Hai ricevuto una cartella esattoriale, un avviso di accertamento o un altro atto del Fisco che ritieni ingiusto?
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in ricorsi tributari e contenzioso con l’Agenzia delle Entrate – è pensata per aiutarti a difenderti nel modo corretto.
Scopri come si presenta un ricorso in Commissione Tributaria, quali sono i termini da rispettare, i documenti necessari, le strategie più efficaci e come ottenere l’annullamento totale o parziale dell’atto impugnato.
Alla fine della guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata, valutare il tuo caso con un avvocato specializzato e presentare un ricorso fondato e tempestivo per proteggere i tuoi diritti.
Ricorso in Commissione Tributaria: Quali Sono i Costi Totali e dell’Avvocato – Guida di Studio Monardo
Introduzione
Affrontare un ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria di primo grado) comporta una serie di costi che ogni azienda deve considerare. Dalla presentazione del ricorso contro un avviso fiscale o una cartella, fino all’eventuale fase d’appello (Commissione Tributaria Regionale, oggi Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado), si devono sostenere spese vive e oneri legali. In questa guida analizzeremo tutti i costi connessi al contenzioso tributario, inclusi:
- Il Contributo Unificato Tributario (CUT) dovuto per iscrivere a ruolo il ricorso;
- I costi accessori come marche da bollo, notifiche e altre spese procedurali;
- Gli onorari dell’avvocato, calcolati secondo i più recenti parametri forensi;
- Le spese legate alla fase di mediazione tributaria, quando questa era obbligatoria, e cosa cambia dopo la sua abolizione nel 2024;
- Le possibili spese in caso di soccombenza, cioè quando si perde la causa (condanna alle spese a favore della controparte, o eventuale compensazione delle spese).
Forniremo anche esempi pratici con simulazioni di costo per diverse fasce di valore della controversia (dalle liti minori a quelle di importo elevato), incluse tabelle riepilogative per aiutare a comprendere rapidamente l’impatto economico di un ricorso in vari scenari (in base al valore della causa, all’esito e alla fase processuale raggiunta). Inoltre, verranno evidenziate eventuali differenze locali nelle prassi di Regioni e Province Autonome, se presenti (ad esempio nelle province di Trento e Bolzano), anche se la normativa sui costi è per lo più uniforme a livello nazionale.
Nota: Dal 2023 le Commissioni Tributarie sono state ridenominate Corti di Giustizia Tributaria (di primo e secondo grado) in attuazione della riforma della giustizia tributaria (Legge 130/2022). In questa guida useremo il termine ancora comune di Commissione Tributaria per indicare il giudice di primo grado, focalizzandoci sui costi per il ricorrente (tipicamente l’azienda contribuente). Tutti i riferimenti normativi sono aggiornati alle ultime modifiche (D.Lgs. 156/2015; D.Lgs. 130/2022; D.Lgs. 31 dicembre 2023, n. 220; ecc.) e le sentenze rilevanti del 2024-2025 vengono citate per offrire un quadro pratico.
Voci di costo in un ricorso tributario
Prima di entrare nel dettaglio, riepiloghiamo quali voci di spesa deve sostenere un’azienda quando decide di impugnare un atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria:
- Contributo Unificato Tributario (C.U.T.): è la “tassa d’iscrizione a ruolo” introdotta dal 2011 per i ricorsi tributari. Il suo importo dipende dal valore della lite ed è obbligatorio versarlo all’inizio del procedimento, a pena di inammissibilità del ricorso (o di richiesta di integrazione).
- Spese vive e costi accessori: includono l’eventuale marca da bollo, i diritti di segreteria, le spese per le notifiche del ricorso e per il deposito di atti, nonché altre spese procedurali (copie, trasmissione atti, ecc.). Dal 2019 il Processo Tributario Telematico (PTT) è divenuto obbligatorio, riducendo molte di queste spese (PEC e depositi online al posto di raccomandate e copie cartacee). Rimangono però possibili costi se si effettuano notifiche a mezzo posta o tramite ufficiale giudiziario, o se si appongono marche da bollo in caso di depositi cartacei.
- Onorari e compensi professionali dell’avvocato: salvo controversie di modestissimo valore, la difesa tecnica è obbligatoria e implica il compenso per il legale che redige il ricorso, segue il processo e rappresenta l’azienda in udienza. Tali compensi sono regolati dai parametri forensi ministeriali (D.M. 55/2014 e s.m.i.), variabili in base al valore della causa e alle attività svolte (studio, atti, udienza, ecc.).
- Costi della fase di reclamo-mediazione (per le liti entro 50.000 euro, prima della sua abolizione): fino al 2023 era obbligatorio tentare una mediazione con l’ente impositore prima del processo. Questa fase comportava alcuni adempimenti (notifica del ricorso all’ente e attesa di 90 giorni) ma non richiedeva costi aggiuntivi significativi (niente contributi ulteriori né spese di mediazione come accade invece nella mediazione civile). I vantaggi erano soprattutto l’eventuale riduzione delle sanzioni in caso di accordo. Dal 4 gennaio 2024 il reclamo-mediazione non è più obbligatorio, come vedremo, ma resta facoltativamente utilizzabile.
- Spese di soccombenza: sono le spese che il giudice tributario può porre a carico della parte che perde la causa. In generale, chi perde paga le spese di giudizio (principio di soccombenza), salvo compensazione parziale o totale in presenza di ragioni eccezionali. Ciò significa che se l’azienda ricorrente perde, potrebbe dover rimborsare all’ente impositore le sue spese legali (calcolate anch’esse secondo parametri). Viceversa, se l’azienda vince, può ottenere la condanna dell’ente al rimborso delle spese sostenute (contribuendo di fatto ad abbattere il costo effettivo del ricorso per l’azienda vincente). È importante quindi valutare non solo i costi “vivi” iniziali, ma anche il rischio di spese in caso di esito sfavorevole.
Nelle sezioni seguenti approfondiremo ciascuna di queste voci di costo in dettaglio, con riferimenti normativi aggiornati (D.Lgs. 546/1992 e successive modifiche, DPR 115/2002 sulle spese di giustizia, ecc.) e illustreremo alcuni casi pratici.
Contributo Unificato Tributario: importi e criteri
Cos’è il Contributo Unificato? Nel processo tributario, come in quello civile, il Contributo Unificato è l’importo dovuto per iscrivere a ruolo il ricorso, ossia per avviare formalmente il procedimento. Dal 7 luglio 2011 esso ha sostituito l’imposta di bollo nel contenzioso tributario. Il pagamento va effettuato al momento del deposito dell’atto introduttivo (in pratica, entro la costituzione in giudizio del ricorrente), utilizzando il modello F23/F24 con apposito codice tributo (es. 941T) oppure tramite pagoPA sul Portale della Giustizia Tributaria.
L’ammontare del contributo dipende dal valore della controversia, determinato ai sensi dell’art. 12, comma 2 del D.Lgs. 546/1992. In particolare:
- Il valore corrisponde all’importo del tributo contestato, al netto di interessi e eventuali sanzioni. Esempio: se si impugna un avviso di accertamento che chiede 50.000 € di maggior imposta, più 10.000 € di sanzioni e 5.000 € di interessi, il valore della lite è 50.000 €.
- Se si impugna solo una sanzione tributaria (atto di contestazione di sole sanzioni), il valore coincide con l’importo della sanzione.
- Se nel ricorso manca l’indicazione del valore, si presume il massimo (> 200.000 €) e va pagato il contributo più alto (1.500 €). È quindi fondamentale indicare il valore nelle conclusioni del ricorso, per evitare questa presunzione.
- Valore indeterminabile: se davvero non è possibile quantificare un importo (casi rari in materia tributaria), il contributo è fissato per legge a € 120,00. (Tale importo di 120 € coincide con lo scaglione delle liti fino a 25.000 €.)
La tabella seguente riepiloga gli scaglioni di valore e gli importi del contributo unificato tributario attualmente in vigore (art. 13, c.6-quater, DPR 115/2002), sulla base della normativa introdotta dal 2011 e ancora valida nel 2025:
Come si nota, per liti di importo molto elevato (sopra 200.000 euro) il contributo è fisso a 1.500 € – questo è il massimo previsto, anche per valori milionari. Ciò significa che, ad esempio, per impugnare un avviso da 1 milione di euro, il costo “amministrativo” iniziale rimane € 1.500. Al contrario, controversie di piccola entità hanno costi molto ridotti (30 € se sotto ~2.582 €). Si tratta quindi di un costo proporzionato che il legislatore ha fissato per non ostacolare i ricorsi di basso importo ma al contempo coprire le spese di giustizia per le liti più rilevanti.
Maggiorazioni del contributo: Ci sono poi situazioni in cui la legge prevede un aumento dell’importo base del contributo unificato:
- Se nel ricorso il contribuente (o il difensore) non indicano l’indirizzo PEC oppure il codice fiscale della parte ricorrente, il contributo unificato è aumentato del 50%. Questa regola, introdotta nel 2014 (art. 13, c.3-bis DPR 115/2002), mira a incentivare l’indicazione di tali dati per facilitare le comunicazioni telematiche. Ad esempio, una lite da € 40.000 comporterebbe normalmente € 250 di contributo; se però nel ricorso manca la PEC o il C.F., occorrerà versare il 50% in più, quindi € 375.
- In caso di impugnazioni multiple nello stesso ricorso: se si contestano più atti con un unico ricorso, in linea di principio il contributo è dovuto per ciascun atto impugnato. Ad esempio, se un’azienda impugna contemporaneamente tre cartelle di pagamento distinte nello stesso ricorso, dovrà pagare tre contributi da € 30, per un totale di € 90. Fa eccezione il caso in cui si faccia riferimento ad atti presupposti non notificati: la Corte di Cassazione ha chiarito che il contributo unificato va calcolato solo sugli atti effettivamente impugnati, non su quelli menzionati solo come vizi procedurali. In un caso del 2024, ad esempio, il contribuente aveva pagato € 90 impugnando tre cartelle (ciascuna da € 30) e l’ufficio pretendeva un ulteriore € 30 per un’intimazione di pagamento collegata non direttamente impugnata; la Cassazione ha escluso tale ulteriore contributo, confermando che il pagamento per i tre atti era sufficiente.
- Appello e ricorso per Cassazione: il contributo unificato va pagato nuovamente a ogni grado di giudizio. Ciò significa che se l’azienda decide di appellare la sentenza di primo grado, dovrà versare un nuovo contributo di importo uguale a quello versato in primo grado, determinato sul valore della lite in appello. Generalmente il valore rimane lo stesso (salvo che l’atto impugnato in appello sia parzialmente diverso, ad esempio perché in primo grado si discutevano solo sanzioni e in appello si ridiscute anche il tributo – evenienza teorica più che pratica). In sostanza, primo grado e appello richiedono ciascuno il proprio contributo, non cumulativi ma autonomi. Se il ricorso originario era, poniamo, da €50.000 (CUT € 250), anche l’appello comporterà € 250 di contributo.
