La tua impresa ha bisogno di ristrutturare i suoi debiti aziendali?
Qui di seguito in Studio Monardo, gli avvocati specializzati in crisi d’impresa, abbiamo creato una guida dedicata con gli ultimi aggiornamenti.
In fondo alla guida troverai poi tutti i nostri riferimenti per richiedere una consulenza personalizzata.
Introduzione:
Negli ultimi anni molte imprese italiane si sono trovate ad affrontare difficoltà finanziarie a causa di fattori concomitanti come la crisi economica, la pandemia da Covid-19 e l’aumento dei costi energetici e delle materie prime. Ristrutturare i debiti aziendali è diventato quindi un tema centrale per preservare la continuità del business e salvare aziende potenzialmente ancora competitive. L’ordinamento italiano, soprattutto con l’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019) nel 2022, offre oggi una gamma articolata di strumenti giudiziali ed extragiudiziali per gestire la crisi debitoria e tentare il risanamento.
Questa guida – aggiornata ad aprile 2025 – fornisce una panoramica completa e dettagliata su come ristrutturare i debiti aziendali in Italia, rivolgendosi a imprenditori, consulenti aziendali e professionisti legali. Verranno illustrati tutti gli strumenti disponibili (dal piano attestato di risanamento agli accordi di ristrutturazione, dalla composizione negoziata al concordato preventivo in continuità o liquidatorio, fino alla liquidazione giudiziale e alle procedure minori), evidenziandone le caratteristiche, le differenze, i pro e contro. Si esamineranno inoltre le novità normative più recenti (incluse le riforme del 2022 e i correttivi del 2024 al Codice della Crisi) e i principali orientamenti giurisprudenziali aggiornati al 2025.
Non mancheranno simulazioni pratiche di casi aziendali ipotetici, per capire concretamente come applicare i vari strumenti di ristrutturazione del debito e quali risultati ci si può attendere. Infine, verranno affrontati gli aspetti fiscali, bancari e gestionali da tenere in considerazione durante un processo di risanamento, aspetti spesso cruciali per la riuscita di un piano di ristrutturazione (ad esempio il trattamento fiscale delle riduzioni di debito, i rapporti con le banche finanziatrici e le decisioni organizzative per sostenere la continuità aziendale).
Quadro Normativo e Evoluzione Recente
Il contesto normativo delle procedure di gestione della crisi d’impresa in Italia è stato profondamente rinnovato nell’ultimo quinquennio. In passato, la materia era regolata principalmente dalla Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) e da alcune leggi speciali (es. la legge 3/2012 sul sovraindebitamento). Dal 2019, però, il legislatore ha avviato un ampio progetto di riforma organica culminato nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14. Questo Codice, dopo vari rinvii dovuti anche alla pandemia, è entrato in vigore il 15 luglio 2022, mandando in soffitta la vecchia legge fallimentare e introducendo nuove procedure e terminologie.
Le tappe principali dell’evoluzione normativa recente sono riassumibili così:
- D.Lgs. 14/2019 (Codice della Crisi) – Ha introdotto un sistema unitario per crisi e insolvenza, prevedendo tra l’altro nuovi obblighi di monitoraggio interno per gli imprenditori (assetti organizzativi adeguati ex art. 2086 c.c.), strumenti di allerta preventiva (inizialmente gli OCRI, poi sostituiti) e una revisione delle procedure concorsuali tradizionali (il fallimento viene ribattezzato liquidazione giudiziale, il concordato preventivo viene mantenuto ma con nuovi requisiti, ecc.). L’entrata in vigore originaria (agosto 2020) è stata prorogata.
- D.L. 118/2021 (conv. L. 147/2021) – Provvedimento varato in piena emergenza pandemica, ha rinviato al 2022 l’operatività del Codice della Crisi ma nel frattempo ha introdotto due nuovi strumenti immediatamente utilizzabili: la Composizione Negoziata della Crisi (procedura volontaria di soluzione stragiudiziale assistita da un esperto) e il Concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio (una forma speciale di concordato senza voto, attivabile solo in esito negativo di una composizione negoziata). Questo decreto ha rappresentato una risposta urgente per favorire la ristrutturazione prima che l’impresa diventasse insolvente, in linea con la direzione indicata dall’UE.
- D.Lgs. 83/2022 – Entrato in vigore anch’esso il 15 luglio 2022, ha adeguato il Codice della Crisi alla direttiva europea 2019/1023 (cd. “Direttiva Insolvency” sull’allerta precoce e le ristrutturazioni preventive). Sono stati introdotti o modificati istituti come il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO), gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa e la convenzione di moratoria, per offrire maggiori possibilità di raggiungere accordi di ristrutturazione con i creditori anche senza il consenso unanime. In sostanza, l’ordinamento italiano ha ampliato gli strumenti di regolazione negoziale della crisi, permettendo ad esempio di estendere gli effetti di un accordo anche ai creditori dissenzienti di una certa categoria (se certe maggioranze sono raggiunte) o di omologare piani di ristrutturazione anche contro il voto contrario di alcune classi, con adeguate tutele.
- D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (correttivo “ter”) – A oltre un anno dall’entrata in vigore, il Codice della Crisi è stato ulteriormente affinato con un decreto correttivo. Questo intervento ha risolto errori materiali e dubbi interpretativi emersi nella prima applicazione. In particolare, ha potenziato la Composizione Negoziata (chiarendo che vi si può accedere anche in caso di semplice squilibrio patrimoniale-finanziario, non solo in crisi conclamata, e introducendo vincoli per evitare che le banche revocino ingiustificatamente le linee di credito all’impresa che accede alla procedura), ha modificato alcune disposizioni sul concordato preventivo e sugli accordi per renderli più efficaci e coordinati, ed ha previsto una nuova procedura di liquidazione controllata per i debitori minori in parallelo alla liquidazione giudiziale.
Oltre a queste riforme legislative, la giurisprudenza ha avuto un ruolo chiave nel tracciare i confini applicativi dei nuovi strumenti. La Corte di Cassazione, in particolare tra il 2023 e il 2024, ha emanato importanti sentenze (che vedremo più avanti) su temi come l’omologazione forzata del concordato nonostante il voto contrario del Fisco, l’ammissibilità delle proposte concorrenti e i rapporti tra concordato preventivo e fallimento. Questi orientamenti chiariscono aspetti dubbi e forniscono linee guida pratiche per l’utilizzo corretto degli istituti.
In sintesi, ad aprile 2025 l’imprenditore in difficoltà ha a disposizione un vero “arsenale” di procedure per ristrutturare i debiti, frutto di una stratificazione di interventi normativi recenti. Nei paragrafi che seguono analizzeremo nel dettaglio ciascuno di questi strumenti – dalla composizione negoziata al concordato preventivo, passando per piani attestati, accordi e altro – illustrandone il funzionamento, i requisiti di accesso e i possibili esiti. Successivamente confronteremo le diverse soluzioni e forniremo esempi concreti, per aiutare a capire come scegliere lo strumento più adatto a seconda della situazione aziendale.
Strumenti per la Ristrutturazione del Debito
In questa sezione esamineremo tutti gli strumenti previsti dall’ordinamento italiano per la ristrutturazione dei debiti delle imprese. Alcuni di essi sono stragiudiziali o extragiudiziali (cioè si svolgono al di fuori del tribunale, pur avendo riconoscimento legale), altri sono procedure giudiziali vere e proprie (con l’intervento dell’autorità giudiziaria). Spesso, per risolvere una crisi complessa, è necessario combinare più strumenti in momenti diversi. Di seguito presentiamo i principali istituti, ciascuno con una descrizione del funzionamento, dei presupposti, nonché dei vantaggi e svantaggi.
Piano Attestato di Risanamento
Il Piano Attestato di Risanamento è uno strumento privatistico e flessibile, previsto dall’art. 56 CCII (già art. 67 L.Fall. nella vecchia legge). Consiste in un piano di risanamento aziendale, redatto dall’imprenditore con l’aiuto di consulenti, il cui scopo è quello di risanare l’esposizione debitoria e riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa. La caratteristica qualificante è che tale piano deve essere “attestato” da un professionista indipendente (iscritto in appositi registri), il quale verifica la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, rilasciando un’attestazione formale.
Dal punto di vista operativo, il piano attestato è essenzialmente un accordo stragiudiziale: l’imprenditore negozia con i propri creditori (o con parte di essi) modifiche e dilazioni delle obbligazioni, ad esempio rinegoziando i termini di pagamento, riducendo gli importi dovuti (stralcio parziale del debito) o ottenendo nuova finanza. Il tutto, però, avviene senza l’intervento del tribunale: non c’è un’omologazione giudiziale del piano, né sono previste votazioni da parte dei creditori come nel concordato. I creditori aderenti sottoscrivono individualmente le nuove condizioni contrattuali previste dal piano. L’attestazione del professionista serve a dare credibilità e trasparenza all’operazione, sia verso i creditori sia, eventualmente, verso terzi (si pensi alle banche o all’Amministrazione finanziaria).
Vantaggi: Il piano attestato è rapido e riservato. Non essendo depositato in tribunale (se non facoltativamente per usufruire di taluni benefici), evita all’impresa la “pubblicità” di una procedura concorsuale e lo stigma associato. Può essere costruito su misura, coinvolgendo anche solo alcuni creditori cruciali e lasciando fuori altri (purché chi rimane estraneo venga pagato regolarmente). Offre grande flessibilità nel contenuto: può prevedere qualsiasi operazione di risanamento (ricapitalizzazioni, dismissione di beni non strategici, conversione di crediti in capitale, ecc.), senza i vincoli formali imposti ad esempio nel concordato. Inoltre, il piano attestato, se pubblicato presso il Registro delle Imprese, consente all’azienda di beneficiare della esenzione da revocatoria fallimentare per gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano stesso. Ciò significa che, se anche la società dovesse fallire successivamente, quelle operazioni di risanamento non verrebbero invalidate dal curatore fallimentare, aumentando la sicurezza per chi concede nuova finanza o accetta ristrutturazioni nel contesto del piano.
Dal punto di vista fiscale, inoltre, le sopravvenienze attive derivanti da riduzione dei debiti nell’ambito di un piano attestato pubblicato non concorrono immediatamente a formare il reddito imponibile dell’impresa: la normativa tributaria (art. 88, co.4-ter TUIR) prevede infatti la detassazione parziale o totale dei profitti da esdebitazione ottenuti tramite concordati, accordi di ristrutturazione omologati e piani attestati pubblicati. In pratica, l’eventuale riduzione dei debiti non verrà tassata fino a concorrenza delle perdite fiscali pregresse e dell’esercizio, e per la parte eccedente non genererà ricavi imponibili (evitando di aggravare la situazione dell’azienda risanata).
Svantaggi e limiti: Di contro, il piano attestato non offre protezione automatica dalle azioni dei creditori. Durante la negoziazione e l’esecuzione, i creditori non aderenti (o anche quelli aderenti, prima dell’accordo) possono intraprendere azioni esecutive (pignoramenti, decreti ingiuntivi, ecc.) se l’impresa è inadempiente, poiché non vi è alcuna “moratoria legale” concessa dal tribunale. Questo strumento richiede dunque che la situazione sia ancora gestibile in via di fatto, con creditori disposti a negoziare in tempi brevi senza bisogno di misure coercitive. Inoltre, affinché la ristrutturazione abbia successo, tutti i principali creditori devono essere concordi: basta un creditore rilevante che rifiuti l’accordo per compromettere l’intero piano, non essendoci modo di imporgli il rispetto del piano (assenza di cram-down). In sostanza, il piano attestato funziona bene in situazioni in cui la crisi non è eccessivamente acuta e l’imprenditore mantiene la fiducia di banche e fornitori chiave, disponibili a sostenere un risanamento volontario. Se invece vi è già conflittualità o azioni legali avviate, questo strumento potrebbe rivelarsi insufficiente.
Accordi di Ristrutturazione dei Debiti
Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (ARD) rappresentano una via intermedia tra il piano puramente privatistico e il concordato preventivo giudiziale. Previsti dagli artt. 57-64 CCII (già art. 182-bis e segg. L.Fall.), essi comportano la stipulazione di un accordo tra l’imprenditore e una parte significativa dei suoi creditori, accordo che viene poi omologato dal Tribunale rendendolo vincolante anche per i creditori non aderenti (entro certi limiti). In altre parole, l’accordo di ristrutturazione è sostanzialmente un contratto di ristrutturazione del debito approvato da una maggioranza qualificata di creditori e successivamente “validato” dal giudice.
Vediamo le principali tipologie di ARD oggi disponibili e le loro caratteristiche:
Accordo di ristrutturazione “ordinario” (consenso del 60% dei crediti)
Nella forma ordinaria, l’imprenditore in crisi elabora un piano di risanamento e deve ottenerne l’adesione da parte di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. Questa percentuale (rimasta invariata rispetto alla legge previgente) è riferita all’ammontare dei crediti: significa, ad esempio, che se un’azienda ha 10 milioni di euro di debiti, dovrà convincere creditori per almeno 6 milioni complessivi a firmare l’accordo. Non è necessario il consenso di tutti i creditori, ma solo di questa maggioranza qualificata. Raggiunta tale soglia, l’accordo (corredato da una relazione di un professionista attestatore sulla fattibilità e sull’idoneità a soddisfare integralmente i creditori estranei) viene sottoposto al Tribunale per l’omologazione.
Effetti: con l’omologazione, l’accordo di ristrutturazione diventa vincolante solo per i creditori che vi hanno aderito espressamente e per quelli appartenenti alle categorie per cui la legge prevede l’estensione degli effetti (vedremo oltre l’accordo ad efficacia estesa). I creditori non aderenti (estranei) non sono direttamente obbligati dal contratto e conservano i loro diritti di credito originari. Tuttavia, la legge tutela la loro posizione imponendo condizioni rigorose all’accordo: in particolare, è richiesto che il debitore preveda di pagare integralmente e nei termini di legge i creditori estranei. In concreto, l’art. 58 CCII stabilisce che i creditori non aderenti devono essere soddisfatti per intero entro 120 giorni dalla scadenza originaria dei loro crediti (se già scaduti, entro 120 giorni dall’omologazione). Questo vincolo assicura che chi non partecipa all’accordo non subisca pregiudizio: l’accordo, insomma, non può essere costruito sulle spalle dei dissenzienti, che vanno comunque pagati tempestivamente e integralmente, al massimo con una breve dilazione.
Dal punto di vista procedurale, l’accordo di ristrutturazione è più snello del concordato: non c’è una votazione collettiva in assemblea dei creditori, ma le adesioni sono raccolte individualmente. Una volta depositata la domanda di omologazione (corredata dalle firme dei creditori aderenti che raggiungono il quorum del 60% e da tutta la documentazione finanziaria e l’attestazione), il Tribunale può – su richiesta – sospendere le azioni esecutive dei creditori fino all’omologazione (misure protettive analoghe a quelle del concordato). Segue un controllo di merito limitato: il giudice verifica la regolarità dell’iter, la presenza delle adesioni richieste e soprattutto la fattibilità del piano e la capacità di pagare i creditori estranei nei termini di legge, avvalendosi della relazione dell’attestatore. Se tutto è in regola, emette il decreto di omologazione che rende pienamente efficace l’accordo.
