Debiti Commerciali e Finanziari: Cosa Sono, Cosa Fare e Come Uscirne

La tua impresa, la tua attività o la tua situazione personale è appesantita da debiti con fornitori, banche, finanziarie o leasing?
Hai difficoltà a sostenere i pagamenti e temi conseguenze come protesti, segnalazioni o pignoramenti?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto d’impresa, sovraindebitamento e risanamento finanziario – ti spiega cosa sono i debiti commerciali e finanziari, come riconoscerli, quali sono i rischi se non li gestisci in tempo e quali strumenti legali puoi usare per risolverli, anche senza fallire.

Scoprirai:

  • La differenza tra debiti commerciali (verso fornitori, consulenti, collaboratori) e debiti finanziari (mutui, leasing, fidi, prestiti con banche o società finanziarie);
  • Quali sono i segnali di una situazione a rischio: ritardi nei pagamenti, blocchi di credito, solleciti, decreti ingiuntivi, segnalazioni CRIF o Centrale Rischi;
  • Come agire tempestivamente per evitare l’escalation, proteggere l’azienda o il tuo patrimonio personale e negoziare piani di rientro sostenibili;
  • Quali strumenti puoi utilizzare nel 2025:
    Accordi stragiudiziali con i creditori
    Ristrutturazione del debito tramite il Codice della Crisi
    Concordato minore o preventivo in continuità
    Composizione negoziata della crisi per evitare l’insolvenza
  • Come ottenere misure protettive legali per bloccare pignoramenti, protesti e azioni esecutive mentre costruisci una strategia di uscita ordinata e sostenibile.

Con un piano ben costruito, supportato da professionisti esperti, puoi evitare il fallimento, proteggere i tuoi beni, mantenere in piedi l’attività e ripartire in modo solido e legale.

Alla fine della guida potrai richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo, analizzare la tua situazione debitoria e ricevere un parere concreto su come uscire dai debiti commerciali e finanziari, senza lasciare spazio all’improvvisazione o alla paura.

Debiti Commerciali e Finanziari: Cosa Sono, Cosa Fare e Come Uscirne

Introduzione

Il tessuto imprenditoriale italiano sta affrontando una ripresa dei fallimenti aziendali e delle situazioni di insolvenza dopo la tregua temporanea dovuta alle misure emergenziali pandemiche. Secondo l’Osservatorio Cerved, nel 2024 si è registrato un picco di procedure concorsuali con un aumento del +17,2% rispetto al 2023 (da 7.848 a 9.194 casi). In particolare, i settori delle costruzioni e dell’industria manifatturiera hanno subito gli incrementi maggiori di insolvenze (+25,7% e +21,2% rispettivamente), mentre il comparto dei servizi resta quello con il maggior numero assoluto di procedure aperte. Questi dati evidenziano come l’indebitamento e le crisi d’impresa siano fenomeni in crescita, richiedendo interventi efficaci e tempestivi per evitare la perdita di aziende e posti di lavoro.

Le cause alla base di tali difficoltà finanziarie sono molteplici. Da un lato, l’aumento dei costi energetici e dei tassi di interesse e il calo del potere d’acquisto hanno messo sotto pressione i margini di molte imprese. Dall’altro lato, persistono ritardi nei pagamenti lungo la filiera: nel 2023 il 54% delle aziende italiane ha segnalato problemi di incassi tardivi (contro una media UE del 47%), con un peggioramento soprattutto nei settori dei servizi e della manifattura. Spesso le PMI accettano termini di pagamento più dilatati per non compromettere i rapporti commerciali, generando un effetto domino di ritardi a catena; oltre il 60% delle imprese in difficoltà di accesso al credito subisce a sua volta ritardi dagli incassi, in un circolo vizioso che aggrava la mancanza di liquidità. In questo contesto, molti imprenditori si trovano a fronteggiare debiti commerciali (verso fornitori e altri creditori privati) e debiti finanziari (verso banche e finanziatori) sempre più onerosi, spesso accompagnati da esposizioni verso il Fisco e gli enti previdenziali.

Questa guida, aggiornata a maggio 2025, fornisce un quadro completo e operativo su cosa si intende per debiti commerciali e finanziari, e soprattutto illustra cosa fare e come uscirne in modo legale ed efficace. Il taglio sarà avanzato e professionale, ma con linguaggio chiaro e divulgativo, adatto sia a professionisti legali (avvocati, consulenti) sia a imprenditori e dirigenti d’azienda che devono gestire situazioni di indebitamento. Verranno trattati sia i debiti d’impresa che quelli personali dei soci, riconoscendo che spesso le crisi aziendali coinvolgono anche il patrimonio personale degli imprenditori (ad esempio a causa di garanzie personali prestate alle banche).

Dedicheremo un focus ai principali settori economici italiani – edilizia, commercio, industria e servizi – evidenziando le peculiarità dell’indebitamento e delle crisi finanziarie in ciascun ambito. Saranno analizzate in dettaglio le soluzioni stragiudiziali (accordi negoziali con banche e fornitori, piani di rientro, mediazione) e le soluzioni giudiziali (procedure concorsuali come concordato preventivo, liquidazione giudiziale, ristrutturazione del debito omologata) oggi disponibili nell’ordinamento italiano. La guida terrà conto delle più recenti riforme normative, in particolare dell’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 14/2019, operativo dal 2022 – che ha introdotto strumenti innovativi improntati ai principi europei di ristrutturazione precoce e “seconda opportunità” per il debitore meritevole. Saranno citate le sentenze più aggiornate della giurisprudenza (Corte di Cassazione e corti di merito) rilevanti in materia, nonché riferimenti alla normativa vigente al maggio 2025.

L’obiettivo è fornire un vademecum pratico su cosa fare di fronte a debiti commerciali e finanziari insostenibili: capire quali sono le opzioni concrete per risanare l’azienda o trovare un accordo con i creditori, quali procedure attivare per proteggersi dalle azioni esecutive e come giungere, nei casi estremi, a liberarsi dei debiti non pagati in modo legale (esdebitazione). Il tutto verrà illustrato con simulazioni pratiche (casi di esempio) relative a debiti verso fornitori, banche e Fisco, per mostrare come gli strumenti teorici si applicano nella realtà. Non mancheranno tabelle riepilogative per confrontare le diverse soluzioni e una sezione finale di Domande & Risposte per chiarire i dubbi più frequenti.

Iniziamo dunque con le definizioni essenziali, distinguendo tra debiti di natura commerciale e debiti di natura finanziaria, per poi addentrarci nelle strategie di gestione del debito e di uscita dalla crisi, a livello sia aziendale che personale.

Debiti Commerciali vs. Debiti Finanziari: definizioni e caratteristiche

Nel linguaggio economico-giuridico distinguiamo comunemente tra debiti commerciali e debiti finanziari. Pur rappresentando entrambi delle obbligazioni di pagamento a carico dell’impresa (o dell’imprenditore), essi hanno origine e natura differenti:

  • Debiti commerciali: sono le passività contratte nell’ambito dell’attività commerciale ordinaria dell’azienda. Rientrano in questa categoria i debiti verso fornitori per l’acquisto di beni e servizi, i debiti verso prestatori d’opera o consulenti, i debiti verso altri partner commerciali (ad esempio canoni di locazione arretrati, royalties, bollette non pagate a fornitori di utenze, ecc.). Si tratta quindi di obbligazioni nate da transazioni commerciali, normalmente non assistite da garanzie reali e con scadenze spesso a breve termine (30-120 giorni tipicamente nelle forniture). In bilancio queste voci sono classificate come debiti di funzionamento o debiti operativi, e costituiscono parte del capitale circolante dell’azienda. Un eccesso di debiti commerciali insoluti può portare a tensioni di liquidità ed eventualmente ad azioni legali da parte dei creditori (ingiunzioni di pagamento, pignoramenti, istanze di fallimento). È importante notare che i debiti commerciali spesso derivano da dilazioni di pagamento concordate con i fornitori; i ritardi nei pagamenti della clientela a monte (crediti commerciali non incassati) possono propagarsi a valle, generando il citato effetto domino lungo la filiera.
  • Debiti finanziari: sono le esposizioni derivanti dalla raccolta di finanziamenti per sostenere l’attività d’impresa. Includono i debiti verso banche (mutui, finanziamenti chirografari, scoperti di conto corrente, anticipo fatture, leasing), i debiti verso altri intermediari finanziari (società di leasing, factoring, ecc.), nonché eventuali obbligazioni o titoli di debito emessi dall’azienda sul mercato. Queste passività hanno normalmente natura finanziaria perché derivano da contratti di finanziamento: sono spesso assistite da garanzie (reali come ipoteche e pegni, o personali come fideiussioni dei soci) e hanno scadenze medio-lunghe, con un piano di ammortamento del capitale e pagamento di interessi. In bilancio sono indicati come debiti finanziari a breve o a medio/lungo termine a seconda della scadenza. Un tratto peculiare dei debiti finanziari è che il mancato rispetto delle rate può portare a decadenza dal beneficio del termine e all’azione immediata del creditore per il recupero (ad esempio la banca può revocare gli affidamenti o chiedere il rimborso integrale in caso di insolvenza). Inoltre, l’esposizione finanziaria eccessiva comporta oneri di interesse elevati, che aggravano la situazione di squilibrio se l’EBITDA aziendale non riesce a coprirli.

Accanto a queste due macro-categorie, è utile menzionare altre tipologie di debiti che spesso gravano sulle imprese e sugli imprenditori:

  • Debiti tributari e previdenziali: sono i debiti verso lo Stato, l’erario e gli enti come INPS e casse previdenziali professionali. Comprendono imposte non versate (IVA, imposte dirette), ritenute non pagate, contributi previdenziali e premi assicurativi (INAIL) arretrati, nonché cartelle esattoriali emesse dall’Agente della Riscossione. Queste posizioni debitorie, pur non rientrando strettamente tra i “commerciali” o “finanziari”, costituiscono spesso una parte rilevante dell’indebitamento totale dell’impresa in crisi. Hanno caratteristiche proprie: sono crediti privilegiati per legge (cioè con preferenza nel rimborso in caso di insolvenza) e la loro riscossione è affidata a procedure amministrative (fermo amministrativo, ipoteche esattoriali, pignoramenti, ecc.) con norme speciali. La gestione dei debiti fiscali è delicata, poiché lo Stato può concedere rateizzazioni standard o definizioni agevolate (rottamazioni), ma in linea di massima esige il pagamento integrale salvo accordi nell’ambito di procedure concorsuali (transazione fiscale, v. oltre).
  • Debiti verso soci o parti correlate: talvolta un’impresa presenta debiti formali verso i propri soci, ad esempio per finanziamenti soci infruttiferi concessi in passato, o verso società controllanti/collegate (in gruppi d’impresa). In situazioni di crisi, questi debiti assumono carattere postergato (subordinato) rispetto agli altri crediti, in forza di norme codicistiche che prevedono la postergazione dei finanziamenti dei soci nelle società di capitali in determinate condizioni (art. 2467 c.c. per le S.r.l.). Ciò significa che il loro rimborso è subordinato alla soddisfazione degli altri creditori non postergati. In pratica, il socio finanziatore viene “dopo” gli altri creditori nel recupero dei propri crediti verso la società in difficoltà.

In sintesi, un’azienda in crisi può trovarsi con una combinazione di debiti commerciali e finanziari arretrati, a cui si aggiungono spesso debiti fiscali e verso altri stakeholder. Questa distinzione è importante perché il tipo di debito influisce sulle strategie di gestione: ad esempio, i debiti bancari possono essere rinegoziati con piani di rientro o ridefinizione dei tassi, mentre per i debiti verso fornitori si può cercare un accordo transattivo “a saldo e stralcio” o una dilazione informale. I debiti tributari richiedono strumenti specifici (dilazioni ex lege, richieste di definizione agevolata, o il ricorso a procedure concorsuali con transazione fiscale). Nel prosieguo della guida vedremo come affrontare ciascuna categoria nell’ambito di un piano generale di risanamento. Prima, però, è fondamentale capire la differenza tra debiti dell’impresa e debiti personali dei soci o degli imprenditori, perché da essa dipendono le tutele e le procedure attivabili.

Debiti d’impresa vs. debiti personali dei soci

Un aspetto cruciale da chiarire è la distinzione tra i debiti contratti dalla società o dall’attività di impresa in sé, e i debiti che gravano sul patrimonio personale degli imprenditori o dei soci. In generale, nel diritto italiano vale il principio della separazione patrimoniale nelle società di capitali: la società (S.r.l., S.p.A., S.a.p.a.) è un soggetto giuridico distinto e risponde dei propri debiti solo con il suo patrimonio; i soci non sono responsabili delle obbligazioni sociali oltre il capitale conferito, salvo casi eccezionali. Viceversa, nelle società di persone (S.n.c., S.a.s.), i soci hanno responsabilità personale e illimitata (in solido) per le obbligazioni sociali – illimitata per tutti i soci nella S.n.c., e per i soli soci accomandatari nella S.a.s. – il che significa che i creditori possono rivalersi anche sui beni personali dei soci se il patrimonio sociale non è sufficiente.

Tuttavia, anche nelle società di capitali la distinzione tra debito della società e debito personale del socio può attenuarsi in vari scenari pratici:

  • Fideiussioni e garanzie personali: Molto spesso, soprattutto nelle PMI, le banche concedono finanziamenti alla società solo se uno o più soci (tipicamente l’imprenditore di riferimento) firmano una fideiussione personale o concedono una ipoteca su un immobile di loro proprietà a garanzia del debito della società. In caso di insolvenza della società, la banca potrà escutere la garanzia, rivalendosi direttamente sul socio garante. Ciò trasforma di fatto un debito “d’impresa” in un debito personale del socio (o comunque espone anche il socio all’azione esecutiva). Ad esempio, se Alfa S.r.l. non paga le rate di mutuo, la banca potrà aggredire l’abitazione del socio che aveva prestato garanzia fideiussoria. Nella pratica, dunque, il fallimento (liquidazione giudiziale) di una società spesso innesca problemi di indebitamento personale per i soci garanti.
  • Imprese individuali e piccoli imprenditori: Molte attività economiche in Italia sono esercitate in forma di ditta individuale (impresa individuale) o di società di fatto. In tali casi non c’è separazione tra patrimonio dell’impresa e quello dell’imprenditore: tutti i debiti dell’attività sono automaticamente debiti della persona fisica titolare. Un artigiano o un commerciante individuale che accumula debiti commerciali o con le banche risponderà con tutti i propri beni personali. Lo stesso vale per i liberi professionisti e per gli imprenditori agricoli, che per legge non sono soggetti né al fallimento né al nuovo CCII se di dimensioni piccole, ma che comunque possono indebitarsi e subire azioni esecutive personali.
  • Responsabilità per mala gestio: In alcune situazioni estreme, i soci o amministratori possono diventare personalmente responsabili dei debiti dell’impresa, ad esempio per fatti illeciti o violazioni di legge. Un caso tipico è il mancato versamento di ritenute fiscali o contributi previdenziali dovuti: l’amministratore può incorrere in sanzioni personali (talora anche penali) e l’Erario può agire contro di lui in certi casi (ad esempio, per le sanzioni tributarie non coperte dal patrimonio sociale). Ancora, in caso di patrimonio sociale insufficiente per pagare i debiti, possono emergere azioni di responsabilità verso gli amministratori o soci (es. per aver aggravato il dissesto); ma queste sono situazioni particolari e non ampliano in via generale la responsabilità per i debiti, se non in presenza di comportamenti censurabili (come pagamenti preferenziali, distrazione di beni, continuazione abusiva dell’attività in perdita, ecc.).
  • Finanziamenti soci postergati: Come accennato prima, se i soci hanno prestato denaro alla società in difficoltà finanziaria anziché ricapitalizzarla, la legge (art. 2467 c.c. per S.r.l.) prevede che in caso di fallimento quei crediti dei soci verso la società siano soddisfatti dopo gli altri crediti (postergazione). Ciò significa che i soci, di fatto, perdono la possibilità di recuperare quei fondi finché tutti gli altri creditori non siano stati integralmente pagati. Anche se non è un “debito personale” in senso stretto, è un aspetto da tenere presente: il socio finanziatore non potrà rivalersi facilmente.

Perché è importante distinguere i debiti personali da quelli d’impresa? Perché il quadro normativo italiano offre strumenti diversi a seconda della natura del soggetto debitore:

  • Una società commerciale in stato di insolvenza è assoggettabile alle procedure concorsuali ordinarie previste dal Codice della Crisi (concordato preventivo, liquidazione giudiziale, accordi di ristrutturazione, ecc.), purché superi certe soglie dimensionali (vedi paragrafo successivo). In tali procedure, la società può ristrutturare o liquidare il proprio patrimonio per soddisfare i creditori, e al termine il debitore-società viene estinto (nel caso di liquidazione) o liberato residualmente dai debiti secondo la legge.
  • Un individuo (persona fisica) o una piccola impresa sotto le soglie di fallibilità, invece, non può accedere a concordato preventivo o fallimento tradizionale, ma ricade nella disciplina del sovraindebitamento (oggi integrata nel CCII). Il Codice della Crisi prevede procedure ad hoc per questi soggetti: ad esempio il concordato minore, il piano di ristrutturazione del consumatore (piano del consumatore) e la liquidazione controllata (analoga al vecchio fallimento personale). Queste procedure permettono anche ai debitori civili e ai piccoli imprenditori di regolamentare i debiti e ottenere l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) a fine procedura. Approfondiremo più avanti tali strumenti, destinati appunto al debitore persona fisica sovraindebitato o all’imprenditore che non rientra nell’ambito del fallimento.
  • I soci garanti che si trovino oberati da debiti a seguito dell’escussione di fideiussioni o di altre obbligazioni personali, a loro volta possono aver bisogno di gestire questo indebitamento personale. Se sono consumatori (cioè non imprenditori) potranno ricorrere al piano del consumatore o alla liquidazione controllata del patrimonio; se sono essi stessi imprenditori (ad esempio socio di S.n.c. illimitatamente responsabile, o ex imprenditore fallito con debiti residui) potranno accedere a procedure di esdebitazione individuale previste dalla legge.