- Per il ricorso in Corte di Cassazione, il contributo dovuto è anch’esso pari a quello dello scaglione di valore della controversia (es.: sempre € 250 se il valore resta €50.000), da versare al momento del deposito del ricorso per Cassazione. Occorre tenere presente una regola aggiuntiva in questo caso: qualora la Cassazione rigetti integralmente o dichiari inammissibile il ricorso, ordina il raddoppio del contributo unificato già versato (art. 13, c.1-quater DPR 115/2002, introdotto dalla Legge 228/2012). Questa è una forma di sanzione per le impugnazioni temerarie o infondate. Ad esempio, se un’azienda ricorre in Cassazione e paga € 500 di contributo (per lite oltre €75.000) ma il ricorso viene respinto, dovrà versare ulteriori € 500 allo Stato. Tale raddoppio non si applica se il ricorso è accolto, nemmeno parzialmente. È dunque un elemento di costo (e rischio) da valutare attentamente prima di proporre ricorso per Cassazione.
Esenzioni dal contributo unificato: alcuni procedimenti tributari non scontano il contributo unificato per espressa previsione di legge (art. 10 DPR 115/2002). Tra questi rientrano, ad esempio, i ricorsi contro il rifiuto di iscrizione di Onlus all’anagrafe unica e pochi altri procedimenti minori di natura tributaria. Si tratta di casi particolari e abbastanza rari, che in genere non riguardano le comuni liti fiscali delle aziende. Inoltre, va ricordato che le controversie di modico valore vedono un’altra peculiarità: se il reddito imponibile della parte (persona fisica) nell’anno precedente è sotto una certa soglia, si potrebbe avere diritto al patrocinio a spese dello Stato (gratuito patrocinio) e quindi l’esenzione dal contributo; tuttavia questo difficilmente si applica alle aziende (vale solo per persone fisiche con redditi bassi). Invece, quando è l’Agenzia delle Entrate o altro ente pubblico ad appellare una decisione favorevole al contribuente, essa di regola non versa il contributo unificato ab initio (poiché le spese di giustizia di atti di PA sono “prenotate a debito”), ma in caso di vittoria del contribuente, sarà condannata a rimborsare il contributo come parte delle spese di lite. In pratica, per l’azienda che vince non cambia nulla: otterrà il rimborso del contributo pagato in primo grado e non pagherà quello d’appello se era l’ente a proporlo.
Modalità di pagamento: il contributo unificato può essere versato in diversi modi:
- tramite modello F23 o F24 (indicando l’apposito codice tributo, ad esempio 941T per i ricorsi di primo grado);
- acquistando un contrassegno telematico (ex marca da bollo) in tabaccheria da applicare sull’atto cartaceo (metodo ormai poco usato nel PTT);
- utilizzando il sistema pagoPA attraverso il Portale della Giustizia Tributaria online.
Nel Processo Tributario Telematico, spesso il pagamento avviene online e la ricevuta (quietanza) viene allegata in pdf al ricorso al momento del deposito. Attenzione: il mancato pagamento del contributo unificato all’atto della registrazione del ricorso rende il ricorso stesso inammissibile, a meno che non venga sanato entro un termine assegnato (solitamente la Segreteria invita a regolarizzare il pagamento se ci si costituisce senza quietanza). In caso di omesso versamento persistente, la Commissione può dichiarare il ricorso improcedibile. È quindi cruciale assicurarsi di aver assolto questo pagamento iniziale.
Riassumendo: il contributo unificato rappresenta spesso il primo costo da sostenere per fare ricorso. Per una società, importi fino a €1.500 coprono qualunque lite, anche la più importante; le PMI con contenziosi minori pagheranno importi di poche decine di euro. Nella sezione Esempi pratici più avanti vedremo il peso del contributo unificato sul totale delle spese in vari scenari.
Costi accessori: marche, notifiche e spese vive
Oltre al contributo unificato, vi sono alcune spese accessorie da considerare quando si propone un ricorso tributario. Grazie all’informatizzazione del processo, molte di queste spese si sono ridotte o azzerate, ma è utile passarle in rassegna:
- Marca da bollo e diritti di segreteria: nel processo tributario il contributo unificato ha rimpiazzato l’imposta di bollo, quindi non è richiesta una marca da bollo proporzionale per la causa. In passato (pre-2011) si pagavano marche da bollo sul ricorso e diritti di segreteria, ora eliminati. Resta però, in alcuni casi, l’obbligo di una marca da € 27,00 come “anticipazione forfettaria” dei diritti di notifica a richiesta d’ufficio (simile a quanto avviene nel processo civile). Nel processo tributario telematico questa voce è di fatto superata, poiché le comunicazioni avvengono via PEC con costi a carico dell’Amministrazione. Tuttavia, alcune Commissioni richiedono ancora una piccola marca per il contributo forfettario di € 27 quando si deposita in modalità cartacea. Per sicurezza, se si presenta un ricorso in modalità cartacea presso la Segreteria (eventualità ormai rara e ammessa solo per soggetti non obbligati al PTT), conviene informarsi presso la Commissione se va apposta la marca forfettaria. Nella pratica attuale, chi deposita telematicamente non deve aggiungere alcuna marca ulteriore: basta il pagamento del contributo unificato.
- Spese di notifica del ricorso: la procedura prevede che il ricorso introduttivo venga notificato all’ente impositore (es. Agenzia delle Entrate o Agenzia Riscossione) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnato, e successivamente depositato/costituito in Commissione entro 30 giorni dalla notifica. La notifica alla controparte può avvenire in tre modi:
- PEC (Posta Elettronica Certificata): è il metodo oggi preferibile e a costo zero (si invia il ricorso firmato digitalmente dalla propria PEC alla PEC istituzionale dell’ente, ottenendo le ricevute di accettazione e consegna). Ogni pubblica amministrazione ha un indirizzo PEC ufficiale per ricevere atti; l’Agenzia delle Entrate, ad esempio, pubblica gli indirizzi PEC delle Direzioni Provinciali sul proprio sito. Se l’azienda che ricorre ha un avvocato, questi userà la propria PEC professionale; se ricorre personalmente (solo se valore ≤ €3.000), può usare la PEC aziendale. La notifica PEC non comporta spese vive (se si esclude il normale costo annuale del servizio PEC).
- Raccomandata A/R: se non si utilizza la PEC, il ricorso può essere notificato tramite raccomandata con ricevuta di ritorno all’ufficio competente. In tal caso il costo è quello postale: indicativamente € 8-12 per invio (dipende dal peso degli allegati e dalle tariffe vigenti per le raccomandate giudiziarie). Questo metodo è ancora usato, ad esempio, dalle aziende che affidano la notifica a un loro interno senza PEC, ma è meno efficiente.
- Ufficiale giudiziario (UNEP): in alternativa, è possibile far notificare l’atto da un ufficiale giudiziario (notifica in mano propria o per posta dall’UNEP). Il costo varia in base alla distanza e al numero di destinatari, ma tipicamente ammonta a qualche decina di euro (circa € 20-30 a notifica, includendo diritti fissi e spese di trasferta). Questo metodo è oggi poco utilizzato per i ricorsi tributari se c’è la possibilità della PEC. Può però tornare utile in casi eccezionali (ad es. per notificare atti a Comuni piccoli non attrezzati o in caso di urgenza con consegna diretta).
- Spese di copiatura e bolli per documenti: nel processo può capitare di dover produrre copie cartacee (ad esempio copie di cortesia per i giudici, oppure copie autentiche per eventuali appelli). Le copie semplici di atti o sentenze sono in genere fornite via PEC senza costi. Le copie autentiche esecutive di una sentenza (ad esempio per eseguire un rimborso) possono richiedere marche da bollo ed eventualmente diritti di copia in base al numero di pagine, come previsto dal DPR 115/2002. Sono costi modesti e occasionali (nell’ordine di pochi euro a pagina più una marca da bollo da € 16 ogni 4 facciate per copie autentiche). Nel contenzioso delle aziende, questo costo è raro e si presenta solo a vittoria ottenuta, se serve una copia conforme della sentenza.
- Spese di trasferta e varie: se l’azienda o il suo difensore devono partecipare a un’udienza in presenza (oggi molte udienze tributarie possono tenersi da remoto in videoconferenza, soprattutto dal 2020 in poi), potrebbero esservi costi di viaggio, vitto e alloggio. Queste spese non rientrano strettamente nelle “spese giudiziarie” liquidate dal giudice (salvo in parte come rimborso forfettario generale del 15% di cui diremo più avanti), ma rappresentano comunque costi vivi per l’azienda se, ad esempio, manda un proprio rappresentante a presenziare in udienza fuori sede oppure incarica un domiciliatario locale. Nel calcolo complessivo, per un’azienda le trasferte per il processo tributario sono raramente necessarie: il difensore può spesso presenziare senza il cliente, e dal 2022 è possibile chiedere discussione da remoto. Tuttavia, qualora il legale non sia del foro locale, potrebbe addebitare in parcella le spese di viaggio per recarsi presso la Commissione situata in altra città. È prassi che l’avvocato in tal caso addebiti il costo del treno/aereo, eventuale alloggio e un’indennità di trasferta (spesso calcolata in percentuale del suo compenso). Questi importi possono essere contenuti nominando un domiciliatario (un avvocato sul posto che assista solo all’udienza) oppure sfruttando le udienze da remoto. In ogni caso, nel budget di causa è bene mettere in conto anche queste voci se il contenzioso è fuori regione.
In sintesi, i costi accessori di un ricorso tributario in era telematica sono relativamente bassi: a parte il contributo unificato, notificare via PEC è gratuito, il deposito telematico non richiede marche, e le comunicazioni della Segreteria arrivano via PEC senza costo. Il grosso della spesa sarà quindi legato ai compensi professionali, di cui parleremo ora. Bisogna però ricordare che adempimenti errati (mancata indicazione di PEC/CF nel ricorso, omissione del pagamento del contributo, notifica tardiva o irregolare) possono causare costi aggiuntivi per rimediare o, peggio, pregiudicare il ricorso. Conviene dunque investire in una corretta gestione formale per evitare spese ulteriori: spesso il supporto di un professionista serve anche a questo.
