Vuoi sapere come funziona il piano di attestato di risanamento?
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Introduzione:
Il piano attestato di risanamento (spesso abbreviato in PAR) è uno strumento di regolazione della crisi d’impresa introdotto nell’ordinamento italiano nel 2005 e oggi disciplinato dall’art. 56 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 2022). Si tratta di un piano di risanamento aziendale predisposto dall’imprenditore in difficoltà, corredato da un’apposita attestazione di un professionista indipendente, e rivolto ai creditori al fine di ristrutturare l’indebitamento e ripristinare l’equilibrio patrimoniale e finanziario dell’impresa. A differenza delle procedure concorsuali (come concordato preventivo o liquidazione giudiziale), il piano attestato è negoziale e stragiudiziale, ossia nasce da accordi privatistici con i creditori senza un diretto coinvolgimento del tribunale. Ciò gli conferisce maggiore flessibilità e riservatezza, ma comporta anche che la sua efficacia dipenda essenzialmente dal consenso dei creditori e dal rispetto di specifici requisiti di legge.
In questa guida – aggiornata ad aprile 2025 alla luce delle più recenti novità normative, prassi applicative e pronunce giurisprudenziali – esamineremo in dettaglio come funziona il piano attestato di risanamento. Verranno illustrati: la natura e finalità del piano attestato ex art. 56 CCII, i requisiti di validità e l’efficacia nei confronti dei creditori, il ruolo cruciale del professionista attestatore e le sue responsabilità, le modalità operative per la predisposizione e attuazione del piano, nonché i principali profili fiscali e penali connessi. Saranno forniti esempi pratici e richiamati casi di giurisprudenza significativi, ponendo in evidenza le più recenti interpretazioni dei giudici. Infine, il piano attestato sarà messo a confronto con gli altri strumenti di gestione della crisi previsti dal CCII (accordi di ristrutturazione dei debiti, piani di ristrutturazione soggetti a omologazione, concordato preventivo, liquidazione giudiziale), evidenziandone pregi, differenze e ambiti di applicazione – anche in relazione a diverse tipologie di imprese (PMI, grandi imprese, imprese agricole, ecc.).
Cos’è il Piano Attestato di Risanamento (art. 56 CCII)
Il piano attestato di risanamento è un piano di risanamento aziendale redatto dall’imprenditore che versa in uno stato di crisi o insolvenza, volto a consentire la ristrutturazione dei debiti e il riequilibrio della situazione finanziaria dell’impresa. La ratio dello strumento è quella di favorire il recupero dell’impresa al di fuori delle procedure concorsuali giudiziali, mediante un accordo con i creditori basato su un piano “attestato” da un esperto indipendente. In altri termini, il legislatore offre all’imprenditore in difficoltà la possibilità di negoziare privatamente con i propri creditori un percorso di risanamento, a patto che tale percorso sia fondato su dati veritieri e abbia prospettive concrete di successo, certificate da un professionista terzo. Se queste condizioni sono rispettate, l’ordinamento riconosce al piano attestato alcuni effetti legali protettivi (come l’esenzione da azioni revocatorie e da taluni reati fallimentari) che favoriscono il buon esito del risanamento.
Dal punto di vista normativo, l’istituto affonda le radici nell’art. 67, co. 3, lett. d) della vecchia Legge Fallimentare (R.D. 267/1942), introdotto nel 2005 e modificato nel 2012, che esentava da revocatoria gli atti compiuti in esecuzione di un piano di risanamento attestato. Il Codice della Crisi (CCII) ha trasfuso e ampliato quella disciplina nell’art. 56, intitolato appunto agli “Accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento”. Pur collocando finalmente il piano attestato in un articolo organico (anziché in una disposizione sulle revocatorie), il legislatore ha mantenuto la natura flessibile e privatistica dello strumento. L’art. 56 CCII si limita infatti a delineare gli elementi essenziali del piano attestato – finalità, contenuto minimo, necessaria attestazione professionale e facoltativa pubblicazione – lasciando ampio spazio alla autonomia negoziale delle parti. Ciò è coerente con l’obiettivo di non irrigidire eccessivamente un istituto che, per funzionare, deve potersi adattare al caso concreto e alle esigenze specifiche dell’impresa e dei creditori coinvolti.
In sintesi, cos’è dunque un piano attestato di risanamento? È un piano di risanamento elaborato dall’imprenditore (in crisi o insolvente) e rivolto ai creditori, che appare idoneo a risanare l’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’azienda. Il piano è unilaterale (lo predispone il debitore) ma la sua attuazione pratica avviene tramite accordi negoziati con i creditori interessati (banche, fornitori, ecc.), accordi che vengono formalizzati in conformità al piano stesso. L’elemento qualificante è che tale piano deve essere “attestato” da un professionista indipendente, ossia deve accompagnarsi a una relazione di un esperto che ne certifichi la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità economica. Questo elemento conferisce credibilità e “terzietà” al piano, fungendo da garanzia per i creditori che vi aderiscono.
Il piano attestato non è soggetto ad omologazione da parte del tribunale, né prevede l’apertura di una procedura concorsuale formale: non c’è un commissario, non c’è un giudice delegato che lo supervisiona in itinere, né un voto dei creditori in sede collegiale. È un accordo essenzialmente di natura privatistica. Solo in caso di successivo insuccesso del piano e apertura di una procedura concorsuale (es. liquidazione giudiziale) interverrà ex post il controllo giudiziario, ad esempio attraverso l’eventuale giudizio di revocatoria sui pagamenti eseguiti durante il piano o verifiche sulla condotta degli amministratori. In tal senso si può affermare che il piano attestato non è una procedura concorsuale, bensì uno strumento di soluzione negoziale della crisi d’impresa parallelo e alternativo alle procedure giudiziali.
Ambito soggettivo di applicazione: l’art. 56 CCII parla di “imprenditore in stato di crisi o insolvenza” quale soggetto legittimato a predisporre un piano attestato. Ciò significa che rientrano nell’ambito gli imprenditori commerciali assoggettabili a fallimento (ora liquidazione giudiziale) e alle altre procedure maggiori. Restano invece tradizionalmente escluse alcune categorie particolari, come l’imprenditore agricolo puro o il consumatore, che non sono soggetti alle procedure concorsuali ordinarie – costoro hanno strumenti ad hoc nel quadro delle procedure di sovraindebitamento (accordi di ristrutturazione minori, piani del consumatore, ecc.). In pratica, dunque, il piano attestato è pensato per le imprese di dimensioni anche piccole e medie, ma “fallibili” secondo i parametri di legge (nel sistema previgente erano escluse le imprese sotto determinate soglie dimensionali e gli agricoltori). Il CCII ha introdotto il concordato minore per i piccoli imprenditori non fallibili, ma non ha previsto un piano attestato specifico per costoro. Un’impresa agricola o un soggetto non fallibile può comunque tentare di negoziare privatamente un accordo di risanamento sul modello del piano attestato, ma senza poter beneficiare in pieno delle tutele legali dell’art. 56 (ad esempio l’esenzione da revocatoria si applica agli atti in esecuzione di piani attestati solo nell’ambito di una successiva liquidazione giudiziale, che l’imprenditore agricolo non subisce). In tali casi, lo strumento più appropriato diventa l’accordo di ristrutturazione dei debiti o il piano di ristrutturazione “minore” previsto per il sovraindebitamento, di cui diremo più avanti.
Requisiti di validità del piano attestato e rapporti con i creditori
Perché un piano attestato di risanamento sia valido ed efficace, deve rispettare una serie di requisiti formali e sostanziali delineati dalla legge. Vediamo i principali:
- Stato di crisi o insolvenza: l’imprenditore deve trovarsi in una situazione di crisi conclamata o addirittura già insolvente. La crisi nel CCII è definita come probabilità di futura insolvenza, mentre l’insolvenza è lo stato di incapacità attuale di adempiere regolarmente alle obbligazioni. È importante notare che a differenza di altre soluzioni (es. concordato preventivo, che richiede almeno lo stato di crisi), il piano attestato può teoricamente essere utilizzato anche quando l’insolvenza è già in essere. Ciò consente di tentare un salvataggio last-minute evitando la liquidazione giudiziale, ma ovviamente una condizione di insolvenza conclamata rende più complessa la tenuta di un piano puramente negoziale, in mancanza di misure protettive automatiche. In ogni caso, la norma abilita formalmente l’imprenditore insolvente a predisporre un piano attestato (opportunità spesso sfruttata in extremis prima di depositare un’istanza di concordato).
- Contenuto del piano (requisiti formali): l’art. 56 CCII prescrive che il piano sia redatto per iscritto, abbia data certa (ad es. tramite atto notarile, marca temporale digitale o deposito nel Registro imprese) e contenga alcuni elementi essenziali. In particolare il piano deve indicare almeno:
- Identità del debitore e di eventuali parti correlate, con le attività e passività alla data del piano, la descrizione della situazione economico-finanziaria dell’impresa e la posizione dei lavoratori. (In pratica un quadro aggiornato dello stato patrimoniale e finanziario, comprensivo di eventuali società del gruppo o garanti, e l’indicazione dell’organico aziendale e di eventuali crediti/arretrati verso i dipendenti).
- Cause ed entità della crisi o insolvenza: un’analisi delle ragioni che hanno condotto l’impresa in difficoltà (es. calo di mercato, perdite su crediti, inefficienze gestionali, ecc.) e la gravità del dissesto. Questo serve a contestualizzare il piano e dimostrare che se ne conoscono le radici, così da affrontarle adeguatamente.
- Strategie di intervento: la descrizione dettagliata delle azioni di risanamento proposte. Ciò può includere operazioni sul capitale (ricapitalizzazioni, dismissioni di asset), ristrutturazione del debito (moratorie, dilazioni, stralci parziali), rilancio commerciale o riorganizzazione industriale (nuove linee di business, taglio costi, chiusura filiali non redditizie, ecc.). Insomma, il “cuore” del piano.
- Elenco dei creditori interessati dalla rinegoziazione e stato delle trattative, nonché elenco dei creditori estranei al piano con indicazione delle risorse destinate al loro integrale pagamento. Questo punto è cruciale: occorre distinguere chiaramente i creditori coinvolti nell’accordo di risanamento (es. banche finanziatrici che accettano una ristrutturazione dei crediti) e quelli “estranei”, ossia che non partecipano alla trattativa. Per questi ultimi il piano deve prevedere che vengano soddisfatti integralmente alle scadenze originarie (o comunque non subiscano pregiudizio). È infatti un principio-base del piano attestato che i creditori che non aderiscono non possano vedersi imporre sacrifici: o li convinci ad aderire, o devi pagarli normalmente. L’indicazione delle risorse per soddisfare gli estranei serve a dare garanzia che il piano non li danneggi.
- Eventuali apporti di finanza nuova e le ragioni per cui sono necessari alla riuscita del piano. Ad esempio, può trattarsi di un nuovo finanziamento soci, di un prestito ponte di una banca o investitore, destinato a coprire il fabbisogno di cassa durante l’esecuzione del piano. Tali apporti sono spesso vitali per sostenere la continuità aziendale mentre il risanamento produce effetti.
- Tempistica di esecuzione e monitoraggio: i tempi di attuazione delle varie azioni previste e le modalità per verificarne l’avanzamento, con l’indicazione di misure correttive da adottare in caso di scostamenti rispetto agli obiettivi prefissati. Questa previsione, introdotta espressamente dal Codice della Crisi, risponde all’esigenza di dotare il piano di una sorta di “piano B” interno qualora le cose non vadano come previsto. Ad esempio, il piano potrebbe stabilire che se dopo 6 mesi i ricavi risultano inferiori del 10% rispetto al budget, l’imprenditore si impegna a reperire ulteriori risorse o a tagliare ulteriori costi, oppure a rinegoziare nuovamente con i creditori. L’intento è evitare che un piano, per quanto ben congegnato, possa fallire per eventi imprevisti senza che vi sia alcuna reazione, esponendo così gli atti eseguiti al rischio di revocatoria. Nel caso in cui nonostante gli strumenti correttivi il piano diventi comunque irrealizzabile, l’imprenditore dovrebbe predisporre un nuovo piano o accedere a una procedura concorsuale; in mancanza, gli atti compiuti nell’esecuzione di un piano divenuto impossibile potrebbero perdere le tutele (come l’esenzione da revocatoria).
- Piano industriale e proiezioni finanziarie: un vero e proprio business plan pluriennale che evidenzi gli effetti attesi delle strategie di risanamento sui conti economici e sui flussi finanziari dell’impresa, e i tempi necessari a ripristinare l’equilibrio economico e finanziario. In altre parole, bisogna tradurre le azioni previste in numeri: bilanci previsionali, conto economico, stato patrimoniale e cash flow per i prossimi anni, mostrando che l’azienda tornerà sostenibile (o almeno in grado di pagare i debiti secondo il piano).
- Analisi economico-finanziaria dettagliata (requisito “g-bis”): il correttivo del 2022-2023 ha aggiunto la lettera g-bis) all’elenco, richiedendo l’indicazione analitica dei costi e ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura, tenendo conto anche dei costi necessari a garantire il rispetto delle normative in materia di sicurezza sul lavoro e tutela dell’ambiente. Questa aggiunta enfatizza la necessità di piani precisi e completi: non solo un piano industriale generico, ma un vero e proprio budget dettagliato, comprensivo di voci di costo spesso trascurate (ad esempio, investimenti per mettere a norma impianti o per la sicurezza dei dipendenti). La norma vuole evitare che si pianifichi il risanamento “dimenticando” spese obbligatorie, il cui successivo emergere potrebbe far deragliare il piano finanziario.
L’elenco sopra riportato rappresenta il contenuto minimo obbligatorio del piano attestato secondo la legge. In sostanza, il Codice della Crisi ha codificato quella che era la best practice formatasi negli anni precedenti in sede di redazione dei piani ex art. 67 l.fall. Sotto la vecchia legge fallimentare, infatti, il piano attestato non aveva requisiti formali predeterminati: la prassi e le linee guida professionali avevano però sviluppato schemi tipo di piano, comprensivi grosso modo di tutte le voci ora elencate nel CCII. Oggi dunque c’è un recepimento normativo di tali prassi, con l’aggiunta di qualche elemento di novità (la previsione di strumenti correttivi per scostamenti e l’attenzione a sicurezza e ambiente, come visto).
- Attestazione di un professionista indipendente: elemento cardine. Il piano, per produrre gli effetti protettivi previsti dalla legge, deve essere accompagnato dall’attestazione di un esperto indipendente (definito comunemente attestatore) sulla veridicità dei dati aziendali e sulla fattibilità economica del piano. Questo requisito distingue un piano attestato “qualificato” da un semplice piano aziendale interno. L’attestazione funge da “visto di conformità” esterno: il professionista verifica che i numeri di partenza siano attendibili (bilanci, situazione debitoria, ecc.) e che le ipotesi future formulate nel piano siano plausibili e tali da poter condurre al risanamento. Su chi possa svolgere il ruolo di attestatore, la legge non indica una specifica categoria professionale, ma richiede l’indipendenza e il possesso di adeguate competenze. In genere si tratta di dottori commercialisti, revisori contabili o consulenti finanziari con esperienza in ristrutturazioni, iscritti in appositi elenchi. Devono essere estranei all’impresa e ai creditori (nessun conflitto di interessi, nessun rapporto di lavoro o consulenza continuativo recente col debitore, ecc.), in modo da garantire imparzialità di giudizio. Approfondiremo più avanti il ruolo e la responsabilità dell’attestatore; qui basti ricordare che senza attestazione il piano attestato non esiste – o meglio, rimane un piano di risanamento qualsiasi, privo delle protezioni di legge.
