Se la tua azienda produce, importa o distribuisce reti metalliche, reti elettrosaldate, reti zincate, reti stirate, pannelli modulari, recinzioni industriali, reti per edilizia, carpenteria, agricoltura e sicurezza, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è indispensabile intervenire subito per evitare fermi produttivi e la perdita di clienti strategici.
Nel settore delle reti metalliche, un ritardo nelle consegne può bloccare cantieri, impedire montaggi, rallentare lavori pubblici o privati e generare penali contrattuali immediate.
Perché le aziende di reti metalliche accumulano debiti
- aumento del costo dell’acciaio, zincatura, lavorazioni e trasporti
- rincari delle materie prime importate
- pagamenti lenti da parte di imprese edili, rivenditori e installatori
- ritardi nei versamenti IVA, imposte e contributi
- magazzini complessi con molte misure, formati e pannellature
- difficoltà nell’ottenere fidi bancari adeguati ai volumi di produzione
- investimenti elevati in macchinari da taglio, saldatura, piegatura e trattamenti superficiali
Cosa fare subito
- far analizzare da un professionista l’intera esposizione debitoria
- identificare quali debiti possono essere contestati, ridotti o rateizzati
- evitare piani di rientro troppo gravosi che drenano liquidità
- richiedere la sospensione immediata di eventuali pignoramenti
- proteggere rapporti con fornitori di acciaio, zincatori, trasportatori
- utilizzare strumenti legali efficaci per ristrutturare o rinegoziare i debiti senza bloccare la produzione
I rischi se non intervieni tempestivamente
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco delle forniture di acciaio, pannelli e materiali critici
- impossibilità di rispettare consegne e appalti
- perdita di cantieri, rivenditori tecnici e clienti ricorrenti
- rischio concreto di chiusura dell’attività
Come può aiutarti l’Avvocato Monardo
Detto questo, l’Avvocato Monardo, cassazionista, coordina su scala nazionale un team di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario e tributario.
È inoltre:
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012)
- iscritto negli elenchi del Ministero della Giustizia
- professionista fiduciario presso un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Può offrirti un aiuto concreto per:
- bloccare pignoramenti e atti esecutivi
- ridurre o ristrutturare i debiti attraverso gli strumenti legali più efficaci
- ottenere rateizzazioni sostenibili
- proteggere materiali, scorte, impianti di produzione e continuità operativa
- evitare la chiusura e rilanciare l’azienda verso un vero risanamento
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Introduzione
Un’azienda specializzata nella produzione di reti metalliche che si trova con un pesante carico di debiti affronta una situazione complessa ma non insolubile. Dal punto di vista giuridico, esistono strumenti avanzati per gestire la crisi, tutelare l’azienda (e il patrimonio dei suoi titolari) e adempiere correttamente agli obblighi verso creditori di vario tipo (Erario, banche, fornitori, enti previdenziali, dipendenti, ecc.). Questa guida – aggiornata a ottobre 2025 – offre un’analisi approfondita delle possibili azioni difensive e strategie a disposizione di un’impresa indebitata operante in Italia. Verranno trattati i diversi profili (civili, fiscali, finanziari e persino penali) collegati all’insolvenza, con riferimenti normativi recenti, pronunce giurisprudenziali aggiornate e strumenti introdotti dalle più recenti riforme (come il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, aggiornato dai correttivi del 2022 e 2024). Il tutto è presentato con un linguaggio tecnico-giuridico ma divulgativo, adatto sia ad avvocati che assistono imprese in difficoltà, sia a imprenditori o privati cittadini che vogliono comprendere come difendersi efficacemente dai creditori.
Affronteremo inizialmente le varie tipologie di debito (fiscali, bancari, commerciali, previdenziali, ecc.), evidenziando per ciascuna i rischi specifici e le possibili soluzioni. In seguito esamineremo gli strumenti di regolazione della crisi (da accordi stragiudiziali alle procedure di concordato preventivo o di liquidazione, fino alle ultime novità come la composizione negoziata). Saranno analizzati i profili penali connessi alla gestione di un’azienda indebitata (ad es. reati di bancarotta o di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) e le eventuali responsabilità personali degli amministratori o dei soci. Infine, proporremo tabelle riepilogative per riassumere i concetti chiave, alcune simulazioni pratiche riferite all’ordinamento italiano e una sezione di domande e risposte frequenti (FAQ) dal punto di vista del debitore. L’obiettivo è fornire una guida completa di oltre 10.000 parole che aiuti a orientarsi in materia di crisi d’impresa e difesa dai creditori, con riferimenti alle norme italiane vigenti e alle più recenti sentenze ed interpretazioni delle autorità competenti.
Attenzione: Questa guida è di livello avanzato. Si presume una conoscenza di base del diritto societario e fallimentare italiano. Vengono citate leggi e articoli, nonché decisioni giurisprudenziali, per offrire riferimenti autorevoli e aggiornati. Tutte le fonti utilizzate sono riportate in una sezione finale dedicata, per consentire approfondimenti e per verificare l’attendibilità delle affermazioni esposte. È fondamentale inoltre sottolineare che ogni situazione di crisi aziendale presenta caratteristiche proprie: le informazioni fornite sono generali e non sostituiscono il parere specifico di un professionista legale o contabile di fiducia.
Procediamo dunque ad esaminare, passo dopo passo, cosa fare e come difendersi nel caso di un’azienda di reti metalliche gravata da debiti, partendo dall’analisi dei vari tipi di debito e delle relative conseguenze.
Tipologie di debiti e rischi collegati
Non tutti i debiti sono uguali: a seconda della natura del creditore e del tipo di obbligazione, cambiano sia le modalità di recupero da parte dei creditori, sia gli strumenti di difesa a disposizione dell’azienda debitrice. Di seguito analizziamo le principali categorie di debito che tipicamente affliggono un’azienda manifatturiera come quella del nostro caso (produzione di reti metalliche), ossia: debiti fiscali (verso l’Erario), debiti verso banche o istituti finanziari, debiti verso fornitori e altri creditori commerciali, debiti previdenziali (INPS e altri enti) e debiti verso i dipendenti. Per ciascuna categoria vedremo quali conseguenze derivano dall’inadempimento e quali strategie può adottare il debitore per difendersi.
Debiti tributari (verso l’Erario)
I debiti fiscali includono imposte non versate (IVA, IRES/IRPEF, IRAP), ritenute non pagate, accertamenti dell’Agenzia delle Entrate contestati o divenuti definitivi, cartelle esattoriali emesse dall’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex Equitalia) non saldate, ecc. Questa tipologia di debito è particolarmente delicata perché il Fisco italiano gode di poteri di riscossione ampi e, in certi casi, automatici. Ecco alcune conseguenze e rischi per l’azienda indebitata col Fisco:
- Interessi e sanzioni: il mancato pagamento tempestivo di imposte comporta l’automatico accumularsi di interessi moratori e sanzioni amministrative pecuniarie. Ad esempio, omettere il versamento IVA o delle ritenute fiscale comporta sanzioni dal 30% in su dell’importo, salvo riduzioni per ravvedimento operoso.
- Cartelle esattoriali e misure cautelari: l’Agenzia delle Entrate Riscossione (ADER) può emettere una cartella di pagamento una volta che l’imposta dovuta è definitiva. In caso di mancato pagamento della cartella, scattano strumenti come il fermo amministrativo su veicoli aziendali, l’iscrizione di ipoteca su immobili della società, e in generale il diritto di procedere a esecuzione forzata (pignoramenti di conti correnti, attrezzature, crediti verso terzi, ecc.).
- Blocco dei crediti d’imposta e diniego di certificazioni: un’impresa con debiti tributari in sospeso può vedersi negare il DURC fiscale e altre certificazioni di regolarità fiscale, impedendole di partecipare a gare pubbliche o ricevere pagamenti da enti pubblici. Inoltre, eventuali crediti d’imposta maturati dall’azienda potrebbero essere bloccati o compensati d’ufficio con i debiti (es. utilizzo in F24).
- Azioni revocatorie e responsabilità patrimoniale: se l’impresa compie atti dispositivi nel tentativo di sottrarre beni alle pretese del Fisco (ad esempio vendendo macchinari a prezzo irrisorio a un’altra società di famiglia), l’Erario può agire con azione revocatoria per far dichiarare inefficaci tali atti rispetto ad esso, recuperando così i beni sottratti.
- Conseguenze penali: vi sono specifici reati tributari connessi al mancato pagamento di imposte. In particolare, non versare IVA o ritenute oltre certe soglie costituisce reato (si veda la sezione penale per i dettagli su soglie e pene). Ancora più grave, qualsiasi condotta tesa a frustrare la riscossione può integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000), punito con la reclusione (ad esempio, simulare la vendita di beni o schermarli con un trust per evitare pignoramenti è condotta espressamente sanzionata ). In altre parole, nascondere attivi o gravarli di vincoli fittizi per non farli trovare al Fisco è un illecito penale grave.
Come può difendersi l’azienda debitrice verso il Fisco? Innanzitutto distinguendo tra debiti tributari certi (ad esempio imposte dichiarate ma non versate) e contestazioni che si possono ancora impugnare (avvisi di accertamento non definitivi). Nel primo caso, c’è poco da contestare sul merito, ma si possono attivare strumenti di dilazione del pagamento: è possibile chiedere all’ADER una rateizzazione della cartella esattoriale fino a 72 rate mensili (6 anni) o, in caso di temporanea e grave difficoltà, fino a 120 rate (10 anni) in presenza dei requisiti di legge. Il rateizzo evita azioni esecutive a patto di rispettare i pagamenti. Inoltre, negli ultimi anni il legislatore ha introdotto varie “rottamazioni” delle cartelle (definizioni agevolate) che consentono di pagare il debito fiscale senza sanzioni e interessi: se sono disponibili queste procedure (ad esempio la rottamazione-quater aperta nel 2023), l’azienda può aderire per ridurre l’onere complessivo.
Se invece il debito deriva da un atto impositivo contestabile (ad es. un avviso di accertamento che si ritiene infondato), la difesa passa per gli strumenti del processo tributario: si può presentare ricorso alla Commissione Tributaria nei termini di legge, chiedendo eventualmente la sospensione della riscossione. È fondamentale in questi casi non far decadere i termini, perché un avviso di accertamento non impugnato nei 60 giorni diviene definitivo, trasformandosi in un debito esecutivo. Difendersi significa qui far valere le proprie ragioni (per esempio dimostrare che l’IVA era assolta, o che il reddito imponibile era minore) di fronte al giudice tributario.
Un capitolo a parte è la transazione fiscale nell’ambito di procedure concorsuali: se l’azienda predispone un piano di risanamento o un concordato preventivo, può proporre al Fisco il pagamento parziale dei tributi dovuti, a certe condizioni. La legge richiede che nel piano il trattamento offerto all’Erario non sia deteriore rispetto a quanto il Fisco otterrebbe in caso di liquidazione fallimentare . Occorre allegare una relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati e il rispetto di tale condizione . Se la proposta è credibile, l’Erario (Agenzia delle Entrate e Agenzia Riscossione) può aderire entro 90 giorni. In mancanza di risposta, le nuove norme prevedono in certi casi il silenzio-assenso per accelerare la definizione. Una volta omologata dal tribunale la transazione fiscale all’interno del concordato, il debito fiscale viene ridotto o dilazionato come da accordo, vincolando l’Erario a tale esito.
Va sottolineato che chiudere la società nella speranza di “far sparire” i debiti fiscali è una strategia inefficace e pericolosa. La normativa italiana stabilisce che la cancellazione di una società dal Registro delle Imprese non estingue immediatamente i debiti tributari: per effetto dell’art. 28, c.4, D.Lgs. 175/2014, l’estinzione ai fini fiscali è sospesa per 5 anni . In tale periodo l’Agenzia Entrate può continuare legittimamente a notificare avvisi di accertamento, cartelle e atti di recupero come se la società esistesse ancora . Trascorsi i 5 anni, i debiti non riscossi restano a carico di liquidatori, soci o amministratori, secondo le responsabilità previste dall’art. 36 DPR 602/1973 . In particolare, i liquidatori rispondono personalmente delle imposte non pagate se, avendo liquidato altri creditori, hanno trascurato il Fisco . I soci che nei 2 anni precedenti la liquidazione hanno ricevuto somme o beni dalla società ne rispondono entro il limite di quanto ricevuto . E persino gli amministratori possono essere chiamati in causa se, sempre nei 2 anni pre-liquidazione, hanno compiuto operazioni liquidatorie o occultato attività sociali (anche con irregolarità contabili) . In più, se la società viene cancellata senza nominare un liquidatore formale, gli amministratori ne assumono le medesime responsabilità verso i creditori tributari . In sostanza, il Fisco può rivalersi su liquidatori, soci e amministratori una volta appurato che dalla società estinta non si riesce a recuperare nulla . Pertanto “sparire” senza pagare il Fisco espone gli organi sociali a rischi personali notevoli: conviene invece affrontare il problema con gli strumenti legali a disposizione.
Riepilogo – Debiti fiscali: Il Fisco ha mezzi potenti (cartelle, ipoteche, fermi, pignoramenti) e il quadro normativo scoraggia manovre elusive (con sanzioni severe, anche penali, per chi nasconde beni o omette versamenti importanti). La difesa passa per la tempestiva attivazione di procedure di rateizzazione, l’adesione a eventuali sanatorie, oppure l’inclusione del debito erariale in un piano concorsuale garantendo al Fisco un trattamento equo. Se vi sono contestazioni, vanno fatte valere in sede di ricorso tributario senza indugio. In nessun caso è consigliabile ignorare il debito fiscale, poiché col tempo gli importi aumentano e le possibilità di intervento si riducono; inoltre, condotte astute ma illecite (alienazioni simulate, occultamenti) possono sfociare in responsabilità penali gravi.
Debiti verso banche e istituti finanziari
Le esposizioni debitorie verso banche sono comuni per un’azienda manifatturiera: possono trattarsi di mutui contratti per capannoni o macchinari, affidamenti di conto corrente o linee di credito (scoperti bancari, anticipo fatture), leasing finanziari per mezzi di produzione, oppure ancora di finanziamenti a medio termine ottenuti magari con garanzie pubbliche. Quando l’azienda fatica a rispettare le scadenze verso gli istituti di credito, le conseguenze tipiche sono le seguenti:
- Decadenza dai benefici del termine e messa in mora: basta il mancato pagamento di una o poche rate di un mutuo perché la banca possa invocare la decadenza dal termine, ossia richiedere immediatamente l’intero debito residuo. Analogamente, un conto corrente affidato può essere revocato dall’oggi al domani se la banca perde fiducia nella solvibilità del cliente, trasformando lo scoperto in un debito esigibile in somma fissa. La banca invierà una lettera di messa in mora, spesso anticipata da contatti informali, richiedendo il rientro.
- Segnalazione in Centrale Rischi: un ritardo significativo o uno sconfinamento non autorizzato può portare la banca a segnalare l’azienda alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia (o in banche dati private come CRIF). Una segnalazione di “credito deteriorato” o “sofferenza” mina gravemente la reputazione creditizia dell’impresa, precludendo di fatto l’accesso ad altri finanziamenti.
- Escussione delle garanzie: se i debiti verso banca sono garantiti, la banca procederà sulle garanzie. Ad esempio, se c’è un’ipoteca su un immobile aziendale, l’istituto potrà avviare un’esecuzione immobiliare (pignoramento e vendita all’asta del capannone) per recuperare il proprio credito, iscrivendo a ruolo la somma dovuta. Se vi sono fideiussioni personali dei soci o degli amministratori, la banca (una volta constatato l’inadempimento della società) chiederà il pagamento direttamente ai garanti personali, aggredendo il loro patrimonio personale (conto corrente, stipendio, immobili personali). Questo trasferisce il problema dall’azienda al garante, che spesso è l’imprenditore stesso o i suoi familiari.
- Decreto ingiuntivo e pignoramenti: in assenza di garanzie reali, la banca per recuperare il suo credito chiederà un decreto ingiuntivo al tribunale (spesso provvisoriamente esecutivo data la natura di credito fondato su contratto bancario) e, ottenutolo, procederà a pignorare i beni dell’azienda: conti correnti, merci a magazzino, crediti verso clienti (pignoramento presso terzi), ecc. In molti casi, se l’importo è elevato e l’azienda manifesta insolvenza, la banca può presentare istanza di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) dell’azienda debitrice, preferendo affidare a un curatore la liquidazione di tutti i beni.
- Risoluzione dei contratti pendenti: se il debito deriva da un leasing (ad esempio per un macchinario) o da un contratto di factoring, il mancato pagamento comporta la risoluzione del contratto: nel caso del leasing, l’azienda deve restituire il bene e perderà quanto già pagato (salvo poi rispondere della differenza tra il dovuto contrattuale e quanto la società di leasing ricaverà ricollocando il bene); nel caso del factoring, l’eventuale anticipazione potrebbe essere revocata e i crediti riportati all’azienda (che dovrà restituire gli anticipi ricevuti).
Come difendersi o gestire i debiti bancari? In primo luogo, il debitore può cercare un dialogo con la banca appena emergono le difficoltà. Spesso gli istituti di credito, per evitare di classificare il credito a sofferenza (con impatto negativo in bilancio), sono disponibili a rinegoziare le condizioni: ad esempio concedere una moratoria (sospensione temporanea delle rate, come avvenuto con gli accordi ABI durante emergenze economiche), oppure un allungamento dei piani di ammortamento riducendo la rata, o ancora una ristrutturazione del debito consolidando esposizioni varie in un nuovo finanziamento più sostenibile. Tali soluzioni stragiudiziali richiedono un piano credibile e magari la messa a disposizione di garanzie aggiuntive (ad esempio ipoteche su beni personali) o l’ingresso di nuovi soci finanziatori. L’azienda può presentare alla banca un piano di risanamento attestato (ex art. 56 Codice della Crisi, già art. 67 L.F.) in cui un professionista indipendente attesta che lo sforzo temporaneo richiesto alla banca (es. standstill o riduzione interessi) permetterà il riequilibrio e un rimborso maggiore nel tempo. Se il piano è convincente, la banca potrebbe aderire per convenienza economica.
In caso di più banche finanziatrici, può essere utile tentare un accordo collettivo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 57 e ss. Codice crisi, già art. 182-bis L.F.): l’imprenditore propone a tutte le banche (e altri creditori finanziari) un accordo in cui si impegna a pagare una percentuale dei crediti o a ristrutturarli su lunga scadenza. Se aderisce almeno il 60% dei creditori (in valore) e il tribunale omologa l’accordo, esso diviene vincolante per tutti i creditori aderenti; i creditori non aderenti rimangono estranei ma, grazie all’accordo, possono essere pagati integralmente con la finanza apportata dal piano. Il nuovo Codice prevede anche accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa a creditori non aderenti omogenei, in certi casi, e accordi agevolati con soglia di adesione ridotta al 30% se tutti i creditori sono finanziari. Questi strumenti consentono di gestire i debiti bancari in modo concordato, evitando aggressive azioni esecutive singole.
Se invece la situazione è compromessa e la banca ha già agito (ingiunzioni, pignoramenti), l’azienda può valutare di ricorrere a procedure concorsuali protettive come il concordato preventivo: con il deposito di una domanda di concordato (anche in bianco, con riserva) scatta un automatic stay (blocco delle azioni esecutive) che impedisce ai creditori, banche incluse, di procedere o proseguire pignoramenti durante la procedura. Nel concordato l’azienda può proporre ai creditori finanziari il pagamento parziale del dovuto, eventualmente differenziando tra quelli garantiti (che hanno privilegio/ipoteca fino al valore della garanzia) e quelli chirografari. La banca ipotecaria, ad esempio, dovrà ricevere almeno il valore di stima dell’immobile dato in garanzia (salvo consenso a riduzioni), mentre la parte eventualmente eccedente del credito non coperta da garanzia verrà trattata come chirografaria. Difendersi in questo contesto significa sfruttare le regole concorsuali per imporre alla banca una soluzione bilanciata: fuori dalla procedura la banca pretenderebbe il 100% e potrebbe liquidare i beni migliori a danno di altri creditori; nel concordato, invece, tutti i creditori concorrono secondo le loro cause di prelazione, e la banca non può ottenere più di quanto le spetterebbe in liquidazione. Se il piano concordatario mostra che liquidando il capannone la banca recupererebbe – poniamo – il 60% del suo credito, la banca dovrà accontentarsi di una soddisfazione in quel range (salvo contribuire anch’essa alla riuscita del piano accettando qualcosina in meno in cambio di tempi più rapidi).