Compensi dell’avvocato: onorari e spese secondo i parametri forensi
La voce di costo generalmente più significativa in un contenzioso tributario per un’azienda è il compenso del difensore. Nel processo tributario l’assistenza tecnica è obbligatoria per le liti di valore superiore a € 3.000 (cioè quando la somma contestata supera tale soglia), a meno che il contribuente non sia esso stesso un professionista abilitato. Dunque, nella maggior parte dei casi, l’azienda dovrà farsi rappresentare da un avvocato tributarista (o, in alternativa, può nominare un commercialista o esperto contabile abilitato ai sensi dell’art. 12 D.Lgs. 546/92). Di fatto la gran parte delle società sceglie un avvocato per gestire il ricorso, e qui tratteremo dei relativi onorari.
Parametri forensi tributari aggiornati (DM 55/2014 e DM 147/2022)
I compensi degli avvocati per l’attività giudiziale sono regolamentati dai parametri forensi ministeriali, che fissano importi di riferimento in base al valore della causa e alle fasi svolte. Tali parametri, stabiliti dal Decreto del Ministero della Giustizia 55/2014, sono stati aggiornati da ultimo con il D.M. 13 agosto 2022, n. 147, in vigore dal 23 ottobre 2022. Questo aggiornamento ha ritoccato verso l’alto vari importi (adeguandoli all’inflazione) e introdotto alcune novità, ad esempio: compensi maggiori in caso di conclusione positiva di mediazione, riduzione del 75% per responsabilità processuale temeraria, possibilità di compenso orario entro certi limiti, ecc..
Per il giudizio tributario, i parametri prevedono specifiche tabelle sia per la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Provinciale) sia per quella di secondo grado (ex Commissione Regionale). In generale, il compenso è suddiviso per fasi processuali:
- Fase di studio (analisi iniziale del caso, esame di documenti, normativa e giurisprudenza pertinente);
- Fase introduttiva (redazione e deposito del ricorso, attività pre-contenzioso immediatamente connessa);
- Fase istruttoria/trattazione (eventuali memorie, partecipazione alle udienze, replica alle difese avversarie, attività probatoria se prevista);
- Fase decisionale (predisposizione di note conclusionali o repliche finali, discussione finale in pubblica udienza, lettura della decisione).
In aggiunta, nel processo tributario può esservi una fase cautelare (richiesta di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato), che i parametri considerano a parte con un compenso specifico ridotto, di solito pari a circa il 20-30% del totale delle altre fasi. Tale fase cautelare si attiva quando l’azienda chiede alla Commissione di sospendere la riscossione del tributo in pendenza di giudizio (ex art. 47 D.Lgs. 546/92). Se utilizzata, comporta quindi un piccolo onorario aggiuntivo per l’avvocato, secondo tariffa.
Gli importi tabellari dipendono dal valore della causa, con scaglioni simili (ma non identici) a quelli del contributo unificato. I principali scaglioni di valore nei parametri tributari (primo grado) sono:
- fino a € 1.100;
- da € 1.100,01 a € 5.200;
- da € 5.200,01 a € 26.000;
- da € 26.000,01 a € 52.000;
- da € 52.000,01 a € 260.000;
- oltre € 260.000 (fino a € 520.000 e oltre).
Ad ogni scaglione corrisponde, per ciascuna fase, un compenso unitario di riferimento (detto “parametro medio”), con la possibilità per il giudice di aumentarlo fino a un certo % (di solito +50%) o diminuirlo (fino a -50%) in relazione alle circostanze del caso (complessità, importanza, urgenza, ecc.). I parametri medi di tutti le fasi vengono poi sommati per ottenere il compenso totale di base per l’intero giudizio di quel grado. Ad esempio, per una lite di valore € 50.000 (scaglione € 26.000–52.000) in primo grado, i parametri 2022 indicano circa: fase studio € 1.134; fase introduttiva € 635; fase istruttoria € 777; fase decisionale € 1.418; totale circa € 3.964. Il giudice può liquidare l’onorario aumentandolo o riducendolo rispetto a questi medi (minimo e massimo indicati in tabella). Ad esempio, sempre sullo scaglione 26k-52k: minimo totale intorno a € 2.409, massimo totale circa € 7.224. In mancanza di specifica liquidazione da parte del giudice, spesso cliente e avvocato fanno riferimento ai parametri medi come base per concordare il compenso.
Nota: I parametri indicano importi al netto di IVA (22%) e CPA (4% cassa avvocati) e spese generali. È prassi aggiungere il 15% per spese generali forfettarie (ex art. 2 D.M. 55/2014) al compenso, oltre al 4% di contributo previdenziale avvocati e l’IVA. Ciò significa che se un compenso tabellare è € 4.000, l’avvocato esporrà in parcella € 4.000 + 15% = € 4.600, su cui applicherà 4% (circa € 184) e IVA 22% (su € 4.784) per un totale finale di circa € 5.836. Tuttavia, in caso di condanna alle spese, la controparte deve rifondere solo l’importo al netto di IVA (perché l’IVA è detraibile dall’azienda cliente). Approfondiremo questo aspetto nella parte sulle spese di soccombenza.
Di seguito una tabella riepilogativa con i compensi forensi di base (parametro medio) per l’intero giudizio di primo grado, affiancati allo scaglione di valore e al relativo contributo unificato, per avere un colpo d’occhio sul rapporto tra costi “amministrativi” e costi “difensivi”:
Nella colonna centrale sono indicati i contributi unificati previsti per ciascuna fascia di valore (come da tabella ufficiale). Nella colonna di destra sono riportati i compensi medi indicativi (sommando tutte le fasi) per il primo grado di giudizio, come risultanti dai parametri forensi aggiornati dal DM 147/2022. Alcuni valori nelle fasce più basse derivano ancora dal DM 55/2014 non modificato (es. € 660 e € 2.430) poiché gli scaglioni minori non hanno subìto variazioni percentuali nel 2022; gli importi dalle fasce 5.200–26.000 in su invece riflettono l’aumento del 5% circa apportato nel 2022.
Come si può notare, all’aumentare del valore della causa, i costi dell’avvocato crescono in misura più che proporzionale rispetto al contributo unificato. Ad esempio, per una lite da € 50.000 il contributo è € 250, mentre il compenso medio d’avvocato è intorno ai € 7.000 (oltre IVA); per una lite da € 5.000 il contributo è € 60 e il compenso medio circa € 2.500. Questo rapporto riflette il fatto che il lavoro del difensore diventa via via più complesso e oneroso man mano che aumenta l’importanza economica e giuridica della controversia. Naturalmente i valori sopra indicati sono parametri medi indicativi: in pratica, i professionisti possono concordare col cliente compensi diversi (purché non superiori ai massimi tariffari se poi si chiede la liquidazione giudiziale). Inoltre, se la causa viene definita prima (ad esempio con conciliazione, o se non si arriva alla fase decisionale), il compenso effettivo sarà inferiore rispetto al totale, perché alcune fasi non vengono svolte per intero. Viceversa, in casi di eccezionale complessità o importanza, il giudice può elevare i compensi anche oltre il 50% massimo (previa motivazione) e il difensore stesso potrebbe pattuire un compenso maggiore con il cliente.
È importante sottolineare che l’azienda non deve necessariamente attendere la liquidazione del giudice: nella prassi, il rapporto col legale è contrattuale, quindi si può concordare un compenso a forfait o a tempo o una cifra fissa per l’intera causa. I parametri forensi fungono da riferimento in caso di contestazioni o per quantificare le spese da rifondere in caso di vittoria. Alcune aziende, soprattutto per contenziosi di importo elevato, negoziano con lo studio legale un compenso “a scaglioni” (ad esempio: tot per il primo grado, un extra se si va in appello, un premio di successo in caso di vittoria, ecc.). Tali accordi sono leciti entro certi limiti e consentono maggiore prevedibilità dei costi. In ogni caso, sapendo che il giudice in caso di esito vittorioso potrà al massimo liquidare i parametri (difficilmente di più), l’azienda ha un’idea di quale percentuale dei propri costi legali potrà recuperare (tipicamente, se il compenso pattuito è in linea coi parametri, può sperare di riavere indietro la maggior parte).
Appello e altre fasi: per il giudizio di appello (Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado), i parametri prevedono importi leggermente superiori in alcune fasi, ma in generale comparabili a quelli di primo grado per lo stesso scaglione di valore. Ad esempio, per lo scaglione € 26.000–52.000, il totale parametri medi in appello è circa € 8.570, contro € 7.151 in primo grado; per lo scaglione più alto (>€260.000) si sale a ~€ 17.215 in appello vs € 14.381 in primo grado. Ciò si spiega con il fatto che l’appello comporta attività aggiuntiva (studio della sentenza impugnata, atti d’appello più complessi). Dunque, se una lite prosegue in secondo grado, l’azienda dovrà mettere a bilancio grosso modo altri costi analoghi a quelli del primo grado per la fase di appello (a volte leggermente inferiori se gran parte del lavoro era già stato fatto, a volte simili, soprattutto se cambiano le strategie).
Per un eventuale ricorso in Cassazione, esistono parametri dedicati (fase di studio, introduttiva e decisionale – non c’è istruttoria perché in Cassazione non si discutono fatti). I compensi medi in Cassazione per cause di valore elevato sono di norma inferiori a quelli dei gradi di merito, poiché l’attività è principalmente giuridica e documentale. Ad esempio, una lite da € 50.000 in Cassazione prevede un totale parametro attorno a € 5.000-6.000. Tuttavia, spesso gli avvocati applicano tariffe più alte per la Suprema Corte, date le particolari competenze richieste. È prudente considerare che la Cassazione aggiungerà un 20-30% circa in più al costo totale, tra nuovo compenso al difensore e contributo unificato (oltre al rischio, come visto, del raddoppio di quest’ultimo se il ricorso non avesse successo). In ogni caso, non tutte le cause proseguono fino alla Cassazione: la decisione di ricorrere in ultimo grado va ponderata in base al valore residuo in contestazione, alle probabilità di successo e ai costi aggiuntivi.
Ulteriori oneri: spese generali, Cassa ed IVA
Come già accennato, al compenso di base dell’avvocato vanno aggiunti alcuni oneri accessori di legge:
- il 15% per spese generali (art. 2 D.M. 55/2014), che copre forfettariamente tutte le spese di studio, cancelleria, corrispondenza, telefono, etc. sostenute dal legale nello svolgimento dell’incarico;
- il Contributo Cassa Forense (CPA) 4%, dovuto per legge sul compenso (incluso spese generali) e destinato alla previdenza forense;
- l’IVA al 22% sul totale compenso + CPA (se lo studio legale è organizzato in forma societaria potrebbe esserci il reverse charge, ma nella maggior parte dei casi l’IVA viene applicata normalmente).