Vantaggi: rispetto al piano attestato, l’ARD ordinario offre il beneficio di poter ottenere una protezione interinale dalle aggressioni dei creditori (richiedendo le misure protettive in tribunale durante la pendenza del procedimento) e di poter gestire la situazione anche senza l’adesione unanime: una volta ottenuto il consenso del 60%, l’accordo può andare avanti. È dunque utile quando molti creditori sono collaborativi ma qualche minoranza potrebbe agire in modo disordinato: la cornice dell’omologazione impedisce iniziative individuali che vanificherebbero lo sforzo comune. Inoltre, l’accordo omologato consente di accedere alle facilitazioni fiscali previste per le sopravvenienze da esdebitazione (analoghe a quelle citate per i piani attestati) e soprattutto permette di concludere anche una transazione fiscale e contributiva con il Fisco e gli enti previdenziali. L’art. 63 CCII infatti consente di includere nell’accordo un trattamento di favore per i debiti tributari e previdenziali (ad esempio stralcio parziale di sanzioni e interessi, pagamento dilazionato del debito erariale) che, fuori da una procedura omologata, non sarebbe ammesso. Questo è cruciale per imprese che hanno debiti fiscali rilevanti: l’accordo di ristrutturazione offre una sede negoziale legalmente riconosciuta per ottenere dallo Stato un sacrificio sui propri crediti, sacrificio che, se il piano è sostenibile, il giudice può rendere efficace anche senza un esplicito assenso dell’Erario (vedremo oltre il cram down fiscale).
Svantaggi: L’ostacolo principale è il requisito del 60% di consensi, che in situazioni molto frammentate o conflittuali può essere difficile da raggiungere. Inoltre, nonostante l’omologazione, i creditori estranei restano fuori dall’accordo e devono essere pagati integralmente e subito: ciò implica che l’azienda deve disporre di risorse finanziarie sufficienti per fronteggiare subito (o in tempi brevissimi) fino al 40% del suo debito (nel caso limite in cui il 60% sia dentro l’accordo e il 40% fuori). Questa esigenza finanziaria può rendere impraticabile l’ARD ordinario per crisi molto gravi dove non vi è liquidità per adempiere verso gli estranei. In quei casi, può essere necessario optare per strumenti che consentano di coinvolgere tutti i creditori con misure anche non satisfattive (come il concordato preventivo). Infine, durante la fase di negoziazione (prima di aver raccolto il 60% di adesioni e depositato l’accordo), l’azienda rimane esposta al rischio di iniziative individuali: se non si chiede o non si ottiene una protezione preventiva (il CCII consente di presentare una richiesta di misure protettive anche prima dell’accordo definitivo, presentando una proposta di accordo con adesioni di almeno il 30% ex art. 54 CCII), c’è il pericolo che qualche creditore impaziente faccia saltare il banco. Dunque il tempismo e la riservatezza nelle trattative sono cruciali.
Accordo di ristrutturazione “agevolato” (consenso del 30%)
Tra le novità introdotte di recente figura l’Accordo di ristrutturazione agevolato (art. 60 CCII), che abbassa significativamente la soglia di adesioni necessarie: basta il 30% dei crediti per poter accedere all’omologazione. Si tratta di un quorum molto più basso (ad esempio, 3 milioni su 10 di debito totale). Tuttavia, questa facilitazione è bilanciata da condizioni restrittive: l’accordo agevolato non può prevedere alcuna moratoria di pagamento per i creditori estranei e non può essere utilizzato se l’imprenditore ha già fatto ricorso, per la medesima crisi, ad altre procedure concorsuali. In particolare, il debitore non deve aver richiesto misure protettive né aver presentato domanda di concordato in bianco nei mesi precedenti. Inoltre – e soprattutto – deve impegnarsi a pagare puntualmente tutti i creditori non aderenti alle loro scadenze originali, senza alcuna dilazione nemmeno breve. In pratica, l’accordo agevolato è concepito per crisi molto iniziali, dove l’imprenditore è ancora in grado di onorare regolarmente una parte rilevante dei debiti (fino al 70% eventualmente) e necessita di ristrutturare solo una porzione relativamente limitata dell’indebitamento.
Pro e contro: Il vantaggio dell’accordo agevolato è, sulla carta, di rendere accessibile l’istituto anche a imprese che non riescono a ottenere il consenso del 60% dei creditori, ma solo di una minoranza significativa (ad esempio un pool di banche che detengono il 30-40% del debito). In questi casi, l’accordo può essere omologato rapidamente e beneficiare anch’esso di tutti gli effetti protettivi e fiscali degli ARD. Inoltre, anche con il 30%, è possibile includere una transazione fiscale e quindi gestire i debiti tributari. La critica mossa da molti esperti, però, è che questa forma “agevolata” sia di fatto difficilmente attuabile nella pratica. L’obbligo di pagamento integrale e tempestivo dei non aderenti implica che l’impresa abbia liquidità sufficiente per far fronte senza alcun ritardo a potenzialmente il 70% dei debiti: una situazione poco compatibile con uno stato di crisi serio. In effetti, si è notato che l’accordo agevolato finisce per assomigliare molto a un piano attestato di risanamento, dal momento che non offre alcuna protezione (non si possono chiedere misure protettive con solo il 30% di adesioni) e non consente di posticipare i pagamenti degli estranei. Di positivo rimangono la possibilità di coinvolgere il Fisco e di far validare l’accordo dal tribunale (dando maggiore sicurezza ai contraenti), nonché di poter ottenere nuova finanza con privilegi prededucibili durante l’esecuzione (cosa che in un piano attestato puro è più rischiosa). In sintesi, l’accordo agevolato può trovare spazio in situazioni molto peculiari, ad esempio quando l’impresa ha un unico settore di debito critico da ristrutturare (es. solo le banche, mentre fornitori ed erario verranno pagati regolarmente). In tutti gli altri casi, la necessità di onorare completamente i creditori estranei lo rende poco utile.
Accordi ad efficacia estesa (verso creditori dissenzienti)
Un ulteriore strumento previsto dal Codice della Crisi (art. 61 CCII) è l’Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa, spesso chiamato anche accordo esteso. Questo meccanismo consente di estendere gli effetti di un accordo omologato anche a creditori che non vi hanno aderito, purché appartenenti a determinate categorie e al ricorrere di specifiche condizioni. È una sorta di “cram down” settoriale, concepito in particolare per superare l’opposizione di minoranze nell’ambito di categorie omogenee di creditori finanziari.
In dettaglio, vi sono due ipotesi principali di efficacia estesa:
- Accordo esteso ai creditori finanziari: se l’impresa ottiene l’adesione di almeno il 75% dei crediti finanziari (banche, intermediari finanziari, obbligazionisti) per la ristrutturazione dei debiti verso di essi, può chiedere al tribunale di estendere l’accordo anche al restante 25% di crediti finanziari dissenzienti o non aderenti. In questo modo, la minoranza di banche o altri finanziatori contrari viene obbligata ad accettare le condizioni concordate dalla maggioranza qualificata del loro stesso ceto. Questa possibilità, introdotta già nel 2015 e ora consolidata nel CCII, mira a evitare che poche banche dissenzienti facciano fallire un accordo che la gran parte degli istituti ha valutato positivamente.
- Accordo esteso a creditori di una medesima categoria: più in generale, l’art. 61 consente, se i creditori aderenti rappresentano almeno il 75% di una certa categoria omogenea, di chiedere l’estensione ai rimanenti della stessa categoria. Ad esempio, potrebbe applicarsi a una categoria di fornitori strategici dell’azienda: se la stragrande maggioranza (75%) accetta di dilazionare o ridurre i crediti, la minoranza di fornitori che rifiuta può essere vincolata ugualmente alle stesse condizioni.
Affinché l’accordo ad efficacia estesa sia approvato, occorre che: (i) ai creditori non aderenti sia stata data la possibilità effettiva di partecipare alle trattative, venendo informati tempestivamente; (ii) un professionista indipendente attesti che l’accordo è conveniente e che i dissenzienti non riceverebbero di più da una liquidazione giudiziale. Inoltre, i creditori coinvolti dall’estensione devono appartenere alla medesima classe o categoria dei aderenti – non si può estendere l’accordo da una categoria eterogenea ad un’altra. Se queste condizioni sono soddisfatte, il tribunale, in sede di omologazione, può dichiarare l’accordo efficace anche per i non firmatari di quella categoria.
Implicazioni: L’accordo ad efficacia estesa rappresenta un notevole rafforzamento della portata degli ARD, perché permette di superare la regola dell’unanimità almeno per gruppi omogenei di creditori. Ad esempio, in passato bastava una banca dissenziente a impedire un accordo complessivo: ora, se 3 banche su 4 sono d’accordo, la quarta potrà essere trascinata nell’accordo (fermo restando il diritto di opposizione in omologazione, dove però la sua posizione sarà valutata alla luce dell’attestazione sulla convenienza). Ciò rende più agevole ottenere ristrutturazioni globali del debito finanziario. Bisogna notare però che questa estensione non copre tutti i tipi di creditori: ad esempio, non si può estendere un accordo dei fornitori commerciali ai fornitori dissenzienti se non c’è una vera “categoria” trattata unitariamente; in pratica l’efficacia estesa è pensata soprattutto per creditori istituzionali (banche, obbligazionisti) o per situazioni in cui i creditori coinvolti hanno interessi simili e sono stati organizzati in categorie ad hoc.
Vantaggi e limiti: Il vantaggio è evidente – aumenta le chance di successo di un accordo, mitigando il rischio di holdout (il comportamento opportunistico del creditore che non aderisce sperando di essere pagato integralmente mentre gli altri accettano un sacrificio). Il limite è che la soglia è comunque alta (75%) e che la procedura richiede un ulteriore livello di analisi: il tribunale dovrà valutare attentamente le opposizioni degli esclusi per assicurarsi che non siano indebitamente penalizzati. In ogni caso, l’accordo ad efficacia estesa è oggi un’opzione da considerare soprattutto nei casi di ristrutturazioni finanziarie complesse, spesso utilizzato in combinazione con la composizione negoziata o come evoluzione di accordi già sottoscritti dal ceto bancario.
Convenzione di moratoria
La Convenzione di moratoria (art. 62 CCII) è un particolare accordo, anch’esso di natura negoziale, che ha però finalità diverse: sospendere temporaneamente le azioni dei creditori e differire le scadenze dei debiti, in attesa di una soluzione di più ampio respiro. In pratica, è un patto di standstill: i creditori concordano di non esigere i loro crediti per un certo periodo e di congelare le posizioni, permettendo all’impresa di guadagnare tempo. La convenzione di moratoria può essere molto utile come soluzione-ponte, ad esempio per mantenere la calma tra i creditori mentre si porta avanti una composizione negoziata della crisi o si finalizza un accordo di ristrutturazione più strutturato.
Dal punto di vista tecnico, la convenzione di moratoria richiede il consenso di una maggioranza del 75% dei crediti di una certa categoria (ad esempio, il 75% delle banche finanziatrici, o il 75% di un certo gruppo di fornitori). Se tale soglia è raggiunta, le condizioni della moratoria si estendono anche ai creditori della medesima categoria che non hanno aderito. In altri termini, funziona in modo simile all’accordo ad efficacia estesa, ma qui ciò che si estende non è un vero e proprio taglio del credito bensì una sospensione o dilazione delle pretese. Tipicamente, i creditori accettano di non avviare né proseguire azioni esecutive o iniziative di recupero per un periodo determinato, e di posticipare le scadenze dei crediti. Questo dà respiro all’azienda. In cambio, spesso, l’impresa fornisce informazioni dettagliate sul piano in preparazione e magari alcune garanzie di buona fede (come l’impegno a non preferire alcuni creditori su altri durante la moratoria).
Perché la convenzione produca effetti sui non aderenti, è necessario che anch’essi abbiano avuto piena informazione delle trattative e delle condizioni proposte e che un attestatore indipendente confermi che la moratoria non li danneggia in confronto alla situazione di riferimento (ad esempio, che attendere qualche mese non li pone in una posizione peggiore rispetto a un immediato scenario liquidatorio). I creditori non aderenti hanno comunque la possibilità di fare opposizione in tribunale entro 30 giorni dalla comunicazione dell’accordo, ma se non emergono irregolarità, la moratoria sarà efficace per tutti i membri di quella categoria.
La convenzione di moratoria non richiede omologazione giudiziale salvo appunto l’eventuale intervento in caso di opposizioni: è quindi uno strumento extragiudiziale puro, sebbene previsto dalla legge. Questa informalità la rende particolarmente adatta a essere utilizzata nell’ambito della composizione negoziata della crisi: se durante le trattative assistite dall’esperto alcuni creditori chiave accettano una moratoria, si può evitare che altri (minoritari) agiscano individualmente, invocando l’estensione legale dell’accordo di standstill.
Vantaggi: La convenzione di moratoria consente di guadagnare tempo prezioso per definire un piano di risanamento più complesso, evitando che l’impresa venga travolta da azioni esecutive nel frattempo. È più facile da accettare per i creditori, perché non implica rinunce definitive (si tratta di attendere, non di rinunciare al credito). Può essere vista come un segno di fiducia: i creditori danno tempo all’impresa perché credono in una soluzione migliore all’orizzonte. Inoltre, coinvolgendo il tribunale solo in caso di contestazioni, mantiene un profilo riservato e snello.
Svantaggi: È comunque richiesta una larga maggioranza (75%) tra i crediti coinvolti, quindi bisogna già avere un buon livello di consenso. Inoltre la moratoria è temporanea e non risolve il problema di fondo: scaduto il termine, se non si è raggiunto un accordo più strutturato (piano attestato, accordo di ristrutturazione o concordato), i creditori torneranno legittimati ad agire. Dunque la convenzione serve solo se c’è realistica prospettiva di arrivare a una soluzione entro il periodo di standstill. Va notato infine che i creditori non aderenti, pur non potendo agire per recupero, non sono obbligati a continuare le loro prestazioni verso l’azienda: ad esempio, una banca dissenziente non sarà costretta a erogare nuovi finanziamenti o mantenere aperte linee di credito oltre il fido già utilizzato. Quindi il beneficio è soprattutto di bloccare azioni legali, ma non garantisce nuovi apporti.
Composizione Negoziata della Crisi
La Composizione Negoziata della Crisi (CNC) è uno degli strumenti più innovativi introdotti di recente (dal D.L. 118/2021, ora disciplinato dagli artt. 12-25 CCII) per la ristrutturazione dei debiti aziendali. Si tratta di una procedura volontaria, riservata e stragiudiziale, pensata per aiutare l’imprenditore in difficoltà a evitare l’insolvenza attraverso la negoziazione assistita con i creditori. La composizione negoziata segna un cambio di paradigma: punta a far emergere prima la crisi e a gestirla con un approccio concordato, anziché arrivare direttamente allo scontro nelle aule giudiziarie.
Chi può accedere e quando: Possono avviare la CNC tutti gli imprenditori commerciali o agricoli, anche di piccole dimensioni (incluse le imprese individuali), che si trovino in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da far prevedere la crisi o l’insolvenza, ma che siano reversibili con interventi appropriati. Importante, la norma (aggiornata nel 2024) chiarisce che vi si può accedere anche se l’azienda è già insolvente o già in crisi conclamata, purché vi sia una concreta possibilità di risanamento. Restano escluse solo le situazioni ormai compromesse senza prospettiva (es. impresa in liquidazione che ha già cessato l’attività da tempo). In pratica la CNC copre un ampio spettro di situazioni, dal semplice squilibrio (ad esempio tensioni di liquidità che potrebbero portare a insolvenza se nulla viene fatto) fino all’insolvenza imminente o attuale, a condizione che ci sia ancora qualcosa da salvare.
Come funziona: L’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio), allegando le informazioni economico-patrimoniali dell’azienda (bilanci, situazione debitoria aggiornata, un piano semplificato di rilancio, etc.). Viene quindi nominato un Esperto indipendente (anche detto esperto negoziatore), scelto da un elenco nazionale, con il compito di affiancare l’imprenditore nelle trattative con i creditori. L’esperto esamina la situazione e, in una serie di incontri riservati, cerca di facilitare il dialogo tra l’azienda e i suoi creditori, allo scopo di individuare una soluzione concordata per la ristrutturazione del debito o il rilancio dell’impresa.