Riassumendo, debiti d’impresa e debiti personali dei soci possono coesistere e intrecciarsi, ma la legge li tratta in modo distinto. È fondamentale, per un consulente legale o un imprenditore, mappare correttamente quali debiti ricadono sull’azienda e quali sul singolo, così da attivare la soluzione più appropriata per ciascuno. Nel prosieguo, esamineremo sia le strategie di gestione del debito aziendale (rivolte alla salvaguardia o liquidazione ordinata dell’impresa) sia gli strumenti per la persona fisica sovraindebitata, assicurando una panoramica completa.

Le cause dell’indebitamento e la crisi per settore

Le ragioni per cui un’impresa accumula debiti e scivola in una condizione di crisi sono spesso settore-specifiche, pur esistendo fattori comuni come la congiuntura economica, l’aumento dei costi o la carenza di liquidità. Analizziamo brevemente le cause tipiche di indebitamento e insolvenza nei principali settori dell’economia italiana:

Settore Edilizia e Costruzioni

L’edilizia è storicamente un settore soggetto a marcati cicli economici e, negli ultimi tempi, a notevoli sconvolgimenti normativi. Molte imprese edili si sono indebitate durante il boom legato agli incentivi edilizi (es. Superbonus 110%) per poi trovarsi con crediti fiscali bloccati e carenza di liquidità. I ritardi nei pagamenti sono endemici nel settore pubblico e privato delle costruzioni: spesso le imprese general contractor attendono mesi (talora oltre i 200 giorni) per incassare dai committenti, mentre devono pagare regolarmente subappaltatori e fornitori. Ciò genera un cronico squilibrio di cassa. Nel 2022-2023, l’aumento esponenziale dei costi delle materie prime e dell’energia ha eroso i margini dei cantieri in corso, portando molte imprese a chiedere varianti in corso d’opera o ad accumulare perdite. Inoltre, le continue modifiche normative sui bonus edilizi e gli adempimenti burocratici hanno creato incertezza: la stretta sulla cedibilità dei crediti fiscali nel 2023 ha lasciato migliaia di imprese con crediti incagliati e fornitori da pagare. Tra le cause frequenti di indebitamento nel settore vi sono quindi:

  • Mancati pagamenti della PA o di grandi committenti (opere eseguite ma pagamenti dilazionati o bloccati da contenziosi).
  • Anticipi bancari su SAL (stato avanzamento lavori): le banche anticipano crediti su lavori in corso, ma se l’opera ritarda o il SAL non viene certificato, l’impresa resta esposta finanziariamente.
  • Investimenti in macchinari e mezzi spesso finanziati a debito (leasing, mutui) che gravano sui costi fissi.
  • Contenziosi legali e penali (ad esempio su sicurezza cantieri o vizi dell’opera) che comportano esborsi imprevisti o riserve non riconosciute.
  • Calo della domanda immobiliare o contrazione dei mutui all’acquisto, che rallentano la vendita di unità immobiliari costruite e riducono la liquidità delle imprese edilizie.

Il risultato è che nel 2024 le costruzioni hanno visto un forte aumento dei default (+25,7% fallimenti). Per uscire dalla crisi in questo settore, spesso si ricorre a concordati preventivi in continuità (per ristrutturare il debito mantenendo le commesse in corso), o a accordi di ristrutturazione con banche e fornitori strategici. Un ruolo cruciale lo giocano le transazioni con il Fisco per gestire i debiti IVA e ritenute: l’Agenzia delle Entrate, se coinvolta in un piano concordatario credibile, può accettare il pagamento parziale del dovuto (transazione fiscale, v. oltre) quando la prospettiva liquidatoria sarebbe ancor peggiore.

Settore Commercio (Distribuzione e Retail)

Il commercio al dettaglio e la distribuzione stanno affrontando cambiamenti epocali dovuti all’avvento dell’e-commerce, ai mutati comportamenti dei consumatori e, più di recente, all’inflazione che deprime i consumi. Molti esercizi commerciali (negozi, catene retail) accumulano debiti quando i ricavi calano ma i costi fissi rimangono alti. Tra le cause tipiche di indebitamento nel commercio troviamo:

  • Canoni di locazione elevati per negozi e punti vendita, spesso garantiti personalmente dai negozianti. Un calo di fatturato rende difficile onorare tutti gli affitti, generando morosità.
  • Magazzino invenduto: il settore moda, ad esempio, rischia di trovarsi con collezioni invendute che immobilizzano capitale. Per finanziare gli acquisti di merce, molti commercianti fanno ricorso a scoperti di conto o finanziamenti bancari stagionali; se le vendite deludono, il debito verso la banca resta.
  • Concorrenza online e compressione dei margini: per tenere i prezzi competitivi, molti negozi vendono con margini bassi e fanno fatica a coprire le spese generali, finendo per usare dilazioni con fornitori come forma di finanziamento.
  • Ritardi nell’IVA e tasse: nei periodi di crisi di liquidità, è frequente che il negoziante rinvii il versamento dell’IVA trimestrale o annuale, o delle imposte sui redditi, utilizzando di fatto il Fisco come “finanziatore” involontario. Questo genera debiti tributari con sanzioni e interessi.

Un esempio emblematico è quello di una piccola catena di negozi di abbigliamento (come vedremo nella Simulazione Beta SNC): investimenti di espansione finanziati a debito, seguiti da un calo di vendite per la concorrenza dell’online, hanno portato a debiti bancari da 500.000 € e arretrati con fornitori e proprietari dei locali. In questi casi, le soluzioni possono consistere in:

  • Ridimensionamento dell’attività: chiudere i punti vendita non redditizi, per ridurre i costi fissi (affitti, personale).
  • Accordi con le banche: ad esempio vendere eventuali asset (immobili dei soci dati in garanzia) per rimborsare in parte il debito e chiedere una rinegoziazione sul residuo (allungamento del mutuo, periodo di moratoria).
  • Accordi con i fornitori: proporre un piano di rientro per i debiti pregressi, spesso accettando di pagarne una parte e chiedendo uno stralcio (rinuncia) sul resto, magari in cambio della continuità delle forniture (i fornitori preferiscono spesso recuperare il 50% piuttosto che rischiare zero in un fallimento).
  • Trattative con i locatori: sia per chiudere i contratti in anticipo trovando un nuovo inquilino (mitigando le penali), sia per ottenere temporanei sconti sui canoni nei negozi che restano aperti.
  • Piani attestati o concordati minori: nel caso di piccoli commercianti sotto soglia, spesso la via migliore è un piano attestato di risanamento (se si riesce a coinvolgere la banca e i fornitori in accordi spontanei) o, se serve una moratoria più incisiva, un concordato minore o piano del consumatore (se il titolare è persona fisica) che permetta di bloccare le azioni esecutive e diluire i pagamenti.

Settore Industriale (Manifatturiero)

Le imprese industriali – dal metalmeccanico, al tessile, all’alimentare – tendono ad avere strutture di costo importanti, con elevati costi fissi e necessità di investimento continuo. L’indebitamento può sorgere per finanziare impianti, macchinari e scorte, ma diventa problematico quando vi è:

  • Calo della domanda o delle commesse: ad esempio nel settore automotive o moda, un calo degli ordini su scala globale (dovuto a crisi di settore, pandemia, concorrenza estera) può lasciare aziende con capacità produttiva inutilizzata e debiti accumulati per espandersi in previsione di vendite poi non realizzate.
  • Incremento dei costi delle materie prime: come visto nel biennio 2021-2022, rincari eccezionali di acciaio, plastica, energia ecc. possono far lievitare il capitale circolante finanziato a debito. Molte PMI hanno fatto ricorso a più affidamenti bancari per comprare materie prime divenute carissime, sperando di ribaltare i costi sui clienti, ma contratti a prezzo fisso o mercati poco elastici hanno eroso la marginalità.
  • Struttura finanziaria inadeguata: alcune imprese industriali, specie a conduzione familiare, si finanziano troppo con debito a breve (scoperti bancari, anticipi fatture) e poco con mezzi propri. Ciò le espone a crisi se le banche restringono i fidi o revocano gli affidamenti in periodi di difficoltà (il cosiddetto “credit crunch”).
  • Internazionalizzazione mal calibrata: investimenti in filiali estere o in acquisizioni possono generare debiti se non supportati da adeguati flussi di cassa. Inoltre, il rischio cambio e credito su mercati esteri aggiunge ulteriori incognite.

Nel 2024 l’industria ha visto un aumento significativo dei default (+21,2%), con punte in settori specifici come la metallurgia e il tessile-moda, segno di tensioni accumulate. Per un’azienda manifatturiera indebitata le opzioni di uscita dalla crisi includono:

  • Ristrutturazione operativa: dismissione di rami d’azienda non redditizi, chiusura di stabilimenti o linee di prodotto in perdita, licenziamenti o cassa integrazione per ridurre il costo del lavoro. Queste misure spesso accompagnano il piano finanziario di rientro.
  • Ricapitalizzazione o ingresso di investitori: i soci, se possibile, dovrebbero apportare nuova finanza (equity) per ridurre l’indebitamento. In alternativa, si può cercare un investitore esterno o un partner industriale disposto a immettere capitali (magari rilevando una quota). Come nell’esempio di Alfa S.r.l., i soci hanno deciso un aumento di capitale di 1 milione di euro per pagare debiti urgenti e rafforzare i mezzi propri.
  • Rinegoziazione del debito bancario: ad esempio trasformare esposizioni a breve in mutui a medio termine, ottenere periodi di preammortamento (nessuna quota capitale per i primi 6-12 mesi) e riduzione dei tassi o spread. Le banche spesso richiedono garanzie aggiuntive su asset aziendali (pegno su macchinari, ipoteca su capannoni) o garanzie statali (come il Fondo Centrale) per accettare la ristrutturazione.
  • Concordati preventivi o accordi di ristrutturazione: se l’indebitamento è molto diffuso e c’è bisogno di un taglio significativo del debito, l’azienda può ricorrere al concordato preventivo in continuità, offrendo ai creditori un pagamento parziale con prosecuzione dell’attività. In alternativa, un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (ex art. 57 CCII) con il 60% dei creditori aderenti può vincolare anche gli eventuali dissenzienti e assicurare un effetto stay (blocco delle azioni esecutive durante le trattative). L’industria, specie se di media-grande dimensione, può beneficiare di tali strumenti formali per gestire creditori numerosi (banche, fornitori, fisco) in modo unitario.
  • Efficientamento e dismissioni: vendita di asset non strategici per fare cassa (immobili, brevetti non core, partecipazioni). Nell’esempio Alfa, l’azienda pianifica di vendere un capannone non strategico dal valore di 700 mila € per recuperare liquidità. Spesso, vendere beni aziendali fuori dalla procedura concorsuale può essere più efficiente (si evita la svalutazione da liquidazione forzata); però occorre tempo e accordo dei creditori, altrimenti in concordato si può vendere con autorizzazione del tribunale in modo più spedito.

Settore Servizi

Il terziario è un settore molto ampio, che va dai servizi alle imprese (consulenza, logistica, informatica) ai servizi alle persone (turismo, ristorazione, wellness) fino ai servizi professionali. Le imprese di servizi, spesso PMI o microimprese, tipicamente hanno meno immobilizzazioni e più costi variabili legati al personale. Tuttavia, anche qui si riscontrano cause di indebitamento specifiche:

  • Mancati incassi da clienti: società di consulenza o IT che lavorano con clienti più grandi possono subire ritardi notevoli nei pagamenti delle fatture. L’assenza di beni tangibili su cui fare cassa rende la liquidità il tallone d’Achille: se i crediti verso clienti si allungano, l’azienda di servizi deve finanziarsi per pagare stipendi e contributi. Molte accumulano debiti IVA o IRPEF dipendenti non versati per tamponare le uscite.
  • Dipendenza da pochi clienti: se un’azienda di servizi ha un portafoglio concentrato (pochi grandi clienti) ed uno di questi interrompe i contratti o ritarda i pagamenti, l’effetto sul cash flow è diretto e pesante. Si rischia di dover comunque sostenere i costi del personale benché i ricavi calino, indebitandosi nel frattempo.
  • Investimenti anticipati: ad esempio, nel turismo alberghiero si investe per ristrutturare o ampliare con finanziamenti, contando su flussi futuri di turisti. Una pandemia o un calo di presenze può lasciare l’operatore con rate di mutuo da pagare e fatturato insufficiente.
  • Errata valutazione dei costi: nei servizi professionali (es. studi associati) o di costruzione software, è frequente sottostimare i tempi e costi di progetto. Il risultato è che si incassa meno di quanto speso in ore lavoro, generando perdita e debiti per finanziare la differenza.

Nel 2024 il terziario ha avuto il maggior numero di casi di default in assoluto (35% del totale), anche se gli aumenti percentuali sono stati più contenuti rispetto a industria e costruzioni. Questo indica una diffusa fragilità tra le piccole imprese di servizi. Per loro, spesso la strada è:

  • Negoziare dilazioni con il Fisco e gli enti previdenziali per i contributi arretrati (adesione a piani di rateazione standard fino a 72 rate, se possibile).
  • Ridurre la struttura di costo (rinuncia a sedi costose, passaggio al lavoro da remoto, esternalizzare funzioni non essenziali).
  • Composizione negoziata o piani di risanamento assistiti da esperti: molte imprese di servizi possono evitare il fallimento attivando per tempo una composizione negoziata della crisi (si veda oltre), dove un esperto aiuta a trovare un accordo con creditori magari prima che la situazione precipiti.
  • Se il debito è ormai troppo alto, ricorrere a procedure come il concordato semplificato (ad esempio per chiudere un’attività di ristorazione irrimediabilmente compromessa, liquidando quel poco che c’è e ottenendo l’esdebitazione). Oppure, per il professionista individuale sommerso dai debiti, presentare un piano del consumatore al tribunale, cercando di conservare la propria attività professionale mentre si falcidia il debito pregresso in eccesso.

In conclusione, ogni settore ha le sue dinamiche di crisi ma il filo conduttore è la perdita di equilibrio finanziario (più uscite che entrate, più debiti che capacità di rimborso) per cause interne o esterne. Nel prossimo capitolo vedremo come affrontare tali situazioni tramite gli strumenti stragiudiziali di risanamento e rinegoziazione del debito, cercando di evitare – ove possibile – il ricorso alle aule di giustizia. Successivamente, analizzeremo le soluzioni giudiziali disponibili quando l’accordo stragiudiziale non è sufficiente o non riesce.

Soluzioni stragiudiziali per gestire i debiti

Quando un’impresa (o un imprenditore) si trova in difficoltà nel far fronte ai propri debiti, la prima linea di azione dovrebbe essere quella stragiudiziale, ovvero tentare di trovare un accordo con i creditori al di fuori delle procedure formali concorsuali. Le soluzioni stragiudiziali hanno il vantaggio di essere generalmente più snelle, riservate e potenzialmente meno costose e traumatiche rispetto a un procedimento giudiziario. Tuttavia, richiedono la disponibilità e collaborazione dei creditori. Vediamo i principali strumenti e approcci:

Rinegoziazione con le banche e istituti finanziari

Le banche sono spesso i creditori più rilevanti (per mutui, finanziamenti e linee di credito) e hanno strumenti interni per gestire crediti deteriorati. Un’azienda in difficoltà può avviare un dialogo con gli istituti finanziatori per rinegoziare il debito bancario. Le forme di rinegoziazione possono includere:

  • Moratoria sui pagamenti: ottenere dalla banca una sospensione temporanea delle rate di mutuo o leasing (tipicamente sulla quota capitale) per 6-12 mesi, al fine di avere respiro finanziario immediato. Spesso concessa se la crisi è congiunturale e c’è fiducia nella ripresa.
  • Allungamento delle scadenze: prolungare la durata del finanziamento (ad es. un mutuo da 5 a 8-10 anni), così da ridurre l’importo delle rate periodiche. In tal caso aumenta il costo totale degli interessi, ma si guadagna sostenibilità nel breve termine.
  • Ridefinizione del tasso: in alcuni casi la banca può ridurre lo spread o rinegoziare il tasso di interesse (es. passando da variabile a fisso o viceversa) se ciò aumenta la probabilità di recuperare il capitale. Nel 2023-2024, con i tassi d’interesse in forte rialzo, alcune imprese hanno chiesto tassi calmierati temporaneamente.
  • Consolidamento del debito: ad esempio, se l’impresa ha uno scoperto di conto o utilizzi di anticipo fatture molto onerosi, la banca potrebbe convertire tale esposizione a breve in un finanziamento a medio termine (3-5 anni) con rate, magari assistito da garanzie (es. Fondo Centrale di Garanzia dello Stato). Ciò stabilizza il debito spostandolo dal breve al medio termine.
  • Accordi di ristrutturazione del debito bancario: in casi più gravi, la banca potrebbe accettare di stralciare una parte del credito (rinunciando a una quota di capitale e/o interessi) in cambio di un pagamento immediato parziale. Questo avviene di solito dopo che il credito è stato classificato a sofferenza e magari ceduto a una società di recupero crediti, ma talvolta anche la banca originaria preferisce un accordo transattivo se il debitore dimostra che così può evitare il fallimento e pagare qualcosa di più che in caso liquidatorio.

La rinegoziazione bancaria richiede un’accurata preparazione del piano finanziario da parte dell’impresa debitrice: bisogna presentare alla banca proiezioni realistiche su come si potrà sostenere il nuovo piano di rientro. Spesso le banche esigono garanzie aggiuntive. Ad esempio, la Banca1 nell’esempio Alfa S.r.l. ha chiesto in cambio dell’allungamento mutuo di 3 anni, un pegno su un macchinario e una garanzia aggiuntiva da un consorzio fidi. La Banca2 ha voluto la garanzia pubblica (Fondo Centrale) su un nuovo finanziamento per sostituire lo scoperto. Ciò è tipico: le banche cercano di migliorare la propria posizione se devono concedere tempo o sconti.

È fondamentale mantenere un dialogo trasparente con gli istituti: notificare per tempo eventuali difficoltà nel pagamento (prima che scattino insoluti e segnalazioni in Centrale Rischi), presentare un piano credibile e mostrare impegno (ad esempio i soci che mettono risorse proprie, come equity o immobili, segnalano alla banca la volontà di contribuire al risanamento). In alcuni casi esistono anche protocolli generali (moratorie ABI, accordi di ristrutturazione promossi dalle associazioni di categoria) che agevolano il processo.