Per fare un esempio concreto: supponiamo che secondo i parametri il compenso di riferimento per il primo grado sia € 5.000. L’avvocato applicherà 15% spese = € 750, sommandoli avremo € 5.750. Su questo importo si calcola il 4% cassa, pari a € 230, arrivando a € 5.980. Infine si aggiunge IVA 22% (€ 1.315,6) per un totale fattura di circa € 7.296. Questo importo è quello che effettivamente l’azienda deve pagare al proprio difensore. Tuttavia, attenzione: in caso di condanna della controparte alle spese, il giudice liquida gli importi al netto di IVA, perché l’IVA è un credito detraibile per la società cliente (che di solito è soggetto passivo IVA) e dunque non rappresenta un costo “perso”. La Cassazione ha più volte chiarito che la parte vittoriosa non può farsi rifondere anche l’IVA se ha diritto a detrarla. Quindi l’Agenzia delle Entrate (o altro ente) sarà condannata a pagare, nell’esempio, € 5.980, e l’IVA resterà a carico della società ma questa potrà portarla in detrazione. Se invece la parte vittoriosa non è soggetto IVA (es. un privato o un ente esente), allora sì, il giudice può condannare anche al pagamento dell’IVA perché diventa costo effettivo. Nel caso tipico di un’azienda, dunque, l’IVA sul compenso legale è neutra (va considerata come anticipo di cassa, ma non come costo, salvo casistiche di detraibilità limitata).
La fase di mediazione tributaria (reclamo obbligatorio) e i suoi costi
Un capitolo a parte merita la mediazione tributaria, ossia quella fase introdotta dal 2012 (D.Lgs. 546/92, art. 17-bis) per le liti di modesto valore, in cui il contribuente era tenuto a presentare un’istanza di reclamo all’ente impositore prima di accedere al giudice. Questa procedura è stata oggetto di numerose modifiche e, da ultimo, di una radicale riforma nel 2023 che ne ha comportato l’abolizione dell’obbligatorietà dal 2024. Vediamo quindi come funzionava la mediazione tributaria, quali costi comportava e cosa è cambiato oggi.
Reclamo-mediazione obbligatorio: com’era e quali oneri comportava
Dal 2012 al 2023, per le controversie di valore entro una certa soglia, il contribuente doveva esperire un tentativo di reclamo-mediazione prima di potersi costituire in Commissione Tributaria. Inizialmente la soglia era € 20.000, innalzata poi a € 50.000 dal 2018. In pratica, se un avviso o atto impugnabile rientrava entro quel valore, il ricorso presentato all’ente impositore valeva anche come istanza di reclamo: l’Ufficio aveva 90 giorni di tempo per esaminarlo e poteva accoglierlo, proporre una mediazione, oppure respingerlo. Durante questi 90 giorni il processo rimaneva sospeso (il termine per depositare il ricorso in Commissione era congelato). Solo se la mediazione falliva (per mancato accordo trascorsi 90 giorni, o rifiuto del reclamo) il contribuente poteva procedere con la causa depositando il ricorso in tribunale.
Sul piano dei costi, la mediazione tributaria presentava i seguenti aspetti:
- Nessun contributo unificato aggiuntivo: l’istanza di reclamo coincideva col ricorso stesso, quindi il contributo unificato versato sarebbe servito poi per iscrivere la causa se la mediazione non riusciva. Non c’era un secondo contributo da pagare per la procedura amministrativa. Se la lite si chiudeva in mediazione, il contributo rimaneva comunque dovuto (non veniva rimborsato allo spontaneo annullamento dell’atto) – di fatto era il “prezzo” per aver attivato la macchina processuale, anche se poi ci si fermava prima della sentenza.
- Nessun costo di mediazione in senso stretto: a differenza della mediazione civile, qui non c’era un organismo terzo da compensare. La procedura avveniva internamente all’ente impositore (Commissione o ufficio legale dell’ente che valutava il reclamo). Quindi non vi erano spese di mediazione da pagare al mediatore. L’unico costo eventuale poteva essere un bollo sulla domanda nei primissimi tempi (ora non più richiesto). In sostanza era un tentativo “gratuito” per le parti.
- Spese legali nella fase di reclamo: se il contribuente si avvaleva di un difensore (cosa necessaria salvo liti ≤ €3.000), l’avvocato ovviamente svolgeva un lavoro anche in questa fase (predisposizione dell’istanza, interlocuzione con l’ufficio, eventuali incontri). Generalmente, però, questo lavoro coincideva in larga parte con quello del ricorso stesso, quindi molti professionisti non richiedevano un compenso separato per la mediazione, includendolo nel compenso complessivo del primo grado. Qualora invece l’esito fosse una conciliazione, l’attività svolta si concludeva prima: spesso gli avvocati in tal caso applicavano comunque una parcella, ma talvolta ridotta rispetto al completo svolgimento del processo (dato che non si proseguiva con memorie e udienza).
- Benefici economici in caso di accordo: il vero risparmio per il contribuente in caso di successo della mediazione stava nelle sanzioni ridotte. La legge prevedeva infatti che, se la controversia si definiva con mediazione (accordo), le sanzioni amministrative si riducevano al 35% del minimo previsto. Questo era un miglioramento significativo rispetto al regime precedente (conciliazione giudiziale) che offriva il 40%. Ad esempio, se su un tributo di € 20.000 pendevano sanzioni per € 5.000 (minimo edittale mettiamo € 5.000), definendo in mediazione la sanzione dovuta diventava € 1.750 (il 35% di 5.000) invece di € 5.000 interi – un risparmio di € 3.250. Inoltre, l’accordo di mediazione spesso comportava anche la riduzione parziale del tributo o degli interessi, a seconda delle trattative: l’ente poteva accettare un pagamento ridotto o a rate. Questi aspetti però esulano dalle “spese di processo” e rientrano nel merito della pretesa fiscale. Ai fini dei costi, basti sapere che chiudeva la lite in mediazione risparmiando sulle sanzioni e evitava i costi futuri del processo (niente spese di appello, niente rischio di dover pagare spese legali alla controparte, ecc.).
- In caso di esito negativo del reclamo: se la mediazione non andava a buon fine, il contribuente doveva attivarsi per costituirsi in giudizio decorsi i 90 giorni, versando il contributo (se non già versato) e proseguendo con le normali memorie. I costi sostenuti per la fase di reclamo (contributo, parcella legale) confluiscono in quelli del giudizio di primo grado. Non c’è duplicazione: di fatto si è solo allungata la durata del procedimento. L’unico inconveniente economico era il ritardo nella definizione della lite – per l’azienda, restare col fiato sospeso altri 3 mesi (più i tempi di costituzione) poteva significare magari dover versare intanto 1/3 delle somme se erano dovute in pendenza (come da norme sulla riscossione frazionata) o comunque subire incertezza più a lungo. Ma in termini di esborso immediato, nulla di nuovo rispetto a un normale ricorso.
Va segnalato inoltre che il mancato esperimento del reclamo obbligatorio quando richiesto comportava una sanzione processuale severa: l’inammissibilità del ricorso. L’art. 17-bis prevedeva infatti che “il ricorso non produce effetti” se non presentato per reclamo nei casi dovuti. La Corte Costituzionale ha giudicato legittima questa sanzione, purché interpretata nel senso che il giudice deve comunque consentire la conversione del ricorso in reclamo (sanando eventualmente l’errore procedurale). In sostanza, se ci si dimenticava del reclamo, la Commissione poteva assegnare un termine per regolarizzare, ma in assenza di ciò il ricorso veniva dichiarato inammissibile per difetto di procedura obbligatoria. Ciò evidenzia come fosse importante rispettare questo passaggio, pena perdere la possibilità di far valere le proprie ragioni e buttare via anche le spese già sostenute (si pensi a un contributo versato e agli onorari dell’avvocato – non recuperabili in caso di inammissibilità).
Esempio pratico – Mediazione ante 2024: Un’azienda riceve nel 2023 un avviso di accertamento da € 40.000 di imposte e € 12.000 di sanzioni. Decide di proporre reclamo-mediazione. Il suo legale predispone il ricorso/reclamo, lo notifica all’Ufficio e attende 90 giorni. Durante questo periodo, l’Agenzia delle Entrate invita l’azienda a un incontro e propone di ridurre il tributo a € 30.000 e applicare le sanzioni ridotte (35% del minimo: supponiamo minimo totale € 12.000, il 35% è € 4.200). L’azienda accetta. Entro 20 giorni versa € 30.000 + € 4.200 + interessi concordati, e la lite si conclude. Costi sostenuti: contributo unificato € 250 (non rimborsabile), compenso avvocato per assistenza (poniamo € 3.000, magari concordato ridotto perché il processo non prosegue), nessuna spesa ulteriore. Risparmio ottenuto: € 10.000 di imposte e € 7.800 di sanzioni in meno rispetto al dovuto iniziale, oltre a evitare il rischio di una condanna alle spese in caso di giudizio. In alternativa, se la mediazione fosse fallita, l’azienda avrebbe dovuto costituirsi in giudizio (entro 30 giorni dal 90°) e affrontare l’intero iter processuale, con possibili maggiori costi legali (memorie aggiuntive, udienza) ma con la chance di ottenere magari un annullamento totale (a fronte però del rischio di dover pagare spese se avesse perso).
Abolizione della mediazione obbligatoria dal 2024 e nuovi strumenti deflattivi
Con la riforma operata in attuazione della Legge Delega n. 111/2023 (riforma fiscale), il legislatore ha deciso di superare l’obbligatorietà del reclamo-mediazione nel processo tributario. Il Decreto Legislativo 31 dicembre 2023 n. 220, in vigore dal 4 gennaio 2024, ha abrogato l’art. 17-bis del D.Lgs. 546/92 relativo al reclamo. Ciò significa che per i ricorsi notificati a partire dal 4 gennaio 2024 non è più necessario attivare la mediazione: il contribuente può adire direttamente la Corte di Giustizia Tributaria competente.
Le motivazioni della riforma risiedono nella volontà di snellire il contenzioso ed evitare un filtro che, secondo il legislatore, non stava portando a sufficiente deflazione (molte mediazioni fallivano e finivano comunque in giudizio). In parallelo, si è voluto potenziare la conciliazione giudiziale (incentivando le parti a trovare un accordo davanti al giudice). Infatti, abolito il reclamo, restano a disposizione del contribuente altri strumenti deflattivi facoltativi:
- Autotutela amministrativa: il contribuente può sempre chiedere all’ente di annullare in autotutela l’atto viziato, senza costi (ma è a discrezione dell’ente accogliere).
- Accertamento con adesione: prima della notifica del ricorso, per alcuni atti (es. avvisi di accertamento) l’azienda può attivare la procedura di adesione, che sospende i termini per 90 giorni e può portare a un accordo con riduzione di sanzioni a 1/3. Anche questa procedura comporta solo il costo di eventuali spostamenti e consulenze, ma nessun contributo unificato.