Un ulteriore strumento difensivo, qualora vi siano profili di illiceità nei contratti bancari, è quello di contestare il debito per irregolarità finanziarie: ad esempio, far valere la presenza di interessi usurari o anatocismo (interessi composti non leciti) nei conti correnti o mutui. Spesso le aziende in crisi richiedono perizie contabili per ricalcolare il dare-avere con la banca al netto di interessi illegittimi. Se emergono addebiti non dovuti, questi possono essere opposti in giudizio per ridurre l’importo reclamato dalla banca. Negli ultimi anni alcune pronunce (anche ABF e Cassazione) hanno sanzionato ad esempio clausole di determinazione degli interessi poco chiare o commissioni eccessive, obbligando le banche a restituire somme o a ricalcolare il saldo. Questa strategia richiede però un’analisi tecnica accurata ed è efficace soprattutto se l’importo contestabile è significativo rispetto al debito, in modo da avere leva negoziale. Esempio pratico: l’azienda verifica che sul mutuo decennale di 500.000€ la banca ha applicato interessi in eccedenza ai tassi soglia antiusura; la potenziale nullità di tali clausole potrebbe ridurre il dovuto di alcune decine di migliaia di euro. Forte di ciò, l’azienda può proporre alla banca un accordo transattivo riducendo il debito contestato. Si tratta comunque di un percorso che va maneggiato da esperti (avvocati e consulenti tecnici) e valutato caso per caso.
Riepilogo – Debiti bancari: Le banche dispongono di garanzie contrattuali e legali solide; il debitore deve agire tempestivamente per evitare l’escalation (revoca fidi, atti di pignoramento, escussione fideiussioni). Le armi del debitore sono la negoziazione (presentando piani credibili di rientro, anche avvalendosi di accordi quadro ABI se esistenti), oppure l’ombrello protettivo di una procedura concorsuale che sospenda le azioni esecutive e porti tutti i creditori (banche incluse) al tavolo per una soluzione collettiva. Importante è anche tutelare il patrimonio personale: se ci sono garanzie personali, prepararsi alla loro possibile escussione (magari cercando di rinegoziare la posizione del garante con la banca, ad esempio offrendo pagamento parziale a saldo e stralcio per liberare la garanzia). Ricordiamo che la segnalazione a sofferenza in Centrale Rischi può essere contestata solo se la banca ha agito con leggerezza nel classificare il credito; raramente ciò porta a risultati immediati, ma tenere la banca informata sul tentativo di ristrutturazione può evitare segnalazioni premature. Infine, va considerato l’utilizzo di eventuali nuovi finanziamenti emergenziali o garantiti dallo Stato (Fondo PMI) se disponibili, che potrebbero fornire liquidità per pagare gli arretrati bancari, purché l’azienda sia ancora considerata meritevole di aiuto (cosa difficile se la crisi è già conclamata).
Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali
Un’azienda indebitata non di rado accumula debiti verso fornitori di materie prime, subfornitori, consulenti e altri partner commerciali. Nel settore delle reti metalliche, ad esempio, potrebbero esserci fornitori di fili metallici, zincature, componenti per le recinzioni, trasportatori, bollette energetiche non pagate, ecc. Questi creditori chirografari (senza garanzie reali specifiche) in genere tollerano brevi ritardi, ma quando l’insoluto si protrae, hanno a disposizione i mezzi legali per recuperare il proprio credito:
- Messa in mora e interessi di ritardato pagamento: il primo passo è spesso un sollecito formale o lettera di messa in mora. In base al D.Lgs. 231/2002, nei contratti commerciali i creditori possono applicare interessi moratori automatici (solitamente al tasso BCE + 8%) sul ritardo, oltre ad un importo forfettario di 40 € per spese di recupero, salvo patto diverso. Quindi, più tempo passa più il debito cresce.
- Sospensione delle forniture: un fornitore non pagato potrebbe sospendere le forniture all’azienda debitrice, aggravando la crisi aziendale (es. mancanza di materia prima per continuare la produzione). Questo non è un “mezzo di recupero” in senso stretto, ma è una conseguenza commerciale importante: l’azienda rischia il blocco operativo se i fornitori chiave interrompono i rapporti in mancanza di garanzie.
- Decreto ingiuntivo e titolo esecutivo: il fornitore, munito della fattura e dei documenti di trasporto o contratti, può rivolgersi al giudice per ottenere un decreto ingiuntivo di pagamento. Se il credito è certo, liquido ed esigibile, il decreto (spesso dichiarato provvisoriamente esecutivo in caso di documentazione idonea) permette di procedere subito ad esecuzione forzata. L’azienda debitrice avrà 40 giorni per fare opposizione al decreto qualora abbia motivi validi (es. contestazioni sulla merce), ma se l’insolvenza è reale e il debito non contestabile, difficilmente un’opposizione avrà esito diverso dal prendere tempo.
- Pignoramenti mobiliari e presso terzi: munito di titolo esecutivo (decreto ingiuntivo non opposto o sentenza), il fornitore potrà far notificare un atto di pignoramento. Nel caso di un’azienda, i pignoramenti tipici sono quelli mobiliari presso la sede (ufficiale giudiziario che cerca beni in magazzino o macchinari da pignorare e poi far vendere all’asta) e quelli presso terzi (ad esempio pignorare i crediti che l’azienda vanta verso i suoi clienti, così il cliente invece di pagare l’azienda dovrà pagare il creditore procedente). Può essere pignorato anche il conto corrente aziendale, congelando di fatto l’operatività finanziaria. Un creditore isolato difficilmente riuscirà a soddisfarsi integralmente se l’azienda è molto indebitata, ma con l’esecuzione può creare forte pressione e spingere l’azienda verso la cessazione attività o il fallimento.
- Istanza di fallimento (liquidazione giudiziale): se il credito supera una certa soglia (attualmente modesta, poche migliaia di euro) e l’azienda presenta indicatori di insolvenza (ad esempio ha subito pignoramenti infruttuosi, o non paga sistematicamente più creditori), il fornitore può presentare un’istanza di fallimento in tribunale. L’apertura di una procedura fallimentare (oggi liquidazione giudiziale) è spesso l’extrema ratio per il creditore commerciale, che sa che probabilmente incasserà solo una percentuale ridotta dal fallimento; tuttavia, come leva negoziale è potente poiché l’imprenditore di solito vuole evitare il fallimento. Ricevuta la citazione per l’udienza pre-fallimentare, l’azienda ha un forte incentivo a trovare un accordo col creditore (pagamento o garanzie) per fargli ritirare l’istanza, se possibile.
Difendersi dai creditori commerciali significa anzitutto gestire proattivamente i rapporti. A differenza del Fisco o delle banche, i fornitori spesso non hanno grandi strutture legali e possono essere più flessibili se intravedono la possibilità di recuperare il cliente nel lungo termine. Dunque, l’azienda indebitata può cercare di negoziare dilazioni (pagamenti a rate degli arretrati), magari emettendo effetti cambiari a scadenze future per formalizzare l’impegno (benché la cambiale offra al creditore uno strumento esecutivo in più, può dare fiducia sull’effettiva volontà di pagare). Oppure proporre un saldo e stralcio, cioè il pagamento immediato di una parte del dovuto a fronte dell’abbandono del residuo: questa soluzione può interessare fornitori che preferiscono incassare subito, seppur meno, anziché attendere incerti sviluppi. È cruciale mantenere la comunicazione trasparente: informare i fornitori della situazione di crisi, presentare un piano di rilancio spiegando che tutti saranno pagati in percentuale o entro certe date, può evitare azioni giudiziarie precipitose.
Una mossa difensiva fondamentale è anche quella di evitare trattamenti preferenziali per alcuni fornitori a discapito di altri quando la crisi è conclamata. Dal punto di vista del debitore, potrebbe sembrare logico pagare i fornitori “critici” (es. quello che fornisce la materia prima essenziale) e lasciare indietro gli altri. Tuttavia, occorre cautela: se l’azienda dovesse poi fallire, quei pagamenti selettivi potrebbero essere oggetto di azione revocatoria fallimentare (se effettuati nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento e il creditore era a conoscenza dello stato di insolvenza). Peggio ancora, se i pagamenti preferenziali avvengono in prossimità del dissesto e con intento di favorire alcuni creditori, l’amministratore potrebbe essere accusato di bancarotta preferenziale, reato fallimentare. Quindi è consigliabile seguire un piano ordinato e formalizzato (magari un accordo di ristrutturazione o un concordato preventivo) per trattare in modo paritario i creditori chirografari, anziché fare preferenze occulte che espongono a rischi legali.
Se un fornitore ha già ottenuto un decreto ingiuntivo, l’azienda può guadagnare tempo proponendo opposizione (se esistono motivi, ad esempio contestazioni sulla qualità della merce fornita, oppure eccependo errori di calcolo). L’opposizione farà evolvere il decreto in un giudizio ordinario, ritardando l’esecutività definitiva. Questo tempo può essere prezioso per organizzare un pagamento oppure avviare una procedura concorsuale che blocchi l’esecuzione. Va però ricordato che l’opposizione ingiustificata può condurre a ulteriore aggravio di spese legali e, se temeraria, a condanna alle spese.
In ottica più ampia, se l’indebitamento verso i fornitori è generalizzato, conviene considerare anche qui una procedura concorsuale come il concordato preventivo. Nel concordato, ai fornitori (creditori chirografari, salvo abbiano privilegi speciali) può essere offerto un pagamento parziale in percentuale. Molto spesso nelle crisi aziendali, i fornitori chirografari ottengono percentuali dal 20% al 50% del credito nell’arco di alcuni anni. Non è l’ideale per loro, ma può essere preferibile al fallimento (dove le percentuali potrebbero essere anche più basse). Inoltre, il concordato consente di mantenere in vita rapporti essenziali: se alcuni fornitori sono cruciali per la continuità aziendale, l’azienda può classificarli in classe particolare e prevedere per loro un trattamento di maggior favore (purché giustificato dall’interesse a proseguire il rapporto). Questo può convincerli a continuare a fornire beni/servizi durante la procedura, assicurando la continuità produttiva.
Riepilogo – Debiti verso fornitori: Questi creditori hanno come leva principale la minaccia di azioni legali e del ritiro del supporto commerciale. La difesa ottimale è negoziale: cercare accordi bilaterali sostenibili, offrire garanzie (cambiali, pegni su merci future, ecc.), mantenere la fiducia. In parallelo, preparare un eventuale piano collettivo (accordo di ristrutturazione o concordato) per sistemare in modo ordinato tutti i debiti commerciali, evitando così che il primo fornitore che perde la pazienza porti l’azienda al fallimento a danno di tutti. Un ruolo importante lo gioca anche la gestione interna della tesoreria: in situazioni di crisi è bene impostare criteri oggettivi per decidere chi pagare e chi no (ad esempio pagare ciò che serve per la sopravvivenza immediata, differire il resto), documentando le scelte per poterle motivare in futuro in caso di contestazioni. E ricordare sempre di non compiere pagamenti preferenziali sospetti: se la crisi non si risolve e subentra un curatore, quei pagamenti potranno essere revocati e l’amministratore ne risponderà.
Debiti previdenziali e verso enti (INPS, INAIL, Fisco locale)
Un capitolo particolare riguarda i debiti contributivi e previdenziali, principalmente verso l’INPS (contributi pensionistici e assicurativi obbligatori per i dipendenti, e contributi dovuti dai titolari artigiani/commercianti) e l’INAIL (premi assicurativi obbligatori). Inoltre, possono esserci debiti verso Agenzia delle Entrate – Riscossione per tributi locali (IMU, TARI) non pagati, oppure verso altri enti pubblici. Molti di questi crediti sono assimilati ai fiscali: infatti INPS e INAIL si avvalgono dell’Agente della Riscossione per la riscossione coattiva, e godono di privilegi per i contributi non versati.
Le conseguenze specifiche dei debiti INPS/INAIL includono:
- Sanzioni civili e interessi: il mancato versamento dei contributi comporta sanzioni civili (che sono importi aggiuntivi simili a interessi moratori, spesso con tassi elevati) e interessi di mora. L’INPS applica sanzioni ridotte se il pagamento avviene con ritardo non superiore a 90 giorni, ma oltre tale soglia scattano sanzioni piene (fino al 30% annuo sui contributi dovuti).
- Preclusione del DURC: un’azienda con debiti contributivi non in regola non può ottenere il DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva). Il DURC irregolare le impedisce, ad esempio, di partecipare ad appalti pubblici, di incassare pagamenti dalla P.A. per lavori eseguiti, e può comportare la risoluzione di contratti in corso qualora la regolarità contributiva fosse richiesta come requisito. Inoltre, alcune grandi committenti private potrebbero esigere un DURC regolare dai propri fornitori.
- Cartelle esattoriali e azioni esecutive: come per i debiti fiscali, l’INPS iscrive a ruolo i crediti e fa emettere cartelle di pagamento. Il resto del percorso (dal pignoramento ai fermi amministrativi) è uguale a quello descritto per le imposte, essendo gestito da Agenzia Riscossione. Quindi l’azienda rischia pignoramenti su conti, macchinari, ipoteche ecc. per recuperare i contributi. Da notare che i contributi non versati ai dipendenti hanno privilegio generale sui mobili aziendali e, se fondiari, sugli immobili (sono considerati crediti privilegiati in caso di concorso).
- Interventi sostitutivi e Responsabilità in appalti: in ambito di appalti, se un’azienda appaltatrice non versa i contributi, il committente può essere chiamato (in virtù della responsabilità solidale negli appalti) a pagarli al posto suo, detraendo poi l’importo dal corrispettivo. Ciò per dire che la posizione contributiva irregolare può riflettersi anche nei rapporti con i clienti (specie se pubblici o grandi imprese).
- Conseguenze penali: è previsto il reato di omesso versamento di contributi previdenziali (art. 2, co.1-bis, D.L. 463/1983 conv. in L. 638/1983). La soglia di punibilità è attualmente €10.000 annui di contributi non versati trattenuti ai lavoratori . In pratica, se l’azienda trattiene dalle buste paga la quota contributiva a carico dei dipendenti ma non la versa all’INPS, ed il totale omesso supera 10.000 € nell’anno, il legale rappresentante commette reato, punito con la reclusione fino a 3 anni e multa fino a 1.032 € . Se l’importo è inferiore a 10.000 €, non c’è reato ma solo sanzione amministrativa (da 10.000 a 50.000 €) . Attenzione: la differenza con l’omesso versamento di ritenute fiscali (soglia 150.000 €) è notevole, qui la soglia è molto bassa perché si considera particolarmente grave trattenere soldi destinati alle pensioni dei lavoratori. Va notato che per i contributi non trattenuti (cioè la quota a carico del datore di lavoro) non vi è reato di omesso versamento, ma solo sanzione civile. Il reato riguarda la parte trattenuta al dipendente. È prevista una causa di non punibilità se si paga il dovuto prima dell’apertura del dibattimento: dunque, l’azienda ha convenienza a sanare subito per estinguere il reato .
- Reato di omesso versamento di ritenute fiscali: anche questo può coinvolgere l’INPS indirettamente, nel senso che se non si versa l’IRPEF trattenuta sulle retribuzioni oltre 150.000 € annui scatta il reato ex art. 10-bis D.Lgs.74/2000 (v. sezione fiscale). Ma qui rientriamo nell’ambito tributario più che previdenziale.
Dal lato difensivo, molte considerazioni fatte per i debiti fiscali valgono anche per i contributi. L’INPS concede rateizzazioni dei debiti contributivi: si possono rateizzare somme fino a 5 anni (60 rate mensili) o, in casi eccezionali, fino a 6 anni; in situazioni di dissesto, il piano di rateizzo può includere anche parte delle sanzioni. È importante attivarsi subito con l’INPS presentando un’istanza di dilazione appena si accumula un debito, perché una volta notificata la cartella e passato il termine, la situazione peggiora. L’INPS, come l’Agenzia Entrate, partecipa alle procedure concorsuali: esiste la transazione previdenziale, analoga a quella fiscale, dove l’INPS può accettare un pagamento parziale dei contributi nell’ambito di un concordato preventivo o accordo di ristrutturazione, purché sia soddisfatta almeno in misura non inferiore alla liquidazione fallimentare. Le modifiche normative recenti hanno parificato il trattamento: ora nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) o nel concordato, è espressamente previsto che si possa proporre il pagamento parziale/dilazionato dei contributi con attestazione che la proposta non è deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria . Questo consente di includere l’INPS nel piano di salvataggio con condizioni agevolate, previa valutazione di un esperto indipendente.
Quanto al DURC, se l’azienda è in concordato con continuità aziendale o in concordato preventivo in generale, la legge consente il rilascio di DURC regolare durante l’esecuzione del concordato (a certe condizioni) per non bloccarne l’attività. In passato, sono state emanate norme emergenziali che consentivano il DURC “in regola” alle imprese che avevano ottenuto una dilazione o presentato domanda di concordato, proprio per non tagliarle fuori dai lavori durante la crisi. Pertanto, gestire i debiti INPS tramite strumenti legali aiuta anche a rimanere operativi.
Infine, è opportuno ricordare che non pagare i contributi ai dipendenti ha anche un effetto sul personale: i lavoratori potrebbero accorgersene (ad esempio consultando l’estratto conto contributivo INPS) e questo mina il rapporto di fiducia. Inoltre, se l’azienda versa in gravi difficoltà e non corrisponde gli stipendi per diverse mensilità, i dipendenti possono presentare dimissioni per giusta causa (mancato pagamento della retribuzione è giusta causa ex art. 2119 c.c.), cessando il rapporto e chiedendo l’indennità di disoccupazione (NASpI) nonostante le dimissioni, nonché insinuandosi come creditori per le mensilità non pagate. Possono anche segnalare la situazione all’Ispettorato del Lavoro, il quale potrebbe elevare sanzioni amministrative per violazione delle norme sul pagamento delle retribuzioni (es. obbligo di tracciabilità). Dunque, anche per evitare un esodo del personale o vertenze di lavoro, l’imprenditore deve affrontare con grande attenzione il tema contributivo e stipendiale.
Riepilogo – Debiti contributivi: Debiti con INPS/INAIL e affini presentano rischi simili a quelli fiscali: interessi e sanzioni pesanti, azioni esecutive tramite cartelle esattoriali, interdizioni (niente DURC), e soglie penali molto basse per omissioni di versamenti dovuti ai lavoratori. La difesa consiste nel regolarizzare appena possibile tramite piani di rateizzo con l’ente, nell’integrare tali debiti in eventuali soluzioni concordate (transazioni in concordato) e, ove vi sia già un procedimento penale in vista (per superamento soglia 10.000 €), correre ai ripari pagando prima del dibattimento per estinguere la violazione . Va gestita anche la comunicazione interna: spiegare ai dipendenti la situazione ed eventualmente concordare soluzioni (come un ritardo nei pagamenti di comune accordo, o la fruizione di ammortizzatori sociali come la cassa integrazione guadagni, se attivabile, per alleggerire il costo del lavoro durante la crisi). Un’azienda che mostra di voler tutelare i dipendenti (cercando cassa integrazione o accordi sindacali) avrà più chances di conservare la forza lavoro e uscirne, rispetto a un’azienda che accumula debiti verso i lavoratori e verso INPS senza trasparenza.
Debiti verso i dipendenti (retribuzioni e TFR)
Benché correlati ai precedenti, i debiti verso i dipendenti – come stipendi arretrati, straordinari non pagati, TFR (Trattamento di Fine Rapporto) non accantonato – meritano una trattazione specifica. I dipendenti sono una categoria di creditori particolari: il loro credito è privilegiato (hanno privilegio generale sui mobili per retribuzioni degli ultimi 12 mesi e TFR, ex art. 2751-bis c.c.) e, in caso di fallimento dell’azienda, possono attivare il Fondo di Garanzia INPS che paga il TFR e le ultime tre mensilità di stipendio non percepite, surrogandosi poi nei loro diritti.