Va ricordato che la rinegoziazione informale non impedisce agli altri creditori di agire individualmente. Dunque spesso conviene accompagnare il dialogo con le banche ad una trattativa parallela con fornitori e altri creditori, o valutare l’accesso a strumenti come la composizione negoziata per ottenere una protezione temporanea generale (ne parleremo più avanti).

Accordi transattivi con fornitori e altri creditori commerciali

Parallelamente alle banche, i fornitori e gli altri creditori commerciali possono essere disponibili a concordare soluzioni di saldo del debito arretrato. Le motivazioni per un fornitore sono chiare: se il cliente va in default o fallisce, rischia di recuperare poco o nulla (spesso i creditori chirografari in un fallimento prendono percentuali molto basse, sotto il 10-20%). Pertanto, di fronte a un piano credibile di rilancio, i fornitori possono accettare:

  • Dilazioni di pagamento: ovvero un piano di rientro rateale sul debito scaduto. Ad esempio, pagare il dovuto in 6 o 12 rate mensili o trimestrali. Ciò consente al debitore di spalmare l’impatto sul cash flow e al fornitore di avere ragionevole certezza di incasso (spesso accompagnata dalla ripresa degli ordini correnti).
  • Stralcio parziale del debito: una riduzione dell’importo dovuto, spesso combinata con un pagamento parziale immediato. Ad esempio, offrire ai fornitori strategici il pagamento del 50% del loro credito in un anno e chiedere la rinuncia al restante 50%. Questa soluzione (saldo e stralcio) è appetibile per i fornitori se ritengono che, senza l’accordo, avrebbero probabilmente recuperato ancora meno tramite vie legali. Naturalmente, più il fornitore è essenziale (fornisce merci senza le quali l’azienda non può operare) più sarà incentivato ad accettare un accordo che mantenga il cliente in attività.
  • Concessioni commerciali: talvolta le transazioni vengono “sweetenate” con impegni futuri: ad esempio, garantire al fornitore che continuerà a essere il principale fornitore per future commesse, o offrire piccole partecipazioni o diritti (warrant, percentuali sulle vendite future) come contropartita della fiducia accordata. In settori come la moda o l’automotive, le case madri o i grossisti possono accettare piani di rientro dai negozianti in difficoltà purché questi continuino l’attività e quindi continuino a comprare i loro prodotti.

È utile formalizzare questi accordi per iscritto, in atti transattivi, possibilmente con l’assistenza di un legale. Negli accordi, il fornitore di solito si impegna a non intraprendere o sospendere eventuali azioni legali esecutive purché il debitore rispetti il piano di pagamento concordato (clausole di standstill). Dal canto suo, il debitore potrebbe riconoscere il debito (se magari contestato) e fornire qualche garanzia di serietà (ad esempio assegni post-datati, cambiali, o l’impegno a un controllo periodico congiunto delle condizioni dell’accordo).

Bisogna tenere presente che tali accordi stragiudiziali vincolano solo chi li sottoscrive. Se uno o più fornitori non ci stanno, potrebbero comunque agire per conto proprio. Ecco perché, quando i creditori sono numerosi, la gestione bilaterale può diventare complicata – in questi casi si guarda a strumenti collettivi (accordi ex art.57 CCII o concordati preventivi). Tuttavia, per PMI con pochi fornitori critici, la via dell’accordo privato è spesso la più rapida e soddisfacente. La chiave è la comunicazione onesta: spiegare ai fornitori la situazione, presentare un piano dettagliato su come si potrà pagare il 50% o 70% del dovuto grazie a nuovi ordini o nuovi finanziamenti, e perché senza accordo la loro alternativa è peggiore (ad es. un concorso nel fallimento con recupero risicato).

Una menzione particolare va ai locatori (proprietari degli immobili aziendali): anche loro sono creditori (per affitti arretrati) e spesso figure chiave. Negoziare con i locatori può significare ottenere una dilazione degli affitti arretrati o una riduzione temporanea del canone. Nel caso Beta S.n.c., ad esempio, i titolari dei negozi hanno ottenuto uno sconto del 20% sul canone per 1 anno sui punti vendita rimasti aperti, poiché i proprietari hanno preferito ridurre l’affitto piuttosto che trovarsi i locali vuoti. Per i locali da chiudere, si è proposto di trovare nuovi conduttori per liberare anticipatamente l’azienda dall’obbligo. Questo tipo di accordo “triangolare” (subentro di un altro affittuario) è complesso ma in alcuni casi necessario.

Mediazione civile e altri strumenti ADR

In alcuni casi, può essere utile avvalersi di procedure di mediazione o di strumenti di ADR (Alternative Dispute Resolution) per facilitare gli accordi con i creditori. La mediazione civile, ad esempio, è obbligatoria per legge prima di iniziare cause su determinate materie, ma può anche essere usata volontariamente dalle parti per trovare un componimento. Nel contesto dei debiti:

  • Si potrebbe attivare una mediazione bancaria avanti all’Organismo di conciliazione bancario-finanziario, se si hanno controversie con banche (ad esempio contestazione di interessi anatocistici, derivati, ecc.) che complicano la ristrutturazione.
  • Per i rapporti commerciali, le Camere di Commercio offrono servizi di mediazione o di negoziazione assistita tra imprese, che possono aiutare a definire piani di rientro evitando decreti ingiuntivi e pignoramenti.
  • Uno strumento particolare, introdotto nel 2021, è la composizione negoziata della crisi (ne parleremo dettagliatamente nella sezione successiva): pur non essendo esattamente una mediazione civile, si tratta di un percorso volontario dove un esperto terzo indipendente assiste l’imprenditore nel negoziare con tutti i creditori un insieme di soluzioni. Può essere visto come una “mediazione multiparte” istituzionalizzata, con in più la possibilità di misure protettive omologate dal tribunale (stay delle azioni dei creditori).

Va sottolineato che, a differenza di una procedura concorsuale, le trattative stragiudiziali e le mediazioni non bloccano automaticamente le azioni esecutive individuali. Se un creditore perde la pazienza, potrebbe pignorare un conto o un bene anche mentre si tratta con gli altri. Questo è il rischio principale: il tempo. Perciò spesso l’imprenditore deve valutare se sia il caso di “ufficializzare” la situazione di crisi attivando una composizione negoziata o chiedendo misure protettive al tribunale, così da congelare temporaneamente le pretese e dare spazio alle trattative.

Nei prossimi paragrafi approfondiremo due strumenti fondamentali: i piani attestati di risanamento, che sono accordi stragiudiziali formalizzati e protetti in certe condizioni, e la composizione negoziata della crisi, novità degli ultimi anni per gestire le crisi d’impresa in modo assistito e tempestivo.

Il Piano Attestato di Risanamento (art. 56 CCII)

Tra le soluzioni stragiudiziali merita un focus specifico il piano attestato di risanamento, uno strumento previsto dall’art. 56 del Codice della Crisi (già presente nell’ordinamento previgente, art. 67 LF). Si tratta di un accordo privato fra l’imprenditore e i suoi creditori, basato su un piano di risanamento dell’azienda, che viene attestato nella sua ragionevole fattibilità da un professionista indipendente. Le caratteristiche salienti del piano attestato sono:

  • Volontarietà e natura contrattuale: il piano non coinvolge il tribunale (se non in via eventuale per la pubblicazione) e non impone nulla ai creditori che non aderiscano. Non c’è un voto collettivo né un’omologazione. È un patto privato, dunque vincola solo i creditori che accettano di aderire alla ristrutturazione proposta. Ciò significa, ad esempio, che alcuni creditori possono restare estranei al piano (pagati alle scadenze originali) mentre altri partecipano all’accordo rinegoziando i termini dei loro crediti. Non c’è un quorum legale di adesione come nei concordati (maggioranza del 51% dei crediti) o negli accordi ex art.57 (60% dei crediti); tuttavia, nella pratica, il piano riuscirà solo se ottiene il consenso di tutti i principali creditori strategici. Spesso basta che uno grande creditore dissenziente agisca in via esecutiva per far naufragare l’intero risanamento.
  • Protezione dagli effetti revocatori: il beneficio principale del piano attestato, previsto dalla legge, è che gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del piano non sono soggetti a revocatoria fallimentare (art. 166 CCII). Cioè, se l’imprenditore, eseguendo il piano, paga alcuni creditori o costituisce garanzie, e poi malauguratamente fallisce comunque, quei pagamenti non verranno revocati dal curatore. Questo incentiva i creditori ad aderire, perché riduce il rischio che in futuro vengano obbligati a restituire quanto incassato. Inoltre, dal punto di vista fiscale, la pubblicazione del piano nel Registro delle Imprese consente di non tassare come sopravvenienze attive gli eventuali debiti stralciati (agevolazione fiscale).
  • Intervento di un attestatore: elemento chiave è la relazione di un professionista indipendente (tipicamente un commercialista o revisore esperto in crisi) che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. L’attestatore deve essere terzo e indipendente rispetto al debitore e ai creditori. La sua relazione dà credibilità al piano e tutela gli organi sociali da responsabilità (dimostrando che hanno agito secondo un piano ragionevole). L’attestazione non equivale a una garanzia di successo, ma deve dichiarare che, sulla base delle informazioni disponibili, il piano ha concrete possibilità di riuscita e che, comunque, è più conveniente per i creditori rispetto all’alternativa liquidatoria.
  • Forma e pubblicazione: il piano deve essere redatto per iscritto e avere data certa. Solitamente è accompagnato da allegati: situazione patrimoniale aggiornata, elenco dettagliato dei creditori e delle scadenze, eventuali accordi specifici già sottoscritti con singoli creditori, ecc.. La legge consente, e la prassi consiglia, di pubblicare il piano nel Registro delle Imprese su richiesta del debitore. La pubblicazione non è obbligatoria per la validità del piano, ma è necessaria per ottenere taluni benefici (come la citata esenzione fiscale sulle rinunce dei creditori). Inoltre rende il piano “visibile” e certo nei confronti dei terzi.
  • Contenuto del piano: il piano di risanamento può prevedere qualunque operazione economica o societaria utile: nuovi finanziamenti (anche prededucibili, se poi si va in concordato entro 2 anni), dismissioni di assets, conversione di crediti in equity (debt-equity swap volontario), rinegoziazione di debiti, accordi con fornitori, riduzione di costi, aumento di capitale, fusioni, ecc. Deve trattarsi in sostanza di un business plan pluriennale (di solito 3-5 anni) che dimostri il ritorno in bonis dell’azienda o quanto meno il riequilibrio della posizione finanziaria.

Un esempio pratico di piano attestato lo abbiamo visto nella simulazione Alfa S.r.l.: l’azienda manifatturiera in crisi ha predisposto un piano a 5 anni in cui:

  • I soci apportano nuova finanza (1 milione €) per ricostituire il capitale e pagare debiti urgenti.
  • Le banche rimodulano i finanziamenti (allungamento dei mutui, conversione di fidi a breve in prestiti a medio termine garantiti dallo Stato).
  • I fornitori strategici accettano un pagamento parziale (50%) dei loro crediti e remissione del resto.
  • Lo Stato concede la dilazione standard in 72 rate per le cartelle esattoriali arretrate.
  • Si prevede la vendita di un immobile non strategico per fare cassa.

Il tutto è stato formalizzato in un piano, e un professionista indipendente ha attestato che i numeri tornano e che, con le misure adottate, l’azienda può sostenere il nuovo servizio del debito e tornare redditizia. Una volta firmato il piano da tutti i soggetti coinvolti, esso è stato depositato presso il Registro Imprese (con pubblicità volontaria). Ciò ha consentito alla Beta S.n.c. del nostro esempio (piccola impresa commerciale) di evitare l’apertura di una procedura concorsuale: i creditori hanno sospeso le azioni (banca ha rinunciato a escutere l’ipoteca, fornitori hanno congelato i decreti ingiuntivi) confidando nell’esecuzione puntuale del piano. Dopo un anno, l’azienda – pur ridimensionata – è tornata in equilibrio e i creditori hanno incassato quanto concordato, formalizzando la rinuncia al resto. Questo caso dimostra come un piano attestato ben congegnato possa prevenire un fallimento e portare ad una soluzione win-win: l’impresa prosegue, i creditori recuperano più che in uno scenario distruttivo.

Naturalmente, il piano attestato funziona se c’è consenso volontario dei creditori chiave. Quando manca, o quando si teme che un accordo pur sottoscritto possa essere messo in pericolo da pochi dissenzienti, bisogna considerare strumenti più formali che permettono di imporre ai dissenzienti la soluzione concordata dalla maggioranza. Uno di questi sono gli accordi di ristrutturazione omologati, di cui ora parleremo nel contesto delle soluzioni giudiziali.

La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa

Prima di addentrarci nelle vere e proprie procedure concorsuali giudiziali, vale la pena trattare un istituto innovativo introdotto di recente (D.L. 118/2021, confluito nel CCII) che funge da ponte tra le soluzioni stragiudiziali e quelle giudiziali: la Composizione Negoziata della Crisi. Si tratta di un percorso volontario attivabile dall’imprenditore in situazione di squilibrio patrimoniale o economico finanziario, finalizzato a facilitare la negoziazione con i creditori attraverso l’assistenza di un esperto indipendente.

Caratteristiche principali della composizione negoziata:

  • Accesso su iniziativa del debitore: Solo l’imprenditore commerciale (anche sotto soglia) può presentare istanza di composizione negoziata tramite piattaforma telematica. Non può essere forzata dai creditori. Ciò la distingue dalle vecchie procedure di allerta (poi abrogate) e mantiene la natura volontaria dell’adesione.
  • Nomina di un esperto: Un soggetto indipendente, scelto da apposite commissioni presso le Camere di Commercio, viene nominato per esaminare la situazione e affiancare l’imprenditore nelle trattative. L’esperto deve avere competenze in materia di ristrutturazioni aziendali. La sua presenza è cruciale per “certificare” ai terzi la serietà del tentativo di risanamento e per proporre soluzioni imparziali. Inoltre, ha il compito di segnalare al tribunale eventuali abusi (ad esempio se il debitore assume comportamenti che pregiudicano i creditori).
  • **Rimane una procedura riservata e stragiudiziale: La composizione negoziata non è pubblica per sua natura (salvo si chiedano misure protettive). Le trattative sono confidenziali. L’esperto, pur nominato su base normativa, non impone decisioni ma cerca un accordo amichevole. Fino a che rimane nell’alveo negoziale, l’impresa non è “etichettata” come insolvente. Questo aiuta a preservare la reputazione e i rapporti commerciali durante i tentativi di accordo.
  • Misure protettive: Su richiesta del debitore, il tribunale può concedere misure cautelari di protezione del patrimonio (lo stay delle azioni esecutive) per la durata delle trattative, normalmente fino a 4 mesi prorogabili. Ciò significa che durante la composizione negoziata l’impresa può ottenere una sorta di congelamento temporaneo dei debiti: i creditori non possono avviare o proseguire pignoramenti o istanze di fallimento. Questo scudo serve a dare respiro e stabilità al tavolo negoziale. Va notato che le misure protettive sono pubblicate al Registro Imprese, quindi in quel caso la riservatezza viene in parte meno (fornitori, banche e terzi sapranno che l’impresa è in composizione negoziata).
  • Soluzioni in esito: La composizione negoziata è un contenitore entro cui le parti possono trovare diverse soluzioni. Può concludersi con un contratto di ristrutturazione (piano attestato, accordo stragiudiziale multi-parte) se le cose vanno bene. In alternativa, se emerge l’insolvibilità conclamata e le trattative falliscono, l’imprenditore può “convertire” il percorso in una procedura concorsuale semplificata (il concordato semplificato per liquidazione, v. oltre). Oppure può accedere al concordato preventivo tradizionale o ad altre procedure, sfruttando il lavoro fatto (spesso l’esperto compila una relazione finale utile al tribunale).
  • Transazione fiscale e trattamento dei crediti pubblici: La normativa aggiornata (D.Lgs. 83/2022 e 136/2024) ha previsto che durante la composizione negoziata si possano fare proposte di transazione fiscale ai creditori pubblici. Quindi l’esperto può coinvolgere Agenzia Entrate e INPS in trattative per ridurre e dilazionare i debiti tributari e contributivi, cosa prima non chiaramente ammessa.

In sostanza, la composizione negoziata è uno strumento di allerta temprata: aiuta l’imprenditore a intercettare la crisi per tempo e a gestirla con l’ausilio di un esperto, senza subito precipitare in procedure concorsuali. È indicata quando c’è ancora margine di recupero ma serve coordinamento tra più creditori. Ad esempio, un’azienda in tensione finanziaria che ha ordini e prospettive di mercato, ma ha bisogno che banche e fornitori accettino di ristrutturare il debito e magari di nuova finanza, potrebbe trovare nella composizione negoziata il luogo ideale per formalizzare un accordo plurilaterale.

Va detto che, essendo istituto nuovo, l’utilizzo concreto è ancora in evoluzione (nel 2023-2024 è stato applicato in numero crescente di casi, ma non massivo). Con i correttivi del 2024, si cerca di renderlo più flessibile (ad esempio ora l’esperto può continuare a seguire l’esecuzione dell’accordo anche oltre i 180 giorni se le parti lo chiedono). Inoltre, la legge ora consente espressamente all’esperto di assumere, a trattative concluse, incarichi come attestatore o addirittura organo della procedura successiva, senza dover azzerare tutto (ciò per favorire la continuità e valorizzare il lavoro svolto in negoziazione anche se poi si passa a concordato).

In questa guida, la composizione negoziata rappresenta dunque un’opzione di gestione preventiva: se c’è spazio per evitare il fallimento trovando un accordo, questo strumento offre supporto e protezione. Se invece la situazione è compromessa al punto che serve un intervento autoritativo (ad esempio tagliare i debiti imponendolo alla minoranza dissenziente, o liquidare il patrimonio sotto controllo giudiziario), occorre guardare alle soluzioni giudiziali che ora analizzeremo.

Di seguito passeremo in rassegna le principali procedure concorsuali previste dal Codice della Crisi, ovvero gli strumenti giudiziari con cui affrontare i debiti insostenibili. Vedremo il concordato preventivo, la liquidazione giudiziale (erede del fallimento), gli accordi di ristrutturazione omologati e i nuovi piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione (PRO), oltre al concordato semplificato. Successivamente, tratteremo anche le procedure minori per i debiti personali (concordato minore, piano del consumatore, liquidazione controllata).