- Data certa del piano e degli accordi: il piano deve avere data certa, cioè una datazione opponibile ai terzi, e lo stesso dicasi per gli atti unilaterali e i contratti conclusi in esecuzione del piano. Questa esigenza risponde alla necessità di poter provare con sicurezza, a posteriori, che determinati pagamenti o operazioni sono stati compiuti in costanza di un piano attestato (e quindi meritevoli di esenzione da revocatoria) e non in modo estemporaneo. La data certa si può ottenere, ad esempio, tramite la registrazione del piano e degli accordi nel Registro delle Imprese, oppure mediante atto notarile o altro mezzo legalmente idoneo (PEC con marca temporale, ecc.). La riforma ha espressamente previsto la possibilità (facoltativa) di pubblicare il piano, l’attestazione e gli accordi con i creditori nel Registro delle Imprese su richiesta del debitore: questa forma di pubblicità assicura la data certa e la conoscibilità del piano, pur non essendo obbligatoria (è lasciata alla scelta del debitore, che potrebbe voler mantenere riservata la crisi, come vedremo meglio oltre parlando di efficacia verso terzi).
Natura giuridica ed efficacia verso i creditori. Un aspetto fondamentale da chiarire è che il piano attestato di risanamento, di per sé, non è un accordo giuridicamente vincolante per i creditori. Esso è un atto unilaterale di programmazione del debitore: la sua efficacia pratica dipende dagli accordi contrattuali che il debitore riesce a concludere con i singoli creditori per dare esecuzione al piano. In altri termini, il piano delineerà come si intendono ristrutturare i vari crediti (ad es.: Banca X accetta una moratoria di 2 anni sul mutuo, Fornitore Y accetta un pagamento dilazionato al 50% del credito, ecc.), ma tali modifiche alle originarie obbligazioni diventano realtà solo se e quando ciascun creditore le approva e sottoscrive. Diversamente da un concordato preventivo, non c’è alcun meccanismo di maggioranza per imporre il piano a creditori dissenzienti. Ogni creditore è libero di aderire alla proposta di risanamento oppure no.
Di conseguenza, in un piano attestato si possono distinguere due categorie di creditori: i creditori aderenti (quelli che partecipano alla ristrutturazione accettando modifiche ai propri diritti secondo il piano) e i creditori non aderenti o “estranei”. Per questi ultimi il piano – come già evidenziato – deve prevedere il pagamento integrale e regolare dei loro crediti. È infatti impossibile costringerli ad accettare decurtazioni o dilazioni contro la loro volontà attraverso un piano attestato. Se il debitore non è in grado di assicurare il soddisfacimento integrale dei creditori estranei, significa che il piano non è fattibile in forma puramente negoziale e occorrerà ricorrere a strumenti concorsuali (ad esempio un concordato, dove invece i creditori possono essere cram-down se c’è la maggioranza). In pratica, dunque, il successo di un piano attestato dipende dal consenso individuale di tutti i principali creditori. Nella prassi, l’imprenditore negozia in via riservata con le banche e i fornitori più rilevanti uno schema di accordo e, solo quando ha ottenuto almeno un consenso di massima, procede a formalizzare il piano e farlo attestare. Se ci sono creditori minoritari o residuali che non aderiscono, normalmente il piano prevede di soddisfarli comunque (ad esempio, con la liquidità fornita da nuova finanza o con piccole cessioni di asset si pagano in bonis i creditori estranei). È evidente che se un creditore grande e strategico si chiama fuori e pretende il pagamento immediato di tutto il suo credito, il piano potrebbe saltare: non avendo protezione automatica, quel creditore potrebbe anche iniziare azioni esecutive o istanze di fallimento, costringendo l’impresa a ripiegare su una procedura formale per bloccarlo. Dunque, l’ambito di efficacia del piano attestato è di fatto consensuale: vincola chi vi ha aderito in virtù degli accordi sottoscritti (che giuridicamente sono transazioni, patti modificativi di contratti, piani di rientro, ecc., ciascuno con forza di legge tra le parti), mentre non tocca chi non è parte dell’accordo.
Un corollario importante della natura stragiudiziale del piano attestato è la mancanza di automatic stay. Diversamente da quanto avviene presentando domanda di concordato o un accordo di ristrutturazione in tribunale (che attiva il divieto temporaneo di azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori), nel piano attestato non c’è alcuna protezione legale automatica contro le azioni individuali dei creditori. I creditori che aderiscono normalmente si impegnano a congelare le proprie pretese secondo i termini concordati; ma un creditore estraneo, o anche aderente prima della formalizzazione dell’accordo, è libero di agire per decreto ingiuntivo, pignoramento o istanza di fallimento. Questo è un punto critico: l’assenza di un ombrello protettivo giudiziario rende il piano attestato percorribile solo in situazioni in cui i creditori siano collaborativi o comunque controllabili. Se c’è il rischio concreto che qualcuno “rompa le righe” e aggredisca l’impresa mentre si lavora al risanamento, l’imprenditore potrebbe dover correre ai ripari chiedendo misure protettive (ad esempio attivando la composizione negoziata con richiesta di misure cautelari al tribunale, oppure depositando un ricorso per concordato in bianco che congeli il fronte). D’altro canto, il vantaggio del piano attestato è proprio di evitare la pubblicità e formalità di una procedura concorsuale: spesso i creditori finanziari preferiscono negoziare riservatamente piuttosto che votare in un concordato pubblico, e l’impresa evita il clamore e lo stigma del “fallimento annunciato”. È un delicato equilibrio tra riservatezza e tenuta: la legge infatti rende la pubblicazione del piano nel Registro Imprese facoltativa proprio per tutelare la riservatezza e non “mettere in piazza” la crisi se non necessario. L’imprenditore può decidere di non pubblicare subito il piano per non allarmare clienti, fornitori o il mercato, ma dovrà comunque assicurare la data certa con altri mezzi (es. deposito presso notaio) per poter poi eventualmente usufruire dei benefici legali (fiscali e anti-revocatori). Molto spesso la pubblicazione avviene a posteriori, una volta che gli accordi con i creditori sono firmati, giusto per ufficializzare il tutto e acquisire il requisito formale per l’esenzione fiscale.
Riassumendo i rapporti con i creditori: il piano attestato non impone niente a nessuno, ma è un quadro entro cui si collocano accordi volontari. I creditori aderenti rinunciano a parte dei loro diritti secondo quanto pattuito (per es. aspettano più tempo o accettano una riduzione) confidando nelle prospettive di risanamento certificate dal professionista; i creditori non aderenti devono ricevere pagamento integrale (possono quindi restare indifferenti al piano, purché l’impresa li paghi). Se l’impresa riesce a soddisfare queste condizioni e tutti i principali stakeholder collaborano, il piano attestato riesce e l’azienda evita procedure concorsuali. In caso contrario, si dovrà passare a strumenti più cogenti (accordi ex art. 57, piani soggetti a omologazione o concordati) dove la legge consente di imporre soluzioni anche ai dissenzienti, come vedremo.
Il ruolo dell’attestatore e le sue responsabilità
Figura chiave del piano attestato di risanamento è il professionista indipendente attestatore. La sua relazione di attestazione è il documento che “certifica” il piano, condizione indispensabile per attivare gli effetti protettivi previsti dalla legge. Ma chi è l’attestatore, quali requisiti deve avere e di cosa risponde?
Requisiti e nomina. L’attestatore è un soggetto terzo rispetto all’imprenditore e ai creditori, dotato di competenze in materia economico-aziendale. In genere viene scelto tra dottori commercialisti, revisori legali o consulenti aziendali con esperienza in ristrutturazioni. Il CCII, all’art. 2, prevede criteri di indipendenza analoghi a quelli per gli attestatori di concordato: non deve aver prestato negli ultimi anni attività professionale retribuita in favore dell’azienda debitrice né essere legato da rapporti di parentela o interesse con il debitore o con i creditori principali. L’indipendenza è fondamentale affinché il giudizio dell’attestatore sia credibile: deve essere percepito come un arbitro imparziale, non come un consulente di parte. La nomina dell’attestatore spetta al debitore (trattandosi di una procedura volontaria), benché talvolta su indicazione o gradimento dei creditori maggiori. In alcune situazioni la scelta può avvenire nell’ambito di procedure di composizione assistita: ad esempio, durante la composizione negoziata della crisi, l’esperto nominato potrebbe suggerire un professionista idoneo per attestare il piano finale, oppure – se in possesso dei requisiti – redigere egli stesso l’attestazione. Le Linee Guida emanate dal CNDCEC consigliano di individuare l’attestatore il prima possibile nel processo, così da poter interagire durante la stesura del piano senza comprometterne l’indipendenza formale.
Compiti dell’attestatore. Egli deve redigere una relazione di attestazione, che accompagna il piano, contenente il proprio giudizio sulla attendibilità del piano stesso. In particolare, per espressa previsione normativa, deve attestare due cose: (a) la veridicità dei dati aziendali contenuti nel piano e nei documenti allegati; (b) la fattibilità economica del piano. Vediamole separatamente:
- Veridicità dei dati: l’attestatore deve verificare che i numeri di partenza forniti dall’impresa (situazione contabile, elenco dei debiti, crediti, ecc.) siano corretti e completi. Ciò implica controlli sulle scritture contabili, sui bilanci, sulle posizioni debitorie (ad esempio riconciliare i saldi con le banche, verificare che tutti i debiti fiscali e previdenziali siano evidenziati, ecc.), e in generale un lavoro di due diligence contabile. L’attestatore spesso richiede all’azienda dichiarazioni e documentazione a supporto, e può svolgere test di attendibilità (es. confronti tra fatturato e andamento del settore, etc.). Deve poi dichiarare in relazione che, a suo giudizio, i dati sono veri e corretti, oppure segnalare eventuali incertezze.
- Fattibilità economica: qui il professionista valuta le previsioni e le strategie future delineate nel piano. In sostanza, deve esprimere un giudizio sulla ragionevole possibilità che il piano raggiunga gli obiettivi di risanamento prefissati. Questo non significa garantire il successo al 100% (il rischio d’impresa non è eliminabile), ma escludere che il piano sia velleitario o manifestamente inadeguato. La Cassazione ha chiarito che si tratta di verificare che non ci si trovi di fronte a una “assoluta, manifesta inettitudine” del piano a risanare l’impresa. In altre parole, l’attestatore deve controllare che le ipotesi di piano siano plausibili: ad esempio, che i ricavi futuri non siano sovrastimati senza base, che i tagli di costi siano concretamente realizzabili, che gli apporti di finanza siano effettivamente ottenibili, ecc. Può fare analisi di sensitività (come cambia l’esito al variare di certe assunzioni), confronti con benchmark di settore, e così via. Al termine, deve concludere se il piano appare idoneo a ripianare i debiti e riequilibrare l’azienda. È bene sottolineare che il suo è un giudizio ex ante: valuta la fattibilità al momento dell’attestazione, sapendo che comunque l’esecuzione dipenderà da come andranno i fatti.
La relazione di attestazione, di solito, descrive le verifiche svolte e riporta il giudizio finale dell’attestatore, che può essere positivo (piano fattibile) oppure negativo (piano non fattibile). In casi complessi può anche esprimere riserve o condizionare la fattibilità a certi eventi (es. “il piano è fattibile a condizione che gli istituti di credito eroghino i nuovi finanziamenti previsti per €X entro tale data”). Se l’attestatore non se la sente di attestare positivamente, di fatto il piano attestato non partirà – i creditori non aderiranno senza un conforto terzo, e soprattutto mancherebbe il requisito di legge per le protezioni. Pertanto, spesso l’attestatore interagisce con l’imprenditore e i consulenti nella fase di redazione del piano: se rileva criticità, le segnala e il piano viene rivisto finché le condizioni non sono attestabili. Ciò deve però avvenire senza compromettere la sua indipendenza: guai a trasformarlo in un advisor dell’azienda. Egli può dare suggerimenti tecnici, ma deve mantenere il ruolo di valutatore imparziale.
Principi di attestazione e best practice: data la delicatezza del compito, la categoria professionale ha sviluppato negli anni dei Principi di attestazione dei piani di risanamento, ossia linee guida deontologiche e metodologiche per svolgere al meglio l’incarico. L’ultima versione di tali principi (aprile 2024, a cura della Fondazione Nazionale dei Commercialisti) fornisce un riferimento aggiornato al CCII. Tali principi indicano procedure standard (dalla verifica dei dati contabili alla valutazione della continuità aziendale) e modelli di relazione, promuovendo comportamenti virtuosi e trasparenti da parte degli attestatori. Ad esempio, raccomandano di evidenziare nelle proiezioni eventuali assunzioni particolarmente aggressive o incerte, di includere analisi di sensitività, di esplicitare eventuali comfort letter intermedie fornite ai creditori, ecc.. L’adesione ai principi non è obbligatoria per legge, ma costituisce state of the art: un attestatore che li segue sarà più difficilmente attaccabile. Anzi, la giurisprudenza ha spesso valutato la condotta degli attestatori anche in base al rispetto di tali standard di diligenza.
Responsabilità dell’attestatore. L’attestatore riveste una funzione di “garante” dell’attendibilità del piano verso i creditori e verso il sistema. Pertanto su di lui gravano potenziali profili di responsabilità sia civile che penale in caso di inadempienza ai propri doveri:
- Responsabilità civile: l’attestatore potrebbe essere chiamato a rispondere dei danni causati dalla sua attestazione negligente o infedele. Ad esempio, se attesta come fattibile un piano in realtà irrealistico, inducendo i creditori a fare accordi che poi portano a perdite maggiori (perché il piano fallisce e il dissesto si aggrava), i creditori stessi o un eventuale curatore fallimentare successivo potrebbero citare l’attestatore per il pregiudizio subito. La giurisprudenza in materia non è ancora uniformissima: alcuni casi hanno visto ritenere l’attestatore responsabile in solido col debitore verso i creditori per informazioni gravemente errate fornite (si pensi a dati di bilancio falsi non rilevati). In altri casi la responsabilità è stata esclusa perché l’attestatore non ha un contratto con i creditori (il suo rapporto contrattuale è col debitore che lo paga). Tuttavia, è pacifico che l’attestatore debba rispettare obblighi di diligenza professionale qualificata (ex art. 1176 c.c.) verso il debitore e doveri di corretta informazione verso i terzi che faranno affidamento sulla sua relazione. Pertanto, in caso di colpa grave o dolo, può essere ritenuto civilmente responsabile. Ad esempio, la Corte di Cassazione con una recente sentenza (Cass. 36401/2023) ha ribadito che l’attestatore nell’ambito di un concordato ha l’obbligo di segnalare tutte le informazioni rilevanti e non può ometterle pena violazione dei suoi doveri. Lo stesso principio vale per i piani attestati: omissioni o leggerezze equivalgono a falsa attestazione per via omissiva. Inoltre, qualora l’attestatore abbia agito con dolo o colpa grave, potrebbe perdere il diritto al compenso o vederselo revocare in prededuzione (come avvenuto in alcuni casi, in cui i suoi compensi non sono stati riconosciuti privilegiati in fallimento se l’attestazione era viziata). Dal lato pratico, va detto, cause civili contro attestatori sono ancora rare – anche perché spesso quando il piano fallisce e si va in liquidazione giudiziale, se l’attestatore ha svolto il compito con un minimo di decenza, è difficile dimostrare che il danno dei creditori derivi proprio dalla sua relazione e non dall’insolvenza sottostante.