Conseguenze dei debiti verso dipendenti e strumenti di difesa:
- Vertenze di lavoro: se i dipendenti non ricevono quanto dovuto, possono rivolgersi ai sindacati o a un legale e promuovere cause di lavoro per ottenere ingiunzioni di pagamento (un decreto ingiuntivo per retribuzioni è spesso immediatamente esecutivo) o citare l’azienda davanti al giudice del lavoro. Queste cause, specie se l’inadempimento è pacifico (buste paga impagate), danno luogo a provvedimenti rapidi a favore dei lavoratori, che poi potranno procedere ad esecuzione (pignorando ad esempio conti aziendali, o chiedendo il fallimento come creditori). Anche un singolo dipendente non pagato può – previo tentativo di conciliazione obbligatorio – ottenere un titolo ed eventualmente presentare istanza di fallimento.
- Intervento del Fondo di Garanzia INPS: se l’azienda viene dichiarata insolvente (fallimento o altra procedura concorsuale) o anche semplicemente cessata e incapiente, i dipendenti possono chiedere all’INPS il pagamento del TFR maturato e delle ultime retribuzioni (limitatamente a tre mesi) tramite il Fondo di Garanzia. L’INPS poi diventerà creditore dell’azienda per tali somme. Questo significa che, paradossalmente, dal punto di vista dei dipendenti il fallimento attiva una forma di tutela (il Fondo) che invece non opera se l’azienda rimane in piedi ma non paga. Talvolta, quindi, i dipendenti stessi hanno interesse a provocare il fallimento per non restare senza niente. Essi possono presentare istanza di fallimento come qualunque creditore.
- Sanzioni e responsabilità penali: il mancato pagamento sistematico degli stipendi può configurare per l’imprenditore il reato di estorsione o truffa ai danni dei lavoratori in casi estremi (ad esempio quando il datore fa firmare quietanze di pagamento ai dipendenti minacciando il licenziamento, oppure quando assume senza poi corrispondere stipendi). Sono fattispecie limite e complesse da provare. Più concretamente, la normativa penalizza la omessa sicurezza sul lavoro o contributiva, ma non esiste un reato specifico per “stipendi non pagati” salvo ricorrano gli estremi di cui sopra. Tuttavia, non pagando stipendi e contributi, l’azienda viola così tante norme (dal codice civile al T.U. 112/2000 sui pagamenti tracciati) che rischia ispezioni e sanzioni amministrative.
Dal lato difensivo, se l’azienda si trova costretta a ritardare i pagamenti salariali, la cosa migliore è concordarlo con i lavoratori o con le loro rappresentanze. Ad esempio, potrebbe essere stipulato un accordo aziendale in cui, per salvare l’azienda, i dipendenti accettano temporaneamente una riduzione o dilazione delle retribuzioni (spesso ciò avviene con l’intervento degli ammortizzatori sociali: es. riduzione orario e cassa integrazione per il resto, così il costo del lavoro cala ma i dipendenti ricevono parte del reddito dall’INPS). È essenziale comunicare onestamente la situazione, perché un silenzio o bugie sul pagamento “il mese prossimo” reiterate portano rapidamente alla perdita di fiducia e all’abbandono dei lavoratori più qualificati.
Se alcuni dipendenti chiave minacciano dimissioni per giusta causa, può essere utile cercare di negoziare transazioni individuali: ad esempio, offrire il pagamento immediato di una parte degli arretrati a fronte della rinuncia a intentare cause. Questo ovviamente va calibrato con equità (non si può pagare solo Tizio e lasciare Caio a zero, se entrambi in posizione analoga, senza rischiare accuse di discriminazione).
In caso di procedura concorsuale, i debiti verso dipendenti saranno generalmente prededotti o privilegiati: significa che, ad esempio in un concordato, le retribuzioni maturate durante la procedura vanno pagate integralmente (prededuzione), e quelle anteriori, se privilegiate, vanno soddisfatte integralmente o nei limiti del privilegio prima di dare qualcosa ai chirografari. Pertanto, un buon piano concorsuale prevede sempre il pagamento al 100% dei crediti dei lavoratori (almeno per la parte privilegiata). Questo perché anche la legge riconosce la loro natura “protetta”. In molti casi, peraltro, il costo del personale durante la crisi può essere alleggerito ricorrendo a licenziamenti collettivi e messa in mobilità oppure a contratti di solidarietà: tutti strumenti che se ben utilizzati riducono l’esposizione debitoria futura.
Riepilogo – Debiti verso dipendenti: Sono debiti da trattare con priorità morale e legale. I lavoratori hanno mezzi per tutelarsi e in caso di insolvenza grave otterranno soddisfazione dal Fondo di Garanzia, lasciando poi all’INPS il ruolo di creditore. Per l’azienda, difendersi qui significa evitare di creare contenziosi: se possibile, pagare almeno parzialmente e tenere informato il personale. In caso di mancanza di liquidità, utilizzare ogni strumento lecito (cassa integrazione, ferie forzate, riduzioni concordate temporanee) per non accumulare troppo arretrato. Tenere presente che, a differenza di altri creditori, i dipendenti vivono della continuità aziendale: molti di loro preferiranno continuare a lavorare e salvare il posto, magari aspettando qualche mese per avere gli arretrati, piuttosto che vedere l’azienda chiudere. Questo può essere un punto di forza nelle trattative interne. Trasparenza e correttezza con i lavoratori spesso evitano denunce e l’intervento brusco di sindacati o giudici.
Tabella riepilogativa: Tipi di debito, rischi e soluzioni
Per una visione d’insieme, riportiamo di seguito una tabella che sintetizza le principali categorie di debito di un’azienda in crisi, le conseguenze del mancato pagamento e le possibili strategie difensive dal punto di vista del debitore:
| Tipo di debito | Conseguenze se non pagato | Strumenti di difesa per il debitore |
|---|---|---|
| Debiti Fiscali (Erario: IVA, imposte) | • Sanzioni e interessi automatici sul dovuto<br>• Cartelle esattoriali, fermi amministrativi su veicoli, ipoteche su immobili<br>• Pignoramenti su conti, beni aziendali da parte dell’Agente Riscossione<br>• Divieto di partecipare ad appalti pubblici senza DURC fiscale regolare<br>• Rischio di reati tributari (omessi versamenti IVA/ritenute oltre soglia; sottrazione fraudolenta se occulto beni) | • Rateizzazione cartelle (fino a 6–10 anni) per congelare azioni esecutive<br>• Adesione a “rottamazioni”/sanatorie se disponibili (stralcio sanzioni e interessi)<br>• Ricorsi tributari tempestivi contro accertamenti infondati<br>• Transazione fiscale in piani di concordato/accordi, offrendo pagamento parziale con attestazione di trattamento equo <br>• Evitare condotte elusive (vendite simulate): rischio penale ; meglio gestire in modo trasparente dentro procedure<br>• In caso di chiusura società, attenzione: Fisco può agire su soci/liquidatori per 5 anni |
| Debiti Previdenziali (INPS, INAIL) | • Sanzioni civili elevate per ritardato pagamento contributi<br>• Cartelle esattoriali e azioni di recupero analoghe al Fisco (ipoteche, pignoramenti) tramite Agenzia Riscossione<br>• Durc irregolare → impossibilità di partecipare a gare o ricevere pagamenti pubblici<br>• Reato omesso versamento contributi >10.000 € annui trattenuti ai dipendenti (fino 3 anni reclusione) ; sotto 10k sanzione amm.va<br>• Dipendenti insoddisfatti possono dimettersi per giusta causa e fare vertenze | • Rateizzazione contributi con INPS (piani fino a 5–6 anni) per evitare aggravio sanzioni<br>• Inclusione dei debiti contributivi nelle transazioni nei piani di risanamento (parziale pagamento con attestazione) <br>• Pagamento di almeno la quota trattenuta ai dipendenti entro fine anno per restare sotto soglia penale; se oltre soglia, pagamento prima del dibattimento per estinguere reato <br>• Richiesta di DURC in presenza di concordato (norme speciali lo consentono) per proseguire attività<br>• Attivazione di cassa integrazione o altri ammortizzatori per ridurre il maturare di nuovi contributi non pagabili |
| Debiti Bancari (mutui, fidi, leasing) | • Revoca immediata degli affidamenti e richiesta rientro integrale (decadenza dal termine)<br>• Segnalazione a Centrale Rischi come “sofferenza” (pregiudica ulteriori crediti)<br>• Escussione garanzie reali: esecuzione immobiliare su beni ipotecati; rivalsa su beni in leasing (risoluzione contratto, ritiro bene)<br>• Escussione garanzie personali: richiesta di pagamento a fideiussori (soci/amministratori) con rischio per patrimonio personale<br>• Decreto ingiuntivo e pignoramenti su conti, crediti, beni aziendali<br>• Istanza di fallimento se insolvenza conclamata | • Negoziazione diretta con la banca: richiesta di moratoria, dilazione del debito, rinegoziazione tassi e piani di ammortamento (magari presentando piano di risanamento attestato)<br>• Accordo stragiudiziale con pool di banche (standstill e riscadenzamento) supportato da attestazione indipendente<br>• Accordi di ristrutturazione ex art. 57 CCII con adesione del 60% (o 30% se finanziari) e omologazione in tribunale per vincolare le banche aderenti<br>• Concordato preventivo per congelare le azioni esecutive e imporre un trattamento paritario a tutte le banche (es. pagamento in % dei crediti chirografari, rispetto dei privilegi degli ipotecari)<br>• Verifica di anatocismo/usura: eventuale contestazione legale di interessi illegittimi per ridurre l’importo dovuto o guadagnare tempo (opposizioni)<br>• Proteggere i garanti negoziando liberatorie o stralci: es. offrire parte del debito in cambio della liberazione della fideiussione |
| Debiti Fornitori (trade) | • Sospensione forniture -> difficoltà operative per l’azienda (es. materia prima bloccata)<br>• Lettere di messa in mora e addebito interessi di mora (D.Lgs 231/2002) dal giorno successivo alla scadenza fattura<br>• Perdita di fiducia sul mercato, rating interno compromesso (fornitori potrebbero chiedere pagamento anticipato per ulteriori ordini)<br>• Decreto ingiuntivo ottenibile rapidamente (entro 30-60 gg) se fatture impagate; rischio esecuzione forzata (pignoramento beni, crediti presso clienti)<br>• Istanza di fallimento da parte di fornitori insoddisfatti (anche per piccoli importi se sintomo di insolvenza generalizzata) | • Comunicazione e trasparenza: contattare i fornitori chiave, spiegare la situazione e concordare piani di rientro o forniture contro pagamento immediato solo di nuove consegne<br>• Dilazioni extragiudiziali: accordi privati di pagamento a rate degli arretrati, magari garantiti da effetti cambiari o da garanzie (pegno su merci da consegnare, ecc.)<br>• Saldo e stralcio: offrire una percentuale immediata (es. 30-40%) a definitivo saldo del debito, se il fornitore è disposto a rinunciare al resto per evitare l’incertezza<br>• Accordi collettivi in concordato: inserire i fornitori in un piano di concordato con pagamento parziale ma uguale per tutti, evitando preferenze illegali. Prevedere classi separate per fornitori strategici, offrendo condizioni leggermente migliori se necessario (e se giustificabile)<br>• Opposizione a decreti ingiuntivi solo se vi sono reali motivi (merce non conforme, errori) per guadagnare tempo e nel frattempo trovare un accordo<br>• Evitare pagamenti preferenziali non autorizzati in situazione di insolvenza: rischio revocatoria e bancarotta preferenziale; meglio formalizzare qualunque accordo nel quadro di un piano di risanamento |
| Debiti verso dipendenti (salari, TFR) | • Malcontento interno, calo di produttività, possibili dimissioni in massa (fuga dei talenti) e difficoltà a mantenere operatività<br>• Vertenze legali di lavoro: decreti ingiuntivi per stipendi, cause individuali o collettive; possibile condanna dell’azienda con pignoramenti<br>• Intervento sindacale, scioperi o agitazioni che bloccano la produzione<br>• Istanza di fallimento presentata dai dipendenti (creditori privilegiati, con Fondo di Garanzia INPS pronto a subentrare)<br>• Attivazione Fondo di Garanzia INPS (in caso di procedure concorsuali o insolvenza): i lavoratori vengono pagati dallo Stato per TFR e ultime 3 mensilità, e l’INPS si surroga come creditore<br>• Responsabilità anche penale in casi estremi (es. se si sfruttano i dipendenti senza pagarli con dolo, configurando possibili reati) | • Coinvolgimento dei lavoratori: ammettere la crisi, discutere soluzioni temporanee insieme (piani di risparmio, riduzioni orario, utilizzo ferie arretrate, ecc.) per limitare nuovi debiti<br>• Accordi sindacali aziendali: patti di dilazione pagamento stipendi/TFR in cambio della garanzia di pagamento certa entro una data o di altre compensazioni (es. azioni dell’azienda, bonus futuri se risanamento riesce)<br>• Cassa Integrazione Guadagni o altri ammortizzatori: utilizzare strumenti pubblici per far sì che una parte del reddito dei dipendenti sia coperta, riducendo il peso immediato sui conti aziendali<br>• Pagare almeno parzialmente e a rotazione le spettanze: ad esempio, corrispondere un acconto fisso mensile a tutti, rimandando il saldo; mostrare equità nel trattamento per evitare liti<br>• Includere nel concordato il pagamento integrale dei crediti privilegiati dei dipendenti (obbligatorio): rassicura il ceto lavoratore che in caso di concordato omologato otterranno il dovuto (magari dilazionato)<br>• Se necessario, riduzione del personale seguendo le procedure legali (licenziamenti collettivi) prima che i debiti verso di essi diventino ingestibili; meglio pochi esuberi con TFR pagato (magari rateizzato) che accumulare mensilità per troppi dipendenti senza possibilità di pagarle |
(Legenda: CCII = Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza D.Lgs. 14/2019 e s.m.i.; DURC = Documento Unico Regolarità Contributiva; privilegio = diritto di essere pagato prima di altri su ricavato beni; prededuzione = spesa da pagare prima di tutti perché sorta durante procedura concorsuale.)
Strumenti di regolazione della crisi e procedure di insolvenza
Dopo aver esaminato come affrontare le singole tipologie di debito, passiamo ai mezzi concreti che l’ordinamento offre all’imprenditore indebitato per cercare di superare la crisi o, se ciò non è possibile, per liquidare l’azienda in modo ordinato. Possiamo distinguere due grandi famiglie: gli strumenti stragiudiziali (accordi privati con i creditori, se si riescono a ottenere) e gli strumenti giudiziali o para-giudiziali, che implicano l’intervento di un organo terzo (tribunale o un esperto nominato) e che sono disciplinati dalla legge fallimentare (ora Codice della crisi).
Descriveremo i principali strumenti di risanamento o liquidazione applicabili a una società commerciale in Italia, aggiornati alle ultime novità normative (in particolare quelle apportate dal D.Lgs. 83/2022 e dal D.Lgs. 136/2024 al Codice della crisi). Tali strumenti vanno valutati e scelti in base alla gravità della crisi, alla disponibilità dei creditori a collaborare, e alle prospettive di continuità aziendale. Li tratteremo in ordine grosso modo dal meno invasivo al più invasivo:
- Risanamento aziendale interno (misure unilaterali dell’imprenditore)
- Accordi stragiudiziali con i creditori (piani di rientro informali, moratorie volontarie)
- Composizione negoziata della crisi (procedura introdotta nel 2021, con esperto terzo per favorire accordi)
- Piano attestato di risanamento (strumento ex art. 56 CCII, già art. 67 L.F., non omologato ma con protezioni limitate)
- Accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII, già art. 182-bis L.F., omologato dal tribunale con soglia di consenso)
- Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO) (introdotto dal Codice crisi art. 64 CCII, procedimento semplificato senza voto dei creditori, recentemente modificato)
- Concordato preventivo (artt. 84 e ss. CCII, l’erede del concordato della legge fallimentare – con varie sottotipologie: in continuità, liquidatorio, con classi)
- Concordato semplificato per la liquidazione (introdotto nel 2021 per esiti negativi della composizione negoziata, consente liquidazione senza voto creditori)
- Liquidazione volontaria societaria (scioglimento anticipato deciso dai soci con nomina di liquidatore)
- Liquidazione giudiziale (ex fallimento, apertura da parte del tribunale su istanza di creditori o del debitore stesso)
- Liquidazione controllata del sovraindebitato (procedura simile alla liquidazione giudiziale ma riservata a soggetti non fallibili o piccoli, rilevante se l’azienda fosse sotto soglie fallimento)
- Esdebitazione (beneficio di esdebitazione del debitore, rilevante per imprenditori individuali o soci illimitatamente responsabili dopo la chiusura della liquidazione).
Vediamoli singolarmente in sintesi.
Misure interne di risanamento e autotutela
Prima di coinvolgere formalmente i creditori o il tribunale, l’imprenditore dovrebbe attuare tutte le misure interne possibili per tamponare le perdite e riequilibrare la gestione. Questo include:
- Taglio dei costi e dismissioni di asset non strategici: vendita di rami d’azienda non essenziali, cessione di macchinari inutilizzati, riduzione di spese generali, razionalizzazione del personale (attraverso pensionamenti, mobilità volontaria, ecc.).
- Ricapitalizzazione o finanziamento soci: i soci (se ne hanno la possibilità) dovrebbero immettere nuova finanza a titolo di capitale o finanziamento infruttifero, per pagare i debiti urgenti e dare respiro all’azienda. Va ricordato che se il capitale sociale è eroso oltre certi limiti (perdite che riducono il capitale di oltre 1/3 e lo portano sotto il minimo legale), gli amministratori hanno l’obbligo di convocare l’assemblea per ricapitalizzare o liquidare la società (art. 2482-bis c.c. per le SRL) – obbligo che è sospeso solo temporaneamente in situazioni emergenziali (ad esempio fu sospeso durante la pandemia Covid nel 2020).
- Ricerca di nuovi investitori o partners: potrebbe trattarsi di trovare un socio industriale che apporti fondi in cambio di quote societarie, o vendere una partecipazione a un investitore finanziario. Ciò porta diluizione per i vecchi soci, ma può salvare l’azienda dall’insolvenza.
- Rinegoziazione dei tempi di incasso/vendita beni: ad esempio cercare di accelerare gli incassi dei crediti verso clienti (anche ricorrendo a factor pro-soluto per smobilizzare crediti) o vendere scorte di magazzino per fare cassa.
- Verifica e attuazione degli “adeguati assetti” ex art. 2086 c.c.: la legge impone all’imprenditore collettivo di dotarsi di assetti organizzativi adeguati anche a rilevare tempestivamente la crisi e adottare misure senza indugio . Ciò significa, in pratica, implementare un sistema di controllo di gestione, flussi di cassa previsionali e indicatori di allerta. Se l’azienda non l’aveva fatto e si ritrova indebitata, è comunque doveroso correre ai ripari mettendo ordine nei conti e predisponendo un piano di risanamento aziendale interno. L’inosservanza di questo dovere può costituire una colpa grave in capo agli amministratori, sia verso la società sia verso i creditori, in caso di aggravamento del dissesto . Un assetto adeguato aiuterebbe a capire se l’impresa è ancora risanabile o se invece si deve optare per la liquidazione.
Tali misure interne non risolvono magicamente i debiti pregressi, ma possono ridurre l’emorragia e sono un segnale importante anche per i creditori quando poi si andrà a negoziare. Ad esempio, un fornitore sarà più disposto a dar fiducia se vede che l’azienda ha tagliato spese inutili, ha messo capitale fresco e magari ha cambiato management in ottica di rilancio.
Accordi stragiudiziali con i creditori (workout negoziale)
Le misure interne da sole spesso non bastano: occorre agire sul debito pregresso. La via preferibile, quando praticabile, è trovare un accordo bonario con i creditori, senza passare per il tribunale. Questo può assumere diverse forme:
- Piano di rientro rateale: l’azienda propone a ciascun creditore (o ai principali) di pagare il dovuto in più tranche nel tempo, magari con riconoscimento di un piccolo interesse di dilazione. Ad esempio, pagare il debito in 12 rate mensili. Se il creditore accetta, si formalizza possibilmente per iscritto l’accordo (anche via email PEC può avere valore).
- Moratoria breve: l’azienda chiede ai creditori di aspettare un certo periodo senza intraprendere azioni, impegnandosi a non aggravare la loro posizione. Questo spesso si fa con le banche (moratoria di 6 mesi sul pagamento quota capitale mutui, ecc.), ma può succedere anche con fornitori (es. congelamento dei pagamenti per 3 mesi mentre si cerca un investitore).
- Concordato stragiudiziale (accordo transattivo): l’azienda propone il pagamento parziale dei debiti – ad esempio il 50% – entro una certa data, a saldo e stralcio. Se i creditori accettano (magari facendo firmare quietanze a saldo), il resto del debito viene di fatto condonato. Questo strumento è vantaggioso se l’azienda riesce a reperire un po’ di liquidità (spesso grazie a un nuovo finanziamento o all’intervento dei soci) per convincere i creditori con un pagamento immediato, sebbene ridotto.
- Accordo di ristrutturazione “privato”: in alcuni casi più complessi, l’azienda può riunire attorno a un tavolo tutti (o i principali) creditori e cercare un workout globale: si redige un documento di piano di ristrutturazione in cui la società si impegna a certe azioni (vendita di asset, nuovi finanziamenti, ecc.) e i creditori accettano riduzioni o dilazioni. Il tutto però resta su base volontaria: chi non firma non è vincolato.
I vantaggi di restare sul piano stragiudiziale sono la riservatezza (nessuna pubblicità sullo stato di crisi, che potrebbe allarmare mercato e clienti) e la flessibilità (si può confezionare un accordo ad hoc con ciascuno, senza le rigidità delle procedure formali). Inoltre, evita i costi e i tempi del tribunale. Tuttavia, il grosso limite è che serve il consenso di tutti i creditori chiave. Basta un grande creditore che si sfila per far fallire l’intera operazione. Quindi il workout totale è raro senza qualche forma di ombrello legale.
Un altro limite degli accordi puramente privati è che non offrono protezione dalle azioni dei dissenzienti: se il 90% dei creditori sta ai patti ma il 10% no, questo 10% potrebbe comunque agire e pignorare beni, vanificando lo sforzo fatto. E anche i 90% “pazienti” a quel punto perderebbero fiducia. È per questo motivo che il legislatore ha creato istituti come gli accordi di ristrutturazione omologati e i concordati: per vincolare anche le minoranze dissenzienti in certe condizioni.
Tuttavia, tentare accordi stragiudiziali è quasi sempre consigliabile come prima mossa, quantomeno con i creditori principali: se c’è spazio di dialogo, si percepisce già qui. E molte procedure concorsuali nascono come evoluzione di accordi stragiudiziali non completamente riusciti.
Composizione negoziata della crisi (CNC)
La composizione negoziata è uno strumento introdotto con il D.L. 118/2021 (poi confluito nel Codice della crisi agli artt. 12-25 quinquies CCII) che consente all’imprenditore in stato di crisi o insolvenza reversibile di farsi affiancare da un esperto indipendente per tentare una soluzione concordata con i creditori. Si tratta di una procedura volontaria e confidenziale (almeno nella fase iniziale) che si svolge fuori dal tribunale, salvo alcune autorizzazioni.
Come funziona in sintesi: – L’imprenditore presenta istanza di nomina di un esperto della crisi tramite la piattaforma telematica apposita, fornendo informazioni sulla propria impresa e sulle cause della crisi. – Viene nominato (dalla CCIAA o da apposita commissione) un esperto terzo, solitamente un commercialista o avvocato con competenze in ristrutturazioni, che convoca l’imprenditore e ascolta le parti. – Si svolgono incontri tra l’imprenditore e i creditori sotto la supervisione dell’esperto, il quale facilita le trattative, sprona le parti a trovare un accordo equo e valuta la sostenibilità delle proposte. – Durante la composizione negoziata, l’impresa può chiedere misure protettive al tribunale (ad es. sospensione individuale delle azioni esecutive per la durata dei negoziati, in genere 4 mesi prorogabili di 1-2), mantenendo però la gestione ordinaria dell’azienda (sotto vigilanza esperto). – Se la negoziazione riesce, può concludersi con un contratto o più contratti con i creditori (es: accordi di ristrutturazione stragiudiziali, moratorie ecc.), oppure con l’accesso a una procedura concorsuale semplificata (es: concordato). – Se fallisce, l’esperto chiude la procedura; a questo punto l’imprenditore può comunque ripiegare su un concordato semplificato per la liquidazione (vedi oltre) entro 60 giorni dalla relazione finale.
La composizione negoziata è stata pensata per intervenire prima che la situazione precipiti, e con maggiore snellezza rispetto a un concordato. Non prevede la presenza di commissari o giudici (salvo eventuale omologazione di accordi se richiesta, o per l’applicazione di misure protettive).
Vantaggi per l’azienda debitrice: – Mantenimento della gestione (l’esperto non sostituisce l’imprenditore, ha ruolo di mediatore/consigliere). – Riservatezza: fino a che non si chiedono misure protettive, la procedura può restare del tutto confidenziale, evitando allarmismi. – Possibilità di ottenere uno stay legale temporaneo (il tribunale può inibire azioni esecutive e sospendere obblighi contrattuali di pagamento, ad es. può autorizzare l’azienda a non pagare temporaneamente alcuni debiti pregressi per favorire la trattativa). – Accesso a misure premiali: ad esempio, se l’imprenditore segue le indicazioni dell’esperto, non incorre in alcune sanzioni previste altrove (è causa di non punibilità per alcune fattispecie di bancarotta semplice impropria, e c’è esenzione da revocatorie per atti compiuti in coerenza col piano). – Al termine, se un accordo è raggiunto, si può dare ad esso diversi “vestiti”: ad esempio, formalizzarlo come accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII, oppure come piano attestato ex art. 56, oppure ancora se proprio serve coinvolgere tutti, convertire in un concordato preventivo pre-pack.
Nel contesto dell’azienda di reti metalliche, la composizione negoziata potrebbe essere utile se la crisi è affrontabile con la collaborazione di alcuni attori chiave (es. la banca principale, due fornitori grossi e il fisco): l’esperto aiuta a mettere tutti d’accordo su un piano, evitando il default. Ad esempio, l’esperto potrebbe far accettare alla banca un allungamento del mutuo, ai fornitori un pagamento parziale, all’Erario una dilazione massima, il tutto coordinato in un piano industriale di rilancio certificato.
Svantaggi e limiti: – Non garantisce il successo: se i creditori non vogliono trattare o hanno aspettative irrealistiche, l’esperto non ha poteri coercitivi (non c’è voto a maggioranza come nel concordato). – Anche con misure protettive, è una corsa contro il tempo (massimo pochi mesi). – L’azienda deve poter continuare nel frattempo: se la cassa è a zero e nessuno fornisce risorse ponte, la negoziazione rischia di avvenire su un paziente che muore nell’attesa. – Costo: l’esperto va pagato (il compenso è fissato, ma è un costo aggiuntivo per un’azienda già in crisi), anche se ci sono incentivi come credito d’imposta sul 50% delle spese sostenute per l’esperto.
In definitiva, la composizione negoziata è un ottimo strumento per crisi incipienti dove la fiducia tra le parti non è del tutto compromessa e c’è ancora valore da salvare. Se l’azienda di reti metalliche è ancora operativa e con prospettive di mercato, ma opprime dalle passività, questa via merita assolutamente considerazione come step prima di arrendersi al fallimento.
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII, già art. 67 L.F.)
Il piano attestato di risanamento è uno strumento previsto dalla legge che in sé non coinvolge il tribunale ma ha effetti protettivi indiretti. Consiste nella predisposizione di un piano di risanamento dell’impresa con obiettivo di riequilibrio finanziario, accompagnato da una attestazione di un esperto indipendente circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. Se il piano è effettivamente idoneo a risanare l’impresa, e viene poi effettivamente attuato, allora gli atti e i pagamenti compiuti in esecuzione di quel piano non potranno essere soggetti a revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento (art. 56 c.3 CCII). In pratica, è una protezione: i creditori che vengono pagati secondo il piano possono stare tranquilli che non dovranno restituire i soldi al curatore, e l’imprenditore può provare a eseguire il piano senza il timore che, se fallisce il tentativo, tutti gli atti fatti gli si ritorcano contro.
Il piano attestato è uno strumento agile perché non richiede soglie di adesione come l’accordo di ristrutturazione, né voti come il concordato. Tuttavia, proprio per questo, non vincola i creditori dissenzienti: funziona bene se c’è già largo consenso e si vuole solo “blindare” giuridicamente l’operazione.
Scenario tipico di utilizzo: l’imprenditore trova un accordo con la maggior parte dei creditori su come risanare (es: i soci mettono soldi nuovi, la banca allunga mutui, i fornitori accettano sconto del 20% con immediato pagamento del restante 80%). Si fa redigere un piano dettagliato e un professionista (revisore/CPA o esperto in crisi) lo assevera. A quel punto i pagamenti (come quel 80% ai fornitori) non saranno revocabili. Se invece l’impresa poi comunque fallisse, almeno quei fornitori non subiranno la beffa della revocatoria.
Il piano attestato non offre protezione contro azioni esecutive: i creditori restano liberi di agire se lo desiderano. Quindi viene spesso usato quando c’è fiducia e volontà comune di seguire il piano, e i creditori sono disposti ad attendere la sua attuazione.
Nel contesto della nostra azienda, un piano attestato potrebbe essere utile se, ad esempio, un investitore decide di intervenire e serve formalizzare come verranno impiegati i nuovi fondi per pagare i debiti e rilanciare. L’attestatore certifica che con i soldi nuovi e le intese raggiunte l’azienda tornerà solvibile. Tutti collaborano perché convinti che sia la soluzione migliore.
Accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII)
L’accordo di ristrutturazione è un istituto a cavallo tra il privato e il giudiziale: l’imprenditore negozia un accordo con una parte dei creditori, raggiunto il quale chiede al tribunale di omologarlo, cioè di renderlo efficace erga omnes (o quasi). I requisiti base (nel regime ordinario) sono: – Devono aderire all’accordo creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali. – Per i creditori non aderenti, va previsto il pagamento integrale (però con possibili eccezioni: ad esempio, possono essere pagati anche non integralmente se vengono comunque soddisfatti integralmente con finanza esterna, oppure se sono di modesta entità). – Il tribunale omologa dopo aver verificato che l’accordo assicura l’integrale pagamento dei non aderenti nei 120 giorni dalla scadenza originaria o dall’omologazione. – È prevista la possibilità di chiedere misure protettive nel frattempo (simili a quelle del concordato).
L’accordo di ristrutturazione classico era dunque adatto quando c’era un forte nucleo di creditori consenzienti e qualche spicciolo di dissenzienti da pagare cash integralmente. I correttivi del 2020-2022 hanno introdotto varianti: – Accordo ad efficacia estesa: se il debitore ottiene l’adesione del 75% dei creditori di una certa categoria omogenea (es. banche finanziatrici), può chiedere che l’accordo sia esteso dal tribunale anche ai creditori appartenenti a quella categoria che non hanno aderito. Utile per legare le mani a eventuali banche “free rider”. – Accordo agevolato: riservato a debitori minori, con soglia di adesione ridotta al 30% e soddisfazione minima del 20% per chirografari. – Accordo di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO): in realtà il PRO di cui all’art. 64 CCII è definito “piano” ma assomiglia a un accordo che coinvolge anche il tribunale. Ne parliamo a parte tra poco.
Vantaggi dell’accordo: – Non coinvolge tutti i creditori come un concordato, quindi è più rapido e meno costoso. – Può mantenere più riservatezza (anche se l’omologazione è pubblica). – Una volta omologato, vincola i firmatari (ed eventualmente alcune categorie di non firmatari) come fosse un contratto blindato: se uno poi non rispetta, l’accordo è titolo esecutivo.
Svantaggi: – Necessita un’adesione qualificata: convincere il 60% (o 75% se si vuole efficacia estesa) non è banale. – I creditori minori fuori accordo vanno in genere pagati per intero subito, il che richiede cassa o finanza. – Se salta (ad esempio l’imprenditore non rispetta i pagamenti previsti), si torna punto e a capo, e i creditori hanno solo perso tempo.
Nel nostro caso aziendale, l’accordo di ristrutturazione potrebbe essere uno sbocco se, ad esempio, si riesce a far aderire tutte le banche e il Fisco (che magari insieme sono il 60-70% del debito) e si paga fuori accordo i fornitori minori integralmente (magari con un nuovo finanziamento dei soci). In tal modo l’azienda ridurrebbe l’indebitamento e lo spalma nel tempo, uscendo formalmente dalla crisi con un accordo omologato.
Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO)
Introdotto dal Codice della crisi (art. 64 CCII e segg.) e rivisto dal correttivo 2024, il PRO è un ibrido tra accordo e concordato. In sostanza, è un piano proposto dal debitore che può essere omologato dal tribunale se raggiunge certe maggioranze in modo semplificato: – Non c’è votazione formale dei creditori, ma almeno il 30% dei crediti deve aver espresso adesione. – Non c’è obbligo di rispettare le cause di prelazione (a differenza del concordato liquidatorio). – Può essere presentato anche se non tutti i creditori sono d’accordo, e il tribunale può omologarlo valutando che nessun creditore dissenziente riceva meno di quanto avrebbe in liquidazione fallimentare (best interest test). – È pensato per ristrutturazioni con continuità aziendale, anche indiretta.
Il PRO ha regole particolari: – Può prevedere anche la soddisfazione parziale di erario e previdenza, con il vincolo dell’attestazione “non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria” , un po’ come nel concordato preventivo con transazione fiscale, ma qui inserito di default. – Può prevedere la cessione anticipata dell’azienda o rami, autorizzata dal tribunale anche prima dell’omologa, senza applicazione dell’art. 2560 c.c. (cioè l’acquirente non risponde dei debiti aziendali anteriori) . Questa è una novità del correttivo 2024: consente di vendere l’azienda durante il PRO senza trascinarsi i debiti, salvando la continuità. – Deve comunque convincere un tot di creditori a aderire (non è un concordato “imposto” dall’alto).
Lo scopo del PRO è fornire un iter più snello e veloce del concordato, sotto vigilanza del tribunale ma con meno formalismi (ad esempio, non si formano classi obbligatoriamente, non c’è voto, ecc.). Viene quasi da paragonarlo a un “concordato light”.
Quando usarlo? Se la maggior parte dei creditori è collaborativa, ma magari qualche posizione minoritaria non firma l’accordo, il PRO consente di procedere comunque ottenendo l’ok del giudice. Ad esempio, si ha il 50% di adesioni e il business è risanabile: col PRO (basta 30% adesione) si può chiedere l’omologa e lasciare fuori i non aderenti (pagandoli almeno quanto spetterebbe loro in liquidazione).
Nel contesto della nostra azienda indebitata, un PRO potrebbe essere utile se, ad esempio, quasi tutti i creditori principali sono d’accordo su un piano, tranne un paio di minoritari irriducibili: invece di fare un concordato lungo, si opta per il PRO così da bypassare la mancanza di unanimità.
Concordato preventivo
Il concordato preventivo è la procedura di soluzione della crisi regolata dal tribunale, tradizionalmente prevista dalla Legge Fallimentare e ora disciplinata dal Codice della crisi (artt. 84 e seguenti). È il principale strumento concorsuale alternativo al fallimento. Il debitore propone ai creditori un piano, che può consistere o nella continuazione dell’attività (concordato in continuità) oppure nella liquidazione dei beni (concordato liquidatorio), o una combinazione di entrambe. I creditori vengono suddivisi in classi omogenee e sono chiamati a votare sulla proposta; se si raggiungono le maggioranze richieste (maggioranza per teste e per importi all’interno di ogni classe, o maggioranza assoluta se classi non ci sono), il concordato viene poi omologato dal tribunale, diventando vincolante per tutti i creditori anteriori (dissenzienti compresi).
Punti salienti del concordato: – Requisiti di ammissibilità: il piano deve assicurare un soddisfacimento minimo ai creditori chirografari (almeno il 20% nel concordato liquidatorio puro; nessuna soglia minima se c’è continuità aziendale) e non può discriminare arbitrariamente i creditori (va rispettato l’ordine delle cause di prelazione, salvo deroghe solo con consenso delle classi interessate). – Fasi: si presenta un ricorso con il piano e la proposta; il tribunale verifica che i documenti siano completi e ammette l’azienda alla procedura, nominando un commissario giudiziale che vigila sull’impresa durante la procedura. I creditori vengono informati e convocati in adunanza per il voto (anche scritto). Se il voto è favorevole, si passa all’omologazione con sentenza del tribunale. Durante la procedura, c’è il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali (tutela automatica dal momento del deposito). – Gestione dell’impresa: normalmente l’imprenditore rimane in possesso (debtor in possession) nel concordato, salvo atti straordinari che richiedono autorizzazione del giudice delegato. Nella continuità, prosegue l’attività; nella liquidazione, spesso l’azienda cessa l’attività ordinaria e si limita a liquidare beni con un ausilio di eventuali liquidatori concordatari. – Concordato con continuità aziendale: è quando l’impresa continua, in proprio o tramite cessione/affitto a terzi, l’attività almeno in parte. Ci sono vantaggi come la possibilità di mantenere contratti in essere, di ottenere finanziamenti prededucibili per la continuazione, e nessuna soglia minima di pagamento chirografi (perché si suppone che dare continuità produca più valore per tutti). – Concordato liquidatorio: quando prevede solo la vendita dei beni e la cessazione attività. Oggi è meno incentivato: richiede comunque almeno il 20% ai chirografari e l’apporto di risorse esterne se si falciano crediti privilegiati. – Transazione fiscale e contributiva: il concordato può prevedere il pagamento parziale di imposte e contributi, ma occorre il voto favorevole dell’amministrazione finanziaria (che vota nella classe dei chirografari per la parte falciata). Se essa vota contro e rappresenta oltre la metà dei crediti chirografari votanti, la legge attuale (post D.L. 125/2020) impedisce al tribunale di omologare il concordato, a meno che non si tratti di concordato liquidatorio in cui l’erario prende almeno il 10% e i chirografari 0 (caso eccezionale di cram-down erariale). Nel concordato in continuità, invece, la mancata adesione del Fisco può essere superata se il tribunale ritiene che la proposta fiscale non è deteriore rispetto alla liquidazione (c’è stata una evoluzione normativa e giurisprudenziale su questo, col Codice sembra possibile il cram-down erariale in alcuni casi analoghi a quelli del PRO già descritti).
Il concordato preventivo è lo strumento più strutturato e garantito: i creditori partecipano e votano, c’è controllo del tribunale e di un commissario, c’è piena pubblicità (viene iscritta l’ammissione nel Registro Imprese). Come contropartita, c’è la protezione più forte contro le azioni individuali e la possibilità di imporre ai dissenzienti la volontà della maggioranza. È dunque indicato quando la ristrutturazione passa necessariamente per un sacrificio di crediti e non c’è modo di avere l’accordo unanime.
Nel caso dell’azienda di reti metalliche, il concordato preventivo entrerebbe in gioco se, ad esempio, si decide che la via d’uscita è pagare i creditori chirografari al 30% e serve obbligare tutti ad accettare questa falcidia. Oppure se si vuole vendere l’azienda a un investitore e distribuire il ricavato ai creditori chiudendo i debiti residui. Attraverso il concordato, approvato e omologato, l’azienda potrebbe: – Ridurre il debito a un livello sostenibile (tagliando la parte eccedente). – Evitare il fallimento, garantendo comunque un certo ritorno ai creditori. – Uscire dalla procedura “pulita” (i debiti anteriori restano soddisfatti nei limiti della proposta e non possono più essere azionati oltre).
Cosa comporta per l’imprenditore: la gestione è vigilata, e se in passato ha commesso irregolarità di poco conto, il concordato gliene dà sollievo (ad es. in concordato cessano di maturare interessi sui debiti chirografari, e non sono proponibili azioni revocatorie da parte del futuro curatore perché il concordato se riesce evita il fallimento). Tuttavia, se l’impresa non rispetta gli obblighi concordatari poi (ad esempio non paga le percentuali promesse nelle scadenze fissate), il concordato può venir risolto su istanza dei creditori, e a quel punto spesso segue il fallimento.