Soluzioni giudiziali: le procedure concorsuali

Quando la ristrutturazione informale non è praticabile o non basta a risolvere la crisi, l’ordinamento mette a disposizione una serie di procedure giudiziali (dinanzi al tribunale) per gestire l’insolvenza o la crisi d’impresa in modo organizzato. Queste procedure – disciplinate dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – mirano, a seconda dei casi, o a ristrutturare il debito dell’azienda consentendole di proseguire l’attività, oppure a liquidare il patrimonio dell’impresa in modo controllato distribuendo il ricavato ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. In tutti i casi, esse comportano l’intervento dell’autorità giudiziaria e offrono un quadro normativo in cui i creditori sono vincolati collettivamente dalle decisioni prese a maggioranza o dall’autorità.

Le principali procedure concorsuali d’impresa previste (per le società e imprese soggette a fallimento) sono:

  • Concordato Preventivo (in continuità o liquidatorio, anche con diverse sottovarianti come il “concordato misto”).
  • Liquidazione Giudiziale (che ha sostituito il termine “fallimento”).
  • Accordo di Ristrutturazione dei Debiti (omologato dal tribunale, con eventuali estensioni ai creditori dissenzienti).
  • Piani di Ristrutturazione soggetti ad Omologazione (PRO), introdotti con i correttivi 2022 per recepire la direttiva UE.
  • Concordato Semplificato per la Liquidazione del Patrimonio, utilizzabile in casi particolari post-composizione negoziata fallita.

Vediamoli singolarmente in sintesi, evidenziandone scopo, condizioni e funzionamento.

Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è la procedura di regolazione della crisi attraverso un accordo tra il debitore e i creditori, sotto supervisione del tribunale. In parole semplici, l’imprenditore in stato di crisi o insolvenza propone ai creditori un piano con vari interventi (pagamento parziale dei crediti, dilazioni, eventuale suddivisione in classi, continuità aziendale o liquidazione dei beni) e i creditori votano se accettare. Se la maggioranza dei crediti approva, il tribunale omologa l’accordo e questo diventa vincolante per tutti i creditori anteriori (anche per i dissenzienti).

Caratteristiche chiave:

  • Soggetti ammessi: tutte le imprese assoggettabili a liquidazione giudiziale (fallimento) possono accedere al concordato preventivo. Deve esserci uno stato di crisi o insolvenza. Anche le imprese minori sotto soglia possono in teoria proporlo, ma il CCII per loro prevede il concordato minore separatamente. Dunque in pratica il concordato preventivo “pieno” è utilizzato da società medio-grandi.
  • Iniziativa del debitore: il concordato preventivo si apre solo su domanda del debitore (non dei creditori né d’ufficio). Può essere presentata una domanda completa di piano e proposta, oppure una domanda “in bianco” (concordato con riserva) dove si chiede l’ammissione e si deposita il piano in un secondo momento (entro termini perentori, 60-120 giorni). La domanda va pubblicata al Registro Imprese.
  • Effetti protettivi immediati: dalla data di pubblicazione della domanda di concordato, i creditori per legge non possono iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore (automatic stay). Inoltre, i contratti in corso proseguono (salvo diverse disposizioni del tribunale) e non si possono acquisire cause di prelazione se non autorizzate. In sostanza il concordato “congela” la situazione debitoria alla data di domanda, creando uno spazio per definire il piano senza aggressioni esterne.
  • Classi di creditori e trattamento: il debitore deve suddividere i creditori in classi se ci sono posizioni giuridiche differenti (es. creditori privilegiati, chirografari, eventuali dipendenti, ecc.) e può farlo anche per omogeneità di interessi economici. La proposta deve assicurare un trattamento non deteriore ai creditori rispetto alla liquidazione (principio di convenienza). Inoltre, dal 2022 è possibile anche per i concordati in continuità prevedere la falcidia dei crediti privilegiati senza il loro consenso, purché ricevano almeno quanto otterrebbero in caso di liquidazione (questo recepisce la direttiva UE).
  • Concordato in continuità vs liquidatorio: Si distingue tra:
    • Concordato in continuità aziendale: quando l’impresa prosegue (direttamente o tramite terzi) l’attività, in tutto o in parte, nell’ambito del piano. Tipicamente prevede che l’azienda continui a operare, pagando i creditori col cash flow futuro. Deve garantire il pagamento di almeno il 20% dei crediti chirografari (salvo deroghe per intervento di terzi) e il rispetto integrale dei crediti privilegiati che non si falcidiano. La continuità può essere diretta (stessa impresa prosegue) o indiretta (si prevede la vendita o conferimento dell’azienda a un acquirente che la proseguirà).
    • Concordato liquidatorio: quando invece si prevede di liquidare tutto o gran parte dell’attivo e cessare l’attività. In tal caso la legge oggi richiede un apporto di risorse esterne che aumenti di almeno il 10% l’attivo liquidabile, oppure che si raggiunga almeno il 20% di soddisfacimento dei creditori chirografari. Il concordato liquidatorio è assimilabile a un fallimento concordato tra debitore e creditori: l’impresa chiude ma evita la procedura fallimentare classica.
  • Votazione: dopo che il tribunale ammette il debitore al concordato (verificati i presupposti e la fattibilità giuridica del piano), i creditori votano sulla proposta in adunanza o per dichiarazione scritta. Serve la maggioranza dei crediti ammessi al voto (maggioranza assoluta >50% come valore). Se ci sono classi, serve anche che la maggioranza delle classi approvi (o almeno una e che le altre non siano pregiudicate). In caso di esito positivo, si passa all’omologa. In caso di voto contrario, la procedura può sfociare in liquidazione giudiziale (salvo rarissime ipotesi di cram-down che però in Italia esistono solo per Stato e Fisco in certi casi).
  • Omologazione e adempimento: Il tribunale omologa il concordato se ci sono i voti e se verifica la legalità e fattibilità. Con l’omologa, il piano diventa vincolante per tutti i creditori anteriori. L’azienda (o un eventuale liquidatore concordatario, se liquidatorio) deve poi eseguire i pagamenti e gli atti previsti. Durante l’esecuzione resta sotto vigilanza del commissario giudiziale e del tribunale fino alla chiusura.

Il concordato preventivo è uno strumento potente perché permette di imporre sacrifici anche ai creditori dissenzienti, cosa che gli accordi stragiudiziali non consentono. Ad esempio, se il 70% dei crediti vota a favore di prendere il 30% a saldo, il restante 30% di creditori dissenzienti sarà comunque obbligato a prendere quel 30% e non potrà agire oltre. In altre parole, ottiene un effetto di cram-down interno alla procedura. Inoltre, offre garanzie di trasparenza (c’è un commissario che verifica le informazioni) e di par condicio (tutti i chirografari di una classe sono trattati uguale, non ci sono accordi sottobanco con alcuni sì e altri no).

Di contro, il concordato è una procedura complessa e costosa: richiede tempi medio-lunghi (spesso 6-12 mesi solo per arrivare all’omologa, se non di più), spese per la procedura (commissari, periti, legali) e comporta pubblicità (fornitori, clienti e pubblico possono venirne a conoscenza). Inoltre l’impresa in concordato subisce restrizioni (ogni atto di straordinaria amministrazione deve essere autorizzato, l’accesso al credito è difficile se non con finanza interinale autorizzata, ecc.).

Si ricorre al concordato dunque quando il debito è talmente ampio o frammentato che non si riesce a trovare un accordo spontaneo, oppure quando serve la moratoria globale che solo la procedura può dare. Esempio: un’azienda edile con decine di creditori che non può pagarli integralmente, può proporre un concordato in continuità offrendo ai chirografari una percentuale (es. 40%) da pagare in 2 anni, proseguendo le commesse. Se il piano è credibile (attestato e con nuova finanza dei soci magari) e i creditori lo approvano, l’azienda evita il fallimento e continua a operare. I creditori, pur rinunciando a parte dei crediti, evitano lungaggini e magari beneficiano di forniture continuative (nel caso di fornitori che restano partner).

Una novità del CCII è la possibilità di concordato semplificato per la liquidazione (art. 25-sexies): se la composizione negoziata fallisce, l’imprenditore può chiedere al tribunale un concordato liquidatorio senza voto dei creditori, dove il giudice valuta e omologa se ritiene equo. È un istituto speciale e raro, concepito per chiudere rapidamente situazioni senza speranza, evitando il fallimento tradizionale. Richiede però che ci sia stata una composizione negoziata infruttuosa. Nel concordato semplificato i creditori possono solo opporsi in sede di omologa, ma non votano.

In sintesi, il concordato preventivo è il mezzo principe per ristrutturare il debito in via giudiziale mantenendo l’impresa attiva (quando possibile). Va pianificato con cura e con l’assistenza di professionisti esperti. La giurisprudenza recente lo ha reso più flessibile verso il debitore in certi aspetti (ad esempio sulla falcidia dell’IVA con transazione fiscale, o sulla possibilità di classare i crediti in modo più libero), ma rimane una strada da intraprendere quando realmente necessaria, data la sua complessità.

Liquidazione Giudiziale (ex Fallimento)

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale di tipo liquidatorio che prende il posto del vecchio “fallimento”. Si tratta dell’intervento giudiziale che dichiara l’insolvenza dell’impresa e ne determina la spossessamento dai beni, affidandoli a un curatore per la liquidazione e ripartizione ai creditori secondo l’ordine dei privilegi. In altre parole, quando un’azienda non è più in grado di pagare i propri debiti e non vi sono soluzioni alternative percorribili, il tribunale apre la liquidazione giudiziale per chiudere ordinatamente l’attività e distribuire quello che c’è ai creditori.

Aspetti salienti:

  • Presupposti: deve esistere uno stato di insolvenza del debitore (impossibilità definitiva di soddisfare regolarmente le obbligazioni). La domanda può provenire dal debitore stesso (che “chiede il proprio fallimento”), da un creditore, o dal PM in alcuni casi. Per le imprese piccolissime sotto soglia vige l’esclusione: se l’imprenditore ha avuto nei tre anni attivi < €300k, ricavi < €200k e debiti < €500k, è considerato imprenditore minore e non è soggetto a liquidazione giudiziale. In tal caso eventualmente seguirà la liquidazione controllata (procedura di sovraindebitamento). I parametri sono cumulativi e l’onere di provarli spetta all’imprenditore che vuole sottrarsi alla procedura.
  • Effetti della sentenza: la sentenza di liquidazione giudiziale provoca lo spossessamento del debitore: l’impresa perde la gestione e la disponibilità dei propri beni, che passano al curatore nominato dal tribunale. Gli amministratori decadono (nelle società) e subentra il curatore nella rappresentanza. Si forma il massa attiva (tutti i beni e crediti del debitore) e la massa passiva (tutti i debiti concorsuali). I creditori non possono più agire individualmente ma devono presentare domanda di insinuazione al passivo entro termini stabiliti. Vengono bloccate le azioni esecutive pendenti e i pignoramenti in corso vengono assorbiti.
  • Verifica del passivo: il curatore esamina le domande dei creditori e predispone lo stato passivo; il giudice delegato tiene un’udienza di verifica e ammette i crediti al passivo, attribuendo a ciascuno il grado di privilegio o la natura chirografaria. Questo è un momento fondamentale perché definisce chi parteciperà e come alle ripartizioni.
  • Liquidazione dell’attivo: il curatore procede a vendere i beni dell’azienda (immobili tramite procedure competitive, macchinari, merci, crediti da incassare, eventuali cause di responsabilità da promuovere, ecc.). Può anche decidere l’esercizio provvisorio se c’è interesse a continuare temporaneamente l’attività per aumentare il valore (ad esempio completare commesse in corso). Le vendite in liquidazione giudiziale avvengono libere da ipoteche e altri gravami, con provvedimento giudiziale, il che facilita la cessione degli asset.
  • Distribuzione: una volta monetizzato l’attivo (anche in via parziale, con riparti parziali in corso), si procede a pagare i creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione: prima le spese di procedura, poi i creditori prededucibili, poi i privilegiati (in base al rango), infine gli eventuali chirografari in proporzione. Spesso i chirografari recuperano pochissimo o nulla. A fine procedura, se l’attivo è insufficiente a soddisfarli integralmente, i crediti residui si estinguono irreversibilmente (esdebitazione dell’impresa).
  • Esdebitazione dell’imprenditore: Il CCII prevede che l’imprenditore persona fisica, una volta terminata la liquidazione giudiziale, possa ottenere l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui non soddisfatti) a determinate condizioni. Nelle società, l’esdebitazione non è un tema perché la società, esaurito l’attivo, di fatto viene cancellata. Ma per l’imprenditore individuale o i soci falliti, l’esdebitazione è fondamentale per avere la cosiddetta fresh start.

In pratica, la liquidazione giudiziale è la procedura di chiusura ineluttabile se non si trovano accordi o soluzioni alternative e l’impresa è insolvente. È una procedura distruttiva nel senso che comporta la fine dell’attività (salvo casi di cessione di azienda a terzi). Tuttavia, ha un ruolo di garanzia: assicura che nessun creditore faccia il furbo a discapito di altri (vige la par condicio), consente di investigare su eventuali cause della crisi e responsabilità (il curatore può agire contro gli amministratori per mala gestione, o revocare pagamenti preferenziali fatti prima del fallimento), e offre una chiusura netta col passato (l’impresa insolvente viene eliminata dal mercato in modo ordinato).

In un’ottica di guida, l’imprenditore dovrebbe considerare la liquidazione giudiziale come l’ultima ratio, quando ogni tentativo di ristrutturazione è fallito o non fattibile. Può comunque esserci convenienza a iniziarla volontariamente (richiedendo il proprio fallimento) se ciò consente di gestire la situazione con ordine e magari ottenere l’esdebitazione personale prima, invece di attendere aggressioni disordinate. Ad esempio, se un piccolo imprenditore sa di essere irrimediabilmente insolvente e non ha i requisiti per un concordato, potrebbe attivarsi per la liquidazione giudiziale o, se sotto soglia, per la liquidazione controllata come sovraindebitato, così da far partire l’orologio dell’esdebitazione.

I dati citati in introduzione evidenziano come nel 2024 i numeri dei fallimenti siano in rialzo, ma ancora sotto i livelli pre-pandemia. Ciò significa che molte crisi vengono risolte con strumenti alternativi (accordi o concordati) o semplicemente con chiusure informali (l’impresa cessa e i creditori rinunciano a perseguirla perché poco da prendere). Tuttavia, la liquidazione giudiziale resta un pilastro: ad esempio, i creditori possono forzare questa soluzione presentando essi stessi istanza quando perdono fiducia.

È essenziale per imprenditori e consulenti conoscere le regole del gioco della liquidazione giudiziale per muoversi correttamente: ci sono tempi stretti per le domande di insinuazione, possibilità di proporre opposizioni allo stato passivo se un credito viene escluso, etc. Ma poiché l’obiettivo di questa guida è “come uscirne”, va sottolineato un aspetto: per l’imprenditore persona fisica, l’uscita definitiva dal tunnel dei debiti arriva con l’esdebitazione a fine liquidazione (o liquidazione controllata). Quindi, paradossalmente, subire o attivare una procedura di liquidazione e portarla a termine può essere il modo per “ripulirsi” dai debiti e ricominciare. Nel prossimo paragrafo, dedicato alle procedure per le persone sovraindebitate, approfondiremo proprio come funziona l’esdebitazione.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII)

L’accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD) è uno strumento intermedio tra il piano attestato e il concordato preventivo. Si tratta di un accordo negoziato con i creditori che viene poi omologato dal tribunale, acquisendo efficacia anche verso alcuni creditori non aderenti. In sostanza, il debitore deve raggiungere un’intesa con una parte significativa di creditori – per legge, almeno il 60% dei crediti – su un piano di ristrutturazione, e successivamente chiede al tribunale di omologare l’accordo. I creditori che hanno aderito sono vincolati dal contratto; quelli non aderenti rimangono estranei, ma beneficiano di alcune protezioni (e in alcune varianti di accordo possono essere anch’essi coinvolti, come vedremo).

Caratteristiche:

  • Quorum del 60%: la legge richiede che l’accordo sia sottoscritto da creditori che rappresentino almeno il 60% del totale dei crediti. È una soglia alta ma non totalitaria. I creditori privilegiati, se non toccati nell’accordo (cioè se vengono pagati integralmente), non contano nel quorum. Se invece si vuole includere nell’accordo una falciatura o dilazione di crediti privilegiati, occorre il loro consenso individuale oppure utilizzare la variante dell’accordo ad efficacia estesa per certe classi (ad esempio per i creditori finanziari, v. infra).
  • Omologazione e effetti: una volta raggiunte le firme necessarie, il debitore deposita l’accordo in tribunale, insieme ad una relazione di un attestatore indipendente che certifica la fattibilità e che i creditori estranei non sono pregiudicati (devono poter ricevere almeno quanto avrebbero in un fallimento). Il tribunale, verificati i requisiti, omologa l’accordo rendendolo efficace erga omnes. Da quel momento, l’accordo è vincolante per i partecipanti e i creditori aderenti non possono agire esecutivamente. I creditori che non hanno aderito mantengono invece i loro diritti per intero e potrebbero, in teoria, agire per il recupero. Tuttavia, il debitore può chiedere misure protettive (stay) già dalla fase di trattativa e fino all’omologa per congelare tutto. Inoltre, la legge consente di “estendere” gli effetti a dissenzienti appartenenti alla stessa categoria di aderenti in alcune situazioni (accordi ad efficacia estesa).
  • Accordi ad efficacia estesa: recependo la direttiva UE, la riforma consente che se l’accordo è approvato da tutti i creditori di una certa categoria o omogenea posizione (ad es. tutti gli istituti bancari, rappresentanti almeno il 75% dei crediti finanziari), allora l’efficacia si estende anche ai non aderenti di quella categoria. Questo è pensato per evitare il problema del holdout (creditore che non aderisce sperando di essere pagato integralmente mentre gli altri accettano lo sconto). Ad esempio, se 9 banche su 10, rappresentanti il 95% dell’esposizione bancaria, aderiscono a una ristrutturazione, la decima banca dissenziente può essere crammata dentro l’accordo (purché le sia offerto almeno quanto avrebbe in alternativa). Tali meccanismi sono complessi e relativamente nuovi nella prassi italiana (servono soglie e condizioni precise).
  • Differenza dal concordato: nell’accordo di ristrutturazione non c’è voto collettivo né coinvolgimento di tutti i creditori obbligatorio. È più simile a un contratto con maggioranza qualificata. Ha il vantaggio di essere più rapido e riservato (anche se comunque l’omologa lo rende pubblico). Può essere utile quando il numero di creditori è limitato o si riesce a concentrare il consenso su quelli principali, lasciando fuori piccoli creditori che verranno pagati integralmente. Rispetto al concordato, l’accordo ex art.57 permette maggiore flessibilità negoziale con ciascuna banca o controparte.
  • Partecipazione del Fisco e enti: l’accordo di ristrutturazione può includere debiti fiscali e contributivi solo se c’è il placet degli enti (c.d. transazione fiscale nell’accordo). La legge prevede che l’Agenzia delle Entrate si esprima con un parere conforme per aderire. In pratica, se si vuole inserire Equitalia o INPS nell’accordo con taglio di sanzioni o interessi, bisogna negoziare un piano di pagamento che soddisfi i requisiti di legge (non inferiore al ricavabile da liquidazione) e ottenere il loro sì.