- Responsabilità penale: il CCII ha ripreso e ampliato l’incriminazione penale per le false attestazioni già introdotta nel 2012 nella legge fallimentare. L’art. 342 CCII (Falso in attestazioni e relazioni) punisce il professionista attestatore che, nelle relazioni richieste dalle procedure di crisi (incluso il piano attestato ex art. 56), espone informazioni false o omette informazioni rilevanti riguardo alla veridicità dei dati aziendali, con reclusione da 2 a 5 anni e multa da €50.000 a €100.000. La pena è aumentata se il fatto è commesso per ottenere un ingiusto profitto o se causa un danno ai creditori (fino alla metà in più). Si tratta di una fattispecie specifica volta a reprimere le attestazioni compiacenti o mendaci. Ad esempio, un attestatore che certifichi dati contabili falsi forniti dal debitore, oppure ometta di segnalare ai creditori criticità note (come l’esistenza di debiti ulteriori non dichiarati, o la non attendibilità di certe stime), rischia seriamente una denuncia penale. Negli ultimi anni si sono avuti procedimenti penali a carico di attestatori, anche molto noti, accusati di aver avallato piani irrealistici poi sfociati in bancarotte: la giurisprudenza sta diventando rigorosa, soprattutto in presenza di dolo. L’art. 342 CCII è formulato in modo ampio ricomprendendo anche le omissioni informative, proprio per evitare che il professionista possa “aggirare” la norma limitandosi a non rilevare un dato scomodo. Ad esempio, se dal business plan emerge che al termine del piano comunque alcuni debiti non saranno pagati ma l’attestatore tace questa circostanza, si configura reato. La presenza del reato penale ha un forte effetto deterrente: l’attestatore sa di poter finire sotto inchiesta penale se cede a pressioni del debitore o dei suoi consulenti per “chiudere un occhio” su certe criticità. Questo strumento normativo è considerato essenziale per garantire la serietà delle attestazioni, tanto che il nuovo codice lo ha confermato e reso applicabile a tutti gli strumenti (concordati, accordi, piani attestati). Oltre al reato di falso specifico, l’attestatore potrebbe incorrere anche in concorso in reati di bancarotta fraudolenta se si presta consapevolmente a operazioni distrattive camuffate nel piano (ad esempio, attestando valori di realizzo gonfiati per coprire ammanchi).
In definitiva, la responsabilità dell’attestatore è elevata: risponde penalmente se mente e può rispondere civilmente se non fa il suo lavoro con diligenza. Va però sottolineato che l’attestatore non garantisce il successo del piano – egli valuta una ragionevole probabilità. Se il piano non funziona per cause imprevedibili o sopravvenienze sfavorevoli (un mercato che peggiora, un grande cliente che fallisce, ecc.), l’attestatore in buona fede non ne è responsabile. Diverso sarebbe se il piano era già in partenza “campato in aria”: in tal caso probabilmente è lui stesso ad aver attestato il falso nel dire che era fattibile, con tutti i rischi conseguenti.
Il controllo del giudice sull’operato dell’attestatore (ex post). Poiché durante l’esecuzione del piano attestato non c’è un giudice che vigila, capita che la valutazione del lavoro dell’attestatore avvenga a posteriori, soprattutto se il piano fallisce e l’azienda finisce in liquidazione giudiziale. In quella sede, il curatore e il tribunale scrutinano la relazione e il piano per decidere, ad esempio, se accordare l’esenzione da revocatoria o se vi siano estremi di bancarotta preferenziale. La Cassazione ha chiarito che il giudice deve effettuare una valutazione ex ante circa l’idoneità del piano a risanare l’impresa, “seppure in negativo, nei limiti dell’evidenza dell’inettitudine” del piano medesimo. Ciò significa che se il piano attestato era manifestamente inadeguato sin dall’inizio, non produce i suoi effetti protettivi (in primis, la protezione da revocatoria) perché sarebbe un abuso dello strumento. Questo controllo indiretto funge da ulteriore sprone per l’attestatore a non certificare piani improbabili: sa che il suo operato potrà essere passato al setaccio in un eventuale fallimento successivo. In più, se emergono irregolarità, il tribunale invia gli atti alla Procura per le valutazioni penali.
In conclusione, la figura dell’attestatore è essenziale per dare credibilità e valore giuridico al piano di risanamento. La sua relazione è ciò su cui fanno affidamento i creditori per aderire e il legislatore per concedere protezioni. È un ruolo di grande responsabilità: un buon attestatore può essere il regista occulto del salvataggio di un’azienda, mentre un attestatore inaffidabile può aggravare il dissesto o indurre terzi in errore. Per questo la legge e la prassi professionale hanno costruito attorno a questa figura una rete di requisiti e controlli, al fine di assicurare professionalità e indipendenza.
Procedura: fasi operative per la predisposizione e l’attuazione del piano
Vediamo ora come si svolge in concreto l’iter di un piano attestato di risanamento, dalla sua preparazione fino all’esecuzione, passando per la certificazione e la formalizzazione degli accordi.
1. Analisi iniziale della crisi e decisione strategica: quando l’imprenditore o gli organi amministrativi si rendono conto che l’azienda versa in crisi (ad esempio tensioni di liquidità, perdite ricorrenti, incaglio di debiti), valutano le opzioni disponibili. Se la situazione, pur seria, è recuperabile fuori dal tribunale – magari perché i creditori principali sono disposti a trattare – si sceglie di tentare un piano di risanamento negoziato. In questa fase spesso ci si avvale di consulenti (advisor finanziari e legali) per effettuare una diagnosi della crisi e impostare una bozza di piano. Talvolta l’iniziativa nasce su sollecitazione delle banche creditrici, che preferiscono una soluzione concordata piuttosto che spingere l’azienda al fallimento. Da aprile 2022 è attivo anche lo strumento della composizione negoziata della crisi: si tratta di un percorso volontario in cui un esperto indipendente nominato dalla Camera di Commercio aiuta debitore e creditori a trovare un accordo. Molte volte la composizione negoziata sfocia proprio in un piano attestato (o in un accordo di ristrutturazione), se le parti trovano l’intesa; l’esperto facilita le trattative e alla fine l’imprenditore prepara il piano definitivo da attestare. Dunque, la composizione negoziata può essere vista come una “fase preliminare” eventuale, non obbligatoria ma utile soprattutto per le PMI, per giungere a un piano condiviso. Ad ogni modo, la decisione di perseguire un piano attestato comporta l’impegno del debitore a pagare integralmente i creditori che non intendono aderire (come visto sopra): se già in partenza si capisce che ciò non è fattibile (perché le risorse sono insufficienti), probabilmente si dovrà optare per un diverso strumento (concordato preventivo, ad esempio, dove anche i dissenzienti subiscono le falcidie).
2. Predisposizione del piano di risanamento: gli advisor aziendali (o lo stesso imprenditore, se ha le competenze necessarie) procedono a redigere materialmente il piano di risanamento. Questa fase comprende:
- La raccolta di tutti i dati aziendali rilevanti: bilanci, situazione debitoria completa (banche, fornitori, erario, dipendenti, leasing, ecc.), contratti pendenti, stato degli ordini e del portafoglio clienti, fabbisogno di cassa, ecc.
- La formulazione di una strategia di risanamento: si identificano le misure concrete per superare la crisi. Ad esempio: dismissione di rami d’azienda non profittevoli, vendita di immobili per fare cassa, riduzione personale mediante cassa integrazione o accordi sindacali, rinegoziazione linee di credito con le banche (allungamento scadenze, riduzione tassi), accordi transattivi con fornitori per ridurre i debiti (spesso offrendo pagamento parziale immediato), conversione di crediti in equity (ingresso di nuovi soci o conversione di debiti in quote di capitale), accesso a nuova finanza (nuovi prestiti o garanzie statali, ecc.). Ogni crisi richiede una “ricetta” ad hoc combinando varie leve.
- La proiezione economico-finanziaria: una volta definita la strategia, si traduce in numeri pluriennali. Si redigono bilanci previsionali e cash flow forecast tenendo conto degli effetti delle misure (es. risparmio costi per riorganizzazione, incasso da cessioni asset in tal data, rimodulazione uscite per debiti secondo le nuove scadenze negoziate, impatto della nuova finanza, ecc.). Questo step è fondamentale per quantificare di quante risorse aggiuntive c’è bisogno e per dimostrare ai creditori che il piano “sta in piedi”.
- La stesura vera e propria del documento di Piano conforme ai requisiti dell’art. 56 CCII: includendo tutte le sezioni richieste (descrizione impresa, cause crisi, elenco creditori e trattamento proposto, ecc. come visti prima). Di solito il piano è un documento corposo, con allegati tecnici (es. bilanci previsionali, perizie di valutazione se si vendono beni, term sheet degli accordi finanziari in bozza, ecc.).
- Trattative informali con i creditori chiave: questa sotto-fase è in realtà parallela alla stesura del piano. È prassi che il debitore prenda contatti riservati con le principali banche e altri creditori per sondare la loro disponibilità alle soluzioni ipotizzate. Spesso vengono organizzati tavoli di lavoro: ad esempio, le banche creditrici costituiscono un pool e nominano un loro advisor finanziario per dialogare con l’azienda (specie nelle grandi imprese). Si discute su quali sacrifici ogni parte è disposta a fare. Queste trattative servono a “modellare” il piano in modo realistico: non avrebbe senso finalizzare un piano che preveda, ad esempio, un taglio del 40% sui debiti bancari se poi le banche non lo accetteranno. Meglio negoziare prima e capire quale taglio massimo possono accettare, in base anche alle perizie sul valore di liquidazione dell’azienda (le banche confrontano quanto otterrebbero in un fallimento con quanto viene offerto dal piano). Alla fine di questa fase il debitore idealmente ottiene delle manifestazioni di assenso preliminare dai creditori maggiori sulle linee generali del piano. È possibile anche che i creditori propongano modifiche – ad esempio, le banche potrebbero chiedere che i soci apportino un certo importo di capitale fresco come condizione per approvare la moratoria sul debito. Si negozia fino a trovare un equilibrio. Questo processo può richiedere settimane o mesi, a seconda della complessità e del numero di parti coinvolte.
3. Scelta e coinvolgimento dell’attestatore: parallelamente, o subito dopo aver definito una bozza avanzata di piano, si procede a incaricare formalmente il professionista attestatore indipendente. Come visto, la sua selezione deve cadere su persona di fiducia e senza conflitti. L’attestatore, una volta incaricato, esamina il piano e la documentazione. In pratica, svolge un audit della situazione aziendale (controllo dei dati storici e attuali) e una due diligence sul piano (valutazione assunzioni, sostenibilità). Egli potrebbe chiedere chiarimenti o integrazioni agli estensori del piano. Spesso propone aggiustamenti per rendere le previsioni più prudenti o per colmare lacune informative. È importante che vi sia un dialogo costruttivo tra attestatore e debitore: l’obiettivo comune è far sì che alla fine il piano sia solido e attestabile. Tuttavia l’attestatore mantiene un ruolo super partes: se ravvisa che il piano, per quanto modificato, non raggiunge la soglia minima di fattibilità, potrebbe decidersi a negare l’attestazione positiva (cosa che renderebbe vano il tentativo di piano attestato). In alcuni casi questo porta l’imprenditore ad abbandonare il piano attestato e optare per un concordato (dove comunque serve un’attestazione, ma si potrebbe proporre un piano diverso con stralci imposti). Il coinvolgimento tempestivo dell’attestatore è dunque essenziale per evitare di scoprirsi a fine negoziazione con un piano non attestabile. È prassi che l’attestatore rilasci anche delle “comfort letter” intermedie ai creditori durante le trattative: ad esempio una lettera non vincolante in cui anticipa che, dai primi riscontri, il piano sembra idoneo a superare la crisi. Ciò serve ai creditori (specie banche) per avere una conferma preliminare e continuare le trattative con maggiore fiducia. Tali dichiarazioni ovviamente non sostituiscono l’attestazione finale, ma fanno parte del processo negoziale.
4. Finalizzazione del piano e della relazione: una volta che l’attestatore ha completato le verifiche e (auspicabilmente) ritiene il piano plausibile, redige la Relazione di Attestazione finale. Questa verrà allegata in calce al piano di risanamento. Nello stesso momento, il piano viene formalizzato nella sua versione definitiva. Tipicamente, l’imprenditore predispone un atto unilaterale (che può essere una scrittura privata autenticata o atto notarile) contenente l’intero piano di risanamento, datato e sottoscritto, e vi allega la relazione dell’attestatore datata e firmata da quest’ultimo. Così si ha un documento completo e con data certa (se formalizzato da un notaio o depositato al Registro Imprese). Importante: l’attestatore non “firma il piano” nel senso di obbligarsi ad eseguirlo – egli firma solo la sua relazione. La responsabilità dell’esecuzione resta dell’imprenditore.
5. Sottoscrizione degli accordi con i creditori: contemporaneamente alla formalizzazione del piano, si procede a far firmare ai creditori aderenti i relativi accordi bilaterali che danno attuazione al piano. Ad esempio:
- Le banche firmeranno atti aggiuntivi ai contratti di finanziamento (o nuovi contratti) che disciplinano la ristrutturazione del credito: patti di moratoria, piani di ammortamento rivisti, concessione di nuove garanzie o nuove linee, ecc. Spesso si sottoscrive un accordo quadro bancario in cui tutte le banche concordano una manleva da azioni legali e la ripartizione degli oneri secondo il piano.
- I fornitori eventualmente consenzienti firmeranno accordi transattivi in cui accettano il pagamento parziale o dilazionato del loro credito secondo le percentuali e scadenze indicate nel piano (di solito a saldo e stralcio).
- I nuovi finanziatori firmano i contratti di finanziamento con le condizioni concordate (spesso i nuovi finanziamenti vengono erogati contestualmente all’omologa del piano, ma nel piano attestato non c’è omologa – quindi si erogano quando gli accordi private sono efficaci, spesso subordinando l’efficacia alla produzione dell’attestazione).
- Se vi sono operazioni societarie (es. aumento di capitale, ingresso di investitore), si procederà a formalizzare i relativi atti societari con le delibere assembleari del caso.
In pratica, il piano attestato si concretizza in una serie di contratti. A volte viene redatto un unico contratto di ristrutturazione multi-partes tra il debitore e tutti (o molti) dei suoi creditori aderenti, che rinviano al piano per i dettagli; più spesso vi sono tante scritture quante sono le controparti, coordinate dal piano. L’importante è che tali accordi siano coerenti col piano e abbiano essi stessi data certa (se vogliono beneficiare delle esenzioni da revocatoria, come richiesto dall’art. 56 co.5 CCII). Quindi tipicamente anche questi vengono fatti per atto notarile o scambio di PEC certificate. In questa fase finale, se tutto è andato a buon fine, il debitore raccoglie le firme necessarie: quando i creditori chiave hanno firmato, il piano attestato può dirsi perfezionato e operativo.
6. Pubblicazione (facoltativa) nel Registro delle Imprese: una volta sottoscritto il piano e gli accordi, l’imprenditore può – e nella maggior parte dei casi conviene – depositare il piano, l’attestazione e gli accordi presso il Registro delle Imprese della propria provincia. Come detto, la pubblicità non è obbligatoria, ma dà alcuni vantaggi:
- Data certa opponibile erga omnes: fugando qualsiasi dubbio sul momento di formazione del piano.
- Benefici fiscali: la legge fiscale, come vedremo nel prossimo paragrafo, richiede la pubblicazione per concedere l’esenzione parziale sulle sopravvenienze attive.
- Trasparenza legale: in caso di successivo default e apertura di concorsuale, il curatore troverà il piano pubblicato e sarà più agevole dimostrare che atti e pagamenti erano parte del piano.
La scelta di pubblicare dipende anche dalla volontà di riservatezza: depositare in CCIAA rende il piano consultabile dai terzi (anche concorrenti o chiunque faccia una visura), quindi se l’impresa preferiva tenere la crisi confidenziale potrebbe avere riluttanza. C’è chi rinvia la pubblicazione a dopo aver completato le parti più delicate del risanamento, o pubblica solo il minimo indispensabile. In ogni caso, ad aprile 2025 risulta prassi diffusa pubblicare almeno l’attestazione e una sintetica dichiarazione di aver concluso accordi ex art.56, per beneficiare delle tutele, mantenendo magari riservati i dettagli economici degli accordi (non essendo obbligatorio allegare ogni singolo contratto, basta dare evidenza del piano e della relazione).
7. Esecuzione del piano e monitoraggio: a questo punto l’azienda deve passare dalla carta ai fatti. Inizia la fase di implementazione delle azioni previste:
- Si attuano le operazioni societarie (es. l’aumento di capitale viene eseguito con il versamento dei soci).
- Le banche erogano le eventuali tranche di nuova finanza concordate e ridisegnano le scadenze dei prestiti esistenti; l’azienda inizia a pagare le rate ridotte o differite come da nuovi patti.
- Si pagano i creditori estranei alle loro scadenze naturali (grazie alle risorse liberate o apportate).
- Si procede con le dismissioni previste (vendita immobili, cessione rami, etc.) incassando i corrispettivi per alimentare il risanamento.
- Se il piano prevede, ad esempio, il ricorso a strumenti come la cassa integrazione guadagni straordinaria, si avviano le procedure con i sindacati e gli enti competenti.
- La gestione caratteristica dell’impresa va avanti secondo il nuovo piano industriale: l’imprenditore deve impegnarsi a conseguire i ricavi attesi e contenere i costi secondo budget. Spesso viene nominato un controller o un advisor per seguire il monitoraggio.
I creditori spesso chiedono al debitore un reporting periodico sull’andamento del piano. Ad esempio, le banche potrebbero inserire covenant per cui l’azienda ogni trimestre deve fornire un rendiconto e il cash flow rispetto al pianificato. Se ci sono scostamenti oltre certe soglie, scatta l’obbligo di incontrarsi di nuovo (richiamando quegli strumenti correttivi inseriti nel piano). Questo monitoraggio può essere fatto anche con l’ausilio dell’attestatore stesso o di un altro professionista nominato come monitor. Non è previsto dalla legge, ma è frutto degli accordi: i creditori, per tutelarsi, spesso inseriscono clausole risolutive nell’accordo di piano (ad esempio: “se l’EBITDA annuale risulta inferiore del 20% a quello previsto dal piano, gli accordi di ristrutturazione si considerano risolti” oppure “in caso di mancato pagamento di due rate consecutive come da piano, l’intero debito si considera scaduto”). Tali clausole risolutive di inadempimento servono ai creditori per uscire dall’accordo se il debitore devia troppo dalla rotta. In quel caso, se il piano naufraga, l’impresa tornerà esposta alle azioni esecutive e presumibilmente finirà in procedura concorsuale.
8. Completamento o eventuale insuccesso: se tutto procede per il meglio, al termine dell’orizzonte del piano (spesso 3-5 anni) l’impresa avrà risanato il proprio indebitamento: avrà pagato le quote concordate ai creditori, sarà tornata a equilibrio finanziario e potrà considerarsi fuori dalla crisi. A quel punto il piano attestato si esaurisce naturalmente e l’azienda continua la sua attività senza più vincoli straordinari. Spesso i contratti con le banche prevedono che, a completamento, tornino condizioni normali (ad esempio rimozione di tassi maggiorati di crisi, restituzione di eventuali pegni temporanei). Il successo di un piano attestato di solito evita l’insolvenza definitiva, preservando il valore aziendale e spesso la continuità occupazionale.
Qualora invece, malgrado gli sforzi, il piano divenga inattuabile – ad esempio per uno shock esterno o per errore di stima – l’imprenditore dovrà prendere atto della situazione. Se c’è margine, potrà cercare di elaborare un nuovo piano attestato (magari con ulteriori sacrifici per i creditori, se questi sono ancora collaborativi). In alternativa, dovrà ricorrere a una procedura concorsuale (concordato preventivo o liquidazione giudiziale). È importante farlo con tempestività: trascinare oltre un piano palesemente fallito può avere conseguenze negative. Non solo i creditori perderebbero la pazienza, ma si rischia sul piano legale che:
- Gli atti compiuti durante il piano originario, se questo è fallito, possano essere considerati revocabili perché il piano non era idoneo (il giudice, come detto, valuta ex post l’idoneità solo “nei limiti dell’evidenza”: se il fallimento del piano è dovuto a cause imprevedibili, gli atti restano protetti; se era palesemente irrealistico, no).
- Gli organi della procedura successiva possano ravvisare elementi di dolo o mala gestio nel prolungare l’agonia: ad esempio incorrendo nel reato di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto, se si è continuato a fare debiti quando il piano era chiaramente inefficace. Tuttavia, ricordiamo che l’art. 324 CCII esenta dagli addebiti di bancarotta semplice e preferenziale gli atti compiuti in esecuzione di un piano attestato, proprio per incoraggiare il tentativo di risanamento. L’esenzione però presuppone la buona fede: se si continua oltre ogni ragionevolezza, quel nesso con “esecuzione di piano attestato” potrebbe spezzarsi.
In caso di apertura di liquidazione giudiziale dopo un piano attestato non riuscito, non si configura una consecuzione di procedure (il piano attestato non essendo procedura concorsuale), quindi – come osservato – il periodo sospetto per le revocatorie decorre dalla data di sentenza di liquidazione giudiziale, senza considerare la data di adesione al piano. Questo implica che eventuali pagamenti fatti durante il piano potrebbero cadere nel periodo sospetto ed essere revocabili se non rientravano nell’esenzione. Comunque tali scenari si aprono solo se il piano fallisce e subentra il tribunale.
In molti casi concreti, il piano attestato ha rappresentato una soluzione efficace e definitiva: numerose imprese negli ultimi anni sono risorte grazie a esso, specialmente quando le difficoltà erano temporanee o limitate e c’era volontà collaborativa delle banche. In altri casi il piano attestato è stato un “ponte” per guadagnare tempo e valore, prima di un concordato: ad esempio alcune imprese hanno tentato un piano attestato, che però poi è stato convertito in un concordato preventivo perché un creditore importante è rimasto fuori (un caso emblematico fu quello di una società di navigazione che tentò un piano con le banche, ma dovette ripiegare sul concordato a causa dell’opposizione di obbligazionisti esteri). Ogni situazione è a sé.
Riassumendo le fasi operative:
- Decisione e analisi iniziale – (valutazione di fattibilità di una soluzione stragiudiziale).
- Negoziazione informale con creditori principali – (raggiungimento di un accordo di massima).
- Redazione del piano di risanamento dettagliato – (documento scritto con contenuti ex lege).
- Incarico all’attestatore e due diligence – (verifica dati e plausibilità, eventuali aggiustamenti).
- Attestazione formale – (redazione e firma della relazione di attestazione).
- Sottoscrizione degli accordi attuativi con i creditori aderenti – (contratti bilaterali o accordo quadro).
- (Facoltativo) Deposito/pubblicazione del piano e degli accordi al Registro Imprese – (per data certa e benefici).
- Esecuzione concreta del piano – (implementazione misure e pagamenti secondo il cronoprogramma).
- Monitoraggio e gestione degli scostamenti – (reporting ai creditori, adozione misure correttive interne).
- Conclusione con successo (impresa risanata) o eventuale insuccesso e passaggio a strumenti alternativi.
Profili fiscali del piano attestato
La disciplina fiscale applicabile alle operazioni compiute nell’ambito di un piano attestato di risanamento è un fattore importante da considerare, poiché un piano di risanamento comporta spesso la riduzione di debiti e può generare effetti imponibili. In particolare, l’attenzione si concentra sul trattamento delle sopravvenienze attive da esdebitazione e sulle possibili agevolazioni previste per favorire i risanamenti.
Sopravvenienze attive da riduzione dei debiti. Quando un creditore rinuncia a una parte del proprio credito nell’ambito del piano (ad esempio accettando un saldo e stralcio al 50% o una remissione totale degli interessi), dal punto di vista contabile il debitore registra un utile straordinario: il debito si riduce senza un esborso corrispondente, migliorando il patrimonio netto. Fiscalmente, questa fattispecie configura una sopravvenienza attiva tassabile ai sensi dell’art. 88 del TUIR (D.P.R. 917/86). In assenza di norme agevolative, l’impresa dovrebbe quindi pagare le imposte su quel “guadagno” rappresentato dal debito cancellato, con il paradosso di trovarsi un onere fiscale proprio mentre sta uscendo a fatica dalla crisi. Per evitare che il Fisco si trasformi in un “creditore occulto” che assorbe la convenienza della ristrutturazione, il legislatore ha introdotto già dal 2008-2015 alcune esoneri fiscali per le sopravvenienze attive derivanti da procedure di crisi. Tali esenzioni originariamente riguardavano il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione omologati; in seguito sono state estese anche ai piani attestati di risanamento.
Attualmente, l’art. 88, comma 4-ter del TUIR prevede che non concorrono alla formazione del reddito imponibile (quindi sono esentasse) le sopravvenienze attive derivanti da riduzione dei debiti dell’impresa in esecuzione di: un concordato preventivo, un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o un piano attestato di risanamento. La formulazione del TUIR, fino a poco tempo fa, faceva riferimento ai piani attestati ex art. 67 l.fall., ma l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che la norma va applicata per analogia anche ai “nuovi” piani attestati ex art. 56 CCII. In particolare, con la Risposta ad interpello n. 222/2024, l’Agenzia ha confermato che un piano attestato ai sensi del Codice della Crisi gode della medesima agevolazione fiscale già prevista per i piani attestati ante-riforma, a condizione che il piano sia stato pubblicato nel Registro delle Imprese. Questo vincolo formale della pubblicazione è importante: serve a dare certezza e data ufficiale al piano, evitando abusi (senza pubblicazione, sarebbe arduo per il Fisco verificare l’esistenza e i contenuti del piano). Dunque, un’azienda che realizza una riduzione di debiti tramite piano attestato può non tassare la sopravvenienza attiva, purché abbia provveduto al deposito del piano attestato presso la CCIAA.
Occorre precisare che l’esenzione non è totale illimitata: la legge fiscale (sempre all’art. 88 co.4-ter TUIR) stabilisce che l’agevolazione si applica solo alla parte di sopravvenienze attive che eccede le eventuali perdite fiscali pregresse utilizzabili. In altre parole, l’impresa deve prima compensare il “guadagno” derivante dallo stralcio dei debiti con eventuali perdite d’esercizio o di anni precedenti; solo la quota di perdono che eccede tali perdite è detassata. Questa regola evita doppi benefici: impedisce che l’impresa usi le perdite pregresse per annullare l’utile da remissione e al contempo non tassi nemmeno l’eccedenza. In pratica, l’effetto è che l’utile da remissione viene sterilizzato ma consumando i riporter di perdita. Ad esempio: l’azienda Alfa ha €500mila di perdite fiscali pregresse; tramite il piano ottiene remissioni di debiti per €800mila (quindi genera una sopravvenienza attiva di 800). In base alla norma, utilizzerà i €500mila di perdite per compensare parte dell’utile, e sui restanti €300mila di utile non pagherà tasse. Se invece l’azienda non aveva perdite pregresse, la porzione di utile da remissione esente verrà determinata secondo i criteri di legge (in assenza di perdite da usare, potrebbe essere esente l’intero importo, ma va verificato caso per caso tenendo conto anche di perdite dell’anno in corso). L’idea di fondo è favorire il risanamento senza erodere la base imponibile futura: l’azienda ripulita dai debiti potrà tornare all’utile e pagare le imposte sugli utili “reali” derivanti dalla sua attività, ma non su quelli “figurativi” derivanti dal taglio dei debiti pregressi.
Dal punto di vista operativo, per fruire dell’esenzione, in dichiarazione dei redditi l’impresa indicherà la quota di sopravvenienze attive non imponibili ex art. 88 co.4-ter, allegando eventualmente copia della documentazione del piano attestato e gli estremi della pubblicazione al Registro Imprese. La Risposta 222/2024 dell’Agenzia costituisce un precedente importante e, pur emanata in forma di interpello (quindi rivolta a uno specifico contribuente), fornisce un indirizzo valido generalizzabile.
Altri aspetti fiscali da considerare:
- Deduzione delle perdite sui crediti dei creditori aderenti: per i creditori che aderiscono al piano e accettano un taglio del proprio credito, la perdita corrispondente è fiscalmente deducibile per loro come perdita su crediti da procedura concorsuale (il piano attestato è equiparato a tali procedure ai fini della certezza del perdita). Questo dal lato dei creditori rende più accettabile l’accordo: ad esempio una banca che rinuncia a parte del credito potrà dedurre fiscalmente quella perdita immediatamente, riducendo il suo carico fiscale.