La CNC è riservata: l’avvio della procedura non è pubblicato (a differenza di un concordato preventivo che viene iscritto nel Registro delle Imprese), quindi la reputazione dell’azienda può essere meglio tutelata in questa fase. Solo se l’imprenditore chiede alcune misure al tribunale (vedi oltre) vi sarà pubblicità legale. Durante la composizione negoziata, l’imprenditore rimane in carica e continua a gestire l’impresa; l’esperto non ha poteri sostitutivi, ma solo un ruolo di consulenza e supervisione. Ci si può quindi considerare a tutti gli effetti in una fase pre-concorsuale, dove si tenta il tutto per tutto per evitare di aprire procedure più invasive.
Misure protettive e agevolazioni: Sebbene la CNC in sé sia stragiudiziale, l’imprenditore può chiedere al Tribunale l’applicazione di alcune misure protettive temporanee, che sono cruciali per il successo delle trattative. Le misure protettive consistono principalmente nel blocco delle azioni esecutive e cautelari dei creditori: in pratica, su autorizzazione del giudice, i creditori non possono avviare o proseguire pignoramenti, sequestri o altre azioni per il recupero dei crediti per la durata della negoziazione (inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili). Ciò crea un “ombrello” sotto il quale dialogare con più serenità, senza la spada di Damocle di un’imminente esecuzione forzata sul patrimonio aziendale. Le misure protettive non scattano automaticamente: occorre una valutazione del Tribunale, che le concede se ritiene che vi siano concrete possibilità di esito positivo e che l’azienda non stia solo guadagnando tempo in malafede. È prevista l’iscrizione dell’esistenza delle misure nel Registro delle Imprese (quindi una certa pubblicità), e i creditori possono opporsi se ritengono lesi i loro diritti.
Oltre al blocco delle azioni esecutive, il tribunale (su istanza motivata) può autorizzare durante la CNC atti di straordinaria amministrazione indispensabili per la continuità aziendale o finanziamenti prededucibili (ossia che saranno rimborsati con precedenza) per sostenere l’attività. Queste autorizzazioni creano un quadro regolato in cui l’impresa può, ad esempio, ottenere nuova liquidità garantita dalla prededuzione, oppure vendere beni non strategici per fare cassa, anche in assenza del consenso unanime di tutti i creditori.
Esiti possibili: La composizione negoziata si può concludere in vari modi, a seconda di ciò che le parti riescono a concordare:
- Se le trattative hanno successo, si può formalizzare un accordo di ristrutturazione stragiudiziale con i creditori (ad esempio, un accordo con banche per rimodulare i prestiti, piani di rientro con fornitori, eventuali nuovi apporti di capitali da soci o terzi). Questo accordo privato, magari non coinvolgendo tutti i creditori, potrà eventualmente essere “perfezionato” in un secondo momento ricorrendo a uno degli strumenti giudiziali visti sopra (ad esempio, potrebbe sfociare in un accordo di ristrutturazione ex art. 57 se serve l’omologa, oppure in un concordato preventivo se si vuole coinvolgere anche i dissenzienti in una soluzione unitaria). In alcuni casi, però, l’accordo raggiunto nella CNC potrebbe essere sufficiente di per sé, senza necessità di ulteriori procedure, specie se tutti i principali creditori vi partecipano. L’importante è che l’obiettivo venga centrato: evitare il dissesto e ripristinare la sostenibilità dell’indebitamento.
- Se le trattative non portano a un accordo e l’impresa è comunque meritevole di una soluzione, è possibile – solo per l’imprenditore – presentare entro 60 giorni una proposta di Concordato preventivo “semplificato” per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Questo è uno strumento speciale introdotto proprio come “via d’uscita” dalla CNC fallita: in sostanza l’imprenditore, invece di subire passivamente il fallimento, può proporre al tribunale un concordato liquidatorio senza votazione dei creditori, da omologare se offre ai creditori un soddisfacimento non inferiore a quello ricavabile dalla liquidazione giudiziale. È definito “semplificato” perché non c’è la fase di voto: i creditori, ricevuta la proposta, possono eventualmente opporsi in sede di omologazione, ma la decisione finale spetta al giudice. Questo strumento evita che la composizione negoziata si concluda sempre e solo con un fallimento in caso di esito negativo, fornendo una chance ulteriore di regolare la crisi in modo ordinato (ad esempio attraverso la cessione competitiva dei beni aziendali sotto il controllo del tribunale). Da notare che il concordato semplificato è riservato a chi ha tentato la CNC: non è accessibile direttamente, a conferma che il legislatore lo vede come extrema ratio solo dopo un tentativo di risanamento.
- In mancanza di accordi o di iniziative dell’imprenditore, se la situazione resta insolvente i creditori potranno comunque attivarsi per la liquidazione giudiziale (il fallimento). L’esperto al termine della procedura redige un protocollo di chiusura in cui valuta le cause dell’insuccesso e lo comunica alla Camera di Commercio; questa relazione potrebbe anche rilevare eventuali responsabilità dell’imprenditore (ad esempio inerzie colpevoli) che in futuro potrebbero essere esaminate dal Tribunale fallimentare.
Vantaggi: La Composizione Negoziata offre numerosi benefici. È riservata (nessuna iscrizione iniziale pregiudizievole) e ciò evita il panico tra clienti e fornitori. Permette di beneficiare di una figura professionale terza che guida le trattative: l’esperto negoziatore, grazie alla sua indipendenza, può aiutare a ristabilire la fiducia e a trovare soluzioni creative, laddove magari l’imprenditore da solo non avrebbe la credibilità per proporle. L’esperto valuta la risanabilità dell’azienda e, se ritiene che ci siano prospettive concrete, sollecita i creditori a fare concessioni ragionevoli nell’ottica di ottenere di più dalla continuità aziendale rispetto a quanto otterrebbero da una liquidazione. Altro vantaggio è la flessibilità: la CNC non predetermina un esito unico, ma può portare a un ventaglio di soluzioni (accordo privato, accordo omologato, concordato, cessione dell’azienda, ecc.), anche combinabili. Durante la procedura, l’imprenditore resta in possesso dell’azienda (DIP – debtor in possession), quindi può proseguire l’attività e implementare azioni correttive (con il supporto dell’esperto). Le eventuali misure protettive danno respiro sul breve termine, bloccando pignoramenti e aggressioni sul patrimonio. In più, sul piano finanziario, la normativa prevede incentivi: ad esempio crediti dei nuovi fornitori o finanziatori durante la CNC possono essere riconosciuti come prededucibili (quindi con priorità di rimborso) e sono previsti crediti d’imposta sulle perdite registrate nel bilancio durante la procedura (misure introdotte dal DL 118/2021 per incoraggiare l’uso dello strumento). Un altro aspetto positivo è che la CNC può fungere da “ponte” verso soluzioni più strutturate: spesso si usa la composizione negoziata per predisporre un successivo concordato preventivo più solido, avendo già testato il terreno con i creditori.
Infine, la Composizione Negoziata è accessibile anche alle piccole imprese e alle ditte individuali (non ha requisiti dimensionali minimi), categoria che storicamente faticava ad usufruire delle procedure concorsuali classiche. Questo la rende uno strumento fondamentale per il tessuto delle PMI italiane.
Rischi e svantaggi: La CNC, per quanto promettente, non garantisce il successo. Se non c’è una reale possibilità di risanamento, rischia di far perdere tempo e aggravare il dissesto (ad esempio accumulando ulteriori debiti durante i mesi di trattativa). È quindi essenziale, prima di avviarla, effettuare una diagnosi seria sulla fattibilità del salvataggio. Un altro rischio è legato alla qualità delle informazioni fornite: l’imprenditore che approccia la CNC deve essere trasparente e completo nell’illustrare la propria situazione; dati incompleti o fuorvianti possono far perdere subito la fiducia sia dell’esperto che dei creditori, facendo naufragare l’iniziativa e magari peggiorando la reputazione dell’imprenditore. Inoltre, le misure protettive non sono automatiche né garantite: se il tribunale le nega (ritenendo ad esempio che l’azienda non sia risanabile), l’impresa si troverà esposta durante le trattative, con i creditori liberi di agire. Va poi considerato che la CNC non impone sacrifici ai creditori dissenzienti: se alcuni rifiutano ogni proposta, l’imprenditore non ha strumenti coattivi in questa fase (dovrà eventualmente ricorrere al concordato o ad accordi omologati). Pertanto, la riuscita dipende molto dalla collaborazione volontaria dei principali stakeholder. In termini di costi, la procedura in sé è gratuita (non ci sono spese di giustizia per attivarla), ma ovviamente comporta i costi dei professionisti coinvolti (advisor, legali, l’esperto stesso la cui parcella è determinata secondo tariffario ministeriale e posta a carico dell’impresa).
Nonostante questi limiti, l’esperienza sta dimostrando un crescente apprezzamento dello strumento: nel 2024 le domande di composizione negoziata presentate dalle imprese sono quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente (da circa 600 a oltre 1.080). Ciò indica che sempre più imprenditori vedono nella CNC un’opportunità concreta per affrontare la crisi. I dati Unioncamere evidenziano anche come le imprese di maggiori dimensioni tendano ad avere più successo nella CNC (grazie a strutture organizzative e piani più solidi), mentre le piccole spesso faticano e necessitano di supporto consulenziale per trarne beneficio.
In conclusione, la Composizione Negoziata è un ottimo strumento “early-stage”: conviene attivarla quando ci si accorge dei primi segni di difficoltà, senza aspettare che la situazione precipiti. Se ben utilizzata, può evitare il default e gettare le basi di un risanamento duraturo, come confermato dalla crescente fiducia riposta in essa dal sistema imprenditoriale italiano.
Concordato Preventivo
Il Concordato Preventivo è la procedura concorsuale giudiziale per eccellenza attraverso cui un imprenditore in stato di crisi o insolvenza cerca di evitare la liquidazione fallimentare mediante un accordo con i creditori, sotto il controllo del tribunale. Previsto dagli artt. 84-120 CCII, il concordato preventivo ha radici storiche profonde ma si è evoluto con la riforma del Codice della Crisi, che ne ha conservato l’impianto generale introducendo però alcune novità quanto a requisiti e forme. Si tratta di una procedura pubblica e formale: l’imprenditore propone un piano di trattamento dei debiti e lo sottopone al voto dei creditori; se la maggioranza approva e il tribunale verifica la legalità e fattibilità della proposta, si arriva all’omologazione e il concordato diventa vincolante per tutti i creditori anteriori.
Due sono le macro-tipologie di concordato previste: il concordato in continuità aziendale e il concordato liquidatorio. Approfondiamo separatamente le due fattispecie, pur con molte regole comuni.
Concordato in Continuità Aziendale
Nel concordato in continuità aziendale l’imprenditore propone ai creditori un piano che prevede la prosecuzione dell’attività d’impresa, in modo da generare nel tempo i flussi economici necessari a soddisfare i crediti (almeno in parte). La continuità può essere diretta (l’azienda rimane in mano al debitore che la gestisce durante e dopo la procedura) oppure indiretta, ad esempio mediante la cessione o il conferimento dell’azienda a un soggetto terzo che assicuri la continuità operativa (il classico caso: la società indebitata viene ceduta in affitto o venduta a un investitore, che prosegue l’attività assumendo anche parte del personale, e il ricavato della cessione va ai creditori). L’elemento chiave è che vi sia un valore aggiunto dalla continuità rispetto alla liquidazione: in pratica i creditori accettano di aspettare (e magari ridurre le proprie pretese) perché confidano che lasciando l’azienda in funzione otterranno un soddisfacimento migliore che vendendone subito i pezzi.
Struttura del piano: Nel concordato in continuità il piano può prevedere una vasta gamma di misure di ristrutturazione: rinegoziazione dei debiti, dilazioni pluriennali di pagamento, conversione di parte dei crediti in quote di capitale (debt-equity swap), dismissione di asset non strategici, ricorso a nuova finanza (che godrà di privilegio di prededuzione), taglio dei costi e riorganizzazione aziendale, ecc. Spesso sono coinvolti investitori terzi o i soci stessi, che apportano nuove risorse per sostenere il piano. Non c’è un vincolo legale di soddisfare integralmente i creditori (a differenza dei piani attestati o ARD per i creditori estranei): si possono proporre pagamenti parziali (falcidie dei crediti) purché rispettino l’ordine delle cause di prelazione e le altre regole di legge. Ad esempio, i creditori privilegiati (muniti di pegno, ipoteca o privilegio) devono in genere essere pagati integralmente almeno fino a concorrenza del valore di realizzo delle garanzie sui beni, mentre la parte eccedente (che diventerebbe chirografaria) può subire una falcidia se giustificata. I creditori chirografari (senza garanzie) in continuità non hanno per legge una percentuale minima garantita (diversamente dal concordato liquidatorio, come vedremo), ma la proposta deve comunque assicurare loro una soddisfazione ragionevolmente superiore a quella che otterrebbero dalla liquidazione dell’impresa. Questo principio del miglior soddisfacimento rispetto al fallimento è fondamentale: il tribunale in sede di omologa lo valuterà (c.d. convenienza del concordato).
Procedure e maggioranze: Il concordato preventivo si apre con il deposito di una domanda presso il tribunale competente. L’imprenditore può presentarla in due modi: o con il piano e la proposta definitivi (concordato “prenotativo” detto anche concordato con riserva), oppure con una semplice richiesta di termini per presentare il piano (il cosiddetto concordato in bianco, art. 44 CCII). Quest’ultima opzione consente, in situazioni d’urgenza, di ottenere subito le protezioni della procedura (lo stay delle azioni esecutive) e poi avere un termine (di norma 60-120 giorni) per preparare il piano dettagliato. Una volta depositato il piano, il tribunale valuta l’ammissibilità giuridica e la fattibilità iniziale, nominando un Commissario Giudiziale (un professionista che vigilerà sull’operato del debitore) e fissando un termine per lo svolgimento delle operazioni di voto dei creditori. I creditori vengono suddivisi in classi secondo posizione giuridica ed interessi omogenei (ad esempio: classe banche chirografarie, classe fornitori chirografari, classe dipendenti per TFR, ecc.); ciascuna classe voterà separatamente sul piano proposto. Per l’approvazione serve il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto in ciascuna classe (maggioranza semplice >50% dell’ammontare) – il CCII ha mantenuto questo meccanismo classistico senza introdurre un vero cram-down interclassi, a differenza di quanto auspicato dalla direttiva europea. Dunque, se una classe vota contro a maggioranza, il concordato non può essere omologato (salvo forse eccezioni particolari per il cram-down fiscale di cui sotto). Se invece tutte (o comunque la maggioranza delle classi) approvano, il tribunale passa alla fase di omologazione: verifica il rispetto di requisiti formali e di merito (assenza di cause di inammissibilità, fattibilità del piano, convenienza per i creditori dissenzienti rispetto all’alternativa liquidatoria). In un concordato in continuità puro, il tribunale non entra nel merito della fattibilità economica se non per escludere piani manifestamente irrealizzabili (una regola introdotta per limitare interventi eccessivi del giudice sulla discrezionalità imprenditoriale). Se tutto è a posto, viene emanato il decreto di omologa e il piano concordatario diviene vincolante per tutti i creditori anteriori.