L’accordo di ristrutturazione può essere particolarmente indicato per aziende con molti debiti finanziari e pochi trade creditors. Ad esempio, una società industriale con 5 banche esposte per il 80% del debito e poi 20 fornitori piccoli per il restante 20%, potrebbe trovare più semplice negoziare un accordo con le banche (che magari convertono parte del credito in equity e dilazionano il resto) e pagare integralmente i fornitori estranei col cash flow generato. Così, soddisfatte le banche, si ottiene l’omologa e i piccoli creditori non avendo rinunce non vengono toccati (oppure vengono pagati appena dopo l’omologa).

Come evidenziato in letteratura, gli accordi di ristrutturazione sono strumenti flessibili ma con margine di incertezza: ad esempio, che succede se dopo l’omologa dell’accordo il debitore comunque fallisce? La Cassazione di fine 2024 ha chiarito che in caso di successivo fallimento, i creditori che avevano aderito all’accordo vanno ammessi al passivo per quanto eventualmente residua secondo l’accordo omologato (quindi tenendo conto degli incassi già avuti) e non per l’intero originario, a meno che l’accordo preveda risoluzione integrale per fallimento. Ciò per dire che questi accordi necessitano di clausole ben congegnate per gestire eventuali risoluzioni o inadempimenti.

In definitiva, l’accordo ex art.57 CCII è un ottimo strumento se c’è un consenso forte e concentrato tra i creditori principali. Se invece i creditori sono troppo dispersi o litigiosi, può non raggiungere la soglia richiesta – in tal caso conviene ripiegare sul concordato preventivo dove decide la maggioranza.

Piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione (PRO)

Novità introdotta dal correttivo 2022 al Codice della Crisi, i PRO (Piani di Ristrutturazione Omologati) rappresentano uno strumento ulteriore di regolazione semi-giudiziale della crisi. In sostanza, il debitore può presentare un piano di ristrutturazione al tribunale chiedendone l’omologazione anche senza il consenso di tutte le classi di creditori, se vengono rispettati determinati requisiti a tutela dei creditori dissenzienti. È uno strumento pensato per recepire la Direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva, introducendo una forma di cram-down giudiziale che non sia un concordato classico.

Caratteristiche dei PRO:

  • Classi di creditori: il debitore predispone un piano con suddivisione dei creditori in classi omogenee (similmente al concordato).
  • Nessun voto, ma omologazione con cram-down: a differenza del concordato, non c’è una votazione formale dei creditori. Il tribunale può omologare il piano anche con il dissenso di una o più classi, purché verifichi che il piano rispetta certi criteri di equità e convenienza per i creditori dissenzienti. In pratica, è un concordato “più flessibile” in cui il giudice può decidere di imporre il piano se ritiene che:
    • nessun creditore dissenziente riceva meno di quanto otterrebbe nella liquidazione alternativa (principio del best-interest-of-creditors);
    • il piano non discrimini ingiustamente tra classi;
    • almeno una classe “non inferiore” (ovvero una classe rilevante) abbia aderito favorevolmente (questo per garantire un minimo di consenso).
  • Ambito soggettivo: è riservato alle imprese di maggiori dimensioni (non al consumatore o debitore minore). In pratica è un’alternativa al concordato per aziende medio-grandi che preferiscono evitare la fase di voto assembleare e magari confidare nell’omologa giudiziale diretta.
  • Vantaggi: il PRO permette di risolvere situazioni in cui, ad esempio, c’è una classe di piccoli creditori irragionevolmente ostile, oppure un creditore singolo blocca la maggioranza. Evitando il voto, si riduce il rischio di ricatti da parte di minoranze strategiche. È comunque una procedura concorsuale formale (pubblica e soggetta a controllo).
  • Applicazione pratica: al 2025 i PRO non sono ancora diffusissimi, essendo uno strumento nuovo. Si profilano utili in scenari di ristrutturazione finanziaria complessa (es. presenza di obbligazionisti, o necessità di imporre un hair-cut a una intera classe di bondholder con pochi holdout).

In sostanza, i PRO colmano lo spazio tra l’accordo di ristrutturazione e il concordato: dove non si raggiunge il quorum volontario (60%) ma la ristrutturazione ha senso, il debitore può tentare questa via giudiziale “snella” invece di passare per forza dal concordato preventivo classico. Da un certo punto di vista, ricorda il Chapter 11 americano dove il giudice può confermare un piano con cram-down su classi dissenzienti.

Per un consulente legale, valutare un PRO significa costruire un piano molto ben calibrato sui criteri di legge, perché manca il conforto del voto dei creditori: tutto sta nella convincere il giudice. Va dimostrato che i dissenzienti non sarebbero pregiudicati e che c’è meritevolezza. Se il tribunale non è convinto, rigetta l’omologa e a quel punto l’azienda tipicamente precipita in liquidazione giudiziale (non essendoci un piano alternativo di riserva).

Concordato semplificato per la liquidazione

Come accennato, esiste un’ulteriore procedura concorsuale di nicchia: il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). È attivabile solo dall’imprenditore che abbia tentato senza successo la composizione negoziata della crisi. In tal caso, entro 60 giorni dalla relazione finale negativa dell’esperto, può proporre al tribunale un concordato liquidatorio senza passare dalla votazione dei creditori.

Il tribunale valuta la proposta e, sentiti i creditori in camera di consiglio (possono fare osservazioni), decide se omologarla. Viene nominato un liquidatore giudiziale che provvede a liquidare i beni secondo la proposta.

È uno strumento “straordinario” pensato per evitare che chi abbia cercato in buona fede di negoziare debba poi per forza fallire: consente di chiudere tramite concordato anche in mancanza di consenso dei creditori, ma appunto con i creditori che possono solo opporsi in sede di omologa. Finora, i concordati semplificati sono stati pochissimi casi sperimentali, ma la loro presenza va nota come ultima spiaggia concordataria.

Procedure per i debiti personali e il sovraindebitamento del socio

Finora ci siamo concentrati sugli strumenti destinati alle imprese soggette a fallimento (liquidazione giudiziale) e quindi alle società o imprenditori sopra soglia. Ora affrontiamo il versante dei debiti personali dei soci o degli imprenditori individuali e, più in generale, delle situazioni di sovraindebitamento non soggette a procedure ordinarie. Il Codice della Crisi ha infatti un intero Titolo (Titolo IV) dedicato a queste procedure, che riprendono e aggiornano la vecchia Legge 3/2012 sul sovraindebitamento.

Le procedure principali in questo ambito sono:

  • Concordato Minore (artt. 74-83 CCII) – riservato ai debitori non fallibili (piccoli imprenditori, professionisti, start-up innovative non oltre soglia, ecc.) o che comunque non sono consumatori, per ristrutturare i debiti con l’accordo di una maggioranza di creditori.
  • Piano di Ristrutturazione del Consumatore (detto comunemente Piano del Consumatore, art. 67 CCII) – riservato alle persone fisiche consumatori, permette di proporre un piano ai creditori senza necessità di voto, subordinato al controllo di fattibilità e meritevolezza del giudice.
  • Liquidazione Controllata del Sovraindebitato (artt. 268-277 CCII) – analoga alla liquidazione giudiziale ma per i soggetti non fallibili, ovvero una procedura di vendita del patrimonio del debitore sovraindebitato con successiva esdebitazione.

Inoltre, esiste l’istituto dell’Esdebitazione del debitore incapiente (art. 282 CCII), che consente in via eccezionale al debitore persona fisica privo di beni di ottenere la cancellazione dei debiti una volta ogni 10 anni circa, senza una procedura di liquidazione vera e propria, purché sia meritevole e non abbia frodi.

Vediamoli in dettaglio:

Concordato Minore

Il concordato minore è, per così dire, la versione “light” del concordato preventivo destinata ai debitori sovraindebitati. Vi accedono:

  • gli imprenditori minori (quelli sotto le soglie di fallibilità);
  • gli imprenditori agricoli (esclusi dal fallimento per definizione);
  • le start-up innovative (che per 5 anni godono di non fallibilità);
  • le persone fisiche non consumatori (es. professionisti, socio fideiussore, ex imprenditore fallito che rimane con debiti personali).

Restano fuori dal concordato minore i consumatori puri, che hanno invece il loro strumento dedicato (piano del consumatore).

Il concordato minore funziona in modo simile a quello preventivo:

  • Il debitore propone un piano che può prevedere pagamenti parziali dei debiti, dilazioni, cessioni di beni e ogni forma di ristrutturazione, anche la liquidazione del patrimonio. Può coinvolgere la continuazione dell’attività se c’è (nel caso di imprenditore minore) o semplicemente il rimborso parziale col reddito futuro nel caso di persona fisica.
  • I creditori vengono chiamati ad approvare la proposta: nel concordato minore serve il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Non si formano classi obbligatorie (ma il debitore può proporle se opportuno). In ogni caso, i crediti privilegiati possono essere falcidiati solo col loro assenso oppure nei limiti del valore di garanzia.
  • Se la maggioranza approva, il tribunale omologa verificando la fattibilità e la meritevolezza (ad esempio che il debitore non abbia colpe gravi nel sovraindebitamento). Se non si raggiunge la maggioranza, il concordato minore fallisce (ma il debitore può ripiegare su liquidazione controllata).
  • Una particolarità: la transazione fiscale nel concordato minore è ammessa, ma se il Fisco (o altro creditore pubblico qualificato) vota contro ma la sua soddisfazione proposta è almeno pari a quella ottenibile in liquidazione, il giudice può disattendere il voto negativo e omologare lo stesso (cram-down fiscale). Questa è una norma molto importante perché spesso Fisco e Inps hanno ruoli determinanti nel sovraindebitamento.

In definitiva, il concordato minore è l’equivalente per il piccolo imprenditore di ciò che il concordato preventivo è per la grande impresa: uno strumento per accordarsi con i creditori e liberarsi dai debiti residui pagando quanto possibile. Ad esempio, un artigiano sotto soglia potrebbe proporre ai suoi 10 creditori (banche e fornitori) di pagare il 30% in 4 anni grazie ai proventi futuri del lavoro, e al termine ottenere l’esdebitazione sul restante 70%. I creditori votano: se la maggioranza in valore dice sì, tutti vincolati. Il tribunale verifica che il 30% sia meglio di quanto prenderebbero liquidando gli (pochi) beni dell’artigiano, e omologa. Da lì l’artigiano esegue il piano e torna in bonis una volta pagato il 30% pattuito.

Una recente pronuncia della Cassazione (ord. n.9549/2025) ha distinto nettamente il concordato minore dal piano del consumatore, ribadendo che nel concordato minore i creditori votano, mentre nel piano del consumatore no, ma che ciò è costituzionalmente corretto perché nel piano del consumatore il controllo di merito lo fa il giudice al posto del voto. Questo per sottolineare che il concordato minore è negoziale nelle sue fondamenta (coinvolge la volontà dei creditori), mentre il piano del consumatore è giurisdizionale puro (il giudice può omologare contro il volere dei creditori, purché la proposta sia equa).

Piano del Consumatore

Il piano di ristrutturazione del consumatore (spesso abbreviato in piano del consumatore) è uno strumento riservato alle persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale (quindi per esigenze di consumo, familiari, personali). Esempi: un privato cittadino che ha debiti da carte di credito, prestiti personali, bollette, fideiussioni per un parente, ecc., oppure un ex imprenditore ormai pensionato i cui debiti residui non riguardano più un’attività economica.

Il funzionamento è peculiare:

  • Il consumatore propone un piano di pagamento dei debiti che può prevedere dilazioni anche molto lunghe o pagamenti parziali (falciature), utilizzando il suo reddito disponibile futuro o magari la liquidazione di qualche bene (se ne ha). Spesso sono piani che offrono ai creditori una percentuale modesta, ma superiore a zero, attingendo a quello che realisticamente il debitore può pagare in tot anni senza cadere nella miseria.
  • I creditori non votano su questo piano. Il controllo è affidato interamente al Tribunale, il quale valuta due aspetti fondamentali: la fattibilità del piano (che il debitore possa effettivamente eseguirlo) e la meritevolezza del debitore. Quest’ultimo punto implica che il consumatore non deve aver contratto debiti con colpa grave o frode, e in generale che abbia tenuto un comportamento corretto (ad esempio non deve aver aggravato la sua posizione volontariamente).
  • Se il tribunale è convinto, omologa il piano e da quel momento i creditori sono obbligati ad accettarlo. Anche se prevede pagamenti parziali o nessun pagamento per alcuni, non possono agire diversamente. Ad esempio, se il piano del consumatore prevede che i creditori chirografari ricevano il 10% in 5 anni e il giudice lo omologa, quei creditori non possono rifiutare: incasseranno semestralmente le quote previste e alla fine il 90% sarà cancellato.
  • Una particolarità, come emerso in giurisprudenza (Cass. 9549/2025 cit.), è che nel piano del consumatore si possono includere anche crediti privilegiati con dilazione ultra annuale o falcidia, cosa che nel concordato sarebbe anomala, senza dar loro diritto di voto. La Cassazione ha chiarito che ciò è possibile proprio perché la natura è diversa: il giudice supplisce al consenso mancante con la sua valutazione di equità. Quindi, ad esempio, un consumatore può proporre di pagare il mutuo ipotecario in 20 anni invece che 10 e magari tagliare gli interessi, senza interpellare formalmente la banca; starà al giudice valutare se la banca sia trattata equamente (di solito, occorre che le sia riconosciuto almeno il valore di realizzo dell’immobile in caso di esecuzione).

Il piano del consumatore è uno strumento potente per chiudere la posizione debitoria di famiglie e persone sopraffatte dai debiti. Immaginiamo un padre di famiglia che abbia cumulato €100.000 di debiti tra credito al consumo, bollette non pagate e piccoli prestiti: con un piano, potrebbe offrire di pagare €500 al mese per 5 anni (30.000 € totali) suddivisi proporzionalmente tra i creditori, dimostrando che di più non può dato il suo stipendio e le spese essenziali. Se il giudice ritiene che la proposta è seria e che il debitore non ha colpe gravi (ad esempio non ha contratto debiti col dolo di non pagarli), omologa. Il debitore deve poi rispettare i pagamenti per 5 anni; alla fine, ottiene l’esdebitazione automatica del residuo 70.000 €.

Per la meritevolezza, la legge e i giudici sono stati abbastanza elastici, volendo dare davvero una “seconda chance” alle famiglie. Situazioni di sovraindebitamento dovute a eventi come malattie, perdita del lavoro, aiuto a parenti, sono tipicamente considerate meritevoli. Diverso sarebbe un caso di vita lussuosa sproporzionata. In ogni caso, il piano del consumatore è una procedura giudiziale non negoziale, che appare quasi come un “mini concordato senza voto”. È un unicum perché nel diritto italiano è l’unico caso in cui i creditori subiscono modifiche ai loro diritti senza aver potuto dire la loro, se non con mere osservazioni al giudice.

Liquidazione Controllata del Sovraindebitato

La liquidazione controllata è l’equivalente del fallimento per il debitore civile o l’impresa minore. Si applica:

  • quando un debitore sovraindebitato lo richiede (come atto volontario di resa, per liberarsi dai debiti);
  • quando le altre procedure (concordato minore o piano consumatore) falliscono o vengono revocate;
  • oppure su istanza di un creditore o del PM in alcuni casi specifici di frode o di precedente revoca di concordato minore.

La liquidazione controllata segue regole simili alla liquidazione giudiziale:

  • Si nomina un liquidatore (corrispondente del curatore) che prende possesso dei beni del debitore persona fisica o dell’impresa minore.
  • Si formano stato passivo e si vendono i beni. Anche qui c’è una verifica dei crediti e una graduatoria.
  • Viene liquidato tutto il patrimonio disponibile del debitore (con esclusione di beni impignorabili e del minimo vitale per la persona e la famiglia).
  • Al termine, il debitore persona fisica ottiene l’esdebitazione di diritto, salvo eccezioni di mala fede. Nel CCII l’esdebitazione del sovraindebitato è praticamente automatica dopo la chiusura, a meno che sia negata per ragioni gravi (tipo frode).

La liquidazione controllata è spesso l’epilogo per chi non riesce a sostenere un piano o non ottiene il consenso dei creditori. Dura qualche anno (dipende dai beni da vendere). Durante la procedura il debitore subisce le limitazioni simili al fallito, ma in forma meno infamante – ad esempio non c’è più l’istituto dell’interdizione personale del vecchio fallimento, ma ci sono comunque restrizioni nel poter aprire nuove imprese senza avvisare ecc.

Un elemento di umanità introdotto è l’esdebitazione anche in assenza di soddisfacimento: se il debitore non possedeva nulla o quasi, e quindi i creditori non ricevono niente, può ugualmente essere liberato dai debiti, purché abbia cooperato. Questo si collega all’istituto ulteriore dell’esdebitazione del debitore incapiente (art. 282), pensato per i casi in cui uno proprio non ha nulla da dare: la legge consente, una volta nella vita, di cancellare i debiti residui a chi ha dimostrato di non aver colpa e di non poter offrire null’altro che magari la cessione del proprio stipendio per 4 anni (se ha un lavoro). Questo è il cosiddetto principio della “fresh start” estrema: non tenere un individuo incatenato ai debiti a vita se onestamente non può pagarli.