- Conciliazione giudiziale in corso di causa: è lo strumento ora principale per chiudere le liti pendenti. Si può conciliare sia in primo grado sia in secondo grado. In primo grado, se le parti trovano un accordo (magari su invito della Commissione stessa), si redige un verbale di conciliazione che chiude la causa. Le sanzioni in questo caso sono ridotte al 40% del minimo (leggermente meno favorevole del 35% che aveva la mediazione) e sul dovuto si applicano gli interessi ridotti al tasso legale. In appello, la conciliazione prevede sanzioni ridotte al 50%. Dunque oggi il contribuente con lite ≤ €50.000 non è più obbligato a tentare la mediazione prima del ricorso, ma può benissimo presentare ricorso subito e poi cercare una conciliazione in sede giudiziale a condizioni quasi analoghe (riduzione sanzioni 40% invece di 35%). I costi della conciliazione giudiziale sono anch’essi contenuti: non vi sono contributi da pagare extra (il contributo pagato per la causa rimane quello) e se la conciliazione avviene presto si risparmiano le fasi successive (quindi l’avvocato in genere riduce il compenso richiesto). Inoltre, il processo si chiude con un verbale omologato dal giudice, e le spese di lite di norma vengono compensate o ciascuno le sopporta (spesso negli accordi si stabilisce che ogni parte rimane con le proprie spese). Questa è un’importante differenza: in caso di conciliazione, non c’è un “vincitore” e “perdente” ufficiale, quindi di solito nessuno paga le spese all’altro. Ciò elimina il rischio di dover rimborsare i costi legali altrui, ma al contempo il contribuente non ottiene rimborso delle proprie spese legali. È uno scambio: si riducono sanzioni e si chiude presto, ma ognuno paga il proprio avvocato.
- Ravvedimento operoso e altre definizioni agevolate: sono strumenti amministrativi (come il ravvedimento post notifica per alcune sanzioni, o le sanatorie fiscali straordinarie) che possono chiudere la partita prima o durante il ricorso. Questi spesso richiedono il pagamento di un importo ridotto del tributo/sanzione e portano all’estinzione del giudizio. I costi qui sono quelli del tributo concordato e interessi, e non rientrano nelle spese processuali; dal lato spese processuali, solitamente le parti chiedono al giudice la cessazione della materia del contendere con compensazione delle spese (ognuno tiene i propri costi). Anche in questo caso, per l’azienda ricorrente significa rinunciare al rimborso di contributo unificato e legali, ma spesso è parte dell’accordo complessivo (che magari evita importi ben più onerosi di imposta).
In sintesi, dal 2024 la mediazione tributaria non è più un passaggio obbligato. Un’azienda può immediatamente presentare ricorso in Commissione senza dover attendere 90 giorni. Ciò riduce i tempi per ottenere una sospensiva o una decisione di merito. Dal punto di vista dei costi, l’abolizione del reclamo obbligatorio non comporta particolari aggravi: semmai elimina l’eventuale duplicazione di attività legale e il rischio di inammissibilità per errori procedurali. Chi era comunque intenzionato a trovare un accordo, può farlo in giudizio tramite conciliazione (rinunciando solo a un piccolo 5% di differenza sulle sanzioni rispetto a prima).
Vale la pena notare un aspetto: la norma transitoria ha previsto che la mediazione continua ad applicarsi per i ricorsi notificati fino al 3 gennaio 2024. Quindi, ad esempio, un atto notificato a dicembre 2023 e impugnato a gennaio 2024 per valore € 30.000 è ancora soggetto a reclamo-mediazione (nonostante l’abolizione, perché l’atto impositivo è anteriore). In pratica, fino a esaurimento delle liti “vecchie” potremmo avere in corso mediazioni obbligatorie. Dal punto di vista dei costi, quanto detto prima su contributo e spese per il reclamo resta valido per quelle cause pendenti. In futuro, la mediazione tributaria potrebbe essere reintrodotta come facoltativa o gestita in altra forma, ma al maggio 2025 lo scenario è questo: mediazione obbligatoria abrogata, conciliazione giudiziale incentivata, e compensazione delle spese solo per eccezioni.
Spese di soccombenza: chi paga in caso di vittoria o sconfitta
Una componente cruciale nell’analisi dei costi di un ricorso è capire chi sopporta le spese legali al termine del giudizio, in base all’esito. Le spese di lite comprendono sia il contributo unificato sia gli onorari dei difensori di entrambe le parti, oltre ad eventuali altre spese processuali (perizie, notifiche d’ufficio, ecc.). Vediamo le regole generali e come vengono applicate nel processo tributario, soprattutto alla luce delle più recenti pronunce giurisprudenziali del 2024-2025.
Principio della soccombenza e compensazione delle spese
Nel processo tributario vige, analogamente al civile, il principio della soccombenza (art. 15 D.Lgs. 546/92): la parte che perde deve rimborsare le spese di giudizio sostenute dalla parte vincitrice. Questo include tipicamente il contributo unificato, i compensi del difensore e gli altri esborsi documentati. Ad esempio, se un’azienda ricorrente ottiene l’annullamento di un avviso, la Commissione normalmente condannerà l’Ente impositore a rifondere all’azienda il contributo unificato versato (€ 250, poniamo) e una somma per le spese legali (spesso calcolata seguendo i parametri forensi, ad es. € 5.000). Viceversa, se il ricorso viene respinto, sarà l’azienda a dover pagare all’Agenzia delle Entrate le spese processuali da questa sostenute.
Tuttavia, il giudice tributario ha facoltà di dichiarare compensate le spese, in tutto o in parte, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate in motivazione. Ciò significa che ciascuna parte rimane con le spese proprie, senza rimborso da parte dell’altra. Fino al 2015 la compensazione delle spese era frequentemente disposta anche con motivazioni generiche (“in considerazione della natura della controversia le spese possono compensarsi” era una frase tipo). Ma il D.Lgs. 156/2015 ha modificato l’art. 15 imponendo al giudice tributario di motivarle specificamente e di riservarle solo a casi eccezionali. Oggi, la norma (art. 15, c.2) consente la compensazione solo in caso di soccombenza reciproca (cioè entrambi vincono parzialmente) o di altre gravi ed eccezionali ragioni. La Cassazione ha più volte ribadito che tali ragioni devono essere esplicitate e non possono consistere in formule di stile. Ad esempio, la novità o complessità della questione giuridica può giustificare una compensazione, ma deve essere spiegato perché è eccezionale; un mutamento giurisprudenziale intervenuto durante il processo è stato ritenuto dalla Suprema Corte un possibile motivo valido, in quanto la parte soccombente poteva essere nel giusto secondo il precedente orientamento poi cambiato. Invece, la mera “particolarità” o “dubbio interpretativo” senza ulteriori elementi non basta più.
Questa linea è confermata da recenti pronunce del 2024: ad esempio l’Ordinanza Cass. n. 9312/2024 ha annullato una decisione di compensazione spese che non era sorretta da effettive ragioni eccezionali, affermando il principio che nel processo tributario la compensazione delle spese processuali… è consentita solo esplicitando in motivazione le gravi ed eccezionali ragioni che la giustificano. Allo stesso modo, la Cass. ord. 25567/2024 ha censurato una CTR che aveva compensato le spese con motivazione generica, chiarendo che un cambio di orientamento giurisprudenziale su una questione dirimente può costituire ragione eccezionale, ma va specificato, e che motivazioni illogiche o stereotipate integrano violazione di legge.
In pratica, quindi, oggi è più difficile ottenere una compensazione integrale: se c’è un vincitore netto, normalmente il vincitore otterrà le spese. Le Commissioni Tributarie si stanno adeguando a questo indirizzo, anche se in passato era comune la compensazione “per equità” (specie quando il contribuente vinceva contro l’Amministrazione, molti giudici tributari compensavano per non gravare l’ente pubblico di spese – prassi ora in calo, perché censurabile in Cassazione).
Fa eccezione il caso di soccombenza reciproca: ad esempio, su quattro rilievi dell’avviso, l’azienda ne vede annullati due e confermati due – entrambe le parti vincono in parte. Qui è naturale la compensazione totale o eventualmente una ripartizione (es. 50% delle spese a carico di ciascuno). Anche la compensazione parziale (una percentuale) deve essere motivata ma rientra nelle possibilità. Quindi se l’azienda ottiene una riduzione parziale dell’accertamento, potrebbe vedersi attribuire solo una parte delle spese.
Un altro caso particolare previsto espressamente è il rifiuto ingiustificato di conciliazione: il nuovo art. 15, comma 2-bis (introdotto dal D.Lgs. 156/2015) stabilisce che se una parte ha rifiutato senza motivo una proposta conciliativa e poi risulta soccombente, il giudice di regola la condanna anche alle spese quando altrimenti avrebbe potuto compensarle. Ad esempio, se l’Agenzia delle Entrate aveva offerto in primo grado una buona soluzione e l’azienda l’ha rifiutata andando avanti, ma poi perde, il giudice difficilmente le risparmierà le spese, anzi potrebbe condannarla per intero. Questo incentiva entrambe le parti a non rifiutare accordi ragionevoli.
Recupero dei costi per la parte vincente
Se l’azienda vincerà il ricorso, in tutto o in parte, potrà dunque chiedere al giudice il rimborso delle spese. Di solito, nella memoria conclusiva o in udienza, il difensore del ricorrente chiede la condanna della controparte alle spese. Come visto, il giudice liquiderà un importo basato sui parametri. Per esempio: lite da € 100.000, l’azienda vince, la Commissione condanna l’Ufficio a pagare € 500 di contributo unificato (quello pagato dal ricorrente) + € 8.000 per compensi (oltre accessori). L’Agenzia dovrà pagare questa somma all’azienda (o al suo difensore antistatario). Se l’Agenzia non paga spontaneamente, quel provvedimento è titolo esecutivo e si può procedere a riscossione coattiva (ma normalmente gli enti pubblici pagano con liquidazione amministrativa nel giro di alcuni mesi dalla richiesta).
Cosa si recupera esattamente in caso di vittoria? In genere:
- Contributo unificato: integralmente, perché documentato (va indicato in sentenza o si dà atto che è da rimborsare).
- Compenso avvocato: nella misura liquidata dal giudice. Può coincidere con quanto pattuito col legale oppure no. Se l’avvocato aveva concordato con l’azienda una parcella superiore a quella liquidata, la differenza resta a carico dell’azienda (non la può pretendere dall’ente). Se aveva concordato di meno, l’azienda può anche guadagnarci (ma in tal caso l’avvocato avrà diritto almeno a quanto liquidato se c’era patto di compenso in percentuale alle spese legali recuperate, frequente negli accordi di patrocinio).
- Spese vive: il giudice può liquidare a parte alcune spese documentate (es. periti di parte, consulenze tecniche se ammesse, costi di viaggio se straordinari). In tributario queste voci sono rare: non c’è CTU tecnica di regola, e i viaggi del difensore sono coperti dal 15% forfettario. Ad ogni modo, se ci fossero (es. spese per accesso agli atti, per copie di documenti), andrebbero chieste e provate.
In caso di vittoria parziale, la Commissione potrebbe compensare parzialmente. Ad esempio, se l’azienda ottiene ragione solo su metà delle pretese, potrebbe decidere che ciascuno sopporta le proprie spese (compensazione totale) oppure, talvolta, condannare l’Ufficio a rifondere una quota (es. 50%) delle spese del ricorrente. Dipende molto dall’importanza relativa dei punti vinti/perduti.
Un caso interessante: se l’azienda vince in primo grado e l’Agenzia appella ma perde anche in appello, l’azienda potrà ottenere non solo le spese del secondo grado, ma anche la conferma di quelle di primo grado (se il primo giudice magari le aveva compensate senza ragione, può chiederle in appello). In Cassazione, se l’azienda resiste con successo a un ricorso dell’ente, di solito la Corte liquida le spese di legittimità a suo favore e conferma quelle di merito.
Costi in caso di sconfitta: condanna alle spese
Se invece l’azienda perde il ricorso, nella totalità delle sue richieste, quasi certamente il dispositivo della sentenza dirà che “rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore dell’ente impositore”. L’importo viene stabilito in sentenza. Ad esempio, la Commissione può condannare la società a pagare € 5.000 a titolo di spese a favore dell’Agenzia delle Entrate.
Spesso ci si chiede: ma l’Agenzia delle Entrate ha un avvocato esterno? O cosa devo pagare esattamente? Ebbene, l’Agenzia e gli enti impositori in genere sono difesi in giudizio da propri funzionari abilitati o da avvocati dell’Avvocatura dello Stato. Pur non essendoci una vera fattura che l’Agenzia paga al suo difensore (trattandosi di personale interno), la giurisprudenza ritiene comunque che lo Stato abbia diritto alle spese legali come qualunque parte, secondo i parametri forensi applicabili. Dunque la Commissione liquida una somma che il contribuente dovrà pagare all’Erario a titolo di spese di giudizio. In pratica è un trasferimento che va nel bilancio pubblico (spesso sul capitolo dell’Agenzia come entrata da recupero spese legali). Non importa se l’ente non ha sostenuto una spesa viva per un legale esterno: la legge equipara la loro attività a quella di un difensore e quantifica un importo standard. Ad esempio, se un funzionario laureato dell’Ufficio ha preparato controdeduzioni e discusso la causa, la Commissione potrebbe liquidare € 2.000 di spese a suo favore, che l’azienda dovrà pagare al Dipartimento. Dal punto di vista aziendale, poco cambia: è un costo da pagare se si perde, come lo sarebbe pagare l’avvocato di controparte.
A livello pratico, il pagamento di queste spese avviene di solito tramite il Concessionario della Riscossione: se l’azienda non le versa spontaneamente, dopo la definitività la somma può essere iscritta a ruolo e una cartella di pagamento verrà emessa. Per importi modesti, conviene pagare spontaneamente alla tesoreria dell’ente evitando ulteriori aggiunte.
Da notare che c’è un limite: se la controversia riguarda solo sanzioni (una causa in cui non ci sono tributi ma solo sanzioni amministrative tributarie), e il contribuente ottiene l’annullamento integrale delle sanzioni, nonostante sia vincitore, la legge prevede che ciascuno sopporta le proprie spese (art. 15, c.3, D.Lgs. 546/92). Questa particolarità, introdotta per le sole cause di sole sanzioni, significa che l’ente non pagherà le spese al contribuente anche se quest’ultimo vince, e parimenti il contribuente non pagherà le spese all’ente se invece fosse l’ente a vincere. È una sorta di compensazione obbligatoria ex lege nei casi di annullamento di sanzioni. L’idea è di non gravare il contribuente “perdonato” nelle sanzioni di ulteriori oneri, e viceversa di non punire l’ente se le sanzioni erano state irrogate in buona fede. Questo però riguarda solo i giudizi aventi ad oggetto esclusivamente sanzioni (senza imposte principali in discussione).
Simulazioni di costo in base all’esito
Per tirare le somme, consideriamo alcuni scenari tipici per capire il costo totale a carico dell’azienda in caso di vittoria o sconfitta, includendo tutte le voci (contributo, avvocato, spese di controparte).
- Caso A: lite di medio valore, contribuente vincitore
Una SRL impugna un avviso da € 50.000. Vince in primo grado (atto annullato).
Costi sostenuti inizialmente: € 250 contributo unificato; compenso al proprio legale ~ € 7.000 + accessori (€ 8.500 circa IVA compresa, di cui IVA detraibile). In sentenza: condanna l’ente a rifondere € 250 di contributo e € 7.000 di spese.
Esborso finale per l’azienda: paga il proprio avvocato € 8.500 (ma recupera l’IVA € 1.500, quindi costo effettivo € 7.000); riceve dall’ente € 7.250. Costo netto = € (7.000 – 7.250) = zero, anzi un leggerissimo attivo di € 250 se guardiamo solo i numeri (che in realtà compensa spese generali non detraibili). In sostanza, vincendo, l’azienda ha recuperato quasi integralmente ciò che ha speso per far valere le sue ragioni. - Caso B: lite di medio valore, contribuente soccombente
Stessa SRL, stesso avviso € 50.000, ma perde il ricorso.
Costi sostenuti inizialmente: € 250 contributo + € 8.500 avvocato (come sopra). In sentenza: condanna la società a pagare € 5.000 di spese all’ente (ipotizziamo una liquidazione un po’ più bassa del parametro pieno, perché magari l’Avvocatura dello Stato non ha chiesto importi elevati).
Esborso finale per l’azienda: deve pagare al Fisco € 5.000; il contributo € 250 è perso (nessuno glielo restituisce); paga comunque il proprio legale € 8.500 (IVA detratta). Costo netto = € 5.000 + € 250 + € 7.000 = € 12.250. In pratica, ha pagato due volte le spese legali (le proprie e in parte quelle dell’Agenzia). Questo scenario evidenzia che se si perde, il costo di una causa può anche raddoppiare rispetto a quanto si sarebbe speso avendo ragione. Per questo è importante valutare bene la fondatezza del ricorso: una causa persa può costare molto cara. Nel nostro esempio, l’azienda oltre a dover comunque pagare i € 50.000 contestati (più interessi), ha dovuto aggiungere oltre € 12.000 di spese processuali. - Caso C: lite di piccolo valore, contribuente parzialmente vincitore
Una ditta individuale impugna un avviso da € 10.000. In giudizio l’imposta viene ridotta del 50% (contribuente vince su alcuni motivi) e le sanzioni connesse annullate.
Costi iniziali: € 120 contributo; avvocato magari € 3.500. Sentenza: considerando la soccombenza reciproca (metà avviso confermato, metà no), il giudice compensa le spese al 50%: condanna l’Ufficio a rimborsare € 60 di contributo e € 1.500 di spese.
Esborso finale: l’azienda paga il suo avvocato (3.500 + IVA, IVA detraibile, quindi € 3.500 effettivi); riceve € 1.560 dall’ente. Costo netto = € 3.500 – 1.560 + 60 (contributo a suo carico) = ~ € 2.000. Ha speso € 2.000 per risparmiarne € 5.000 di imposte e € ~? di sanzioni (diciamo altri € 1.500). L’operazione è valsa la pena, ma il recupero spese è stato solo parziale a causa della vittoria non totale. - Caso D: lite di elevato valore, conciliazione in corso di causa
Una grande azienda contesta un avviso da € 300.000. Durante la pendenza in primo grado raggiunge un accordo con l’ente: paga € 200.000 e sanzioni ridotte al 40%. Si concilia la lite.
Costi iniziali: € 1.500 contributo; parcella legale, magari pattuita a forfait € 15.000 visto l’importo (in parte già maturata). Verbale di conciliazione: le parti stabiliscono che ognuno sopporta le proprie spese (prassi usuale).
Esborso finale: l’azienda paga il tributo concordato (€ 200.000 + sanzioni € X), quanto dovuto al fisco; rimane a carico suo il contributo € 1.500 e l’avvocato € 15.000 (IVA detraibile). Nessun rimborso spese da controparte. Costo netto del processo = € 16.500. Notiamo che qui l’azienda ha rinunciato al rimborso dei € 16.500 pur di chiudere la vicenda. Se avesse vinto totalmente avrebbe potuto far rifondere, ma era rischioso; se avesse perso, avrebbe speso di più. In una logica di convenienza, ha accettato quei costi come parte dell’accordo. È una scelta comune nelle conciliazioni: la parte privata paga i propri avvocati senza pretendere rifusione, in cambio l’ente riduce sensibilmente la sua pretesa.
Come si evince dagli esempi, l’esito del giudizio influisce enormemente sul costo effettivo per l’azienda: vincendo può recuperare gran parte delle spese, perdendo può trovarsi a pagarle doppie. Questa alea sulle spese va messa sul piatto quando si decide se fare ricorso o eventualmente accettare un accertamento con adesione o una proposta transattiva. Una valutazione costi-benefici completa dovrebbe considerare: probabilità di vittoria, importo recuperabile, rischio di spese di controparte, tempi (anche i tempi hanno un costo, se si pensa a interessi maturandi e immobilizzo di risorse).
Prassi locali, differenze regionali e nelle Province Autonome
La normativa su contributi, spese e compensi legali nel processo tributario è nazionale e uniforme. Tuttavia, possono esservi alcune differenze di prassi o di organizzazione nelle diverse regioni o nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, che vale la pena menzionare:
- Organizzazione delle Corti di Giustizia Tributaria: in tutte le regioni d’Italia esiste una Corte di primo grado per ciascuna provincia (ex Commissione Tributaria Provinciale) e una Corte di secondo grado regionale (ex Commissione Tributaria Regionale) con sede nel capoluogo di regione. Fanno eccezione il Trentino-Alto Adige/Südtirol, dove storicamente vi erano Commissioni separate per le province di Trento e Bolzano sia in primo che in secondo grado. Anche oggi permangono la Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Trento e quella di Bolzano, e due Corti di II grado (una per Trento e una per Bolzano). Per il contribuente ciò non comporta differenze di costi (il contributo unificato si paga allo stesso modo, i parametri forensi sono identici). È solo un aspetto organizzativo: ad esempio un’azienda con sede a Bolzano farà appello alla Corte di secondo grado di Bolzano, distinta da Trento. Nelle altre regioni a statuto speciale (Sicilia, Valle d’Aosta, Friuli-VG) le Corti di giustizia tributaria sono integrate nel sistema nazionale e non risultano particolarità nei costi. La Sicilia in passato aveva proprie regole amministrative per la gestione delle Commissioni (essendo a statuto speciale), ma i contributi unificati e le spese di lite seguono comunque la legge statale. Dunque, un’azienda siciliana paga gli stessi importi di contributo e ha diritto alle stesse rifusioni di spese di una lombarda o laziale.
- Bilinguismo e traduzioni: nelle province di Bolzano e (in misura minore) di Aosta, i procedimenti possono svolgersi in lingua locale (tedesco o francese) su richiesta. Ciò può implicare la necessità di tradurre gli atti. Ad esempio, a Bolzano se un atto è redatto in italiano ma la controparte sceglie il tedesco (o viceversa), la Segreteria provvede alle traduzioni. I costi di traduzione però sono a carico dell’amministrazione della giustizia tributaria, non delle parti. Le parti non devono pagare interpreti. Quindi non c’è onere economico aggiuntivo per l’azienda se decide di presentare il ricorso in tedesco in Alto Adige. Similmente, se deposita documenti in tedesco, dovrebbero essere accompagnati da traduzione in italiano ma spesso i funzionari bilingui li comprendono ugualmente. In generale, nessun contributo extra è richiesto per l’utilizzo di lingue minoritarie – fa parte del servizio pubblico offerto nelle autonomie.
- Differenze nei contributi per tributi locali: alcune controversie riguardano tributi locali (es. IMU, TARI) di competenza di Comuni o Regioni. Ci si potrebbe chiedere se il trattamento delle spese è diverso quando la controparte è un Comune anziché l’Agenzia delle Entrate. La risposta è no: regole identiche. Se un Comune perde, paga le spese al contribuente; se vince, può chiedere le spese (spesso i Comuni si fanno difendere da avvocati esterni e quindi hanno parcelle da rifarsi). L’unico dettaglio è che alcuni enti locali, per prassi, in caso di vittoria non insistono per la condanna alle spese del privato, specialmente se modeste (p.es. il Comune può decidere di non perseguitare un cittadino per € 200 di spese legali su una causa di rifiuti). Ma è discrezionale e non scontato. Un’azienda che litiga col Comune di solito vedrà quest’ultimo richiedere le spese in caso di vittoria, esattamente come farebbe l’Agenzia. Nessuna differenza neppure nel contributo: impugnare un avviso TARI da € 5.000 costa € 60 di contributo, proprio come impugnare un avviso IVA da € 5.000.
- Province Autonome e rimborso spese legali per i propri dipendenti: questa è una questione collaterale. Si segnala solo come curiosità che le Province autonome (Trento, Bolzano) e alcune Regioni prevedono norme per rimborsare le spese legali dei propri funzionari coinvolti in procedimenti penali o contabili in cui risultino poi assolti. Ma questo esula dal processo tributario in sé. Non riguarda le aziende contribuenti, ma solo i dipendenti pubblici. Ad esempio, un dirigente della PA in Valle d’Aosta assolto da responsabilità amministrativa potrebbe ottenere il rimborso delle spese legali sostenute, per una legge regionale. Ma ribadiamo: questo non ha impatto sui costi del ricorso tributario per le imprese, è un aspetto di status del personale pubblico.
- Differenze giurisprudenziali locali: talvolta i diversi orientamenti delle Commissioni di primo grado possono influire sul fatto che concedano più o meno facilmente la compensazione delle spese. Ad esempio, alcune commissioni regionali in passato compensavano sistematicamente se il contribuente vinceva contro l’Amministrazione finanziaria (specie in regioni del Sud). Oggi, dopo l’intervento della Cassazione, c’è più uniformità. Non si può comunque escludere che in certe regioni vi sia una maggiore tendenza alla conciliazione delle liti (es. Lombardia e Veneto hanno alti tassi di conciliazione giudiziale, questo può ridurre i contenziosi lunghi e i relativi costi, ma dipende dal comportamento delle parti). In altre regioni, magari, gli enti locali preferiscono arrivare a sentenza, generando più spesso condanne alle spese. Queste differenze non sono codificate, ma fanno parte del clima contenzioso locale. Un buon consulente locale saprà dire se quella Commissione tende ad essere più o meno severa sulle spese.
In conclusione, non vi sono differenze sostanziali di costi da regione a regione: il quadro normativo è nazionale. Una causa tributaria a Milano costa, a parità di valore, come una a Palermo in termini di contributo e parametri d’avvocato. Le uniche variabili riguardano aspetti come la facilità di accesso alla PEC (ovunque ormai diffusa), la lingua in Alto Adige, e piccole sfumature di prassi. Le Province Autonome non godono di sconti su contributi o simili. Semmai, la Giustizia Tributaria sta cercando ovunque di essere più efficiente: per esempio dal 2023 sono stati introdotti il giudice monocratico per le liti fino a € 3.000 (riducendo tempi e formalità), e gli incontri di pianificazione del processo (per le liti più complesse) – ma anche queste novità non impattano direttamente sui costi per le parti, se non in termini di eventuale riduzione della durata del giudizio (che di per sé è un risparmio di interessi e incertezza, anche questo un costo/opportunità da valutare).
Esempi pratici di simulazione dei costi totali
Di seguito riportiamo alcuni esempi riassuntivi che simulano i costi complessivi di un ricorso tributario per diverse fasce di valore, tenendo conto delle spese vive e dell’esito, per dare un’idea concreta alle aziende di cosa comporta economicamente intraprendere (e portare a termine) un ricorso.
- Esempio 1: Piccola controversia – valore € 2.000 (sanzione da 2.000 €)
– Scenario: una piccola ditta individuale impugna una sanzione di € 2.000 per tardiva presentazione di dichiarazione.
– Contributo unificato: € 30.
– Difesa tecnica: facoltativa (valore sotto €3.000, potrebbe stare in giudizio da sola). Se decide di farsi assistere da un avvocato, il costo probabile è modesto: ipotizziamo € 1.000 + accessori (~€ 1.300 IVA compresa) – molti professionisti per importi così bassi applicano minimi tariffari o forfait calmierati, talora inferiori ai parametri stessi.
– Spese accessorie: notifica via PEC (gratuita), nessun’altra spesa significativa.
– Totale costi iniziali: € 30 + € 1.300 = € 1.330 (oppure solo € 30 se procede senza avvocato, risparmiando l’onorario ma assumendosi il rischio tecnico).
– Esito 1 (vittoria): il giudice annulla la sanzione perché la violazione era incolpevole. Le spese vengono compensate in base all’art. 15 c.3 (causa di sole sanzioni annullate – spese proprie) e/o perché valore minimo. Costo finale per la ditta: € 1.330 (nessun rimborso). In compenso, risparmia € 2.000 di sanzione, quindi il ricorso ha avuto convenienza netta positiva (+€ 670).
– Esito 2 (sconfitta): il ricorso viene respinto. Nessuna condanna alle spese data la modicità (spesso per cifre così piccole molti giudici compensano comunque, specie se il contribuente era da solo). Costo finale: sempre € 1.330, e in più dovrà pagare i € 2.000 di sanzione. In questo caso ha perso sia la causa sia i soldi spesi per farla – perdita complessiva € 3.330. Questo esempio illustra perché per cifre nell’ordine di poche migliaia di euro conviene valutare se fare ricorso: se le chance di vincere non sono alte, si rischia di aggiungere spesa su spesa. - Esempio 2: Controversia media – valore € 20.000 (IVA accertata)
– Scenario: una SRL riceve un avviso di accertamento IVA da € 20.000 (imposta) + € 4.000 di sanzioni. Decide di ricorrere.
– Contributo unificato: € 120.
– Onorario legale: trattandosi di questione fiscale tecnica (IVA), la società incarica un tributarista. Parametri medi per 20k: circa € 4.000 (scaglione fino 25k). Potrebbe concordare un forfait di € 3.500 + accessori (~€ 4.500).
– Spese varie: notifica via PEC (gratis); nessun’altra spesa significativa (deposito telematico).
– Totale costi iniziali: ~ € 4.620 (di cui 120 contributo e 4.500 legale).
– Esito 1 (vittoria totale): l’atto viene annullato per infondatezza. Il giudice condanna l’Agenzia a rifondere € 120 di contributo e € 4.000 di spese legali (limitate al parametro medio). Costo finale per la SRL: paga il suo avvocato € 4.500 (IVA detraibile), ma incassa € 4.120 dall’Erario. Costo netto circa € 380. Di fatto, ha speso quasi nulla per liberarsi di un’imposta da € 20.000 (risparmio enorme rispetto al costo).
– Esito 2 (vittoria parziale – conciliazione): in corso di giudizio, l’azienda accetta di definire la lite pagando € 10.000 e sanzioni ridotte a € 1.400 (35% del minimo in sede di mediazione pre 2024, poniamo). Ognuno tiene le proprie spese. Costo finale: € 4.620 spese legali + € 11.400 versati al fisco. Totale € 16.020. È maggiore di zero, ma l’azienda ha evitato € 12.600 di esborsi (tra imposta e sanzione risparmiate). Il rapporto costi/benefici è favorevole.
– Esito 3 (sconfitta): la Commissione respinge il ricorso confermando l’avviso. Condanna la società a € 3.500 di spese verso l’ufficio (valutata come lite di media complessità). Costo finale: € 4.620 propri + € 3.500 controparte = € 8.120, oltre a dover pagare i € 20.000 + sanzioni. Un esito negativo assai pesante (in totale oltre € 28.000 tra imposte e costi). - Esempio 3: Grande controversia – valore € 300.000 (accertamento IRES)
– Scenario: una società di capitali impugna un avviso di accertamento IRES da € 300.000 imposte e € 90.000 sanzioni.
– Contributo unificato: € 1.500 (valore > 200k).
– Compenso avvocato: viene incaricato uno studio legale strutturato. Parametri medi per valore oltre 260k: ~ € 14.380 in primo grado. Spesso per importi così alti i legali propongono un compenso a tempo o misto. Supponiamo un accordo: € 15.000 per primo grado + € 5.000 bonus in caso di piena vittoria, oltre accessori (~ € 24.400 totali se vince; ~ € 18.300 se perde, poiché niente bonus).
– Spese ulteriori: la complessità può richiedere una perizia contabile di parte (€ 5.000) e trasferte per l’udienza a Roma (società di Milano, spesa travel € 500). Totale spese vive: ~ € 5.500.
– Totale costi iniziali (fino a sentenza): circa € 22.000 (se consideriamo l’onorario base 15k + IVA 22% + contributo 1.5k + perito 5k + spese 500). Questi costi possono variare molto a seconda delle strategie difensive (il perito ad esempio è facoltativo, l’IVA su avvocato è detraibile).
– Esito 1 (vittoria totale): la Commissione annulla l’avviso. Condanna l’Agenzia a rifondere € 1.500 di contributo e – data la complessità – liquida spese legali per, diciamo, € 12.000 (un po’ sotto i parametri massimi). Costo finale per la società: paga al suo studio € 24.400 (incluso bonus; IVA detraibile quindi costo effettivo € 20.000), paga il perito € 5.000, tot € 25.000. Riceve € 13.500 dall’Erario. Esborso netto = ~€ 11.500. Con € 11.5k ha eliminato un debito potenziale di € 390.000. Ottimo risultato. (In più, potrebbe valutare se chiedere i danni per lite temeraria ma è raro).
– Esito 2 (soccombenza): la società perde. Il giudice la condanna a pagare € 10.000 di spese all’ente (spese legali dell’Avvocatura Stato per due gradi di giudizio, perché magari era reclamo-mediazione obbligatorio e intanto c’è stata quella fase – ipotesi). Costo finale: € 22.000 spesi + € 10.000 pagati = € 32.000, oltre ai € 390.000 di imposte/sanzioni dovute. Un impatto notevole, ma in percentuale (circa 8% del valore in lite) è in linea con quanto un’azienda potrebbe mettere in conto come costo del rischio legale.
– Esito 3 (appello): supponiamo invece che in primo grado la società perda e faccia appello, spendendo altri € 20.000 di avvocato e € 1.500 contributo, ma in secondo grado ottenga ragione piena. A quel punto la CTR la dichiara vittoriosa e condanna l’ente a rifondere le spese di entrambi i gradi: poniamo € 25.000 totali. Saldo finale: l’azienda ha speso ~€ 22.000 + ~€ 21.000 = € 43.000 tra primo e secondo grado, incassa € 25.000, quindi costo netto € 18.000. Ancora un’ottima convenienza rispetto ai € 390.000 risparmiati, ma va considerato il tempo e stress di passare due gradi (altri costi indiretti difficili da monetizzare).
Questi esempi illustrano come i costi totali di un ricorso possano variare da poche centinaia di euro a decine di migliaia di euro, in funzione del valore della lite e dell’esito processuale. Per un’azienda è fondamentale, prima di decidere di impugnare un atto, fare una valutazione preliminare: quantificare i costi probabili (contributo, avvocato) e pesarli rispetto all’importo contestato e alla probabilità di successo. In molti casi, soprattutto per valori elevati, il gioco vale la candela, in quanto la posta in palio (tasse non dovute) supera di molto le spese eventuali. Per contro, in liti minori può essere più conveniente cercare soluzioni alternative (adesione, definizione agevolata) che taglino corto, evitando di spendere magari € 3.000 di avvocato per risparmiare € 2.000 di imposta (situazione anti-economica).
Infine, l’analisi dei costi va integrata con considerazioni di cassa e rischio: una causa tributaria può durare anni, durante i quali l’azienda potrebbe dover intanto versare parte delle somme (per non subire fermi amministrativi o ipoteche, l’azienda magari paga 1/3 dopo la sentenza di primo grado, ecc.) – sono esborsi che poi vanno a conguaglio con l’esito finale, ma che incidono sul cash flow. Anche questi aspetti, sebbene non siano spese legali in senso stretto, rientrano nei costi indiretti del contenzioso.
Conclusioni
In questa guida abbiamo esaminato in dettaglio tutte le voci di costo legate a un ricorso in Commissione Tributaria/Corte di Giustizia Tributaria, fornendo un quadro aggiornato a maggio 2025. Riassumendo i punti chiave:
- Il contributo unificato tributario dipende dal valore della lite e va da € 30 a € 1.500, con aumento del 50% in caso di omissione di PEC/CF nel ricorso e raddoppio in caso di ricorso per Cassazione infruttuoso. Si paga per ciascun grado di giudizio e per ciascun atto impugnato (salvo eccezioni).
- I costi accessori (notifiche, bolli) sono ormai ridotti grazie al processo telematico: notificando via PEC e depositando online, si evita di spendere per raccomandate o marche da bollo aggiuntive. Rimangono possibili spese di notifica tradizionale (10-30 € per raccomandata/ufficiale) e costi eventuali per copie autentiche o consulenze tecniche. Pianificando bene, queste spese possono essere minime.
- Gli onorari dell’avvocato costituiscono la parte preponderante: seguono i parametri forensi aggiornati al 2022, calibrati su valore della causa e fasi del giudizio. Per l’intero primo grado si va da circa € 700 per liti minime a € 15.000 o più per liti di valore altissimo (oltre 260.000 €). Queste cifre vanno aumentate di spese generali, CPA e IVA. L’azienda può concordare il compenso col legale, ma in caso di condanna alle spese il recupero sarà limitato a quanto prevedono i parametri.
- La ormai abolita mediazione tributaria obbligatoria (per liti ≤ 50k fino al 2023) non comportava costi vivi aggiuntivi e offriva vantaggi (sanzioni ridotte al 35%). Dal 2024 non è più richiesta: si accede subito al giudice, ma resta la conciliazione giudiziale con sanzioni ridotte al 40% come strumento deflattivo. Ciò semplifica il procedimento e incide poco sui costi, se non per l’aspetto delle sanzioni leggermente meno scontate.
- In caso di vittoria, il contribuente ha diritto al rimborso di contributo e spese legali dal soccombente. In caso di sconfitta, sarà lui a dover pagare le spese all’ente vittorioso. La compensazione delle spese è possibile solo per ragioni eccezionali che vanno motivate esplicitamente (Cass. 2024 ha rafforzato molto questo principio). Ciò rende cruciale stimare il rischio di soccombenza: perdere una causa vuol dire oltre a pagar la tassa contestata, subire il costo del proprio legale e di quello avversario – il che può raddoppiare le perdite.
- Le prassi locali non influenzano in modo significativo i costi monetari: la legge sui contributi e sulle spese è nazionale. Alcune differenze organizzative (es. doppia lingua a Bolzano) non comportano spese aggiuntive per le parti. Le Province Autonome e le Regioni a statuto speciale applicano la stessa disciplina. Dunque un’impresa può aspettarsi lo stesso trattamento economico a prescindere dal luogo in cui litiga, salvo la variabilità insita nella discrezionalità del giudice nella liquidazione delle spese.
- Esempi numerici mostrano che, a fronte di costi certi (contributo e parcella), l’esito incide sull’esborso finale: vincendo spesso il costo netto è ridotto o nullo (grazie alla condanna alle spese dell’ente) mentre perdendo il costo può arrivare a sommarsi all’imposta dovuta, aggravando il peso complessivo. Ciò sottolinea l’importanza di fare cause ben fondate e, quando possibile, approfittare degli strumenti conciliativi per evitare il rischio del “doppio costo”.
In definitiva, un’azienda che valuta un ricorso tributario deve mettere sul piatto quanto rischia di pagare se perde (sia come imposta che come costi di processo) contro quanto può risparmiare se vince. La gestione oculata dei costi (scelta di notificare via PEC, accordi chiari con i legali sugli onorari, ecc.) può ridurre di molto la spesa. Questa guida fornisce le informazioni necessarie per stimare tali voci e muoversi con consapevolezza nel contenzioso tributario, bilanciando la tutela dei propri diritti fiscali con l’analisi dei costi-benefici.
Fonti
- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – Disposizioni sul processo tributario, artt. 12 (assistenza tecnica), 13 (contributo unificato), 15 (spese di lite), 17-bis (reclamo e mediazione, abrogato dal 2024).
- DPR 30 maggio 2002, n. 115 – Testo Unico Spese di Giustizia, art. 13 (importi del contributo unificato e maggiorazioni) e art. 14 (contributo per impugnazioni incidentali e appello, ecc.).
- Legge 11 settembre 2020, n. 120 (di conversione del DL 76/2020) – modifiche in materia di Processo Tributario Telematico (obbligatorietà dal 2020).
- Decreto Ministeriale 10 marzo 2014, n. 55 – Parametri forensi, tabelle per i giudizi tributari di primo e secondo grado; D.M. 8 marzo 2018, n. 37 e D.M. 13 agosto 2022, n. 147 – Modifiche ai parametri (in vigore dal 23/10/2022).
- Legge 31 agosto 2022, n. 130 – Riforma della giustizia tributaria (istituzione delle Corti di Giustizia Tributaria, giudice monocratico fino 3k, ecc.).
- Legge 9 agosto 2023, n. 111 – Delega per la riforma fiscale 2023 (previsione di abolizione del reclamo-mediazione).
- D.Lgs. 29 dicembre 2023, n. 220 – Attuazione della delega sulla giustizia tributaria (entrato in vigore il 4 gennaio 2024), che ha abrogato l’art. 17-bis (mediazione tributaria) e apportato modifiche al D.Lgs. 546/92 sulle spese e conciliazione.
- Circolare Agenzia Entrate n. 38/E del 2015 – Chiarimenti sulla riduzione delle sanzioni in caso di reclamo/mediazione (ridotte al 35%) e conciliazione (40% in primo grado).
- Corte Costituzionale, sentenza n. 98/2014 e n. 103/2016 – Pronunce sulla legittimità del reclamo tributario obbligatorio e sull’interpretazione della sanzione di inammissibilità del ricorso in caso di mancato reclamo.
- Corte di Cassazione, Sez. Trib., ordinanza n. 8053/2014 – Contributo unificato e valore della lite; ordinanza n. 21214/2014 – principio del raddoppio del contributo in Cassazione ex art. 13 c.1-quater DPR 115/02.
- Corte di Cassazione, Sez. Trib., ordinanza n. 26439/2024 (10/10/2024) – Calcolo del contributo unificato in caso di atti presupposti non impugnati (solo atto impugnato rileva).
- Corte di Cassazione, Sez. Trib., ordinanza n. 25567/2024 (24/09/2024) – Compensazione spese: necessità di esplicitare gravi ed eccezionali ragioni, esempio del mutamento giurisprudenziale come motivo legittimo.
- Corte di Cassazione, Sez. Trib., ordinanza n. 9312/2024 (08/04/2024) – Ribadisce il criterio restrittivo per la compensazione delle spese nel processo tributario (richiamo a art. 15, come mod. dal 2015).
- Corte di Cassazione, Sez. Trib., ordinanza n. 6769/2025 (16/03/2025) – Ulteriore conferma in tema di contributo unificato e atti impugnati (massima: il CUT va versato solo in relazione agli atti impugnati, non per atti solo menzionati).
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