Vantaggi: Il concordato in continuità è spesso l’unico strumento in grado di gestire situazioni di crisi molto estese, perché coinvolge tutti i creditori e permette di imporre sacrifici anche ai dissenzienti, nell’interesse comune di evitare il default. Offre il quadro normativo più completo: standstill automatico (dal momento del deposito, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive), possibilità di sciogliersi da contratti onerosi con autorizzazione (art. 97 CCII), possibilità di ottenere finanziamenti prededucibili autorizzati dal giudice per sostenere l’attività in esercizio, ecc. Inoltre, una volta omologato, il concordato produce l’effetto esdebitatorio: l’imprenditore è liberato dai debiti pregressi secondo quanto previsto nel piano (la parte falcidiata dei crediti viene definitivamente cancellata). Ciò consente un reale fresh start all’azienda risanata. Dal punto di vista dei creditori, se ben congegnato, il concordato in continuità può offrire un recovery migliore della liquidazione: ad esempio evitando la dispersione di un know-how aziendale, preservando posti di lavoro (il che può dare accesso a strumenti di supporto, come il fondo di garanzia per la continuità o trattamenti di integrazione salariale straordinaria durante la procedura). È una procedura sorvegliata, dove trasparenza e parità di trattamento sono garantite dal commissario e dal giudice: questo può favorire la fiducia rispetto a soluzioni solo private.
Svantaggi: Di contro, il concordato in continuità è una procedura complessa, lunga e costosa. Richiede la redazione di piani dettagliati e di relazione attestativa da parte di un professionista, comporta l’intervento di diversi attori (giudice, commissario, eventuale giudice delegato, comitato creditori) e ha tempistiche non brevi (spesso 6-12 mesi almeno per arrivare all’omologa, se non di più in casi con molti creditori). Durante questo periodo, l’impresa opera sotto vincoli stringenti: ogni atto di straordinaria amministrazione necessita di autorizzazione, il commissario monitora la gestione e riferisce al tribunale, e se il debitore viola regole o perde il controllo della situazione, la procedura può essere revocata e trasformata in liquidazione giudiziale. Inoltre, serve il consenso delle maggioranze di creditori: convincere i creditori a votare sì può non essere scontato, specie se vi sono categorie molto eterogenee. I creditori garantiti spesso si oppongono se ritengono di poter recuperare di più dalle garanzie fuori dal concordato; i creditori chirografari devono essere persuasi che il piano è serio e conveniente. Non di rado occorre negoziare modifiche al piano durante la procedura stessa (è ammessa la presentazione di proposte concorrenti da parte di creditori o terzi in determinate condizioni, oppure il debitore può modificare la propria proposta migliorandola per ottenere i voti, con avviso ai creditori). Questa dinamica può allungare i tempi e generare contenziosi.
C’è poi il tema dell’esecuzione: omologato il concordato, l’azienda deve eseguire puntualmente il piano negli anni successivi. Se non rispetta gli impegni, si può giungere alla risoluzione del concordato e alla riapertura del fallimento. Per questo i creditori e il tribunale sono spesso molto esigenti nel valutare la fattibilità del piano: ad esempio, la Cassazione ha chiarito che in caso di fallimento sopravvenuto prima che il concordato esaurisca i suoi effetti, i creditori non perdono automaticamente la parte non pagata (dipende da quando interviene il fallimento rispetto ai termini di risoluzione). Ciò sottolinea come un concordato non sia un “liberi tutti”, ma un percorso impegnativo che deve davvero portare a risultati concreti.
Concordato Liquidatorio
Il concordato liquidatorio (o concordato con liquidazione del patrimonio) è la forma in cui l’impresa, riconoscendo di non poter proseguire l’attività, propone ai creditori di liquidare in modo ordinato i propri beni distribuendone il ricavato, anziché subire una liquidazione giudiziale (fallimento) incontrollata. In pratica, è una dissoluzione guidata: l’azienda cessa l’attività (salvo quel minimo necessario a vendere al meglio gli asset) e tutto il patrimonio viene destinato a soddisfare i creditori secondo un piano. Perché i creditori dovrebbero accettare un concordato liquidatorio invece di far fallire l’impresa? Principalmente perché il concordato liquidatorio può offrire maggiori vantaggi: ad esempio, una vendita unitaria dell’azienda o di rami aziendali può spuntare un prezzo più alto di una vendita frammentata in fallimento; oppure i soci o terzi possono apportare risorse fresche aggiuntive (denaro nuovo) per aumentare il monte distribuito ai creditori (cosa non obbligatoria nel fallimento); inoltre i tempi possono essere più rapidi e con costi procedurali inferiori rispetto al fallimento.
Requisiti particolari: La legge, tuttavia, è consapevole che il concordato liquidatorio rischia di diventare un semplice “fallimento concordato” se non si fissano paletti. Pertanto, già la vecchia legge fallimentare e ora l’art. 84 CCII stabiliscono precisi requisiti di ammissibilità: (1) il piano deve assicurare il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari (ossia i creditori senza garanzia devono ricevere almeno il 20% del loro credito); (2) il piano deve prevedere un apporto di risorse esterne che incrementi l’attivo almeno del 10%. Le risorse esterne sono tipicamente denaro o asset apportati dai soci o da terzi, che non sarebbero disponibili in caso di liquidazione giudiziale. Questa doppia condizione (20% minimo ai chirografi + 10% attivo esterno) serve a garantire che il concordato liquidatorio offra un dividendo non puramente simbolico e che apporti un plus rispetto al fallimento. Ad esempio, se un’azienda ha patrimonio liquidabile per ipoteticamente 30 centesimi per ogni euro di debito chirografario, il legislatore vuole che nel concordato ne dia almeno 20 (quindi > in molti casi dell’alternativa fallimentare, dove di solito i chirografi prendono percentuali molto basse) e che almeno una parte di quei 20 (ad esempio 3 su 20, equivalenti al 10% dell’attivo totale) provenga da soldi nuovi (non solo dalla vendita dei beni esistenti). Se queste soglie non sono raggiungibili, l’azienda dovrà ripiegare sulla liquidazione giudiziale ordinaria.
Funzionamento: Per il resto, la procedura è simile al concordato in continuità: anche qui il debitore può presentare domanda con piano, viene nominato un commissario, i creditori votano per classi (di solito in un liquidatorio classi distinte tra privilegiati – che in larga parte vengono soddisfatti sui beni – e chirografari che prenderanno la percentuale proposta). Se le classi approvano e il tribunale omologa, si procede all’attuazione del piano liquidatorio. Spesso il piano prevede che un liquidatore (che può essere il commissario medesimo o altro soggetto nominato) si occupi materialmente di vendere i beni (immobili, macchinari, crediti, eventuali azioni legali, etc.) secondo le modalità e le garanzie indicate nel piano e sotto la supervisione del tribunale e del comitato dei creditori. Le vendite possono avvenire in blocco (es: cessione dell’intero complesso aziendale a un prezzo concordato con un acquirente già individuato durante la procedura, magari tramite una gara informale tra interessati) o frazionate, ma tendenzialmente l’idea è di massimizzare il realizzo in tempi ragionevoli. Una volta monetizzato il patrimonio, si effettuano i riparti ai creditori nelle percentuali stabilite (privilegiati fino a copertura del loro grado, chirografi almeno al 20%, ecc.). Dopo l’esecuzione, l’azienda viene cancellata e i debiti residui stralciati per effetto esdebitatorio del concordato.
Pro e contro: Il concordato liquidatorio è utile quando non esiste possibilità di salvare l’impresa come attività funzionante, ma c’è l’interesse a evitare una liquidazione giudiziale “classica”. Può darsi che i soci o la famiglia imprenditoriale vogliano evitare il disonore del fallimento e siano disposti a immettere un po’ di risorse personali per chiudere i conti con i creditori in sede concordataria. Oppure può darsi che ci sia sul tavolo una offerta d’acquisto per l’azienda o per alcuni beni, condizionata al concordato, che garantisce un certo ritorno ai creditori subito (ad esempio, un investitore propone di rilevare l’immobile aziendale e alcuni asset per X euro, assicurando così i fondi per pagare la percentuale ai creditori: in fallimento quell’offerta potrebbe non concretizzarsi con la stessa efficacia). Dunque il vantaggio per i creditori è di solito ottenere una liquidazione più efficiente e con un dividendo determinato, spesso migliore rispetto alle incertezze di un fallimento. Inoltre, i tempi del concordato liquidatorio, pur non brevi, possono essere inferiori a quelli di molti fallimenti, perché il piano predefinisce strategie di realizzo. Dal lato dell’imprenditore, oltre a ragioni di reputazione, c’è un vantaggio concreto: egli potrà chiedere l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui) subito dopo la chiusura del concordato, mentre nel fallimento dovrebbe aspettare la chiusura della procedura e fare apposita istanza, con parametri diversi.
Gli svantaggi rispetto al concordato in continuità sono evidenti: qui l’azienda viene sacrificata, per cui non c’è prosecuzione dell’attività economica. I posti di lavoro normalmente saltano (salvo riassunzione da parte di eventuali acquirenti di beni, ma nulla di garantito dalla procedura stessa). Inoltre, le soglie del 20% e 10% possono in alcuni casi essere un ostacolo: se il patrimonio non consente quei valori, l’azienda potrebbe non avere accesso al concordato pur volendolo, e dover andare in liquidazione giudiziale. Ad esempio, aziende con attivo quasi del tutto assorbito da creditori privilegiati potrebbero non riuscire a far emergere un 20% per i chirografi. In tali situazioni, si può solo confidare in un apporto esterno straordinario, oppure preferire la liquidazione fallimentare (dove i creditori prenderanno magari meno del 20%, ma quello è…).
Inoltre, anche per il concordato liquidatorio serve il voto favorevole dei creditori: se i creditori ritengono di poter ottenere di più dal fallimento (ad esempio perché il piano sottostima certi beni, o perché non si fidano del proponente), potrebbero votare contro. Occorre quindi preparare il piano in modo convincente e magari coinvolgere attivamente i principali creditori nella sua definizione.
Concordato semplificato post composizione negoziata: Accenniamo qui che un caso particolare di concordato liquidatorio è quello semplificato previsto dall’art. 25-sexies CCII (derivante dal DL 118/2021) attivabile senza voto dei creditori qualora la composizione negoziata non abbia prodotto accordo. Questo strumento, come già detto, consente al tribunale di omologare un concordato liquidatorio anche senza il consenso dei creditori (niente adunanza, solo eventuali opposizioni) purché sia rispettata la cosiddetta best interest of creditors test (i creditori devono ricevere almeno quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale). In questo concordato semplificato non valgono espressamente i limiti del 20% e dell’apporto esterno: è una procedura extra ordinem, pensata per evitare il fallimento quando magari ci sono comunque opportunità di realizzo non sfruttabili in fallimento (ad es. vendere l’azienda in blocco rapidamente). Essendo riservato ai casi post-CNC, non è uno strumento di accesso generale, ma lo menzioniamo perché nel panorama 2025 è anch’esso un’opzione (difatti alcune imprese hanno già utilizzato questa scorciatoia in esito a composizioni negoziate infruttuose).
Liquidazione Giudiziale (ex Fallimento)
La Liquidazione Giudiziale è il nuovo nome che il Codice della Crisi attribuisce alla procedura di fallimento (disciplinata dagli artt. 121-283 CCII). Rappresenta la soluzione di ultima istanza quando l’impresa è insolvente e non vi sono prospettive di risanamento o accordi con i creditori: è una procedura distruttiva e sanzionatoria in cui il patrimonio del debitore viene acquisito da un organo pubblico (il curatore) e liquidato integralmente a beneficio dei creditori. In questa guida, focalizzata sulla ristrutturazione, la Liquidazione Giudiziale costituisce più che altro lo scenario da evitare, ma è importante descriverne in breve i tratti perché spesso funge da benchmark (parametro di confronto) per valutare la convenienza delle soluzioni alternative.
Quando viene aperta una liquidazione giudiziale, l’imprenditore perde la gestione dell’azienda: il tribunale nomina un Curatore che prende in mano i beni e l’attività. Di solito l’impresa cessa l’attività, salvo casi in cui il curatore la prosegua temporaneamente per vendere meglio l’azienda. Viene dichiarato lo stato di insolvenza e tutti i creditori anteriori devono presentare domanda di insinuazione al passivo. Si forma lo stato passivo (l’elenco dei debiti ammessi, classificati per grado di privilegio) e successivamente il curatore procede a vendere i beni mobili, immobili, crediti, rami d’azienda, ecc., sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. Le somme ricavate, detratte le spese di procedura, vengono distribuite secondo l’ordine delle cause di prelazione: prima i creditori prededucibili (es. finanziamenti accordati in precedenti procedure concorsuali, spese di giustizia, ecc.), poi quelli privilegiati (dipendenti, fisco, banche ipotecarie, ecc. ognuno nel proprio grado), infine se avanza qualcosa i chirografari. Spesso questi ultimi recuperano poco o nulla. Alla fine, il tribunale emette il decreto di chiusura della procedura.
Differenze rispetto a prima: La liquidazione giudiziale nel CCII ha modalità simili al vecchio fallimento, ma con alcuni miglioramenti procedurali per accelerare i tempi (ad esempio, maggiore digitalizzazione, possibilità di chiusura immediata se non c’è attivo sufficiente, ecc.). Una differenza importante è la possibilità di accedere più facilmente all’esdebitazione per l’imprenditore persona fisica (in pratica la “discarica” dei debiti insoddisfatti a fine procedura, se il fallito ha collaborato lealmente). Inoltre, i soggetti non fallibili (piccoli imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli) non vengono dichiarati in liquidazione giudiziale ma in liquidazione controllata (procedura analoga ma minore). Per le società, invece, la liquidazione giudiziale comporta lo scioglimento e la successiva estinzione della società stessa.
Implicazioni pratiche: Dal punto di vista di chi affronta una crisi, la liquidazione giudiziale è la situazione da scongiurare salvo impossibilità di alternative. Essa comporta infatti la totale perdita dell’azienda da parte dell’imprenditore, possibili responsabilità anche penali se emergono irregolarità nella gestione pregressa, la definitiva cessazione dell’attività con impatto sociale (licenziamento dei dipendenti), e in generale tempi lunghi di recupero per i creditori. È vero che in certi casi il fallimento può risultare conveniente per alcuni creditori (es. un creditore ipotecario può immediatamente procedere alla vendita del bene ipotecato con le forme del fallimento, mentre avrebbe osteggiato un concordato per evitare attese), ma spesso anche per i creditori il fallimento significa minor soddisfacimento e tempi più incerti. Ad esempio, creditori chirografari nel 2024 ottengono in media percentuali a una cifra nelle liquidazioni giudiziali, e dopo vari anni; in un concordato avrebbero potuto prendere il 20-30% magari in uno-due anni.
Quando è inevitabile: La liquidazione giudiziale diventa purtroppo inevitabile quando l’impresa è irrisanabile, cioè quando non è in grado di generare più valore come entità funzionante e non ci sono terzi disposti a investire in una ristrutturazione. Tipicamente: crollo del fatturato senza prospettive, indebitamento enorme rispetto all’attivo, perdita di fiducia totale nel mercato (fornitori che non consegnano più, clienti fuggiti), aggravamento dovuto a mala gestione (es. distrazione di beni). In questi casi aprire subito la procedura concorsuale liquidatoria può servire a cristallizzare la situazione, evitando ulteriore aumento dei debiti, e a distribuire equamente ciò che resta. Non a caso, la legge prevede obblighi di amministratori e sindaci di attivarsi, e se necessario portare i libri in tribunale, quando la situazione è compromessa oltre rimedio.
Rapporto con le altre procedure: Molto spesso, la liquidazione giudiziale interviene come epilogo di tentativi falliti di soluzione. Ad esempio, se un concordato preventivo viene dichiarato inammissibile o viene revocato, il tribunale contestaualmente dichiara la liquidazione giudiziale dell’impresa debitrice (su istanza di creditori o d’ufficio in alcuni casi). Oppure, se durante una composizione negoziata l’esperto rileva che l’imprenditore non collabora o non vi sono soluzioni, può segnalarlo e i creditori possono decidere di mettere in fallimento l’impresa. Dal punto di vista concettuale, la liquidazione giudiziale rappresenta dunque lo sfondo su cui si proiettano le altre soluzioni: qualunque piano o concordato deve assicurare ai creditori almeno quanto avrebbero da una liquidazione giudiziale, altrimenti non sarà né approvato né omologato. Questo cosiddetto “best interest of creditors test” (test del miglior interesse dei creditori) è un principio cardine: se un piano di ristrutturazione offre ai creditori meno di quello che una liquidazione giudiziale farebbe ottenere, i creditori e il tribunale opteranno per la liquidazione. Perciò, quando si costruisce un percorso di risanamento, si tiene sempre come riferimento l’alternativa liquidatoria, cercando di superarla in efficienza.