Va segnalato che per accedere al concordato occorre predisporre molta documentazione (piano dettagliato, relazione giurata di un professionista attestatore che certifichi la fattibilità e veridicità dei dati, ecc.) e ciò ha costi e tempi non trascurabili. Spesso l’azienda deposita un concordato in bianco (ricorso “con riserva”), ottenendo subito le protezioni, e poi ha fino a 120 giorni (prorogabili a 180) per depositare il piano vero e proprio . Questo meccanismo può dare respiro per ultimare trattative mentre già si è al riparo dai creditori.
Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio
Introdotto col D.L. 118/2021 e ora nell’art. 25-sexies CCII, è un istituto speciale: se la composizione negoziata di cui sopra fallisce (l’esperto conclude che non c’è accordo possibile), l’imprenditore entro 60 giorni può proporre al tribunale un concordato semplificato liquidatorio. Semplificato perché: – Non c’è voto dei creditori: il tribunale valuta la fattibilità e convenienza della proposta rispetto all’alternativa del fallimento, e può omologarla anche senza il consenso dei creditori. – È solo liquidatorio: prevede la liquidazione del patrimonio sotto il controllo del tribunale, eventualmente la cessione dell’azienda in esercizio se previsto, e la distribuzione di quanto ricavato ai creditori secondo le regole di prelazione. – Necessita comunque di offrire un sia pur minimo attivo ai creditori chirografari (non c’è una percentuale fissa di legge, ma in pratica se fosse zero sarebbe un problema di convenienza rispetto al fallimento). – È uno strumento di chiusura rapida per evitare di buttare alle ortiche gli sforzi della negoziazione: avendo già scandagliato il mercato durante la composizione negoziata, l’imprenditore può presentare un piano di vendita beni a potenziali acquirenti individuati.
Per l’azienda indebitata, il concordato semplificato è di fatto un “percorso di uscita” se non è stato possibile alcun risanamento: consente di evitare la procedura fallimentare classica, liquidando però in modo ordinato e relativamente celere i beni. Per i creditori può non essere simpatico (perché non possono votare e potrebbero percepire di subire una scelta unilaterale), ma la legge ha voluto privilegiare la soluzione concordata all’ultimo momento per guadagnare efficienza.
Va detto però che il concordato semplificato è uno strumento nuovo e poco applicato sinora, con qualche incertezza interpretativa. È riservato solo al caso in cui l’imprenditore abbia tentato la composizione negoziata: non è libero accesso.
Liquidazione volontaria della società
Un’opzione extragiudiziale, spesso trascurata, è la messa in liquidazione volontaria della società da parte dei soci. Se i soci (o l’assemblea) ritengono che l’azienda non sia più in grado di proseguire proficuamente, possono deliberare lo scioglimento anticipato e nominare un liquidatore. Questi avrà il compito di vendere gli asset, incassare i crediti e pagare i debiti sociali, per poi distribuire l’eventuale residuo ai soci e cancellare la società.
La liquidazione volontaria non è una procedura concorsuale e non offre protezione attiva dalle azioni dei creditori. Tuttavia, finché la società è in liquidazione, la legge dà priorità al pagamento dei debiti sociali rispetto alla restituzione di capitale ai soci (art. 2491 c.c.), e il liquidatore ha il dovere di agire nell’interesse dei creditori. Se i creditori vedono che il liquidatore sta operando diligentemente, spesso preferiscono attendere l’esito della liquidazione volontaria piuttosto che istigare il fallimento. Inoltre, la liquidazione volontaria consente di trattare l’azienda in modo più flessibile e privatistico: ad esempio, vendere i beni in modo diretto e magari con più calma rispetto a un’asta fallimentare (purché ci sia trasparenza e valori di mercato per non incorrere in responsabilità).
È importante però sottolineare che se durante la liquidazione volontaria il liquidatore si accorge che la società non può pagare tutti i creditori integralmente, scatta per legge l’obbligo di chiedere al tribunale l’apertura della liquidazione giudiziale (fallimento) . Questo obbligo è previsto dall’art. 2487 c.c. e oggi ribadito dall’art. 37 CCII: non è ammesso portare avanti a lungo una liquidazione “insolvente” al di fuori del concorso formale. Tuttavia, a volte i liquidatori tardano a fare questo passo nella speranza di trovare accordi con i creditori per chiudere a saldo e stralcio i debiti.
Se tutti i creditori accettassero transazioni e stralci tali da essere pagati almeno parzialmente in liquidazione volontaria, è teoricamente possibile chiudere la società senza passare dal tribunale, anche se insolvente in origine: di fatto la società paga quanto concordato e i creditori rinunciano al resto (questi accordi di remissione dovrebbero essere preferibilmente fatti con atto scritto). Ciò però è rischioso: un singolo creditore dissenziente potrebbe far precipitare le cose.
La liquidazione volontaria in alcuni casi è usata come preludio a una cancellazione “furbesca” della società, per poi sperare che nessuno dichiari il fallimento entro l’anno. Come visto, però, i creditori (soprattutto il Fisco) possono chiedere il fallimento entro 1 anno dalla cessazione attività , e come abbiamo trattato, l’Erario ha addirittura 5 anni di finestra sui propri crediti . Quindi liquidare volontariamente e scappare non funziona se ci sono debiti rilevanti.
Quando considerarla allora? Se l’impresa ha ancora liquidità sufficiente a pagare almeno una buona parte dei debiti, la liquidazione volontaria può essere un modo per evitare la procedura concorsuale, gestendo in autonomia la vendita dei beni e la negoziazione con i creditori. Ad esempio, i soci decidono di mettere dall’esterno la differenza per pagare tutti al 100% (salvando l’onore e la fedina, ed evitando strascichi penali): liquidazione volontaria è ottima in tal caso. Oppure prevedono di riuscire a pagare al 70-80% e confidano che i creditori residui non sprechino soldi in istanze di fallimento per il 20% mancante: è una scommessa, ma qualche volta funziona se il credito residuo è piccolo o i creditori disattenti.
Va ricordato che nella liquidazione volontaria c’è responsabilità dei liquidatori: se pagano male i creditori (ad esempio danno soldi ai soci prima di aver estinto i debiti tributari, o favoriscono un creditore indebitamente), possono essere citati dai creditori danneggiati o incorrere nelle norme dell’art. 36 DPR 602/73 già viste (personale responsabilità se non soddisfano prima il Fisco ).
Liquidazione giudiziale (ex fallimento)
La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale che ha sostituito il “fallimento” dal 15 luglio 2022, mantenendone però l’impianto di base. Viene aperta dal tribunale su ricorso del debitore, di uno o più creditori, o su istanza del PM in certi casi. I presupposti sono: insolvenza conclamata e che il debitore sia soggetto fallibile (non ente pubblico, non piccolo imprenditore sotto soglie – anche se queste soglie sono state eliminate nel nuovo Codice, rendendo praticamente tutte le società di capitali assoggettabili).
Effetti e fasi della liquidazione giudiziale: – Si nomina un curatore (figura analoga al vecchio curatore fallimentare) che prende in mano l’amministrazione dei beni dell’impresa. – L’imprenditore perde la disponibilità dei beni (c.d. spossessamento) che passa al curatore per la liquidazione. – I creditori devono insinuarsi al passivo: presentare domanda per essere ammessi a concorrere sul ricavato dei beni. Non possono più agire individualmente. – Si forma uno stato passivo dei crediti, poi il curatore procede a vendere i beni dell’azienda (sia l’azienda in blocco, se conveniente, sia singoli asset) secondo le procedure competitive (aste, etc.). – Il ricavato, dedotte le spese, viene distribuito tra i creditori secondo le prelazioni (privilegi, ipoteche, chirografi ultimi) e proporzionalmente all’interno di ciascun grado. – Al termine, la società viene cancellata. I debiti non soddisfatti restano inesigibili verso la società perché essa non esiste più, ma se era una società di persone, i soci restano obbligati personalmente per i residui; se era una società di capitali, i residui insoddisfatti in genere rimangono inesigibili (salvo responsabilità personali di amministratori o garanzie). – In certi casi, è possibile per l’imprenditore (persona fisica) o i soci illimitatamente responsabili ottenere l’esdebitazione: il tribunale, a fine procedura, li libera dai debiti residui non pagati dal fallimento, purché meritevoli (non abbiano frodato, ecc.). Per le società di capitali invece non c’è un’esdebitazione perché esse semplicemente si estinguono.
La liquidazione giudiziale è dunque l’ultima risorsa, quella che si verifica quando i tentativi di risanamento falliscono o non sono possibili. Dal punto di vista del debitore, è ovviamente la situazione meno desiderabile, perché perde il controllo dell’azienda e vede spesso dissolversi il valore (anche se i curatori oggi cercano di salvare l’avviamento, non è sempre possibile). Ci sono però casi in cui addirittura il debitore stesso chiede la propria liquidazione giudiziale: ad esempio, per accelerare la chiusura in situazioni disperate, o per accedere a quell’esdebitazione come persona fisica.
Nel nostro esempio, se l’azienda di reti metalliche è completamente decotta e non c’è modo di pagare neanche i debiti privilegiati, il fallimento diventa inevitabile. I creditori lo chiederanno o i soci stessi potrebbero farlo per ridurre i rischi penali (dichiarare tempestivamente il fallimento evita l’aggravarsi del dissesto che esporrebbe a bancarotta semplice).
Conseguenze per gli amministratori e soci: l’apertura della liquidazione giudiziale comporta spesso, come vedremo, l’avvio di indagini per bancarotta a carico degli amministratori (se vi sono state irregolarità) e la possibile chiamata in causa degli amministratori per responsabilità civili (azione di responsabilità ex art. 146 L.F. o artt. 2486-2495 c.c. per aver aggravato il dissesto). Quindi il fallimento porta con sé strascichi personali seri.
Liquidazione controllata del sovraindebitato (per completezza)
Il Codice della crisi prevede, per i soggetti non fallibili (consumatori, piccoli imprenditori sotto soglie, professionisti, etc.), la liquidazione controllata (artt. 268 e segg. CCII) che è simile al fallimento ma su scala più piccola e presso il tribunale civile ordinario. Nel nostro contesto azienda di reti metalliche, è probabile che la società sia fallibile (una SRL o simile), quindi questo istituto non si applicherebbe. Lo citiamo solo per completezza: qualora un imprenditore individuale o una S.r.l.s. micro-imprenditoriale fosse sotto le soglie, invece di fallire andrebbe in liquidazione controllata, con un liquidatore nominato e meccanismi analoghi al fallimento ma semplificati.
Confronto tra concordato preventivo e liquidazione giudiziale (fallimento)
Per chiarire bene al lettore le differenze, presentiamo una tabella comparativa:
| Caratteristica | Concordato Preventivo | Liquidazione Giudiziale (Fallimento) |
|---|---|---|
| Iniziativa | Volontaria del debitore (salvo raro caso di concordato “in bianco” richiesto dai creditori ex art. 302 CCII, quasi mai usato) | Può essere avviata su istanza creditori, del debitore stesso o d’ufficio (PM) se legge lo prevede |
| Gestione dell’azienda | Rimane in capo al debitore (salvo casi di abuso, può essere affiancato da commissario ma non sostituito). In continuità il debitore opera sotto vigilanza.<br>In liquidatorio spesso il debitore cessa l’attività e predispone la liquidazione dei beni con ausilio di professionisti | Affidata a un curatore nominato dal Tribunale. Il debitore perde l’amministrazione e la disponibilità dei beni. L’impresa di regola cessa l’attività (salvo esercizio provvisorio autorizzato in casi eccezionali) |
| Ruolo dei creditori | Votano il piano proposto dal debitore; se approvano a maggioranza e il tribunale omologa, sono vincolati anche i dissenzienti. Possono essere divisi in classi con trattamenti differenziati.<br>Hanno diritto di informazione tramite commissario e possono fare osservazioni. | Non hanno potere decisionale sul piano (non c’è un piano da approvare). Partecipano al concorso presentando domanda di insinuazione. Possono riunirsi in comitato dei creditori con funzioni consultive e di controllo (il comitato esprime pareri su atti del curatore, ma non decide sulla strategia se non in parte). |
| Sorte dell’azienda | Può sopravvivere (concordato in continuità) se il piano prevede di proseguire l’attività ed eventualmente soddisfare i creditori con i proventi futuri. Oppure l’azienda viene ceduta a terzi “risanata” (cioè libera dai debiti precedenti). Nel caso di concordato liquidatorio puro, l’azienda tipicamente cessa e viene liquidata, ma in modo concordato.<br>In ogni caso il concordato tende a preservare valore rispetto alla liquidazione forzata (es: vendite programmatiche invece che aste). | L’azienda come entità giuridica viene dismessa: i beni sono venduti pezzo per pezzo o in blocco per pagare i creditori. È possibile l’esercizio provvisorio solo se dalla prosecuzione temporanea dell’attività può derivare un miglior realizzo (es.: completare commesse in corso). Ma al termine, la società verrà cancellata. L’azienda può eventualmente essere venduta in blocco a un altro soggetto (cd. cessione dell’azienda fallita), ma è una vendita liquidatoria, non prosegue la stessa persona giuridica. |
| Pagamento dei debiti | Avviene secondo le percentuali e le tempistiche stabilite dal piano omologato. Spesso ai crediti privilegiati si paga il 100% (salvo rinunce concordate), ai chirografari una percentuale ridotta.<br>I pagamenti vengono effettuati dal debitore stesso, sotto controllo del commissario o del liquidatore del concordato nominato per l’esecuzione del piano. | Avviene secondo le regole legali: prima si soddisfano le spese della procedura (prededucibili), poi privilegiati (per grado e proporzione se insufficienza), infine eventuale residuo ai chirografari pro quota.<br>I pagamenti li effettua il curatore, dopo aver trasformato in denaro tutto l’attivo, con uno o più riparti approvati dal giudice delegato e dal comitato creditori. |
| Esiti per il debitore | Se adempie al concordato, ottiene la liberazione dai debiti residui come da piano: i creditori sono soddisfatti parzialmente e rinunciano a ulteriori pretese secondo l’omologazione. La società può continuare ad esistere (in continuità) con un nuovo bilancio ripulito dai vecchi debiti falcidiati. Se invece il concordato è liquidatorio, la società può comunque chiudersi ma senza debiti pendenti (in pratica simile a un fallimento sotto controllo).<br>Se il debitore non rispetta il piano, il concordato può risolversi e allora i creditori possono agire per differenza (o richiedere il fallimento, riaprendo le pretese sul residuo). | La società viene dissolta e cancellata al termine. I debiti rimasti insoddisfatti sono inesigibili verso la società (che non esiste più). I creditori sociali non soddisfatti possono eventualmente rivalersi sui soci (fino a concorrenza di somme da questi riscosse in liquidazione, art. 2495 c.c.) , oppure sugli amministratori se ci sono profili di responsabilità (azioni di responsabilità separate).<br>Per l’imprenditore persona fisica (o socio illimitatamente responsabile) c’è la possibilità di ottenere l’esdebitazione personale, cioè l’annullamento dei debiti residui non pagati, su istanza e se il comportamento è stato corretto. Per le società, non serve esdebitazione: la cessazione dell’ente implica l’estinzione delle obbligazioni insoddisfatte, fatte salve le responsabilità di garanti o altre persone. |
| Tempistiche | La procedura di concordato dura generalmente dai 6 ai 18 mesi fino all’omologazione (dipende dalla complessità e dalle eventuali opposizioni). L’esecuzione del piano poi può durare anni (alcuni concordati complessi prevedono pagamenti in 4-5 anni).<br>È quindi un percorso potenzialmente lungo, ma sotto controllo del debitore per la fase di esecuzione. | La liquidazione giudiziale può durare diversi anni (la media dei fallimenti va dai 2 ai 5 anni, ma ci sono casi più rapidi e casi molto più lenti, specie se vi sono cause legali da portare avanti – azioni revocatorie, cause di responsabilità, ecc.).<br>I creditori ricevono acconti man mano che si realizza attivo, ma spesso il grosso si vede solo a fine procedura. Dal punto di vista del debitore, dal giorno della sentenza di apertura egli non ha più potere: aspetta solo l’esito finale. |
In sintesi, il concordato preventivo è orientato a dare una seconda chance all’impresa (specie quello in continuità) o quantomeno a chiudere la partita debitoria in modo concordato; la liquidazione giudiziale è la fine ingloriosa dell’impresa, con l’unico scopo di liquidare equamente per i creditori. Ovviamente, dal punto di vista del debitore sarà preferibile tentare il concordato se c’è uno spiraglio, mentre i creditori potrebbero preferire il concordato se offre loro più di quanto avrebbero in fallimento (anche se magari meno del 100% del credito) e in tempi certi.
Profili penali connessi alla crisi d’impresa (bancarotta e altri reati)
Quando un’azienda cade in una grave situazione debitoria, oltre ai rischi economici e civilistici sorgono purtroppo anche possibili conseguenze penali. L’ordinamento italiano prevede varie fattispecie di reato che possono vedere coinvolti gli amministratori, i liquidatori e talvolta anche i soci (se sono ad esempio amministratori di fatto) in relazione alle azioni compiute durante lo stato di crisi o di insolvenza. I due grandi ambiti da considerare sono:
- I reati fallimentari (o comunque collegati all’insolvenza), principalmente la bancarotta nelle sue forme (fraudolenta, semplice, preferenziale) e alcuni reati societari connessi (es. falso in bilancio “pregresso” che sfocia in bancarotta impropria).
- I reati tributari connessi al mancato pagamento di debiti fiscali, di cui in parte abbiamo già parlato sopra (omessi versamenti, sottrazione fraudolenta, ecc.), e altri reati finanziari come indebite compensazioni, frodi IVA, ecc., che spesso emergono quando un’azienda in crisi cerca di “arrangiarsi” con mezzi illeciti.
Analizziamo i principali, dal punto di vista del debitore (amministratore/società) che vuole evitare di incorrere in responsabilità penale e difendersi da eventuali accuse.
Bancarotta fraudolenta e semplice
Il reato di bancarotta si concretizza quando viene dichiarato il fallimento (liquidazione giudiziale) di una società e si riscontra che gli amministratori hanno compiuto, prima o durante la procedura concorsuale, atti illeciti di distrazione di beni, di occultamento o falsificazione di documenti contabili, o altri comportamenti dolosi o gravemente imprudenti che hanno danneggiato i creditori.
Le principali forme di bancarotta sono: – Bancarotta fraudolenta patrimoniale: quando l’amministratore (o chi per lui) distrugge, occulta, disperde, distrare parte dell’attivo o simula passività inesistenti, con dolo (intenzione di frodare i creditori). Esempi: vendere macchinari di proprietà a prezzo vile a una società riconducibile alla famiglia, prelevare indebitamente denaro dalle casse sociali, sottrarre merce dal magazzino prima del fallimento, cedere crediti a terzi compiacenti per non farli trovare al curatore. Questa è la bancarotta più grave, punita con la reclusione da 3 a 10 anni (art. 216 L.F., ora trasfusa negli artt. 322-323 CCII). Coinvolge spesso l’amministratore di fatto se esistente, oltre a quello formale. Chiunque concorre (anche un terzo complice che riceve i beni distratti consapevolmente) può risponderne. – Bancarotta fraudolenta documentale: se l’imprenditore occulta, distrugge, falsifica in tutto o in parte le scritture contabili, o le tiene in maniera tale da non rendere ricostruibile il patrimonio e il movimento degli affari. In pratica, non farsi trovare con i libri in ordine al fallimento. Esempi: aver tenuto le scritture “in nero”, oppure gettarle/bruciarle prima dell’arrivo del curatore, o creare documenti falsi posticci. Pene simili alla patrimoniale (fino a 10 anni). – Bancarotta semplice: è la forma colposa o da comportamenti imprudenti. Si realizza ad esempio se l’imprenditore ha aggravato il dissesto con spese personali eccessive, operazioni azzardate, o se non ha tenuto i libri in ordine per negligenza (senza però occultarli dolosamente). Oppure se non ha chiesto il fallimento in tempo pur sapendo dello stato di insolvenza e ha lasciato aggravare i debiti. La bancarotta semplice è punita meno severamente (fino a 2 anni, art. 217 L.F.), ma comunque macchia penale. Oggi alcune ipotesi di bancarotta semplice sono state riviste: ad esempio, la violazione dell’obbligo di dotarsi degli adeguati assetti e attivarsi ex art. 2086 c.c. può configurare un caso di “bancarotta semplice impropria” punito penalmente (il nuovo art. 330 CCII prevede sanzioni se la crisi non è stata affrontata per tempo dall’organo amministrativo). – Bancarotta preferenziale: quando, in periodo di insolvenza già in essere, l’imprenditore paga un creditore a scapito di altri con l’intenzione di favorirlo. È considerata un reato (art. 216 co.3 L.F.): privilegiare certi creditori senza una base di legge è visto come atto doloso di favoritismo che altera la par condicio. Esempio: a ridosso del fallimento, pagare integralmente un fornitore amico lasciando tutti gli altri a bocca asciutta. Pena assimilabile a quella fraudolenta (fino a 2-6 anni di reclusione, a seconda delle circostanze).