Debiti fiscali e verso lo Stato: Una nota finale sui debiti erariali in queste procedure personali. Il Fisco partecipa anch’esso e può vedere falcidiati i propri crediti. C’è sempre un’attenzione particolare: ad esempio, i debiti per IVA non versata possono essere trattati nei piani del consumatore e concordati minori come crediti qualsiasi (possibile taglio), benché a livello teorico si potesse dubitare per questioni UE – ma la Cassazione ha avallato queste soluzioni, subordinando tutto al controllo giudiziale. Nella liquidazione controllata, il Fisco è come un creditore privilegiato e prende in base alle sue garanzie e cause legittime di prelazione sui beni liquidati; il residuo va in esdebitazione tranne che per poche eccezioni (danni da illecito e obblighi di mantenimento).

In sintesi, per un socio o garante che si ritrovi con debiti personali ingenti, le vie d’uscita possibili sono:

  • tentare un accordo stragiudiziale (come per l’impresa: transazioni con banche per ridurre la pretesa, piani di rientro col fisco tramite rateazioni o rottamazioni se aperte);
  • oppure utilizzare le procedure da sovraindebitamento sopra descritte per ottenere un taglio e una cancellazione dei debiti residui con l’ausilio del tribunale.

La scelta dipende dalla situazione: un ex imprenditore con patrimonio ancora cospicuo ma illiquido potrebbe preferire un concordato minore vendendo qualche asset e pagando una parte; un consumatore con stipendio modesto opterà per un piano spalmato a lungo; uno completamente incapiente chiederà la liquidazione (o l’esdebitazione di cui all’art.282 se applicabile).

Va evidenziato che queste procedure personali prevedono la figura dell’OCC (Organismo di Composizione della Crisi) o di un professionista nominato dal giudice che assiste il debitore (nel concordato minore redige una relazione particolareggiata sulla situazione e le cause del debito, fungendo da attestatore di meritevolezza; nel piano consumatore anche, e controlla l’esecuzione; nella liquidazione controllata funge da liquidatore o assistente). Sono quindi procedure guidate e relativamente snelle, meno formalistiche del fallimento classico.

Nel 2025, con le modifiche normative, l’accesso a queste soluzioni è diventato più agevole e allineato ai principi europei: ad esempio, come detto, la presenza di crediti fiscali non è più un ostacolo insormontabile grazie al meccanismo di cram-down del voto pubblico. Inoltre, la legge ha eliminato alcuni limiti (una volta se ricordo, c’era il divieto di falcidiare l’IVA nel piano consumatore, ora superato).

Per completare il quadro, riepiloghiamo in una tabella comparativa le principali caratteristiche delle procedure concorsuali d’impresa e di sovraindebitamento:

ProceduraSoggetti (chi vi accede)Quorum/ConsensoEsdebitazioneObiettivo
Concordato PreventivoImprese soggette a fallimento (sopra soglia)Voto creditori >50% creditiNo esdebitazione (società si estingue; per l’imprenditore PF solo via art.282 se del caso)Ristrutturazione o liquidazione concordata dell’azienda (continuità o cessazione)
Accordo di RistrutturazioneImprese soggette a fallimentoAdesione >= 60% crediti (omologa tribunale)No esdebitazione diretta (segue esito come da accordo)Ristrutturazione contrattuale con omologa (vincola aderenti, limitato cram-down)
Piano Attestato di RisanamentoImprese (tutte) – stragiudizialeConsenso individuale di creditori coinvolti (no soglia legale)Non applicabile (accordo privato)Risanamento contrattuale flessibile, con protezione revocatoria se pubblicato
Composizione NegoziataImprese in crisi (anche sotto soglia)Volontaria, nessun voto formale (accordi durante)Non pertinente (non è una soluzione finale ma un percorso)Negoziazione assistita con esperto, può sfociare in accordi o concordato semplificato
Liquidazione Giudiziale (Fallimento)Imprese soggette (non minori)Nessun consenso: apertura d’ufficio o istanza creditoriEsdebitazione persona fisica a fine procedura (su istanza)Liquidazione totale beni impresa, pagamento creditori secondo prelazioni, chiusura attività
Concordato MinoreDebitori sovraindebitati non fallibili (imprenditori minori, professionisti, socio garante non consumatore)Voto creditori >50% creditiEsdebitazione automatica a omologa per residui non pagatiRistrutturazione debiti sovraindebitato con accordo maggioranza creditori
Piano del ConsumatorePersona fisica consumatoreNessun voto, deciso dal giudiceEsdebitazione automatica a fine esecuzione pianoRistrutturazione debiti con pagamento parziale/dilazionato senza attività d’impresa, tutela dignità debitore
Liquidazione ControllataQualsiasi debitore sovraindebitato (persona fisica o impresa minore)Nessun consenso: apertura giudice su istanzaEsdebitazione persona fisica al termine (quasi automatica)Liquidazione patrimonio debitore sovraindebitato, soddisfo creditori e chiusura debiti residui
Concordato SemplificatoImprese post-composizione negoziata fallitaNessun voto (tribunale decide omologa)No esdebitazione diretta (società si estingue; PF come sopra)Liquidazione concordataria rapida senza voto, per evitare fallimento dopo CN non riuscita
PRO (Piano Ristr. Omologato)Imprese soggette a CCII (generalmente medio-grandi)Nessun voto, omologa giudice con cram-down classi dissenzientiNo esdebitazione diretta (segue piano)Ristrutturazione debiti con imposizione giudiziale a classi dissenzienti, alternativa al concordato

(Legenda: PF = persona fisica; CN = composizione negoziata)

Questa tabella evidenzia come la scelta dello strumento dipenda dalla natura del debitore e dall’obiettivo perseguito (continuità aziendale vs liquidazione, necessità di forzare i creditori vs ottenere consenso volontario, ecc.).

Nei paragrafi precedenti abbiamo approfondito ciascuno di questi istituti. Per completare l’opera, passiamo ora ad alcune simulazioni pratiche che mostrino l’applicazione concreta delle soluzioni discusse in casi tipici di debiti verso fornitori, banche e Fisco.

Simulazioni pratiche: casi di debiti e soluzioni

In questa sezione presentiamo alcune ipotesi applicative basate su casi realistici, per illustrare come un imprenditore o un professionista possa affrontare situazioni di indebitamento grave utilizzando gli strumenti descritti. Le simulazioni sono semplificate, ma evidenziano i passaggi operativi e decisionali chiave.

Caso 1: PMI manifatturiera indebitata con banche e Fisco (Ristrutturazione extragiudiziale)

Scenario: Alfa S.r.l. è un’azienda meccanica (settore automotive) con fatturato di €10 milioni. Negli ultimi due anni ha subito un calo di ordini e rincari delle materie prime, accumulando perdite. Si trova esposta verso:

  • Banche: €5 milioni totali, di cui €2M su un mutuo chirografario (rata trimestrale €100k) e €1,5M su una linea di credito autoliquidante (fido €2M, attualmente quasi interamente utilizzato).
  • Fornitori: €1,2 milioni scaduti, con ritardi medi di 120 giorni e frequenti solleciti.
  • Erario: €0,5 milioni, soprattutto IVA non versata e contributi previdenziali arretrati.
  • Ha inoltre 50 dipendenti (costo fisso significativo) e il suo patrimonio netto è divenuto negativo per le perdite.

I soci però credono nel rilancio grazie ad alcuni nuovi contratti in trattativa e sono disposti a investire altro denaro se le banche concedono respiro.

Crisi: Alfa S.r.l. è tecnicamente insolvente – ha saltato due rate del mutuo, l’Agenzia Entrate Riscossione ha inviato intimazioni di pagamento per l’IVA, i fornitori minacciano di interrompere le consegne. Senza interventi, l’azienda rischia la paralisi (niente materie prime, azioni legali imminenti).

Soluzione proposta: Con l’aiuto di un advisor finanziario, Alfa prepara un Piano di Risanamento quinquennale (piano attestato):

  • I soci conferiscono €1 milione di fresh equity immediata, per ripianare in parte le perdite e avere liquidità per pagamenti urgenti.
  • Banca1 (mutuo): accetta di rimodulare il mutuo allungando la scadenza di 3 anni oltre il 2026, riducendo l’importo della rata. Rinuncia a parte degli interessi futuri. In cambio ottiene un pegno su un macchinario aziendale e una garanzia aggiuntiva da un consorzio fidi (Confidi).
  • Banca2 (fido): concorda di convertire metà dell’esposizione (€750k) in un prestito a 5 anni assistito da garanzia Fondo Centrale dello Stato, mentre l’altra metà rimane come fido di cassa ripristinato (ossigeno per il circolante). Inoltre, la banca ottiene l’impegno formale dei soci a non prelevare utili finché il nuovo prestito non sarà rimborsato per garantire il massimo reinvestimento in azienda (covenant di salvaguardia).
  • Fornitori strategici (due fornitori che rappresentano €800k del debito): viene proposto un accordo “saldo e stralcio”: pagamento del 50% del dovuto (€400k) in 12 rate mensili, e stralcio (rinuncia) del restante 50%. Per convincerli: (a) i soci spiegano che in un fallimento recupererebbero forse il 20%, quindi il 50% è conveniente; (b) Alfa offre un impegno di continuità: quei fornitori resteranno i principali fornitori per le nuove commesse, garantendo loro fatturato futuro, e si valuta di dare loro una piccola quota di partecipazione nel capitale (per allineare gli interessi).
  • Fornitori minori (€400k totali): grazie all’iniezione di liquidità dei soci, l’azienda può pagarli integralmente entro 6 mesi (evitando di coinvolgerli nel piano, così che non intraprendano azioni legali).
  • Erario: per i debiti fiscali già a ruolo (€300k di cartelle), Alfa ha presentato domanda di rateizzazione in 72 rate (6 anni) come da normativa standard. Per l’IVA più recente non ancora a ruolo (€200k), conta di pagarla utilizzando parte del nuovo finanziamento bancario/statale e con compensazioni di crediti IVA eventualmente maturati.
  • Ulteriori misure: il piano prevede un efficientamento dei costi: verrà venduto un capannone secondario (non critico per la produzione) stimato €700k, entro 1 anno, e il ricavato sarà reinvestito in azienda (metà per pagare debiti, metà per investimenti produttivi mirati a nuova commessa “green” più redditizia). Inoltre, si attuerà un programma di taglio degli sprechi e miglioramento dei processi per ridurre il costo industriale del 10% entro due anni.

Implementazione: Il piano viene messo per iscritto e sottoposto a un attestatore indipendente (un commercialista esperto di risanamenti) che analizza i numeri:

  • Verifica che con le nuove condizioni il cash flow annuale di Alfa possa coprire le rate ridotte dei mutui e i pagamenti ai fornitori rinegoziati. Conclude che, sì, l’immissione di €1M e la vendita del capannone generano liquidità sufficiente, e con i costi ridotti Alfa tornerà in utile dal secondo anno, garantendo la sostenibilità del piano.
  • Nella sua relazione, l’attestatore evidenzia che in scenario di fallimento i creditori chirografari (fornitori) avrebbero recuperato poco – forse il 20% – dato che i beni sono gravati da ipoteche bancarie. Nel piano invece i fornitori strategici prendono il 50% sicuro, e i minoritari il 100%. Dunque sono tutti trattati meglio che in liquidazione.
  • Certifica la fattibilità del piano con ragionevole probabilità e lo dichiara conveniente per i creditori aderenti.

Sulla base di ciò:

  • I contratti modificativi con Banca1 e Banca2 vengono firmati.
  • I fornitori strategici sottoscrivono un accordo transattivo in cui accettano il 50% a saldo e impegnano a continuare la fornitura (con clausola che se Alfa non paga una rata, il residuo stralciato revivisce, per incentivare il debitore).
  • Il piano e la relazione vengono pubblicati nel Registro delle Imprese (dando data certa e opponibilità ai terzi).

Esito: L’attuazione procede:

  • Le banche congelano le azioni legali (Banca X ad es. rinuncia a chiedere il fallimento e segnala il credito come oggetto di piano in Centrale Rischi). Alfa vende il capannone in 4 mesi ricavando €180k netti (un po’ meno del previsto, ma sufficiente) e versa questa somma interamente a Banca1 come concordato. Banca1 quindi rinegozia formalmente il mutuo residuo (~€1,8M) in 5 anni a tasso ridotto.
  • L’azienda, grazie alla liquidità, paga puntualmente i fornitori minori e le prime rate dovute ai fornitori strategici, che quindi continuano a spedire materiali.
  • Il fisco: Alfa inizia a pagare le rate mensili dell’accordo Equitalia e utilizza parte dell’aumento di capitale per versare l’IVA corrente, così da rientrare nella compliance.
  • I dipendenti vengono mantenuti; anzi, grazie alla ripresa delle commesse, Alfa toglie alcuni di essi dalla cassa integrazione già dopo 6 mesi, migliorando la produttività.

Dopo 1 anno, Alfa S.r.l. è ancora operativa, con un indebitamento dimezzato. I fornitori strategici hanno incassato l’ultima rata del loro 50% concordato e firmano quietanza di rinuncia sul resto. Le banche vedono l’azienda in regola coi nuovi piani di rientro. Il capitale sociale è tornato positivo.

In prospettiva, Alfa ha ancora un debito bancario significativo (circa €3M residui) ma sostenibile con i flussi generati dalle nuove commesse. La crisi acuta è risolta senza ricorrere al tribunale, tramite un piano attestato che ha richiesto impegno dei soci e fiducia reciproca con i creditori. In caso di qualunque inciampo, come rete di sicurezza Alfa potrebbe comunque ricorrere a un concordato minore o preventivo, ma al momento non serve.

Commento: Questo caso illustra la potenza di un intervento tempestivo: i soci hanno agito prima che fioccassero pignoramenti, riuscendo a negoziare in posizione ancora recuperabile. I fornitori e le banche hanno collaborato perché convinti che fosse la via migliore per massimizzare il recupero (lo evidenzia l’attestazione indipendente). Il Fisco, soggetto rigido, è stato gestito con strumenti ordinari (dilazione standard) e un po’ di pagamento upfront. Se fosse servito uno sconto su sanzioni, si sarebbe potuto includere una transazione fiscale in un eventuale concordato, ma in sede stragiudiziale l’Agenzia può solo applicare le norme vigenti (nel 2023 ad esempio c’era la “rottamazione-quater” che Alfa avrebbe potuto sfruttare se i tempi coincidevano).

Caso 2: Piccola impresa commerciale indebitata con un solo istituto e fornitori (Accordo stragiudiziale assistito)

Scenario: Beta S.n.c. gestisce 5 negozi di abbigliamento in Toscana (settore commercio). Aveva ottenuto un finanziamento bancario di €500.000 per aprire due nuovi punti vendita, ma le vendite sono calate per la concorrenza online e la crisi dei consumi. Ora Beta ha:

  • Debito residuo verso Banca X: €400k, tra mutuo e scoperto di conto. I due soci hanno prestato garanzia ipotecaria su un appartamento di proprietà per quel finanziamento.
  • Debiti verso fornitori moda: €200k, alcuni dei quali hanno già ottenuto decreti ingiuntivi (titoli esecutivi).
  • Canoni di affitto arretrati: €50k su vari locali.
  • L’azienda ha già chiuso 1 negozio e licenziato 3 commessi, ma ancora fatica a pagare i fornitori. Banca X è in allarme, ha classificato il credito come “past due” e minaccia di escutere l’ipoteca di cui sopra.

Crisi: Beta S.n.c. è in crisi di liquidità. Ha ancora vendite, ma ridotte; troppi negozi per i ricavi effettivi. Il rischio concreto è che la banca avvii pignoramento dell’immobile dei soci garanti, e che i fornitori ottengano pignoramenti su incassi o magazzino.

Idea di soluzione: i soci di Beta decidono di impostare un piano di ridimensionamento e rientro:

  • Chiusura di altri due punti vendita poco profittevoli, riducendo da 5 a 3 negozi attivi. Questo dovrebbe tagliare costi di affitto e personale di circa 40%.
  • Messa in vendita dell’appartamento ipotecato dei soci (valore stimato €200k) per ricavare liquidità e ridurre drasticamente il debito bancario.
  • Proposta a Banca X: se i soci versano alla banca il ricavato della vendita (stimato €180-200k netto), chiedono in cambio di:
    • Rinunciare ad azioni esecutive immediate (sospendere la procedura esecutiva sull’immobile).
    • Trasformare il residuo debito dopo la vendita (che sarà circa €200-220k) in un mutuo a 5 anni con rata sostenibile.
    • Concedere 6 mesi di moratoria iniziale (nessuna rata per i primi 6 mesi) per dare fiato alla cassa e permettere il rilancio.
      Banca X inizialmente era restia, ma di fronte alla prospettiva concreta di incassare subito €180k senza aste e poi avere un debitore più leggero e con garanzia ancora (manterrà ipoteca sull’immobile finché venduto) ha mostrato apertura.
  • Proposta ai fornitori: Beta convoca i principali fornitori di merce (che vogliono tutti che l’azienda resti aperta per poter recuperare). Offre un piano: pagare il 50% dei loro crediti in 12 mesi (rate mensili puntuali) e stralciare il restante 50%. Condizione: i fornitori devono continuare a rifornire i 3 negozi rimasti alle condizioni commerciali normali (non in anticipo, ma con dilazione standard), altrimenti Beta non avrebbe merce da vendere e la promessa di rientro salt would saltare. I fornitori comprendono che se Beta fallisce prenderebbero zero (i pochi beni andrebbero alla banca ipotecaria in gran parte), quindi sono motivati ad accettare il 50% pur di mantenere in vita il cliente.
  • Accordo coi locatori: Beta deve risolvere i contratti d’affitto dei negozi che chiude, e ridurre il costo degli altri:
    • Propone ai proprietari dei locali dei 2 negozi da chiudere di trovare un nuovo inquilino subentrante (magari un altro commerciante) rapidamente, così che il locatore non perda canoni. Beta si offre di aiutare con passaparola e agenzie a cercare un sostituto, in cambio di poter uscire senza penale.
    • Per i 3 negozi rimanenti, chiede ai locatori uno sconto del 20% dell’affitto per 1 anno come misura temporanea per il rilancio. La maggior parte dei proprietari accetta, preferendo incassare un po’ meno piuttosto che rischiare di perdere l’inquilino e avere il locale sfitto (specie in quell’epoca post-Covid in cui i negozi vuoti abbondano).
  • I soci infine si impegnano personalmente a supportare il piano: oltre a vendere l’immobile, rinunciano a prelevare utili per 3 anni e se necessario faranno piccoli versamenti soci per coprire spese straordinarie. Mostrano così buona fede.