In conclusione, la liquidazione giudiziale è l’ultima spiaggia che si cerca di evitare con gli strumenti di ristrutturazione del debito sopra descritti. Tuttavia, va tenuta presente come possibilità concreta e, in casi estremi, come soluzione necessaria per chiudere una storia aziendale purtroppo non più recuperabile.
Strumenti per imprenditori minori e sovraindebitamento
Completiamo la rassegna degli strumenti segnalando che il Codice della Crisi prevede procedure specifiche anche per i debitori non fallibili (i cosiddetti sovraindebitati), categoria che include ad esempio i piccoli imprenditori sotto le soglie di fallibilità, gli imprenditori agricoli (tradizionalmente esclusi dal fallimento) e le persone fisiche consumatrici o professionisti. Pur essendo il focus di questa guida la ristrutturazione dei debiti aziendali, è opportuno menzionare brevemente queste soluzioni per completezza, specialmente per quei casi di micro-imprese individuali che potrebbero rientrare nel sovraindebitamento.
Le procedure ad hoc sono:
- Concordato minore: è la versione “ridotta” del concordato preventivo per i debitori minori. Funziona in modo analogo al concordato preventivo (piano, voto dei creditori, omologa) ma senza i rigidi requisiti di percentuale minima e con maggior flessibilità, dato che l’obiettivo spesso non è la continuità aziendale ma evitare sanzioni personali al piccolo imprenditore. Il concordato minore consente anche al debitore persona fisica di conservare, in parte, il necessario per il sostentamento. È lo strumento consigliabile per il piccolo imprenditore individuale sovraindebitato che voglia proporre un saldo e stralcio ai propri creditori ed evitare la liquidazione personale.
- Piano di ristrutturazione del consumatore: dedicato ai soggetti persone fisiche che hanno debiti principalmente non professionali (es. privati cittadini). Non si applica direttamente a debiti d’impresa, quindi esula dall’ambito aziendale stretto, ma va ricordato che l’imprenditore individuale potrebbe a volte accedere a questo se i debiti sono promiscui. È un piano simile a quello del concordato minore, ma senza voto dei creditori: decide tutto il giudice, valutando la fattibilità e meritevolezza.
- Liquidazione controllata: è l’equivalente del fallimento per i sovraindebitati non fallibili. Se un piccolo imprenditore sotto soglia è insolvente e non ci sono i presupposti per un accordo o un concordato minore, i creditori possono chiederne la liquidazione controllata ex art. 268 CCII. Un liquidatore vende i beni e distribuisce il ricavato. Al termine, la persona fisica può chiedere l’esdebitazione di diritto (anche senza pagamento di alcun dividendo, in casi di assoluta incapienza, attraverso la cosiddetta esdebitazione del debitore incapiente).
Perché è utile citare queste procedure? Perché molte micro-imprese (pensiamo ad esempio a una ditta individuale artigiana con pochi dipendenti) potrebbero non rientrare nelle grandi procedure come il concordato preventivo o la composizione negoziata (quest’ultima invece accessibile, quindi potrebbero provarci). In caso di fallimento “impossibile” per limiti di legge, il concordato minore e affini sono gli strumenti predisposti per comunque consentire una ristrutturazione dei debiti o una liberazione dagli stessi. Ad esempio, un imprenditore agricolo indebitato può ricorrere al concordato minore oppure a un accordo di composizione (il vecchio accordo del consumatore ora assorbito), con l’ausilio di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC).
In ottica aziendale stretta, però, queste procedure restano marginali, in quanto le società e gli imprenditori commerciali sopra soglia devono utilizzare gli strumenti maggiori illustrati in precedenza. Vale la pena sottolineare che le soglie di fallibilità attuali (art. 2 CCII) non sono elevate: è considerato “sotto soglia” l’imprenditore che negli ultimi 3 esercizi non ha superato 300.000 euro di attivo patrimoniale, 200.000 euro di ricavi lordi annui e 500.000 euro di debiti (almeno uno di questi parametri). Chi supera anche solo uno di tali limiti è soggetto alle procedure concorsuali ordinarie (concordato preventivo, liquidazione giudiziale, ecc.).
Dunque, la stragrande maggioranza delle aziende di dimensioni anche medio-piccole rientra nel campo di applicazione degli strumenti principali (piani attestati, accordi 60% o 30%, composizione negoziata, concordati). Le procedure di sovraindebitamento restano per i casi più piccoli o peculiari, come ad esempio ditte individuali artigiane familiari, aziende agricole tradizionali, start-up innovative se non superano soglie, e così via. In tali casi, l’approccio è simile: tentare un accordo con i creditori (il Codice consente anche qui degli accordi semplificati) oppure, se non possibile, procedere a una liquidazione ordinata con eventuale esdebitazione.
Orientamenti Giurisprudenziali Recenti (2023-2025)
Passiamo ora a esaminare alcune pronunce giurisprudenziali rilevanti degli ultimi anni in materia di ristrutturazione del debito d’impresa. La normativa essendo nuova ha richiesto l’intervento dei giudici, soprattutto della Corte di Cassazione, per chiarire dubbi applicativi e consolidare principi interpretativi. Riportiamo i principali orientamenti aggiornati al 2025:
- Omologazione forzata del concordato nonostante il voto contrario del Fisco (cd. “cram down fiscale”): Un tema caldo ha riguardato la possibilità per il tribunale di omologare un concordato preventivo anche se l’Agenzia delle Entrate o l’INPS (detentori di crediti tributari o contributivi) votano no alla proposta. La legge (art. 180 L.F. e oggi art. 112 CCII) prevede che il giudice può superare la mancata adesione del Fisco se la proposta garantisce al credito erariale un soddisfacimento non inferiore a quello ottenibile dalla liquidazione e se il diniego risulta ingiustificato. Su questo, la Cassazione ha assunto una posizione chiara con l’ordinanza n. 27782 del 28 ottobre 2024, affermando che la regola dell’art. 180, comma 4 L.F. (in vigore ratione temporis) si applica sia in caso di mancata espressione di voto da parte del Fisco, sia in caso di voto negativo espresso. In altre parole, il tribunale può approvare coattivamente il concordato anche contro il parere contrario dell’Erario, purché la proposta sia equa e conveniente per esso. Questo ha confermato l’orientamento favorevole già emerso (ad esempio, Cass. 20 gennaio 2022 n. 1370) e ha messo fine a un dibattito: il cram down fiscale è pienamente operante. Ciò è cruciale, perché in passato molte ristrutturazioni naufragavano di fronte al veto del Fisco; oggi il debitore e gli altri creditori sanno che, se l’alternativa è il fallimento con incasso minore per l’Erario, il giudice potrà dare via libera al piano anche senza l’assenso dell’Agenzia Entrate. Resta ovviamente fondamentale dimostrare la convenienza e rispettare le percentuali di legge (ad esempio, almeno il 10% sui crediti IVA, che non possono avere falcidia inferiore a questa soglia per legge).
- Proposte concorrenti e inammissibilità – natura giuridica: Nel vigore della vecchia legge fallimentare (ma con riflessi anche nel nuovo), era previsto che in caso di concordato presentato, alcuni creditori potessero proporre proposte alternative (concorrenti) se la proposta del debitore non garantiva almeno il 40% ai chirografari (30% se in continuità). La Cassazione n. 18826 del 10 luglio 2024 ha fatto luce sulla natura dell’ordinanza che dichiara inammissibile una proposta concorrente. Essa ha stabilito che tale provvedimento non è ricorribile per Cassazione perché ha natura interlocutoria e non definitiva, essendo revocabile o modificabile in ogni momento qualora cambino le circostanze. In sostanza, una decisione del giudice che esclude una proposta concorrente (magari perché la ritiene inammissibile per vizi formali o perché nel frattempo la proposta del debitore è migliorata) non chiude definitivamente la porta: se intervengono novità, lo stesso giudice può riesaminare la questione. Questo orientamento tutela la flessibilità del procedimento concordatario e impedisce impugnazioni immediate in Cassazione che allungherebbero i tempi: la Cassazione potrà intervenire solo a concordato omologato o in caso di provvedimenti conclusivi. Per i pratici, significa che i creditori devono essere tempestivi e accurati nel proporre eventuali piani concorrenti, sapendo che una loro esclusione potrà essere ridiscussa solo nella sede di merito (tramite reclamo ex art. 47 CCII), ma non immediatamente in Cassazione.
- Rapporto tra fallimento (liquidazione giudiziale) e concordato omologato non eseguito (“fallimento omisso medio”): Un altro importante chiarimento viene dall’Ordinanza Cassazione n. 15862 del 6 giugno 2024, che riguarda il caso in cui un’impresa vada in fallimento dopo che era stato omologato un concordato preventivo, ma prima che questo fosse completato. La situazione cosiddetta di omisso medio (fallimento aperto senza che vi sia stata risoluzione formale del concordato) ha generato dispute su quali effetti produca sui debiti: i creditori devono considerarsi ancora vincolati alle percentuali ridotte previste nel concordato oppure no? La Cassazione ha chiarito che se il fallimento interviene quando era ancora possibile chiedere la risoluzione del concordato ex art. 186 L.F. (cioè entro i termini di adempimento del piano), allora il concordato non dispiega i suoi effetti esdebitatori: i creditori possono insinuarsi per l’intero importo originario, senza subire le decurtazioni concordatarie. Ciò perché il fallimento sopravvenuto rende impossibile eseguire il piano, dunque non sarebbe equo limitare i creditori al dividendo parziale previsto da un concordato rimasto incompiuto. Se invece il fallimento viene dichiarato dopo che è scaduto il termine per chiedere la risoluzione del concordato (cioè il concordato era da considerarsi ormai eseguito o comunque i creditori non potevano più reclamare l’inadempimento), allora permane l’effetto parzialmente esdebitatorio per la quota di debito falcidiata nel concordato. Questo principio tutela i creditori nelle situazioni in cui il debitore, pur avendo ottenuto l’omologa, non riesce poi a portare a termine il concordato e fallisce subito: in tal caso, nessun “colpo di spugna” sui debiti, i creditori tornano all’importo originario (salvo quanto eventualmente già incassato in concordato). È un importante deterrente contro concordati fatti solo per prendere tempo e poi far fallire l’azienda. Per gli operatori, questa pronuncia significa che quando si vota un concordato bisogna avere confidenza che verrà eseguito, altrimenti, in caso di rapido default, lo*(Continua dal paragrafo precedente)* … per gli operatori, questa pronuncia significa che quando si vota un concordato bisogna confidare nella sua effettiva esecuzione; se invece vi è il rischio concreto che l’azienda fallisca prima di adempiere, i creditori non resteranno vincolati alle falcidie pattuite ma potranno rivalersi per l’intero in fallimento. Ciò li rende più tutelati e allo stesso tempo sprona il debitore a proporre piani realistici, perché un concordato “finto” non gli darà sollievo duraturo.
- Composizione negoziata e concordato semplificato: Trattandosi di strumenti nuovissimi (2021-2022), non si registrano ancora sentenze di legittimità consolidate. Tuttavia, la prassi dei tribunali ha mostrato un iniziale approccio favorevole. Ad esempio, diverse omologazioni di concordati semplificati post-composizione negoziata sono state concesse laddove l’esperto attestava l’impossibilità di risanamento ma la possibilità di miglior realizzo rispetto al fallimento attraverso una vendita unitaria. In genere, i tribunali valutano con attenzione la meritevolezza dell’imprenditore in composizione negoziata (se ha agito tempestivamente e con trasparenza) e tendono a dare seguito alle soluzioni proposte dall’esperto. Si segnala, in particolare, la tendenza a considerare la composizione negoziata come requisito necessario per accedere a certe soluzioni: ad esempio, alcune pronunce di merito hanno negato omologazione a concordati liquidatori “classici” dove sarebbe stato invece più appropriato attivare prima una composizione negoziata, quasi a sottolineare che il ricorso diretto al concordato liquidatorio dovrebbe essere l’extrema ratio dopo aver tentato vie negoziali.
In sintesi, la giurisprudenza recente conferma un quadro di maggiore flessibilità a favore della riuscita dei piani di risanamento, bilanciato però dalla salvaguardia dei diritti dei creditori in caso di abusi o insuccessi. I principi del cram-down fiscale, della protezione dei creditori nel fallimento omisso medio, e la natura interlocutoria di certi provvedimenti nel concordato, sono tutti tasselli che concorrono a rendere più prevedibile e equilibrato l’esito delle procedure di ristrutturazione del debito.
Casi Pratici di Ristrutturazione (Simulazioni)
Di seguito proponiamo alcune simulazioni pratiche – esempi ipotetici ma realistici – per illustrare come, in concreto, un’impresa possa utilizzare i vari strumenti descritti e quali risultati ne possono derivare.
Caso 1: Salvataggio di Alfa S.r.l. tramite Composizione Negoziata e Concordato in Continuità
Scenario: Alfa S.r.l. è una PMI manifatturiera (50 dipendenti, €10 milioni di fatturato) che nel 2024 accusa un forte calo di liquidità: ha €6 milioni di debiti (banche €2M, fornitori €3M, Fisco €1M) e non riesce a pagarli regolarmente a causa dell’aumento dei costi delle materie prime e di alcune commesse annullate. L’azienda è in squilibrio finanziario, ma ha ancora un buon portafoglio ordini e prodotti competitivi. La direzione si accorge che senza interventi in pochi mesi potrebbe diventare insolvente, quindi decide nel gennaio 2025 di attivare una Composizione Negoziata della Crisi.
Azioni intraprese: Alfa S.r.l. accede alla piattaforma online e ottiene la nomina di un esperto. Prepara un piano di massima che prevede: dilazione dei debiti bancari, taglio del 30% dei debiti verso fornitori, pagamento del debito fiscale in 5 anni, nuovi finanziamenti per €500.000 da parte di un investitore interessato a entrare nel capitale. L’esperto conferma che l’azienda ha prospettive di continuità se si riduce il debito e consiglia di chiedere al tribunale misure protettive. Vengono quindi congelati i pagamenti per 4 mesi, durante i quali l’esperto organizza incontri con banche e principali fornitori.
Soluzione adottata: Grazie alla CNC, Alfa S.r.l. raggiunge un accordo informale con l’80% dei fornitori (che accettano uno stralcio del 30% sui loro crediti, pagati in 24 mesi) e con tutte le banche (che acconsentono a spalmare i €2M su 7 anni di mutuo, mantenendo tassi agevolati). Il Fisco, tuttavia, non può formalmente accordarsi senza procedura concorsuale. Per rendere vincolante l’intesa anche verso i pochi fornitori dissenzienti e regolare il debito tributario, Alfa S.r.l. – su suggerimento dell’esperto – decide di presentare un Concordato Preventivo in Continuità basato sui termini negoziati. Nel piano di concordato inserisce la proposta ai fornitori di pagare il 70% dilazionato e all’Erario di pagare integrale il debito ma in 5 anni (con transazione fiscale per sanzioni e interessi). Le banche, essendo già garantite, votano a favore; i fornitori votano compatti sì (anche quelli inizialmente non aderenti si convincono vedendo la maggioranza favorevole); lo Stato vota no per prassi, ma il tribunale omologa comunque grazie al cram-down fiscale. Entro fine 2025 il concordato è omologato. L’investitore apporta €500k (considerati “risorse esterne” prededucibili) che servono per iniziare i pagamenti concordatari.