Un amministratore diligente cercherà di evitare comportamenti che possano ricadere in queste fattispecie. I consigli pratici: – Non sottrarre beni dall’azienda in crisi: qualsiasi trasferimento a sé o a terzi non a valore di mercato e senza reale utilità per l’impresa può essere visto come distrazione. Se è necessario vendere un bene, farlo a condizioni trasparenti e a valore congruo, preferibilmente per pagare debiti aziendali. – Tenere i libri contabili aggiornati e corretti. Anche se l’azienda è allo sbando, è dovere dell’amministratore assicurare la regolarità delle scritture. Questo è cruciale: i giudici di solito guardano con severità chi presenta conti confusi in fallimento, perché pensano subito a dolo. Viceversa, una contabilità in ordine può evitare l’accusa di bancarotta documentale. – Attivarsi tempestivamente: se ormai l’insolvenza è palese, trascinare la situazione sperando in miracoli e intanto fare altre operazioni rischiose può peggiorare il quadro. Ad esempio, continuare a chiedere fidi bancari quando si sa che non si potrà restituire può configurare tratti di mala gestio (e in taluni casi estremi anche truffa contrattuale verso la banca). Meglio fermarsi e valutare una procedura concorsuale. Ciò non solo è più corretto ma anche utile a difesa: un amministratore che ha chiesto concordato appena capito di non poter pagare sarà più al riparo da accuse di bancarotta semplice rispetto a chi ha accumulato debiti per altri 2 anni sperando invano. – Non fare pagamenti preferenziali “occulti”: se davvero c’è ragione di pagare un certo fornitore prima degli altri (es. perché altrimenti si ferma la produzione), documentare bene questa scelta e informare eventualmente gli altri creditori del perché. In un eventuale fallimento, poter spiegare che quel pagamento era necessario per evitare danni peggiori può aiutare. Ma di regola, appena si prospetta insolvenza, meglio bloccare pagamenti non ordinari e rivolgersi a un avvocato esperto prima di scegliere chi pagare e chi no, proprio per evitare rischi di preferenza. – Conservare la documentazione: non farsi tentare dall’idea di far sparire carte compromettenti. Oltre a essere eticamente scorretto, se scoperto peggiora la situazione e integra reato. Meglio avere delle irregolarità documentate (ad esempio, emergono prelievi non giustificati sui conti aziendali) e provare a spiegare che non erano distrazioni dolose ma errori, piuttosto che far sparire i libri e prendersi automaticamente una bancarotta fraudolenta documentale.
Va ricordato che i reati di bancarotta scattano solo in caso di apertura di fallimento o liquidazione giudiziale. Se l’impresa riesce a evitare il fallimento (ad esempio chiudendo in concordato, o liquidandosi senza bisogno di fallire), i reati fallimentari in teoria non si configurano. Tuttavia, attenzione: l’art. 236 L.F. (ora art. 341 CCII) prevede reati di bancarotta anche in caso di concordato preventivo non andato a buon fine o di amministrazione straordinaria, e soprattutto ci sono reati “parabancarotta” come la ricorso abusivo al credito (art. 325 CCII, già art. 218 L.F.) che punisce chi, in stato di dissesto, continua a prendere credito ingannando i creditori sulle condizioni dell’impresa. Quindi anche senza fallimento, se emergono condotte di frode verso creditori durante la crisi, potrebbero inquadrarsi in altre fattispecie penali.
Negli ultimi aggiornamenti giurisprudenziali, segnaliamo: – La Cassazione ha chiarito che non occorre provare un nesso causale tra le condotte di bancarotta fraudolenta e il fallimento: ad esempio, anche se l’azienda sarebbe comunque fallita per la crisi, il fatto di aver distratto beni è reato in sé, non serve che quel gesto abbia causato il dissesto (principio di autonomia del reato rispetto all’evento fallimentare). – È stata confermata la responsabilità anche di amministratori solo formali o non operativi se, pur senza deleghe, erano a conoscenza della crisi e non sono intervenuti per fermare operazioni illecite dei delegati . In pratica, il “prestanome” non è immune: se accetta la carica, ha un obbligo di vigilanza e può concorrere per omissione nei reati del dominus (ex art. 40 cpv. c.p.: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo) . Questo è cruciale: chi presta il nome in società altrui rischia pene gravi se il titolare di fatto commette bancarotta, a meno che possa dimostrare di essere stato completamente all’oscuro (cosa difficile). – La Cassazione ha recentemente inquadrato il falso in bilancio che abbia occultato perdite, seguito dal fallimento, come una bancarotta fraudolenta impropria: in sostanza, truccare i conti per nascondere lo stato dell’azienda e poi fallire integra due reati, e il falso in bilancio aggravato dal fallimento viene punito anche come bancarotta impropria . Con sentenza n. 631/2025 è stato affermato che “il falso in bilancio, seguito dal fallimento, integra l’autonomo reato di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario” . Dunque, amministratori che hanno manipolato bilanci per continuare a ottenere credito o ritardare il fallimento possono essere chiamati a rispondere di bancarotta fraudolenta oltre che del reato di falso in sé. – È possibile punire per bancarotta anche comportamenti omissivi come il non aver attivato gli strumenti di allerta o il persistere in attività in perdita: ad esempio, Cass. 15054/2024 (già citata) evidenzia la responsabilità di chi, pur vedendo l’insolvenza, non ha preso misure adeguate .
In concreto, difendersi da accuse di bancarotta richiede spesso di dimostrare che, sebbene ci siano stati insuccessi, non c’era volontà di frodare. Ad esempio, se viene contestata una distrazione, far emergere che quell’operazione in realtà era a vantaggio della società (anche se poi non ha dato i risultati sperati) e non un arricchimento personale. Oppure, se mancano documenti contabili, provare che è stato un evento fortuito (incendio, alluvione) e non deliberata cancellazione. Queste difese vanno impostate con avvocati penalisti, e soprattutto prevenute con una buona condotta ex ante.
Reati tributari rilevanti
Abbiamo già menzionato i principali nel contesto dei debiti fiscali: – Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs.74/2000): soglia €150.000 per periodo d’imposta. Reclusione fino a 2 anni . Questo tipicamente riguarda IRPEF trattenuta ai dipendenti o collaboratori e non versata al fisco. – Omesso versamento IVA (art. 10-ter D.Lgs.74/2000): soglia €250.000 per periodo d’imposta (annuale). Reclusione fino a 2 anni. Quindi se l’azienda di reti metalliche non versa IVA per oltre 250k in un anno, commette reato. Il termine di consumazione è il termine per il versamento dell’IVA a saldo (di solito 27 dicembre dell’anno successivo se parliamo di IVA annuale, o 16 marzo con dichiarazione IVA). – Indebita compensazione di crediti inesistenti (art. 10-quater): se la società compensa nel modello F24 debiti fiscali con crediti falsi o inesistenti sopra una certa soglia (50k euro), è reato. In crisi molte imprese tentano di compensare debiti IVA con crediti d’imposta fittizi per non pagare: è una pratica molto rischiosa (pena fino a 5 anni per importi elevati). – Dichiarazione fraudolenta o infedele (artt. 2,3,4 D.Lgs.74/2000): se per evitare di emergere debiti l’impresa ha falsificato le dichiarazioni (frode con fatture false o dichiarazione infedele superate certe soglie di imposta evasa), sono reati tributari anch’essi (non direttamente legati allo stato di crisi, ma la crisi spesso spinge a frodi fiscali, es. emettere fatture false per ridurre l’IVA da versare). – Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs.74/2000): già spiegata: se in pendenza di un debito tributario > 50.000 € uno compie atti diretti a renderne inefficace la riscossione (alienazioni simulate, costituzione di fondi patrimoniali o trust), commette reato con pena fino a 6 anni nei casi gravi . Abbiamo citato il caso del trust: la Cassazione ha ritenuto reato costituire un “trust autodestinato” in cui l’imprenditore sposta i beni per schermarli dal fisco . Anche vendere la villa a un parente per evitare l’ipoteca del fisco può far scattare questo reato (se le imposte dovute superano soglia). – Reato di emissione assegni scoperti o protesti: non è un reato penale ma un illecito amministrativo, però degno di nota: se in crisi l’azienda emette assegni bancari che poi tornano impagati, l’amministratore rischia sanzioni (e interdizione di emettere assegni per 2 anni) ai sensi della L. 386/90. Non è penale, ma è un guaio (specie se l’azienda lavora molto con assegni, ad esempio in settori dove i pagamenti commerciali avvengono così).
Strategie per evitare i reati fiscali: la prima è pagare il giusto quando possibile. Se ci si accorge di aver saltato un versamento, c’è lo strumento del ravvedimento operoso: pagando con ritardo ma spontaneamente prima che parta qualunque controllo, le sanzioni amministrative sono ridotte e, soprattutto, se paghi entro certi termini, eviti l’elemento oggettivo del reato. Ad esempio, per l’omesso versamento IVA: se l’azienda versa l’IVA dovuta (anche tardivamente, magari qualche mese dopo la scadenza) e comunque prima che arrivi una contestazione penale, non c’è più reato (perché reato è non aver versato oltre soglia entro il termine di legge; però se versi prima che il procedimento parta spesso viene considerata causa estintiva – in realtà formalmente no per IVA, ma per le ritenute sì è causa di non punibilità se paghi prima dell’apertura del dibattimento , e anche per IVA di solito l’azione penale di fatto non parte se sanno che hai pagato).
Quindi, per IRPEF e contributi c’è causa di non punibilità: art. 13 D.Lgs.74/2000 dice che se paghi integralmente il debito tributario (anche a rate purché completate) prima che inizi il processo penale di primo grado, il reato si estingue. Approfittarne se si può.
Nel caso di sottrazione fraudolenta, è più subdolo: evitare di compiere atti del genere quando si hanno debiti fiscali noti. Meglio confrontarsi con l’agenzia e magari chiedere un piano, piuttosto che vendere di nascosto beni. Una difesa, se uno è accusato, può essere sostenere che l’atto compiuto non era fraudolento ma genuino (es. venduto bene a prezzo di mercato per pagare dipendenti, non per frodare il fisco). Ma dipende dalle circostanze.
Nel contesto penal-tributario, l’aggiornamento giurisprudenziale da notare: – Cassazione 2024 ha confermato che anche atti come costituire trust, se serve solo a rendere più difficoltosa la riscossione, integrano la sottrazione fraudolenta . – Ci sono state pronunce (Corte Costituzionale, ecc.) sulla soglia dei 250k per IVA, giudicandola ragionevole. – Una Cassazione Penale di aprile 2024 ha trattato l’ipotesi di costituire un trust: ritenuta reato anche se i beni erano ipotecati dal fisco, perché comunque il trust ostacolava l’esecuzione, che avrebbe richiesto azione giudiziaria per escluderlo .
In generale, per l’imprenditore indebitato che vuole limitare i rischi penali, i consigli sono: – Evitare la tentazione di soluzioni “fai da te” illegali per salvare la baracca (tipo nascondere merci, creare doppie contabilità, aprire una nuova società e spostare clienti e asset lì lasciando i debiti nella vecchia – quest’ultima pratica, se fatta male, può portare a bancarotta fraudolenta o a configurare un reato di sottrazione fraudolenta per le imposte, ed è comunque soggetta ad azione revocatoria). – Consultare subito legali esperti appena si prospetta una crisi: meglio sapere cosa non fare, che poi trovarsi a processo. – Se si decide di far fallire l’azienda, farlo in modo ordinato: predisporre un rendiconto finale, consegnare i libri in tribunale, spiegare eventuali mancanze. La collaborazione con il curatore e l’autorità spesso evita o attenua le accuse (comportamento post-fallimentare corretto). – Ricordare che la responsabilità penale è personale: il fatto che la società sia un soggetto distinto non protegge l’amministratore. Quindi non ci si può nascondere dietro “l’ho fatto per salvare la società”. Nei reati come bancarotta o tributari, risponde chi ha agito (amministratore di diritto o di fatto). Anche i soci che non hanno cariche in genere non rispondono penalmente dei debiti (non esiste reato di “essere socio di società insolvente”!), però se il socio istruisce l’amministratore a commettere certi atti, potenzialmente potrebbe essere co-imputato come istigatore o amministratore di fatto.
Responsabilità civili degli amministratori e tutela del patrimonio personale
Parallelamente ai rischi penali, una situazione di indebitamento grave apre il tema delle responsabilità civili a carico degli amministratori (e in alcuni casi dei soci) per i danni causati dalla mala gestio o dall’inosservanza dei doveri legali.
In Italia vige il principio che la società di capitali ha personalità giuridica e risponde con il suo patrimonio dei debiti sociali. I soci di S.r.l. o S.p.A. di norma non rischiano oltre il capitale investito (responsabilità limitata). Gli amministratori, dal canto loro, non sono garanti dei debiti sociali. Tuttavia, ci sono situazioni in cui amministratori o soci possono diventare personalmente responsabili di parte dei debiti, o comunque dover risarcire danni al patrimonio sociale che indirettamente avvantaggiano i creditori.
Principali profili di responsabilità: – Azione di responsabilità verso gli amministratori (artt. 2476 e 2393 c.c. e art. 146 L.F.): se gli amministratori con atti o omissioni hanno causato un danno al patrimonio sociale (ad esempio, hanno compiuto operazioni imprudenti che hanno aggravato le perdite), la società – o in caso di fallimento il curatore a nome della massa – può agire contro di loro per il risarcimento. Nei casi di insolvenza, il curatore esercita l’azione anche nell’interesse dei creditori (viene detta “azione di responsabilità per deficit fallimentare”). Ad esempio, la Cassazione ha affermato che amministratori non operativi che non hanno impedito l’aggravarsi del dissesto ne rispondono . Oppure, se hanno violato l’obbligo di preservare il capitale sociale (2486 c.c.), potrebbero dover risarcire l’importo delle perdite incrementali dopo il manifestarsi causa di scioglimento. – Responsabilità per violazione degli obblighi in caso di perdita di capitale (art. 2486 c.c.): questa norma dice che dal momento in cui si verifica una causa di scioglimento (es: perdite che riducono capitale sotto minimo), gli amministratori devono gestire solo conservativamente il patrimonio. Se continuano l’attività aggravando il passivo, sono responsabili dei danni causati. Il Codice della crisi ha introdotto un criterio semplificato di calcolo del danno: la differenza tra patrimonio netto alla data della causa di scioglimento e patrimonio netto al fallimento, oppure tra debiti a quelle date (metodo per quantificare l’aggravamento). Quindi, amministratori che ritardano il fallimento possono trovarsi a dover sborsare la differenza di patrimonio peggiorato in quel lasso di tempo. – Obblighi ex art. 2086 c.c.: come visto, l’amministratore deve dotare la società di assetti adeguati e attivarsi per superare la crisi senza indugio . In caso di inadempienza, questo può costituire colpa grave e fonte di responsabilità. Ad esempio, non aver istituito controlli interni che avrebbero potuto evitare una certa perdita, o non aver colto segnali di allerta che hanno portato poi al crack, potrebbe essere contestato come violazione di dovere che ha danneggiato i creditori. Finora questo è un concetto nuovo e in evoluzione, ma la tendenza è stringere le maglie: l’amministratore deve “mettercela tutta” per prevenire la crisi, se non lo fa e l’azienda fallisce, rischia di doverne pagare le conseguenze. – Fideiussioni e garanzie personali: al di là della responsabilità legale, spesso gli imprenditori si trovano esposti personalmente perché hanno firmato garanzie. Il caso tipico è la fideiussione bancaria: se la società non paga il mutuo, la banca aggredisce direttamente il patrimonio personale del fideiussore (spesso l’amministratore stesso). Questa non è una “responsabilità per fatto illecito”, ma un’obbligazione contrattuale assunta volontariamente. C’è poco da difendersi qui, se non sperare di negoziare con la banca (a volte, in un accordo di ristrutturazione, il garante può chiedere esdebitazione parziale per sé in cambio di qualche sacrificio immediato). Da notare: la fideiussione omnibus di solito firmata per i fidi bancari a favore delle società è stata oggetto di contestazioni in giurisprudenza (ci sono state pronunce che ne hanno dichiarato la nullità in certe clausole uniformi per violazione antitrust), ma questo è un tema tecnico: se rilevante, un avvocato potrebbe valutare se la fideiussione personale è impugnabile, come linea difensiva. In genere però i giudici la tengono valida e quindi il garante paga. – Responsabilità verso il Fisco e enti: su questo torniamo all’art. 36 DPR 602/73 menzionato. In caso di liquidazione della società o cessazione, i liquidatori rispondono in proprio se pagano altri e non le imposte dovute . I soci rispondono delle imposte dovute dalla società nei limiti di quanto percepito negli ultimi 2 anni di liquidazione . E gli amministratori rispondono se negli ultimi 2 anni hanno compiuto operazioni liquidatorie o occultato cespiti . Inoltre assumono responsabilità da liquidatori se hanno sciolto la società senza nominare liquidatori . Questa è una responsabilità particolare, che scatta su presupposti specifici: tipicamente, se la società viene chiusa e il Fisco rimane insoddisfatto, può rifarsi su tali figure. Anche senza fallimento, come visto il Fisco può notificare atti ai soci successori e sta a loro provare eventualmente di non aver preso nulla (Cass. SU 6071/2013, Cass. 26184/2024 hanno ribadito che il socio succede comunque nelle posizioni debitorie ex lege, indipendentemente dall’aver ricevuto beni, salvo poi opporre limite intra vires in giudizio ). – Responsabilità verso terzi per atti specifici: ad esempio, se l’amministratore ha violato norme di legge arrecando danno a terzi (non creditori sociali in generale, ma terzi specifici), può risponderne. Esempio: non ha versato contributi ai dipendenti – c’è la sanzione amministrativa, ma il dipendente non può chiedere a lui i contributi (lo fa INPS al limite). Oppure ha violato norme ambientali e c’è stato danno, può aver responsabilità extracontrattuale.
Difendersi dalle azioni di responsabilità dei creditori/trustee: – La miglior difesa è una buona condotta: se un amministratore può dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare danni (diligenza richiesta ex art. 2392 c.c.), potrà respingere le accuse. Ad esempio, ha consultato esperti, seguito i loro consigli, convocato i soci quando dovuto, tentato il concordato invece di latitare, etc. La Cassazione spesso nelle cause di responsabilità valuta se l’amministratore ha tenuto un comportamento “in linea col dovere di correttezza e diligenza professionale”. Se sì, non è colpevole del fallimento in sé (non c’è responsabilità oggettiva per insolvenza); paga solo se ha commesso errori specifici evitabili o violato obblighi precisi. – Nel caso di azioni promosse dal curatore, spesso questi chiede somme ingenti (copertura dell’intero deficit). La difesa cercherà di ridurre la quantificazione: magari provando che il dissesto era dovuto a cause esterne (es. calo mercato, insolvenza di grosso cliente) e non alle scelte gestionali, quindi il “danno” imputabile agli amministratori è minore. Ad esempio, si dimostrerà che, anche se avessero chiuso prima, i creditori non avrebbero comunque recuperato molto di più (questo per confutare il calcolo di aggravamento). – Un aspetto cruciale: se più amministratori erano in carica, c’è responsabilità solidale tra loro verso la società, salvo potersi liberare per la parte di competenza di altri se erano funzioni distinte. Ciò può portare un amministratore a chiamare in causa i co-amministratori (o i sindaci) per condividere l’eventuale condanna. Anche i sindaci possono rispondere se non hanno vigilato e la crisi si è aggravata anche per loro omissioni. – Importante per l’amministratore è aver segnalato per tempo ai soci perdite e problemi. Ad esempio, se l’assemblea dei soci ha deliberato di proseguire l’attività nonostante perdite rilevanti (ex art. 2447 c.c.), la responsabilità non è più solo dell’amministratore. – Per i soci di S.r.l.: di regola non rispondono oltre conferimenti, ma c’è una situazione in cui possono rispondere direttamente verso creditori sociali: se abusano della personalità giuridica, cioè confondono patrimonio sociale e personale (commistione di conti), usano la società per frodare creditori (società sottocapitalizzata e poi drenano risorse). In tali casi estremi, la giurisprudenza ha talvolta ammesso il “piercing the corporate veil”: i creditori che provino che la società era uno schermo fittizio possono tentare di aggredire i soci oltre il capitale. Non è codificato ma alcune pronunce l’hanno fatto soprattutto in caso di società unipersonali usate fraudolentemente.
In pratica per il nostro imprenditore di reti metalliche: – Se ha una S.r.l., deve rispettare le regole societarie: appena il capitale è azzerato, non distribuire utili inesistenti, non fare prelevamenti a favore soci, informare i soci e decidere se ricapitalizzare o liquidare. La mancata attivazione ex 2482-bis è colpa grave. – Monitorare costantemente la situazione finanziaria: ormai la legge glielo chiede. Non può dire “non mi ero accorto che eravamo insolventi”. – Documentare le decisioni: verbali di cda/assemblea dove si spiegano le ragioni di scelte come continuare l’attività se c’è crisi (ad esempio: “nonostante la perdita, confidiamo in un nuovo ordine già in negoziazione”). Se poi va male, almeno si vede che c’era un razionale (anche se magari troppo ottimista). – Non fare il “testa di legno”: se è amministratore solo di nome e qualcun altro decide, formalmente dovrà rispondere lui. Quindi pretendere informazioni e intervenire se nota cose sbagliate, altrimenti meglio dimettersi tempestivamente documentando perché (dimissioni “di dissenso motivato” possono aiutare ad evitare responsabilità successive). – Per tutelare il proprio patrimonio personale, se ha dato garanzie, l’unica è cercare di transare con i creditori garantiti: ad esempio offrire loro qualcosa subito in cambio della liberatoria. Oppure sperare in vizi formali di quelle garanzie (raramente). – Valutare anche l’assicurazione RC amministratori (polizza D&O): molte società fanno polizze a copertura delle responsabilità civili degli amministratori. Non coprono atti dolosi ovviamente, ma per colpa potrebbero risarcire parte dei danni. Se c’è, attivarla in caso di azione di responsabilità.
Domande frequenti (FAQ)
D: La mia azienda è sommersa di debiti e non riesco a pagarli tutti. Posso rischiare di andare in carcere per questo?
R: In linea generale, l’insolvenza civile (cioè non pagare i debiti) non comporta pene detentive: non si va in carcere solo perché non si riescono a pagare fornitori o banche. Tuttavia, come visto, ci sono situazioni in cui la gestione dell’azienda indebitata può far scattare reati specifici. Ad esempio, se non versi l’IVA o le ritenute oltre soglie di legge, rischi sanzioni penali . Oppure se, in caso di fallimento, hai distratto beni o falsificato le scritture, puoi essere accusato di bancarotta fraudolenta e quella sì porta al carcere (fino a 10 anni nei casi più gravi). Quindi: non c’è mai reato per la sola insolvenza di per sé, ma comportamenti illeciti durante la crisi possono avere conseguenze penali. Se gestisci la situazione con correttezza e trasparenza, privilegiando strumenti legali (concordato, accordi) e non commetti frodi, difficilmente sarai soggetto a pene detentive. In caso di dubbi, coinvolgi subito un legale per evitare passi falsi.
D: Ho un debito enorme con il Fisco. È vero che conviene far fallire la società così i debiti fiscali “spariscono”?
R: Attenzione: il fallimento (liquidazione giudiziale) non cancella magicamente i debiti fiscali. Se la società fallisce e viene poi chiusa, è vero che la società in sé cessa di esistere e il Fisco non può più pretendere nulla da essa. Ma il Fisco ha strumenti per colpire altri soggetti: i soci, nei limiti di quanto riscosso in liquidazione (o anche oltre, come hanno sancito le Sezioni Unite 2021/2024: i soci succedono nei debiti e devono eccepire se non hanno ricevuto nulla ); i liquidatori o amministratori, se hanno pagato altri lasciando indietro imposte . Inoltre, i debiti IVA e imposte dirette possono portare a sanzioni personali (anche penali) a carico dell’amministratore. Senza contare che spesso l’amministratore è anche garante fiscalmente: ad esempio, l’amministratore che non versa l’IVA potrebbe essere soggetto a sequestro di beni personali in sede penale equivalente all’IVA evasa. Dunque, “far fallire per non pagare le tasse” è un falso mito: il Fisco ha il dente avvelenato e userà tutte le armi (compresa la prosecuzione delle azioni esecutive 5 anni post-chiusura ). Meglio piuttosto trattare con l’Erario – con transazioni fiscali in concordato, rateizzazioni, etc. – per ridurre il carico legalmente.
D: La banca ha un mutuo garantito da ipoteca sulla fabbrica. Se andiamo in concordato o fallimento, può comunque prendersi l’immobile?
R: In caso di concordato preventivo, l’ipoteca della banca rimane valida ma la soddisfazione avverrà secondo la proposta concordataria. Spesso si prevede di vendere l’immobile e pagare la banca fino a copertura del suo credito privilegiato. Se il valore di realizzo è minore del debito, la banca prenderà tutto il ricavato e la parte residua del credito (chirografaria) riceverà la percentuale concordataria generale. Durante il concordato, la banca non può agire autonomamente: è bloccata dal divieto di azioni esecutive. Quindi non “si prende” l’immobile da sola, ma aspetta il piano. In fallimento, la banca è creditore privilegiato: il curatore venderà l’immobile ipotecato (magari delegando la banca stessa, ma sotto controllo) e poi dalla somma ricavata soddisferà prima la banca fino a concorrenza del credito + interessi (entro i limiti di grado). Se qualcosa avanza, va agli altri creditori; se non basta, la banca resta con un’insoddisfazione sul pezzo chirografario. Tecnicamente, se il fallimento tarda, la banca potrebbe chiedere al giudice di escludere l’immobile dalla massa e venderlo separatamente (azione esecutiva individuale sospesa salvo autorizzazione in caso di ritardi). Ma in genere in fallimento la banca collabora col curatore. Quindi, ipoteca = prelazione forte, ma non dà potere di agire liberamente in presenza di procedure concorsuali.
D: Sono amministratore unico: rischiando un fallimento, come posso proteggere i miei beni personali?
R: Se hai firmato fideiussioni o altri impegni personali, questi purtroppo rimangono validi: la procedura concorsuale non li cancella. Puoi però, ad esempio in un accordo di ristrutturazione, pattuire che la banca rinunci ad agire su di te a fronte di un certo pagamento della società (liberatoria del garante). Vale la pena provare a negoziarlo. Per il resto, se non hai garanzie personali, il tuo patrimonio personale è al riparo dai creditori sociali salvo tu abbia compiuto irregolarità. Ad esempio, se hai distratto soldi dell’azienda sul tuo conto, il curatore può farti causa per farti restituire quelle somme. Se la società ha pagato tuoi debiti personali, idem. Quindi per proteggerti, segrega i patrimoni: non confondere conti azienda/famiglia, non usare beni aziendali gratis, ecc. Altro aspetto: occhio a eventuali fideiussioni da moglie o parenti (capita che i coniugi firmino come garanti): anche quelle andrebbero risolte con le banche se possibile. In estrema ratio, c’è lo strumento della esdebitazione personale post-fallimento, ma vale se sei imprenditore individuale o socio illimitato; come amministratore di S.r.l. non ne hai bisogno perché i debiti della società non cadono su di te – eccetto appunto le garanzie. Quindi proteggere i beni personali significa agire in prevenzione: non dare garanzie a cuor leggero, e gestire l’azienda senza commistioni.
D: Meglio presentare concordato preventivo o lasciare che i creditori mi portino al fallimento?
R: Dal punto di vista del debitore, è quasi sempre preferibile il concordato preventivo, perché ti consente di avere maggior controllo sull’esito (proponi tu come sistemare i debiti) e di solito di conservare l’azienda (se in continuità) o comunque di evitare le sanzioni più afflittive del fallimento (ad es. inibizioni, spossessamento totale, nomina di estranei). Anche per la tua reputazione è meglio dire che hai ristrutturato i debiti con un concordato piuttosto che sei fallito. Inoltre, il concordato può liberarti da parte dei debiti residui (falcidiati) se eseguito correttamente e ti evita l’onta di eventuali indagini penali aggravate (nel fallimento scatta l’azione pubblica per bancarotta; nel concordato, se riesci a omologarlo e adempierlo, il fallimento non c’è e molte questioni penali decadono o non emergono). Solo se la situazione è così compromessa che non riusciresti a rispettare neanche un concordato minimale, allora il fallimento diventa inevitabile – e in tal caso potrebbe persino convenire chiederlo tu (fallimento in proprio) per dimostrare tempestività e buona fede. Ma questa è l’ultima spiaggia. In sintesi: concordato se c’è uno spiraglio di salvare l’attività o di pagare almeno una parte in modo organizzato; fallimento se non c’è liquidità né prospettiva alcuna e la tua priorità è congelare subito lo scenario (sapendo però a cosa vai incontro). Spesso i professionisti tentano prima un concordato (o accordo) e, se non va, si scivola in fallimento.
D: Ho saputo che spesso escono leggi di “saldo e stralcio” delle cartelle esattoriali. Posso aspettare quella per tagliare i debiti fiscali della mia azienda?
R: Negli ultimi anni lo Stato ha periodicamente varato condoni o rottamazioni delle cartelle esattoriali (2016, 2018, 2023…). Queste misure permettono di pagare le somme dovute al Fisco senza sanzioni e interessi (a volte con uno sconto anche sul capitale in casi di grave difficoltà, vedi saldo e stralcio 2019 per persone fisiche con ISEE basso). Tuttavia, contare sull’incertezza di futuri condoni non è una strategia consigliabile per un imprenditore. Primo, perché non sai quando e se arriveranno e in che forma (magari il tuo debito non rientra per anno o natura nell’agevolazione). Secondo, perché nel frattempo il debito cresce e l’ADER può comunque agire. Terzo, perché se sei in procedura concorsuale non puoi aderire a una rottamazione senza l’ok del giudice. Dunque, se c’è una rottamazione aperta e rientri, aderisci senz’altro (ad esempio la rottamazione-quater 2023 permetteva di togliere sanzioni e interessi su cartelle 2000-2017: ottima occasione, ma scadenze da rispettare). Ma aspettarne una ipotetica potrebbe peggiorare la tua posizione: meglio attivarti con gli strumenti certi (rateazione, transazione fiscale in concordato). Se poi arriva il condono, lo sfrutterai integrandolo nel piano. In altre parole: bene cogliere le opportunità legislative quando ci sono, ma non “giocare d’azzardo” confidando in un colpo di spugna che potrebbe non arrivare in tempo.
D: Ho una S.r.l. unipersonale. Posso trasferire l’intera azienda (macchinari, contratti, ecc.) a una nuova società pulita e lasciare i debiti nella vecchia, poi far fallire la vecchia?
R: Questa operazione, nota come “phoenix company” o trasferimento d’azienda pre-insolvenza, è molto rischiosa e spesso illegale. Se vendi o conferisci l’azienda a valore di mercato e con corrispettivo che va a pagare i debiti della vecchia, allora non stai “scappando” dai creditori, semplicemente stai cambiando veste giuridica all’impresa. Ma se invece trasferisci l’azienda a una newco per continuare l’attività e lasci i creditori a bocca asciutta, questi possono reagire con: – Azione revocatoria fallimentare: se la vecchia fallisce entro 2 anni dal trasferimento d’azienda, il curatore potrà chiedere di revocare la cessione e riprendersi i beni ceduti (salvo tu provi che era a condizioni eque e non danneggiava i creditori). – Azione ex art. 2560 c.c.: nel trasferimento d’azienda, i debiti aziendali risultanti dai libri obbligatori seguono l’azienda e sono a carico anche dell’acquirente, se non diversamente pattuito. Quindi i creditori potrebbero chiedere il pagamento alla nuova società (per i debiti aziendali noti alla data di cessione). – Denuncia per bancarotta fraudolenta: se il tribunale ravvisa che la cessione d’azienda era fatta per frodare i creditori prima del fallimento, ti incrimina. Molti casi di bancarotta pre-fallimentare derivano proprio da spostamenti illeciti di azienda a parenti o soci di comodo. – Sottrazione fraudolenta al Fisco: come reato tributario, se tra quei debiti c’erano imposte, spostare l’azienda per non pagarle integra reato ex art. 11 D.Lgs.74/2000 .
In conclusione, “impacchettare i debiti e buttarli via” non è consentito. Invece, se l’azienda ha prospettive ma la società no per via dei debiti, si può pensare a strumenti legali come il concordato in continuità indiretta: vendi l’azienda a un terzo (anche a una newco eventualmente), ma sotto l’egida del tribunale, assicurando che il prezzo pagato per l’azienda va ai creditori della vecchia società. Così salvi l’attività e tratti i creditori secondo legge. Quindi la via lecita è coinvolgere i creditori nel processo (concordato/accordo) anziché aggirarli.
D: L’azienda non riesce più a pagare i fornitori e ho anche bollette arretrate enormi. Possono tagliare luce/gas o sequestrare beni?
R: I fornitori di servizi essenziali (come energia) se non pagati possono sospendere la fornitura secondo le condizioni contrattuali (dopo tot solleciti). In una procedura concorsuale, però, la legge impedisce a tali fornitori di interrompere servizi per morosità pregressa, se l’azienda in concordato continua l’attività e assicura il pagamento del consumo corrente (art. 177 CCII): quindi durante un concordato o composizione negoziata puoi chiedere al tribunale di imporre ai fornitori essenziali di continuare a erogare, pagando solo il nuovo. Fuori da procedure, purtroppo possono staccare (e spesso lo fanno appena c’è un insoluto di qualche mese). Quanto al sequestro beni, un fornitore di beni/servizi di solito non ha titolo per “sequestrare” beni dell’azienda salvo ottenere un titolo esecutivo. Nel caso delle utenze, no, il fornitore non pignora cose: semplicemente ti chiude l’utenza e ti chiede il saldo eventualmente con decreto ingiuntivo. Diverso per un fornitore di macchinari con patto di riservato dominio: se tu non finisci di pagare un macchinario acquistato a rate e avevi quel patto, il venditore può riprendersi la macchina (azione di rivendica) e tu perdi quanto pagato. Simile per un contratto di leasing: se non paghi le rate, la società di leasing risolve il contratto e ritira il bene. Quindi sì, in questi casi potresti vederti portar via mezzi o apparecchiature in leasing. La difesa è cercare di includere anche questi creditori in un accordo/concordato prima che agiscano, così da evitare la risoluzione automatica. Ad esempio, nel concordato puoi chiedere di mantenere il leasing attivo pagando le rate future regolari e magari inserire nel piano il debito leasing arretrato.
D: L’azienda è decotta, ma non voglio lasciare debiti ai dipendenti. C’è modo di farli pagare da qualcuno?
R: Sì. Se la tua preoccupazione è pagare stipendi e TFR ai dipendenti anche se la società non può, sappi che esiste il Fondo di Garanzia INPS che interviene proprio nei casi di insolvenza del datore di lavoro. Tuttavia, interviene solo a certe condizioni: di regola serve un fallimento aperto o almeno una procedura concorsuale o un verbale di pignoramento negativo. In concreto: se la società fallisce, i dipendenti chiedono al Fondo INPS il pagamento del TFR maturato e degli ultimi 3 mesi di retribuzione . Il Fondo paga (nel giro di qualche mese) e poi diventa creditore del fallimento al posto loro. Anche in caso di concordato preventivo liquidatorio, il Fondo può intervenire (equiparato a insolvenza). Se invece chiudi la società senza fallimento, i lavoratori per attivare il Fondo devono dimostrare che hanno tentato invano l’esecuzione (es: fare decreto ingiuntivo, tentare pignoramento e risulti nulla tenenza). Quindi la via più rapida per tutelare i dipendenti è purtroppo il fallimento o comunque riconoscere l’insolvenza. Detto questo, un imprenditore etico può anche decidere di impiegare le ultime risorse per pagare i dipendenti in via prioritaria prima di altri creditori: moralmente encomiabile, ma attento a non incorrere in bancarotta preferenziale (dipendenti hanno privilegio quindi pagarli prima non è un male se poi fallisci, però se sacrificassi completamente altri creditori potrebbe esserci il tema preferenziale; comunque in pratica raramente viene contestato privilegiare i lavoratori, data la natura “protetta” dei loro crediti). In sintesi: il sistema prevede uno “scudo” pubblico per i dipendenti, ma devi passare per la dichiarazione di insolvenza formale affinché funzioni.
D: Come amministratore, potrei essere ritenuto responsabile anche dei debiti verso fornitori (non pagati)?
R: Normalmente no, i debiti verso fornitori sono della società e i fornitori non possono chiedere a te il pagamento (beneficio della responsabilità limitata). Tuttavia, potrebbero provarci se sostenessero che hai tenuto un comportamento doloso verso di loro: per esempio, hai continuato a ordinare merce sapendo che l’azienda era insolvente e non li avresti mai pagati, inducendoli in errore – questo potrebbe configurare una truffa contrattuale. È raro, ma qualche fornitore ha fatto denunce simili. Se emergesse che li hai ingannati (ad es. mostrando bilanci falsi o assicurando pagamenti che sapevi falsi), potresti avere grane penali e civili con loro. Altro caso: se hai una società “schermo” e confondi il tuo patrimonio con quello sociale, i fornitori potrebbero tentare un’azione di estinzione simulata per colpire te (teoria del socio occulto o amministratore di fatto). È comunque un percorso difficile per un fornitore. In pratica, la via maestra per i fornitori è farti fallire e poi sperare nell’azione del curatore contro di te (perché loro stessi come singoli han poche chance). Quindi, direttamente responsabile verso fornitori no, salvo tu abbia firmato garanzie personali anche a loro (es. un effetto cambiario a nome tuo). Ma indirettamente, se la tua mala gestio li ha danneggiati, il curatore potrà recuperare da te e così fornitori vedranno più soldi. Ergo: c’è sempre quel filo di responsabilità indiretta. Consiglio: comunica onestamente coi fornitori; se non puoi pagare non continuare ad accumulare ordini illudendoli. Proponi soluzioni (sconto, attesa, ecc.) formalizzando che non è certo il pagamento immediato. Questo ti protegge da accuse di averli fraudolentemente coinvolti.
D: Ho paura del fallimento perché temo mi portino via pure la casa. La casa di mia proprietà è a rischio?
R: Dipende. Se la casa è intestata a te persona fisica e tu sei garante di debiti sociali o hai debiti personali (es. fiscali in solido, multe, ecc.), potrebbe essere aggredita da quei creditori (pignoramento). Se invece tu personalmente non hai debiti verso quel fornitore o banca, la tua casa è al sicuro dai loro attacchi, anche se la società fallisce. I creditori sociali non possono aggredire beni dei soci o amministratori se non c’è titolo giuridico. Attenzione però: se hai fatto cose come un fondo patrimoniale o ipoteca a favore della moglie sulla casa in previsione del fallimento, potresti incorrere in revocatorie o nel reato di sottrazione fraudolenta al Fisco, se c’erano imposte dovute . Quindi la protezione deve essere fatta ante tempore e non in frode. In breve: la procedura concorsuale riguarda patrimonio della società, non il tuo. Il tuo patrimonio risponde solo per impegni che hai assunto o per reati (es. confisca per equivalente se condannato per reato tributario). Se temi per la casa perché hai fatto da fideiussore, l’unica è cercare di negoziare con la banca un saldo e stralcio della garanzia (magari offrendo di ipotecare la casa per un nuovo mutuo destinato a pagare parte del debito, a fronte dell’esdebitazione del restante). Se la casa è cointestata con il coniuge, il pignoramento riguarda solo la tua quota, ma di fatto la vendono intera e danno metà a tuo coniuge. Non è una bella situazione, quindi conviene giocare d’anticipo: rinegoziare i debiti o eventualmente valutare procedure di sovraindebitamento personali (se sei garante, anche tu hai titolo per chiedere un piano del consumatore o simili).
D: L’azienda ormai è ferma. Volendo chiudere baracca, è meglio fare una liquidazione volontaria o dichiarare subito fallimento?
R: Se l’azienda non riprenderà l’attività e sei convinto che non potrai soddisfare i creditori, hai due strade: – Liquidazione volontaria: i soci mettono in liquidazione la società e nominano un liquidatore il quale prova a vendere i beni e pagare chi riesce. Questa opzione ha senso se pensi di riuscire a pagare tutti o quasi i creditori. Se invece i debiti superano largamente gli attivi, la liquidazione volontaria sarà interrotta dai creditori con un’istanza di fallimento, oppure il liquidatore stesso dovrà a un certo punto desistere e portare i libri in tribunale. Però la liquidazione volontaria può guadagnare tempo e forse evitare il fallimento se componi le cose: ad esempio, convinci tutti i creditori ad accettare 50% e ce la fai. – Istanza di fallimento in proprio: presenti tu il ricorso al tribunale dicendo “sono insolvente, aprite la liquidazione giudiziale”. È un atto di resa immediata. Ha il vantaggio di bloccare subito tutti e far partire il procedimento ordinato con curatore. Può essere visto positivamente (hai cooperato). Tuttavia perdi ogni controllo e la procedura sarà pubblica e invasiva.
In pratica, spesso si prova la liquidazione volontaria soprattutto se c’è speranza di vendere beni a valori migliori e trovare accordi bonari. Se i creditori sono troppi o non collaborativi, tanto finirà in fallimento. Il consiglio: se vai in liquidazione volontaria, non protrarre troppo se vedi che non porta a soluzione, perché ogni ritardo potrebbe aggravare la tua posizione (aggravio di debiti = rischio azione di responsabilità). Anche la legge oggi spinge: insolvenza conclamata -> un anno max dalla cessazione e scatta fallimento . Quindi, se sei tu stesso a preferire far pulito una volta per tutte, forse meglio fallimento subito. Soprattutto se ci sono tanti creditori uno contro l’altro, il curatore farà un lavoro equo e toglie a te la gestione dello stress. Ogni caso è a sé: valuta col tuo professionista se c’è materia per liquidare decentemente o no.
D: In caso di fallimento, potrò mai tornare a fare l’imprenditore?
R: Il fallimento comporta per l’imprenditore (persona fisica o socio illimitato) alcune incapacità personali per la durata della procedura: ad esempio, non può ricoprire cariche direttive in altre aziende senza informare (e comunque c’è una “nomea” negativa). Dopo la chiusura, tali incapacità cessano (a meno di condanne penali). Tuttavia, se vieni dichiarato colpevole di bancarotta fraudolenta, la condanna penale spesso comporta l’interdizione dai pubblici uffici e l’ineleggibilità a cariche societarie per un certo periodo (per la durata della pena e talvolta aggiuntiva). Ma se eviti condanne e ottieni l’esdebitazione (se persona fisica), puoi ripartire pulito. Nel caso di società di capitali, il fallimento in sé non colpisce i soci non colpevoli. Quindi in teoria sì, potrai costituire una nuova società e fare impresa di nuovo. Naturalmente, avrai la difficoltà pratica di reperire credito: avrai segnalazioni negative in centrale rischi e il tuo nome su una visura fallimentare passata è un warning per banche e fornitori. Con il tempo e dimostrando discontinuità (nuovo business, nuovi soci?), si può recuperare fiducia. In passato c’era l’onta del “fallito civile” con limitazioni, oggi attenuate grazie all’esdebitazione. Quindi la legge ti dà chance di riscatto, sta a te rimboccarti le maniche e magari fare tesoro degli errori. Tieni anche conto che se emergono profili di dolo o mala fede, il tribunale può negarti l’esdebitazione e allora i debiti residui verso creditori restano e potresti subirne a vita (es.: se hai truffato qualcuno, anche dopo fallimento quello potrebbe ancora chiederti soldi).
D: Nel nostro settore (metalmeccanico) si vocifera che molte aziende in crisi fanno sparire i macchinari prima di fallire per poi riutilizzarli in nero. Cosa succede se lo faccio?
R: Ciò configura chiaramente bancarotta fraudolenta patrimoniale (distrazione di beni) e magari anche sottrazione fraudolenta al Fisco se c’erano imposte, come ampiamente spiegato. Se scoperto, vai incontro a processo penale. Il curatore indaga, sente testimoni, controlla fatture di vendita macchinari, movimentazioni di magazzino. Spesso queste “sparizioni” vengono scoperte (dipendenti scontenti parlano, i serial number dei macchinari riemergono altrove, etc.). Le conseguenze: condanna penale possibile (diversi anni di carcere), e i beni possono essere sequestrati e tolti a chi li detiene. Insomma, sconsigliatissimo. Legalmente, se vuoi salvare i macchinari per continuare l’attività, c’è il concordato o accordo: proponi ai creditori di tenerti i macchinari (continuità) e pagarli col lavoro futuro. Molti preferiranno farti lavorare e recuperare qualcosa, piuttosto che vederti portare via tutto e loro nulla. Quindi meglio trattare alla luce del sole che nascondere i beni. Questa “vox populi” purtroppo c’è, ma va sfatata: i tempi dell’amministrazione “compiacente” che chiude un occhio sono finiti; oggi curatori e giudici sono piuttosto attenti e digitalizzati, rintracciano le cose. Non rischiare la fedina penale per qualche macchinario.
D: Sono disperato: l’azienda va male, ho debiti anche miei, temo mi portino via tutto… Sto pensando di cedere la mia quota a un prestanome e lasciare a lui la grana. Funziona?
R: Cedere le quote e le cariche a un terzo testa di legno poco prima del crack è una pratica purtroppo diffusa (il classico amministratore nullatenente). Ma la legge contrasta questa furbata: se anche formalmente esci di scena, potresti essere considerato amministratore di fatto fino a prima, e se hai commesso irregolarità prima, ne rispondi comunque. Non solo: potresti incorrere nel reato di omessa dichiarazione di fallimento se vendi l’azienda e non provvedi a regolarizzare la situazione (vecchio art. 217 L.F.). Il prestanome che subentra rischia anche lui (bancarotta per dolo eventuale, se accetta il ruolo sapendo di prendere una barca che affonda). Le autorità spesso vanno a cercare chi era il vero gestore: guardano i movimenti di conto, la firma sui documenti… se risulti tu fino all’ultimo, non ti salvi con una cessione fittizia. Quindi no, non è una via d’uscita pulita: anzi può aggravare la tua posizione, perché sembra un tentativo di elusione. Molto meglio affrontare la situazione di petto, magari concordando con i creditori una tua uscita assistita (es. un concordato con cessione dell’azienda a un terzo serio, dove tu poi esci ma in modo trasparente). Se invece trovi solo un prestanome farlocco, i creditori o il tribunale potrebbero comunque chiamare te a rispondere come amministratore di fatto. In breve, cedere la società non ti scarica automaticamente delle responsabilità pregresse.
Conclusioni
La gestione di un’azienda indebitata richiede sangue freddo, competenza e trasparenza. Dal punto di vista giuridico, come abbiamo visto, esistono molte strade per “difendersi” e possibilmente uscire dalla crisi – dai piani di risanamento interni fino al concordato preventivo o, in ultima istanza, alla liquidazione – e ogni strada ha pro e contro che vanno valutati caso per caso. È fondamentale che l’imprenditore (o gli amministratori) non si chiudano in se stessi: il coinvolgimento di consulenti esperti (legali, finanziari) e spesso anche il confronto leale con i creditori può fare la differenza tra un fallimento disastroso e una ristrutturazione di successo.
In termini di best practice: – Tenere sotto controllo la situazione contabile e finanziaria, attivandosi per tempo se emergono segnali di insolvenza. – Documentare le decisioni e agire in buona fede, nel prioritario interesse dei creditori quando la continuità non è più assicurata. – Valutare gli strumenti offerti dalla legge più recenti, come la composizione negoziata, che può evitare escalation conflittuali. – Non trascurare gli aspetti di responsabilità personale: gli amministratori devono capire che il loro ruolo implica doveri di diligenza la cui violazione può costare caro. – Comunicare con trasparenza (per quanto possibile) con i vari stakeholders – dipendenti, fornitori chiave, istituti di credito – per mantenere un clima di fiducia: spesso è proprio la fiducia a dare all’azienda il tempo necessario per rimettersi in carreggiata.
In ogni caso, anche qualora l’esito fosse la liquidazione dell’azienda, l’esperienza di una crisi può insegnare molto: l’importante è gestirla con legalità e correttezza, perché ciò lascia aperta all’imprenditore la possibilità di ripartire in futuro senza strascichi insormontabili. Viceversa, soluzioni affrettate e illegali possono compromettere definitivamente la carriera imprenditoriale e la serenità personale con cause legali infinite.
Questa guida ha fornito un panorama avanzato e dettagliato sul “cosa fare per difendersi e come” in presenza di un’azienda – come quella dell’esempio (reti metalliche) – gravata dai debiti. Ogni situazione concreta ha le sue peculiarità: è dunque essenziale farsi assistere passo passo da professionisti specializzati (commercialisti, avvocati d’impresa, consulenti del lavoro per il personale) al fine di elaborare la strategia migliore. Con le giuste mosse, anche la peggiore crisi può trovare uno sbocco gestibile, limitando i danni per il debitore e, perché no, anche per i creditori.
Seguiranno ora, per comodità del lettore, le fonti normative e giurisprudenziali più autorevoli citate nel testo, a cui si potrà far riferimento per ulteriori approfondimenti o riscontri.
Fonti e Riferimenti
- Codice Civile, artt. 2086 (obbligo di assetti adeguati) e 2485–2487 (scioglimento e liquidazione delle società), come modificati dal D.Lgs. 14/2019 (Codice della crisi) .
- D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), con le successive modifiche (D.Lgs. 147/2020, D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021, D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024): disciplina organica delle procedure di allerta, composizione negoziata, concordato preventivo, liquidazione giudiziale ecc. Vedi in particolare: artt. 56–64 (piani attestati e accordi di ristrutturazione, PRO) , artt. 84–120 (concordato preventivo), artt. 121–147 (liquidazione giudiziale), art. 177 (continuità servizi pubblici essenziali durante procedure) e artt. 268–277 (liquidazione controllata sovraindebitati).
- D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 – “Correttivo ter” al Codice della crisi: ha introdotto importanti novità su PRO, concordato semplificato, composizione negoziata, requisiti degli organi, ecc. (Pubblicato in GU n.227/2024) . In particolare ha chiarito la possibilità di proporre pagamento parziale/dilazionato di tributi e contributi con attestazione di convenienza nel PRO e ha facilitato la cessione anticipata dell’azienda durante il PRO senza successione nei debiti .
- Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267) – per gli istituti di bancarotta e le fattispecie penali, in vigore per procedure aperte prima del luglio 2022 e come riferimento interpretativo: artt. 216–217 (bancarotta fraudolenta e semplice, preferenziale) e 218 (ricorso abusivo al credito).
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 36 – responsabilità di liquidatori, soci e amministratori per il pagamento delle imposte in caso di liquidazione della società . Stabilisce che i liquidatori sono personalmente responsabili se pagano altri debiti lasciando impagate imposte (fino a concorrenza dei beni distribuiti), i soci sono responsabili delle imposte non pagate nei limiti di quanto ricevuto in liquidazione negli ultimi 2 anni, e gli amministratori sono soggetti alle stesse responsabilità se, nei 2 anni pre-liquidazione, hanno compiuto operazioni liquidatorie od occultato attività sociali .
- D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – Reati tributari. In particolare: art. 10-bis (omesso versamento ritenute sopra €150k) , art. 10-ter (omesso versamento IVA sopra €250k), art. 10-quater (indebita compensazione crediti inesistenti oltre €50k), art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: soglia €50k, pena 6 mesi–4 anni, aumentata a 1–6 anni oltre €200k) . Fonte: Gazzetta Ufficiale, Allegato al D.Lgs. 173/2024 art. 85, che riporta il testo aggiornato dell’art. 11 D.Lgs.74/2000 .
- Cassazione Penale, Sez. III, sent. n. 13844/2024 (5 aprile 2024) – ha confermato che “integra il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte anche la stipulazione di un negozio simulato (es. trust auto-destinato) finalizzato a sottrarre beni all’Erario”, evidenziando che atti come costituire trust o trasferire beni a prestanome dopo l’accumulo del debito fiscale sono fraudolenti poiché rendono più difficoltosa la riscossione .
- Cassazione Penale, Sez. V, sent. n. 4329/2025 – principio: l’amministratore “testa di legno” (mero prestanome) può concorrere nei reati fallimentari se ha omesso di impedire le condotte del dominus. Viene richiamato l’art. 40 cpv. c.p. e l’obbligo di agire informato ex art. 2392 c.c. . La consapevolezza e l’omissione di intervento rendono responsabile anche l’amministratore formale .
- Cassazione Civile, Sez. I, ord. n. 15054/2024 (deposito 29 maggio 2024) – in tema di responsabilità degli amministratori non esecutivi: ha ribadito che anche gli amministratori senza deleghe rispondono se, conoscendo (o dovendo conoscere con diligenza) lo stato di dissesto, non hanno preso misure adeguate per evitarne l’aggravamento . Non esiste una responsabilità oggettiva per mancata vigilanza generica, ma sussiste responsabilità per non aver impedito atti pregiudizievoli noti o conoscibili ex art. 2381 c.c. .
- Cassazione Civile, Sez. Unite, sent. n. 6070/2013 – storica pronuncia sui rapporti post-cancellazione società: afferma che la cancellazione dal Registro Imprese estingue la società, determinando un fenomeno successorio per cui le obbligazioni sociali si trasferiscono ai soci (pro quota e nei limiti di quanto ricevuto, se società di capitali) . Confermata e ampliata da Cass. SS.UU. 619/2021 e ord. n. 26184/2024, secondo cui la responsabilità dei soci per debiti della società estinta prescinde dalla distribuzione finale: il socio succede ex lege, salvo eccepire il limite intra vires dando prova di non aver ricevuto utilità .
- Cassazione Civile, Sez. I, ord. n. 8553/2024 – (29 marzo 2024) afferma criteri di quantificazione del danno ex art. 2486 c.c. in caso di continuazione attività oltre la perdita del capitale. [Vedi anche Cass. civ. 17441/2016]. (Riferimento generico, non citato sopra direttamente, ma attinente).
- Cassazione Penale, sent. n. 631/2025 – ha ritenuto che il falso in bilancio, quando la società fallisce successivamente, integri bancarotta fraudolenta impropria da reato societario . In sostanza, alterare le risultanze di bilancio occultando perdite configura bancarotta fraudolenta se interviene il fallimento, aggiungendosi al reato societario originario.
- Cassazione Penale, Sez. III, sent. n. 28725/2024 (17 luglio 2024) – (citata da fonti) riguarda la confisca del profitto nel reato di sottrazione fraudolenta: conferma che si può confiscare per equivalente il valore dei beni sottratti al Fisco .
- Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 9394/2025 – evidenzia obbligo di motivazione puntuale nelle sentenze di bancarotta (difetto di motivazione censurato). (Rilevante per eventuali appelli).
- Norme secondarie: D.L. 118/2021 conv. L.147/2021 (introduzione composizione negoziata), D.Lgs. 83/2022 (attuazione Dir. UE 1023/2019 “Insolvency”), Circolare INPS n. 122/2016 (soglia penalità contributi €10k) .
La tua azienda che produce, lavora, importa o distribuisce reti metalliche, reti elettrosaldate, reti stirate, reti zincate, reti per recinzioni, reti in acciaio inox, pannelli di rete, gabbioni, maglia sciolta, reti industriali per filtrazione, protezione e separazione, oggi è schiacciata dai debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
La tua azienda che produce, lavora, importa o distribuisce reti metalliche, reti elettrosaldate, reti stirate, reti zincate, reti per recinzioni, reti in acciaio inox, pannelli di rete, gabbioni, maglia sciolta, reti industriali per filtrazione, protezione e separazione, oggi è schiacciata dai debiti?
Ricevi solleciti, richieste di rientro, blocchi dei fornitori, decreti ingiuntivi, cartelle esattoriali o minacce di pignoramento da banche, Fisco, INPS, fornitori di acciaio o Agenzia Entrate-Riscossione?
Il settore delle reti metalliche è pesante dal punto di vista dei costi: l’acciaio oscilla, i trasporti sono cari, servono grandi stock per garantire disponibilità immediata, i margini sono ridotti e i clienti pagano spesso a 60–120 giorni.
La conseguenza? Bastano poche settimane di ritardi negli incassi per scatenare una crisi di liquidità.
La buona notizia? La tua azienda può essere salvata, se intervieni rapidamente e con metodo.
Perché un’Azienda di Reti Metalliche va in Debito
- aumento dei costi di acciaio zincato, inox, reti prefabbricate e lavorazioni meccaniche
- pagamenti lenti da parte di rivenditori, imprese edili, industrie e installatori
- magazzino immobilizzato tra rotoli di rete, pannelli, gabbioni, maglia sciolta e ricambi
- costi elevati di trasporto, taglio, lavorazioni e zincatura a caldo
- concorrenza internazionale con margini sempre più bassi
- riduzione o revoca delle linee di credito bancarie
Il vero problema non è la mancanza di ordini, ma la mancanza di liquidità immediata.
I Rischi se Non Intervieni Subito
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco dei fidi e taglio delle linee di credito
- sospensione delle forniture di acciaio e reti
- atti esecutivi, decreti ingiuntivi, precetti
- sequestro di magazzino, pannelli e attrezzature
- impossibilità di evadere ordini e servire i clienti
- perdita di appalti, rivenditori e contractor importanti
Cosa Fare Subito per Difendersi
1. Bloccare immediatamente i creditori
Un avvocato specializzato può:
- sospendere pignoramenti e bloccare atti esecutivi
- fermare richieste aggressive di rientro
- proteggere conti correnti e liquidità aziendale
- stoppare le iniziative dell’Agenzia Riscossione
È il primo passo per evitare danni irreversibili.
2. Analizzare i debiti ed eliminare quelli non dovuti
In moltissimi casi emergono errori:
- interessi non dovuti
- sanzioni gonfiate o sbagliate
- importi duplicati
- debiti prescritti
- errori nelle cartelle esattoriali
- commissioni e spese bancarie anomale
Una parte significativa del debito può essere tagliata o cancellata legalmente.
3. Ristrutturare i debiti con un piano sostenibile
Le soluzioni praticabili includono:
- rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
- accordi strategici con fornitori di acciaio e reti
- rinegoziazione dei fidi bancari
- sospensione temporanea dei pagamenti
- utilizzo delle definizioni agevolate (quando attive)
4. Usare strumenti legali potentissimi che bloccano TUTTI i creditori
Quando la situazione è più critica, puoi ricorrere a:
- PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
- Accordi di Ristrutturazione dei Debiti
- Concordato Minore
- (nei casi estremi) Liquidazione Controllata
Queste procedure permettono all’azienda di continuare a operare pagando solo una parte dei debiti, mentre ogni azione aggressiva viene sospesa.
Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo
Per salvare un’azienda del settore dei metalli serve esperienza vera.
L’Avv. Monardo è:
- Avvocato Cassazionista
- Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento – inserito negli elenchi del Ministero della Giustizia
- Professionista fiduciario di un OCC (Organismo di Composizione della Crisi)
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Un profilo ideale per bloccare creditori, ristrutturare debiti e salvare aziende che lavorano con reti metalliche, acciaio e carpenterie leggere.
Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo
- analisi immediata della tua esposizione debitoria
- stop urgente a pignoramenti e decreti ingiuntivi
- riduzione dei debiti non dovuti
- costruzione di un piano di ristrutturazione sostenibile
- protezione del magazzino, dei pannelli, delle reti e delle lavorazioni
- trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
- tutela completa dell’imprenditore e dell’azienda
Conclusione
Avere debiti nella tua azienda di reti metalliche non significa essere destinati alla chiusura.
Con una strategia rapida, precisa e perfettamente legale, puoi:
- bloccare i creditori,
- ridurre concretamente i debiti,
- salvare forniture, clienti e continuità operativa,
- proteggere il futuro della tua impresa.
Agisci adesso.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata:
il percorso di salvataggio può iniziare oggi stesso.