Attuazione e formalizzazione:

  • Beta S.n.c. incarica un commercialista di predisporre un piano di risanamento semplice con dati e proiezioni a 2 anni. Data la dimensione piccola, i costi professionali sono contenuti.
  • Viene coinvolto un attestatore (lo stesso commercialista, terzo rispetto ai soci) che in breve relazione certifica che:
    • vendendo 2 negozi su 5 e tagliando i costi, l’azienda tornerà a break-even in un anno e potrà generare flussi per pagare il mutuo ridotto e i fornitori;
    • l’evento critico è la vendita dell’appartamento a €200k, ma si stima cautelativamente €180k e comunque il piano regge anche a quel valore;
    • in caso di fallimento, i fornitori probabilmente non avrebbero visto nulla perché la banca ipotecaria assorbirebbe quasi tutto (questo persuade anche il giudice in caso di controllo).
  • Si procede a sottoscrivere gli accordi:
    • Banca X firma un accordo di moratoria e rinegoziazione condizionato alla vendita dell’immobile entro X mesi. Mantiene ipoteca fino a vendita e poi sul ricavato per la parte residua. L’accordo prevede che se Beta non riesce a vendere entro 6 mesi, la moratoria decade. (Fortunatamente Beta riesce a vendere in 4 mesi a €180k e adempie).
    • I fornitori firmano ciascuno una transazione dove accettano il pagamento del 50% in 12 rate e dichiarano che rinunceranno al resto a condizione dell’integrale pagamento del 50%. Inseriscono la clausola che se Beta salta due rate, decadono dal beneficio e possono agire per l’intero residuo originario (giusto per tutela, ma confidano di no).
    • I locatori firmano delle scritture private di riduzione temporanea del canone e di risoluzione anticipata condizionata all’ingresso di nuovo conduttore.
  • Beta deposita il piano attestato al Registro Imprese a fine procedura per dare pubblicità ed efficacia erga omnes, sebbene essendo piccola non fosse strettamente necessario, ma lo fa soprattutto per poter godere dell’esenzione fiscale: infatti, grazie alla pubblicazione, la metà di debiti fornitori che viene stralciata non verrà conteggiata come ricavo tassabile (sopravvenienza attiva esente, secondo il TUIR).

Esito:

  • Banca X sospende il pignoramento. Dopo 4 mesi, Beta vende l’appartamento a €180k, versa tutto alla banca, che così riduce il suo credito a circa €220k. La banca formalizza un nuovo mutuo ipotecario di €220k a 5 anni; la garanzia ipotecaria resta sul medesimo immobile fino a vendita e poi viene trasferita sul ricavato (che di fatto è stato versato) – in pratica la banca è sicura del suo. Le rate nuove partono dopo 6 mesi come da accordo.
  • Beta chiude i 2 negozi meno profittevoli e liquida 4 dipendenti (trovano un accordo per TFR e indennità grazie anche ai depositi cauzionali restituiti dai locatori e un piccolo prestito soci).
  • I 3 negozi rimanenti, alleggeriti nei costi e con merce fresca fornita regolarmente, tengono il fatturato. I fornitori ricevono le 12 rate come orologio e, terminate, rilasciano quietanza liberatoria del restante 50%.
  • Un anno dopo, Beta S.n.c. è più piccola (3 negozi) ma stabilizzata: genera utili modesti ma sufficienti a pagare la rata mutuo e i nuovi debiti correnti puntualmente. I soci hanno perso il loro appartamento (sacrificio), ma hanno salvato l’azienda e i posti di lavoro dei rimanenti dipendenti.

Commento: Questo caso evidenzia:

  • L’importanza di un approccio proattivo: vendere beni personali per ridurre il debito e mostrare serietà paga nel convincere la banca.
  • I fornitori, se messi di fronte all’alternativa del fallimento, spesso preferiscono un compromesso (50% in questo caso).
  • Anche i piccoli accordi beneficiano di una attestazione professionale: qui un professionista ha certificato che i numeri tornavano e i creditori principali (banca e fornitori) hanno fatto affidamento su quella verifica indipendente.
  • Beta ha evitato la procedura concorsuale (che sarebbe stata il fallimento, data l’insolvenza) e con un piano attestato è riuscita dove un concordato avrebbe forse portato a chiusura (il retail è delicato: se i clienti sanno che stai fallendo, smettono di comprare per timore di post-vendita e i fornitori bloccano le consegne). Mantenendo riservato l’accordo, Beta ha preservato la reputazione commerciale durante la crisi.

Se Beta non fosse riuscita in questo sforzo, come ultima risorsa i soci avrebbero potuto considerare la liquidazione controllata personale per liberarsi dai debiti residui, ma così avrebbero perso l’azienda. Invece con il piano l’hanno salvata, pur sacrificando un asset personale (casa) – trade-off non raro nelle PMI familiari.

Caso 3: Imprenditore individuale sommerso da debiti fiscali e verso lo Stato (Procedura da sovraindebitamento)

Scenario: Mario Rossi era un imprenditore individuale nel settore dei trasporti, ha cessato l’attività due anni fa lasciando però una scia di debiti. Oggi lavora come dipendente camionista. I suoi debiti includono:

  • Cartelle esattoriali per €150.000, derivanti da IVA non versata, IRPEF non pagata di anni passati e contributi INPS artigiani omessi. Comprendono sanzioni e interessi di mora.
  • Banca: €30.000 di scoperto di conto non rientrato, che la banca ha classificato a sofferenza e ceduto a una società di recupero crediti.
  • Privati: €20.000 verso un fornitore di carburante che non è mai stato pagato (ha decreto ingiuntivo esecutivo).
  • Mario non ha immobili né capitali: vive in casa in affitto, possiede solo un’auto usata. Ha uno stipendio netto di €1.500 al mese come dipendente. È sposato e ha due figli a carico. Il bilancio familiare è risicato, ma potrebbe destinare, poniamo, €300 al mese al rimborso debiti se ben gestito (il resto serve per vivere).

Crisi: Mario è sovraindebitato in modo evidente: €200k debiti totali, patrimonio praticamente nullo, reddito modesto. I creditori possono agire solo sullo stipendio (pignorabile 1/5, cioè €300/mese). Di fatto, se tutti agissero, si pignorerebbe il quinto per anni, ma considerato l’importo, non basterebbe una vita a saldare tutto (300€/mese = 3.600€/anno, per 200k euro servirebbero 55 anni!). Inoltre pignoramenti multipli sarebbero in concorrenza.

Obiettivo: Dare a Mario una via d’uscita ragionevole, liberandolo dai debiti in un orizzonte finito, pur garantendo ai creditori qualcosa in più e più rapidamente di quanto avrebbero spremendolo a vita.

Soluzione: Mario si rivolge all’OCC (Organismo di Composizione delle Crisi) locale per valutare le opzioni di sovraindebitamento. Dato che i debiti sono in buona parte verso lo Stato e che Mario non è più imprenditore (ora è consumatore in senso lato, ma i debiti originano da impresa), l’OCC suggerisce due strade possibili:

  • un Piano del Consumatore (se passa come consumatore e il tribunale lo ammette nonostante i debiti fiscali siano di attività cessata);
  • oppure un Concordato Minore (in quanto ex imprenditore, se fosse in dubbio la qualifica di consumatore, per sicurezza).

Si propende per il piano del consumatore, perché:

  1. Non serve il voto dei creditori (il Fisco spesso voterebbe contro se propone tagli);
  2. Mario ora è di fatto un privato con reddito fisso, quindi assimilabile a un consumatore.

L’OCC aiuta Mario a predisporre un piano in cui offre:

  • Pagamento di €300 al mese per 4 anni (48 mesi), da prelevare direttamente in cessione del quinto volontaria. Totale €14.400.
  • Eventuale bonus: se nei 4 anni Mario riceverà un TFR (ha 10 anni di contributi nella vecchia attività), si impegna a versarne ai creditori il 50% netto che ecceda €5.000. (Clausola per dare qualcosa in più in caso di eventi positivi).
  • Quindi, in condizioni base i creditori riceverebbero €14.400, pari a circa il 7% del totale dovuto.
  • Il piano prevede di ripartire proporzionalmente tale somma tra i creditori chirografari (banca cessionaria credito e fornitore) e quelli privilegiati (lo Stato). Attenzione: i crediti IVA hanno privilegio generale sui mobili; contributi pure. Quindi l’Agente Riscossione è privilegiato in gran parte. Il piano propone comunque di falcidiare anche parte di questi privilegiati perché la capienza sul quinto è poca cosa.
  • L’OCC nella relazione evidenzia che:
    • In liquidazione controllata non ci sarebbe nulla da liquidare se non forse l’auto (che vale €3k) e qualche mobile. I creditori privilegiati avrebbero preso quell’auto e poco altro, e avrebbero comunque dovuto rincorrere il 1/5 di stipendio. In 4 anni di pignoramento il massimo sarebbe stato €14.400 comunque, ma con incognite e spese.
    • Nel piano proposto, invece, i creditori risparmiano tempo e spese, e ottengono quell’importo con certezza (il meccanismo di cessione garantisce il flusso).
    • Mario è meritevole: i debiti derivano dal fallimento dell’attività di trasporto, settore in cui i margini si sono ridotti; non ha vissuto nel lusso, anzi ha venduto il camion per pagare parte di debiti ma non è bastato. Non risultano atti in frode, né nuove passività dopo la cessazione.
    • Dunque il piano appare equilibrato: i creditori ricevono il massimo di quanto ragionevolmente ottenibile dalla capacità di reddito di Mario, e Mario potrà poi tornare a vivere dignitosamente libero dai debiti, evitando di restare nell’economia sommersa (anche l’Erario ha interesse che continui a lavorare e pagare le tasse future, cosa che sarebbe scoraggiata se restasse oppresso per sempre).

L’OCC deposita la relazione e il piano al tribunale.

Omologazione: In udienza i creditori vengono sentiti. L’Agenzia delle Entrate-Riscossione si oppone formalmente, sostenendo che 7% è troppo poco e che Mario potrebbe pagare per più anni. Magari propone 300€/mese per 10 anni (ma per il giudice 10 anni è eccessivo perché la legge cerca soluzioni non ultradecennali). I creditori privati (società recupero crediti e fornitore) sono assenti o comunque sanno che pignorare non darebbe di più.

Il giudice valuta:

  • Il parametro di legge: Mario offre a tutti almeno quanto otterrebbero dalla liquidazione (che sarebbe quasi zero) – sì, il criterio è soddisfatto.
  • La sostenibilità: €300 su €1500 di stipendio è fattibile, lascia il necessario per famiglia. 4 anni è un periodo sufficiente e non eccessivo.
  • La meritevolezza: dalle carte appare che Mario non ha colpe gravi (non ha frodato il fisco, semplicemente non ce l’ha fatta a pagare; ha chiuso l’attività per limitare i danni).
  • Il Fisco, pur dissenziente, non risulta danneggiato rispetto a alternative (anzi probabilmente in 4 anni incassa di più di quanto avrebbe incassato dal quinto visto che altri creditori avrebbero concorso).

Il tribunale quindi omologa il piano del consumatore nonostante l’opposizione dell’Agente Riscossione, applicando la norma che consente di superare il dissenso del Fisco se la proposta non è irragionevole. La Cassazione 2025 conferma questa possibilità: anche con moratorie lunghe o tagli ai privilegiati, il piano del consumatore resta valido senza voto, perché il controllo del giudice supplisce al voto dei creditori.

Esecuzione: Viene notificato al datore di lavoro di Mario l’atto di cessione del quinto: €300 al mese vanno accantonati per il piano. Il datore li versa all’OCC o al conto dedicato. Ogni anno, l’OCC ripartisce le somme come da piano: tot% al Fisco, tot% agli altri, oppure accumula e distribuisce alla fine (dipende dai dettagli tecnici). Mario osserva rigorosamente i pagamenti (in realtà li fa il datore per lui).

Dopo 4 anni, Mario ha versato €14.400. I creditori hanno ricevuto le loro quote. Il giudice dichiara eseguito il piano e conseguentemente esentati i debiti residui di Mario. Significa che:

  • L’Agenzia delle Entrate non potrà più pretendere il resto dei €150k meno la sua parte di 14k (diciamo che su 14k a lei ne sono andati 10k, quindi rinuncia a ~140k, che saranno stralciati contabilmente come insoluti).
  • La società di recupero crediti chiude la posizione (aveva pagato poco quel credito in sofferenza, e recupera magari 2k su 30k).
  • Il fornitore incassa 2k su 20k, meglio di zero.
  • Mario esce “pulito”: potrà anche comparire come affidabile in futuro (dopo qualche tempo), non avrà più quelle iscrizioni pregiudizievoli.

Commento: In questo caso, l’unica via per dare soluzione era la procedura di sovraindebitamento. Un accordo stragiudiziale con il Fisco per scontare oltre 90% del dovuto era impensabile (non esiste rottamazione che tagli il capitale, solo sanzioni/interessi). Solo il giudice può farlo, in virtù dell’obiettivo di dare al debitore onesto ma sfortunato una seconda chance.

La scelta del piano del consumatore è risultata vincente perché ha evitato la necessità di consenso praticamente impossibile. Se Mario fosse stato tecnicamente imprenditore (non consumatore), avrebbe dovuto fare un concordato minore: lì avrebbe servito il voto favorevole di almeno 51% crediti. Con il Fisco al 80% del totale, se questo avesse votato contro, niente omologa… Anche se la legge prevede il cram-down fiscale nel concordato minore, è limitato a caso di voto negativo “irragionevole” e va dimostrato; comunque essendoci pochi creditori, sarebbe stato incerto. Il piano consumatore bypassa queste difficoltà.

Si noti infine la dignità sociale preservata: Mario può ora lavorare e mantenere la famiglia senza dover occultare redditi per paura dei creditori. Questo riflette la finalità delle norme sul sovraindebitamento: non punire a vita chi è insolvente ma permettere di ripartire, ovviamente pagando quel che può in base alle sue possibilità.

Domande frequenti (FAQ)

D: Cosa si intende esattamente per “debiti commerciali” e “debiti finanziari”?
R: I debiti commerciali sono quelli originati da transazioni commerciali, ad esempio acquisto di merci o servizi: tipicamente i debiti verso fornitori, affitti da pagare, bollette, etc. I debiti finanziari invece derivano da contratti di finanziamento: prestiti bancari, mutui, leasing, scoperti di conto, obbligazioni emesse. In sintesi, i primi nascono dal normale ciclo di vendita/acquisto dell’azienda, i secondi dal reperimento di capitali di credito. Questa distinzione è utile perché spesso i debiti finanziari hanno garanzie e scadenze diverse (elevati importi, lungo termine) mentre i commerciali sono a breve e senza garanzie, influenzando come vanno gestiti nel piano di risanamento.

D: Un debitore può davvero liberarsi di debiti verso lo Stato? Ad esempio, l’IVA non pagata può essere tagliata?
R: Sì, ma solo attraverso specifici strumenti e condizioni. In un accordo stragiudiziale, il Fisco di norma non può rinunciare al tributo (l’IVA in particolare è considerata un’imposta “europea” e lo Stato non la può spontaneamente ridurre). Però nelle procedure concorsuali o di sovraindebitamento è possibile trattare anche l’IVA e gli altri tributi come parte del piano. Ad esempio, nel concordato preventivo o minore, si può proporre il pagamento parziale dell’IVA tramite la transazione fiscale; serve il voto favorevole dell’Erario, ma se esso vota contro in modo irragionevole il giudice può ugualmente omologare. Nel piano del consumatore, addirittura, l’IVA può essere falcidiata senza voto dei creditori. Ovviamente va garantito che lo Stato prenda almeno quanto otterrebbe altrimenti (principio di convenienza). Inoltre, periodicamente il legislatore introduce definizioni agevolate (“rottamazione delle cartelle”) che permettono di stralciare sanzioni e interessi e pagare solo il tributo, in forma rateale. In sintesi: fuori dalle procedure giudiziali lo Stato difficilmente fa sconti (se non per legge), dentro una procedura si può ottenere un taglio dei debiti fiscali, specie se il piano alternativo darebbe allo Stato somme inferiori.

D: Che differenza c’è tra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione? Sembrano simili, quale scegliere?
R: Sono simili nell’obiettivo (ristrutturare i debiti con l’ausilio del tribunale) ma diversi come modalità:

  • Il concordato preventivo coinvolge tutti i creditori e prevede un voto di maggioranza; offre uno stay automatico appena presentata domanda e consente soluzioni molto varie (continuità o liquidazione). È indicato quando c’è necessità di vincolare anche molti creditori o non c’è tempo/possibilità di negoziare con ciascuno.
  • L’accordo di ristrutturazione coinvolge solo i creditori che aderiscono (minimo 60% dei crediti); non c’è voto universale, ma serve raggiungere accordi bilaterali fino a quel quorum e poi chiedere l’omologa. È più rapido e meno costoso, ma lascia fuori i non aderenti (che vanno comunque soddisfatti integralmente). Quindi funziona bene se i creditori principali (es. le banche) sono d’accordo e i piccoli si può pagarli fuori accordo. Se invece devi tagliare un po’ a tutti, meglio il concordato che li vincola con una maggioranza.
    In pratica: pochi creditori, concentrati = accordo di ristrutturazione; tanti creditori o bisogno di falcidiare pure i dissenzienti = concordato. Va detto che con le nuove norme esistono forme ibride (come i PRO) che aggiungono flessibilità tipo accordo ma con cram-down come il concordato.