Esito: Alfa S.r.l. prosegue l’attività, onora regolarmente le nuove scadenze e nel 2027 esce completamente dalla crisi, avendo pagato tutti i debiti secondo quanto stabilito (fornitori al 70%, banche rifinanziate, Stato al 100% diluito). L’azienda è salva, i posti di lavoro conservati e i creditori hanno ottenuto nel complesso più di quanto avrebbero preso da un fallimento (stimato <40%). Questo caso mostra come la composizione negoziata possa essere utilizzata come trampolino verso un concordato in continuità, anticipando gli accordi e facilitando l’esito positivo. Senza la CNC, probabilmente Alfa avrebbe tardato ad agire e alcuni creditori avrebbero avviato pignoramenti, minando le chance di risanamento.
Caso 2: Ristrutturazione di Beta S.p.A. tramite Accordo di Ristrutturazione dei Debiti
Scenario: Beta S.p.A. è un’azienda commerciale con 5 punti vendita. Ha un indebitamento finanziario elevato (€8 milioni con banche) a fronte di un fatturato in calo. Nel 2023 ha accumulato anche €2 milioni di debiti verso fornitori e €1 milione verso l’Erario. La crisi è nota alle banche, che però credono nel piano di rilancio predisposto dal nuovo management (chiusura di 2 sedi meno profittevoli e focus sull’e-commerce). Beta S.p.A. è in crisi ma non del tutto insolvente. Nel 2024, per evitare di arrivare al default, decide di negoziare con i creditori finanziari un accordo di ristrutturazione.
Azioni intraprese: L’azienda, assistita da un advisor finanziario, elabora un piano a 5 anni in cui chiede alle banche una moratoria di 12 mesi sul pagamento dei debiti e la successiva ripresa del pagamento con una riduzione degli interessi. Ai fornitori offre il pagamento integrale ma dilazionato in 18 mesi. Per fare ciò, Beta ha però bisogno che nessuna banca o fornitore faccia azioni legali nel frattempo. Avvia quindi trattative informali e ottiene una bozza di accordo con banche che rappresentano il 70% dell’esposizione finanziaria (le restanti, piccole, sono più indecise). Per evitare sorprese, Beta S.p.A. opta per un Accordo di ristrutturazione dei debiti in tribunale. Non ha il 60% di tutte le classi ancora, quindi inizialmente ricorre a una convenzione di moratoria con le banche: l’80% delle banche (in termini di credito) firma un patto di standstill di 6 mesi, e grazie all’art. 62 CCII viene esteso anche alle restanti banche dissenzienti. Ciò blocca eventuali revoche di fidi e azioni coercitive del singolo istituto.
Nel frattempo Beta porta avanti la procedura ex art. 57 CCII: raccoglie formali adesioni dalle banche (che salgono all’85% dei crediti finanziari) e da diversi fornitori chiave, arrivando a coprire il 65% del totale dei crediti. Deposita quindi in tribunale l’accordo di ristrutturazione, chiedendo contestualmente le misure protettive per sospendere i pagamenti verso i creditori non aderenti. Il tribunale concede il blocco delle azioni esecutive. Beta integra anche la proposta con una transazione fiscale offrendo il pagamento del debito IVA e imposte in 24 mesi senza interessi.
Soluzione adottata: In sede di omologazione, Beta S.p.A. chiede l’estensione dell’accordo alle banche non aderenti ai sensi dell’art. 61 CCII, avendo superato il 75% di consensi nel ceto bancario. Il tribunale verifica che queste poche banche dissenzienti non sarebbero pregiudicate (riceveranno comunque i pagamenti come le altre, solo posticipati, e con l’attestazione di convenienza) e quindi omologa l’accordo con efficacia estesa a tutte le banche. Per i fornitori non firmatari, Beta si era impegnata a pagarli comunque nei termini (come da requisito dell’accordo ordinario), quindi non c’è problema di estensione su di essi. L’accordo omologato prevede quindi: moratoria di un anno sui mutui per tutte le banche, ripresa pagamento interesse ridotto dal 2025; fornitori pagati al 100% ma con 6 mesi di ritardo medio; Fisco pagato in 24 mesi (grazie all’omologazione, l’Erario è vincolato alla dilazione).
Esito: Beta S.p.A. riesce, grazie a questo, a superare la fase critica: i 12 mesi di respiro gli permettono di chiudere i 2 negozi in perdita e sviluppare il canale online, tornando in utile operativo. Nel 2026 è in grado di riprendere i pagamenti regolari a banche e fornitori. I creditori finanziari hanno evitato di classificare l’azienda a sofferenza (grazie anche al quadro legale dell’accordo omologato) e incasseranno interamente il credito seppur con ritardo – preferibile rispetto a far fallire Beta e forse recuperare molto meno. Questo caso dimostra l’efficacia dell’accordo di ristrutturazione per imprese con molti debiti finanziari: evitando il concordato (più costoso e lungo), Beta ha potuto negoziare in modo mirato con le banche ottenendo il risultato voluto in tempi relativamente brevi (6-8 mesi totali). La convenzione di moratoria è servita come misura ponte per neutralizzare subito le resistenze di qualche banca e guadagnare tempo in attesa dell’omologa. Senza questo strumento, Beta avrebbe potuto subire la revoca dei fidi da parte di una banca isolata, precipitando la crisi.
Caso 3: Liquidazione Ordinata di Gamma S.r.l. tramite Concordato Liquidatorio
Scenario: Gamma S.r.l. è un’impresa edile familiare, che dopo anni di difficoltà diventa insolvente nel 2025: ha cantieri bloccati, €4 milioni di debiti (tra banche, fornitori e fiscali) e pochi lavori futuri. L’azienda non è più competitiva e i soci decidono di cessare l’attività. Tuttavia, possiede alcuni beni (terreni e mezzi) che potrebbero coprire in parte i debiti. I soci, volendo evitare il disonore del fallimento, consultano un legale per trovare una soluzione concordata con i creditori.
Azioni intraprese: Dato che l’impresa non è risanabile (non c’è continuità), l’opzione è il concordato preventivo liquidatorio. Gamma S.r.l. propone ai creditori: la vendita di tutti i terreni di proprietà, dei macchinari e crediti residui, stimando di ricavarne €1,5 milioni, da distribuire con queste percentuali: privilegio ipotecario alle banche al 100% (fino a concorrenza del valore delle ipoteche), e ai chirografari (per lo più fornitori) un dividendo del 25%. Per soddisfare le condizioni di legge, i soci di Gamma si impegnano ad apportare €100.000 di liquidità come finanza esterna (ottenuti vendendo un immobile di famiglia), così da incrementare l’attivo e raggiungere almeno quel +10% richiesto. Grazie a questo apporto, il piano concordatario arriva a garantire circa 25% ai chirografari, superando la soglia minima del 20%. Il piano prevede che un liquidatore (individuato nel professionista che ha assistito l’azienda) entro 1 anno venda all’asta 3 terreni edificabili e ceda i macchinari a un rivenditore, distribuendo poi il ricavato.
Soluzione adottata: Il concordato viene presentato a febbraio 2025. Il tribunale ammette la procedura (c’è il rispetto dei requisiti di legge e un’attestazione che indica 25% ai chirografi contro un ipotetico 10% in caso di fallimento). I creditori votano in aprile: le banche (privilegiate) sono comunque pagate quasi interamente dal valore dei terreni e votano a favore perché preferiscono una vendita concordata piuttosto che aspettare un fallimento; i fornitori, pur recuperando solo 25%, si rendono conto che in un fallimento con l’edilizia ferma avrebbero preso forse nulla, e approvano anch’essi (si raggiunge il 90% di consensi in classe chirografi). A luglio 2025 il concordato viene omologato. Il liquidatore nominato procede rapidamente: entro fine 2025 vende due terreni e i mezzi, incassando €1,2 milioni, e l’anno successivo conclude con l’ultimo lotto. Nel 2026 effettua il riparto finale: le banche ipotecarie vengono soddisfatte (una al 100%, l’altra al 80% residuo sul chirografo), i fornitori incassano il 25% pattuito. La società, ormai senza più attività, viene cancellata.
Esito: I creditori hanno ricevuto un modesto ma certo soddisfacimento in tempi brevi (due anni), evitando i tempi lunghi e incerti di un fallimento edilizio. I soci hanno chiuso i conti con i creditori in modo ordinato e, avendo agito con correttezza, non subiscono azioni personali (anzi, la loro contribuzione volontaria è stata apprezzata dai creditori). L’immagine della famiglia imprenditoriale è relativamente preservata, e potranno in futuro svolgere altre attività senza recare strascichi di debiti. Questo caso illustra come un concordato liquidatorio possa essere preferibile al fallimento quando c’è collaborazione e un minimo di risorse da mettere sul piatto per superare le soglie di legge. Se Gamma avesse semplicemente chiuso le porte lasciando debiti, sarebbe stata dichiarata fallita su istanza dei creditori, con esiti probabilmente peggiori per tutti.
Caso 4: Rinegoziazione dei debiti di Delta SNC tramite Piano Attestato di Risanamento
Scenario: Delta SNC è una piccola azienda familiare nel settore tessile (turnover €1M). A causa di investimenti sbagliati si trova con €500.000 di debiti bancari e €200.000 verso fornitori, a fronte di un’attività ancora potenzialmente redditizia. La società è sotto le soglie di fallibilità ma i creditori iniziano a preoccuparsi per i ritardi nei pagamenti. I due soci non vogliono entrare in procedure concorsuali e preferirebbero un accordo privato.
Azioni intraprese: Delta SNC, con l’aiuto del commercialista, elabora un piano di risanamento triennale: prevede di dismettere un capannone non utilizzato e usare il ricavato (€150.000) per rimborsare parte dei debiti, e di rifocalizzarsi su produzioni a maggiore margine per aumentare gli utili. Il piano viene asseverato da un professionista indipendente che attesta che, eseguendo quelle misure, l’azienda potrà pagare tutti i creditori. Delta convoca quindi le due banche principali e i 5 fornitori più grossi, presentando il piano attestato. Propone alle banche una proroga delle scadenze dei mutui di 2 anni (senza taglio di importo) e ai fornitori un pagamento integrale ma dilazionato su 12 mesi. Grazie all’attestazione favorevole, i creditori accettano fiduciosi: preferiscono aspettare un po’ e recuperare tutto, piuttosto che agire legalmente rischiando di far fallire la società (da cui forse ricaverebbero meno). Non c’è bisogno di tribunale: nell’estate 2025 ciascuno firma un accordo bilaterale di rinegoziazione (le banche stipulano atti aggiuntivi ai mutui, i fornitori firmando piani di rientro). Il piano attestato viene pubblicato nel Registro delle Imprese, così da rendere ufficiale la manovra e attivare le protezioni di legge (esenzione da revocatoria, regime fiscale agevolato sulle eventuali remissioni, ecc.).
Esito: Delta SNC esegue fedelmente il piano: vende il capannone, con il ricavato abbatte subito una parte dei debiti, per la quota restante rispetta le rate concordate. Nel 2027 ha azzerato i debiti pregressi e, con l’attività riorganizzata, prosegue la sua attività su basi più solide. In questo caso i creditori sono stati soddisfatti integralmente (seppur con ritardo), evitando la perdita del cliente e i costi di un’azione legale. I soci hanno mantenuto il controllo totale della situazione senza procedure concorsuali, pagando però tutto il dovuto secondo il piano. Questo esempio evidenzia l’utilità del piano attestato di risanamento per crisi relativamente contenute dove tutti i creditori strategici sono collaborativi. Il timbro dell’attestatore indipendente ha giocato un ruolo cruciale nel convincere le banche e fornitori della bontà del piano. Se anche un solo creditore chiave non avesse accettato, Delta probabilmente avrebbe dovuto valutare un accordo di ristrutturazione omologato o, essendo sotto soglia, un concordato minore.
Confronto tra gli Strumenti: Vantaggi e Svantaggi
Abbiamo visto singolarmente le caratteristiche delle varie procedure. Riassumiamo ora in forma comparativa le differenze principali, evidenziando per ciascuno pro e contro in ottica decisionale:
- Piano attestato di risanamento – Vantaggi: massima riservatezza (nessun intervento del tribunale), flessibilità di contenuti, nessuna soglia di debiti o consensi prestabilita, tutela dagli effetti delle revocatorie se pubblicato, mantenimento integrale del controllo all’imprenditore. Svantaggi: nessuna protezione legale automatica verso i creditori (possono agire se non pagati), richiede l’adesione volontaria di tutti i creditori rilevanti (nessun meccanismo per imporre tagli o dilazioni ai dissenzienti), efficacia quindi limitata a situazioni dove c’è consenso quasi unanime e crisi non troppo grave. Può inoltre comportare oneri fiscali se non pubblicato (le riduzioni di debito potrebbero essere tassate come sopravvenienze attive fuori dai casi previsti dall’art. 88 TUIR).
- Accordo di ristrutturazione dei debiti (60% ordinario) – Vantaggi: coinvolgimento del tribunale solo in fase di omologa (maggiore riservatezza rispetto al concordato), possibilità di bloccare le azioni dei creditori durante le trattative (misure protettive), vincolatività per tutti i creditori aderenti e flessibilità di esecuzione. Permette di gestire il debito fiscale con transazione e, se necessario, di ottenere nuovi finanziamenti in prededuzione. Svantaggi: soglia di adesione alta (60% dei crediti) – non sempre raggiungibile, obbligo di pagamento integrale (seppur dilazionato) dei creditori non aderenti entro 120 giorni, quindi necessità di liquidità per soddisfare eventualmente fino al 40% dei creditori subito. Può essere vanificato se troppi creditori restano estranei o se qualcuno avvia azioni prima delle protezioni. I costi professionali (attestatore, legali) e i tempi sono inferiori al concordato ma non trascurabili.
- Accordo di ristrutturazione “agevolato” (30%) – Vantaggi: soglia di consenso molto più bassa (30%) che lo rende teoricamente accessibile anche con pochi creditori chiave a favore; consente comunque transazione fiscale e omologa veloce. Svantaggi: applicabile solo se non si chiedono misure protettive e se si paga puntualmente il 70% di creditori estranei – in pratica utile solo per crisi iniziali e di liquidità molto limitata. È quasi un ibrido tra piano attestato e accordo: se l’azienda può pagare il 70% dei creditori nei termini originali, forse non è in vera crisi grave. Di fatto, strumento poco usato perché la sua platea di applicazione è ristretta (richiede un mix di aderenze minime e robustezza finanziaria verso gli altri debiti).
- Accordi ad efficacia estesa e Convenzioni di moratoria – Vantaggi: importanti in contesti con molti creditori omogenei (tipicamente banche) dove si può raggiungere una larga maggioranza ma non l’unanimità. Permettono di evitare che pochi dissenzienti paralizzino l’accordo comune. La convenzione di moratoria in particolare è ottima per congelare la situazione e guadagnare tempo senza passare subito per il tribunale, ed è complementare alla composizione negoziata. Svantaggi: richiedono comunque maggioranze molto alte (75%) e procedure di informazione/attestazione complesse. Inoltre l’efficacia estesa si applica solo a categorie specifiche di crediti (soprattutto finanziari), non risolve il problema di opposizione di creditori “singolari” (Es: un fornitore isolato fuori categoria). La moratoria, poi, non risolve il problema di fondo ma lo rinvia; se non è seguita da un accordo definitivo, serve solo a prendere tempo.
