallimento deve pagare un contributo unificato fisso di €98 (importo previsto per le procedure concorsuali) più una marca da bollo da €27. Ad esempio, se la stessa società insolvente deposita ricorso di autofallimento, dovrà allegare l’attestazione di pagamento di €125. Se a chiedere il fallimento è un creditore, questi anticipa tali importi (poi potrà chiederne il rimborso in prededuzione se c’è attivo). Oltre a ciò, è prassi dei tribunali (non obbligatoria per legge, ma frequente) richiedere al momento della dichiarazione di fallimento un fondo spese iniziale da versare, di importo variabile tipicamente tra €500 e €1.000. Questo deposito serve a coprire le prime spese urgenti della procedura – ad es. notifiche ai creditori, eventuali custodie di beni, sopralluoghi – nei casi in cui la società fallita non abbia liquidità immediata. Se l’istanza di fallimento è di un creditore, spesso il giudice delegato ordina a quel creditore di anticipare tale importo (la cosiddetta cassa fallimentare iniziale); se poi si realizza attivo sufficiente, il curatore lo restituirà in prededuzione a quel creditore. Se invece non si trova attivo, quell’anticipo resta a carico del creditore istante. Il Codice della Crisi prevederebbe in teoria l’utilizzo di un apposito Fondo ministeriale di giustizia per queste spese, ma nella pratica molti tribunali continuano a chiedere il deposito cauzionale all’istante.
In sintesi: aprire un fallimento costa subito circa €125 di contributi + €500-1000 di anticipo spese (se la procedura appare priva di liquidità iniziale). Questi costi non sono rimborsabili al debitore: il contributo unificato è un costo fisso di giustizia, mentre l’anticipo è rimborsato solo se c’è attivo. Dunque, per un imprenditore insolvente che voglia valutare i costi, c’è da considerare questo esborso iniziale (nel caso di autofallimento) o questa esposizione possibile (nel caso di fallimento su istanza di terzi, sarà il creditore istante a coprirla).
Compenso del curatore e organi della procedura
Il Curatore nominato dal tribunale per gestire la liquidazione giudiziale ha diritto a un compenso per l’opera svolta, determinato secondo la legge. Il compenso del curatore non è liberamente negoziabile, ma viene liquidato dal Tribunale con decreto a fine procedura (o acconti intermedi) sulla base di parametri fissati dal decreto ministeriale 30/2012 (ancora in vigore, adattato al CCII) e successive norme attuative. In generale, il compenso è calcolato in percentuale sull’attivo realizzato e sul passivo soddisfatto dal curatore. Il DM 30/2012 stabilisce scaglioni decrescenti: una percentuale più alta sui primi importi e via via minore su importi più elevati. Ad esempio, per un attivo fino a €15.000 spetta il 12%, da €15k a €50k il 11%, da €50k a €250k l’8%, oltre via via fino a scendere all’1% sopra €5 milioni (semplifichiamo, i dettagli sono complessi). Inoltre, sul passivo (somme effettivamente distribuite ai creditori chirografari) spetta un’ulteriore percentuale, ma nei casi di insolvenza grave spesso i chirografari non ricevono nulla, quindi questo incide meno. Il tribunale ha poi facoltà di aumentare o ridurre il compenso teorico fino al 40% in base alle difficoltà della procedura e ai risultati ottenuti. In ogni caso, la legge garantisce un compenso minimo al curatore: se applicando le percentuali risultasse meno di €800, spetta comunque €800. Se l’attivo della procedura non basta a pagare neppure il minimo, il curatore può chiedere allo Stato un indennizzo (c’è un Fondo di garanzia per procedure incapienti, che dà qualche migliaio di euro nei casi più sfortunati). Dunque, mentre nella liquidazione volontaria il liquidatore può anche lavorare gratis, nella liquidazione giudiziale il compenso del curatore è un costo legale e inderogabile – viene sempre in prededuzione, cioè pagato prima di ogni altro debito. In altre parole, se la società ha qualcosa, prima si pagano le spese e il curatore, e solo il residuo va ai creditori. Se non ha nulla, il curatore prende il minimo dallo Stato e i creditori zero.
Per dare un’idea quantitativa: supponiamo una SRL fallita che abbia realizzato un attivo di €100.000 vendendo i suoi beni e abbia distribuito €50.000 ai creditori privilegiati (il resto andato in spese). Il compenso del curatore, calcolato sugli scaglioni d’attivo, potrebbe essere intorno a €8.000-12.000 (valore puramente esemplificativo). A questo si aggiunge un rimborso forfettario spese del 5% (previsto per i curatori). Se l’attivo fosse molto maggiore, il compenso cresce ma con percentuali via via minori: ad es. su un attivo di €1.000.000 il compenso potrebbe essere intorno a €30-40k; su 10 milioni, qualche centinaio di migliaia di euro, e così via. Nel caso di procedure semplicissime con attivo microscopico, rimane €800 il minimo.
Oltre al curatore, possono esserci altri organi da retribuire: ad esempio, se nella procedura il tribunale autorizza l’esercizio provvisorio dell’impresa o altre attività complesse, può nominare un comitato dei creditori (i cui membri però di solito non sono retribuiti, salvo un piccolo gettone deciso dal giudice in casi particolari) e può nominare coadiutori o esperti per affiancare il curatore su compiti specifici (periti stimatori, agenti immobiliari per vendite, ecc.). Questi ausiliari hanno diritto a compensi per la loro opera (di solito su base tariffaria se sono CTU, consulenti tecnici). Ad esempio, stimare un immobile può costare €1.000-2.000; un professionista incaricato di tenere la contabilità in esercizio provvisorio può avere un compenso mensile, ecc. Anche tali costi rientrano tra le spese prededucibili e vengono pagati con priorità dall’attivo.
Infine, se il fallimento richiede l’intervento di avvocati (ad esempio il curatore promuove cause per recuperare crediti o revocare atti), anche le spese legali e i compensi degli avvocati della procedura sono prededucibili. Spesso il curatore stesso è un avvocato e gestisce internamente le azioni legali minori, ma per cause complesse può nominare un avvocato domiciliatario. Questi costi possono variare molto (dalle poche migliaia di euro per un decreto ingiuntivo, a decine di migliaia per cause lunghe) ma vengono anch’essi sottratti all’attivo prima di soddisfare i creditori.
In sintesi, nella liquidazione giudiziale i costi “umani” della procedura – compenso curatore, spese di organi e consulenti, legali – sono spesso la voce più rilevante. Essi, combinati, possono assorbire una percentuale consistente dell’attivo, soprattutto nei fallimenti di piccola taglia. Dalle analisi statistiche, risulta che le procedure fallimentari durano in media anni e i curatori vengono pagati percentuali che vanno mediamente dal 5% al 15% dell’attivo (nelle procedure micro possono divorare quasi tutto se l’attivo è scarsissimo).
Spese di procedura e di giustizia
Oltre ai compensi, il fallimento genera spese vive:
- Spese di giustizia: pubblicazione della sentenza di fallimento (notifica ai creditori via PEC o raccomandata, affissione presso il tribunale), bolli per vari atti, diritti di pubblicità (ogni comunicazione al Registro Imprese, Gazzetta Ufficiale per l’avviso di vendita di immobili, ecc.). Queste spese sono generalmente non altissime per piccole procedure: la Gazzetta Fallimentare telematica è gratuita, l’avviso su portali costa poco, le PEC costano zero a inviare (prima erano lettere raccomandate a centinaia di creditori, oggi digitalizzato). Ad esempio, un curatore che deve comunicare con 100 creditori via PEC spende quasi nulla; se però deve notificare manualmente a soggetti irreperibili, potrebbero esserci costi postali. Diciamo in media qualche centinaio di euro di spese amministrative varie. Se il fallimento comprende beni immobili da vendere, c’è la pubblicità delle aste: oggi ci si avvale del Portale Vendite Pubbliche (gratuito), ma spesso per maggiore visibilità si pubblicano avvisi su siti specializzati a pagamento. Anche qui, può andare da €0 (solo PVP) a qualche centinaio/migliaio di euro (pubblicità mirate). Tutte queste spese vengono poi rimborsate al curatore dalla massa.
- Custodia e gestione beni: se la società fallita possiede beni, occorre a volte custodirli (ad es. un capannone industriale va vigilato, un magazzino merce va eventualmente custodito in un deposito). Se gli ex amministratori collaborano, a volte mantengono loro la custodia di alcuni beni senza oneri. Altre volte il curatore deve nominare custodi giudiziari o vigilantes, specie se vi sono beni di valore. Esempio: custodia di un capannone può costare tra €1.000 e €5.000 annui (sorveglianza, allarmi, assicurazione). Anche questi sono costi prededucibili. Vendere rapidamente i beni riduce tali spese. Se l’azienda rimane in esercizio provvisorio, ci saranno costi di esercizio (pagare dipendenti, materie prime) che però vengono di norma coperti dai ricavi stessi dell’esercizio provvisorio (e se no, si interrompe perché sarebbe antieconomico).
- Spese di procedura varie: verifica del passivo (il curatore esamina le domande creditori, ma qui i costi sono di tempo suo – già compensato nel suo onorario; i creditori pagano un contributo unificato di €x per insinuarsi se insinuazioni tardive, ma irrilevante qui). Riunioni dei creditori: oggi tutto telematico o verbali scritti, quindi costi nulli. Se c’è un comitato dei creditori, i suoi eventuali viaggi o sedute sono a titolo gratuito per loro (al più rimborsi spese).
- Spese fiscali durante la procedura: la società fallita cessa l’attività, quindi dal giorno del fallimento non maturano nuove imposte (IVA sulle vendite dei beni fallimentari si applica ma il curatore la versa come sostituto, è neutra). La procedura fallimentare è un soggetto IVA autonomo per le vendite coattive (art. 74-bis DPR 633/72), ma non entriamo nel dettaglio: in pratica il curatore se vende beni aziendali può dover applicare IVA come farebbe la società, oppure imposta di registro se si tratta di beni dove si va per registro (es. immobili: la vendita in sede fallimentare sconta le stesse imposte di una vendita volontaria: IVA se immobile recente/aziendale, registro se non soggetto IVA, con privilegio di imposte ipocatastali fisse di €200). Quindi per l’acquirente ci saranno le tasse d’atto, ma per la massa fallimentare è indifferente (il ricavo netto diminuisce di quelle imposte, se gravanti sul prezzo). Non c’è IRAP durante il fallimento (l’impresa cessando attività non produce valore aggiunto tassabile). L’IRES teoricamente non si applica sui redditi maturati dopo l’apertura, perché la società in fallimento ha periodo d’imposta chiuso alla data di fallimento e poi solo atti liquidatori non generano reddito d’impresa (salvo gestione provvisoria). La Cassazione ha chiarito già da tempo che l’eventuale plusvalenza da liquidazione in ambito fallimentare non viene tassata in capo alla procedura (il che differenzia dalla liquidazione volontaria) – ciò è coerente col fatto che i crediti tributari anteriori sono concorsuali e quelli successivi no. In pratica, quindi, durante la liquidazione giudiziale le uniche imposte che si pagano dal patrimonio fallimentare sono l’IVA sulle vendite (che però è a carico degli acquirenti, quindi neutra) e le imposte di registro/ipotecarie su trasferimenti (anch’esse poste a carico dell’acquirente di norma, includendo nel prezzo d’asta). La procedura dovrà però adempiere ad alcune formalità fiscali: presentare le dichiarazioni dei redditi finali per il periodo ante-fallimento e dichiarazione di cessazione partita IVA. Ma questi sono adempimenti a costo quasi nullo (il commercialista li fa per poche centinaia di euro, compenso incluso di solito nell’attività del curatore). Infine, al termine della procedura, se avanza un attivo da distribuire ai soci (cosa rarissima nei fallimenti, ma ipotizziamo un caso in cui attivo > debiti), quella distribuzione seguirebbe le stesse regole di tassazione ai soci viste per la liquidazione volontaria (con ritenuta 26% sulla parte eccedente il capitale versato).
Riassumendo, i costi diretti tipici di una liquidazione giudiziale includono: contributo unificato (€98); anticipo spese (€500-1000); compenso del curatore (calcolato su attivo/passivo, variabile da €800 in su, spesso varie migliaia di euro); spese di giustizia amministrative (qualche centinaio di euro); compensi ad ausiliari/periti (se necessari, da poche centinaia a qualche migliaio di euro a seconda dell’attività); spese di custodia/pubblicità (variano, in certe procedure anche queste poche migliaia); onorari legali (se cause attive, anch’essi pagati dalla massa). Tutto sommato, si può stimare che in un fallimento medio-piccolo (attivo realizzato diciamo €50-100k) i costi complessivi possano tranquillamente ammontare a €15-30k, cioè anche un 20-30% dell’attivo, lasciando ai creditori il resto. E infatti storicamente molte procedure minori finiscono con costi che assorbono tutto l’attivo (i creditori chirografari spesso prendono zero). In grandi procedure, invece, le percentuali incidono meno – es. su 10 milioni di attivo, anche un costo di 300k è solo il 3%.
Simulazioni pratiche – Liquidazione giudiziale
Per illustrare, riportiamo due scenari semplificati: uno di fallimento con attivo sufficiente a pagare almeno parte dei debiti, e uno di fallimento con attivo quasi nullo.
Caso Gamma Srl (fallimento con parziale attivo) – La società Gamma S.r.l. viene dichiarata insolvente: ha un capannone ipotecato a favore della banca (mutuo residuo €400.000), debiti fiscali per €100.000 (IVA, tasse) e altri debiti chirografari verso fornitori €50.000. Il tribunale apre la liquidazione giudiziale nominando un curatore. Il curatore vende il capannone, ricavando €480.000. Con questi soldi paga prima la banca ipotecaria: €420.000 per estinguere mutuo e interessi, liberando l’ipoteca. Restano €60.000 in cassa. Secondo la legge, il curatore deve poi soddisfare i crediti privilegiati: tra i debiti fiscali di €100.000, quelli per IVA hanno privilegio generale mobiliare (che però in astratto non si estende al ricavato di bene immobile, questione tecnica). Supponiamo semplificando che il Fisco riesca a qualificare parte del suo credito come privilegiato su quei €60.000 (ad es. IVA viene considerata comunque con prelazione generale). I fornitori sono chirografari. Il curatore dunque distribuisce tutti i €60.000 rimasti all’Erario, che viene parzialmente soddisfatto (60% del suo credito) e restano zero per i fornitori (0% del loro credito). Nessun attivo residuo va ai soci (i soci non vedono nulla, la società è azzerata). Prima di fare questo riparto, però, il curatore ha dovuto sostenere costi di procedura: per esempio, una perizia di stima del capannone (€1.500), qualche spesa di custodia (minima, i soci custodivano l’immobile gratuitamente, magari €200 di assicurazione), spese di vendita (poniamo €500 per pubblicità), più i costi fissi iniziali (€98 CU + €27 bollo + €500 anticipo). Supponiamo in totale circa €3.000 di spese vive. Inoltre, il curatore matura un compenso secondo scaglioni: su €480k attivo realizzato, stimiamo ~€18.000 (il DM applicato: ~12% su primi 15k = €1.800; 9% su successivi 75k = €6.750; 6% su successivi 150k = €9.000; 3% su restanti 240k = €7.200; totale base €24k, magari ridotto del 25% perché non ha soddisfatto chirografari, ipotizziamo circa €18k). A questo si sommano 5% spese forfettarie ~€900. Diciamo quindi costi totali diretti: curatore €18.900 + spese €3.000 ≈ €21.900. Questi 21.9k sono prelevati dall’attivo prima di ogni distribuzione. Ciò significa che in realtà, dei €60.000 “residui” sopra, bisogna togliere €21.900 per pagare costi: rimangono circa €38.100 da ripartire ai creditori. In pratica il Fisco incassa €38.100 su €100k (38%) e i fornitori zero. Se guardiamo la percentuale di costo: su €480k ricavati, €21.9k sono andati in costi (4.5%), abbastanza basso perché l’attivo era consistente; in effetti il curatore ha venduto un bene ipotecato dove gran parte è andata alla banca garantita. I soci non ricevono nulla e non devono nulla (non c’è attivo per loro, quindi non sono responsabili oltre quello). Il liquidatore volontario di prima (se c’era) non viene in ballo perché si è in concorsuale. Esito: la società Gamma è stata chiusa tramite fallimento, la banca ha recuperato tutto (grazie all’ipoteca), il Fisco parzialmente (€38k su €100k), i fornitori nulla. Il Fisco e i fornitori potrebbero tentare – se emergessero irregolarità – azioni contro gli amministratori. Ma qui di rilievo c’è un altro aspetto: il curatore ha pagato €60k al Fisco preferendo quest’ultimo ai fornitori. Nel fallimento, se un creditore è privilegiato, è giusto così. Tuttavia, c’è una sottigliezza: l’IVA ha privilegio generale su mobili, mentre il ricavato di un immobile in teoria va prima ai creditori ipotecari (banca) e se avanza qualcosa, a quelli con ipoteca di grado inferiore o eventualmente chirografari se nessun altro privilegio speciale. Il privilegio generale su mobili non si “estende” agli immobili venduti. Quindi tecnicamente quei €60k, provenendo dalla vendita di un immobile ipotecato, in fallimento andrebbero divisi proporzionalmente tra tutti i chirografari (incluso il Fisco per la parte non privilegiata). Se il curatore invece li dà tutti al Fisco, sta effettuando un pagamento preferenziale di un chirografario (se considerato tale su quell’attivo) a scapito di altri. Questo in ambito fallimentare potrebbe essere contestato come azione revocatoria: i fornitori insoddisfatti potrebbero lamentare che il Fisco è stato pagato preferenzialmente nei 6 mesi prima del fallimento (in realtà qui il pagamento avviene dopo apertura procedura, ma in ipotesi se fosse avvenuto prima). In pratica, però, essendo un pagamento effettuato dal curatore stesso durante la procedura, non c’è una revocatoria da fare – al più i fornitori avrebbero dovuto contestare la graduatoria. Questo dettaglio tecnico serve per dire: nel fallimento le regole di riparto sono ferree, e se il curatore sbaglia a preferire un creditore senza titolo, può incorrere in responsabilità. Nel nostro esempio, abbiamo ipotizzato che il Fisco avesse prelazione sufficiente e che quindi l’operato del curatore fosse corretto. Il curatore appare quindi al riparo da responsabilità (ha pagato secondo legge). Gli ex amministratori di Gamma hanno comunque lasciato €40k di IVA non versata. Poiché €40k < soglia penale IVA (250k), l’ex amministratore non subirà condanna per omesso versamento IVA. Tutto sommato, i soci e amministratori di Gamma, pur avendo subìto il fallimento, vedono “risolta” la situazione: dopo la chiusura della procedura, i debiti residui (€40k Fisco, €50k fornitori) vengono di fatto cancellati per la società, e i creditori insoddisfatti potranno rivalersi solo eventualmente su soci (che però non hanno ricevuto nulla: quindi non dovranno pagare). Inoltre, con l’omologa di un concordato o la chiusura per riparto integrale dei privilegiati, i soci non saranno perseguiti oltre. Dunque il costo principale per i soci è stato vedere il proprio capitale azzerato e l’azienda persa, oltre al possibile stigma del fallimento. Dal punto di vista dei creditori, i costi procedurali hanno ridotto il recupero: senza costi, col fai-da-te ipotetico, i fornitori avrebbero potuto prendere qualcosa; col fallimento, hanno preso zero perché l’attivo modesto è stato eroso da spese e prelazioni.
Caso Delta Srl (fallimento incapiente) – Infine, scenario di un fallimento senza attivo o quasi. Delta S.r.l. viene dichiarata fallita con soli €15.000 di beni (magari crediti o cassa), a fronte di debiti per centinaia di migliaia. Il curatore recupera quei €15.000, e null’altro. Secondo il DM compensi, il suo compenso teorico sarebbe ~€11.400 (supponiamo: 12% di 15k = €1.800; 9% su successivi 75k (ma attivo solo 15k, quindi niente); più minimo su passivo ammesso ma non soddisfatto…). Comunque, di regola se l’attivo non supera il compenso, il curatore ha diritto al minimo €800 e può chiedere al Fondo di garanzia un indennizzo fisso (circa €2.000). Le spese vive della procedura (diciamo €500 tra marche e cose, ma il curatore le terrà basse) vengono pagate dall’attivo. Quindi dei €15.000, ipotizziamo che €500 vadano in spese procedure, il curatore prenda €800 e il resto del compenso non coperto resti a carico dello Stato per €2.000, e i creditori non vedano nulla. Qui i costi (curatore+spese = €1.300 pagati dall’attivo + €2.000 dal Fondo) hanno assorbito completamente l’attivo, lasciando 0 per i creditori. Questo è un esempio tipico di fallimento incapiente, che si chiude per insufficienza di attivo. I creditori non hanno recuperato nulla, e la procedura è stata in perdita (lo Stato ha dovuto indennizzare in minima parte il curatore). Una situazione del genere solleva la domanda: aveva senso aprire il fallimento? Spesso no; infatti l’art. 8 CCII prevede che il tribunale può non dichiarare la liquidazione giudiziale se risulta che il patrimonio è insufficiente a soddisfare anche in minima misura i creditori concorsuali e a coprire le spese (questa era la vecchia “non fallibilità” per insufficienza di attivo). In molti casi di insolvenze microscopiche, il tribunale rigetta l’istanza (anche se la legge non è chiarissima sul potere di farlo). Tuttavia, a volte il fallimento viene dichiarato comunque per esigenze di controllo di legalità (es. verificare condotte distrattive degli amministratori, ecc.). In Delta, i soci non ricevono nulla (ovviamente) e non dovranno pagare nulla ai creditori (non avendo ricevuto attivo). I creditori rimangono a mani vuote, ma almeno la società viene estinta e si chiude la vicenda. Dal punto di vista dell’imprenditore, i costi indiretti di questo fallimento possono includere possibili azioni di responsabilità o penali se emergono irregolarità. In genere, però, se non ci sono attivi, neanche le azioni di responsabilità vengono avviate (nessuno vuole spendere per cause senza prospettiva di recupero, a meno di condotte fraudolente gravi).