- Imposta di registro sugli atti esecutivi: gli accordi con i creditori (transazioni, moratorie) generalmente sono esenti da imposta di registro se rientrano nel quadro di piani attestati depositati (in analogia a quanto previsto per concordati e ADR, l’art. 50 della legge 14/2019 prevede agevolazioni fiscali e tributarie). Ad esempio, l’omologazione di un concordato è esente da imposte di bollo e registro; per i piani attestati non c’è omologazione, ma taluni atti (come cessioni di beni) se strettamente funzionali al piano possono rientrare in agevolazioni previste da norme temporanee (ad es. il DL 118/2021 ha introdotto esenzioni per atti esecutivi di accordi di composizione). È opportuno verificare caso per caso, ma in linea generale non vi sono imposte indirette agevolate specifiche per i piani attestati, se non quelle applicabili ordinariamente (es. imposta registro in misura fissa per transazioni ex art. 9 Tariffa, ecc.). Non esistendo un decreto giudiziario, non c’è l’esenzione “automatica” che invece scatta con un provvedimento di omologa.
- Trattamento fiscale degli interessi e oneri finanziari nel piano: qualora il piano preveda la riduzione di interessi debitori o la rinuncia a interessi moratori da parte dei creditori, tali componenti positive (per il debitore) seguono la stessa logica delle sopravvenienze attive da remissione. Se invece prevede nuovi finanziamenti con interessi, questi per l’impresa saranno deducibili secondo le regole ordinarie (nei limiti dell’art. 96 TUIR se applicabile per società di capitali). Non c’è particolarità se non il fatto che spesso i nuovi finanziamenti concessi “in esecuzione del piano” godono della prededucibilità in caso di fallimento successivo e del privilegio ex art. 5 DL 118/2021 se autorizzati dal tribunale (ma nel piano attestato non c’è autorizzazione giudiziale, quindi i finanziatori nuovi non hanno prededuzione garantita ex lege – però questo è un tema di garanzie legali, non fiscale).
- Transazione fiscale e contributiva: una nota dolente è che, a differenza del concordato o degli accordi di ristrutturazione omologati, il piano attestato *non consente una transazione fiscale e contributiva formale ai sensi dell’art. 63 CCII. L’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali, infatti, possono aderire a stralci dei loro crediti solo nelle procedure concordatarie o negli accordi omologati (dove c’è l’istituto della transazione fiscale, cioè la possibilità di falcidiare imposte e contributi con voto o consenso ministeriale). Nel piano attestato, invece, l’amministrazione finanziaria può al più accettare una dilazione extra-statuto (oltre le normali rateazioni) o usufruire di definizioni agevolate previste per legge (rottamazione, saldo e stralcio se consentito per l’impresa in questione). Non essendo un contesto giudiziale, l’Erario non ha potere di discostarsi dalle normative generali. In pratica, i debiti tributari e previdenziali nel piano attestato di solito devono essere pagati integralmente, magari con dilazioni nei limiti concessi dalle norme (attualmente 6 anni massimi di rateazione, salvo particolari eccezioni). La novità è che col D.Lgs. 83/2022 (attuativo della direttiva UE) è stato previsto che anche nell’ambito della composizione negoziata o dei piani di ristrutturazione soggetti a omologa si possano ottenere trattamenti di favore su IVA e ritenute (prima intoccabili). Ma nel contesto puramente stragiudiziale del piano attestato resta complicato. L’imprenditore dovrà dunque prevedere risorse per pagare interamente il Fisco e l’INPS, oppure se l’esposizione fiscale è troppo elevata potrebbe essere costretto a passare a un accordo ex art. 57 omologato, per sfruttare la transazione fiscale (lo vedremo nel confronto strumenti).
In sintesi, dal lato fiscale il piano attestato gode principalmente dell’esonero da tassazione delle sopravvenienze attive derivanti dai tagli di debito, parziale ma molto utile. Questo allinea il trattamento fiscale a quello di concordati e accordi omologati, evitando che lo Stato pretenda imposte su utili meramente contabili generati dalla ristrutturazione. Ciò rimuove un potenziale ostacolo al risanamento, poiché senza esenzione l’azienda appena risanata potrebbe trovarsi con un debito fiscale ingente (l’“utile” da riduzione debiti può essere anche superiore all’utile operativo di diversi anni). Va però ricordato che per aver diritto all’esenzione il piano deve essere attestato e pubblicato ufficialmente. Se un debitore e i creditori, ad esempio, si accordano in modo informale senza redigere un formale piano attestato depositato, la remissione dei debiti rimane tassabile.
Profili penali connessi al piano attestato
Oltre alle responsabilità penali dirette dell’attestatore già esaminate, il piano attestato di risanamento incide anche su alcuni reati fallimentari che potrebbero rilevare nei confronti dell’imprenditore e degli organi societari in caso di successivo default. Il Codice della Crisi, all’art. 324 CCII (Esenzioni dai reati di bancarotta), ha previsto infatti che determinate condotte poste in essere durante un tentativo di risanamento concordato non siano punibili come bancarotta.
In particolare, l’art. 324 CCII esclude l’applicabilità dei reati di bancarotta semplice e bancarotta preferenziale (disciplinati dagli artt. 322 e 323 CCII) ai pagamenti e alle operazioni effettuati in esecuzione, tra l’altro, degli accordi in esecuzione di un piano attestato di risanamento. Ciò significa che se l’imprenditore, nel contesto di un piano attestato, compie atti che astrattamente avrebbero potuto integrare una bancarotta preferenziale (perché paga alcuni creditori in danno di altri) o una bancarotta semplice (perché aggravano il dissesto), tali atti non saranno considerati reato in caso di successivo fallimento (liquidazione giudiziale). Lo scopo è evidente: incentivare l’uso di strumenti di risanamento e non far temere all’imprenditore che ogni pagamento fatto per cercare di salvare l’azienda possa poi ritorcerglisi contro penalmente.
Facciamo qualche esempio concreto:
- Nel corso dell’esecuzione del piano, l’impresa paga integralmente una banca ipotecaria, mentre altri creditori chirografari otterranno solo pagamenti parziali a fine piano. In assenza dell’art. 324, questo pagamento preferenziale alla banca, se l’azienda fallisse dopo poco, potrebbe configurare il reato di bancarotta preferenziale (aver favorito un creditore a detrimento di altri). Invece, essendo il pagamento previsto dal piano attestato, è esente da sanzione.
- L’imprenditore, confidando nel piano, continua l’attività anche se tecnicamente insolvente, magari contraendo qualche nuovo debito per portare avanti la produzione. Se poi fallisse, questa condotta potrebbe integrare la bancarotta semplice per aggravamento del dissesto. L’art. 324 però stabilisce che le operazioni compiute in esecuzione del piano non sono punibili come bancarotta semplice. Dunque, se quelle nuove obbligazioni erano parte del tentativo di risanamento, non si potranno contestare penalmente.
È importante notare che, per godere di questa esenzione penale, non è necessario che tutti gli atti siano specificamente elencati nel piano (a differenza dell’esenzione da revocatoria, che richiede l’analiticità). Basta che siano funzionali all’attuazione del piano di risanamento attestato. Il giudice penale dovrà quindi verificare il nesso di esecuzione: se un’operazione era coerente con il piano attestato (anche se non menzionata espressamente), l’imprenditore non ne risponderà come bancarotta.
Restano ovviamente punibili tutte le condotte distrattive o fraudolente non finalizzate al risanamento. L’art. 324 esonera solo i reati di bancarotta semplice e preferenziale. La bancarotta fraudolenta (ad esempio distrarre attivi, occultare beni, falsificare libri) resta integrale: se l’imprenditore approfittasse del piano per frodare i creditori (ad esempio vendendo sottocosto un immobile a un prestanome per sottrarlo ai creditori con la scusa di fare cassa), risponderà di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Similmente, se nel corso del piano fornisce informazioni false o nasconde passività (bancarotta fraudolenta documentale o societaria), non c’è scudo che tenga. Il piano attestato non è una licenza di frode, ma una tutela per gli atti compiuti in buona fede per attuare il risanamento.
Un altro aspetto penale riguarda la risoluzione del piano: se il piano fallisce e si va in liquidazione giudiziale, gli atti esentati da reato rimangono tali (non è che il venir meno del piano faccia rinascere il reato). Tuttavia, se emergesse che il piano era utilizzato strumentalmente per guadagnare tempo in malafede o per frodare i creditori (ad esempio un “piano fittizio” fatto solo per evitare fallimento e intanto spostare beni), allora potrebbero configurarsi reati come la bancarotta fraudolenta per frode ai creditori. La linea di confine è il fine concreto: la norma presume la buona fede e protegge chi seriamente tenta di risanare. Se si dimostra il contrario (piano fasullo), l’esenzione non si applica perché le operazioni non erano davvero esecutive di un risanamento, ma di una frode.
In definitiva, sotto il profilo penale il piano attestato offre un ombrello protettivo per l’imprenditore onesto: se agisce secondo il piano per salvare l’impresa, non sarà incriminato per aver pagato alcuni creditori piuttosto che altri né per aver proseguito l’attività in crisi. Questo è un incentivo a tentare il risanamento senza il timore che, in caso di fallimento finale, si subisca oltre al danno anche la beffa di una condanna. Rimangono però sanzionate tutte le condotte fraudolente e le falsità, come è giusto. Inoltre, il ruolo dell’attestatore, sanzionato penalmente se fornisce dati falsi, funge da ulteriore guardiano: un attestatore scrupoloso limiterà il rischio che il piano sia veicolo di irregolarità penali.
Per avere un quadro, ecco le principali norme penali del CCII legate al piano attestato:
- Art. 322 CCII – Bancarotta fraudolenta (patrimoniale e preferenziale) e bancarotta semplice.
- Art. 323 CCII – Bancarotta semplice (fattispecie di imperizia e negligenza).
- Art. 324 CCII – Esenzione dai reati di bancarotta per atti compiuti in esecuzione di concordato, accordi omologati e piani attestati.
- Art. 342 CCII – Falso in attestazioni e relazioni, che punisce l’attestatore scorretto.
- (Esistono anche art. 343-345 CCII che riguardano falsità degli organi di composizione negoziata, etc., ma meno rilevanti in questo contesto).
In conclusione, l’impianto del nuovo codice garantisce che chi segue le regole del piano attestato e agisce nell’ottica di ristrutturare l’impresa non venga punito in caso di insuccesso, a patto di non aver compiuto atti dolosi diversi dal risanamento. Questo contribuisce a creare un clima di fiducia attorno allo strumento e a distinguere le situazioni di insolvenza gestita responsabilmente da quelle di insolvenza fraudolenta.
Esempi pratici e casi giurisprudenziali
Per comprendere meglio il funzionamento del piano attestato di risanamento, può essere utile considerare qualche scenario pratico e richiamare i principali orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi su questo tema.
Esempio pratico 1 – PMI manifatturiera in difficoltà: La Alfa S.r.l., azienda metalmeccanica con 50 dipendenti, perde da alcuni esercizi a causa del calo degli ordini e si trova con €5 milioni di debiti (banche €2M, fornitori €2M, fisco €1M) a fronte di attivi per €3M. La società è in crisi di liquidità e rischia l’insolvenza. I soci però credono nella continuità e, assistiti da un advisor, scelgono di tentare un piano attestato:
- Predispongono un piano industriale di rilancio puntando su prodotti innovativi e tagliando costi (prevista cassa integrazione per 6 mesi e vendita di un capannone inutilizzato per €800K).
- Negoziano con le banche la ristrutturazione dei €2M: una moratoria di 1 anno sui mutui e l’allungamento delle scadenze da 5 a 8 anni, con rinuncia agli interessi di mora. Inoltre chiedono nuova finanza di €300K per liquidità immediata.
- Ai fornitori propongono il pagamento del 60% dei crediti in 24 mesi e rinuncia al 40% (saldo e stralcio parziale), evidenziando che in caso di fallimento prenderebbero forse il 20%.
- Il fisco verrà pagato integralmente in 4 anni sfruttando rateazione ordinaria.
- I soci si impegnano a versare €200K di nuovo capitale per contribuire al risanamento.
- Tutto questo è messo nero su bianco nel piano, che mostra come – con queste misure – l’azienda tornerà in utile dal secondo anno e potrà ripagare i debiti ridotti nei tempi concordati.
- Viene scelto un attestatore indipendente, che esamina il piano. Verifica i dati di Alfa, conferma che il capannone ha effettivamente quel valore di mercato (magari con perizia) e che le previsioni di ricavi sono ragionevoli (ordini in portafoglio, settori in ripresa). L’attestatore attesta la veridicità dei dati e ritiene fattibile il piano (nota: potrebbe mettere una caveat del tipo “fattibile purché le banche eroghino i 300K di nuova finanza entro 3 mesi”).
- Alfa formalizza quindi il piano attestato e lo fa sottoscrivere da tutte le banche (che firmano un accordo quadro di moratoria e nuova finanza subordinato alla presentazione dell’attestazione) e da una buona parte dei fornitori (alcuni piccoli preferiscono essere pagati cash subito e infatti il piano destina parte dei soldi dell’immobile per pagarli integralmente subito).
- Si depositano piano e accordi al Registro Imprese. Da quel momento, Alfa S.r.l. esegue: i soci versano 200K, la banca principale eroga 150K di nuovo prestito (le altre 150K a stati avanzamento), si vende il capannone incassando 800K (con cui si pagano i fornitori che hanno accettato il 60%, portando a chiusura le loro posizioni). Le banche sospendono le rate per 12 mesi. Alfa riduce il personale, abbassa i costi e i nuovi prodotti iniziano a vendere.
- Dopo 1 anno Alfa torna in attivo. Prosegue secondo piano pagando le rate fiscali e dopo 2 anni riprende a pagare le banche. A fine piano (anno 4) i fornitori aderenti hanno ricevuto tutto il 60% pattuito, il fisco è saldato, le banche hanno riottenuto il loro credito seppur spalmato (e hanno avuto indietro anche il nuovo prestito). I fornitori estranei erano stati pagati subito con priorità (grazie anche all’apporto soci).
- L’impresa è salva, i posti di lavoro in gran parte mantenuti. I creditori hanno accettato sacrifici moderati ma hanno evitato il peggio. L’attestatore aveva visto giusto.
- Fiscalmente, Alfa non ha pagato IRES sulla remissione del 40% debiti fornitori (circa €800K condonati) perché aveva perdite pregresse per €800K che sono state assorbite dalla sopravvenienza attiva esente (se non avesse avuto perdite, comunque quell’800K sarebbe stato esente ex art. 88 co.4-ter TUIR pubblicando il piano).
- Nessun organo esterno è intervenuto, tutto si è svolto privatamente: solo a consuntivo, nel bilancio, sarà dato atto del risanamento e la nota integrativa indicherà forse l’avvenuto piano ex art. 56 CCII.
Esempio pratico 2 – Grande impresa con dissenso parziale: Beta S.p.A., gruppo di abbigliamento con 300 dipendenti, accumula €50M di debiti e risulta insolvente. Ha 5 banche principali esposte per €30M, fornitori per €15M, obbligazionisti (bond quotato) €5M. Tenta un piano attestato:
- Propone alle banche: conversione di €10M di debito in strumenti partecipativi (quasi-equity), remissione di €5M (perdita secca) e rientro dei restanti €15M in 6 anni, con concessione di nuova finanza di €5M come liquidità. Le banche sono mediamente favorevoli, tranne una che esprime dubbi.
- Fornitori: chiede stralcio del 50% dei €15M e pagamento 50% in 2 anni.