D: Ho debiti personali perché ho garantito la mia società con fideiussione: se la società fallisce, posso proteggere la mia casa personale?
R: Se hai firmato una fideiussione per il debito bancario della tua società, sei obbligato personalmente in solido con l’azienda. Dunque se l’azienda fallisce e lascia ad esempio un debito verso la banca di €100k, la banca potrà rivalersi su di te per l’intero importo (nei limiti della fideiussione concessa). La tua casa, se non è già ipotecata, potrebbe essere aggredita con pignoramento. Come proteggersi? Le strade possibili:

  • Trattativa con la banca: a volte, contestualmente alla procedura concorsuale della società, il fideiussore riesce a negoziare un saldo e stralcio (es. pagare il 30% personalmente per chiudere la fideiussione). La banca lo valuta in base alla tua solvibilità: se la casa è l’unico bene e hai altri debiti, potrebbe accettare un accordo vantaggioso.
  • Procedura di sovraindebitamento: se il debito eccede le tue possibilità, puoi valutare un concordato minore o un piano del consumatore personale. Così, offri ai creditori (compresa la banca) quello che puoi – magari vendendo la casa o mettendola a garanzia di un pagamento parziale – e ottieni l’esdebitazione per la parte restante. Ad esempio, vendi la casa e dai il ricavato pro-quota ai creditori, liberandoti del residuo. Oppure, se vuoi tenere la casa, puoi proporre di pagare un certo importo rateale e chiedere di esdebitare il resto, ma la banca vorrà in tal caso almeno il valore di mercato equivalente all’ipoteca.
  • Esdebitazione dopo liquidazione: se non trovi accordi e sei sommerso di debiti, puoi optare per la liquidazione controllata personale: liquidano i tuoi beni (la casa verrebbe venduta) e poi vieni liberato dai debiti residui. In pratica perdi la casa ma salvi futuro reddito.
    In conclusione, la tua casa è a rischio se sei garante e la società non paga. Per salvarla, l’unica è pagare il debito garantito (integralmente o tramite accordo) prima che la pignorino. Altrimenti, attraverso una procedura concorsuale personale potresti quantomeno ritardare la vendita o condurla ordinatamente e poi avere il saldo e stralcio giudiziale del residuo. È fondamentale analizzare con un professionista il caso concreto per decidere la strategia di difesa migliore.

D: Quanto tempo ci vuole per uscire dai debiti con queste procedure?
R: Dipende molto dallo strumento scelto e dalla complessità del caso. Orientativamente:

  • Accordi stragiudiziali (piani attestati, accordi con banche/fornitori): possono realizzarsi in pochi mesi di trattativa e poi l’esecuzione dipende dal piano (es. 1-2 anni per completare i pagamenti). La parte negoziale può richiedere 3-6 mesi, a volte meno se c’è urgenza e buona intesa. Sono le più rapide se c’è cooperazione.
  • Composizione negoziata: la legge prevede un periodo di 3-6 mesi prorogabile di altri 3. Quindi entro diciamo 9-12 mesi si deve concludere con un accordo o si passa ad altro. Serve per negoziare, non è essa stessa la soluzione finale, salvo sfoci in un accordo o concordato.
  • Concordato preventivo: il procedimento dall’istanza all’omologa può durare orientativamente 6-12 mesi (spesso intorno ai 9 mesi). L’esecuzione del piano poi può durare anni (es. se prevede pagamenti in 5 anni, tu sarai “dentro” finché non hai adempiuto, sotto controllo del commissario). La procedura formale chiude all’omologa, ma in caso di inadempimento poi i creditori possono farla risolvere giudizialmente. Diciamo che per vedere la fine dei debiti in concordato, tra iter legale e pagamento, spesso ci vogliono 2-5 anni.
  • Liquidazione giudiziale: purtroppo i fallimenti possono durare anche parecchi anni, a seconda dell’attivo da liquidare e del contenzioso. La media storica in Italia era 5-7 anni, ma il CCII punta a velocizzare. Per il debitore persona fisica, l’esdebitazione può ottenerla anche prima della chiusura definitiva in alcuni casi, comunque attorno a 3-4 anni è ragionevole se l’attivo è piccolo. Se l’impresa è complessa (molti beni, cause), la liquidazione può protrarsi >5 anni.
  • Concordato minore/piano consumatore: sono in genere più veloci del concordato preventivo, perché i creditori sono meno e la procedura è semplificata. Si potrebbe ottenere omologa in 4-6 mesi. Poi la durata dipende dal piano: per un consumatore spesso 4-5 anni di pagamenti; per un concordato minore idem. Quindi in totale diciamo 5 anni per essere completamente libero.
  • Liquidazione controllata: anche qui, se l’attivo è poco (solo debiti, niente da vendere) può chiudersi in 1-2 anni giusto il tempo amministrativo; se c’è un immobile da vendere e qualche opposizione, magari 3 anni. L’esdebitazione arriva subito dopo.
    In sintesi, uscire dai debiti non è istantaneo: i percorsi richiedono alcuni anni. La via più rapida se fattibile è l’accordo stragiudiziale (paga e stralcia in pochi mesi). La via giudiziale assicura però che alla fine, anche se lunga, c’è un provvedimento che cancella i debiti residui. Con pazienza e la strategia giusta, in 3-5 anni si può passare dall’essere sommersi dai debiti all’essere solvibili di nuovo.

D: Avviare una procedura concorsuale non rischia di distruggere la reputazione dell’azienda e far perdere i clienti?
R: È vero, il rischio reputazionale esiste. L’apertura di un concordato o l’ammissione a liquidazione giudiziale diventano pubbliche e spesso i partner commerciali reagiscono (clienti che scappano per paura di non ricevere merce o garanzie, fornitori che interrompono consegne perché temono di non essere pagati). Ecco perché, se l’obiettivo è salvare l’azienda in continuità, spesso si tenta prima ogni strada stragiudiziale riservata. Il nuovo Codice della Crisi ha introdotto la composizione negoziata proprio per gestire crisi in modo confidenziale, limitando la pubblicità finché non strettamente necessario. Inoltre, se si deve ricorrere a una procedura, la meno dannosa reputazionalmente è il concordato in continuità: in alcuni casi viene percepito come un “lavori in corso” per risanare e molte aziende poi ne escono (specie se i clienti sono altre imprese informate della prassi). Addirittura la legge prevede che l’azienda in concordato continui a poter stipulare contratti e partecipare a gare pubbliche (art. 94 CCII, già art.186-bis LF) per evitare emarginazione. Certo, qualche perdita commerciale può avvenire. Sta al management comunicare bene la situazione: rassicurare i clienti importanti spiegando che l’azienda sta ristrutturandosi per essere più solida e che le forniture continueranno (magari dando garanzie di adempimento corrente). Molti fornitori, se vedono serietà, supportano l’azienda in concordato perché sperano di mantenerla come cliente nel futuro (meglio un cliente risanato domani che uno fallito oggi). In sintesi, , l’entrata in procedura concorsuale è un campanello rosso sul mercato, ma gestito con trasparenza e piani credibili si può limitare il danno. A volte invece non c’è più nulla da perdere: se l’azienda è già praticamente ferma e i creditori sanno tutto, tanto vale il concordato o la liquidazione per ripartire puliti.

D: Dopo aver ottenuto l’esdebitazione (cancellazione dei debiti), posso tornare ad aprire un’attività? Ci sono conseguenze a lungo termine?
R: L’esdebitazione – sia post fallimento, sia da sovraindebitamento – libera la persona fisica dai debiti rimasti insoddisfatti. Dopo ciò:

  • Puoi in linea generale tornare a fare impresa o attività economica. Non c’è più la preclusione (un tempo il fallito non riabilitato aveva limitazioni, ma con l’esdebitazione si è riabilitati).
  • Alcune banche o fornitori potrebbero ovviamente essere prudenti nel concederti credito, sapendo che hai avuto un’insolvenza pregressa. Ma legalmente non sei segnalato a vita: le informazioni di fallimenti passati restano in alcune banche dati per qualche anno (Cerved, CRIF), poi decadono. Anche nel casellario giudiziale l’annotazione del fallimento viene eliminata dopo l’esdebitazione.
  • Devi però considerare che la legge pone dei limiti per non abusare: ad esempio non puoi chiedere una nuova esdebitazione entro 5 anni da una precedente (o 4 anni se esdebitazione incapiente). Quindi se ti indebiti di nuovo pesantemente subito dopo, sappi che non potrai avere un’altra “pulizia” tanto presto.
  • Se apri una nuova società, il fatto di aver avuto un fallimento potrebbe farti classificare come soggetto a rischio in certe procedure (tipo gare pubbliche richiedono di dichiararlo se negli ultimi 5 anni hai avuto ruoli in imprese fallite). Ma trascorso un po’ di tempo, no.
    In sostanza, l’esdebitazione esiste proprio per darti la possibilità di ricominciare da capo senza il macigno del debito passato – è il principio della “fresh start” voluto dall’UE. Molti imprenditori di successo hanno avuto fallimenti e poi, liberati dai debiti, ci hanno riprovato con esperienza maggiore. L’importante è analizzare cosa è andato storto e non ripetere quegli errori.

D: Se la mia azienda è in crisi, quando dovrei attivarmi? Conviene aspettare sperando in tempi migliori o muoversi subito?
R: La esperienza insegna: prima si agisce, maggiori soluzioni ci sono. Se attendi troppo, rischi di:

  • Erodere la cassa a zero, per cui poi non hai risorse per nessun piano (es. paghi tutti finché puoi e poi d’un tratto non paghi più nessuno – è peggio).
  • Perdere la fiducia di banche e fornitori man mano che vedono ritardi e insoluti – dopo sarà più dura negoziare.
  • Incorrere in obblighi di legge: ricordiamo che gli amministratori hanno il dovere di attivarsi appena c’è rischio di insolvenza (gli strumenti di allerta spingono a questo). Se si attende e poi si fallisce, si rischiano azioni di responsabilità per aver aggravato il dissesto.
    Dall’altro lato, attivarsi troppo presto e dichiarare crisi quando magari era passeggera può esporre a procedure inutili. Quindi serve equilibrio. Un buon indicatore è il piano di cash flow: se vedi che tra 6 mesi non riuscirai a pagare debiti per certo, è tempo di consultare un esperto di crisi. La composizione negoziata può anche essere attivata in fase di “pre-crisi” (stato di difficoltà, non per forza insolvenza conclamata) e può aiutare a evitare guai peggiori. In pratica:
  • se c’è ancora margine, tenta subito soluzioni informali (rinegozia prestiti, taglia costi, ecc.);
  • se vedi segnali di allarme (indici di allerta, indicatori CCII come patrimonio netto negativo, DSCR <1, debiti fiscali significativi non pagati), non esitare a chiedere aiuto (OCC, advisor) e magari avviare la composizione negoziata.
  • Aspettare l’ultimo minuto (tipo l’udienza su istanza di fallimento di un creditore) è la posizione peggiore: avrai poche carte da giocare e dovrai agire in emergenza.
    Quindi proattività! Come recita un detto anglosassone: “Hope is not a strategy” – sperare non è una strategia. Meglio predisporre un piano B finché sei ancora al comando e non sotto pressione totale dei creditori.

Conclusioni

Affrontare debiti commerciali e finanziari richiede un mix di lucidità, competenza e tempestività. Abbiamo visto come l’ordinamento italiano, aggiornato alle ultime riforme del 2022-2024, metta a disposizione un’ampia gamma di strumenti – dai tavoli negoziali assistiti alle procedure giudiziali – per gestire situazioni di insolvenza in modo ordinato e, ove possibile, recuperatorio. Per un imprenditore o un professionista legale chiamato a consigliare un’impresa in crisi, le parole chiave sono: diagnosi precoce dei problemi finanziari, pianificazione di una strategia adatta al caso (salvataggio dell’attività vs liquidazione), e coinvolgimento responsabile dei creditori nelle soluzioni.

È importante sottolineare la filosofia di fondo del moderno diritto della crisi: non più visto come uno stigma di fallimento definitivo, ma come un processo di ristrutturazione e di possibile seconda opportunità. Le sentenze recenti mostrano una giurisprudenza attenta a bilanciare i diritti dei creditori con l’esigenza di dare al debitore onesto un percorso di risanamento (si pensi alla Cassazione che consente piani del consumatore con tagli anche ai privilegiati, compensando l’assenza di voto con il controllo giudiziario).

Dal punto di vista pratico, ogni situazione di indebitamento è un caso a sé stante: la soluzione va tagliata su misura tenendo conto del mix di debiti (banche, fornitori, Fisco, dipendenti), del settore in cui opera l’impresa, delle prospettive future di mercato e delle risorse attivabili (beni, garanzie, nuova finanza). Avvocati e consulenti devono lavorare fianco a fianco con l’imprenditore, analizzando bilanci e flussi, e magari con l’ausilio di professionisti attestatori o esperti indipendenti, per dare credibilità al piano verso i creditori.

Un messaggio chiave per gli imprenditori italiani è che non sono soli di fronte ai debiti: esistono procedure che – pur complesse – offrono vie d’uscita legali e trasparenti. Ignorare il problema o confidare in soluzioni miracolose dell’ultimo minuto (come nuovi prestiti “tappabuchi”) spesso porta al collasso irreversibile, mentre affrontare di petto la ristrutturazione può salvare il valore aziendale e i posti di lavoro. D’altronde, come evidenziato, il 2024 ha visto un aumento significativo dei fallimenti proprio in settori come costruzioni e industria, segno che chi non si adatta per tempo alle difficoltà rischia di soccombere.

In conclusione, la guida operativa qui fornita auspica di aver delineato in modo chiaro “cosa fare” in presenza di debiti insostenibili: dalle mosse iniziali (analizzare la situazione, parlare con i creditori, attivare early warning) fino agli strumenti concretamente utilizzabili per “uscirne” – uscirne, possibilmente, con un’azienda risanata oppure, nei casi peggiori, con una chiusura dignitosa e la persona liberata dai debiti e pronta a ripartire su nuove basi. Come recita un antico detto latino, “praemonitus, praemunitus” – preavvisato, premunito: conoscere per tempo problemi e soluzioni è la migliore arma per vincere la battaglia dei debiti.

Bibliografia e riferimenti normativi

  • Codice Civile (artt. 2467 c.c. postergazione finanziamenti soci, etc.).
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n.14, entrato in vigore definitivamente dal 15 luglio 2022. Include: definizioni di crisi e sovraindebitamento (art. 2 c.1 lett. c: stato di sovraindebitamento come squilibrio persistente); procedure di allerta e composizione assistita; concordato preventivo (artt. 84-120); liquidazione giudiziale (artt. 121-270); composizione negoziata (D.L.118/2021 conv. L.147/2021, ora art. 23-24 CCII); concordato minore (artt. 74-83); piano del consumatore (artt. 67-73); liquidazione controllata (artt. 268-277); esdebitazione del sovraindebitato (artt. 278-282).
  • D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 – “Correttivo” di attuazione Direttiva UE 2019/1023. Ha introdotto i Piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione (PRO) e gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa verso dissenzienti (art. 61 CCII).
  • D.Lgs. 15 luglio 2022, n. 136 – Ulteriori disposizioni integrative e correttive al CCII (c.d. “correttivo ter”, in vigore dal 2023). Tra le novità: potenziata la composizione negoziata (esperto può proseguire assistenza post-accordo); introdotta esplicitamente la transazione fiscale nella composizione negoziata; chiarimenti sull’incarico dell’esperto e sulle incompatibilità.
  • Legge 3/2012 (abrogata e assorbita nel CCII) – vecchia normativa sul sovraindebitamento, citata per principi di meritevolezza e per precedenti giurisprudenziali (es. art. 8 L.3/2012 sul termine annuale per privilegiati, superato dalla giurisprudenza).
  • Statistiche e rapporti: Osservatorio Cerved su fallimenti 2024 (dato +17,2% fallimenti, settori più colpiti costruzioni +25,7%, industria +21,2%); Report CRIBIS 2024 (9.162 liquidazioni giudiziali, +19,7% vs 2023, in riallineamento a pre-pandemia). Unioncamere – EU Payment Observatory 2024 (il 54% imprese italiane colpite da ritardi pagamenti nel 2023).
  • Giurisprudenza recente:
    • Cassazione Civile, Sez. I, ord. n. 9549 del 14/04/2025: conferma la peculiarità del piano del consumatore rispetto al concordato minore, sancendo che nel piano del consumatore i creditori non votano nemmeno in presenza di moratorie lunghe o decurtazione dei debiti; il controllo giudiziale supplisce al consenso, data la natura giurisdizionale e non negoziale dello strumento.
    • Cassazione Civile, Sez. I, sent. n. 32996/2024 (depositata 17/12/2024): in tema di accordi di ristrutturazione omologati, ha stabilito che il fallimento successivo all’omologazione non travolge automaticamente l’accordo; i creditori che vi avevano aderito vanno ammessi al passivo fallimentare solo per la parte di credito eventualmente residua secondo l’accordo omologato. In pratica, l’accordo continua a dispiegare effetti per le quote già tagliate, salvo diversa pattuizione.
    • Cassazione Civile, Sez. I, ord. n. 4622 del 21/02/2024: ha affermato, in materia di piani del consumatore (legge 3/2012), che è ammissibile prevedere una dilazione ultrannuale del pagamento dei crediti privilegiati (oltre l’anno di cui alla vecchia legge) purché ai creditori privilegiati sia data possibilità di esprimersi sulla convenienza della proposta. Questa pronuncia va letta ora alla luce del CCII: difatti il correttivo 2022 ha eliminato il limite annuale. Conferma comunque l’importanza di coinvolgere i creditori privilegiati su piani a lungo termine (anche se nel nuovo piano consumatore il “coinvolgimento” è tramite valutazione del giudice).
    • Corte di Appello di Venezia, sent. 11/03/2021: (in era pre-CCII) confermava che ai fini di escludere la fallibilità per dimensione, l’onere della prova dei requisiti di non fallibilità (attivo<€300k, ricavi<€200k, debiti<€500k) spetta all’imprenditore, e i bilanci depositati sono prova privilegiata ma non esclusiva. Tale principio rimane valido nel CCII art. 2 sull’“impresa minore”.
    • Tribunale di Bologna, decr. 30/01/2024: (menzionato in dottrina) riguardo l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa a banche dissenzienti (art. 61 CCII), applicando per la prima volta il cram-down su una banca non aderente dato che il 90% delle altre banche aveva aderito. Precedente utile a capire l’applicazione pratica dei nuovi accordi estesi

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Conclusione

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