- Composizione negoziata della crisi – Vantaggi: approccio precoce e riservato, adatto anche a PMI; coinvolge un esperto indipendente che aiuta a trovare soluzioni; può attivare misure protettive rapide; grande flessibilità negli esiti (accordo stragiudiziale, accordo omologato, concordato semplificato, ecc.); costi contenuti (nessun tribunale salvo necessità specifiche); permette di testare la percorribilità del risanamento senza impegni irreversibili. È diventato uno strumento molto utilizzato, indice che risponde a un’esigenza concreta delle imprese. Svantaggi: non vincola i creditori dissenzienti – se mancano collaborazione e buona fede, può fallire. Rischio di perdita di tempo se usato quando l’impresa è già compromessa (in tal caso si arriva comunque al fallimento, con qualche mese di ritardo). Le misure protettive non sono garantite e hanno durata limitata, e possono esser revocate se emergono abusi. Insomma, funziona bene se c’è ragionevole perseguibilità del risanamento, altrimenti è solo un passaggio in più verso la liquidazione.
- Concordato preventivo in continuità – Vantaggi: è lo strumento più completo per ristrutturazioni profonde – permette di imporre ai creditori un sacrificio, suddividerli in classi, operare tagli di debito significativi pur mantenendo l’azienda in esercizio. Protegge l’impresa da azioni esecutive dall’inizio alla fine, consente operazioni di finanza durante la procedura (prestiti prededucibili, emissione di strumenti partecipativi, ecc.), e soprattutto libera l’azienda dai debiti pregressi una volta eseguito (fresh start). Consente di gestire crediti fiscali e contributivi con transazione e, se necessario, di superare l’eventuale dissenso del Fisco in omologa. Svantaggi: procedura complessa, pubblica e costosa in termini di tempi (spesso 1 anno+ per completarsi) e spese (compensi di commissario, esperto attestatore, advisor legali e finanziari, ecc.). Richiede la fiducia dei creditori per essere approvata – e costruire consenso in classi eterogenee è un lavoro impegnativo. Impone vincoli stringenti sulla gestione durante la procedura (ogni atto rilevante va autorizzato dal giudice, limitando la flessibilità imprenditoriale). In caso di esito negativo (voto contrario o mancata omologa), spesso l’alternativa immediata è la liquidazione giudiziale, quindi c’è un rischio elevato associato al tentativo. Non adatto a realtà micro per l’eccessivo formalismo. Insomma, è la cura “chirurgica” per crisi gravi: salvifica se ben eseguita, fatale se approcciata male.
- Concordato preventivo liquidatorio – Vantaggi: permette di evitare il fallimento sostituendolo con una liquidazione sotto controllo del debitore. I creditori hanno garanzie di percentuale minima (20%) e spesso ricevono qualcosina in più grazie a risorse esterne; i tempi possono essere più brevi di un fallimento e i costi di procedura leggermente inferiori (niente curatore, ma comunque c’è un liquidatore e organi di controllo). Il debitore (specie persona fisica o piccoli soci) può ottenere più facilmente l’esdebitazione e gestire la chiusura in modo meno traumatico. Svantaggi: l’azienda comunque cessa di esistere, quindi nessuna continuità né salvaguardia dei contratti o dei dipendenti (salvo riassorbimenti da acquirenti esterni). Per l’imprenditore è una resa, seppur ordinata. Inoltre, come visto, non è sempre praticabile: servono requisiti (20% ai chirografi, 10% attivo esterno) che a volte non sono raggiungibili e costringono al fallimento classico. Dal punto di vista dei creditori, i vantaggi rispetto al fallimento dipendono da quanto efficiente è la liquidazione concordataria: se il piano non è ben congegnato, potrebbe addirittura rallentare il recupero rispetto a una pronta azione fallimentare. Quindi bisogna valutare caso per caso.
- Liquidazione giudiziale (Fallimento) – Vantaggi: è il percorso obbligato quando non c’è accordo né prospettiva di risanamento. Offre la garanzia di una procedura terza gestita da un pubblico ufficiale (curatore), con regole di par condicio precise. I creditori privilegiati spesso preferiscono la liquidazione immediata per far valere le proprie cause di prelazione senza attendere piani pluriennali. In alcuni casi, il fallimento consente azioni di responsabilità o revocatorie che recuperano attivo aggiuntivo a beneficio dei creditori, cosa che un concordato chiude sul nascere. Svantaggi: di norma, per i creditori chirografari è la peggior soluzione in termini di tempi (anche 5-10 anni) e percentuali di recupero (spesso irrisorie o nulle). Per l’imprenditore, ovviamente, è la fine dell’attività e porta con sé possibili sanzioni (inabilitazione, azioni risarcitorie, conseguenze penali se vi sono reati). Inoltre, la dispersione del patrimonio può essere maggiore: i beni venduti uno a uno in fallimento possono svalutarsi, mentre a volte un concordato avrebbe permesso di vendere l’intero complesso aziendale ad un prezzo migliore. In sintesi, la liquidazione giudiziale è distruttiva: necessaria solo quando davvero non esistono alternative, o quando i creditori (o il debitore) non riescono a coalizzarsi in una soluzione concordata.
Questa panoramica comparativa evidenzia che non esiste uno strumento ideale in assoluto: la scelta dipende dalla situazione concreta dell’impresa (grado di crisi, composizione del debito, presenza di crediti privilegiati o meno, disponibilità di nuovi apporti finanziari, volontà dei creditori, etc.). In genere, si preferisce adottare lo strumento meno invasivo ed escalation solo se necessario: ad esempio, iniziare da un piano attestato o una composizione negoziata e, qualora non bastino, passare a soluzioni via via più “coercitive” (accordi omologati, concordato). L’importante è valutare con lucidità pro e contro di ogni opzione, magari con l’aiuto di un esperto di crisi, per imboccare per tempo la strada più adatta.
Aspetti Fiscali, Bancari e Gestionali da Considerare
Oltre agli aspetti giuridici delle procedure, un efficace processo di ristrutturazione del debito deve tenere conto di una serie di implicazioni fiscali, bancarie e gestionali. Trascurare questi profili può compromettere o vanificare i benefici ottenuti con l’accordo o la procedura prescelta. Vediamo i principali punti di attenzione.
Aspetti Fiscali
La normativa tributaria italiana prevede regole specifiche per i casi di riduzione dei debiti in ambito concorsuale. In generale, un’impresa che ottiene la cancellazione di parte dei debiti dovrebbe iscrivere a bilancio una sopravvenienza attiva (un “provento” pari ai debiti eliminati) tassabile come reddito. Tuttavia, per non scoraggiare le ristrutturazioni, il legislatore fiscale ha stabilito importanti esenzioni. In particolare, l’art. 88, comma 4-ter del TUIR dispone che non costituiscono sopravvenienze attive imponibili le riduzioni dei debiti dell’impresa conseguenti a concordati preventivi omologati (sia liquidatori sia in continuità), agli accordi di ristrutturazione omologati e ai piani attestati di risanamento pubblicati. In pratica, se l’azienda ricorre a uno di questi strumenti regolati, l’“utile” derivante dallo stralcio dei debiti non viene tassato immediatamente, ma solo eventualmente nei limiti in cui vada a ridurre perdite fiscali pregresse. Ciò è cruciale: ad esempio, se un concordato taglia del 50% i debiti chirografari, quell’importo di debiti annullati non genera un reddito imponibile (che altrimenti, con IRES al 24%, avrebbe prelevato quasi un quarto del beneficio!). Questa detassazione rende più sostenibile il risanamento post-procedura.
Di converso, se un imprenditore raggiunge una riduzione dei debiti fuori dalle procedure previste (es. un accordo privatissimo non attestato né omologato), rischia di dover pagare le imposte su quanto non pagherà ai creditori. Ad esempio, una banca che rinuncia a €100k di credito verso una società potrebbe generare per quest’ultima €100k di sopravvenienza attiva tassabile. Ciò va considerato: spesso è preferibile “vestire” un accordo privato sotto forma di piano attestato pubblicato, proprio per rientrare nell’esenzione fiscale ed evitare che arrivi una cartella esattoriale a vanificare il beneficio ottenuto.
Un altro aspetto fiscale riguarda la gestione dell’IVA sui crediti inesigibili. I fornitori che non vengono pagati integralmente dall’azienda in crisi hanno diritto, a certe condizioni, di emettere una nota di variazione IVA in diminuzione, recuperando l’IVA già versata allo Stato sui propri ricavi poi non incassati. La normativa IVA consente tale recupero in caso di procedure concorsuali: ad esempio, se un creditore chirografario riceve il 30% in un concordato, può portare a detrazione l’IVA relativa al 70% non incassato (senza dover aspettare l’esito finale del concordato). Recenti prassi (introdotte con il DL 73/2021) hanno anticipato questo diritto di recupero già al momento in cui il debitore è ammesso a una procedura concorsuale o di ristrutturazione omologata, senza dover attendere la chiusura. Ciò è un vantaggio indiretto per l’azienda debitrice: i suoi fornitori saranno più propensi ad accettare stralci se sanno di poter recuperare subito l’IVA sul non pagato. È bene quindi informare i creditori trade di questa possibilità durante le trattative.
La transazione fiscale è un capitolo fondamentale: quando l’impresa ha debiti verso l’Erario o enti previdenziali, per poterli dilazionare o ridurre deve inserirli in un concordato preventivo o accordo omologato e formulare una proposta specifica. È importante sapere che l’Erario ha proprie linee guida (Decr. Min. 4/8/2021) per valutare tali proposte: in genere accetta falcidie solo su sanzioni e interessi, mentre chiede il pagamento integrale dell’IVA e delle ritenute (per legge non falcidiabili se non per la parte di interessi). Nella prassi, l’Erario spesso esprime voto contrario per policy restrittive, ma come visto la Cassazione legittima il tribunale a procedere comunque. Un aspetto recente da segnalare è che il Correttivo 2024 ha introdotto l’esdebitazione “di diritto” dei debiti tributari e previdenziali residui dopo concordato o accordo, senza necessità di una nuova valutazione: ciò per uniformare il trattamento a quello dei debiti privati. In sostanza, se l’azienda adempie al concordato, anche la parte di debiti fiscali che non è stata pagata viene automaticamente annullata (mentre prima serviva di fatto la transazione fiscale per quella parte). Questo incoraggia il Fisco a partecipare attivamente alle trattative in sede concorsuale, sapendo che fuori da lì difficilmente recupererà di più.
Infine, attenzione all’effetto delle scelte sui bilanci e sulle imposte differite: ad esempio, un concordato con stralcio debiti genererà un utile civilistico (per la parte di debito annullata) ma non tassato, il che potrà portare a rilevare imposte differite attive/negative. È materia tecnica per il CFO e i consulenti, ma va gestita accuratamente per presentare bilanci post-ristrutturazione veritieri e utili anche ai fini bancari.
Aspetti Bancari e Creditizi
Le banche e gli intermediari finanziari sono spesso i creditori più rilevanti nelle crisi d’impresa, e hanno logiche di comportamento particolari perché soggette a normative di vigilanza (Basilea, IFRS9, ecc.). Comprendere il loro punto di vista è essenziale in una ristrutturazione.
Linee di credito e classificazione: Quando un’impresa entra in difficoltà o avvia una procedura di composizione, le banche tendono a classificare le esposizioni a sofferenza o almeno a “stage 2” (credito deteriorato). Ciò comporta per la banca maggiori accantonamenti a bilancio. In passato questo portava spesso alla revoca improvvisa degli affidamenti non appena l’azienda annunciava un concordato o simili – aggravando la crisi. Oggi, le nuove norme (anche il CCII dopo il 2024) cercano di mitigare questo: ad esempio, durante la composizione negoziata, le banche non possono revocare o interrompere gli affidamenti solo perché l’impresa ha avviato la procedura, a meno che la sospensione sia dovuta a motivi prudenziali (deterioramento oggettivo del merito creditizio non legato alla procedura). Inoltre, se sospendono le linee, devono darne comunicazione motivata agli organi interni dell’impresa. Queste previsioni, volute dal legislatore, servono a evitare che la banca faccia cadere la mannaia proprio quando l’imprenditore attiva un percorso di risanamento. In ogni caso, l’imprenditore deve aspettarsi che la banca riduca nuove erogazioni e anzi richieda maggiori garanzie se possibile. È utile, nelle trattative, coinvolgere i referenti delle funzioni ristrutturazione crediti della banca (le cosiddette UTP/crediti problematici), che hanno mandato di trovare soluzioni di recupero alternative al semplice incasso immediato.
Nuova finanza: Molte ristrutturazioni richiedono finanziamenti aggiuntivi (per capitale circolante o investimenti di rilancio). Ottenere credito fresco da banche esistenti può essere arduo se l’azienda è già in default verso di loro. Le procedure concorsuali offrono però il privilegio della prededuzione: un finanziatore che eroga credito durante un concordato (su autorizzazione del giudice) o in esecuzione di un accordo omologato, avrà diritto di essere pagato prima degli altri creditori. Questo incentivo talvolta aiuta a sbloccare liquidità (anche i soci possono versare con prededuzione). Inoltre, lo stay delle azioni esecutive impedisce che nuove risorse vengano subito aggredite dai vecchi creditori: ad esempio, se la banca concede liquidità in composizione negoziata autorizzata, quei soldi non possono essere pignorati da un altro creditore. Va però predisposto un business plan credibile che mostri come quei fondi verranno utilizzati e rimborsati.
Impatto su Centrale Rischi: L’avvio di un concordato preventivo o la stessa ammissione alla composizione negoziata con misure protettive viene segnalata nella Centrale dei Rischi di Banca d’Italia (come “sofferenza” o “incaglio in ristrutturazione”). Questo significa che tutto il sistema bancario ne verrà a conoscenza e difficilmente altre banche concederanno nuovo credito nel breve periodo. È un elemento da tenere in conto: magari una banca non partecipante all’accordo, vedendo la segnalazione, potrebbe irrigidirsi su altri rapporti che aveva con l’impresa. La trasparenza e il dialogo con tutte le banche creditrici, quindi, è importante per evitare fraintendimenti: meglio informarle del piano di ristrutturazione in corso piuttosto che far trapelare la notizia solo tramite la Centrale Rischi.
Rapporti con garanti e fideiussori: Spesso i debiti bancari sono garantiti da fideiussioni di soci o pegni su beni di terzi. Una ristrutturazione del debito dell’azienda non libera automaticamente queste garanzie se non è previsto nell’accordo. Bisogna dunque negoziare con le banche anche la posizione dei garanti: ad esempio, i soci potrebbero chiedere la liberazione dalla fideiussione in cambio di un pagamento parziale (capitalizzando la garanzia). Se non ci si accorda, la banca potrebbe aderire al piano di ristrutturazione verso la società ma poi escutere la fideiussione per la parte tagliata – frustrando di fatto l’utilità per il garante. Dal lato opposto, le procedure concorsuali bloccano anche le azioni verso i co-obbligati? In generale no, lo stay protegge solo il debitore principale, quindi i garanti possono essere escussi. Tuttavia, nei concordati spesso si prevede che i creditori che aderiscono rinuncino ad agire verso i garanti (per equità). Questo è un dettaglio da curare in sede di accordo per evitare contenziosi successivi.
Relazioni con i fornitori e clienti: Oltre alle banche, altre controparti finanziarie critiche sono i fornitori (che potrebbero imporre pagamento anticipato se perdono fiducia) e i clienti (che potrebbero temere interruzioni nelle forniture). Durante un processo di ristrutturazione, l’azienda deve gestire la comunicazione: decidere chi informare, come rassicurare gli stakeholder della continuità operativa. Ad esempio, in un concordato in continuità, è prassi inviare lettere ai clienti chiave spiegando che la procedura garantirà la consegna degli ordini e che l’azienda potrà continuare a servire il mercato. I fornitori strategici potrebbero essere coinvolti in accordi specifici (forniture in prededuzione, piani di pagamento del pregresso contestuali a nuove forniture) per evitare che interrompano la supply chain. Le banche stesse guardano con favore piani che mostrano il supporto dell’ecosistema di business dell’impresa (clienti fidelizzati, fornitori disposti a continuare).