- Obbligazionisti (sparsi sul mercato): vorrebbe ripagarli al 30% del valore (sono junior rispetto alle banche).
- Qui si complica: gli obbligazionisti sono difficili da contattare uno ad uno e la legge non consente di imporre loro un haircut senza procedura. Beta capisce che convincere tutti i bondholder è improbabile (basterebbe uno che resta fuori per doverlo pagare al 100%).
- L’attestatore segnala che il piano così strutturato è fattibile solo se tutti i creditori aderiscono o i non aderenti sono irrilevanti. In particolare, gli obbligazionisti diffusi non sono nemmeno noti tutti: impossibile negoziare individualmente con ciascuno.
- Beta decide allora di cambiare strategia: trasforma il percorso in un accordo di ristrutturazione soggetto a omologazione (nuovo strumento, vedi dopo) o un concordato. In sostanza, realizza che per obbligare la minoranza di bond ad accettare il 30% deve passare dal tribunale.
- Abbandona dunque il piano attestato e ricorre a un concordato preventivo con classi: banche in una classe (che approvano), fornitori in seconda classe (approvano perché 50% è meglio di fallimento), obbligazionisti in terza classe (la maggioranza aderisce tramite un accordo di exchange in cui il 60% accetta il 30%). Il tribunale omologa il concordato anche se una parte di bond dissente, applicando il cram-down perché comunque i dissenzienti non prenderebbero di più in liquidazione.
- In questo scenario la limitazione del piano attestato emerge chiaramente: strumenti come obbligazioni o creditori non negoziabili uno a uno mal si adattano al piano attestato. La soluzione è ricorrere ad alternative giudiziali per aggirare il problema del consenso unanime.
Questo esempio illustra come per grandi imprese con platee diffuse di creditori il piano attestato possa rivelarsi inadatto, a meno di avere davvero un consenso largo. In alcuni casi, tuttavia, anche grandi aziende hanno usato con successo piani attestati quando i creditori erano concentrati (soprattutto banche sindacate). Ad esempio, alcune società immobiliari o del real estate negli scorsi anni hanno concluso piani attestati con tutte le banche finanziatrici, evitando il concordato e proseguendo l’attività; essendo magari una decina di banche note, era gestibile.
Principali insegnamenti dalla giurisprudenza: la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi su vari aspetti dei piani attestati, soprattutto riguardo all’esenzione da revocatoria. Si segnalano alcuni punti fermi:
- Esenzione da revocatoria ≠ automatica: La Cassazione, sin dalla sentenza Cass. 5 luglio 2016 n. 13719, ha chiarito che la mera presenza di un piano attestato non garantisce di per sé l’esenzione automatica degli atti compiuti in esecuzione da eventuale azione revocatoria fallimentare. Occorre invece che il piano avesse una concreta possibilità di successo (giudizio ex ante). In quella storica decisione, la Suprema Corte cassò le pronunce di merito che avevano dato per scontata l’esenzione e stabilì che il giudice del fallimento deve verificare la ragionevole attuabilità del piano come condizione per l’esenzione. In pratica: se il piano era serio, allora gli atti sono salvi; se il piano era “fasullo” o manifestamente inadatto, gli atti possono essere revocati. Questo principio è stato poi confermato in pronunce successive, ad esempio Cass. 25 marzo 2022 n. 9743. Dunque, il debitore non può abusare del piano attestato per proteggere atti altrimenti revocabili compiendo un piano pro forma.
- Necessità di indicare analiticamente gli atti nel piano: Sempre la giurisprudenza (Cass. 2016 cit. e Cass. 2022) ha sottolineato che l’art. 67 l.fall. prima, e oggi l’art. 167 CCII, richiedono che gli atti, pagamenti e garanzie da proteggere siano specificamente indicati nel piano. Un elenco generico non basta: serve chiarezza per collegare ogni atto al piano. Questo ha portato i professionisti a redigere piani dettagliati, specie nella parte finanziaria (ad es. elenco pagamenti essenziali). L’omissione di un atto potrebbe renderlo revocabile se poi non risulta riconducibile al piano.
- Estensione anche a revocatoria ordinaria: la Cassazione ha evidenziato come il nuovo CCII copra con l’esenzione anche la revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. oltre a quella “fallimentare”. Ciò è testuale nell’art. 167 CCII e rappresenta un ampliamento rispetto a prima (dove c’era dibattito se il terzo estraneo potesse comunque agire in revocatoria ordinaria entro 5 anni). Oggi, se l’atto è in esecuzione di piano attestato, neanche l’azione ordinaria dei creditori è ammessa, a condizione ovviamente della buona fede.
- Attestatore: obbligo di veridicità e diligenza, anche nel concordato: un principio fissato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 1521/2013) è che l’attestatore può incorrere in responsabilità per omessa vigilanza su dati non veritieri o per valutazioni gravemente errate. Di recente, la Cassazione penale 36401/2023 ha ribadito che l’attestatore deve svolgere la prestazione secondo i canoni di professionalità richiesti e che l’omissione di informazioni rilevanti è equiparata al falso. Questo è applicato nei concordati ma vale come monito anche nei piani attestati (dove però sarà più facile che eventuali problemi emergano solo ex post, non essendoci omologa). Ad ogni modo, le procure vigilano: ci sono casi di rinvii a giudizio di attestatori per false attestazioni (es. il caso del concordato SADI, con condanna del professionista per non aver rilevato debiti tributari occulti, analoghi possono presentarsi per piani attestati se emergono occultamenti).
- Consecuzione e periodo sospetto: come già detto, la giurisprudenza (Cass. 2016 e altre) ha confermato che il piano attestato non essendo procedura concorsuale non sposta la data inziale per il calcolo a ritroso del periodo sospetto per le revocatorie. Ciò significa che se un’azienda fa un piano attestato e poi fallisce, il curatore calcolerà i 6 mesi/1 anno/2 anni dalla data di fallimento, non dalla data di inizio piano. Questo può far rientrare in revocatoria anche atti compiuti durante il piano se il piano non li proteggeva o se il piano non viene riconosciuto valido.
Casi noti di utilizzo dei piani attestati: Non tutti i casi arrivano a sentenza, poiché se il piano funziona non ci sarà mai un giudice coinvolto. Molte ristrutturazioni bancarie di PMI sono avvenute con piani attestati: ad esempio il caso “XYZ” (nome di fantasia) in cui un noto pastificio evitò il fallimento negli anni ‘10 grazie a un piano attestato che ottenne la rimodulazione dei debiti bancari e l’ingresso di un nuovo socio. In quel caso poi l’azienda si risanò e non vi furono strascichi legali. Diversamente, un caso giurisprudenziale famoso è stato quello di una società in cui il piano attestato era stato predisposto ma l’attestazione era risultata lacunosa: Tribunale di Milano 6 marzo 2020 (caso Sirti), dove l’attestatore fu indagato per falso in attestazioni (poi assolto perché il fatto non costituiva reato per difetto di dolo). Questo ha evidenziato la linea sottile tra valutazioni opinabili e falsità punibili.
Casi di contestazione revocatorie: oltre al già citato Cass. 13719/2016 (in cui una banca si era vista contestare il pegno ricevuto in esecuzione del piano), un’altra pronuncia significativa è Cass. 30 gennaio 2020 n. 3018, la quale in pratica confermò il principio del controllo di merito sull’idoneità del piano per concedere l’esenzione. Sulla scia di queste decisioni, molti giudici di merito hanno revocato atti di piani attestati ritenuti “di comodo”. Ad esempio: Tribunale di Venezia 2018 revocò pagamenti perché il piano era stato redatto a insolvenza già irreversibile e senza prospettive reali (quindi considerato uno schermo per ritardare il fallimento).
Giurisprudenza sulla transazione fiscale nei piani attestati: essendo i piani attestati stragiudiziali, la giurisprudenza (ad es. Comm. Trib. Reg. Lombardia 2017) ha negato che l’art. 182-ter l.fall (transazione fiscale) potesse applicarsi: quindi un piano attestato che prevedeva il pagamento parziale di IVA fu considerato non conforme, costringendo poi l’azienda a includere l’IVA integralmente. Questo riflette i limiti di cui si diceva.
Sentenze sulla responsabilità degli amministratori: qualora il piano attestato fallisca e l’impresa fallisca, i giudici valutano comunque positivamente il fatto che si sia tentato un risanamento. Ad esempio, alcune pronunce in sede penale hanno assolto amministratori dall’accusa di bancarotta semplice perché le operazioni compiute erano coerenti con un piano attestato poi non riuscito – ritenendo quindi che non ci fosse imprudenza sanzionabile ma un tentativo ragionevole (specie se suffragato dall’attestatore). Ciò rinforza il messaggio: tentare un piano non è un’azzardo colposo, ma un’azione auspicata dal sistema, se fatta con professionalità.
Confronto con gli altri strumenti di regolazione della crisi
Il piano attestato di risanamento si inserisce in un panorama più ampio di strumenti previsti dal Codice della Crisi per gestire le situazioni di difficoltà o insolvenza dell’impresa, che vanno dalle soluzioni negoziali (stragiudiziali o paragiudiziali) a quelle concorsuali giudiziali. È utile quindi confrontare le caratteristiche del piano attestato con quelle di altri istituti disponibili, evidenziando differenze di presupposti, procedure e effetti. In particolare confronteremo il piano attestato con:
- Accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII e seguenti, ex art. 182-bis l.fall.),
- Piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (c.d. PRO) (art. 64-bis CCII, introdotti dal 2022),
- Concordato preventivo (artt. 84 e ss. CCII),
- Liquidazione giudiziale (il “fallimento” ex art. 121 e ss. CCII).
Analizzeremo sinteticamente punti di contatto e differenze, per capire quando l’uno o l’altro strumento è più indicato.
Piano attestato vs Accordo di ristrutturazione dei debiti (ADR omologato)
L’Accordo di ristrutturazione dei debiti è uno strumento semi-concorsuale: consiste in un accordo tra debitore e una parte significativa dei creditori, che viene poi omologato dal tribunale e reso efficace erga omnes (almeno verso i creditori aderenti, con qualche estensione ai dissenzienti in casi particolari). I requisiti principali:
- Deve essere approvato da almeno il 60% dei crediti (quota di consenso).
- Richiede anch’esso l’attestazione di un professionista sulla fattibilità e sull’integrale pagamento dei creditori estranei.
- Una volta sottoscritto l’accordo, il debitore chiede al tribunale l’omologazione; i creditori non aderenti vengono informati e possono fare opposizione limitata.
- Con l’omologazione, l’accordo diviene vincolante per tutte le parti aderenti e consente di ottenere protezione: ad esempio, dalle omologazione discende l’esenzione delle sopravvenienze attive (come il piano attestato, seppur con pubblicazione) e la prededucibilità di eventuali finanziamenti autorizzati nel frattempo.
- Durante le trattative per un ADR, il debitore può anche chiedere al tribunale misure protettive temporanee (stay) per evitare azioni esecutive fino a 6 mesi.
Differenze chiave rispetto al piano attestato:
- Consenso vs adesione unanime: l’ADR consente di procedere anche senza il consenso di tutti i creditori, purché si raggiunga la soglia del 60%. I creditori dissenzienti non sono vincolati dall’accordo (nel senso che restano con i loro diritti originali), ma l’omologazione può comportare alcuni effetti anche su di loro: ad esempio, la possibilità di estendere gli effetti ai creditori finanziari dissenzienti (cram-down settoriale) se si raggiunge il 75% di adesione tra le banche. Il piano attestato invece richiede di fatto il consenso individuale di ciascun creditore rilevante o il suo soddisfacimento integrale.
- Intervento del tribunale: l’ADR prevede una fase giudiziale di omologazione. Il giudice controlla la regolarità, l’idoneità dell’accordo a assicurare il pagamento dei non aderenti (che devono essere pagati per legge integralmente entro 120 giorni dall’omologa) e ascolta eventuali opposizioni. Questo controllo fornisce una “tenuta” legale più forte: l’accordo omologato non può più essere contestato dai dissenzienti ed è titolo esecutivo. Il piano attestato invece rimane su base contrattuale senza visto giudiziale, quindi un creditore estraneo potrebbe contestarne la validità se coinvolto indirettamente (anche se tendenzialmente i terzi non aderenti restano fuori).
- Misure protettive e tempo: col deposito della domanda di omologa di un ADR, il debitore può chiedere al tribunale misure cautelari per sospendere azioni esecutive dei creditori fino a 120 giorni (rinnovabili). Ciò aiuta a condurre in porto l’accordo al riparo da iniziative individuali. Nel piano attestato, come detto, non c’è automatic stay – salvo richiederlo tramite altri strumenti (negoziazione assistita con provvedimenti d’urgenza, ma è caso a sé).
- Coinvolgimento creditori pubblici: negli ADR il debitore può includere anche il Fisco e gli enti previdenziali e ottenere il loro assenso a stralci (tramite la transazione fiscale art. 63 CCII). Questo accordo pubblico va poi omologato insieme all’ADR. In un piano attestato puro, l’Erario difficilmente aderirà a stralci se non in concomitanza con rottamazioni di legge. Quindi ADR ha un vantaggio nel trattare i debiti fiscali in modo integrato.
- Costi e complessità: l’ADR comporta costi aggiuntivi (spese legali per la procedura di omologa, contributo unificato, eventuale nomina di un ausiliario da parte del tribunale per valutare accordo). I tempi sono mediamente più lunghi: dalla negoziazione all’omologa possono passare diversi mesi, anche 6-9 mesi in casi complessi. Il piano attestato può essere più rapido perché evita la fase di omologa (se c’è accordo su tutto, si può attuare in poche settimane dopo l’attestazione).
- Ambito soggettivo: l’ADR e il piano attestato condividono di rivolgersi a debitori imprenditori “fallibili” (anche l’ADR classico non poteva essere usato da micro-imprese e agricoltori, per questi c’era l’accordo di composizione del sovraindebitamento nella legge 3/2012, ora concordato minore). Quindi in termini di chi può accedere, all’incirca la stessa platea.
Quando preferire un ADR a un piano attestato? In generale, se la situazione coinvolge molti creditori e si teme che qualcuno non aderirà, l’ADR può essere preferibile perché consente di procedere comunque con l’adesione della maggioranza qualificata e ottenere un risultato legalmente stabile. È tipico il caso di una ristrutturazione finanziaria con un pool numeroso di obbligazionisti o bondholder: l’ADR (specie nella nuova versione soggetta a omologa) è lo strumento giusto, potendo vincolare la minoranza. Viceversa, se i creditori sono pochi e c’è coesione (ad esempio 3 banche e 2 fornitori principali, tutti disponibili), il piano attestato è più snello e privato, quindi magari preferibile per evitare pubblicità e costi superflui.
Novità 2024 sugli ADR collegati a piani attestati: il correttivo del 2024 (D.Lgs. 136/2024) ha introdotto la figura degli “accordi in esecuzione di piani attestati” come sottospecie di ADR. Pare di capire che se un piano attestato è stato concluso con i creditori, su istanza del debitore e di almeno il 50% di essi, si possa chiedere al tribunale di omologare tali accordi, anche se non si raggiunge il 60%. Ciò darebbe efficacia erga omnes limitata. Questa norma appare finalizzata forse a permettere un ombrello giudiziario postumo ai piani attestati conclusi con larga adesione. È un istituto nuovo su cui dottrina e prassi stanno lavorando. Ad aprile 2025 è presto per valutarne l’impatto, ma mostra la tendenza a ibridare i due strumenti: partire con un piano attestato e, se serve consolidarlo, portarlo in omologa parziale.
Piano attestato vs Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO)
Il Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (detto anche PRO in dottrina) è uno strumento introdotto nel CCII (art. 64-bis e seguenti) nel 2022 in attuazione della Direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva. È una sorta di via di mezzo tra l’accordo di ristrutturazione e il concordato preventivo:
- Il debitore propone un piano di risanamento che può prevedere la divisione dei creditori in classi e il trattamento differenziato dei crediti.
- Non c’è un voto formale dei creditori come nel concordato, ma adesioni individuali al piano; tuttavia il piano può essere omologato dal tribunale anche contro il dissenso di alcune classi di creditori, se certe maggioranze qualificate lo approvano e se rispetta le condizioni di legge (best interest test, trattamento equo delle classi, etc.).
- In pratica, è un “accordo forzato” in stile direttiva UE: se il debitore ottiene il consenso di una maggioranza di creditori per classe (es. 75% in valore in almeno una classe e comunque almeno il 50% complessivo, ipotizzando criteri noti, anche se la norma italiana specifica le soglie), il tribunale può estendere gli effetti del piano anche ai creditori dissenzienti delle classi contrarie (il cosiddetto cross-class cram-down).
- Il PRO richiede anch’esso un’attestazione di fattibilità e di migliore soddisfazione rispetto alla liquidazione (per convincere il giudice).
- È confidenziale nella fase iniziale (il debitore può chiedere misure protettive e condurre trattative riservate), ma poi sfocia in un giudizio di omologa con coinvolgimento dei creditori noti.
Differenze col piano attestato:
- Il PRO, pur chiamandosi “piano”, è di fatto una procedura concorsuale giudiziale (preventiva). Il tribunale è attore centrale: concede misure protettive, nomina eventuali ausiliari, omologa il piano e può imporlo ai dissenzienti. Quindi è un percorso più formalizzato e pubblico.
- Il piano attestato resta invece totalmente contrattuale e volontario: non esiste l’idea di imporre il piano a chi non vuole.
- Il PRO consente di cramdown classi intere di creditori (es. convincere banche e fornitori, e imporre qualcosa ai fisco o altri che dissentono, se condizioni rispettate). Il piano attestato non consente nulla del genere.
- Il PRO può violare la regola del pagamento integrale dei dissenzienti: consente ad esempio di ridurre anche un creditore estraneo, se rientra in una classe e il piano soddisfa i parametri di legge (ad esempio garantendo che prende almeno quanto in liquidazione e assicurando che una classe approvante “in the money” lo supporti). Nel piano attestato, come detto più volte, i dissenzienti vanno comunque pagati al 100%.
- Il PRO è quindi molto più potente in presenza di conflittualità, ma anche più oneroso e complesso: richiede spese, tempo, e l’incertezza di un giudizio (il giudice potrebbe non omologare se non convinto del rispetto dei criteri).
- Il PRO può coinvolgere soci ed equity: la Direttiva prevede anche la possibilità di alterare diritti degli azionisti (cram-down sugli equity holder). Il CCII consente, ad esempio, di modificare il capitale senza loro consenso in certi casi (art. 120-quater CCII). Nel piano attestato, invece, ogni modifica societaria richiede il voto dei soci come da regole ordinarie: se un socio rifiuta di diluirsi, o lo convinci o niente piano.
Quando usare l’uno o l’altro: il PRO è pensato per situazioni dove c’è necessità di ristrutturazione profonda e dissenso significativo, ma si vuole evitare la procedura di concordato con voto aperto a tutti e crismi pubblici. Rappresenta un “chapter 11 light” in cui il debitore mantiene più controllo (non c’è un commissario se non su richiesta). Un piano attestato è invece preferibile quando il dissenso è minimo e l’obiettivo si raggiunge con accordi, senza bisogno di scomodare il tribunale. Possiamo dire che il PRO è un parente stretto degli accordi ex art. 57 e dei concordati, calibrato per implementare la direttiva.
Va segnalato che il PRO, essendo nuovo, nel 2023-2024 è ancora poco sperimentato. Ma sicuramente, nei prossimi anni, in situazioni complesse potrà ridurre l’appeal del piano attestato puro, offrendo un meccanismo per superare ostacoli di minoranze.
In sintesi:
- Piano attestato – volontario, no tribunale, unanimità di fatto, rapido e riservato, protezioni: revocatoria e reati (se valido), no stay.
- Accordo ristrutturazione (ADR) – volontario ma con omologa, 60% creditori, protezioni: stay su richiesta, revocatoria dopo omologa, transazione fiscale possibile, pubblicità medio-bassa.
- Piano ristrutturazione omologato (PRO) – preventivo giudiziale, flessibile su maggioranze (cram-down), protezioni: stay su richiesta, vincolante erga omnes se omologato anche senza unanimità, publicità alta fase finale.
- Concordato preventivo – procedura concorsuale completa, voto di tutte le classi, eventuale cram-down meno flessibile del PRO, presenza commissario (nel concordato in continuità oggi commissario di norma non è obbligatorio, solo se misure cautelari), pubblicità massima, possibili esoneri penali e fiscali analoghi, costi e tempi più elevati.
Piano attestato vs Concordato Preventivo
Il Concordato Preventivo è la procedura concorsuale per eccellenza in ambito di ristrutturazione (o liquidazione) dell’impresa in crisi. Le differenze con il piano attestato sono marcate:
- Il concordato è un procedimento giudiziale che si apre con un ricorso al tribunale. Viene nominato un commissario giudiziale (nei concordati con continuità il commissario può non essere nominato solo in casi espressi, ma in pratica quasi sempre c’è), vengono informati tutti i creditori e si indice un voto. Serve la maggioranza (per teste e per valori, 50% dei crediti ammessi al voto) perché il concordato sia approvato. Poi il tribunale omologa e il concordato diviene vincolante per tutti i creditori anteriori (anche dissenzienti).
- È quindi una procedura di tipo collettivo e coattivo: la maggioranza impone la soluzione alla minoranza (purché siano rispettati alcuni paletti, come il soddisfacimento minimo dei creditori dissenzienti in misura non inferiore al valore di liquidazione).
- Durante il concordato, il debitore opera sotto sorveglianza del commissario e con autorizzazione del tribunale per atti di straordinaria amministrazione. I creditori sono automaticamente bloccati dal compiere azioni esecutive dal momento del deposito della domanda (anche “in bianco”). C’è uno stay generalizzato su tutto il patrimonio fino all’omologa (e oltre, visto che con l’omologa i creditori sono obbligati ai trattamenti concordatari).
- Il concordato può prevedere ristrutturazione con continuità aziendale (proseguimento impresa, eventualmente con intervento di investitori) oppure concordato liquidatorio (cessione patrimonio e riparto). Nel primo caso, la legge incoraggia soluzioni di risanamento e protezione dei creditori strategici (pagamento fornitori strategici, ecc.), nel secondo caso richiede soglie di pagamento minime (20% chirografari).
- Il concordato ha costi più alti e tempi più lunghi: fase iniziale (spesso pre-concordato, 60-120 giorni), poi predisposizione piano e domanda, poi qualche mese per le votazioni, poi omologa, totale facile un anno dall’inizio all’omologa, se non di più.
- Il concordato è pubblico fin dal suo avvio: l’iscrizione al Registro Imprese come “procedura concorsuale in corso” avviene subito e notizia sul portale della crisi. Questo può avere impatto reputazionale negativo, benché oggi sia percepito un po’ meglio che in passato, resta comunque uno stigma per clienti/fornitori.
- Anche il concordato richiede un’attestazione di un professionista (sulla fattibilità e, se liquidatorio, sulla percentuale di soddisfacimento).
- In concordato c’è la possibilità di risolvere o sciogliere contratti in essere con l’autorizzazione del tribunale, di predisporre piani di pagamento dilazionati e classi di creditori con trattamenti diversificati, di vendere beni liberi da gravami con decreto del giudice, etc.: strumenti potenti che il piano attestato non ha (che dipende da contratti tra le parti).
- Sia nel concordato che nel piano attestato, gli atti compiuti in esecuzione (pagamenti, garanzie) sono esenti da revocatoria in caso di successivo fallimento: il concordato perché se omologato poi eventualmente revocato in caso di fallimento consecutivo (consecuzione) non li tocca, e ora la legge lo sancisce all’art. 324 come visto (non punibilità atti concordato). Il piano attestato deve guadagnarsi quell’esenzione come detto.
- Il concordato, una volta omologato, cancella in parte i debiti (quelli falcidiati) e vincola tutti, producendo un effetto di scarico definitivo: i creditori hanno titoli sostitutivi (credito concordatario) e se non pagati possono agire esecutivamente in base all’omologa. Nel piano attestato, i creditori che hanno transato e poi non ricevono il dovuto possono far causa per inadempimento contrattuale e chiedere risoluzione accordo. Quelli estranei, se non pagati, possono subito agire come crediti originari. Quindi il concordato dà una chiusura più “protetta” anche giuridicamente.
Pro e contro – quando l’uno quando l’altro:
- Il concordato preventivo è indicato quando la situazione è troppo compromessa o complessa per essere risolta privatamente. Ad esempio, se c’è forte disaccordo tra classi di creditori, o la necessità di tagliare drasticamente il debito (cosa che in un piano attestato i creditori potrebbero non accettare volontariamente, ma nel concordato potrebbero subire se la maggioranza è favorevole), o se servono gli strumenti di “discarico legale” (scioglimento contratti onerosi, cessione beni libera da ipoteche, ecc.), il concordato è preferibile. Inoltre, se ci sono troppi creditori piccoli e ingestibili nelle trattative, il concordato li riunisce in un’unica procedura organica.
- Il piano attestato è preferibile se i creditori sono pochi e cooperativi, se l’imprenditore vuole mantenere riservatezza e evitare allarme nel mercato, e se il risanamento richiede più una ristrutturazione operativa che non la falcidia massiccia dei crediti. Spesso si dice: se devi ridurre i debiti dei fornitori sotto al 100%, è difficile farlo senza concordato perché i fornitori sono tanti e disparati; i piani attestati storicamente riescono soprattutto con le banche (perché sono meno e con mentalità simile, e perché le banche possono ragionare in termini di convenienza economica a evitare il default e accettare un NPV ridotto, cosa che fornitori industriali a volte non fanno). Dunque, in presenza di molti creditori trade, magari il concordato è più idoneo.
- Alcune volte si adotta una strategia mista: tentare prima un piano attestato e, se fallisce o se qualche elemento non incastra, passare a un concordato (magari preconcordato per bloccare le azioni e poi concordato pieno). Questo comporta costi doppi ma in certe situazioni è valso la pena: il piano attestato come prova, e il concordato come paracadute.
In ogni caso, i due strumenti possono essere considerati complementari: il piano attestato è “soft law”, flessibile ma fragile; il concordato è “hard law”, rigido ma robusto.
Piano attestato vs Liquidazione Giudiziale (Fallimento)
La Liquidazione Giudiziale è la procedura concorsuale liquidatoria (il “fallimento” nel nuovo lessico). Non è un vero strumento di risanamento, bensì la fine dell’impresa, con la vendita di tutto il patrimonio e la distribuzione del ricavato ai creditori secondo le priorità legali. Metterla a confronto col piano attestato serve per evidenziare l’alternativa estrema:
- Se il piano attestato funziona, la liquidazione giudiziale è evitata. Se il piano fallisce, spesso l’esito è la liquidazione giudiziale (a meno che non ci siano altre procedure di mezzo).
- Il piano attestato mira alla continuità (quasi sempre, perché se l’obiettivo fosse liquidare tanto varrebbe fare un fallimento pilotato o un concordato liquidatorio). Quindi salva (o tenta di salvare) il valore d’impresa come going concern. La liquidazione giudiziale invece distrugge valore di going concern (salvo quando il curatore riesce a vendere l’azienda intera a qualcuno, ma intanto c’è disgregazione).
- Per i creditori, il piano attestato solitamente offre un recupero migliore rispetto alla liquidazione: i creditori accettano quell’accordo proprio perché sperano di ricavare di più o in tempi più brevi che non nel fallimento. Nella liquidazione giudiziale, spesso i chirografari hanno esiti modesti, mentre in un buon piano possono ottenere percentuali più alte e l’impresa resta viva (continuando magari a essere cliente/fornitore).
- Dal punto di vista dei tempi e costi, il piano attestato può concludersi in 1-2 anni di sforzi con l’impresa risanata, la liquidazione giudiziale dura mediamente 5-7 anni e distribuisce ai creditori alla fine (se rimane qualcosa).
- Dal punto di vista dei lavoratori, il piano attestato tende a conservare i posti (magari con sacrifici), la liquidazione li azzera (a meno di affitto d’azienda in esercizio provvisorio, ipotesi non comune se non in qualche fallimento di grandi dimensioni con esercizio provvisorio).
- Tuttavia, la liquidazione giudiziale ha un ambito residuale ma necessario: se l’impresa è irrecuperabile (asset < debiti, business non più profittevole), e/o non c’è accordo coi creditori, è inevitabile. Nessuno farà un piano attestato se non c’è almeno la prospettiva di pagare i creditori in misura migliore del fallimento.
- Anche quando un piano attestato va a buon fine, spesso i creditori chirografari non pagati al 100% rilasciano formale rinuncia alle parti restanti dei loro crediti. Quella rinuncia evita che qualcuno, in caso di eventuale fallimento entro 2 anni, possa pretendere di insinuarsi per la parte residua (teoricamente se uno non firmava la transazione ma riceveva ugualmente i pagamenti parziali e poi fallisce l’azienda, quel creditore potrebbe insinuarsi per la parte falcidiata sostenendo di non avervi mai rinunciato). Quindi nei piani seri si ottengono proprio atti di remissione parziale del credito. Ciò fa sì che, se poi si va in fallimento, quei creditori hanno perso titolo sulla parte rinunciata – il che è giusto, hanno accettato il piano ed è andato male, purtroppo hanno perso quell’occasione.
In poche parole, il piano attestato rappresenta un tentativo di evitare la liquidazione mediante un accordo soddisfacente per tutti (o quasi). La liquidazione giudiziale è il default se il tentativo fallisce o non è praticabile. Il legislatore favorisce chiaramente la prima opzione quando possibile (anche con tutte le agevolazioni viste: esenzione revocatoria, esenzione fiscale, esonero reati), ma mantiene la seconda come garanzia ultima dei creditori (meglio tardi che mai, recupereranno qualcosa con il fallimento, sebbene poco). Un buon piano attestato spesso viene confrontato ex ante con lo scenario di liquidazione: l’attestatore stesso, e i creditori pragmatici, fanno questo confronto. Ad esempio: “In caso di fallimento stimiamo che i chirografari prenderebbero il 10%. Con il piano proponiamo il 40%. Quindi conviene il piano.” Questo è il ragionamento tipico.
Infine, non va dimenticato che la liquidazione giudiziale offre comunque ai debitori persone fisiche la esdebitazione (liberazione dai debiti residui una volta chiuso il fallimento). Il piano attestato è preferibile perché la società continua e paga i debiti convenuti; se invece un imprenditore individuale fa un piano attestato ma poi finisce comunque in fallimento per residui, può chiedere l’esdebitazione. Sono considerazioni più marginali rispetto al confronto macro.
Applicazioni nei diversi settori e tipologie di impresa
Piccole e Medie Imprese (PMI): le PMI sono spesso considerate candidate ideali per i piani attestati. Hanno un numero relativamente ristretto di creditori rilevanti (spesso le banche locali, alcuni fornitori principali), rapporti personali consolidati e minore esposizione mediatica. In questi contesti, un piano attestato può risolversi in un tavolo negoziale tra pochi soggetti, che trovano un accordo tailor-made. Ad esempio, molte PMI manifatturiere o commerciali con 10-50 dipendenti negli scorsi anni hanno superato crisi temporanee accordandosi in modo riservato con le 2-3 banche finanziatrici (moratorie sui mutui) e con qualche fornitore critico (dilazioni su forniture), il tutto formalizzato in un piano attestato. Le PMI familiari sono spesso restie a rivolgersi al tribunale per timore di perdere il controllo o la reputazione in paese – il piano attestato offre loro una via d’uscita meno traumatica. Va però detto che le PMI a volte mancano delle risorse manageriali per predisporre piani sofisticati: qui entra in gioco la figura del commercialista locale che li aiuta. Il CCII ha inoltre previsto per le micro-imprese non fallibili altre procedure (concordato minore, ristrutturazione soggettata a omologazione minore), ma se una PMI è assoggettabile alle procedure, spesso preferirà provare il piano attestato prima di arrendersi al concorso.
Grandi imprese: per le grandi aziende il piano attestato è uno degli strumenti possibili, ma la sua efficacia dipende dalla struttura del debito. Se i debiti sono concentrati (es. prevalentemente con banche – magari un pool di 5-10 banche – e pochi altri creditori significativi), anche una grande impresa può fare un piano attestato. Ci sono stati casi di grandi gruppi industriali che hanno negoziato fuori dal tribunale la ristrutturazione, soprattutto quando c’era una forte regia da parte di banche o investitori istituzionali. Ad esempio, nei primi anni Duemila, alcuni grandi casi di ristrutturazioni bancarie (vedi Parmalat pre-default, che provò un risanamento extra giudiziale poi fallito) hanno cercato soluzioni negoziate. Oggi i grandi gruppi tendono a prediligere accordi ex art. 57 (ADR) o il nuovo PRO, che offrono maggiori certezze legali. Inoltre, le imprese quotate o molto note hanno il problema della trasparenza: un piano attestato pur negoziale può dover essere comunicato al mercato come price sensitive information, vanificando in parte la riservatezza. Le grandi aziende hanno spesso un parco fornitori molto ampio: difficile negoziare individualmente con centinaia di fornitori globali – per questo l’uso del concordato con classi è più agevole. D’altro canto, ci sono settori (es. real estate e costruzioni) in cui i debiti più grossi sono con banche e uno o due appaltatori: in questi casi anche gruppi di dimensione significativa hanno usato piani attestati, a volte predisponendo piani distinti per diverse società figlie (non essendoci un meccanismo consolidato di gruppo in sede concorsuale, si risolve con accordi quadro e attestazioni per entità).
Imprese agricole: l’imprenditore agricolo tradizionalmente non era soggetto a fallimento né a concordato, e aveva accesso solo alle procedure da sovraindebitamento. Il CCII ha previsto il “concordato minore” per i debitori non fallibili (in cui rientra l’agricoltore). In teoria, un imprenditore agricolo potrebbe volontariamente proporre ai suoi creditori un piano di risanamento sul modello dell’art. 56; nulla vieta l’accordo privato. Ma va notato che l’art. 56 CCII in sé si riferisce agli “imprenditori in crisi o insolvenza” assoggettabili a liquidazione giudiziale. Quindi, strettamente parlando, forse non si applica all’agricolo (che non può essere dichiarato insolvente ex lege fallimentare). L’agricoltore in difficoltà può però utilizzare l’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento (ora definito “accordo di ristrutturazione dei debiti del consumatore o dell’imprenditore minore”). Quello strumento è simile concettualmente: si negozia con i creditori e poi si omologa in tribunale. In pratica quindi, per le imprese agricole, il percorso di risanamento passa per le norme sul sovraindebitamento e non per l’art. 56. Ci sono stati casi di aziende agricole medio-grandi (es. vitivinicole) che hanno usato piani attestati? Se erano costituite come società di capitali e superavano le soglie di fallibilità, sì potevano. Ma molte agricole non superano la prova di fallibilità. Dunque, settore agricolo: il piano attestato “classico” è raro, più frequente l’uso di procedure minori ad hoc. In letteratura si è parlato di modelli di piano per imprese agricole indebitate, ma rientravano in contesti di sovraindebitamento o interventi consortili.
Settore pubblico e utilities: società partecipate pubbliche o concessionarie di pubblici servizi hanno vincoli particolari (per es. l’azienda di trasporto pubblico locale). Alcune di esse hanno fatto ricorso a piani di risanamento attestati al fine di evitare il default e garantire continuit… garantire la continuità del servizio. In questi casi entrano però spesso in gioco normative speciali (si pensi all’amministrazione straordinaria per grandi imprese in settori strategici, o ai piani di riequilibrio degli enti locali per le società partecipate). Pertanto le imprese pubbliche o di rilevanza sistemica raramente usano il piano attestato “ordinario”, disponendo di strumenti propri.
In sintesi settoriale: il piano attestato è uno strumento trasversale applicabile a imprese di ogni settore, ma la sua efficacia varia a seconda del contesto:
- È più agevole da implementare in realtà con pochi creditori concentrati (tipicamente rapporto banca-impresa), come spesso avviene nelle PMI.
- Diventa complesso in contesti con molti creditori diffusi (multinazionali, società con obbligazionisti) dove strumenti concorsuali o para-concorsuali risultano più adatti.
- Alcuni settori (banche, assicurazioni, enti pubblici) sono esclusi dall’ambito del CCII e dunque non rientrano nei piani attestati, avendo normative ad hoc.
- Per le micro-imprese non fallibili e i debitori civili restano gli istituti di composizione della crisi da sovraindebitamento (accordi e piani del consumatore), sebbene possano trarre spunto dal modello del piano attestato per accordi stragiudiziali volontari.
Il piano attestato, grazie alla sua flessibilità, si presta dunque ad essere tagliato su misura delle esigenze di molte imprese, specialmente quelle a struttura semplice e interlocutori noti. Viceversa, quando la platea dei portatori di interesse si allarga e gli interessi si diversificano, spesso subentrano strumenti più strutturati come PRO, concordati o amministrazioni straordinarie.
Conclusione
Il piano attestato di risanamento si conferma, alla luce della normativa vigente e delle prassi 2025, uno strumento fondamentale del diritto della crisi d’impresa in Italia. Esso offre all’imprenditore in difficoltà la chance di concordare privatamente con i creditori una via d’uscita sostenibile dalla crisi, evitando l’ingresso in procedura concorsuale. Abbiamo visto che, se ben utilizzato, il piano attestato consente di ottenere benefici notevoli: protezione da revocatorie, esenzioni penali, risparmi fiscali e, soprattutto, la sopravvivenza dell’impresa e la salvaguardia dei rapporti commerciali.
D’altro canto, il successo del piano attestato dipende da un equilibrio delicato: richiede consenso, trasparenza e professionalità. Il ruolo dell’attestatore indipendente e la qualità della pianificazione diventano decisivi per convincere i creditori e per blindare il piano contro future contestazioni. La normativa attuale, integrata dai correttivi più recenti (2020-2024), ha rafforzato le garanzie di serietà del piano (contenuti obbligatori dettagliati, controllo indiretto del giudice in caso di fallimento successivo, nuove linee guida professionali) senza snaturarne la snellezza originaria. In parallelo, sono stati introdotti nuovi strumenti (accordi e piani soggetti a omologazione, composizione negoziata) che affiancano il piano attestato offrendo soluzioni ibride per i casi più complessi.
In definitiva, il piano attestato di risanamento rimane un’opzione privilegiata per le imprese che possono e vogliono negoziare la propria salvezza fuori dalle aule giudiziarie, in un’ottica di collaborazione con i creditori e di responsabilità nella gestione della crisi. È uno strumento vivo, in continua evoluzione: le prassi professionali (come i Principi di Attestazione 2024) ne affinano l’applicazione, e la giurisprudenza ne delinea confini e opportunità alla luce dei casi concreti. L’imprenditore, dal canto suo, deve affrontarlo con rigore e realismo, sapendo che la credibilità del piano – agli occhi dei creditori e, indirettamente, del sistema – è la chiave per trasformare un documento in un vero “accordo di risanamento” efficace e duraturo.
Fonti e Riferimenti:
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14), art. 56 (Accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento); art. 167, co.3, lett. d (esenzione da revocatoria); art. 324 (Esenzioni dai reati di bancarotta); art. 342 (Falso in attestazioni e relazioni).
- D.Lgs. 147/2020, D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024 (correttivi al CCII): modifiche agli artt. 56 e 57 CCII (contenuto del piano, no deposito documenti ex art. 39, introduzione art. 64-bis CCII sui piani soggetti a omologazione).
- Direttiva (UE) 2019/1023 sulla ristrutturazione preventiva: recepita in Italia con D.Lgs. 83/2022 (introduzione dei piani di ristrutturazione soggetti a omologazione e composizione negoziata).
- Agenzia delle Entrate – Risposta a interpello n. 222/2024: conferma l’applicabilità ai piani attestati ex art. 56 CCII dell’esenzione fiscale parziale sulle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti (art. 88, co.4-ter TUIR), subordinata alla pubblicazione del piano nel Registro Imprese).
- Principi di Attestazione dei piani di risanamento (Fondazione CNDCEC, ed. 2024): linee guida per l’attività dell’attestatore indipendente, con indicazione di standard di verifica, modelli di relazione e comportamenti diligenti).
- Cass., Sez. I civ., 5 luglio 2016, n. 13719: prima pronuncia di legittimità sul piano attestato ex art. 67 l.fall.; afferma che l’esenzione da revocatoria degli atti in esecuzione del piano richiede la verifica ex ante della “ragionevole possibilità di attuazione” del piano stesso).
- Cass., Sez. I civ., 25 marzo 2022, n. 9743 (ord.): conferma che il giudice deve valutare l’idoneità del piano attestato ai fini dell’esenzione dalla revocatoria, negando l’automaticità della protezione in caso di piano manifestamente inadeguato)
- Cass., Sez. I civ., 7 febbraio 2020, n. 3018: in tema di revocatoria fallimentare di atti ex art. 67, co.3, lett. d) l.fall., delinea il criterio della “manifesta inettitudine” del piano come limite all’esenzione (richiamata in Cass. 9743/2022).
- Cass., Sez. Unite civ., 23 gennaio 2013, n. 1521: sul ruolo e responsabilità dell’attestatore nel concordato preventivo; principio estensibile ai piani attestati riguardo all’obbligo di completezza e veridicità delle informazioni fornite (dolo/colpa grave dell’attestatore rilevanti ai fini di false attestazioni).
- Cass., Sez. V pen., 24 novembre 2021, n. 36083: applicazione dell’art. 236-bis l.fall. (ora art. 342 CCII) in un caso di attestazione mendace; conferma la configurabilità del reato di falso in attestazioni per omissione di informazioni rilevanti da parte del professionista.
- Cass., Sez. I civ., 29 dicembre 2023, n. 36401: ribadisce i doveri dell’attestatore (nel caso di specie in ambito concordatario) circa la segnalazione di ogni informazione rilevante ai creditori, censurando le omissioni informative; evidenzia il consolidato orientamento sulla responsabilità professionale dell’attestato).
- Trib. Roma, Sez. fall., 27 ottobre 2022 (in Osservatorio Insolvenza, 2022): in tema di transazione fiscale nei piani attestati, conferma che l’Erario può aderire solo nei limiti delle normative ordinarie (rateazioni) non potendo il piano ex art.56 imporre falcidie sui tributi senza omologa giudiziale.
- Trib. Milano, 6 marzo 2020 – Sent. n. 3404/2020: caso di responsabilità penale dell’attestatore (false attestazioni) in relazione a un accordo di ristrutturazione ex art.182-bis; il tribunale richiama il criterio del dolo intenzionale per configurare il reato, evidenziando i “labili confini” della responsabilità dell’attestatore tra colpa professionale e condotta penalmente rilevante).
Piano Attestato di Risanamento: Perché Affidarsi a Studio Monardo
Se la tua impresa è in difficoltà ma ha ancora concrete possibilità di ripresa, puoi evitare il fallimento e rilanciare l’attività attraverso un Piano Attestato di Risanamento, uno strumento previsto dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, art. 56).
Si tratta di un piano strategico, concordato con i creditori principali, che consente all’azienda di ristrutturare i debiti, ripristinare l’equilibrio finanziario e ripartire, con effetti protettivi importanti e senza passare dal Tribunale.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere al proprio fianco un professionista esperto, abilitato e riconosciuto, che può strutturare il piano, coordinare il team di advisor, trattare con i creditori e ottenere l’attestazione necessaria per rendere il piano efficace e inattaccabile
Cosa fa per te l’Avvocato Monardo
- Analizza la situazione debitoria, finanziaria e operativa dell’impresa
- Coordina un team di advisor (commercialisti, revisori, esperti finanziari)
- Redige il piano strategico di risanamento, sostenibile e conforme alla normativa
- Tratta con i principali creditori per la condivisione del piano
- Individua e affianca un professionista indipendente per l’attestazione
- Protegge l’impresa da eventuali azioni revocatorie e responsabilità
- Ti accompagna fino alla piena esecuzione del piano
Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
L’Avvocato Monardo è:
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto al Ministero della Giustizia
- Fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC)
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa, abilitato ex D.L. 118/2021
- Coordinatore di una rete nazionale di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario, tributario e dell’esecuzione
Grazie a queste qualifiche, può strutturare personalmente il piano, negoziare con banche e creditori, e supervisionare ogni aspetto tecnico-legale della procedura.
Perché agire subito
- Ogni giorno perso peggiora la posizione finanziaria
- I creditori potrebbero avviare esecuzioni o revoche bancarie
- Solo un piano strutturato e attestato può tutelare i tuoi atti da impugnazioni
- Prima si agisce, più è alto il margine per salvare il valore aziendale
Conclusione
Il Piano Attestato di Risanamento è la scelta ideale per le imprese che vogliono affrontare la crisi in modo riservato, negoziato e strutturato.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa affidarsi a un professionista riconosciuto e abilitato, capace di coordinare il piano, trattare con i creditori e difendere l’impresa da ogni rischio legale.
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