Dai casi Gamma e Delta si vede che la liquidazione giudiziale può portare a costi procedurali elevati in termini relativi, specie quando l’attivo è scarso: ad esempio in Delta i costi hanno praticamente divorato tutto l’attivo, lasciando i creditori a secco. Questo è un fenomeno ben noto: i fallimenti di piccole imprese spesso producono solo spese e nessun recupero utile per i creditori chirografari. Le statistiche mostrano una durata media delle procedure fallimentari in Italia attorno ai 7 anni e un recupero medio per i chirografari spesso inferiore al 10% (mentre i privilegiati vengono soddisfatti se l’attivo lo consente). I tempi lunghi aumentano anche i costi indiretti: pensiamo al danno reputazionale per l’imprenditore che risulta fallito per anni (non può intraprendere nuova attività facilmente, subisce restrizioni legali), o alla perdita di avviamento dell’azienda (se la procedura non riesce a vendere l’azienda in esercizio, il valore di avviamento va perso). Tutti questi elementi rappresentano “costi” non pecuniari ma reali della liquidazione giudiziale.
Ecco una tabella riepilogativa dei principali costi nella liquidazione giudiziale (fallimento) di una SRL:
Tabella 2 – Principali costi della liquidazione giudiziale di una SRL
Voce di costo | Importo (indicativo) e note |
---|---|
Contributo unificato iniziale (istanza apertura) | €98 (fisso) + €27 bollo Pagato dal creditore istante o dal debitore che chiede autofallimento. |
Anticipo spese procedura (fondo cauzionale) | ~€500 – 1.000 tipico Richiesto dal tribunale all’atto della dichiarazione, per prime spese (notifiche, custodie); rimborsato in prededuzione se l’attivo lo consente, altrimenti a carico di chi l’ha versato. |
Compenso del Curatore | Variabile secondo attivo/passivo Stabilito dal tribunale a fine procedura su scaglioni DM 30/2012: percentuale decrescente su attivo realizzato e somme distribuite. Es.: ~8-12% su attivi piccoli (fino a 100k); <5% su attivi milionari. Minimo €800 garantito. |
Rimborso spese forfettario curatore | 5% del compenso Aggiuntivo, per spese generali (art. 39 L.F. previgente / Art. 8 DM 2012). Esempio: se compenso €10.000, rimborso €500. |
Spese di giustizia e procedurali (notifiche, bolli, pubblicità, custodie) | Variabili in base ai beni e creditori Es.: invio PEC ai creditori – costo nullo; custodia di beni – dipende (un immobile: assicurazione €200/anno, eventuale vigilanza); pubblicazione avvisi: da €0 (Portale Ministero) a qualche centinaio €; trasferimento beni: es. marche €16 su decreti. |
Compensi ausiliari (CTU, periti, coadiutori) | Variabili Es.: perizia stima immobile €1.000-2.000; commissioni vendita mobili ~5-10% del ricavato; eventuale attestatore piano €3.000-5.000 in concordato semplificato, etc. Solo se nominati. |
Spese legali della procedura (azioni revocatorie, cause attive) | Variabili Liquidate secondo tariffe forensi in prededuzione. Es.: azione di responsabilità contro amministratori può costare €10.000+; cause minori pochi mila. Se il curatore è avvocato, spesso evita di nominare altri e il lavoro rientra nel suo compenso. |
Imposte durante la procedura (registro, IVA vendite) | A carico degli acquirenti di beni Le vendite fallimentari di beni immobili scontano registro o IVA a carico del compratore (imposte ipotecarie-catastali fisse €200 cad se iva, oppure 3%/9% ridotte a 1.5% se assegnazione agevolata entro 2025); il fallimento versa l’IVA incassata sulle vendite, ma questa è coperta dal prezzo di vendita stesso. Nessuna IRES o IRAP dovuta dalla massa fallimentare. |
Tassazione somme ai soci (ritenuta 26% su attivo finale distribuìto) | Raro – come liquidazione volontaria Applicabile solo se il fallimento chiude con attivo residuo per la società (dopo aver pagato tutti i creditori!). In tal caso, i soci percepiscono un dividendo di liquidazione tassato al 26% sulla parte eccedente il capitale investito. |
(N.B.: I costi contrassegnati come variabili dipendono dalla dimensione e complessità del fallimento. Per piccoli fallimenti spesso opera il minimo garantito per il curatore e procedure di chiusura rapide per insufficienza di attivo.)
Come osservato, la liquidazione giudiziale è una procedura costosa e lunga. Sebbene per il debitore il sollievo sia che non deve pagare di tasca propria questi costi (vengono dalla massa attiva; se la massa è insufficiente, alcuni costi rimangono insoddisfatti o a carico dello Stato), l’effetto pratico è che i suoi creditori vedono ridotte le possibilità di recupero proprio per via di tali costi. Inoltre, il debitore-società perde il controllo: non è più il socio a scegliere chi liquida e come, ma un organo terzo nominato dal giudice. Vi sono anche conseguenze per i soci e amministratori: potenziali azioni di responsabilità, l’onta del fallimento con possibili restrizioni (gli amministratori di società fallite possono subire inabilitazioni, i soci possono trovarsi coinvolti in procedimenti, seppur normalmente la SRL salvaguarda il patrimonio personale in assenza di illeciti).
Confronto con la liquidazione volontaria: a questo punto risulta evidente come la liquidazione volontaria abbia costi diretti molto inferiori rispetto al fallimento. Nella Tabella 1 si parlava di qualche migliaio di euro contro decine di migliaia in Tabella 2. Di conseguenza, se la situazione lo permette, è preferibile per i soci liquidare volontariamente l’azienda evitando il tribunale. Tuttavia, ciò è possibile solo se l’impresa non è irrimediabilmente insolvente (o se i soci trovano modo di soddisfare almeno i creditori principali, come vedremo nelle strategie). La procedura concorsuale (fallimento) resta necessaria quando c’è insolvenza grave, perché offre un quadro formale per gestire tutte le pretese secondo la legge (par condicio) e soprattutto può portare a esdebitazione dell’imprenditore individuale o dei soci illimitatamente responsabili (questo però non riguarda i soci di SRL che sono limitatamente responsabili). Per le società di capitali, l’effetto del fallimento è più che altro “punitivo” per gli amministratori eventualmente colpevoli e ordinatorio per i creditori, ma non c’è un beneficio di scarico debiti per i soci (a differenza del concordato che può prevedere la liberazione dai debiti residui). Per tali motivi, sono stati introdotti istituti come il concordato preventivo liquidatorio semplificato che, se approvati dai creditori o dal giudice, consentono di liquidare il patrimonio della società riducendo i debiti (stralciandone una parte) – in pratica i creditori accettano di prendere una percentuale e liberare la società dal resto. Ciò equivale ad una “esdebitazione” per la società (pur non prevista formalmente per le persone giuridiche, l’effetto è simile): dopo il concordato omologato, i crediti falcidiati non sono più esigibili né verso la società né verso soci e liquidatori. Questo è uno dei motivi per cui, in situazioni di forte indebitamento ma con un po’ di attivo, i soci possono valutare un concordato: permette di sterilizzare le responsabilità future pagando solo una quota concordata. Naturalmente, il concordato ha costi alti (commissario, votazioni, ecc.) e tempi non brevi, e richiede di solito un contributo economico esterno, quindi non è sempre fattibile.
In conclusione su questo capitolo, possiamo affermare che la liquidazione giudiziale comporta: costi procedurali elevati, tempistiche lunghe (anni) e effetti invasivi sul debitore e i suoi stakeholder, pertanto dal punto di vista del debitore è l’ultima risorsa, da evitare se possibile attraverso soluzioni alternative. Vedremo nella prossima sezione quali strategie e accorgimenti un imprenditore-debitore può adottare per ridurre i costi di una liquidazione, sia in ambito volontario che – se inevitabile – nell’ambito giudiziale. Successivamente affronteremo le tempistiche tipiche delle fasi di liquidazione e infine la sezione FAQ per rispondere alle domande più comuni.
Strategie per ridurre i costi della liquidazione
Che sia volontaria o concorsuale, una liquidazione comporta costi a carico del patrimonio sociale (e indirettamente dei soci/creditori). Esistono però varie strategie e accorgimenti che possono ridurre questi costi, ottimizzando l’esito finale. In questa sezione esaminiamo alcuni consigli pratici dal punto di vista del debitore (società e soci) per minimizzare sia i costi diretti (spese vive, imposte, compensi) sia i costi indiretti (perdite di valore, rischi legali) della liquidazione della SRL.
1. Pianificare una chiusura anticipata e volontaria se possibile
La prima strategia è non attendere l’insolvenza conclamata. Se i soci intuìscono che l’attività non è più sostenibile o intendono comunque cessarla, è preferibile attivarsi tempestivamente per una liquidazione volontaria in bonis invece di lasciar aggravare la situazione fino al fallimento. Come visto, la liquidazione volontaria ha costi molto inferiori rispetto alla procedura fallimentare. Quindi, agire presto può evitare l’intervento del tribunale. Ciò comporta:
- Mantenere la possibilità di scelta del liquidatore e negoziazione del suo compenso (i soci possono nominare persona di fiducia, magari uno dei soci stessi o un professionista disposto a un compenso ragionevole, anziché subire un curatore d’ufficio con tariffe fisse).
- Evitare i costi fissi di fallimento (contributo unificato, compensi del curatore, spese di giustizia, ecc.).
- Gestire direttamente la liquidazione dell’attivo, cercando di massimizzare il ricavato: i soci e amministratori conoscono meglio l’azienda e possono trovare acquirenti più vantaggiosi per i beni, o vendere l’azienda come “ramo” in continuità, cosa che in fallimento può essere difficile. In questo modo si può preservare valore (ad esempio vendendo a trattativa privata invece che in asta giudiziaria che spesso deprezza i beni).
Ovviamente, questa strategia funziona se la società ha ancora risorse per pagare (almeno in parte consistente) i debiti. Se c’è uno stato di insolvenza irreversibile, i soci potrebbero incorrere in responsabilità per tardiva dichiarazione di fallimento nel protrarre la liquidazione volontaria. Il CCII oggi impone agli amministratori un dovere di attivarsi in caso di allerta di crisi, quindi liquidare volontariamente va bene se consente di soddisfare regolarmente i creditori; se invece i creditori resterebbero impagati, gli amministratori rischiano di violare l’obbligo di gestione corretta del pre-insolvenza. In pratica, una liquidazione volontaria “in perdita” è ammessa (non è vietato cancellare la società lasciando debiti) ma gli amministratori devono aver agito senza frode e aver informato i creditori. I soci che scelgono questa via dovrebbero:
- Comunicare formalmente ai creditori, a fine liquidazione, che la società ha esaurito l’attivo e nulla potrà essere loro corrisposto. Questa trasparenza può diminuire il rischio di azioni legali (il liquidatore deve redigere verbali attestando l’assenza di attivo e l’impossibilità di pagare, da comunicare ai creditori).
- Essere consapevoli che i creditori potranno comunque tentare di far aprire un fallimento entro 1 anno se sospettano irregolarità (come visto nel caso Beta). Però, se la liquidazione volontaria è condotta correttamente e celermente, spesso i creditori preferiscono non spendere ulteriori soldi in tribunale visto che non c’è attivo.
In breve, chiudere presto evita la lievitazione dei costi. In particolare, si consiglia di non attendere che maturino interessi di mora, sanzioni o spese legali su debiti esistenti: decidere la liquidazione quando la situazione finanziaria si deteriora può evitare che il debito aumenti (ad esempio, se si ritarda, l’Erario continuerà a calcolare interessi e sanzioni sulle imposte non versate). Liquidare e cancellare la società fissa un termine oltre cui non maturano più sanzioni tributarie a carico dell’ente (le sanzioni tributarie non sono trasmissibili ai soci in generale). Dunque, c’è un beneficio implicito nel chiudere prima: limitare l’accumulo di sanzioni e interessi sulla società.
2. Usare le procedure semplificate e telematiche (risparmiare su notaio e burocrazia)
Come accennato, in alcuni casi è possibile evitare il costo del notaio per la deliberazione di scioglimento. La “liquidazione semplificata” introdotta per le SRL (in particolare per le SRL semplificate o SRLS) consente, se la causa di scioglimento è di diritto e inequivoca (ad es. inattività prolungata, impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, riduzione capitale sotto minimo, ecc.), di depositare direttamente l’atto di accertamento e la nomina del liquidatore tramite la piattaforma Comunica con firma digitale dell’amministratore. Questa procedura, riconosciuta da alcune Camere di Commercio, evita la parcella notarile e costa solo i diritti di segreteria standard. Inoltre, fare tutto telematicamente (Bilanci in formato XBRL, Comunicazione Unica per chiusura partita IVA e cancellazione) consente di risparmiare tempo e costi di invio postale. È consigliabile rivolgersi al proprio commercialista o a un consulente che conosca la procedura Comunica per lo scioglimento: per poche centinaia di euro di onorario, questi può gestire l’intera pratica digitale. Alcune Camere di Commercio richiedono comunque un verbale assembleare anche se senza notaio, quindi informarsi sulle prassi locali è opportuno. In generale, ridurre gli intermediari coinvolti fa scendere i costi: se i soci sono in grado di predisporre alcuni documenti (ad esempio un bilancio finale semplice) senza rivolgersi a terzi, meglio.
3. Negoziate i compensi dei professionisti (liquidatore, consulenti)
Nella liquidazione volontaria, contrattate il compenso del liquidatore in modo vantaggioso. Se la società ha un commercialista di fiducia, questi potrebbe accettare l’incarico di liquidatore per un compenso forfettario basso, magari perché già conosce l’azienda e dovrà fare pochi adempimenti. A volte i soci stessi possono assumere la carica gratuitamente – ad esempio il socio di maggioranza potrebbe fare il liquidatore senza compenso, se ha le competenze di base, risparmiando quei €2-5k. Anche per il commercialista che segue la contabilità: chiarite anticipatamente quanto costerà l’assistenza durante la liquidazione; magari fatevi fare un preventivo a pacchetto (es. €500 per predisporre bilancio finale e dichiarazioni). Molti adempimenti (come il bilancio finale in XBRL, la chiusura IVA) sono di routine e non dovrebbero costare somme elevate in più rispetto alla normale tenuta contabile.
Attenzione anche ai costi bancari: ricordate di chiudere i conti correnti della società subito dopo la liquidazione per evitare spese tenuta conto. Se la banca richiede penali per estinzione anticipata di finanziamenti, provate a negoziare un condono delle penali spiegando che la società sta chiudendo. Ogni piccola ottimizzazione aiuta a preservare attivo per i creditori/soci.
4. Sfruttare le definizioni agevolate dei debiti fiscali e contributivi
Negli ultimi anni sono frequenti le norme di “rottamazione” delle cartelle e definizione agevolata dei debiti fiscali (e contributivi). Se la società ha debiti verso Agenzia Entrate Riscossione (ex Equitalia) per imposte, contributi o multe, verificare se può aderire a una rottamazione delle cartelle: ciò permette di stralciare le sanzioni e interessi di mora, pagando solo imposta e interessi base in forma rateale. Ad esempio, la Rottamazione-ter o quater (2023) consente di abbattere circa il 30% del debito fiscale medio (tutto il carico di sanzioni). Questo strumento può essere combinato con la liquidazione: la società può presentare domanda di rottamazione, poi procedere alla liquidazione sapendo di dover pagare solo il debito “agevolato”. In pratica, se l’attivo non bastava a pagare integralmente i tributi con sanzioni, la rottamazione potrebbe far rientrare il debito nelle risorse disponibili. Esempio: la società Beta Srl aveva €60k di debiti con cartelle, di cui €20k di sanzioni; aderendo alla rottamazione pagherebbe €40k. Se i soci fossero stati in grado di racimolare €40k, Beta avrebbe potuto chiudere saldando il Fisco con l’agevolazione e magari evitare il fallimento. Naturalmente, occorre liquidità. Ma in alcuni casi i soci preferiscono immettere un po’ di fondi per chiudere bonariamente, piuttosto che affrontare un fallimento (che potrebbe coinvolgerli con azioni di responsabilità). Nota: le rottamazioni prevedono rate anche a 5 anni: la società potrebbe teoricamente restare in liquidazione aperta per il tempo necessario a completare i pagamenti rateali, poi chiudere. Oppure i soci potrebbero farsi carico come garanti. In qualunque caso, utilizzare queste agevolazioni riduce l’importo dei debiti da pagare – un risparmio che va a vantaggio di soci (se c’è residuo attivo) o di altri creditori (se l’attivo liberato viene usato per loro). Lo stesso vale per eventuali definizioni delle liti pendenti (se la società ha contenziosi tributari in corso, può accedere a condoni di controversie pagando percentuali ridotte). Anche gli istituti come transazione fiscale nel concordato sono da considerare: in un concordato preventivo, il Fisco può accettare il pagamento parziale delle imposte (falcidiando una parte di IVA o contributi, che altrimenti in fallimento sarebbero da pagare in prededuzione). Quindi, laddove fattibile, è strategico negoziare col Fisco – sia tramite normative agevolative, sia tramite istituti concorsuali – per abbassare il monte debiti da soddisfare. Ciò può fare la differenza tra un fallimento e una liquidazione ordinaria riuscita.
5. Valutare un concordato preventivo se riduce significativamente i debiti
Come anticipato, il concordato preventivo (o altri accordi di ristrutturazione) comporta costi procedurali superiori alla liquidazione volontaria (commissario, perizia, spese di omologazione), ma ha l’enorme vantaggio di poter tagliare i debiti con l’accordo dei creditori. Dal punto di vista strategico dei soci, può convenire se l’azienda ha ancora un nucleo sano o un marchio da salvare. Per esempio, se i soci vogliono evitare completamente rischi futuri, possono proporre un concordato liquidatorio offrendo ai creditori una certa percentuale (es. 20%) – se questi accettano e il tribunale omologa, la società paga quel 20% e si libera del restante 80% (che non potrà più esser preteso da nessuno). È un modo per “comprare” pace totale, inclusa verso il Fisco (che in concordato può accettare stralci di interessi e sanzioni e anche quota di imposta mediante transazione fiscale). Questo può essere interessante soprattutto se i soci hanno paura di responsabilità personali: un concordato omologato impedisce successivamente azioni di recupero per quei debiti residui su soci e liquidatori, perché il debito è estinto e i soci non devono nulla (salvo atti di mala fede occulti, ma rarissimi). Ad esempio, concordato vs liquidazione volontaria: nella volontaria i soci restano con possibili azioni dei creditori per 5 anni, nel concordato omologato i creditori non possono più agire, punto. Di contro, il concordato richiede di convincere la maggioranza dei creditori (o comunque un giudice) sulla bontà del piano e spesso serve un apporto esterno di denaro da parte dei soci per alzare la percentuale offerta. Se i soci dispongono di risorse e vogliono chiudere la società ripulendola dai debiti e senza strascichi, investire in un concordato può essere sensato. Se invece la società è piccola e non ha prospettive, il concordato rischia di essere solo un aggravio di costi (si può arrivare a spendere decine di migliaia di euro tra spese legali, attestatore, ecc. per poi magari offrire ai creditori percentuali minime e non avere approvazione). Quindi è da valutare caso per caso: concordato se c’è un piano credibile e convenienza per i creditori; liquidazione diretta se “non c’è trippa per gatti”. Anche soluzioni meno formalizzate, come un accordo stragiudiziale con i creditori maggiori, possono ridurre i debiti: ad esempio, i soci di comune accordo con la banca e il Fisco potrebbero trovare un accordo di saldo e stralcio (pagare una parte e stralciare il resto) ed evitare procedure formali. Questo richiede ovviamente che tutti i creditori chiave aderiscano (basta uno contrario per far fallire l’accordo, non essendoci il cram-down del tribunale). Se fattibile, però, è la soluzione più economica: un accordo privato comporta minimi costi legali e niente commissari. Quindi, come regola generale, tentare un accordo con i creditori prima di passare alle vie giudiziali è sempre utile – persino in fase di pre-fallimentare, la nuova composizione negoziata della crisi serve a quello, con costi ridotti (solo il compenso dell’esperto nominato). Un accordo stragiudiziale riuscito può evitare il fallimento e chiudere la società con una liquidazione volontaria ordinata secondo i termini pattuiti coi creditori.
6. Massimizzare l’attivo e minimizzare le perdite prima/durante la liquidazione
Questa strategia è ovvia ma fondamentale: più alto l’attivo, più facile pagare i debiti (e magari resta qualcosa ai soci), minori le conseguenze di procedure concorsuali. Come massimizzare l’attivo? Vendendo bene i beni sociali. Prima di entrare in liquidazione, gli amministratori possono cercare di cedere beni non strategici a valori congrui, o recuperare crediti incagliati mediante transazioni. Durante la liquidazione, il liquidatore può impiegare del tempo per trovare compratori migliori anziché svendere frettolosamente (a meno che i costi di mantenimento di un bene superino i vantaggi di aspettare). Se c’è un immobile difficile da vendere, valutare di trasformare la società in società semplice immobiliare (operazione talvolta fatta per una liquidazione più efficiente di patrimoni immobiliari: dopo la trasformazione, la cessione ai soci può avere regole diverse, ma attenzione ai profili fiscali). Ridurre le perdite significa anche evitare spese inutili: se la società aveva affitti in essere, rescinderli per non accumulare canoni a vuoto; licenziare per tempo i dipendenti se tanto si chiude (così maturano meno stipendi arretrati e TFR da pagare; ricordando che per i dipendenti c’è comunque il Fondo di Garanzia INPS che interviene in fallimento). Inoltre, conservare documentazione ordinata: sembra banale, ma se la contabilità è in ordine, il liquidatore/curatore non dovrà spendere soldi per ricostruirla (ci sono casi in cui vengono nominati consulenti per ricostruire i bilanci spariti, con costi a carico della massa). Quindi, i soci uscenti dovrebbero consegnare al liquidatore una situazione contabile aggiornata e attendibile, in modo da facilitare la chiusura rapida (risparmiando tempo e denaro).
7. Liquidazione “mista” e continuazione dell’attività
Un altro spunto: in taluni casi i soci possono voler continuare parte del business senza i debiti. Una strategia a volte usata è creare una Newco senza debiti, trasferirvi l’attività sana (ad esempio un ramo d’azienda, senza accollarsi i debiti, se legalmente fattibile) e lasciar morire la vecchia società con i debiti. Attenzione: operazioni del genere (trasferire asset a nuova società dei soci e far fallire la vecchia) possono configurare illeciti (bankruptcy fraud) se fatte in frode ai creditori. Tuttavia, la legge consente alcune operazioni neutrali: ad esempio la cessione di azienda a prezzo di mercato prima della liquidazione non è vietata, purché il corrispettivo rimanga nella vecchia società a beneficio dei creditori. Se invece l’azienda viene svenduta a una Newco dei soci a prezzo vile per sottrarla ai creditori, è chiaramente un atto suscettibile di revocatoria e di responsabilità penale (bancarotta preferenziale o fraudolenta). Quindi, queste manovre vanno maneggiate con estrema cautela e sotto consiglio legale: qualunque passaggio di beni prima della liquidazione deve avvenire a condizioni di mercato e preferibilmente con il ricavato usato per pagare i debiti, altrimenti i costi futuri saranno ben peggiori (azione penale e annullamento delle operazioni).
In contesti più leciti, potrebbe essere possibile scorporare asset e venderli separatamente per massimizzare valore. Ad esempio, vendere l’immobile separatamente dall’azienda se così vale di più. Il liquidatore volontario può farlo, mentre in fallimento talvolta si vendono pacchetti interi con minor realizzo. Anche continuare temporaneamente l’attività per completare ordini in corso può portare incassi utili: una liquidazione volontaria può proseguire operazioni aziendali in funzione liquidatoria se conviene (ad es. completare la produzione di merci già iniziate per poterle vendere a miglior prezzo). Ciò deve essere valutato (non sempre conviene, ma è permesso se finalizzato a miglior realizzazione).
8. Far valere l’esonero da responsabilità per i soci e liquidatori
Più che ridurre costi, questo punto è per evitare costi occulti indesiderati: i soci e liquidatori devono conoscere e far valere i propri limiti di responsabilità. Se la liquidazione si conclude con debiti impagati, spesso gli enti creditori (Agenzia Entrate, ecc.) inviano richieste di pagamento ai soci o al liquidatore. Ma, come spiegato, i soci non rispondono dei debiti sociali oltre quanto ricevuto. Se ricevono cartelle a loro nome, dovranno fare opposizione e far valere in giudizio l’assenza di percezione di attivo. È importante che conservino i documenti della liquidazione (bilanci finali, piano di riparto zero, ecc.) per almeno 5-10 anni, così da poterli esibire in caso di contestazioni future e vincere facilmente. Anche i liquidatori: qualora i creditori agiscano verso di loro, devono ricordare che rispondono solo per colpa. Se hanno operato correttamente (ad esempio, hanno pagato i creditori con prelazione e solo poi i soci, oppure non hanno pagato nessun socio se c’erano debiti, ecc.), non possono essere ritenuti responsabili del mancato pagamento di tutti i debiti. Quindi, un liquidatore citato in giudizio da un creditore dovrà difendersi mostrando di aver rispettato l’ordine delle prelazioni e di aver comunicato la mancanza di attivo. Molto spesso queste cause finiscono con il liquidatore assolto se non ci sono malversazioni. È però un costo indiretto dover andare in giudizio. Per evitarlo, i liquidatori possono adottare accorgimenti in fase di chiusura: ad esempio, non distribuire nulla ai soci se ci sono crediti non pagati (anche se ci sarebbe attivo per i soci, meglio accantonarlo per possibili debiti emergenti o spese). Pagare i creditori seguendo l’ordine e, se non bastano i soldi per tutti, non pagarne alcuni escludendone altri (pagare tutti parzialmente in proporzione, se proprio si vogliono dare acconti – ma di solito o soddisfi interamente i privilegiati e nulla ai chirografari). Così nessun creditore potrà accusarti di preferenze. Nel caso emergano successivamente attivi dimenticati (es. un conto bancario non chiuso con saldo), il liquidatore dovrebbe riaprirli e destinarli ai creditori, altrimenti i soci che se ne appropriano potrebbero avere problemi.
Riassumendo le strategie chiave: liquidare in bonis prima che sia troppo tardi, usare procedure semplificate e agevolazioni fiscali, negoziare transazioni sui debiti, massimizzare i ricavi e minimizzare costi interni, e conoscere i propri diritti per evitare di pagare ciò che la legge non impone.
Tempistiche della liquidazione: fasi e durata media
Un aspetto spesso sottovalutato ma importante nei costi (soprattutto indiretti) di una liquidazione è la durata della procedura. Tempi più lunghi significano più spese amministrative, più onorari accumulati e più incertezza per soci e creditori. In questa sezione descriviamo le principali fasi temporali di una liquidazione SRL e forniamo indicazioni sulle tempistiche medie sia per la procedura volontaria sia per quella giudiziale, evidenziando i fattori che possono accelerare o ritardare la chiusura.
Fasi e tempi della liquidazione volontaria
La liquidazione volontaria di una SRL tipicamente si articola in tre fasi: (1) scioglimento e apertura della liquidazione, (2) svolgimento della liquidazione (realizzo attivo, pagamento passivo), (3) chiusura della liquidazione con bilancio finale e cancellazione. Vediamole con i tempi associati:
- Scioglimento e nomina liquidatore – Dopo che emerge una causa di scioglimento, gli amministratori convocano l’assemblea senza indugio (non c’è un termine fisso in giorni, ma la legge dice “senza indugio” e la prassi suggerisce entro 30 giorni circa). L’assemblea straordinaria, specie se occorre il notaio, richiede i tempi di convocazione previsti dallo statuto (solitamente 8 giorni di preavviso, salvo rinuncia unanime). Quindi, dall’intenzione di sciogliere alla delibera effettiva possono volerci 1-2 settimane se i soci sono concordi. Se la decisione è volontaria (non obbligata da eventi esterni), i soci possono fissare la data che preferiscono (ad esempio fine anno per ragioni contabili). Durata fase 1: diremmo circa 15-30 giorni per convocazione e formalizzazione scioglimento. Subito dopo la delibera, il verbale viene depositato al Registro Imprese (entro 30 gg per legge, ma spesso il notaio lo fa in pochi giorni). Dal giorno dell’iscrizione della liquidazione, la società risulta “in liquidazione”.
- Periodo di liquidazione attiva – Questa è la fase più variabile. Può durare pochissimo (in casi semplici, poche settimane) o diversi anni. Dipende dalle attività da compiere:
- Se la società non ha beni da liquidare né crediti da incassare, e magari ha solo cassa sufficiente a pagare i debiti, la liquidazione può chiudersi molto rapidamente: il liquidatore paga i debiti (immediato) e redige il bilancio finale. In teoria, se tutto è pronto, in 2-3 mesi si può fare tutto, giusto il tempo di ottenere liberatorie dai creditori magari.
- Se invece occorre vendere beni (immobili, macchinari, partecipazioni), la tempistica dipende dal mercato. La vendita di un immobile può richiedere mesi o anni: bisogna trovare un acquirente, concordare un prezzo, fare il rogito. Una stima media per vendere un immobile commerciale potrebbe essere 6-12 mesi. Se i primi tentativi falliscono, si allunga.
- Se ci sono crediti da esigere tramite azioni legali, il tempo dipende dai tribunali: un decreto ingiuntivo in 2-3 mesi, ma un’eventuale causa ordinaria può durare anni. In genere però, molte liquidazioni preferiscono cedere i crediti pro-soluto (incassando meno ma subito) per non aspettare liti lunghe.
- Se ci sono cause pendenti contro la società (es. un contenzioso tributario o civile in cui la società è parte attiva o passiva), la liquidazione potrebbe attendere l’esito o transare. Spesso però, se la causa è passiva e la società non ha attivo, si può chiudere lo stesso e far proseguire la causa coi soci succeduti ex art. 2495 c.c.
- Altro fattore: dipendenti e TFR. Se la società ha dipendenti, spesso occorre attendere il termine di legge di 60 giorni dall’ultima comunicazione di chiusura per poter licenziare e pagare TFR. Ma quello rientra nelle attività di liquidazione.
Da notare che il Codice Civile non impone una durata massima; tuttavia, se la liquidazione si protrae oltre 1 anno, il liquidatore deve ogni anno predisporre un bilancio di liquidazione annuale (art. 2490 c.c.), e se si protrae troppo i soci possono chiedere spiegazioni. Liquidazioni dormienti per tanti anni possono incorrere in controlli dell’Agenzia Entrate che vede partite IVA aperte senza movimenti. Dalla riforma fiscale 2023, se la liquidazione volontaria si protrae oltre 5 anni, per il fisco i redditi erano comunque finali anno per anno (non c’è più conguaglio, come visto), ma anche prima c’era un limite di 5 anni per conguagli. Quindi, superare i 5 anni è segno di stallo patologico. - Chiusura e cancellazione – Quando il liquidatore ha convertito in denaro tutto il possibile, pagato i debiti (o accantonato somme contestate in un deposito vincolato), redige il bilancio finale di liquidazione e il piano di riparto ai soci (se c’è attivo residuo). Questo documento va comunicato ai soci (tramite deposito al Registro Imprese e avviso) e c’è un termine di 90 giorni durante il quale i soci possono fare reclamo se non approvano i conti (art. 2493 c.c.). Trascorsi 90 giorni senza contestazioni, il bilancio si intende approvato. A quel punto i liquidatori possono procedere alla distribuzione di quanto spettante ai soci e presentare domanda di cancellazione. Cancellazione: il Conservatore del Registro esegue la cancellazione dopo 5 giorni dalla scadenza dei 90 giorni se non risultano reclami pendenti. Dunque, l’iter finale è fisso ~3 mesi (90 gg) dall’ultima pubblicazione del bilancio finale. Se invece i soci approvano esplicitamente all’unanimità prima i conti, si può evitare di attendere i 90 giorni (consenso unanime subito). Però spesso, essendo i soci in genere d’accordo, comunque aspettano i 90 giorni di legge. Dopo la cancellazione, come detto, per 5 anni la società è “fiscalmente viva” per notifica atti, ma civilmente è estinta e i termini per eventuale fallimento postumo sono 1 anno. Ciò non incide sulla “durata” della procedura, ma segnala gli strascichi temporali di eventuali responsabilità: i soci farebbero bene a conservare recapiti aggiornati e documenti almeno fino a 5 anni dopo la fine.
Tempistica media volontaria: 1 anno circa è un tempo spesso sufficiente per la maggior parte delle liquidazioni di piccole SRL. Alcune chiudono in 6 mesi, altre richiedono 2 anni. Oltre 2-3 anni è sintomo di complicazioni. Da un punto di vista di costi, liquidare rapidamente è preferibile perché si evitano spese di gestione prolungate (un liquidatore che resta in carica anni vorrà compenso maggiore, i professionisti come commercialista fattureranno ogni anno per le dichiarazioni, etc.). Pertanto, se possibile, conviene accelerare: ad esempio, se un immobile non si vende, considerare un ribasso di prezzo ragionevole invece di tenere la liquidazione aperta a lungo (il costo degli anni extra può superare il guadagno di aspettare prezzo pieno).
Fasi e tempi della liquidazione giudiziale
La procedura fallimentare (liquidazione giudiziale) ha fasi scandite dalle norme, ma la loro durata è spesso notevole. Elenchiamo le principali fasi con indicazioni temporali:
- Fase pre-fallimentare (istruttoria) – Dal ricorso per fallimento alla sentenza dichiarativa: la legge prevede che il tribunale fissi l’udienza entro 45 giorni dal ricorso e decida nei successivi 30 giorni (artt. 40-47 CCII). In pratica, spesso in 1-3 mesi si ottiene la sentenza di apertura (dipende da tribunale e complessità). Nei casi contumaciali veloci anche 1 mese; se il debitore propone opposizioni o concordato in extremis, può allungarsi di qualche mese. Mediamente circa 2 mesi.
- Esame dello stato passivo – Dopo la sentenza, il giudice delegato fissa un termine per i creditori per presentare le domande (di regola 30 giorni prima dell’udienza di verifica) e fissa l’udienza di verifica entro 60-120 giorni. In molti tribunali l’udienza di stato passivo è posta a ~90 giorni dalla sentenza. Il curatore deposita il progetto qualche giorno prima. Dunque, entro 3-4 mesi dal fallimento c’è lo stato passivo esecutivo (salvo rinvii se molte domande). Questi termini sono relativamente rigidi per legge. I creditori tardivi possono comunque insinuarsi dopo, ma intanto la massa debiti ammessa è definita entro ~4 mesi.
- Liquidazione dell’attivo – È la fase più lunga e imprevedibile. Il curatore deve entro 60 giorni presentare un programma di liquidazione al comitato creditori (art. 213 CCII) e iniziare le vendite. Se l’attivo consiste in beni mobili di scarso valore, può vendere entro pochi mesi. Se vi sono immobili o aziende da cedere, i tempi vanno con i rituali d’asta: in media una vendita immobiliare fallimentare richiede 6-12 mesi per esperire i tentativi d’asta (la legge impone di fare almeno 2 tentativi entro 4 mesi l’uno dall’altro, riducendo prezzo in caso di aste deserte). Molte vendite vanno a buon fine entro il secondo tentativo, quindi direi 8-12 mesi per liquidare immobili. Se più aste, anche 1,5-2 anni.
- Nel caso di aziende in esercizio provvisorio, il CCII spinge a vendere l’azienda velocemente (entro 1 anno preferibilmente) per non disperderne il valore. A volte concordano soluzioni già entro 6 mesi.
- Crediti da incassare: il curatore di solito li mette all’asta a pacchetto (specie piccoli crediti) o fa decreti ingiuntivi per quelli grandi. I tempi di recupero crediti giudiziale in fallimento sono medi: un DI non opposto in 2-3 mesi, uno opposto -> causa 1-2 anni. Però se i crediti sono grandi, spesso si transige per ridurre tempi.
- Azioni di responsabilità: se il curatore fa causa agli amministratori per distrazioni, questa può allungare di molto la chiusura: spesso tali cause durano anni e la chiusura fallimento viene tenuta aperta in attesa. Ma il CCII ora consente di chiudere il fallimento anche con cause pendenti, trasferendole in sede ordinaria (art. 233 CCII prevede la chiusura anche se ci sono giudizi non definiti, mantenendo la legittimazione in capo al curatore per seguirli). Questo per evitare di lasciare procedure aperte per decenni in attesa di cause. Dunque, i curatori oggi chiudono prima e lasciano la causa “stralcio”.
- Riparti ai creditori – Durante la fase attiva, se si incassa cassa sufficiente, il curatore può fare riparti parziali (dare acconti ai creditori privilegiati o a tutti pro-quota). C’è un iter: presentazione progetto di riparto al GD e comitato, se approvato si esegue. Un fallimento medio potrebbe fare 1-2 riparti parziali (ad es. uno dopo vendita immobili, uno finale). Ogni riparto aggiunge 1-2 mesi per le formalità. Il riparto finale si fa quando tutto è liquidato o quasi: il curatore deposita conto di gestione e piano di riparto, se approvati dal GD, si paga e poi si chiede chiusura. Un creditore può contestare riparto se pensa ci siano errori, ma raramente succede. In media, l’ultimo atto – chiusura del fallimento – arriva come detto 5-7 anni dopo l’inizio. Dopo la chiusura, i creditori insoddisfatti non hanno più titolo verso la società (che è estinta, salvo responsabilità ex soci/liq come detto) e l’eventuale attivo residuo va ai soci (caso raro, succede se avanza denaro dopo aver pagato tutti al 100%).
Durata media giudiziale: Fonti come Banca d’Italia (Questioni di Economia e Finanza n. 618/2021) indicano 7 anni e 1 mese la durata media di un fallimento in Italia. Concorda il dato di Banca Mondiale Doing Business, che stimava ~7 anni con recupero 22 cent/€, uno dei peggiori tra economie avanzate. Secondo Cerved (Osservatorio 2023), la durata mediana è scesa leggermente, ma i miglioramenti sono lenti. La dispersione è enorme: c’è chi chiude in 2 anni e chi in 15. Nel 2020 l’introduzione della modalità telematica ha accelerato alcune fasi (es. stato passivo online), ma vendere beni e fare cause resta il collo di bottiglia. Un segnale positivo: le chiusure per assenza di attivo ora vengono fatte prima – alcuni tribunali chiudono entro un anno i casi palesemente incapienti.
Tempi e costi: tempi lunghi aggravano i costi indiretti e riducono i recuperi dei creditori (perché i beni si deprezzano, i crediti si prescrivono in parte, ecc.). C’è inoltre il costo opportunità per i soci e amministratori: finché il fallimento è aperto, gli amministratori non ottengono l’esdebitazione (per le persone fisiche imprenditori c’è l’istituto dell’esdebitazione solo dopo la chiusura, che libera dai debiti residui). I soci di SRL in genere non hanno bisogno di esdebitazione perché non rispondono dei debiti sociali, ma se avessero garantito o altro devono aspettare per sistemare. Anche il marchio dell’azienda perde valore se i tempi si allungano e l’attività cessa. Infatti il CCII prevede la possibilità di autorizzare l’esercizio provvisorio proprio per vendere l’azienda “viva”, ma quello può durare max qualche mese.
Conclusione sulle tempistiche: la liquidazione volontaria è di solito molto più breve (mesi o 1-2 anni) rispetto alla giudiziale (diversi anni). Ciò costituisce un ulteriore incentivo, lato debitore, a preferire la strada extra-giudiziale se praticabile: chiudere la partita in un tempo ragionevole e voltare pagina, piuttosto che restare impantanati a lungo in un fallimento.
Domande e Risposte Frequenti (FAQ)
Di seguito presentiamo una serie di domande comuni poste da imprenditori, soci di SRL e altri operatori in merito ai costi e alle implicazioni della liquidazione di una SRL, con le relative risposte basate sulla normativa vigente (aggiornata a giugno 2025) e sulla prassi. Questa sezione aiuta a chiarire dubbi specifici e casi particolari, completando la trattazione svolta finora.
D: È possibile cancellare una SRL che ha ancora debiti (non pagati)?
R: Sì, è possibile dal punto di vista civilistico cancellare una società anche se restano debiti insoluti. La Cassazione ha chiarito che l’estinzione della società avviene comunque una volta cancellata dal Registro Imprese, anche se non tutti i creditori sono stati soddisfatti. Tuttavia, i debiti non si estinguono magicamente: i creditori non pagati potranno far valere i loro crediti verso i soci e i liquidatori nei limiti previsti dall’art. 2495 c.c. (come spiegato, i soci rispondono solo fino alla concorrenza di quanto ricevuto in liquidazione, i liquidatori solo se per colpa loro non hanno pagato). In pratica: la società può essere chiusa anche con debiti residui, ma i creditori potranno, ad esempio, inviare cartelle ai soci o citarli in causa (se ci sono i presupposti). Quindi “spegnere” la società non fa scomparire le obbligazioni: queste si trasferiscono sulla testa di soci/liquidatori nei limiti di legge. Dal punto di vista legale, la cancellazione è ammessa: basta presentare bilancio finale e attestare che nulla è più da liquidare (attivo zero). Il conservatore procede comunque alla cancellazione. Saranno poi vicende postume gestire i debiti pendenti. Dunque la risposta è: sì, si può fare, ma occorre essere consapevoli delle conseguenze (soprattutto fiscali) post-chiusura.
D: Cosa succede ai debiti tributari di una società dopo la sua cancellazione? Chi li paga?
R: I debiti tributari (Erario, IVA, imposte) seguono la stessa regola generale: ex art. 2495 c.c. e art. 36 DPR 602/73, i crediti del Fisco non soddisfatti possono essere richiesti ai soci, nei limiti di quanto questi hanno ricevuto in liquidazione. Inoltre, l’art. 36 citato aggiunge che sono coinvolte anche le assegnazioni fatte nei due anni precedenti la liquidazione dagli amministratori ai soci, o quelle fatte durante la liquidazione stessa dai liquidatori. Quindi il Fisco ha un raggio d’azione un po’ più ampio: se, ad esempio, due anni prima di chiudere la società i soci si sono distribuiti dividendi o si sono restituiti riserve, il Fisco può considerarli nel calcolo e chiederne conto. I liquidatori pure possono essere responsabili se per colpa loro le imposte non sono state pagate (ad es. hanno pagato altri debiti prima delle imposte violando la prelazione). Importante: per 5 anni dalla cancellazione la società è considerata ancora esistente agli occhi del Fisco, quindi l’Agenzia Entrate può notificare avvisi di accertamento intestati alla società (presso l’ultimo domicilio) e cartelle esattoriali. In pratica, può iniziare o proseguire accertamenti come se la società non fosse estinta. Poi, ovviamente, per riscuotere dovrà rivolgersi a soci e liquidatori (la società non ha più un conto corrente né sede). Esempio: Alfa Srl chiusa nel 2025 aveva evaso IVA 2023; l’Agenzia può notificare entro 31/12/2028 un accertamento IVA intestato “Alfa Srl (estinta) in persona del liquidatore” e successivamente notificare ai soci una cartella per quell’IVA se impagata. I soci potranno opporsi se non hanno ricevuto nulla in liquidazione (vedi domanda successiva). Da notare che c’è un dibattito se le sanzioni tributarie (multe per omessi versamenti) si trasmettano o no: la regola tradizionale è che le sanzioni amministrative e tributarie non si trasmettono a soci o liquidatori, perché hanno natura personale e la persona giuridica è estinta. Quindi, ad esempio, la multa per omesso versamento IVA dovrebbe restare a carico della società (che essendo estinta non la pagherà nessuno); i soci pagheranno solo l’imposta. La giurisprudenza però in passato non è stata del tutto uniforme su questo punto, ma la tendenza è di non addebitare sanzioni a soci/liquidatori. Riassumendo: i debiti tributari dopo la chiusura vengono “girati” a soci e liquidatori (dentro i limiti visti) e il Fisco ha fino a 5 anni per attivarsi. Decorso tale termine, non può più iniziare nuove pretese verso soggetti non già coinvolti.
D: I soci di una SRL devono pagare personalmente i debiti non pagati dalla società?
R: In linea di principio, no, i soci di società di capitali (SRL, SPA) non rispondono con il proprio patrimonio dei debiti sociali, oltre a quanto eventualmente dovuto per conferimenti. Questo è il concetto di responsabilità limitata. Anche dopo la liquidazione, la responsabilità dei soci verso i creditori è limitata alla somma che hanno eventualmente ricevuto dalla liquidazione. Se non hanno ricevuto nulla, non devono nulla. Se hanno ricevuto €10.000 ciascuno come riparto finale, risponderanno verso i creditori insoddisfatti fino a €10.000 a testa (e in caso di più creditori, si divideranno quell’importo in proporzione ai crediti). Dunque, i soci non diventano debitori illimitati dei creditori sociali. Attenzione però: come detto sopra, per i debiti fiscali c’è l’art. 36 DPR 602/73 che fa riferimento anche alle distribuzioni nei 2 anni pre-liquidazione e durante la liquidazione. Quindi, se un socio ha ricevuto somme prima della liquidazione a titolo di utili, il Fisco gliele può imputare. Ad esempio, se nel biennio prima di chiudere la società ha distribuito dividendi, quei dividendi possono essere escussi dal Fisco se restano imposte non pagate. Questa particolarità vale solo per l’Erario. Per i creditori privati, conta solo ciò che hanno preso dal bilancio finale. In ogni caso, mai oltre quanto effettivamente incassato. Niente “richiami” sul patrimonio personale extra. In presenza di garanzie personali (fideiussioni) la situazione cambia: se i soci avevano garantito personalmente un debito (tipicamente verso banca), quella è una obbligazione extra-sociale e i creditori potranno escutere i soci garanti senza i limiti art. 2495. Ma non è perché erano soci, è perché erano garanti.
D: Se la società chiude con debiti, le multe e sanzioni (es. sanzioni tributarie, ammende) pendenti chi le paga?
R: Come accennato, c’è un principio di diritto amministrativo per cui le sanzioni pecuniarie amministrative (comprese quelle tributarie) non si trasmettono agli eredi o ai successori, perché hanno natura personale (puniscono l’autore dell’illecito). Nel caso di società estinta, l’orientamento tradizionale è che le sanzioni non possono essere più riscosse da nessuno, essendo venuto meno il soggetto giuridico sanzionato. Ad esempio, se la società aveva una multa per omessa presentazione di dichiarazione, con la cancellazione quella sanzione resta inesigibile: i soci non la “ereditano”. Tuttavia, va segnalato che c’è stata incertezza giurisprudenziale. Alcune pronunce minori ritenevano che i soci potessero essere chiamati a rispondere di sanzioni tributarie entro i limiti del patrimonio ricevuto, analogamente ai debiti d’imposta. Ma la maggioranza e la dottrina propendono per la non trasmissibilità delle sanzioni, salvo casi espressamente previsti (ad esempio in campo di sicurezza sul lavoro e ambientale, certe sanzioni possono essere richieste agli amministratori). Nel dubbio, l’Agenzia Entrate talvolta notifica cartelle comprensive di imposta + sanzione ai soci e aspetta eventuale opposizione. In genere, se i soci fanno ricorso, ottengono l’esclusione della sanzione. Quindi la risposta è: di regola nessuno paga le sanzioni pendenti se la società muore, a meno che un giudice non stabilisca diversamente. I soci/liquidatori non ne rispondono personalmente.
D: L’amministratore o il liquidatore rischiano qualcosa personalmente se restano debiti non pagati?
R: Civilmente, amministratori e liquidatori possono rischiare azioni di responsabilità da parte dei creditori se si dimostra che per colpa loro quei debiti non sono stati pagati. Ad esempio, se gli amministratori hanno aggravato il dissesto tardando a fermare l’attività, oppure hanno preferito alcuni creditori pagandoli prima della liquidazione (violando la par condicio), i creditori danneggiati potrebbero citarli. In caso di fallimento, è il curatore che può agire per conto di tutti i creditori (azione ex art. 2467 c.c. e azioni di mala gestio). In assenza di fallimento, singoli creditori possono provare a fare causa ex art. 2394/2486 c.c. per responsabilità verso creditori sociali, ma devono provare la colpa grave dell’amministratore nel violare obblighi legali (ad es. non aver preservato il patrimonio sociale). È una causa complessa. Per i liquidatori, l’art. 2495 c.c. già inquadra la responsabilità: rispondono verso i creditori per il mancato pagamento solo se è dipeso da colpa loro. Ciò significa: se il liquidatore ha correttamente liquidato i beni e, semplicemente, questi non bastavano a pagare tutti, non è colpa sua (non può inventare soldi) – quindi non risponde. Se invece ha distribuito attivo ai soci lasciando debiti, o ha occultato beni, allora sì. In pratica, un liquidatore diligente che rispetta le prelazioni e informa i creditori che non c’è attivo, è difficilmente attaccabile. Dovrebbe emergere una colpa specifica. Quindi, il rischio per amministratori e liquidatori di dover pagare di tasca propria c’è solo in caso di mala gestio (cattiva gestione): pagamenti preferenziali, ritardo colposo, violazioni di legge. Se hanno agito correttamente e documentato tutto, purtroppo per i creditori non c’è molto da imputare. Bisogna però segnalare il rischio penale: se gli amministratori hanno commesso reati (ad es. bancarotta fraudolenta distruggendo documenti o distratto beni prima di fallimento, oppure omesso versamento IVA oltre soglia, omessi versamenti contributi oltre soglia), allora possono subire procedimenti penali indipendenti dalla liquidazione. Ad esempio, l’amministratore che non versa IVA sopra €250k annui commette reato punibile con la reclusione; liquidare la società non lo esime dall’azione penale. Stesso per contributi INPS non versati oltre €10k annui (reato contravvenzionale). Dunque, il liquidare una società con debiti non è un escamotage per sfuggire a eventuali reati commessi durante la gestione. Quei procedimenti seguono il loro corso a carico degli amministratori (la società estinta ovviamente non è punibile penalmente, ma gli amministratori sì). In conclusione: civilmente il liquidatore diligente non paga di persona i debiti residui (no colpa, no responsabilità), penalmente l’amministratore può rischiare sanzioni per gli illeciti tributari o societari commessi (liquidazione non li annulla).
D: Conviene tentare un concordato preventivo invece di liquidare la società?
R: Dipende dal caso concreto. Un concordato preventivo può essere utile se si vuole evitare il fallimento e avere un quadro definito delle obbligazioni da pagare, potenzialmente ridotte. È indicato soprattutto se la società ha un business che può continuare generando utili per pagare in parte i debiti (concordato in continuità). In tal caso, il concordato potrebbe salvare l’azienda come going concern e soddisfare parzialmente i creditori, meglio di quanto otterrebbero in una liquidazione disordinata. Se invece l’azienda non ha prospettive e l’attivo è modesto, un concordato liquidatorio rischia di essere solo un aggravio di costi e tempi. Conviene solo se c’è interesse a sterilizzare alcune responsabilità con l’omologa. Ad esempio, nel concordato liquidatorio i soci accettano di mettere una certa somma o asset per pagare una percentuale ai creditori e, una volta omologato e eseguito il piano, i debiti residui vengono cancellati per effetto della procedura (la società viene liberata dai debiti non soddisfatti). Questo, come detto, è simil-esdebitazione per la società (pur non essendo prevista formalmente dalle norme, l’effetto pratico è quello). Ciò significa che, dopo un concordato preventivo omologato e correttamente eseguito, i creditori – incluso il Fisco – non potranno più chiedere nulla né ai soci né ai liquidatori (il debito è estinto per effetto della falcidia concordataria, salvo rarissime eccezioni per atti di malafede). Quindi se i soci vogliono proteggersi completamente da futuri riscossi del Fisco e di altri, un concordato approvato è risolutivo. Di contro, se l’attivo è zero e non c’è modo di offrire una percentuale decente, il concordato fallirebbe e si perderebbe tempo (in quei casi meglio liquidare direttamente e poi gestire le conseguenze individuali). In sintesi: concordato se c’è un piano fattibile e convenienza per i creditori; liquidazione semplice (o fallimento) se non c’è nulla da offrire e si vuole chiudere in fretta. Va aggiunto che in molti casi si tenta prima un accordo stragiudiziale: se la maggior parte dei creditori (incluso il Fisco) accetta un saldo e stralcio privato, si può evitare sia concordato sia fallimento. Però ci vuole l’accordo di tutti, cosa non sempre possibile.
D: Dopo quanti anni si prescrivono i debiti fiscali di una società chiusa?
R: La prescrizione dei debiti tributari segue le regole ordinarie anche se la società è chiusa, non c’è una riduzione dei termini per il fatto che la società si è estinta. Ad esempio, una cartella esattoriale IVA si prescrive in 10 anni se nel frattempo non vengono notificati altri atti interruttivi. La chiusura non abbrevia i termini: anzi, la fictio iuris dei 5 anni serve proprio a permettere al Fisco di notificare atti entro i normali termini di decadenza e prescrizione. In pratica, se la società chiude oggi (2025) con debiti, il Fisco avrà fino a 5 anni per notificare avvisi di accertamento su imposte non ancora accertate (fino al 2030) e poi i consueti termini per riscuotere: di norma, dopo un accertamento definitivo, ha 2 anni per iscrivere a ruolo e notificare cartella, poi la cartella si prescrive in 10 anni, ecc. Una volta che una cartella è stata notificata a soci o liquidatore (quali successori), da lì decorrono i normali termini di prescrizione del tributo (generalmente 10 anni per imposte erariali, salvo atti interruttivi). Dunque non c’è un termine breve “fisso” dopo cui i soci possono stare tranquilli: bisogna monitorare eventuali atti. Possiamo però dire che, trascorsi i 5 anni dalla cancellazione senza che il Fisco abbia notificato nulla ai soci, non potranno più essere iniziate nuove pretese verso soggetti non già destinatari di atti. Se invece entro 5 anni il Fisco ha notificato, ad esempio, un accertamento al socio, allora quell’accertamento segue il suo percorso (diventa cartella, ecc., con prescrizioni decennali). Quindi i soci devono mantenere attiva la difesa almeno per 5 anni, e anche dopo se hanno contenziosi aperti. È prudente conservare i documenti di liquidazione e bilanci almeno 5 anni dalla chiusura (meglio 10), per poterli esibire in caso di contestazioni.
D: Una società estinta da anni può “risorgere” se spuntano beni o debiti dimenticati?
R: No, la società una volta cancellata rimane estinta, non esiste un meccanismo di riapertura della liquidazione oltre certi limiti. Tuttavia, se emergono attività non liquidate o debiti non considerati prima, si crea quella che viene chiamata una sorta di eredità giacente della società estinta. I soggetti che ne beneficerebbero o ne risponderebbero sono sempre i soci (per la parte attiva, proporzionalmente) e i liquidatori (per la parte debiti, se colpevoli). Ad esempio, se dopo la cancellazione si scopre un conto bancario intestato alla società con del denaro, quei soldi spettano ai soci in proporzione (dopo aver eventualmente pagato debiti rimasti). I soci dovrebbero dividerli ma tenendosi la responsabilità verso creditori. Al contrario, se appare un creditore (es. una causa in corso che la società aveva perso) anch’esso potrà agire contro i soci nei limiti di quanto riscosso (se i soci hanno già preso qualcosa). Non c’è quindi una riapertura formale, a meno che… in alcuni casi particolari si può attivare un fallimento postumo entro l’anno, come detto: se la società era insolvente e l’hanno chiusa furbescamente, il tribunale su istanza può dichiarare il fallimento entro 1 anno dalla cancellazione. Oltre quell’anno, la società non può più essere dichiarata fallita o soggetta a concorsuali. In casi eccezionali, alcune corti hanno ammesso la cancellazione d’ufficio dal registro se risultava erroneamente iscritta una società già fallita ecc., ma in generale no. Quindi vale la regola: quod scrutum est, scrutum manet – quel che è fatto è fatto, la società non risorge più. Restano solo gli strascichi verso soci e liquidatori per gestire eventuali residui attivi/passivi.
D: Può essere dichiarato il fallimento (liquidazione giudiziale) di una società già cancellata dal Registro Imprese?
R: Sì, è possibile entro un anno dalla cancellazione, a condizione che la società fosse già insolvente prima della cancellazione. L’art. 33 del CCII (riprendendo l’art. 10 Legge Fallimentare) stabilisce che la liquidazione giudiziale (fallimento) può essere dichiarata anche dopo la cancellazione, purché l’istanza sia proposta entro un anno dalla cancellazione e che l’insolvenza esistesse già al momento dell’estinzione. Questa norma serve a evitare cancellazioni fittizie fatte per sfuggire ai creditori: per un anno i creditori possono ancora ottenere il fallimento “post mortem” della società. Se viene dichiarato, la società è considerata esistente solo per la procedura concorsuale. Il curatore potrà esercitare azioni (es. bancarotta) e i creditori concorsuali verranno accertati. Dopo un anno, invece, i creditori insoddisfatti devono accontentarsi di agire verso soci/liquidatori individualmente (il fallimento non è più apribile). Quindi, chiudere la società non mette completamente al riparo i soci: per un anno il rischio concorsuale rimane. E infatti si consiglia ai soci di non ignorare eventuali istanze di fallimento notificate entro tale termine: se succede, bisognerà gestire il fallimento come se la società fosse ancora “viva”.
D: Chi anticipa le spese della procedura fallimentare? I costi del fallimento chi li paga se la società non ha soldi?
R: Le spese iniziali del fallimento – contributo unificato e fondo spese – sono anticipate da chi presenta l’istanza. Di norma, se un creditore chiede il fallimento, il tribunale spesso gli impone di versare un anticipo (cauzione) di qualche centinaio di euro (500-1000) per pagare notizie, pec, custodie iniziali. Se poi il fallimento trova attivo, il curatore rimborserà quell’anticipo al creditore in prededuzione. Se non c’è attivo, quell’anticipo rimane a carico del creditore istante. Il debitore che chiede l’autofallimento deve pagare contributo unificato €98+ e spesso comunque un fondo se richiesto. Una volta aperta la procedura, tutte le spese e compensi vengono prelevati dall’attivo della massa fallimentare prima di pagare i creditori. Quindi in un certo senso le pagano i creditori (perché riducono ciò che resta per loro). Se l’attivo non basta neanche per i costi, il tribunale può chiudere subito per insufficienza (art. 233 CCII). Il curatore in quei casi prende il compenso minimo garantito dallo Stato (circa €800 più eventuale indennizzo fondo giustizia). Le altre spese legali rimaste in sospeso (es. contributo unificato iniziale) non recuperabili restano a carico dello Stato o dell’istante. In pratica, se il fallimento è capiente, i costi li sopportano i creditori (in termini di minori recuperi); se non è capiente, parte li perde chi li ha anticipati e parte li perde il curatore (che verrà indennizzato solo in minima parte dal Ministero). I soci della società fallita, invece, non devono anticipare nulla a meno che siano essi stessi ad attivare la procedura.
D: Quali sono i costi principali per liquidare volontariamente una SRL?
R: In sintesi, i costi fondamentali di una liquidazione volontaria sono:
- Le spese notarili per la delibera di scioglimento (circa €800-1500) e relative tasse d’atto (registro fisso €200, bolli e diritti ~€100).
- L’onorario del liquidatore nominato (variabile, es. qualche migliaio di euro, se non gratuito).
- Le spese amministrative: depositi bilanci, modulistica (pochi cento euro complessivamente).
- Le spese di consulenza: commercialista per ultime dichiarazioni e conti (anch’esse poche centinaia di euro se semplice).
- Le imposte dovute sulle operazioni di liquidazione: IRES su eventuali plusvalenze (24%), eventuale imposta sostitutiva se si aderisce a regimi agevolati per assegnazione beni, IVA sulle vendite (che però è coperta dagli incassi), imposta di registro se si trasferiscono beni ai soci (9% su immobili, evitabile se venduti a terzi o ridotta al 1.5% con agevolazione 2023-25), imposte di bollo su atti.
- La ritenuta 26% su quanto distribuito ai soci oltre il capitale versato (che non è un costo per la società in senso stretto, ma la società la trattiene e versa per conto dei soci).
In un caso semplice, liquidare una SRL può costare, in totale, nell’ordine di poche migliaia di euro (spesso 3-5 mila). Se ci sono beni ingenti, le imposte su realizzi e distribuzioni diventano la voce di costo prevalente.
D: Quanto tempo ci vuole per liquidare una SRL e cancellarla?
R: La tempistica può variare molto. Se la SRL non ha beni da vendere e pochi debiti, la liquidazione può completarsi in 6-12 mesi. I tempi minimi sono dettati soprattutto dall’attesa legale di 90 giorni per l’approvazione del bilancio finale. Ad esempio, una SRL inattiva che ha solo cassa: in un mese delibera lo scioglimento, in un altro mese paga debiti e prepara bilancio finale, poi deposita e aspetta 90 giorni: in circa 5-6 mesi potrebbe chiudere. Al contrario, se la società possiede immobili da vendere o cause pendenti, può richiedere diversi anni. Vendere un immobile spesso porta la liquidazione a durare 1-2 anni, specialmente se il mercato è lento. In media, la maggior parte delle liquidazioni volontarie di società di capitali in Italia si chiude entro 1-2 anni. Oltre 2 anni avviene solo per casi complessi o negligenza. Invece, la procedura di fallimento dura molto di più: mediamente 7 anni come detto, anche se la speranza è che con le riforme si riduca un po’. In sintesi: se optate per la liquidazione volontaria e tutto fila liscio, mettete in conto circa un anno per vedere la società cancellata. Se le circostanze sono favorevoli, forse qualcosa meno; se ci sono intoppi, fino a due anni. Pianificate comunque almeno alcuni mesi per completare tutti gli step.
Fonti
Normativa civilistica e concorsuale:
- Codice Civile, artt. 2484-2496 c.c. – Disciplina dello scioglimento e liquidazione delle società di capitali.
- D.lgs. 12 gennaio 2019 n.14 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, CCII) – artt. 33 (fallimento entro 1 anno da cancellazione), 2 (definizione insolvenza), 40-47 (iniziativa per liquidazione giudiziale), 121-270 (procedura di liquidazione giudiziale), 213 (programma di liquidazione), 232-233 (chiusura procedura) ecc. In vigore dal 15 luglio 2022, con modifiche apportate da D.lgs. 83/2022 e D.lgs. 83/2022 n. 83, D.lgs. 28/2023 n. 136.
- R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (vecchia Legge Fallimentare) – per cenni storici su compensi curatore e istituti poi confluiti nel CCII.
- D.M. 25 gennaio 2012 n. 30 – Regolamento ministeriale sui compensi dei curatori fallimentari, commissari e liquidatori (scaglioni percentuali).
- Codice Civile, art. 2495 c.c. – Effetti della cancellazione: responsabilità di soci e liquidatori verso creditori insoddisfatti (natura e limiti).
- Codice Civile, art. 2485 c.c. – Obblighi degli amministratori in caso di causa di scioglimento (convocare assemblea senza indugio).
- Codice Civile, art. 2487 c.c. – Nomina e poteri dei liquidatori (delibera assembleare, determinazione compenso).
- Codice Civile, art. 2492-2493 c.c. – Bilancio finale di liquidazione e riparto; reclami dei soci entro 90 giorni.
- D.Lgs. 175/2014, art. 28 co.4 – Norma sulla “sopravvivenza” fiscale quinquennale delle società estinte. (Confermato da Corte Cost. 142/2020).
- Codice Civile, art. 2490 c.c. – Obbligo di bilanci annuali durante la liquidazione (se > 1 anno).
Normativa fiscale:
- DPR 22 dicembre 1986 n. 917 (TUIR – Testo Unico Imposte sui Redditi), art. 182 TUIR – Determinazione del reddito durante la liquidazione (regime previgente con conguaglio, modificato da D.lgs. 192/2024 art.18).
- DPR 917/1986, art. 47 co.7 TUIR – Tassazione degli importi attribuiti ai soci in caso di liquidazione (utili considerati dividendi eccedenti il costo fiscale).
- DPR 917/1986, art. 86, 101 TUIR – Plusvalenze e minusvalenze da realizzo beni in liquidazione (reddito d’impresa).
- DPR 29 settembre 1973 n. 602, art. 36 – Responsabilità di soci e liquidatori per pagamento imposte della società estinta.
- Legge 29 dicembre 2022 n. 197 (Legge di Bilancio 2023), art. 1 commi 100-105 – Regime di assegnazione agevolata beni ai soci (imposta sostitutiva 8-10.5%, riduzione registro). Prorogato dalla Legge 23 dicembre 2024 n. 205 (L. Bilancio 2025) art.1 commi 31-36.
- DPR 26 ottobre 1972 n. 633 (IVA), art. 74-bis – Vendite di beni effettuate dal curatore fallimentare (soggettività IVA della procedura).
- D.Lgs. 9 luglio 1997 n. 241, art. 6 – Prevede esonero sanzioni e interessi per liquidatori che pagano debiti tributari in prelazione (non approfondito sopra, ma normativa sul punto).
Giurisprudenza e prassi:
- Cass., Sez. Unite, 12 febbraio 2025 n. 3625 – Responsabilità dei soci per debiti tributari di società estinta: condizione dell’aver riscosso somme in base al bilancio finale; estensione a somme ricevute extra bilancio; onere probatorio a carico Fisco.
- Cass., Sez. Unite, 22 febbraio 2010 n. 4060 – (meno recente, ma fondamentale) afferma natura limitata e aquiliana della responsabilità ex art. 2495 c.c. di soci e liquidatori; i soci rispondono solo entro attivo ricevuto.
- Cass., Sez. I, 13 dicembre 2013 n. 27854 – Conferma che sanzioni tributarie non si trasmettono ai soci ex art. 2495 c.c., trattandosi di obbligazioni “personali” della società estinta (orientamento tradizionale).
- Cass., Sez. V, 5 ottobre 2018 n. 24533 – In senso conforme: no trasmissione sanzioni tributarie ai soci, salvo diversa previsione normativa.
- Cass., Sez. III Penale, 15 novembre 2018 n. 39765 – Caso penale: omesso versamento contributi INPS oltre soglia configurato come reato a carico amministratore. (Conferma rischi penali a prescindere dalla liquidazione).
- Corte Costituzionale 8 luglio 2020 n. 142 – Legittimità costituzionale dell’art. 28 co.4 D.lgs. 175/2014 (fissazione 5 anni di sopravvivenza fiscale) confermata: non irragionevole bilanciamento.
- Tribunale di Milano, 21 marzo 2019 – Caso di concordato preventivo omologato per SRL liquidatoria: conferma che dopo l’omologa i creditori non possono agire oltre quanto previsto dal piano (esdebitazione sostanziale).
- Agenzia Entrate – Risposta a interpello n. 163/2023 – Chiarimenti su applicazione art. 47 co.7 TUIR in caso di recesso socio (analogia con liquidazione).
- Circolare Agenzia Entrate n. 47/E del 18 giugno 2008 – Quesiti vari sulla tassazione in capo ai soci di somme da liquidazione e recesso; conferma che art. 47(7) TUIR va applicato globalmente.
- Principio Contabile OIC 5 (Organismo Italiano di Contabilità) – “Liquidazione dell’impresa”, ed. 2019: linee guida su scritture di liquidazione (ad es. fondo oneri).
- Unioncamere – Guida rapida agli adempimenti per scioglimento e liquidazione (es. dispensa Camera di Commercio di Roma, aggiornata 2022) – illustra modulistica (Comunica, modelli S3, S5) e tempistiche camerali.
- Osservatorio Cerved su Fallimenti e Procedure 2023 – Dati statistici: durata media fallimenti ~7 anni; aumento aperture liquidazioni giudiziali 2023 vs 2022 (+7.1%).
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