Impatto sul rating e accesso al credito futuro: Naturalmente, passare attraverso una ristrutturazione del debito comporta un segno indelebile sulla storia creditizia dell’impresa. Nei primi tempi dopo la conclusione, ottenere nuovo credito sarà difficile e costoso: l’azienda è un “phoenix” che deve dimostrare di essere risorta. Tuttavia, se la ristrutturazione ha successo e l’impresa torna profittevole, nel medio termine il rating potrà migliorare, soprattutto se la struttura finanziaria post-risanamento è più leggera (meno debiti). Un caso virtuoso: un’azienda esce da concordato con un rapporto debt/equity molto più basso, potrebbe risultare più solvibile e quindi attirare nuovi finanziamenti di investimento (ci sono anche fondi specializzati in finanziare aziende post-concordato, fiutando l’opportunità di crescita ora che sono liberate dai debiti).
Aspetti Gestionali e Organizzativi
La ristrutturazione del debito non è solo un fatto tecnico-legale, ma deve essere accompagnata da cambiamenti gestionali e strategici all’interno dell’impresa. Le cause della crisi vanno affrontate alla radice, altrimenti il sollievo sui debiti sarà temporaneo.
Adeguati assetti e allerta interna: Il Codice della Crisi impone agli amministratori l’obbligo di istituire assetti organizzativi adeguati a rilevare per tempo la crisi. Ciò significa dotarsi di sistemi di controllo di gestione, monitoraggio di indici finanziari, ecc. Se un’azienda arriva alla soglia dell’insolvenza senza averne contezza, c’è un problema di governance. Durante e dopo la ristrutturazione, è fondamentale implementare strumenti di pianificazione finanziaria (cash flow forecasting, budget periodici) per evitare di ricadere in squilibri. Ad esempio, molte composizioni negoziate prevedono che l’esperto faccia utilizzare all’imprenditore il “test pratico di perseguibilità del risanamento” – un tool messo a disposizione dal sistema camerale – per verificare se con certe misure l’impresa torna in equilibrio. Queste buone pratiche andrebbero mantenute anche a regime.
Cambi nella direzione o nella proprietà: Spesso la crisi è anche figlia di scelte imprenditoriali errate. Per convincere creditori e tribunale della serietà del rilancio, talvolta l’azienda effettua cambi al vertice: ad esempio nomina un Chief Restructuring Officer (CRO), figura manageriale dedicata alla ristrutturazione, o sostituisce dirigenti incapaci. In casi estremi, i creditori possono condizionare il loro supporto a un cambio di proprietà: non di rado i soci cedono l’azienda a nuovi investitori più solidi nell’ambito di un concordato (continuità indiretta) o accordo. Questo può migliorare le prospettive gestionali, perché i nuovi proprietari immettono capitali e competenze. Chiaramente, per l’imprenditore originario è un sacrificio, ma spesso necessario a salvare almeno l’azienda come entità (se non la proprietà).
Riduzione dei costi e ristrutturazione operativa: Un piano di risanamento del debito di solito va di pari passo con un piano industriale di efficienza: taglio dei rami d’azienda in perdita, ridimensionamento organici, chiusura filiali non redditizie, ottimizzazione di processi. Ad esempio, un concordato in continuità convincerà i creditori solo se mostra margini futuri adeguati – ciò potrebbe implicare licenziamenti o cassa integrazione. L’ordinamento facilita in parte queste manovre: nel concordato, ad esempio, l’azienda può chiedere l’autorizzazione a recedere da contratti onerosi (locazioni, forniture a lungo termine) che causano perdite, pagando solo un indennizzo come credito concorsuale. Ciò consente di snellire l’azienda dalle zavorre contrattuali. Ovviamente, ci sono risvolti sociali: la legge Fornero e successive consentono, in caso di concordato o accordo omologato, procedure semplificate per licenziamenti collettivi per motivi economici. L’azienda in crisi deve bilanciare l’esigenza di ridurre i costi del personale con la responsabilità sociale: a tal fine, spesso, si adottano ammortizzatori (Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria per crisi, contratti di solidarietà) durante la stesura del piano, in accordo con i sindacati.
Controllo dell’esecuzione: Uno degli errori gestionali possibili è considerare “conclusa” la questione una volta omologato il concordato o firmato l’accordo. In realtà, la fase più delicata viene dopo: l’esecuzione del piano. Molte aziende in concordato falliscono successivamente perché non rispettano i pagamenti concordati o non raggiungono i risultati di vendita previsti. È essenziale creare un sistema di controllo interno (report mensili, comitato di monitoraggio magari con presenza di creditori o perito terzo) per vigilare sull’andamento del piano ed eventualmente correggere in corsa. Ad esempio, se il piano prevedeva la cessione di un immobile entro tot data e ciò non avviene, occorre subito pensare a alternative (un altro acquirente? ridurre prezzo? offrire beni diversi ai creditori?). La vigilanza attiva è un segno di buona gestione post-risanamento.
Implicazioni sulla responsabilità degli amministratori: Fino all’apertura di una procedura concorsuale, gli amministratori rispondono di eventuali aggravamenti del dissesto (azione di responsabilità per mala gestio). Paradossalmente, tentennare troppo prima di attivare una ristrutturazione può esporre gli amministratori a rischi personali: se portano l’azienda al fallimento avendo respinto occasioni ragionevoli di accordo, i creditori potrebbero accusarli di negligente ritardo. Invece, attivare per tempo una composizione negoziata o concordato può dimostrare la diligenza richiesta. Certo, aprire una procedura concorsuale pone fine al mandato degli amministratori (nel fallimento vengono spossessati, nel concordato restano ma vigilati). Eppure, anche nel fallimento, una collaborazione attiva con il curatore può evitare azioni di responsabilità e anzi facilitare l’esdebitazione.
In sintesi, dal lato gestionale l’impresa deve accompagnare la ristrutturazione finanziaria con un rinnovamento del modo di gestire la propria attività, introducendo maggiore controllo, trasparenza e spesso discontinuità (nel personale chiave, nelle strategie) rispetto al passato che ha generato la crisi. Solo così i benefici ottenuti sul debito potranno tradursi in un vero rilancio di lungo periodo.
Conclusioni
La ristrutturazione dei debiti aziendali è un percorso impegnativo e multidisciplinare, che richiede tempestività, competenza tecnica e capacità negoziale. L’ordinamento italiano, aggiornato alle più recenti direttive UE, offre oggi un ventaglio di strumenti molto ampio per affrontare praticamente ogni situazione di difficoltà finanziaria: dall’intervento “morbido” e riservato della composizione negoziata, alle soluzioni contrattuali con maggioranze qualificate (accordi di ristrutturazione), fino ai procedimenti concorsuali veri e propri (concordati preventivi e liquidazioni giudiziali). Ogni strumento ha le sue peculiarità e va scelto con cognizione di causa.
Un elemento chiave emerso è la necessità di agire per tempo. Le probabilità di salvare l’impresa (in tutto o in parte) aumentano sensibilmente se si riconoscono i segnali di crisi e si interviene quando ancora c’è patrimonio e credibilità da mettere sul piatto. Strumenti come il piano attestato o la composizione negoziata servono proprio ad attivarsi in questa fase iniziale. Se invece si aspetta troppo, si rischia di dover ricorrere solo a procedure liquidatorie, quando ormai l’insolvenza è conclamata e il capitale di fiducia con i creditori esaurito.
Fondamentale è anche affidarsi a professionisti specializzati in crisis & restructuring: commercialisti, avvocati d’impresa e advisor finanziari con esperienza nel settore. Essi possono aiutare a diagnosticare la gravità della crisi, a predisporre piani sostenibili (anche secondo best practice di settore) e a condurre le trattative con i creditori in modo efficace. La presenza di un attestatore indipendente di qualità o di un esperto negoziatore preparato può fare la differenza nell’ottenere il via libera dai creditori a un piano di ristrutturazione.
Dal punto di vista culturale, sta avvenendo un cambiamento: la crisi d’impresa non è più vista come un disonore da tenere nascosto fino all’ultimo, ma come un evento fisiologico che può essere gestito in maniera trasparente per salvaguardare il valore aziendale nell’interesse di tutte le parti (imprenditore, lavoratori, creditori stessi). Le recenti statistiche sul boom di composizioni negoziate e sull’aumento dei concordati rispetto ai fallimenti indicano che sempre più imprese e creditori scelgono la via negoziale e concordata, invece dello scontro frontale in tribunale. Questo è un segnale positivo di maturazione del sistema economico.
In conclusione, “ristrutturare i debiti aziendali” con successo significa combinare l’uso sapiente degli strumenti giuridici offerti dalla legge con una solida strategia aziendale di rilancio e con la costruzione di consenso tra i creditori. È un processo duro, che può richiedere sacrifici (per l’imprenditore magari la perdita di parte della proprietà, per i creditori rinunce parziali, per i dipendenti riorganizzazioni), ma che punta a un obiettivo comune: evitare la distruzione di ricchezza che un fallimento comporterebbe e dare all’impresa una seconda chance. Con una guida come questa, aggiornata alle norme e prassi del 2025, speriamo di aver fornito un utile strumento di orientamento per scegliere la strada migliore in uno dei momenti più critici della vita aziendale.
Fonti
Normativa:
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019) – articoli rilevanti: artt. 12-25 (Composizione Negoziata), 56 (Piani attestati di risanamento), 57-64 (Accordi di ristrutturazione, accordi agevolati art. 60, accordi ad efficacia estesa art. 61, convenzione di moratoria art. 62), 84-120 (Concordato preventivo in continuità e liquidatorio), 121-283 (Liquidazione giudiziale e liquidazione controllata). Testo aggiornato con le modifiche introdotte dal D.Lgs. 83/2022 e dal D.Lgs. 136/2024.
- D.L. 118/2021 convertito L. 147/2021 – Introduzione in via d’urgenza della composizione negoziata e del concordato semplificato, rinvio dell’entrata in vigore del CCII al 15/07/2022.
- D.Lgs. 83/2022 – Adeguamento del CCII alla direttiva UE 2019/1023 (Insolvency), ha introdotto il piano di ristrutturazione omologato (PRO) e innovato gli accordi di ristrutturazione (accordi agevolati al 30%, convenzioni di moratoria, ecc.).
- D.Lgs. 136/2024 – Terzo correttivo al CCII, con novità sulla composizione negoziata (accesso anche da insolventi, vincoli alle banche sulle linee di credito, profilo esperto) e su concordato e transazione fiscale.
- Codice Civile art. 2086 comma 2 – Obbligo per l’imprenditore di assetti adeguati e di rilevazione tempestiva della crisi (introdotto dall’art. 375 D.Lgs. 14/2019).
- Testo Unico Imposte sui Redditi (DPR 917/86) art. 88, c.4-ter – Disciplina fiscale delle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti in concordato, accordo omologato o piano attestato.
Linee guida e documenti di prassi:
- Osservatorio Crisi d’Impresa Unioncamere – Rapporti 2024-2025: dati statistici sull’utilizzo degli istituti della crisi. Comunicato Unioncamere 9 aprile 2025: “Crisi d’impresa: boom della composizione negoziata” con i numeri delle istanze 2023 vs 2024.
- Principi di attestazione dei piani di risanamento – Documento del CNDCEC (Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti) aggiornato 2023, cui fanno riferimento i professionisti indipendenti per le relazioni ex art. 56 CCII e art. 58 CCII.
- Linee guida ABI per le ristrutturazioni del debito – Protocolli volontari del settore bancario (es. accordo per moratorie sui crediti alle PMI, rinegoziazione prestiti) che spesso interagiscono con gli strumenti legali.
Giurisprudenza:
- Cass., Sez. I, 28 ottobre 2024, n. 27782 – Omologazione forzata del concordato e voto contrario dell’Erario: conferma l’applicabilità dell’art. 180, co.4 L.F. (e corrispondente art. 112 CCII) anche in caso di voto espresso negativo del Fisco, legittimando il tribunale al cram-down.
- Cass., Sez. I, 10 luglio 2024, n. 18826 – Concordato preventivo – proposta concorrente – ordinanza di inammissibilità non ricorribile: chiarisce la natura non definitiva (reclamabile ma non cassabile) del provvedimento che dichiara inammissibile una proposta concorrente, perché revocabile in ogni tempo.
- Cass., Sez. I, 6 giugno 2024, n. 15862 – Fallimento omisso medio dopo concordato omologato: in caso di fallimento dichiarato prima della scadenza del termine per richiedere la risoluzione del concordato, i creditori non subiscono l’effetto esdebitatorio del concordato stesso e possono insinuarsi per l’intero credito originario. Se invece il fallimento interviene a concordato eseguito oltre tale termine, resta l’effetto liberatorio parziale.
- Tribunale di Milano, 28 marzo 2023 (es.) – Concordato semplificato ex art. 25-sexies: ha omologato uno dei primi concordati semplificati post-CNC, ritenendo soddisfatto il best interest test e sottolineando come il tentativo di composizione negoziata legittimi l’accesso a tale procedura straordinaria.
- Tribunale di Genova, 13 ottobre 2023 – Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa: ha delineato i presupposti per l’estensione ex art. 61 CCII, ribadendo la necessità del 75% di consensi nella categoria e la completa informazione ai creditori non aderenti (decisione riportata in IlCaso.it).
Ristrutturare i Debiti Aziendali: Perché Affidarsi a Studio Monardo
La tua azienda è sommersa dai debiti? Non riesci più a pagare fornitori, banche, INPS o Agenzia delle Entrate? Se stai cercando una via concreta per uscire dalla crisi senza fallire, la risposta è nella ristrutturazione dei debiti aziendali.
Oggi il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019) offre strumenti legali per trattare con i creditori, rinegoziare importi, ottenere dilazioni e salvare l’attività produttiva.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere al tuo fianco un professionista abilitato e competente, capace di costruire un piano solido e guidarti passo dopo passo fino alla ripartenza.
Cosa fa per te l’Avvocato Monardo
- Analizza la situazione finanziaria, fiscale e patrimoniale dell’impresa
- Costruisce un piano personalizzato di ristrutturazione, in base al tipo di debito
- Coordina commercialisti, advisor e attestatori
- Rappresenta l’azienda nelle trattative con creditori e banche
- Attiva la procedura giudiziale o stragiudiziale più adatta
- Ti accompagna fino alla piena esecuzione del piano e alla tutela legale dell’impresa
Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo
L’Avvocato Monardo è:
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto al Ministero della Giustizia
- Fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC)
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa, abilitato ex D.L. 118/2021
- Coordinatore di una rete nazionale di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario, tributario e dell’esecuzione
Grazie a queste qualifiche, segue ogni fase della ristrutturazione con metodo, rapidità e autorevolezza, adattando la strategia al singolo caso aziendale.
Perché agire ora
- I debiti crescono ogni mese, con sanzioni e interessi
- Le banche possono revocare gli affidamenti in ogni momento
- Il Fisco può avviare pignoramenti o bloccare i conti
- Più aspetti, meno margine c’è per salvare asset e continuità aziendale
- Solo agendo in tempo puoi evitare la responsabilità personale degli amministratori
Conclusione
Ristrutturare i debiti aziendali non significa arrendersi, ma agire in modo professionale per salvare l’impresa e ripartire.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo vuol dire scegliere un esperto riconosciuto, abilitato e operativo su tutto il territorio nazionale, capace di trovare la soluzione più adatta per il tuo caso e condurti fuori dalla crisi con intelligenza, rigore e tempestività.
Qui di seguito troverai tutti i contatti del nostro Studio Legale specializzato in crisi d’impresa per richiedere una consulenza personalizzata: