Se la tua azienda produce, importa o distribuisce presse piegatrici, cesoie, presse idrauliche, macchine piega-lamiera, attrezzature per la deformazione plastica dei metalli, stampi, utensili e ricambi per carpenterie, officine meccaniche e industrie metalmeccaniche, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, devi intervenire subito per evitare fermi macchina e perdita di clienti strategici.
Nel settore delle macchine per la lavorazione della lamiera, anche un ritardo minimo nella consegna o nell’assistenza può bloccare intere linee di produzione, generare penali e compromettere contratti importanti.
Perché le aziende di presse piegatrici accumulano debiti
- aumento dei costi di acciaio, idraulica, elettronica, PLC e componentistica di precisione
- rincari nelle importazioni e nei componenti specializzati
- pagamenti lenti da parte di carpenterie, OEM e integratori di automazione
- ritardi nei versamenti IVA, imposte e contributi INPS
- magazzini complessi con utensili, lame, ricambi e accessori per molte varianti
- difficoltà nell’ottenere fidi bancari adeguati ai cicli produttivi
- investimenti elevati in collaudi, software, certificazioni CE e manutenzioni tecniche
Cosa fare subito
- far analizzare da un professionista la tua situazione debitoria
- identificare debiti che possono essere contestati, ridotti o rateizzati
- evitare piani di rientro insostenibili che prosciugano la liquidità aziendale
- chiedere la sospensione immediata di eventuali pignoramenti
- proteggere fornitori strategici e componenti critici per le presse
- usare strumenti legali efficaci per ristrutturare o rinegoziare i debiti senza bloccare la produzione o l’assistenza
I rischi se non intervieni tempestivamente
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco delle forniture di idraulica, elettronica, utensili e ricambi
- impossibilità di consegnare presse o completare installazioni e collaudi
- perdita di clienti industriali, carpenterie e integratori
- rischio concreto di chiusura dell’attività
Come può aiutarti l’Avvocato Monardo
Detto questo, l’Avvocato Monardo, cassazionista, coordina un team nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario.
Inoltre è:
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012)
- iscritto negli elenchi del Ministero della Giustizia
- professionista fiduciario presso un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
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- bloccare pignoramenti e atti esecutivi
- ridurre o ristrutturare i debiti con gli strumenti normativi più efficaci
- ottenere rateizzazioni realmente sostenibili
- proteggere ricambi, utensili, componenti e continuità produttiva
- evitare la chiusura e guidare la tua azienda verso un risanamento vero
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Introduzione
Un’azienda produttrice di presse piegatrici (o, più in generale, un’impresa metalmeccanica nel settore della lavorazione lamiera) può trovarsi in grave difficoltà finanziaria, con debiti accumulati verso fornitori, banche, Fisco e altri creditori. Dal punto di vista del debitore – l’imprenditore o gli amministratori della società indebitata – è fondamentale capire cosa fare per difendersi dalle azioni dei creditori e come impostare una strategia di risanamento o, se necessario, di liquidazione ordinata. In Italia esiste una complessa normativa che regola la crisi d’impresa e l’insolvenza, profondamente riformata nel 2022 con l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, aggiornato da successivi correttivi fino al 2024) .
Questa guida, aggiornata a ottobre 2025, fornisce un’analisi avanzata – ma in tono divulgativo – delle opzioni legali a disposizione di una società indebitata (S.r.l., S.p.A. o altre forme societarie), con riferimenti normativi attuali e giurisprudenza recente. L’obiettivo è aiutare avvocati, imprenditori e privati a orientarsi tra le varie procedure concorsuali e strumenti di ristrutturazione del debito, assumendo il punto di vista del debitore (l’azienda che deve difendersi dai creditori) e illustrando strategie concrete per gestire i debiti in modo legale e minimizzare le conseguenze negative.
In questa guida troverete: spiegazioni normative, riferimenti a sentenze aggiornate (anche di Cassazione, 2024-2025), tabelle riepilogative per confrontare le diverse soluzioni, una sezione Domande & Risposte per chiarire i dubbi frequenti, e casi pratici simulati focalizzati sul contesto italiano. Verranno trattati tutti i principali tipi di debito (fiscali, verso fornitori, banche, verso dipendenti, previdenziali, ecc.) e le possibili contromisure. Inoltre, esamineremo sia le soluzioni stragiudiziali (accordi privati, piani di risanamento attestati) sia le procedure giudiziali di regolazione della crisi (composizione negoziata, accordi di ristrutturazione omologati, concordato preventivo – incluse le nuove forme come il concordato semplificato – e la liquidazione giudiziale ex fallimento). Non mancherà uno sguardo alle procedure minori per le imprese di piccole dimensioni (c.d. imprese minori), come il concordato minore e la liquidazione controllata, introdotte con la riforma, che possono riguardare piccole società o ditte individuali sotto soglia .
Prima di entrare nel vivo delle soluzioni, è importante delineare il quadro dei rischi e obblighi che un imprenditore o amministratore affronta in caso di insolvenza. La legge italiana, infatti, impone doveri precisi a chi guida un’impresa: reagire tempestivamente ai segnali di crisi, adottare assetti organizzativi adeguati per prevenire lo squilibrio finanziario (come richiesto dall’art. 2086 c.c., modificato nel 2019) , e evitare di aggravare il dissesto una volta emerso. Ignorare questi obblighi espone a responsabilità civili (verso i creditori e la società stessa) e perfino penali (es. reati di bancarotta preferenziale o fraudolenta). Al contrario, utilizzare per tempo gli strumenti di composizione della crisi può offrire protezione legale: recenti pronunce confermano che il ricorso a procedure come la composizione negoziata può fungere da “scudo” contro misure esecutive o cautelari dei creditori . In altre parole, difendersi efficacemente significa muoversi entro il quadro normativo, sfruttando le opportunità offerte dalla legge per congelare le azioni dei creditori e ristrutturare i debiti in modo sostenibile.
Nei paragrafi che seguono analizzeremo dapprima le diverse tipologie di debiti aziendali e le loro implicazioni, quindi passeremo in rassegna gli strumenti di difesa disponibili – dalle soluzioni negoziali private alle procedure concorsuali più formali – evidenziandone condizioni, vantaggi e limiti. Troverete inoltre consigli pratici su come scegliere lo strumento più adatto alla situazione della vostra impresa indebitata. I riferimenti di legge e le sentenze più rilevanti sono citati nel testo e raccolti nella sezione finale Fonti e Riferimenti, per consentire ulteriori approfondimenti sulle norme e sui principi giurisprudenziali menzionati.
Debiti aziendali: tipologie e conseguenze
Una corretta strategia difensiva parte dalla comprensione dei debiti che gravano sull’azienda e dei rischi specifici associati a ciascuna tipologia. Non tutti i debiti sono uguali: la legge riconosce diverse categorie (erariali, previdenziali, bancari, commerciali, verso dipendenti, ecc.), ognuna con particolari regimi di tutela e poteri di reazione per i creditori. Di seguito esaminiamo le principali tipologie di debiti aziendali e le relative conseguenze per l’impresa debitrice:
- Debiti fiscali (verso l’Erario): comprendono imposte non pagate (IVA, IRES, IRAP, ritenute fiscali su stipendi, ecc.) e i relativi oneri accessori (sanzioni tributarie e interessi). Questi debiti godono di tutele speciali. L’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione, ex Equitalia) può procedere in via amministrativa mediante cartelle esattoriali e altri atti di riscossione coattiva, senza necessità di un titolo giudiziario preventivo. In caso di mancato pagamento, il Fisco può iscrivere ipoteche sui beni aziendali, disporre fermi amministrativi su veicoli o pignorare conti correnti direttamente (entro i limiti di legge) . Inoltre, alcuni debiti tributari presentano profili penali: ad esempio, l’omesso versamento dell’IVA per un importo superiore alla soglia di rilevanza (attualmente €250.000 per periodo d’imposta, dopo la riforma del 2024 ) costituisce reato punibile con la reclusione (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000). Analogamente, il mancato versamento delle ritenute previdenziali operate sulle retribuzioni oltre una certa soglia (oggi €150.000 annui) integra il reato di omesso versamento di contributi (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000). In ogni caso, l’Erario dispone di un forte potere di iniziativa esecutiva: il rischio immediato per l’azienda debitrice è l’attivazione di procedure di riscossione forzata, come pignoramenti di crediti e blocco dei conti, che possono paralizzare la liquidità aziendale. Dal punto di vista concorsuale, i crediti fiscali hanno privilegio generale sui beni mobili (per la parte di imposta) e sono trattati preferenzialmente rispetto ai crediti chirografari. Il Fisco ha inoltre potere di veto in alcune procedure: ad esempio, in un piano di concordato o accordo di ristrutturazione, se si prevede di pagare solo parzialmente i debiti tributari, è necessaria una transazione fiscale con l’Erario (disciplinata dal Codice della Crisi agli artt. 63-64) per ottenere il consenso dell’Agenzia Entrate. La difesa di fronte a debiti fiscali, prima di giungere alle procedure concorsuali, spesso passa per strumenti come la richiesta di rateizzazione (dilazione) delle cartelle esattoriali entro i limiti di legge (fino a 72 o 120 rate, in presenza di requisiti) o l’adesione a eventuali definizioni agevolate (rottamazione delle cartelle) se previste da norme temporanee. Nell’ambito di una procedura concorsuale, è possibile includere i debiti tributari in un accordo omologato o in un concordato preventivo tramite la transazione fiscale, ottenendo anche riduzioni dell’imposta e degli interessi, a patto che l’Erario aderisca oppure – in caso di dissenso – che il piano offra all’Erario almeno quanto otterrebbe in una liquidazione fallimentare (principio verificato dal tribunale in sede di cram-down fiscale) .
- Debiti previdenziali e assistenziali: sono i contributi dovuti agli enti previdenziali (ad es. INPS per i dipendenti, casse professionali per eventuali professionisti) e i premi assicurativi obbligatori (ad es. INAIL per gli infortuni sul lavoro). Anch’essi godono di privilegio generale sui mobili dell’azienda e, per la quota di contribuzione obbligatoria, di privilegio sui beni immobili e sugli strumenti d’impresa, analogamente ai crediti erariali. Il mancato versamento di contributi previdenziali entro certi limiti temporali e quantitativi può comportare sanzioni amministrative e, in casi gravi (omissioni oltre €150.000 annui per le ritenute previdenziali), rilievi penali. Per il debitore, oltre al rischio di azioni esecutive da parte degli enti (che possono iscrivere ruoli esattoriali analoghi a quelli fiscali), vi è il rischio di perdere regolarità contributiva: ad esempio, un’impresa con debiti INPS/INAIL non in regola può vedersi negare il DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva), con l’effetto di non poter partecipare ad appalti o ottenere pagamenti da clienti pubblici. Nelle procedure concorsuali, i crediti contributivi sono generalmente privilegiati e vengono trattati in modo simile ai crediti tributari (possono essere oggetto di transazione contributiva nel concordato/accordo, con possibile falcidia di sanzioni e interessi). L’eventuale strategia difensiva per l’azienda include la possibilità di rateizzare il debito con gli enti (ad esempio, piani di dilazione INPS) o includerlo in un accordo di ristrutturazione riconosciuto dal tribunale.
- Debiti verso fornitori (commerciali): si tratta dei debiti verso i fornitori di beni e servizi, spesso chirografari (non garantiti). Se un’azienda di presse piegatrici accumula ritardi nei pagamenti verso i propri fornitori di materie prime (lamiera, componentistica elettronica, oleodinamica, utensili), di servizi (trasporti, energia) o altri partner commerciali, rischia varie reazioni. I fornitori possono sospendere le forniture (richiedendo pagamenti anticipati per ulteriori ordini, o invocando clausole di sospensione in caso di inadempimento) e avviare azioni legali per recupero del credito. Tipicamente, il fornitore insoddisfatto può ottenere un decreto ingiuntivo dal tribunale (un ordine di pagamento sommario) e, trascorsi i termini, attivare un pignoramento dei beni aziendali o delle somme presso terzi (ad esempio pignorando i crediti dell’azienda verso i clienti, bloccando gli incassi futuri) . Un singolo fornitore potrebbe anche pignorare macchinari non indispensabili o merci in magazzino, se non trova liquidità disponibile. Queste azioni esecutive individuali tendono a essere scoordinate e possono disgregare il patrimonio aziendale: ad esempio, più creditori che agiscono separatamente possono portare via diversi pezzi del magazzino o far vendere all’asta beni strumentali a valori di realizzo bassi . Per il debitore, ciò implica non solo la perdita di asset ma anche la difficoltà operativa immediata (es. impossibilità di completare ordini per mancanza di materiali sequestrati, perdita di forniture strategiche). Inoltre, l’inerzia peggiora la situazione: ogni azione legale aggiunge costi (spese legali, interessi di mora convenzionali e legali) che fanno lievitare ulteriormente il debito . In caso di crisi, i debiti verso fornitori rientrano nei crediti chirografari in un’eventuale procedura concorsuale, il che significa che potranno essere soddisfatti solo dopo i privilegiati e normalmente in maniera parziale. Nelle strategie di ristrutturazione, spesso i fornitori commerciali sono chiamati a contribuire al risanamento, ad esempio accettando piani di rientro dilazionati o stralci (riduzioni del credito) in accordo con l’azienda, soprattutto se l’alternativa è il fallimento (in cui la percentuale di recupero sarebbe minore). Va anche ricordato che in un concordato preventivo i crediti dei fornitori (chirografari) possono essere falcidiati senza il loro consenso individuale, purché la maggioranza voti a favore e il piano rispetti le regole di legge (es. nel concordato liquidatorio devono ricevere almeno il 20%). Dunque, il rischio principale per il debitore sul fronte dei fornitori è la perdita di fiducia e azioni immediate; la difesa consiste nel mantenere la comunicazione aperta, eventualmente negoziare moratorie private o includere tali debiti in un quadro concorsuale che ne disciplini il pagamento parziale in modo ordinato.
- Debiti bancari e finanziari: comprendono prestiti, mutui, aperture di credito (fidi), leasing e altre esposizioni verso banche o società finanziarie. Un’azienda manifatturiera spesso ha finanziato l’acquisto di macchinari (come le presse piegatrici stesse, cesoie, punzonatrici CNC) tramite leasing o mutui, e utilizza linee di credito bancarie per anticipare fatture o coprire il circolante. I debiti bancari sono spesso garantiti: la banca può avere ipoteca su immobili aziendali (capannoni, terreni) per un mutuo, oppure pegno su macchinari in caso di leasing, o ancora fideiussioni personali dei soci/amministratori a garanzia dei fidi. Quando l’azienda entra in crisi e non rispetta i covenants finanziari o ritarda i pagamenti, le banche possono reagire riducendo o revocando gli affidamenti (blocco dei fidi), chiedendo il rientro immediato degli scoperti di conto o escutendo le garanzie. Ad esempio, se vi è un mutuo ipotecario impagato, la banca potrà iscrivere ipoteca giudiziale per i crediti scaduti e avviare l’esecuzione immobiliare sul capannone aziendale, con vendita all’asta. Nel caso di leasing non pagati, la società di leasing può rivendicare e riprendere possesso del macchinario, interrompendo di fatto l’uso di un bene magari essenziale alla produzione. Inoltre, la segnalazione di sofferenze in Centrale Rischi comporta che tutte le banche vengano a conoscenza del default, spesso reagendo in modo a catena. Per il debitore, i debiti bancari presentano quindi un duplice pericolo: esecutivo (perdita forzata di beni dati in garanzia) e finanziario (revoca del credito e impossibilità di accedere a nuova finanza). Nelle procedure concorsuali, i crediti bancari ipotecari o con garanzie reali sono considerati privilegiati per la parte coperta dal valore dei beni dati in garanzia, e chirografari per l’eventuale eccedenza. In un concordato, è possibile proporre ai creditori garantiti il pagamento parziale del loro credito (falcidia dei privilegiati) purché non inferiore al valore di stima del bene ipotecato e con pagamento integrale dell’eventuale parte chirografaria salvo diversa classazione. Dal punto di vista difensivo, un’azienda indebitata verso le banche può tentare una rinegoziazione del debito (ad esempio allungamento delle scadenze, conversione di debito a breve in finanziamento a medio termine), possibilmente presentando un piano industriale credibile; oppure può ricorrere a strumenti concorsuali per congelare le azioni delle banche (ad es. richiedere misure protettive con la composizione negoziata, o presentare un ricorso per concordato preventivo che blocchi immediatamente le esecuzioni). Importante: spesso gli imprenditori hanno firmato garanzie personali per i debiti bancari della società; ciò significa che, se la società non paga, la banca può agire direttamente sul patrimonio personale del garante (casa, beni personali). Questo aspetto sposta il rischio anche sul piano individuale: difendersi in modo corretto attraverso procedure strutturate può aiutare anche a gestire questa esposizione (ad esempio, se la società riesce a concordare un piano, evita che la banca escuta la fideiussione; se invece la società fallisce, la banca escuterà il fideiussore, che a sua volta potrebbe dover accedere a procedure di sovraindebitamento personali). In definitiva, i debiti bancari sono tra i più delicati da trattare e spesso richiedono un approccio negoziale o concorsuale ad hoc (a volte accordi di ristrutturazione dedicati alle banche, che sono tra i creditori più organizzati e con potere di veto significativo).
- Debiti verso dipendenti: includono retribuzioni arretrate, TFR (trattamento di fine rapporto) e altri crediti di lavoro non pagati. Questi debiti sono fortemente tutelati dalla legge sia in fase ordinaria che concorsuale. I dipendenti hanno infatti privilegio generale sui beni mobili dell’azienda per gli stipendi non pagati relativi agli ultimi mesi (di regola gli ultimi 6 mesi di retribuzione godono di privilegio generale) e privilegio speciale sul TFR e sugli ultimi stipendi entro determinati massimali . Ciò significa che in un fallimento o concordato, i lavoratori sono tra i primi creditori ad essere soddisfatti, almeno parzialmente, con preferenza rispetto agli altri creditori chirografari. Inoltre, esiste il Fondo di Garanzia INPS, che in caso di insolvenza accertata del datore di lavoro interviene per pagare ai dipendenti il TFR e le ultime mensilità arretrate, surrogandosi poi nel credito privilegiato in procedura . Quindi, da un lato i dipendenti come creditori corrono meno rischi di perdere completamente i loro crediti (hanno garanzie e interventi pubblici); dall’altro, per l’imprenditore, non pagare i dipendenti comporta conseguenze serie: a breve termine, scioperi o dimissioni dei lavoratori chiave che possono paralizzare l’attività; a lungo termine, in un concordato sarà obbligatorio prevedere il pagamento integrale di questi crediti (quantomeno per la parte privilegiata) se si vuole ottenere l’omologazione . Dal punto di vista penale, il mancato pagamento continuato degli stipendi può rientrare tra le condotte valutate come bancarotta semplice impropria se l’impresa fallisce (per aver aggravato il dissesto), e l’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate sugli stipendi (come detto sopra) è un reato specifico. In fase di crisi, dunque, i debiti verso i dipendenti vanno considerati prioritari: pagare (almeno gli stipendi correnti) è spesso necessario per mantenere l’operatività e perché, comunque, dovranno essere soddisfatti. Esempio: un concordato preventivo che proponesse di non pagare il TFR o gli ultimi stipendi difficilmente sarebbe approvato dal tribunale o votato dai creditori, e l’azienda perderebbe il capitale umano necessario alla continuità. Dunque, una difesa razionale del debitore in crisi passa anche dal mantenere la fiducia del personale, magari spiegando la situazione e assicurando che verranno utilizzati gli strumenti per garantire loro quanto dovuto (es. anticipazione del Fondo di Garanzia).
(Inoltre, possono esistere altre categorie di debito, come i debiti verso soci o parti correlate, debiti per sanzioni amministrative, ecc. Tali posizioni in genere sono chirografarie e in alcuni casi vengono postergate – ad esempio, i finanziamenti soci in situazione di sottocapitalizzazione vengono considerati postergati ex lege).
Rischi dell’inerzia: cosa accade se l’azienda non reagisce
Prima di esplorare le soluzioni, è cruciale comprendere i rischi di un’inerzia o di una gestione passiva della crisi. Se un’azienda di presse piegatrici (o qualsiasi impresa) non prende misure quando i debiti diventano ingovernabili, va incontro a una serie di conseguenze potenzialmente disastrose:
- Escalation delle azioni esecutive individuali: come accennato, i creditori non resteranno in attesa indefinita. I fornitori inizieranno a ottenere decreti ingiuntivi e a notificare pignoramenti (ad es. pignoramento presso terzi dei crediti verso clienti, bloccando gli incassi futuri) . Le banche potranno far valere pegni o ipoteche, attivando procedure d’asta sui beni dati a garanzia (macchinari, immobili). Il Fisco può bloccare i conti correnti con intimazioni di pagamento immediato e pignoramenti esattoriali. Ogni azione esecutiva erosiona pezzi dell’attivo aziendale in modo scoordinato: si rischia di perdere il magazzino, i mezzi di produzione o la liquidità in modo frammentario, rendendo sempre più difficile proseguire l’attività . Inoltre, i beni venduti forzosamente all’asta vengono spesso liquidati a valori inferiori a quelli di mercato, insufficiente a coprire i debiti – lasciando l’azienda comunque insolvente ma impoverita degli asset venduti .
- Moltiplicazione dei costi e oneri: l’inerzia porta ad accumulare interessi di mora, sanzioni e spese legali su ogni posizione debitoria. Un debito fiscale cresce ogni mese per effetto di interessi e sanzioni amministrative; un decreto ingiuntivo comporta ulteriori spese legali a carico del debitore e interessi legali (o addirittura interessi convenzionali più alti, se pattuiti in contratto). Il costo complessivo del debito può lievitare rapidamente, aggravando ulteriormente lo sbilancio patrimoniale. Inoltre, come detto, nelle esecuzioni forzate i beni vengono spesso venduti sotto costo, e il ricavato è insufficiente a estinguere il debito: ad esempio, un macchinario del valore di €50.000 potrebbe essere venduto a €20.000 all’asta, lasciando comunque un debito residuo e privando l’azienda di uno strumento produttivo. Così l’azienda rimane indebitata e priva di quell’attivo. L’inerzia, dunque, aggrava il dissesto sia aumentando il passivo (per interessi e spese) sia diminuendo l’attivo (per dispersione di beni venduti male) .
- Blocco operativo e perdita di fiducia: quando si diffonde la notizia che l’azienda è insolvente o in grave difficoltà (ad es. perché fornitori e dipendenti parlano dei mancati pagamenti, o perché risultano pignoramenti nelle visure), la reputazione precipita. I fornitori ancora in rapporto potrebbero passare a consegnare merce solo contro pagamento anticipato, o interrompere del tutto le forniture temendo di aumentare il loro rischio. I clienti, se percepiscono instabilità (ad esempio per ritardi nelle consegne dovuti a problemi finanziari), possono rivolgersi altrove, preoccupati dalla continuità dell’azienda. I dipendenti, temendo per il loro posto e vedendo il caos, potrebbero cercare altre opportunità e dimettersi, privando l’impresa di competenze essenziali. Anche le banche, “annusando” la crisi, tipicamente revocano i fidi residui e rifiutano nuovi finanziamenti. L’inerzia dunque crea un circolo vizioso: minore fiducia da parte di partner e mercato, minore ossigeno finanziario (nessuno più concede dilazioni né credito), ulteriore rapido deterioramento della gestione . Questo effetto domino rende la crisi sempre più difficile da recuperare, anche con eventuali interventi tardivi.
- Iniziative concorsuali d’ufficio o dei creditori: se l’azienda non reagisce e la situazione peggiora, oltre alle esecuzioni individuali può scattare l’avvio di una procedura concorsuale su iniziativa di terzi (creditori o autorità). In Italia (salvo per le imprese minori di cui diremo dopo), un creditore con un credito certo, liquido ed esigibile sopra una soglia modesta (poche migliaia di euro) può presentare ricorso per la dichiarazione di insolvenza dell’impresa, chiedendo l’apertura della liquidazione giudiziale (il nuovo termine che ha sostituito la parola “fallimento”). Anche il Pubblico Ministero può attivarsi se emergono elementi di insolvenza nell’ambito di procedimenti penali o da segnalazioni (es. protesti a catena, denunce per reati tributari). La liquidazione giudiziale comporta l’immediato spossessamento dell’impresa: il tribunale nomina un curatore fallimentare che prende in mano la gestione, sostituisce l’imprenditore e procede a liquidare i beni per soddisfare i creditori secondo le regole della par condicio . Gli amministratori e proprietari perdono ogni potere di gestione, i contratti possono essere sciolti o ceduti dal curatore, e l’attività viene chiusa o venduta salvo rarissime eccezioni di esercizio provvisorio. Questo scenario estremo è spesso l’esito dell’inerzia: attendere passivamente può significare perdere la possibilità di gestire attivamente la crisi e di salvare qualcosa della continuità aziendale, subendo invece una procedura fallimentare avviata da altri, con minori possibilità di soddisfare i creditori in modo efficiente o di preservare valore aziendale (ad esempio, clienti, know-how, marchi). In sintesi, chi non prende l’iniziativa rischia di subire il peggiore degli esiti, cioè un fallimento disordinato in cui l’azienda viene spazzata via.
- Responsabilità personale degli amministratori (e talvolta dei soci): uno degli aspetti più critici per chi gestisce l’azienda debitrice è la potenziale responsabilità civile verso la società e i creditori per mala gestio durante la crisi. In base al Codice Civile (artt. 2485-2486 c.c. per S.r.l. e S.p.A.), dal momento in cui si verifica una causa di scioglimento della società (tipicamente la perdita del capitale oltre i limiti di legge, situazione comune nelle crisi gravi) gli amministratori devono limitare la gestione ai fini della conservazione del patrimonio e non possono compiere nuove operazioni che possano aggravare il dissesto. Se invece proseguono l’attività d’impresa accumulando nuovi debiti quando avrebbero dovuto liquidare la società o richiedere una procedura, possono essere ritenuti responsabili dei danni causati dall’aggravamento del passivo. La quantificazione di tale danno, secondo la giurisprudenza e oggi esplicitamente secondo l’art. 2486 c.c. (come modificato dal Codice della Crisi), può essere fatta assumendo come parametro la differenza tra il patrimonio netto alla data in cui si sarebbe dovuto intervenire (o liquidare la società) e il patrimonio netto (ancora più negativo) alla data effettiva della successiva apertura di liquidazione giudiziale . In pratica, tutti i debiti ulteriormente accumulati – o la perdita di valore dell’attivo – causati dalla prosecuzione abusiva dell’attività diventano responsabilità personale degli amministratori, in un’azione di responsabilità che viene tipicamente esercitata dal curatore fallimentare nell’interesse di tutti i creditori. La Cassazione ha confermato tale impostazione: ad esempio, una decisione del 2024 ha ribadito che gli amministratori (e anche i sindaci) rispondono ex art. 2486 c.c. per non aver preservato l’integrità patrimoniale, con danno calcolato proprio con il criterio differenziale dei netti patrimoniali (aggravamento del passivo) . Dunque, l’inerzia o, peggio, la cattiva reazione (continuare a indebitarsi sperando in un colpo di fortuna) può portare gli amministratori a dover rispondere con il proprio patrimonio personale dei debiti non pagati. Anche i soci di una S.r.l. o S.p.A., pur di regola non responsabili per le obbligazioni sociali, possono in alcuni scenari essere chiamati in causa: ad esempio, se hanno deliberatamente sottratto attivi (es. distribuito utili fittizi in violazione delle norme), o se hanno finanziato la società in modo anomalo in una situazione di sottocapitalizzazione (in tal caso la legge postula la postergazione e possibili profili di responsabilità), oppure – molto concretamente – se hanno prestato fideiussioni personali verso banche o fornitori. In quest’ultimo caso, l’inerzia dell’azienda nel pagare comporta quasi automaticamente che il creditore agirà contro il socio garante, trasferendo la crisi sul piano personale di quest’ultimo. La consapevolezza di questi rischi dovrebbe spingere gli amministratori a non ignorare la crisi, ma ad attivarsi tempestivamente per gestirla legalmente, proteggendo così sia l’impresa che se stessi.
- Conseguenze penali: oltre alla responsabilità civile, vi sono reati tipici che emergono nelle crisi sfociate in insolvenza. Il diritto fallimentare punisce infatti varie condotte scorrette dell’imprenditore in crisi, soprattutto se portano al fallimento. Tra i reati previsti dal Codice della Crisi (e prima dalla Legge Fallimentare) vi sono: la bancarotta semplice impropria (art. 330 CCII, già art. 217 L.F.), che sanziona l’imprenditore dichiarato fallito per aver aggravato il dissesto con violazioni di legge o negligenza (ad es. mancata tenuta delle scritture contabili, spese personali eccessive, aver continuato ad operare contraendo debiti insostenibili); la bancarotta preferenziale (art. 329 CCII, ex art. 216 L.F.), che punisce gli atti compiuti prima del fallimento con cui si favoriscono intenzionalmente alcuni creditori a scapito di altri (ad es. pagamenti selettivi o garanzie concesse a pochi prima di andare in default); e la bancarotta fraudolenta (art. 322 e segg. CCII, ex art. 216 L.F.), forse la più grave, che copre condotte dolose come la distrazione o occultamento di beni dell’azienda, l’esposizione di passività inesistenti o l’alterazione dei libri contabili per frodare i creditori. Questi reati, in particolare la bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, sono puniti con pene detentive anche molto significative (fino a 6-10 anni di reclusione per singolo fatto in casi gravi). Occorre notare che i reati di bancarotta si consumano formalmente con la dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale): cioè, l’azienda viene dichiarata insolvente e da quel momento certi atti compiuti prima diventano penalmente rilevanti. Tuttavia, è ovvio che gli illeciti si compiono durante la crisi: vendere sottoprezzo macchinari a un’altra società di famiglia, occultare merci dal magazzino, falsificare i bilanci per ottenere credito – tutte queste sono condotte che, se poi si fallisce, verranno perseguite come bancarotta fraudolenta. La Cassazione Penale ha di recente affrontato casi di responsabilità degli amministratori per bancarotta fraudolenta distrattiva e documentale , ribadendo ad esempio che costituisce distrazione la cessione a titolo gratuito di beni sociali a società riconducibili agli amministratori (es. cessione gratuita di un contratto di leasing su un bene strumentale a un’altra società collegata) . Per l’imprenditore, quindi, l’inerzia può trasformarsi in tentazione di fare “mosse disperate” illegali (spostare beni, pagare solo qualcuno, falsificare dati) che quasi sempre aggravano le cose e portano a incriminazioni penali. Anche prima di un fallimento, però, esistono reati potenzialmente applicabili: si pensi all’omesso versamento IVA come reato tributario, oppure alla truffa ai danni dei creditori se l’azienda continua a fare ordini da fornitori sapendo di non poter pagare. Insomma, la crisi non gestita espone gli amministratori a responsabilità penali rilevanti. All’opposto, agire entro i binari delle soluzioni legali (accordi omologati, concordati) offre spesso anche scudi penali: ad esempio, i pagamenti effettuati in esecuzione di un piano attestato di risanamento o di un concordato non sono considerati bancarotta preferenziale, e certi finanziamenti ottenuti durante la procedura hanno esenzione da responsabilità. Inoltre, evitare il fallimento significa non far scattare l’evento che determina i reati di bancarotta: se l’azienda risana o si liquida concordatariamente, gli amministratori non avranno una sentenza di fallimento sul groppone, con tutto ciò che ne consegue. Questo è un incentivo fortissimo a difendersi legalmente e non lasciare che la situazione precipiti fuori controllo.
Riassumendo, non intervenire quando l’azienda è sommersa dai debiti è la scelta peggiore: si rischia di dissipare quel poco che potrebbe salvarsi, si aumentano i debiti e i guai, e si finisce per perdere sia l’impresa sia la tranquillità personale (fra cause di responsabilità e magari accuse penali). Al contrario, attivarsi per tempo, in modo trasparente e con gli strumenti giusti, può sia migliorare le chances di superare la crisi sia proteggere legalmente l’imprenditore. Nel prossimo capitolo vedremo il contesto normativo attuale e poi tutte le soluzioni offerte dall’ordinamento per affrontare la crisi in modo ordinato.
Normativa di riferimento e contesto (Italia, 2025)
L’attuale disciplina italiana della crisi d’impresa è il frutto di una riforma organica recente. Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), emanato con D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, è entrato in vigore definitivamente il 15 luglio 2022, sostituendo la storica Legge Fallimentare del 1942. Da allora, il CCII è stato ulteriormente modificato da decreti “correttivi”, in particolare il D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (c.d. correttivo-bis) e il D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (c.d. correttivo-ter), che hanno recepito indicazioni dell’UE (Direttiva 2019/1023 sulla ristrutturazione e insolvenza) e affinato vari istituti . Questa guida tiene conto delle norme aggiornate al 2025 risultanti da tali interventi. In sintesi, ecco alcuni concetti chiave del quadro normativo attuale:
- Stato di crisi vs insolvenza: il CCII introduce una distinzione concettuale importante. Viene definita crisi “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni nei successivi 12 mesi” . In altre parole, la crisi è una situazione di tensione finanziaria che fa prevedere il rischio di insolvenza, misurabile tramite indicatori (perdita di liquidità, indici di bilancio sbilanciati, ecc.). L’insolvenza, invece, è lo stato conclamato di incapacità di soddisfare le proprie obbligazioni man mano che giungono a scadenza, manifestato da inadempimenti o altri fatti esteriori (come i protesti, i pignoramenti infruttuosi, etc.). Questa distinzione è cruciale perché alcune procedure sono mirate a intervenire prima dell’insolvenza conclamata, cioè nello stato di crisi o persino di pre-crisi, mentre altre operano sull’insolvenza già dichiarata. Ad esempio, la composizione negoziata (strumento introdotto nel 2021) nasce per affrontare situazioni di crisi in fase precoce, evitando di arrivare al fallimento; tuttavia, dopo il correttivo 2024, è consentito accedervi anche se l’impresa è già insolvente, purché vi sia una ragionevole prospettiva di risanamento (prima c’era incertezza sul punto). In breve, oggi la legge spinge a intercettare la crisi per tempo: la tempestività può fare la differenza tra ristrutturare il debito o cadere in liquidazione forzata.
- Imprese soggette alle procedure concorsuali: non tutte le imprese sono assoggettabili alle stesse procedure. Il codice distingue le imprese “sottosoglia” (o imprese minori), definendole come quelle che non superano determinati parametri dimensionali (attivo di €300.000, ricavi di €200.000, debiti fino a €500.000 circa) . Queste piccole realtà, analoghe ai “non fallibili” sotto la vecchia legge, non vengono sottoposte a liquidazione giudiziale fallimentare o a concordato preventivo ordinario; in caso di insolvenza possono invece accedere alle procedure di sovraindebitamento dedicate: il concordato minore (che ha sostituito il vecchio “accordo di composizione” e in parte il piano del consumatore, per gli imprenditori minori) e la liquidazione controllata (evoluzione della liquidazione del patrimonio ex L.3/2012) . Queste procedure sono simili nelle finalità alle corrispondenti maggiori, ma semplificate e calibrate su realtà di piccola scala. Ad esempio, nel concordato minore non è richiesto un attivo minimo o percentuali minime di soddisfazione, ma il piano deve comunque assicurare che il debitore meritevole dia tutto il possibile ai creditori . Nota: la nostra guida si concentra sulle società di capitali e imprese strutturate (tipicamente soggette a fallimento), come è presumibile per un’azienda di presse piegatrici di dimensioni significative. Tuttavia, molti principi valgono anche per le piccole imprese; faremo cenno alle procedure minori dove opportuno. Ad esempio, un’officina meccanica individuale molto piccola in crisi potrebbe ricorrere al concordato minore anziché al concordato preventivo, ma gli strumenti concettuali di difesa (negoziare coi creditori, bloccare le azioni esecutive, ecc.) sono analoghi.
- Obblighi di rilevazione e gestione della crisi: dal 2019 è inserito nel Codice Civile (art. 2086, comma 2) l’obbligo per l’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita di continuità aziendale . Ciò significa che gli amministratori hanno il dovere legale di monitorare costantemente la salute finanziaria dell’impresa e di attivarsi senza indugio per adottare strumenti di risanamento se emergono segnali di difficoltà . Il CCII originariamente prevedeva anche meccanismi di “allerta” esterna (segnalazioni obbligatorie da parte di creditori pubblici qualificati, come Agenzia Entrate, INPS, ecc., al superamento di certe soglie di debito, con coinvolgimento di un Organismo di Composizione della Crisi – OCRI). Tuttavia queste misure di allerta pubblica sono state di fatto accantonate e non sono mai entrate in vigore operativa, per timore di eccessiva traumaticità. L’approccio attuale è basato su autoresponsabilità e su un allerta di tipo volontario: sta all’imprenditore dotarsi di strumenti interni di monitoraggio (flussi di cassa previsionali, indici di allerta) e, se necessario, attivare spontaneamente le procedure di composizione della crisi. In caso contrario, come visto, l’inattività può generare responsabilità per gli amministratori (ex art. 2486 c.c.) e anche l’azione di denuncia da parte di soci o altri (es. ex art. 2409 c.c. per gravi irregolarità gestionali, se non si adottano assetti adeguati) . In pratica, la legge chiede all’imprenditore di comportarsi come un sorvegliante della continuità aziendale: se i conti iniziano a non tornare, bisogna correre ai ripari con gli strumenti legali, non aspettare di diventare insolventi.
- Strumenti di gestione della crisi e dell’insolvenza: il Codice disciplina vari istituti che possiamo dividere in due macro-famiglie: da un lato gli strumenti negoziali (dove l’imprenditore mantiene la gestione e cerca accordi con i creditori, pur sotto controllo di esperti o giudici in misura variabile) e dall’altro le procedure giudiziali liquidatorie (dove l’autorità subentra per liquidare o amministrare l’impresa insolvente). In ordine dal meno invasivo al più invasivo, le principali opzioni oggi sono:
- Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII): non è propriamente una procedura concorsuale, ma uno strumento stragiudiziale. Consiste in un piano di risanamento aziendale predisposto dall’imprenditore e accompagnato dalla relazione di un professionista indipendente (attestatore) che ne certifica la veridicità dei dati e la fattibilità. Il piano è rivolto ai creditori e si basa su accordi privati con essi (ad es. dilazioni di pagamento, remissioni parziali, nuove finanze apportate). Se vengono rispettati determinati requisiti di forma e contenuto e il piano viene eseguito regolarmente, la legge gli riconosce importanti protezioni: gli atti compiuti in esecuzione del piano attestato non sono soggetti all’azione revocatoria fallimentare e – novità del CCII – nemmeno alle revocatorie ordinarie, se il piano è pubblicato al registro imprese . Inoltre, i pagamenti e le garanzie concessi ai creditori secondo il piano non costituiscono reato di bancarotta preferenziale o semplice, in caso di successivo fallimento . In sostanza, il piano attestato funge da “porto sicuro”: se l’imprenditore riesce a ottenere il consenso informale di abbastanza creditori da superare la crisi, può evitare di passare dal tribunale, beneficiando però di alcune tutele legali (che incentivano i creditori ad aderire, sapendo che poi quei pagamenti non verranno attaccati). Di contro, il piano attestato non vincola i creditori estranei (chi non firma resta libero di agire) e non offre una moratoria legale: non c’è alcun automatic stay delle azioni esecutive mentre si elabora o attua il piano, a differenza delle procedure concorsuali. Pertanto, il piano attestato è indicato quando la crisi è ancora gestibile in via consensuale, con pochi creditori principali cooperativi e nessuno (si spera) che corra alle vie legali. Spesso è il primo passo: un tentativo agile di risanamento “in silenzio”, utilizzando la leva dell’attestazione per dare credibilità al piano e convincere banche/fornitori a supportarlo. Approfondiremo questo strumento più avanti.
- Composizione negoziata (artt. 17-25-sexies CCII): è uno strumento nuovo, introdotto in piena emergenza pandemia (dal D.L. 118/2021) e poi stabilizzato nel Codice. Si tratta di una procedura di negoziazione assistita che l’imprenditore può attivare volontariamente quando si trova in situazione di crisi o insolvenza reversibile. La composizione negoziata si svolge fuori dal tribunale ma sotto la guida di un esperto indipendente, nominato da una apposita commissione presso la Camera di Commercio, che ha il compito di aiutare l’imprenditore a trovare una soluzione. La particolarità è che l’imprenditore può chiedere al tribunale, durante le trattative, delle misure protettive temporanee, ossia un provvedimento che blocca o sospende le azioni esecutive e cautelari dei creditori (di norma per un periodo iniziale di 4 mesi) . In pratica, la composizione negoziata offre un tavolo di negoziazione “protetto”: l’azienda resta in mano all’imprenditore, l’esperto facilita le trattative con tutti o alcuni creditori, e grazie alle misure del tribunale i creditori non possono precipitare la situazione nel frattempo. Non c’è un esito prestabilito: le trattative possono portare a un accordo stragiudiziale (magari formalizzato in un piano attestato o in singoli accordi), oppure a un accordo di ristrutturazione omologato (se si riesce a far aderire almeno il 60% dei crediti e si vuole rendere vincolante l’accordo erga omnes), oppure ancora a un concordato preventivo (se serve coinvolgere tutti i creditori con votazione), oppure – se niente funziona – alla chiusura con una liquidazione giudiziale o a un concordato semplificato di liquidazione. La composizione negoziata è quindi un contenitore flessibile per gestire la crisi: non è una procedura concorsuale vera e propria, perché non prevede l’intervento diretto del tribunale nella gestione né il voto dei creditori, ma interagisce con le procedure concorsuali, fornendo un periodo di protezione e preparazione. L’esperto non ha poteri sostitutivi, ma può segnalare atti pregiudizievoli e – alla fine – se il debitore è in mala fede lo scrive in una relazione finale. Da notare che l’accesso è consentito a tutte le imprese, anche molto piccole (persino ditte individuali e agricole), a differenza del vecchio concordato preventivo che escludeva i non fallibili . La composizione negoziata è stata accolta con favore e la sua importanza è crescente: dati Unioncamere 2025 mostrano che le composizioni negoziate avviate nel 2024 hanno superato numericamente i concordati preventivi . La Cassazione civile ha già avuto modo di valorizzare questo strumento: in una pronuncia del 2025 ha affermato che la pendenza di una composizione negoziata concrete e promettente può giustificare la limitazione di misure cautelari, fungendo da scudo contro provvedimenti come sequestri conservativi . Ciò evidenzia la fiducia crescente verso questo approccio “morbido” alla crisi. Dedicheremo una sezione specifica alla composizione negoziata, data la sua novità e rilevanza.
- Accordo di ristrutturazione dei debiti (ard) omologato (artt. 57-64 CCII): è uno strumento concorsuale giudiziale in cui l’iniziativa è privata ma serve l’intervento del tribunale per l’omologazione. Funziona così: l’imprenditore elabora un piano di ristrutturazione e trova l’adesione di una percentuale qualificata di creditori (almeno il 60% del totale dei crediti). Formalizza l’accordo con i creditori aderenti e lo sottopone al tribunale, il quale – verificati i requisiti (fattibilità del piano, rispetto dei diritti dei creditori estranei, ecc.) – omologa l’accordo, rendendolo vincolante per tutti i creditori coinvolti. Chi non ha aderito, resta estraneo e mantiene i suoi diritti, ma dev’essere comunque soddisfatto almeno nella misura minima di legge (non può ricevere meno di quanto avrebbe ottenuto in un fallimento) . L’accordo di ristrutturazione può essere visto come un “patteggiamento collettivo”: invece di passare per un lungo concordato con voto di tutti, il debitore negozia privatamente con la maggior parte dei creditori e poi chiede al giudice di estendere gli effetti a tutti. Vantaggi: è più rapido e meno costoso di un concordato, non c’è un commissario giudiziale, non c’è voto (basta la soglia di adesioni), e le parti possono gestire con flessibilità il contenuto (ad esempio decidere quali creditori far aderire, lasciandone fuori alcuni da pagare interamente). Svantaggi: serve comunque un consenso elevato (60%) e i creditori non aderenti, specie se privilegiati, vanno spesso pagati integralmente per evitare contestazioni. Il CCII ha introdotto alcune varianti, tra cui l’accordo ad efficacia estesa a certe categorie di creditori finanziari anche senza la loro adesione individuale (ad es. banche dissenzienti se altre banche con l’80% del credito hanno aderito), e regole di silenzio-assenso per l’Erario e gli enti previdenziali (se non rispondono entro 90 giorni si intendono consenzienti alla proposta) . Durante la procedura di omologazione, il debitore può chiedere misure protettive simili a quelle del concordato, per evitare azioni esecutive. Questo strumento è utile quando c’è un nocciolo duro di creditori favorevoli (tipicamente banche) e si vuole forzare il passaggio della ristrutturazione evitando che pochi dissenzienti possano bloccarla. Approfondiremo anche questo istituto nel prosieguo.
- Concordato preventivo (artt. 84-120 CCII): è la procedura concorsuale per eccellenza quando si pensa a come “salvare” un’azienda insolvente evitando la rovina del fallimento. Si chiama preventivo perché si svolge prima (e per evitare) della liquidazione giudiziale. Nel concordato, il debitore mantiene l’iniziativa: propone un piano ai creditori, che prevede come trattare tutti i debiti (pagamento integrale o parziale, eventuali suddivisioni in classi, liquidazione di asset, continuità aziendale, ecc.). I creditori votano il piano in apposita adunanza, e se si raggiunge la maggioranza richiesta (maggioranza dei crediti ammessi al voto), il tribunale omologa il concordato rendendolo vincolante per tutti i creditori anteriori. Tradizionalmente si distingue fra concordato in continuità aziendale (quando la proposta prevede che l’attività dell’impresa continui, sotto la gestione attuale o mediante affitto/cessione a un soggetto terzo, salvaguardando il valore d’azienda come going concern) e concordato liquidatorio (quando invece la proposta consiste nel liquidare tutto il patrimonio e distribuire il ricavato ai creditori). Questa distinzione è rilevante sia per aspetti pratici sia per regole di legge: nel concordato liquidatorio puro, il CCII impone che i creditori chirografari ottengano almeno il 20% del loro credito , mentre in quello in continuità non c’è soglia minima (perché si presume che mantenere l’impresa in vita generi maggior valore e giustifica eventualmente percentuali minori). Inoltre, nel concordato in continuità si tende a proteggere la forza lavoro e i contratti pendenti, mentre nel liquidatorio l’attività cessa salvo vendite. Da notare che il confine tra continuità e liquidazione può essere sottile (es. concordato con continuità indiretta, dove si vende l’azienda ad un acquirente ma mantenendola operativa nel frattempo, è considerato in continuità per certi aspetti). Il concordato preventivo comporta un elevato coinvolgimento dell’autorità: il tribunale deve valutare l’ammissibilità della domanda, nominare un Commissario Giudiziale che vigila durante la procedura, i creditori sono informati e possono fare osservazioni e votano, poi c’è l’udienza di omologa davanti al giudice. Durante tutta la procedura, il debitore gode di una protezione automatica: dal momento del deposito del ricorso per concordato (o domanda in bianco) scatta il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, e ciò tipicamente dura fino all’omologazione . Questa moratoria legale è uno dei motivi per cui molte imprese presentano domanda di concordato: ferma il caos e congela le posizioni, permettendo di giocarsi il tutto per tutto con un piano. Nel piano, il debitore può proporre di stralciare (tagliare) i debiti chirografari anche pesantemente – ad esempio, pagare solo il 30% a saldo – e persino di non pagare integralmente alcuni crediti privilegiati (falcidiandoli) purché dimostri che quei creditori ricevono almeno il valore che avrebbero ricavato dalla vendita dei beni su cui hanno garanzia (c.d. soddisfazione in misura non inferiore all’alternativa liquidatoria). La legge attuale consente anche di dividere i creditori in classi omogenee e trattarle diversamente, e in caso di classi dissenzienti il tribunale può ugualmente omologare il concordato imponendolo (cram-down interclassi), se ritiene rispettati certi requisiti di equità e meritevolezza. Una novità introdotta dai correttivi del 2022-2024 è il cram-down fiscale: se in un concordato tutti i creditori votano sì tranne l’Erario o gli enti previdenziali, il tribunale può omologare comunque (vincendo il dissenso del Fisco) a condizione che al creditore pubblico sia assicurato almeno il 20% del proprio credito privilegiato (o, se si offre meno, che un perito attesti che in caso di fallimento il Fisco otterrebbe ancora meno). Ciò ha risolto uno storico problema: prima bastava che l’Agenzia delle Entrate dicesse “no” per far saltare molti concordati, ora il suo veto può essere superato in sede giudiziaria. In sintesi, il concordato preventivo è lo strumento più completo e potente per regolare la crisi, ma è anche complesso e richiede tempi e costi maggiori. Nei paragrafi dedicati vedremo come si articola e in quali casi conviene ricorrervi. Ricordiamo infine che esiste una variante semplificata introdotta nel 2021: il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). È riservato ai casi in cui una composizione negoziata fallisce nel trovare accordi: in tal situazione, l’imprenditore può proporre al tribunale, entro 60 giorni, un piano di liquidazione dei beni senza passare dal voto dei creditori. I creditori non votano, il giudice valuta la proposta e, se la ritiene equa e conveniente rispetto al fallimento, la omologa. Si tratta di uno strumento “d’emergenza” per evitare il fallimento quando comunque l’esito è liquidatorio, guadagnando tempo e magari spuntando condizioni migliori (ad esempio vendendo l’azienda in blocco). Faremo un esempio pratico di concordato semplificato in uno dei casi studio.
- Liquidazione giudiziale (ex fallimento, art. 121 e segg. CCII): è la procedura concorsuale liquidatoria, avviata tipicamente quando non ci sono prospettive di risanamento. Può essere aperta su istanza di un creditore, del debitore stesso o d’ufficio (PM), se ricorre lo stato d’insolvenza. Il tribunale, verificata l’insolvenza, dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale con sentenza, nominando un Curatore che amministrerà l’intero patrimonio dell’impresa e lo convertirà in denaro per pagare i creditori secondo le regole legali. Gli effetti per il debitore sono pesanti: perde la disponibilità dei beni, la gestione passa al curatore, l’impresa cessa la sua attività (salvo che il giudice autorizzi un esercizio provvisorio per vendere meglio l’azienda), gli organi sociali decadono. I creditori devono presentare domanda di ammissione al passivo e verranno soddisfatti in base ai privilegi, in percentuale (spesso bassa per i chirografari). La liquidazione giudiziale mira a chiudere definitivamente la storia dell’impresa, distribuendo ai creditori tutto il possibile e poi estinguendo la società. Per l’imprenditore individuale è prevista, a fine procedura, la possibilità di chiedere l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) se ha collaborato lealmente – concetto del “fresh start” per dare una seconda possibilità. Per le società, invece, non ha senso parlare di esdebitazione: una volta liquidata e cancellata, la società semplicemente cessa di esistere assieme ai suoi debiti. La liquidazione giudiziale è chiaramente l’ultima ratio, cui si cerca di non arrivare se c’è margine per soluzioni meno distruttive. Tuttavia, rappresenta anche una forma di difesa estrema: se proprio non c’è modo di pagare i creditori, il fallimento è lo strumento legale per porre fine all’impresa dando ai creditori ciò che si può in maniera ordinata. Ha anche implicazioni di responsabilità: con la sentenza dichiarativa si aprono i possibili fronti penali (bancarotta) e di responsabilità per gli amministratori, come discusso. Più avanti confronteremo la liquidazione giudiziale con le alternative, per evidenziarne differenze di esito.
Riassumendo, il quadro normativo italiano offre un vero ventaglio di strumenti, ciascuno adatto a situazioni diverse di crisi d’impresa. Dalla soluzione puramente privata (piano attestato) si passa via via a strumenti con crescente intervento giudiziario (accordo omologato, concordato) fino alla liquidazione fallimentare. La riforma ha cercato di incoraggiare l’uso precoce di strumenti di risanamento negoziale, mantenendo comunque le tutele per i creditori. Nel prossimo capitolo inizieremo a esaminare le soluzioni stragiudiziali, quelle cioè attuabili senza passare subito dal tribunale, che spesso rappresentano il primo tentativo di salvataggio di un’azienda indebitata.
Soluzioni stragiudiziali: accordi privati e piani attestati
Una volta individuata la crisi, il primo livello di risposta consiste nel tentare soluzioni stragiudiziali, ovvero senza l’immediato intervento formale del tribunale. Queste includono semplici trattative private con i creditori e strumenti strutturati come i piani attestati di risanamento. L’idea di fondo è guadagnare tempo e fiducia dai creditori fuori dalle aule di giustizia, quando possibile, così da evitare le etichette di insolvenza conclamata e i costi di procedure lunghe. Vediamo queste opzioni in dettaglio.
Trattative private e accordi individuali con i creditori
Spesso, la prima reazione di un imprenditore in difficoltà è parlare con i propri creditori. Soprattutto se la crisi è percepita come temporanea o circoscritta (es. un ritardo incassando pagamenti da un grosso cliente, o un calo di ordini per qualche mese), molti problemi di liquidità si possono risolvere negoziando privatamente con i creditori chiave: ad esempio chiedendo ai fornitori una proroga delle scadenze, concordando con la banca una moratoria di qualche mese sulle rate del mutuo, o ottenendo dall’Agenzia delle Entrate una dilazione ulteriore dei pagamenti. Questi sono accordi informali che non seguono schemi predeterminati: dipendono molto dalle relazioni di fiducia costruite e dal potere contrattuale. Un fornitore che tiene a mantenere il rapporto commerciale, se informato onestamente delle difficoltà, potrebbe accettare un piano di rientro dei suoi crediti su 6-12 mesi senza agire in via legale, magari in cambio della garanzia di essere pagato prima di altri. Una banca potrebbe preferire rinegoziare il fido piuttosto che spingere l’azienda al fallimento (in cui rischierebbe di incassare di meno). Certo, queste intese funzionano solo finché tutti cooperano: bastano uno-due creditori aggressivi per far saltare il clima di fiducia. È bene quindi, se si segue questa strada, coinvolgere tempestivamente i creditori più importanti, mostrando loro un abbozzo di piano (ad es. “se mi date 6 mesi di respiro, recupero liquidità, vendo un macchinario inutilizzato e vi pago”) in modo da ottenere la loro pazienza. Un vantaggio di questa via è la totale riservatezza: il mercato (clienti, concorrenti) e i media non vengono a sapere nulla, l’azienda evita il “marchio” di un concordato o peggio. Inoltre è flessibile: si può trattare condizioni ad hoc con ciascun creditore. Lo svantaggio è che l’accordo vincola solo chi firma: se anche 9 creditori su 10 accettano di aspettare ma il decimo invece procede con un pignoramento, quell’azione può compromettere l’intera azienda (ad esempio la banca pazienta ma un fornitore pignora il conto, bruciando la cassa che serviva a pagare tutti). Inoltre, l’accordo privato non sospende legalmente i termini delle eventuali procedure: se un creditore ha già ottenuto un decreto ingiuntivo, può teoricamente proseguire nell’esecuzione anche se l’azienda gli ha proposto un piano di pagamento (a meno che non sottoscriva un impegno a sospendere). Per queste ragioni, spesso le trattative private sono un preludio a strumenti più strutturati: si inizia a tastare il terreno con i creditori per capire se si può raggiungere un consenso, dopodiché è saggio “cristallizzare” tali intese in un quadro protetto (ad esempio formalizzandole in un piano attestato, o integrandole in un accordo omologato). In ogni caso, mai sottovalutare l’importanza del dialogo: anche dentro le procedure formali, la capacità di trattare con i creditori rimane fondamentale (es. convincerli a votare un concordato).
In concreto, cosa si può fare in questa fase? Alcuni esempi: – Convocare incontri bilaterali con i principali creditori (banche, fornitori strategici, fisco) per illustrare la situazione e proporre un piano di massima di soddisfazione (es: “vi pago una parte subito e il resto in 12 mesi, oppure vi do in garanzia un macchinario se non posso pagarvi tutto”). – Redigere con l’aiuto di un professionista un minibusiness plan con proiezioni di cassa e presentarlo ai creditori per dimostrare che c’è una strategia di ripresa. – Verificare la disponibilità delle banche a interventi di emergency financing (ad es. affidamenti ponte garantiti dallo Stato, se applicabili, come quelli visti in pandemia). – Mettere subito in atto misure internamente: taglio di costi non essenziali, vendita di piccoli cespiti non strategici per fare cassa e pagare debiti urgenti. Queste azioni mostrano ai creditori che l’imprenditore sta facendo la sua parte. – Se alcuni debiti non sono dovuti o sono contestabili (es. addebiti bancari errati, cartelle prescritte), sollevarlo in sede di trattativa per alleggerire l’ammontare da rimborsare (spesso nei debiti complessivi ci sono voci riducibili). – Formalizzare gli accordi trovati con scritture private: se un fornitore accetta un pagamento dilazionato, mettere nero su bianco un piano di rientro firmato; se una banca concede standstill, farsi dare conferma scritta che fino a data X non revocherà i fidi o non escuterà le garanzie.
Tutto questo, beninteso, non garantisce al 100% che un creditore non tradisca l’accordo e agisca lo stesso, ma rende meno probabile ciò, perché una volta formalizzato un piano di rientro molti preferiscono rispettarlo (anche per non perdere eventuali pagamenti parziali già effettuati). Da un punto di vista giuridico, gli accordi privati possono configurarsi come semplici patti moratori, transazioni, o novazioni dei rapporti di credito. È consigliabile farsi assistere da legali in questa fase per evitare che, nel cercare l’accordo, si facciano ammissioni o concessioni che potrebbero pregiudicare l’azienda se poi la trattativa salta (ad es. attenzione a firmare ricognizioni di debito o cambiali se non si è sicuri di poterle onorare).
In conclusione, le trattative informali sono quasi sempre il primo passo e vanno tentate, soprattutto in crisi iniziali: costano poco e possono risolvere o tamponare situazioni che diversamente degenererebbero. Però occorre valutare lucidamente fino a che punto si può fare affidamento sulla sola fiducia: se i debiti sono troppi o i creditori troppo numerosi per trovare rapidamente un consenso unanime, è opportuno evolvere verso strumenti di più ampia tutela (piani attestati, accordi, ecc.) prima che la situazione sfugga di mano.
Il Piano Attestato di Risanamento (art. 56 CCII)
Il piano attestato di risanamento è un istituto che fa da ponte tra il mondo puramente informale e quello formale regolato. Esso consiste, in sostanza, in un accordo volontario tra il debitore e una parte dei suoi creditori, basato su un piano industriale e finanziario di risanamento dell’impresa, asseverato (attestato) da un professionista indipendente che ne garantisce la fattibilità. La logica del piano attestato è: i creditori chiave accettano di sostenere l’impresa (ad esempio rinunciando a parte dei crediti, o aspettando il pagamento a lunga scadenza, o fornendo nuova finanza) perché un esperto terzo ha verificato che, così facendo, l’impresa può tornare in bonis e alla fine pagarli in misura maggiore rispetto a uno scenario liquidatorio. In cambio della disponibilità dei creditori e della serietà del piano, la legge offre protezione al debitore e ai creditori aderenti sotto vari profili, così da incentivare l’utilizzo di questo strumento.
Presupposti e formalità: il piano attestato può essere utilizzato da qualsiasi imprenditore in stato di crisi o insolvenza reversibile (quindi anche se tecnicamente già insolvente, purché ci sia margine di recupero). Non richiede soglie di debito né percentuali di adesione specifiche (a differenza dell’accordo di ristrutturazione). Però, per essere efficace e protetto, deve rispettare i requisiti di legge: dev’essere documentato per iscritto, avere data certa, e contenere la descrizione dettagliata della situazione aziendale, le cause della crisi, le strategie di intervento, i tempi e modi del risanamento. Soprattutto, deve accompagnarsi a una relazione di attestazione redatta da un professionista indipendente (un commercialista o revisore con esperienza), che dichiari di aver verificato i dati aziendali e giudichi il piano idoneo a garantire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa nei tempi previsti. L’attestatore non dev’essere legato al debitore o ai creditori (indipendenza) e si assume una grossa responsabilità, anche penale, nel certificare una cosa del genere (in passato ci sono stati procedimenti contro attestatori troppo “ottimisti” ai sensi dell’art. 236-bis L.F., ora 341 CCII, falso in attestazioni). Una volta redatto, il piano può essere pubblicato presso il Registro delle Imprese (se lo si desidera, per dargli pubblicità e data certa), ma non è obbligatorio. La pubblicazione offre però alcuni benefici in più, come appunto l’esenzione dalle revocatorie anche per gli atti a titolo oneroso compiuti in esecuzione del piano (art. 56 co. 3 CCII).
Come funziona in pratica? Supponiamo che l’azienda debitrice abbia 5 creditori principali e debiti minori con altri 10 piccoli fornitori. Dopo qualche trattativa, i 5 principali (che magari rappresentano il 80% del debito totale) sono disposti ad aderire a un piano di risanamento in cui: la banca proroga i mutui di 2 anni e concede nuova finanza di €100k, il fisco accetta un pagamento dilazionato di tributi con rinuncia alle sanzioni (mediante transazione fiscale inserita nel piano), i fornitori strategici accettano un taglio del 30% dei loro crediti e di continuare a fornire materiali. L’attestatore, valutati questi impegni e i flussi generati dall’azienda, certifica che così l’azienda potrà pagare i debiti e tornare in equilibrio in 3 anni. Si formalizza tutto in un documento di piano, firmato dall’azienda e dai creditori aderenti. Il piano viene poi attuato: l’impresa esegue i pagamenti previsti man mano e risana la propria situazione. A questo punto, se l’azienda successivamente dovesse comunque fallire, i pagamenti effettuati e le garanzie date in esecuzione del piano non potrebbero essere revocati (a differenza dei pagamenti preferenziali fuori piano) . Inoltre, gli amministratori non potrebbero essere accusati di bancarotta preferenziale per aver pagato quei creditori: erano pagamenti “autorizzati” dall’ambito protetto del piano attestato. E se il piano ha successo, ovviamente il fallimento è evitato e l’azienda torna solvibile.
Limiti e consigli: il piano attestato, come detto, non blocca automaticamente le azioni dei creditori che restano fuori. È quindi cruciale includere nel piano la maggior parte dei creditori rilevanti, soprattutto quelli che potrebbero far precipitare la situazione. I creditori non aderenti devono comunque essere pagati normalmente alle loro scadenze (magari con la nuova finanza ottenuta), altrimenti potrebbero intervenire con azioni legali vanificando lo sforzo. Si comprende allora che il piano attestato è indicato se la platea dei creditori è abbastanza ristretta e controllabile. Se invece vi sono decine di creditori eterogenei, è difficile ottenere l’unanimità spontanea; in quei casi si potrebbe preferire un concordato, dove basta la maggioranza e l’omologazione vincola tutti.
Un altro aspetto: il piano attestato non è pubblicamente conoscibile (salvo volontaria pubblicazione). Questo aiuta la riservatezza, ma impedisce di far scattare protezioni erga omnes. Ad esempio, in un concordato, tutti i creditori sono costretti a rispettare la moratoria; in un piano attestato, un piccolo fornitore ignorato dal piano potrebbe fare causa e pignorare qualcosa, creando scompiglio. Dunque, prima di scegliere questa via, bisogna fare un attento mapping di tutti i debiti e decidere quali includere e quali pagare comunque.
In termini di difesa del debitore, il vantaggio del piano attestato è di evitare la formalizzazione della crisi in tribunale, riducendo stigma e costi, pur ottenendo benefici simili (ristrutturazione dei debiti, esdebitazione parziale). Inoltre, finché il piano è in corso, l’imprenditore mantiene pieni poteri di gestione (non ci sono commissari o giudici di mezzo). È un ottimo strumento se c’è collaborazione tra debitore e creditori. Spesso l’atteggiamento dell’imprenditore fa la differenza: presentarsi proattivi, con un advisor e un attestatore serio, dà ai creditori fiducia che non è la solita promessa vuota di pagamento ma un progetto concreto.
In caso di esito negativo (il piano fallisce perché magari le vendite non riprendono come sperato, o un creditore cambia idea), nulla vieta poi di passare a una procedura concorsuale formale. Attenzione però: se si arriva a concordato o fallimento dopo un piano attestato fallito, i creditori cercheranno di far valutare attentamente cosa è successo nel frattempo. Se il piano era manifestamente irrealistico, potrebbero esserci strascichi di responsabilità per l’attestatore (false attestazioni) o per l’imprenditore (nuovi debiti contratti senza ragionevole prospettiva di onorarli). Se invece il piano era ragionevole ma è andato male per cause oggettive (es. un’altra crisi di mercato), l’imprenditore avrà comunque mostrato di aver tentato di salvare l’azienda legalmente, il che è visto di buon occhio in eventuali giudizi successivi (anche di meritevolezza per l’esdebitazione).
Conclusione su questo strumento: il piano attestato di risanamento è uno dei principali strumenti di difesa preventiva del debitore: consente di negoziare liberamente e, se fatto bene, mette al riparo da molte azioni aggressive (revocatorie, denunce di bancarotta preferenziale) . È stato spesso usato con successo in crisi di medie imprese. Naturalmente, richiede che l’impresa abbia ancora credito di fiducia presso i suoi stakeholder e prospettive economiche serie: l’attestatore non potrà mai validare un piano campato per aria. Quando questi requisiti mancano (creditori ostili o azienda davvero decotta), occorre passare a strumenti più “autoritativi” come vediamo fra poco.
(Nota: il CCII ha introdotto una variante, il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (detto PRO, art. 64-bis CCII), che sta a metà fra l’accordo e il concordato. In sostanza permette, in certe condizioni, di omologare un piano anche senza la maggioranza del 60%, imponendolo a categorie di creditori dissenzienti. È un istituto avanzato sulla scia della direttiva UE, ma per semplicità in questa guida non lo approfondiremo, focalizzandoci sugli strumenti principali.)
La Composizione Negoziata per la soluzione della crisi
Tra gli strumenti di recente introduzione, la composizione negoziata della crisi d’impresa merita una trattazione approfondita. Introdotta in piena emergenza Covid (dal D.L. 118/2021, poi confluito nel CCII), è operativa dal novembre 2021 ed è ormai uno strumento stabile a disposizione delle imprese in difficoltà. Si tratta, come anticipato, di un percorso volontario in cui l’imprenditore viene affiancato da un esperto indipendente per tentare la ricerca di soluzioni concordate con i creditori, il tutto con la possibilità di ottenere dal Tribunale una protezione temporanea dalle azioni esecutive.
Accesso e requisiti
Possono accedere alla composizione negoziata tutte le imprese (di qualunque dimensione e natura giuridica, incluse imprese individuali e agricole) iscritte al registro imprese , quando si trovano in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile l’insolvenza (quindi in “crisi”) oppure già in stato di insolvenza, purché sia ragionevolmente perseguibile la continuità aziendale o comunque il risanamento attraverso accordi . In pratica, serve che l’azienda non sia definitivamente compromessa: se non c’è alcuna speranza di salvare valore, la composizione negoziata non sarebbe efficace (meglio andare direttamente a liquidazione). Non è richiesta alcuna soglia minima o massima di debito. L’imprenditore deve presentare un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale, caricando una serie di documenti: ultimi bilanci, elenco creditori, una prospettazione delle cause della crisi, le iniziative già prese, ecc. Un’apposita commissione presso la Camera di Commercio (composta da esperti) esamina la richiesta e, se la documentazione è completa, nomina un Esperto selezionato da un elenco nazionale (di solito un commercialista, avvocato o consulente di esperienza nelle ristrutturazioni). La nomina avviene entro 5 giorni dall’istanza. L’esperto nominato deve accettare l’incarico dopo aver verificato di non avere conflitti di interesse.
È importante sottolineare che l’accesso alla composizione negoziata è riservato e non costituisce di per sé pubblicità di insolvenza: l’esistenza della procedura non viene iscritta nel registro imprese (salvo poi se si richiedono misure protettive, come vedremo, in tal caso vi è un’iscrizione). Dunque, l’imprenditore può attivarla con una certa tranquillità, sapendo che se poi le trattative non vanno a buon fine, non avrà automaticamente pregiudicato la sua posizione (diverso sarebbe con un concordato, dove anche solo presentare la domanda diventa di dominio pubblico).
Svolgimento delle trattative e ruolo dell’esperto
All’accettazione dell’incarico, l’esperto esamina la documentazione caricata e convoca tempestivamente l’imprenditore per un primo incontro. Insieme, definiscono un calendario di incontri con i creditori che si vogliono coinvolgere. Generalmente l’imprenditore mantiene i contatti diretti con i creditori, ma l’esperto partecipa agli incontri chiave come facilitatore. Ha il compito di assicurare che le parti negozino in buona fede e nell’interesse comune di trovare una soluzione che eviti la crisi irreversibile. L’esperto può chiedere all’imprenditore di aggiornare il piano con proposte più realistiche, o sollecitare i creditori a formulare controproposte.
Le trattative si svolgono in modo riservato: ciò che viene discusso non può essere utilizzato come prova in eventuali successivi giudizi, e l’esperto stesso deve mantenere riservate le informazioni acquisite (salvo doverose segnalazioni di atti lesivi). Questa protezione della confidenzialità favorisce il dialogo franco: i creditori possono aprirsi su ciò che sarebbero disposti ad accettare, e il debitore può rivelare la reale situazione senza timore che venga immediatamente divulgata.
La durata iniziale della composizione negoziata è di 180 giorni (circa 6 mesi) , con possibilità di proroghe fino a ulteriori 180 giorni su accordo delle parti o se l’esperto lo ritiene utile. In ogni caso l’idea è di avere un percorso relativamente breve: non deve trascinarsi per anni, altrimenti perde efficacia. Durante questo periodo, l’imprenditore resta in carica: a differenza dell’amministrazione controllata o altro, qui non c’è spossessamento né gestione affidata a terzi. Però l’esperto monitora l’andamento: ogni mese l’imprenditore deve comunicargli un aggiornamento sull’equilibrio finanziario e sul pagamento dei debiti sopravvenuti. Se l’imprenditore compie atti gravemente pregiudizievoli (es. distrae beni, peggiora la situazione senza motivo) l’esperto può decidere di interrompere la procedura.
Un pregio di questa figura è l’autorevolezza tecnica: spesso i creditori tendono a fidarsi più di un attestatore/esperto indipendente che delle parole dell’imprenditore in crisi. Se l’esperto certifica che con un certo sacrificio concordato l’azienda ha buone chance di ripresa, i creditori saranno più ben disposti. Al contempo, l’esperto può far comprendere all’imprenditore quando le pretese dei creditori non sono irragionevoli. Insomma, fa da “ponte” negoziale.
Durante le trattative, l’imprenditore può anche compiere atti di gestione ordinaria e straordinaria per portare avanti l’attività o predisporre la ristrutturazione, ma con qualche cautela: per gli atti straordinari di particolare rilevanza (come vendite di immobili, pegni, ipoteche) deve informare l’esperto, il quale li annota in una relazione. Questi atti, se coerenti col tentativo di risanamento e se non danneggiano i creditori, sono esenti da revocatoria fallimentare qualora poi l’impresa fallisca (art. 23 CCII). Ciò serve a incentivare anche terzi a contrarre con l’impresa durante la procedura (ad es. una banca potrebbe concedere un finanziamento prededucibile, sapendo di avere chance di rimborso preferenziale se il piano va male, come previsto dall’art. 10 CCII). L’esperto, insomma, sorveglia ma non comanda: l’impresa è libera di operare, pur con un check esterno.
Misure protettive e cautelari
Uno dei punti di forza della composizione negoziata è la possibilità, per l’imprenditore, di ottenere dal Tribunale delle misure protettive a salvaguardia del patrimonio mentre tratta. In pratica, l’imprenditore può richiedere, già nell’istanza iniziale o anche dopo, che venga decretata la sospensione delle azioni esecutive individuali da parte dei creditori. Se il tribunale, valutata la documentazione, concede le misure, i creditori non potranno iniziare o proseguire pignoramenti, né iscrivere ipoteche giudiziali, per la durata autorizzata (in genere 4 mesi iniziali, prorogabili) . Anche le eventuali esecuzioni in corso restano congelate. Questa protezione è simile all’automatic stay del concordato, con la differenza che qui va richiesta e concessa con decreto (ma la soglia per ottenerla è relativamente bassa: basta dimostrare che la prosecuzione delle trattative non è manifestamente inutile e che l’impresa non sta pregiudicando i creditori).
Le misure protettive possono essere generali (contro tutti i creditori) o limitate ad alcuni. Ad esempio, l’impresa potrebbe chiedere di sospendere solo l’asta del capannone ipotecato della banca, ma continuare a pagare regolarmente i fornitori correnti. Durante la protezione, il debitore deve astenersi dal pagare i creditori anteriori (salvo quelli strategici autorizzati dal giudice) e dal contrarre nuovo debito non coerente col piano.
Inoltre, a complemento, il tribunale può anche emettere misure cautelari per assicurare il buon esito delle trattative: ad esempio, nominare un custode per impedire che l’imprenditore disperda beni, o altri provvedimenti ad hoc. Nella prassi queste misure cautelari sono rare e si limitano a casi di evidenti abusi.
È da sottolineare che il provvedimento che concede le misure protettive viene pubblicato nel Registro Imprese: quindi i terzi vengono a conoscenza che l’azienda è in composizione negoziata (il “segreto” finisce). Ma a quel punto l’imprenditore avrà valutato che vale la pena, perché la protezione è essenziale. Anzi, talvolta l’annuncio pubblico può aiutare: ad esempio fornitori che scoprono della procedura saranno meno inclini a far partire cause, e magari preferiranno sedersi al tavolo.
Le misure protettive hanno un duplice effetto benefico: congelano la situazione (dando respiro all’azienda) e creano una leva di pressione sui creditori per trattare. Sapendo che non possono agire in via esecutiva, i creditori sono indotti a negoziare: tanto vale partecipare alle trattative, visto che per qualche mese l’azione individuale è preclusa. Da questo punto di vista la composizione negoziata realizza un risultato analogo al concordato ma in modo più flessibile e precoce.
Un recente intervento della Cassazione Penale (settembre 2025) ha dato un ulteriore risvolto: ha affermato che la pendenza di una composizione negoziata esclude o limita il “periculum in mora” necessario per disporre sequestri preventivi penali sui beni dell’impresa, se l’azienda sta rispettando il percorso . In quel caso (reati fiscali contestati) il sequestro di 13,8 milioni è stato annullato perché la continuità era protetta dalla composizione e l’impresa offriva garanzie di serietà (utile operativo emergente, niente condotte distrattive) . Ciò significa che la composizione negoziata può fungere da scudo anche contro iniziative aggressive di natura penale-tributaria (sequestro per equivalente), come evidenziato dal commento di alcuni osservatori . È un punto importante per la difesa complessiva dell’imprenditore: attivare per tempo la procedura consente di proteggere il patrimonio dalle pretese dei creditori e di eventuali misure cautelari penali collegate.
In sintesi, le misure protettive sono uno strumento potentissimo a breve termine: congelano il fuoco nemico, permettendo di negoziare sotto un “cessate il fuoco” temporaneo. Naturalmente non risolvono i debiti (che restano lì), ma impediscono che i creditori smembrino l’azienda mentre si cerca una soluzione.
Esiti possibili della composizione negoziata
La composizione negoziata può concludersi in vari modi:
- Successo con accordo stragiudiziale: l’ipotesi auspicata è che, grazie all’esperto, l’impresa riesca a raggiungere una soluzione condivisa con i creditori. Questo potrebbe concretizzarsi in un contratto o più contratti che disciplinano la ristrutturazione del debito (es. accordi bilaterali di standstill e dilazione, magari consolidati da un piano attestato). Se così, l’esperto dichiara chiusa positivamente la procedura. In questo caso, l’azienda esce dalla composizione negoziata e prosegue l’attività onorando gli accordi presi, senza passare dal tribunale (se non per far cessare le eventuali misure protettive). È il caso migliore: la crisi è stata composta privatamente con l’aiuto dell’esperto.
- Successo con accordo di ristrutturazione o concordato: può darsi che l’esito sia un accordo formalizzato da far omologare (ad es., si raccolgono adesioni per il 70% dei crediti – sufficiente per un Accordo ex art.57 CCII – e allora si opta per quella strada; oppure si capisce che serve coinvolgere tutti i creditori e si prepara un Concordato preventivo con continuità). In queste situazioni, la composizione negoziata fa da trampolino: l’esperto conclude il suo lavoro e suggerisce di proseguire con la procedura concorsuale individuata. Spesso, il decreto di omologa dell’accordo o di apertura del concordato segnerà la fine delle misure protettive iniziate con la comp.negoziata (che vengono assorbite dalla nuova procedura).
- Prosecuzione con strumenti minori (per imprese sotto soglia): se l’impresa era una “minore”, l’esperto potrebbe facilitare un concordato minore (che non richiede voto ma solo l’omologa col consenso della maggioranza per teste dei creditori che hanno risposto) o altre soluzioni di sovraindebitamento. In tal caso, la negoziata confluisce di fatto nell’attivazione di questi strumenti.
- Esito negativo e uscita senza accordo: può accadere che, nonostante gli sforzi, non si trovi nessun accordo. Magari perché la situazione è troppo compromessa, o un creditore chiave rifiuta qualunque intesa. L’esperto, dopo averle tentate tutte, redige allora una relazione finale in cui dà conto delle ragioni per cui non si è potuto trovare un accordo. Se ritiene comunque che l’imprenditore abbia operato correttamente e ci fosse qualche prospettiva, lo segnala. La procedura si chiude senza accordo.
- Esito negativo con concordato semplificato: caso particolare dell’uscita negativa. Se la composizione fallisce, ma l’imprenditore vuole evitare il fallimento, entro 60 giorni dalla chiusura può presentare la domanda di concordato semplificato per liquidazione (se ha un possibile acquirente o un piano di liquidazione ordinata). In tal modo sfrutta la scia della negoziata per chiudere la partita in tribunale con la vendita concordataria dei beni (vedi infra).
- Interruzione per atti pregiudizievoli: l’esperto ha anche il potere di interrompere anticipatamente la procedura se rileva che l’imprenditore compie atti che pregiudicano i creditori o la negoziazione (ad esempio, se distrae fondi, simula crediti, o semplicemente risulta inattivo e non convoca i creditori). In tal caso, l’esperto lo comunica e la procedura termina. Questo in realtà è più un meccanismo di autotutela del sistema per non far perdere tempo ai creditori con negoziazioni in malafede.
Volendo tirare le somme, la composizione negoziata è uno strumento estremamente duttile. Per il debitore equivale a mettersi sotto una campana di vetro temporanea, con un arbitro (l’esperto) a supervisionare, e provare per qualche mese a sistemare le cose senza le devastanti conseguenze di un’insolvenza palese. Dal punto di vista della difesa dai debiti, è quasi un safe harbor: se l’imprenditore ci sta provando davvero, per la legge merita protezione e non viene stigmatizzato (anzi, Cassazione e legislazione gli danno scudi) . Se funziona, salva l’azienda; se non funziona, comunque mette le basi per una liquidazione più controllata (col concordato semplificato) e nel frattempo può aver evitato che i creditori la facessero a pezzi. Non a caso, come citato, le statistiche mostrano un aumento esponenziale dell’uso di questo istituto : è diventato il primo consiglio di molti consulenti quando un’azienda mostra segni di crisi.
Nel prossimo capitolo vedremo le procedure concorsuali giudiziali, cioè quelle soluzioni che richiedono fin dall’inizio l’intervento del tribunale e hanno effetti vincolanti su tutti i creditori (accordi omologati e concordati). Queste a volte sono il naturale sbocco di una composizione negoziata non conclusa con accordo stragiudiziale, come parte di un percorso graduale di cui il legislatore ha delineato il continuum .
Procedure concorsuali giudiziali: accordi omologati e concordati preventivi
Se le soluzioni negoziali private o la composizione assistita non bastano, l’impresa debitrice può (o deve) ricorrere agli strumenti concorsuali giudiziari, dove l’intervento dell’autorità è più marcato e le decisioni vengono imposte erga omnes a tutti i creditori. Questi strumenti includono l’Accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (ARD) e il Concordato preventivo (in varie forme: in continuità, liquidatorio, ecc.), oltre al già menzionato concordato semplificato post-negotiation e al concordato minore per le piccole imprese. Analizziamoli in dettaglio, focalizzandoci su come aiutano il debitore a difendersi e quali compromessi comportano.
Accordo di ristrutturazione omologato (60% dei creditori)
L’accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD) è disciplinato dagli artt. 57-64 CCII. Dal punto di vista pratico, esso può essere visto come un “patto” tra l’imprenditore e una parte consistente dei creditori, reso efficace erga omnes da un decreto del tribunale. In termini di difesa, è un modo per vincolare anche i creditori dissenzienti, pur partendo da un consenso parziale.
Caratteristiche principali: – Soglia di adesione: occorre il consenso di creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti totali (computati in capitale, esclusi interessi e sanzioni in linea di principio). Il debitore deve dimostrare di aver raggiunto accordi individuali con questa maggioranza qualificata (ad esempio, firme su un documento di accordo). – Coinvolgimento del tribunale: il debitore deposita la domanda di omologazione, allegando l’accordo firmato dai creditori aderenti e una relazione di un professionista attestatore che verifica la fattibilità del piano sottostante e l’idoneità a soddisfare i creditori non aderenti in misura almeno pari all’alternativa liquidatoria. Il tribunale, sentiti eventualmente i creditori dissenzienti che possono fare opposizione, valuta e omologa l’accordo con decreto se tutto è in regola. Con l’omologa, l’accordo diventa vincolante per tutti i creditori coinvolti. – Vincolo sui creditori: dopo l’omologazione, i creditori aderenti e non aderenti sono tutti legati dai termini dell’accordo (salvo che alcuni crediti potessero essere lasciati fuori dall’accordo stesso, pagando quelli estranei al 100%). In pratica, l’ARD è come un contratto plurilaterale che, grazie all’omologazione, acquisisce efficacia generale. – Trattamento dei creditori non aderenti: fondamentale per la legittimità dell’accordo è che i creditori estranei (dissenzienti o non interpellati) non vengano pregiudicati. Ciò significa che, se l’accordo prevede stralci, ai creditori che non hanno firmato deve comunque essere assicurato il pagamento integrale dei loro crediti oppure, se si propone di ridurli, devono ricevere almeno quanto avrebbero ricavato dal fallimento . Questa clausola di salvaguardia evita abusi: non posso con un accordo al 60% obbligare un piccolo creditore a prendere il 10% se nel fallimento avrebbe preso il 50%. In pratica, spesso i creditori non aderenti vengono messi “fuori piano” e pagati cash integralmente, oppure vengono inclusi ma con pagamento completo a scadenze normali – proprio per evitare contestazioni. – Misure protettive: dal momento in cui il debitore deposita l’accordo per l’omologazione in tribunale, può chiedere la sospensione delle azioni esecutive come nel concordato . Di solito è concessa, salvo casi di abuso. Quindi anche l’ARD offre uno stay temporaneo. – Attestazione: serve, analogamente al concordato, una relazione di un esperto attestatore che dichiari che l’accordo è fattibile e che i non aderenti sono trattati equamente. Anche qui responsabilità penale in caso di falso. – Flessibilità del contenuto: l’accordo non deve per forza rispettare regole di formazione di classi, né soglie di pagamento (tranne il rispetto dei privilegi per i non aderenti). Può quindi prevedere soluzioni ad hoc: conversione di debiti in strumenti partecipativi, cessione di beni a pagamento di crediti, ecc. È frequente ad esempio che nelle ARD le banche accettino haircut (tagli) sui loro crediti e immettano nuova finanza, mentre i fornitori vengano pagati integralmente magari con risorse derivanti da dismissioni di asset. – Varianti introdotte dal CCII: come accennato, ci sono versioni speciali. L’accordo agevolato riduce la soglia al 30% ma consente solo di falcidiare chirografari senza toccare i privilegiati (poco usato finora). L’accordo ad efficacia estesa consente di includere anche banche dissenzienti se si raggiunge l’75% di adesione del ceto bancario, forzando le restanti (utile se c’è una banca che fa ostruzionismo). – Silenzio assenso del Fisco: nella ARD c’è integrata la transazione fiscale: se il Fisco o gli enti previdenziali non rispondono alla proposta entro 90 giorni, si considera accettata . Questo evita lungaggini e soprattutto evita che il Fisco non rispondendo blocchi tutto (cosa che in passato succedeva, perché l’inerzia equivaleva a rifiuto implicito).
Per il debitore, l’ARD è uno strumento di difesa quando ha già un buon livello di consenso e vuole concludere rapidamente sotto l’egida del tribunale, senza passare per la lunga procedura del concordato con voti e adunanza. I costi sono inferiori (non c’è commissario né complessa amministrazione), e i tempi di solito brevi: depositi oggi, misure protettive, eventuali opposizioni, e in pochi mesi (2-4 mesi) hai l’omologa . Dopo l’omologa, l’azienda esegue l’accordo sotto la propria gestione, con la tranquillità che i creditori dissenzienti non possono chiamarsi fuori. In pratica, l’ARD è un modo per mettere tutti in riga una volta che hai convinto una maggioranza robusta.
Esempio: l’azienda convince l’80% dei creditori (banche e grossi fornitori) a un piano dove loro prendono il 70% del credito in 5 anni; i piccoli fornitori (20% dei crediti totali) non aderiscono. Con l’accordo omologato, i piccoli fornitori, anche se non hanno firmato, dovranno accettare di essere pagati magari il 100% ma nello stesso arco di 5 anni, oppure un 70% come gli altri ma con garanzie di non essere discriminati. Non potranno però pignorare nulla subito perché l’accordo li vincola. Questo chiaramente difende l’impresa da eventuali “sparatori isolati”.
Limitazioni: richiede di negoziare fuori prima – se i creditori sono tanti e disorganizzati, non è facile raggiungere 60% di adesione spontanea senza la leva del voto. Quindi è spesso utilizzato per aziende con debito concentrato (es. poche banche e fondo, che trovano l’accordo in camera caritatis). Se ci sono tanti piccoli creditori, può essere inefficace perché è macchinoso farli firmare. Inoltre, non consente di alterare le priorità legali senza consenso: se vuoi falcidiare un privilegiato, devi convincerlo a firmare (o ricorrere al concordato).
Va detto che, come mezzo di difesa legale, l’ARD ha un vantaggio importante: minore invasività del controllo giudiziario. Non c’è una verifica nel merito del quid pluris come nel concordato. Basta dimostrare che i non aderenti non sono danneggiati e che l’accordo è fattibile. Quindi il debitore mantiene più controllo sul contenuto. Ad esempio, può decidere di pagare un certo chirografario dissenziente al 100% pur tagliando altri, e il tribunale non sindacherebbe troppo (purché non si violi la par condicio oltre i limiti di legge). Questa flessibilità contrattuale lo rende appetibile in casi dove servono soluzioni creative.
In conclusione, l’accordo di ristrutturazione è un’ottima arma difensiva quando la crisi è relativamente circoscritta: il debitore ha i numeri per convincere i creditori principali e vuole blindare quell’accordo rapidamente. Ha consentito a molte aziende di evitare il fallimento con un compromesso ragionevole. Se invece la crisi è più grave o dispersa, allora si passa al re dei procedimenti: il concordato preventivo.
Concordato preventivo (continuità e liquidatorio)
Il concordato preventivo è la procedura principe per salvare un’azienda insolvente evitando la devastazione del fallimento. Riepiloghiamo alcuni concetti in parte già introdotti:
- Chi decide e come funziona: Il debitore propone un piano; i creditori votano (con eventuale suddivisione in classi omogenee se opportuno); serve la maggioranza dei crediti ammessi al voto perché il piano passi; il Tribunale omologa rendendolo vincolante per tutti (anche i dissenzienti). Dalla presentazione della domanda alla omologa, l’azienda opera sotto la tutela del tribunale e la vigilanza di un commissario, ma comunque in possesso dell’imprenditore (in continuità l’imprenditore rimane in carica come debitore in possesso, salvo casi di abuso in cui può essere revocato). Il concordato è molto personalizzabile, ma dentro binari normativi ben precisi.
- Concordato in continuità: se l’obiettivo è proseguire l’attività, il piano conterrà misure per ristrutturare i debiti gradualmente con i flussi di cassa futuri o dismettendo qualche asset non essenziale, mantenendo però l’impresa viva. Può includere la ricerca di investitori, la conversione di crediti in quote, la rinegoziazione di contratti di fornitura, ecc. Un esempio: l’azienda propone di pagare integralmente i debiti privilegiati nei prossimi 4 anni coi profitti futuri e di pagare il 40% ai chirografari in 5 anni, mantenendo operativa la fabbrica e finanziandosi con nuove commesse e un aumento di capitale di un socio. I creditori valuteranno se conviene loro credere nella continuità (spesso sì se la stima di recupero è magari 40% vs un 20% in caso di liquidazione). Spesso nel concordato in continuità la legge consente di non pagare subito i creditori privilegiati integralmente: possono essere dilazionati purché si paghino gli interessi sui loro crediti o altre condizioni; possono persino essere falcidiati se oggettivamente il valore del bene su cui hanno garanzia è inferiore al credito (ad es. se banca ha 1 milione di credito ipotecario ma l’immobile vale 700k, si può proporre di dare 700k). L’azienda durante il concordato in continuità rimane operativa, spesso con la nomina di un attestatore per il business plan e con possibili finanziamenti interinali (autorizzati dal giudice, prededucibili) per continuare a comprare materie prime e servire i clienti. C’è poi la figura eventuale del commissario giudiziale, che controlla dall’esterno l’andamento e riferisce ai giudici e ai creditori.
- Concordato liquidatorio: se non c’è speranza di redditività futura, il debitore può proporre comunque un concordato “di liquidazione controllata” invece che subire il fallimento. Il piano in questo caso prevede di vendere tutti i beni dell’azienda (in blocco o spezzatino) e distribuire il ricavato ai creditori. Quale il vantaggio rispetto al fallimento? Di solito, velocità e maggior coordinamento. Il debitore magari ha già un acquirente che offre un prezzo per l’azienda nel suo complesso (o per asset specifici), evitando aste lunghe e svalutanti; oppure i soci apportano un contributo volontario aggiuntivo (cosa che nel fallimento non accade) per rendere l’offerta più appetibile. In concordato liquidatorio, la legge impone che i chirografari ottengano almeno il 20% del loro credito , salvo che il debitore non offra la cessione integrale dei beni ai creditori (in tal caso, se i beni valgono meno, potrebbe essere accettato anche meno del 20%). Questo perché il concordato liquidatorio non deve essere un mero fallimento mascherato: almeno uno step di convenienza in più deve darlo. Ad esempio, se l’attivo copre solo il 5% dei debiti, quel concordato non è ammissibile a meno che qualche terzo (soci, parenti) non mettano soldi per arrivare almeno al 20%. Nel concordato liquidatorio spesso è prevista la nomina, dopo l’omologa, di un liquidatore giudiziale (che può essere lo stesso commissario) che esegue materialmente le vendite e riparti, però sempre sotto la supervisione del tribunale, con tempi più rapidi e strategie di vendita più flessibili rispetto al fallimento. Un concordato liquidatorio ben orchestrato può chiudersi in 1-2 anni anziché 5 di un fallimento, e dare percentuali ai creditori magari un po’ più alte. Per il debitore, il beneficio è evitare la dichiarazione di fallimento formale e tutto lo stigma e le incapacità personali connesse (interdizioni etc.), oltre alla possibile esdebitazione immediata dell’azienda.
- Concordato semplificato: ne abbiamo parlato, qui ribadiamo i punti chiave. Accessibile solo se prima c’è stata una composizione negoziata senza esito. Non c’è voto dei creditori: il debitore propone al giudice un piano di liquidazione, il giudice nomina comunque un ausiliario per valutare, fissa eventuale udienza per sentire i creditori, poi decide. Se approva, nomina un liquidatore per vendere i beni. Sostanzialmente serve quando l’azienda è destinata a chiudere ma c’è un’opportunità di vendere a condizioni migliori di un fallimento. Ad esempio: l’impresa ha un unico asset di valore, il capannone, e un potenziale acquirente disposto a pagarlo bene ma vuole chiudere in fretta. Invece di farlo cadere in fallimento e rallentare, con la negoziata + concordato semplificato si ottiene un’omologa entro pochi mesi e la vendita rapida al miglior prezzo concordato. I creditori sono vincolati anche se non votano, purché il giudice verifichi la correttezza della proposta (che non ci siano abusi). Non esistono soglie di soddisfazione fisse (non c’è il 20% minimo), ma chiaramente se il piano offrisse percentuali ridicole e non spiegate, il giudice non lo approverebbe. Uno scenario tipico: in comp.neg. arriva un investitore che dice “vi compro tutto per 1 milione ma voglio certezza entro 2 mesi”, i creditori non trovano accordo, allora l’imprenditore usa la via semplificata: propone al giudice di vendere all’investitore X per 1 milione e distribuire ai creditori secondo le priorità (ne verrà un 30% ai privilegiati, 5% ai chirografi, ma meglio di zero in fallimento). Il tribunale può dire ok e far eseguire subito. I creditori incassano qualcosina, l’impresa viene chiusa senza fallimento, l’imprenditore evita la procedura lunga e magari anche responsabilità aggravate (perché ha seguito la legge). Questa via, introdotta dal 2021, è stata già utilizzata in alcuni casi, specie per imprese micro dove non c’è tempo o risorse per un concordato “normale”.
Difesa del debitore nel concordato: perché un imprenditore dovrebbe scegliere il concordato? In fondo è un processo pubblico, costoso, soggetto a mille regole e col rischio che i creditori votino no. La risposta: perché quando funziona, il concordato offre benefici unici. Elenchiamone alcuni dal punto di vista difensivo: – Blocco delle azioni: come detto, dal deposito si ferma tutto (pignoramenti, interessi per i chirografari, ecc.) e l’azienda tira il fiato . – Possibilità di imporre sacrifici: a differenza delle trattative dove serve il consenso di tutti, nel concordato se ottieni la maggioranza puoi imporre la falcidia anche ai dissenzienti. Puoi dunque risolvere il problema dei pochi creditori holdout (ostaggi) che non cooperano. – Gestione ordinata: la procedura permette di vendere beni a valore di mercato, con forme anche competitive ma più controllabili che nel fallimento. Ad esempio, il debitore può predisporre lui un bando per cedere un ramo d’azienda e il commissario ne garantisce la correttezza – meglio che farlo fallire e vedere il curatore vendere in un mercato ormai diffidente. – Esdebitazione dell’azienda: l’effetto fondamentale di un concordato omologato e adempiuto è che i debiti eccedenti la percentuale proposta vengono cancellati per sempre . Se hai un milione di debiti e ne paghi 300mila a saldo in concordato, gli altri 700mila spariscono legalmente; nessuno potrà più pretendere nulla, nemmeno chi non ha votato o ha votato contro . È come un “perdono” generalizzato, sancito dal tribunale. L’azienda ne esce liberata dai vecchi fardelli, con una sorta di “fresh start” analogo a quello delle persone fisiche dopo il fallimento . Ciò consente, se c’è ancora vitalità, di ripartire. (Ovviamente, bisogna poi stare attenti per qualche anno, perché se emergesse un creditore dimenticato e molto rilevante, potrebbe chiedere la risoluzione del concordato, ma sono casi rari e patologici). – Salvaguardia di rapporti: nei concordati in continuità, la legge facilita la continuazione dei contratti (il debitore può decidere di sciogliere o mantenere i contratti pendenti, v. art. 97 CCII) e i fornitori non possono rifiutarsi di rispettarli solo perché c’è la procedura. Inoltre, i dipendenti restano in carico all’azienda (salvo esuberi eventualmente concordati), e i crediti di lavoro vengono soddisfatti per intero per la parte privilegiata, anche tramite il fondo di garanzia INPS . Questo aiuta a preservare la capacità operativa durante e dopo il concordato. – Riduzione delle responsabilità per l’imprenditore: se il concordato va a buon fine, di solito non vi sono strascichi di azioni di responsabilità, perché i creditori hanno accettato la soluzione transattiva e quindi rinunciato implicitamente a rivalse verso gli amministratori per fatti precedenti (salvo casi eccezionali di dolo). Inoltre, l’aver utilizzato il concordato esclude la dichiarazione di fallimento, quindi l’imprenditore non subisce quelle incapacità personali (interdizione da cariche, ecc.) che un fallimento comporta . E naturalmente evita i reati di bancarotta, poiché non c’è fallimento (salvo che emergano comunque condotte fraudolente perseguibili come reati comuni o tributari). – Controllo sui tempi: benché un concordato sia complesso, il debitore conserva più controllo sui tempi e modi di attuazione rispetto a un fallimento dove tutto è in balia del curatore. Può ad esempio prevedere di pagare i creditori in X anni col cash flow, invece di vedere il curatore svendere subito tutto magari. Questo è un potere di direzione che gli consente di massimizzare le chance di soddisfare i creditori e salvare valore.
Chiaramente ci sono anche costi e rischi: il concordato richiede spese legali e consulenziali rilevanti, c’è il rischio di non ottenere la maggioranza (e allora si fallisce comunque, magari con aggravio di spese), e comporta un’uscita pubblica allo scoperto (clienti e fornitori sapranno che sei in concordato, con potenziali danni commerciali). Però se si arriva al punto di doverlo considerare, di solito la situazione era già nota nell’ambiente per i problemi. Molti concordati in continuità riescono comunque a mantenere la fiducia di clienti e fornitori strategici, magari spiegando che è un percorso per risanare l’azienda.
In conclusione, il concordato preventivo è l’arma di difesa più strutturata: se la negoziazione privata è come una pistola e l’accordo omologato come un fucile di precisione, il concordato è un cannone legale. Permette al debitore di ottenere un reset della propria situazione debitoria, ovviamente al prezzo di cedere parte del controllo ai creditori (che devono votare e poi saranno soddisfatti secondo il piano) e all’autorità. Quando l’alternativa è il fallimento puro, tuttavia, il concordato è decisamente preferibile per un imprenditore onesto e diligente: quantomeno mantiene un ruolo attivo nel disporre il destino della sua impresa e può spesso salvarla (totalmente o parzialmente). Non a caso i tribunali oggi sono generalmente orientati a favorire i concordati quando c’è una plausibile convenienza per i creditori, piuttosto che spingere per soluzioni liquidative immediate .
Ricapitolando, abbiamo esplorato l’arsenale completo: dagli accordi privati, al piano attestato, alla composizione negoziata, agli accordi omologati, fino al concordato e – in filigrana – alla liquidazione giudiziale. Dal punto di vista pratico del debitore indebitato (la nostra ipotetica azienda di presse piegatrici in crisi), la scelta di quale strada intraprendere dipende da una combinazione di fattori: – Gravità dell’insolvenza e urgenza: se la crisi è gestibile con piccole concessioni e l’azienda è fondamentalmente solvibile (solo problemi temporanei di liquidità), bastano accordi privati o un piano attestato. Se invece l’insolvenza è conclamata e i creditori stanno per agire (o hanno già presentato istanza di fallimento), serve uno strumento concorsuale robusto – ad esempio attivare immediatamente una composizione negoziata per congelare tutto, oppure presentare un ricorso per concordato preventivo per tutelarsi . – Consenso dei creditori: bisogna stimare realisticamente l’atteggiamento del “ceto creditorio”. Se c’è fiducia e disponibilità da parte loro, meglio percorrere strade negoziali (meno traumatiche, più veloci). Se invece alcuni creditori chiave sono ostili o non comunicativi (es. l’Agenzia delle Entrate a volte è rigida su certe posizioni, o una banca creditrice è già esposta e preferisce escutere subito la garanzia), potrebbe essere necessario ricorrere a procedure dove il dissenso può essere superato a maggioranza (accordo omologato o concordato) . – Natura del business e necessità di continuità: se l’azienda ha valore solo se continua a operare (know-how, marchio, rete clienti che perderebbero valore in caso di stop), allora privilegerà soluzioni in continuità: composizione negoziata e concordato in continuità, o accordo di ristrutturazione con continuità. Se invece l’attività non è più redditizia ma i beni hanno un valore vendibile (immobili, macchinari), si può orientare a soluzioni liquidatorie ordinate: concordato liquidatorio o vendita in accordo durante comp.negoziata . – Dimensioni e costi: una piccola S.r.l. familiare con debiti di qualche centinaio di migliaia di euro probabilmente non può permettersi i costi di un lungo concordato con commissari e attestate elaborate. Cercherà di risolvere via composizione negoziata o, se fallisce il risanamento, finirà in una liquidazione controllata (sovraindebitamento) o un concordato minore. Una società più grande, con stakeholder diversificati, potrà invece investire nelle procedure più complesse se in gioco c’è la sopravvivenza aziendale .
Di seguito presentiamo una tabella riepilogativa finale che confronta in modo semplificato le caratteristiche chiave delle opzioni:
| Soluzione | Vincolo per tutti i creditori? | Protezione da azioni esecutive? | Riduzione del debito possibile? | Continuità operativa prevista? | Ruolo del Tribunale | Tempi indicativi |
|---|---|---|---|---|---|---|
| Accordi privati (informali) | No, vincola solo chi aderisce volontariamente | No (salvo impegni contrattuali: i creditori non aderenti restano liberi di agire) | Sì, ma solo se ogni creditore accetta uno stralcio (nessuna imposizione unilaterale) | Sì, l’attività prosegue normalmente durante le negoziazioni | No (procedura totalmente extragiudiziale) | Variabili: dipende dalle negoziazioni (rapido se pochi creditori coinvolti) |
| Piano attestato (art. 56 CCII) | No automatico (vincola solo i creditori aderenti; gli estranei restano fuori) | No automatico (nessun blocco legale delle azioni, salvo impegni volontari dei creditori principali) | Sì per i creditori aderenti (possibile dilazione o falcidia concordata); i creditori estranei devono essere pagati integralmente | Sì, mira a mantenere l’azienda in bonis (continuità se il piano va a buon fine) | Minimo coinvolgimento: il tribunale non interviene (salvo eventuale pubblicazione per data certa) | Preparazione 1-3 mesi; esecuzione secondo le scadenze del piano (tipicamente 1-2 anni) |
| Composizione negoziata | No vincolo di per sé (accordi solo se sottoscritti; non c’è imposizione a maggioranza) | Sì se concesse dal Tribunale le misure protettive (di norma 4 mesi iniziali, prorogabili fino a 12) | Sì, tramite accordi: riduzioni e dilazioni sono possibili ma non imposte unilateralmente (devono risultare da intesa con i creditori) | Sì, è pensata principalmente per salvare la continuità aziendale (diretta o tramite cessione a terzi) | Limitato: interviene il tribunale solo per misure protettive e (eventuale) omologa di accordi conclusi; un esperto terzo assiste le trattative | Trattative ~6 mesi (estensibili); se si raggiunge un accordo, tempi successivi dipendono dall’attuazione concordata |
| Accordo ristrutturazione (omologato) | Sì, vincola tutti i creditori inclusi nell’accordo dopo l’omologa (anche i dissenzienti) | Sì, dal deposito della domanda di omologa in tribunale le azioni esecutive sono sospese fino all’omologazione | Sì: i creditori aderenti accettano eventuali stralci; i creditori estranei devono essere soddisfatti per intero (salvo eccezioni di legge o consenso) | Possibile, il piano sottostante può prevedere sia la continuazione dell’attività (con eventuali nuovi finanziamenti) sia la liquidazione parziale di beni (flessibilità di contenuto) | Sì, il tribunale controlla la regolarità, nomina un attestatore, esamina eventuali opposizioni e omologa; non c’è commissario, ma c’è il parere del PM obbligatorio | Negoziazione privata preliminare: variabile (mesi); iter in tribunale per omologa abbastanza rapido (2-4 mesi se opposizioni limitate) |
| Concordato preventivo – in continuità | Sì, vincola tutti i creditori anteriori all’omologa (anche i dissenzienti, con cram-down sulle classi votanti) | Sì, dal ricorso fino all’omologa nessun creditore può eseguire o iniziare pignoramenti (salvo eccezioni autorizzate) | Sì: possibile falcidia dei crediti chirografari; possibile riduzione di alcuni crediti privilegiati (se soddisfatti almeno in misura pari al valore dei beni sottostanti) | Sì, l’attività prosegue durante la procedura e dopo l’omologa secondo il piano (continuità diretta o anche indiretta tramite affitto/cessione a terzi) | Sì, forte coinvolgimento: Tribunale ammette la procedura, nomina un Commissario Giudiziale che vigila, i creditori votano sotto supervisione, il giudice omologa e un eventuale liquidatore (solo se vendite di beni previste) controlla l’esecuzione | Procedura di solito 6-12 mesi per arrivare al voto e all’omologa (a seconda della complessità e di eventuali opposizioni); esecuzione del piano può durare diversi anni (monitorata dal commissario o liquidatore fino a completamento) |
| Concordato preventivo – liquidatorio | Sì, come sopra: vincola tutti i creditori chirografari e privilegiati anteriori all’omologa | Sì, identica protezione dalle azioni individuali per tutta la durata della procedura | Sì: i crediti chirografari possono essere falcidiati ma devono ricevere almeno il 20% (salvo eccezioni) ; i creditori privilegiati vanno normalmente soddisfatti integralmente (salvo consenso a riduzione o incapienza del bene) | No, l’attività in genere viene cessata e i beni liquidati (salvo esercizio provvisorio temporaneo se utile a vendere meglio) | Sì, come nel concordato in continuità: tribunale, commissario giudiziale, giudice delegato gestiscono la procedura; dopo l’omologa di solito viene nominato un liquidatore giudiziale che cura le vendite | Simile al concordato in continuità nei tempi di omologa; l’esecuzione talvolta può essere più rapida se c’è già un acquirente identificato (1-2 anni per liquidare tutti i beni) |
| Concordato semplificato (liquidatorio post-comp.neg.) | Sì, vincola tutti i creditori senza necessità di voto (procedura speciale successiva a comp. negoziata fallita) | Sì, se nella comp.neg. erano state concesse misure protettive, possono essere mantenute fino alla decisione sull’omologazione | Sì: è una liquidazione concordataria – i creditori riceveranno quanto ricavato dalla vendita dei beni, senza garanzia di soglia minima (il giudice verifica però che non siano trattati peggio di un fallimento) | No, l’azienda viene liquidata integralmente (a meno che nel piano un terzo acquisti l’intera azienda e la mantenga operativa) | Sì, rilevantissimo: non c’è voto, quindi il Tribunale valuta direttamente il piano nel merito (con l’ausilio di un ausiliario), omologa se lo ritiene equo e fattibile, e nomina un liquidatore giudiziale per attuare le vendite | Molto rapida nella fase decisoria: il debitore deve presentare la proposta entro 60 giorni dalla chiusura della comp.negoziata; l’omologa può giungere in pochi mesi; la liquidazione dei beni segue (in media entro 1 anno, dipende dall’attività di realizzo) |
| Liquidazione giudiziale (fallimento) | Sì, è un concorso collettivo: tutti i creditori chirografari e privilegiati anteriori partecipano al riparto secondo legge | Sì, automatic stay immediato: dalla sentenza di apertura, nessun creditore può agire individualmente (i debiti pregressi sono “cristallizzati”) | No contrattuale: i debiti vengono soddisfatti pro quota con quanto ricavato (di solito percentuale bassa per i chirografari); eventuali transazioni possono avvenire solo su singoli crediti su iniziativa del curatore, ma i creditori non aderiscono a un piano generale | No, l’attività cessa salvo casi di esercizio provvisorio temporaneo autorizzato per vendere meglio l’azienda o completare lavori urgenti | Sì, totale: il Tribunale dichiara l’insolvenza e nomina un Curatore che gestisce e liquida tutti i beni; l’imprenditore è spossessato e gli organi sociali decadono; vi è un Giudice Delegato e un Comitato dei Creditori che supervisionano operato del Curatore | Procedura lunga, in media 2-5 anni (a seconda di quanto complesso è liquidare gli attivi e definire eventuali cause legali); l’imprenditore individuale, al termine, può chiedere l’esdebitazione personale (se ha cooperato); la società invece si estingue con l’eventuale attivo residuo distribuito e i debiti insoddisfatti restano senza più soggetto debitore |
Da questa comparazione emerge che, per il debitore in crisi, tutte le strade hanno pro e contro. Una possibile strategia dinamica è quella di non vedere questi strumenti in maniera isolata, ma come fasi di un percorso: ad esempio, l’azienda può dapprima tentare un piano attestato (fase stragiudiziale iniziale); se non basta, accede alla composizione negoziata (fase assistita ma ancora non giudiziale) per ottenere protezione e provare un accordo; se ciò fallisce, opta per un concordato preventivo per imporre la soluzione a eventuali dissenzienti, oppure – se proprio nessuna continuità è possibile – utilizza il concordato semplificato per liquidare rapidamente senza fallimento . Questo approccio scalare è quello auspicato dal legislatore della riforma: infatti i vari istituti sono stati pensati per integrarsi piuttosto che escludersi a vicenda. La stessa norma sulle “consecuzioni” (art. 48 CCII) prevede che se si passa da una procedura all’altra, si mantengono alcuni effetti (ad es. la prededuzione per i finanziamenti concessi in una fase precedente si conserva in quella successiva). Ciò incoraggia l’imprenditore a tentare prima le misure minori e solo se necessario salire di livello, senza timore di perdere i benefici di ciò che ha fatto prima.
Nel prossimo capitolo affronteremo alcune Domande frequenti, per chiarire dubbi specifici dal punto di vista del debitore, e successivamente vedremo due casi pratici simulati di un’azienda di presse piegatrici con debiti, per illustrare come le strategie qui descritte si applicano nella realtà.
Domande Frequenti (FAQ)
Di seguito una serie di domande comuni che debitori (imprenditori o amministratori) si pongono quando la loro azienda è gravata dai debiti, con risposte basate su quanto illustrato finora:
D: La mia S.r.l. ha debiti fiscali e bancari molto alti. Posso essere ritenuto personalmente responsabile di questi debiti?
R: In generale, i soci di una S.r.l. o S.p.A. non rispondono con il proprio patrimonio dei debiti sociali. Tuttavia, come amministratore puoi incorrere in responsabilità personali se aggravi il dissesto o violi i doveri di conservazione del patrimonio sociale dopo che la società è in crisi (art. 2486 c.c.) . Ad esempio, se continui l’attività d’impresa accumulando nuovi debiti quando avresti dovuto interrompere e liquidare la società, i creditori (tramite il curatore fallimentare) potrebbero farti causa per il danno corrispondente all’aggravio del passivo. Oggi la legge (art. 2486 c.c. comma 3) presume che tale danno sia pari alla differenza tra il patrimonio netto alla maturazione della causa di scioglimento e quello alla data del fallimento . Inoltre, certi debiti specifici possono “ricadere” su di te: le ritenute fiscali non versate e i contributi INPS omessi spesso comportano sanzioni personali e, se superano soglie penalmente rilevanti, integrano reati tributari a tuo carico (indipendentemente dal fatto che la società sia a responsabilità limitata). Ancora, se hai sottoscritto fideiussioni verso banche o fornitori, quei creditori potranno agire direttamente contro di te come garante, in caso di insolvenza della società. In sintesi: la forma societaria protegge i soci di capitale, ma l’amministratore deve agire diligentemente in crisi, altrimenti rischia azioni di responsabilità e anche sanzioni penali (es. reati di bancarotta) in caso di insolvenza. Per difenderti, devi dimostrare di aver fatto tutto il possibile per contenere le perdite e attivare tempestivamente gli strumenti di legge (accordi, procedure) invece di lasciare che i debiti crescessero incontrollati .
D: È vero che con la composizione negoziata posso “bloccare” i creditori senza dover fallire? Come funziona?
R: Sì, attivando la composizione negoziata e richiedendo le misure protettive al tribunale, ottieni un provvedimento che impedisce ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari per il periodo indicato (in genere 4 mesi, rinnovabili fino a 12) . In tal modo, i creditori sono temporaneamente congelati e non possono, ad esempio, pignorare i tuoi conti o far vendere all’asta i tuoi macchinari. Questo ti dà respiro per negoziare un accordo. Attenzione: le misure protettive non cancellano il debito e non obbligano i creditori ad accettare sconti, però – come confermato dalla Cassazione (sent. 30109/2025) – rafforzano la tua posizione perché il giudice tiene conto della composizione negoziata anche per negare provvedimenti d’urgenza ai creditori . Dunque, è uno strumento di difesa potentissimo a breve termine. Se poi trovi un accordo, uscirai dalla procedura senza fallimento; se non lo trovi, potrai comunque ripiegare su un concordato (anche semplificato) o altra procedura, ma intanto avrai evitato che i creditori smembrassero l’azienda durante le trattative. Si potrebbe dire che la comp. negoziata “compra tempo” in modo regolamentato, e spesso quel tempo fa la differenza tra salvezza e rovina.
D: Ho troppi debiti, mi conviene chiudere subito la società?
R: “Chiudere” la società (cioè metterla in liquidazione volontaria) non ti esime dal pagare i debiti, anzi durante la liquidazione i creditori possono comunque aggredire i beni sociali e, se la liquidazione non li soddisfa integralmente, chiederanno il fallimento entro 1 anno dalla chiusura. Quindi la liquidazione volontaria non è un rifugio magico. Devi valutare se l’attività ha ancora un valore da salvare oppure no. Se pensi di poter risanare (anche solo parzialmente) l’azienda – ad esempio con nuovi investimenti, taglio di costi, o vendendo rami d’azienda sani – allora non conviene chiudere subito: meglio tentare un piano o un concordato in continuità. Se invece l’azienda è strutturalmente incapace di generare utili e non vedi prospettive, allora procedere a una liquidazione concordata (tramite concordato preventivo liquidatorio o concordato semplificato) può essere la scelta giusta: in tal modo liquidi i beni sotto il controllo del tribunale, pagando i creditori quel poco che si può, ed eviti le lungaggini e i costi di un fallimento. In ogni caso, abbandonare semplicemente la società al suo destino (inerzia) è la scelta peggiore: rischi di aggravare i debiti e, come amministratore, potresti poi risponderne in proprio . Meglio prendere in mano la situazione – con consulenti – e decidere come chiudere, se chiudere. Spesso una liquidazione volontaria seguita da fallimento è più distruttiva di un concordato liquidatorio: quest’ultimo almeno ti consente di gestire tempi e modalità di realizzo (e riduce le responsabilità personali).
D: Posso includere i debiti fiscali (IVA, tasse) in un concordato o accordo? Il Fisco accetterà di ridurli?
R: Sì, i debiti tributari e contributivi possono essere inclusi in piani di ristrutturazione, ma con alcune particolarità. Nelle procedure concorsuali (concordato preventivo o accordo di ristrutturazione omologato), devi presentare una specifica proposta di transazione fiscale all’Erario e agli enti previdenziali (artt. 63-64 CCII). In tale proposta puoi chiedere la dilazione e anche il taglio di parte dei tributi. Dal 2020 la legge consente esplicitamente la falcidia dell’IVA e delle ritenute in concordato (prima era vietato ridurle, si poteva solo dilazionarle). Però il Fisco guarda con grande attenzione: devi offrire almeno quanto otterrebbe in caso di fallimento (siccome i crediti fiscali hanno privilegio su molti beni, occorre che la parte privilegiata sia pagata in misura adeguata) e devi motivare bene perché conviene accettare la proposta. Se la maggioranza degli altri crediti vota sì al concordato ma il Fisco dice no, il tribunale può comunque omologare (cram-down fiscale), purché l’Erario riceva almeno il 20% del proprio credito privilegiato ovvero, se riceve meno, risultino soddisfatte certe condizioni molto stringenti di miglior trattamento rispetto al fallimento . Negli accordi di ristrutturazione, se l’Erario non risponde entro 90 giorni, vale il silenzio-assenso (cioè il suo silenzio equivale ad accettazione). Insomma, è possibile ridurre i debiti fiscali, ma è politicamente e legalmente delicato. Spesso l’Agenzia delle Entrate aderisce se il piano è serio e mostra che accettando, poniamo, un 30-40% subito, ottiene più di quanto otterrebbe altrimenti (che magari sarebbe zero dopo un fallimento lungo). Nota: fuori dalle procedure (negazione privata), l’Agenzia non può formalmente “abbuonare” imposte, salvo specifiche norme di condono previste dallo Stato. Quindi per ridurre il carico fiscale, devi passare da un accordo omologato o un concordato. Viceversa, in via extragiudiziale al massimo puoi ottenere rateizzazioni o sospensioni temporanee, ma non una rinuncia definitiva a imposte o interessi maturati (se non tramite le periodiche “rottamazioni” di legge). Dunque, la transazione fiscale all’interno delle procedure è uno strumento fondamentale di difesa: permette di chiudere i conti col Fisco con uno sconto legalmente approvato. Naturalmente, va usato bene: sottostimare l’Erario può portare al fallimento del piano per voto contrario o opposizione (basti pensare che in alcuni casi i tribunali hanno respinto concordati liquidatori che abusavano del cram-down fiscale in modo improprio ).
D: Ho ricevuto una citazione per un decreto ingiuntivo da un fornitore. Che posso fare per impedire che mi pignori il conto?
R: Se il decreto ingiuntivo è già stato emesso ed è provvisoriamente esecutivo, il fornitore potrebbe presto procedere al pignoramento. Agire in difesa singolarmente è difficile: potresti fare opposizione al decreto ingiuntivo se hai motivi validi (contestare l’importo, eccepire vizi nel rapporto contrattuale), ma se il debito è dovuto, l’opposizione serve solo a prendere tempo (e comunque se il decreto ha clausola di immediata esecutorietà, la sola opposizione non blocca il pignoramento a breve termine). Per prevenire l’esecuzione, le strade efficaci sono principalmente due: (i) trovare un accordo col fornitore (es. offri un pagamento parziale immediato o un piano di rientro convincente – magari lui sospende l’azione); (ii) ottenere un provvedimento concorsuale di sospensione generale. Ad esempio, se decidi di depositare un ricorso per concordato preventivo (anche “in bianco”) oppure se hai già avviato la composizione negoziata e hai misure protettive concesse, quel fornitore non potrà procedere al pignoramento per legge . Anche la sola presentazione di una domanda di concordato con riserva (“prenotativo”) determina la sospensione delle esecuzioni. Quindi, in pratica, per difenderti hai due leve: convincere il creditore a fermarsi con un accordo, oppure “rifugiarti” sotto una procedura che blocca tutto (concordato, accordo omologato con protezione, comp. negoziata con misure protettive). La scelta dipende dalla portata del problema: se è solo un fornitore isolato e puoi pagarlo col tempo, meglio trattare per evitare di avviare procedure più complesse; se invece il decreto è solo l’apice di un iceberg di insolvenza (molti altri debiti dietro), allora meglio pigiare il tasto concorsuale così da risolvere in modo complessivo e non subire un esecuzione alla volta. Ricorda anche che, una volta scattate misure protettive o presentato ricorso per concordato, puoi chiedere al giudice provvedimenti per liberare eventuali pignoramenti già fatti (ad es. un conto pignorato potrebbe essere sbloccato su istanza nel concordato). In definitiva, difendersi dall’azione individuale di un creditore isolato significa o negoziare (soluzione specifica) o inglobare il problema in una soluzione generale (procedura concorsuale).
D: In caso di concordato o fallimento, i dipendenti prenderanno il TFR e gli stipendi arretrati?
R: I dipendenti hanno tutela molto alta. Nei concordati, di norma si prevede il pagamento integrale di stipendi arretrati e TFR, almeno per la parte privilegiata: per legge, le retribuzioni degli ultimi 6 mesi e il TFR fino a un certo massimale godono di privilegio generale sui mobili, quindi vanno soddisfatti interamente salvo esplicito consenso dei lavoratori a ricevere meno (consenso che di solito non darebbero) . Spesso le aziende in concordato chiedono l’intervento del Fondo di Garanzia INPS, il quale – in caso di insolvenza accertata o di concordato omologato – anticipa il TFR e le ultime retribuzioni ai lavoratori, subentrando poi come creditore privilegiato nella procedura. Quindi i dipendenti non rischiano di non vedere quei soldi: o glieli paga l’azienda nel piano, o glieli paga l’INPS (che poi li recupera parzialmente nella procedura). In fallimento (liquidazione giudiziale), i dipendenti presentano domanda di ammissione al passivo e poi interviene l’INPS a saldare TFR e stipendi ultimi 3 mesi, tipicamente molto prima della chiusura (già dopo lo stato passivo reso esecutivo). In sintesi: i lavoratori prendono il dovuto, seppur con i tempi tecnici. Perciò dal tuo punto di vista di debitore-imprenditore, sappi che non pagare i dipendenti ti crea debiti privilegiati che dovrai comunque onorare al 100% in qualsiasi scenario – tanto vale considerarli prioritari fin da subito. Inoltre, un concordato che non preveda il pagamento integrale dei dipendenti difficilmente verrebbe omologato (il tribunale lo respingerebbe per mancanza di fattibilità/meritevolezza). Pagare i dipendenti è anche strategicamente sensato per mantenere la forza lavoro e la pace sindacale durante la crisi.
D: Una volta concluso un concordato preventivo pagando, ad esempio, il 30% ai chirografari, il restante 70% è cancellato per sempre?
R: Sì. L’effetto fondamentale dell’omologazione del concordato è l’esdebitazione dell’impresa per i crediti concorsuali non soddisfatti integralmente. In pratica, il concordato fa da “transazione generale”: i creditori accettano di rinunciare alla quota di credito eccedente quanto ricevono secondo il piano omologato. Quella parte di debito è irrevocabilmente estinta e i creditori non potranno più pretendere nulla . Se provassero comunque un’azione legale, l’azienda opporrebbe l’omologazione del concordato che fa stato come giudicato. Questo vale anche per i creditori che hanno votato contro o non hanno partecipato: sono comunque vincolati. L’unica eccezione sono eventuali creditori rimasti fuori per errore formale (ma in teoria non dovrebbero essercene, perché tutti devono essere inclusi nell’elenco creditori). In quei rari casi, se emergesse entro 1 anno un creditore non considerato che, se noto, avrebbe inciso sul piano, potrebbe chiedere la risoluzione del concordato oppure essere ammesso al pagamento integrale, ma sono appunto ipotesi remote e comunque sotto controllo giudiziale. Dunque, il concordato costituisce una definitiva “pulizia” del passato, permettendo un fresh start all’impresa (analogo all’esdebitazione della persona fisica post-fallimento) . Va detto che, come contropartita, se tu come imprenditore hai fornito garanzie personali (fideiussioni) su quei debiti, i creditori potranno ancora escutere te come garante per la parte non pagata dall’azienda, a meno che anche tu individualmente non ottenga una procedura di esdebitazione personale. Ma limitandoci all’azienda: sì, la parte di debito falcidiata è cancellata per legge. Per questo il concordato è un’opportunità notevole per l’azienda onesta ma sfortunata: paghi quello che puoi (con l’accordo dei creditori) e torni in bonis liberato dai vecchi fardelli.
D: Se la mia azienda viene dichiarata in liquidazione giudiziale (fallimento), quali sono le conseguenze per me come imprenditore?
R: Con la sentenza di liquidazione giudiziale, tu come imprenditore perdi la gestione dell’azienda: il curatore amministrerà e venderà i beni. Se eri amministratore, decadi dall’incarico (la società è “spodestata”). Se l’azienda è una società di capitali, la procedura si svolge sulla società e tu come persona fisica non sei dichiarato fallito (a meno che tu fossi socio illimitatamente responsabile in una SNC o simili). Tuttavia, ci sono conseguenze indirette: potresti subire l’azione di responsabilità del curatore (come detto, per aver aggravato il dissesto o altre violazioni gestorie); potresti essere coinvolto in indagini per reati fallimentari (il curatore segnala eventuali irregolarità al PM – es. mancanza di libri contabili, ammanchi di beni, pagamenti preferenziali sospetti – e se il PM ravvisa bancarotta o altri reati, ti incriminerà). Inoltre, la tua reputazione professionale ne risente: verrai iscritto nel registro dei falliti (anche se oggi non si usa più questo termine, rimane traccia nei registri camerali di procedure concorsuali a tuo carico come amministratore). Non puoi assumere cariche in altre società se non con restrizioni, finché dura la procedura, e potresti subire pene accessorie personali (come l’interdizione dagli esercizi commerciali per qualche anno, decisa dal tribunale a chiusura della procedura, specie se c’è deficit e colpa grave) . In pratica, un fallimento è spesso seguito da un periodo di contenziosi legali: accertamento del passivo (dovrai partecipare alle udienze se i creditori contestano qualcosa), audizioni col giudice delegato e il curatore, eventuali testimonianze. Detto ciò, se hai collaborato correttamente e non hai commesso illeciti, il curatore potrebbe concludere che non ci sono azioni contro di te; e se sei socio di S.r.l., perderai il capitale investito ma non dovresti dover mettere ulteriori soldi (a meno appunto di fideiussioni personali). In sintesi, in caso di fallimento della tua azienda: perdi l’azienda, affronti possibili cause di responsabilità o penali, e subisci alcune limitazioni temporanee, ma personalmente puoi ripartire (anzi la legge oggi incentiva il “fresh start” dell’ex fallito meritevole). Se invece riuscissi ad evitare la liquidazione giudiziale tramite concordato, queste conseguenze negative sarebbero in gran parte evitate: nessuna dichiarazione d’insolvenza formale (quindi niente stigma di fallimento né interdizioni) e di solito nessuna azione di responsabilità, perché i creditori hanno accettato il concordato come soluzione. In più, se l’azienda non fallisce, non scattano reati di bancarotta (al massimo restano eventuali reati tributari pregressi, ma già gestirli in bonis è meglio che come fallito). Dunque difendersi con un concordato o accordo significa difendere anche te stesso da tutte le conseguenze pesanti di un fallimento .
Casi pratici e simulazioni (scenario Italia)
Per concretizzare i concetti, immaginiamo due scenari pratici riguardanti la nostra ipotetica azienda di presse piegatrici, e vediamo come potrebbero evolvere.
Caso 1: Risanamento tramite accordo e continuità
La “MetalPress S.r.l.” ha 15 dipendenti e produce presse piegatrici industriali CNC. A causa di un mix di eventi – un calo di ordini durante la pandemia, investimenti sbagliati in un nuovo modello mai entrato a regime, e l’aumento del costo dell’acciaio – accumula €1,2 milioni di debiti: €300k con l’Agenzia Entrate (IVA non versata e alcune imposte dirette), €250k con banche (un mutuo ipotecario sul capannone con rate scadute e un leasing arretrato su una macchina), €500k con fornitori (acciaio, componenti elettronici, servizi di verniciatura) e €150k tra stipendi arretrati e TFR maturato. Il fatturato è calato negli ultimi due anni, ma l’azienda ha ancora ordini nuovi in portafoglio che potrebbero generare utile futuro – il problema è che i fornitori ora pretendono pagamenti anticipati (non fidandosi più) e la cassa è quasi a zero.
- Azione: L’amministratore si rende conto che da solo non ce la fa e che la situazione sta precipitando (due fornitori hanno già minacciato decreti ingiuntivi, la banca ha inviato lettera di “rientro” sul fido). Prima che qualcuno agisca legalmente o presenti istanza di fallimento, decide di attivare la composizione negoziata sulla piattaforma online . Ottiene subito dal tribunale le misure protettive: ciò significa che fornitori e banche non possono nel frattempo pignorare i macchinari né i conti correnti . Viene nominato un esperto, con cui l’azienda condivide tutti i dati. Emerge che l’azienda potrebbe tornare in utile in 2 anni se ottiene uno sconto sui debiti e nuova finanza per comprare materiali (così da evadere gli ordini). Avvia quindi trattative facilitate dall’esperto: i fornitori (pur arrabbiati) capiscono che, se l’azienda chiude, prenderebbero forse il 10-15%, quindi accettano un piano di pagamento del 50% dei loro crediti in 24 mesi (inserendo magari una clausola di earn-out: se l’azienda va molto bene, verserà un extra fino al 60%). La banca, grazie alla mediazione dell’esperto, accetta di non escutere l’ipoteca e di ristrutturare il mutuo su 6 anni, capitalizzando gli arretrati, a condizione che i soci immettano €50k freschi (la banca vuole vedere impegno dei proprietari come segno di serietà) . L’Agenzia delle Entrate, coinvolta, è disposta a diluire IVA e imposte in 5 anni senza ulteriori sanzioni e a rinunciare alle sanzioni già iscritte, applicando la normativa sulla transazione fiscale in un accordo (in sede di eventuale accordo omologato, darebbe ok a stralciare sanzioni e interessi, e a falcidiare l’IVA in minima parte, purché prenda il suo minimo in privilegiato). I dipendenti, tramite sindacato, concordano di posticipare il TFR e due mensilità arretrate di 6 mesi, confidando nel rilancio (anche perché l’alternativa sarebbe la perdita del lavoro con un fallimento imminente).
- Soluzione: Nel giro di 4 mesi, con varie riunioni, la “MetalPress” trova l’accordo con tutti i maggiori creditori, formalizzato in un accordo di ristrutturazione dei debiti sottoscritto dall’80% dei crediti (per valore) . L’esperto dichiara conclusa positivamente la composizione negoziata. L’azienda deposita l’accordo in tribunale per l’omologazione ex art. 57 CCII: un attestatore indipendente certifica che i creditori estranei (in realtà solo piccoli creditori residuali, il 20%) saranno pagati integralmente come da legge . Il tribunale omologa l’accordo . I debiti fiscali e previdenziali sono inclusi: l’omologa rende vincolante la dilazione e la riduzione di sanzioni accordata dagli uffici (transazione fiscale approvata nell’accordo). Ora l’azienda, alleggerita e con un orizzonte di pagamento sostenibile, riprende fiato: grazie al piano, ha ottenuto nuovi ordini (i clienti sono stati rassicurati quando hanno saputo che l’impresa ha trovato un accordo e non rischia il collasso) e può comprare materie prime perché la banca sblocca parte del fido (forte del fatto che i soci hanno messo €50k) . Dopo 2 anni di monitoraggio leggero, la società rispetta le scadenze e il debito scende. Nessun creditore può più agire individualmente: devono attenersi all’accordo. Passati 5 anni, la società ha pagato tutto quanto dovuto nell’accordo. I fornitori hanno incassato il 50% pattuito (il resto è stato legalmente condonato dall’omologa), la banca sta continuando a incassare le rate del mutuo ristrutturato, il Fisco incassa nei 5 anni come da piano. L’azienda è salva, non è mai fallita, i soci mantengono la proprietà. L’amministratore non subisce azioni di responsabilità perché i creditori, avendo aderito all’accordo, hanno implicitamente rinunciato a contestazioni passate (e comunque il patrimonio sociale non è stato depauperato oltre i limiti) . In questo scenario ideale, l’uso tempestivo degli strumenti negoziali ha difeso l’azienda dal default totale e anche l’imprenditore dalle conseguenze peggiori.
Caso 2: Liquidazione concordata e nuove opportunità
La “MetalPress S.r.l.” nello scenario alternativo ha invece una situazione più compromessa: i macchinari sono obsoleti, il mercato l’ha superata con tecnologie più moderne e servirebbero troppi investimenti per recuperare competitività. I debiti (simili a quelli del caso 1) sono diventati ingestibili perché nel frattempo l’attività è andata in perdita costante. L’amministratore prova comunque la composizione negoziata, ma dopo 3 mesi l’esperto riscontra che nessun investitore vuole mettere soldi e che, anche dilazionando i debiti, l’azienda non genererebbe abbastanza utili per pagarli . Inoltre, uno dei creditori principali (una banca ipotecaria) preferisce realizzare il capannone in asta subito piuttosto che attendere piani incerti. Le trattative falliscono: l’esperto redige relazione finale negativa, pur riconoscendo che l’imprenditore è stato corretto e ha fornito tutte le informazioni (quindi escludendo mala fede) .
- A questo punto, per difesa l’imprenditore attiva la procedura di concordato semplificato: presenta entro 60 giorni un piano in tribunale in cui propone di vendere l’intero capannone e i macchinari a una società concorrente (che si era detta interessata ad acquisire lo stabilimento per €400.000) e distribuire il ricavato ai creditori , stimando di poter pagare così il 40% ai privilegiati (banche, Fisco, dipendenti) e un 5% ai chirografari. Propone inoltre che, per massimizzare il ricavato, i soci rinunciano a un credito per finanziamento soci che avevano verso la società e mettono a disposizione altri €20.000 a beneficio dei creditori chirografari (in tal modo mostrano buona fede e alzano di qualche punto il dividendo per gli unsecured) . Il tribunale esamina e, visto che la composizione negoziata era già stata tentata invano e c’è un’offerta concreta, omologa il concordato semplificato . Un liquidatore giudiziale viene nominato e conclude la vendita al concorrente per €400.000. Nel giro di meno di un anno, la liquidazione è completata: la società “MetalPress” viene cancellata dal registro imprese . I creditori hanno preso qualcosa (non tutto, ma probabilmente più di quanto avrebbero ottenuto col fallimento, perché la vendita è avvenuta a valori di mercato concordati e in tempi brevi anziché all’asta) . Ad esempio, la banca ipotecaria ha incassato grosso modo il valore dell’immobile (40% del suo credito, il resto rimane insoddisfatto ma viene annullato dalla procedura); il Fisco ha preso la sua quota del 40% sui crediti privilegiati e ha dovuto rinunciare al resto; i fornitori chirografari prendono un modesto 5% ma evitano di inseguire un fallimento magari infruttuoso. L’imprenditore, in questo scenario, perde la società, ma ha evitato il fallimento giudiziale e le possibili azioni di responsabilità: avendo seguito la via concordataria semplificata, i creditori hanno accettato la soluzione e non ci sarà procedura fallimentare a suo carico . Egli potrà in futuro aprire un’altra attività (non è interdetto, perché tecnicamente non è un fallito). Certo, economicamente l’esito non è positivo, ma come difesa è stata efficace per contenere i danni: i debiti residui della società sono cancellati con l’estinzione della stessa, e i creditori non possono aggredirlo personalmente (a parte eventuali garanzie personali che avesse prestato, ma quelle c’erano anche prima).
Questi scenari illustrano come, a seconda delle circostanze, un debitore può orientarsi: nel caso 1 ha puntato sul risanamento in continuità perché c’erano basi per riuscirci; nel caso 2 ha optato per una liquidazione guidata per evitare il tracollo caotico. In entrambi i casi, la scelta di agire entro il quadro legale, con gli strumenti adatti, ha permesso di difendersi da esiti peggiori (il fallimento disordinato, i pignoramenti multipli, la perdita totale di controllo) .
Conclusioni
Affrontare un’azienda carica di debiti è una sfida complessa, ma la normativa italiana oggi offre un ventaglio di strumenti – dagli accordi volontari fino alle procedure giudiziali – che permettono al debitore onesto e diligente di trovare una via d’uscita regolamentata. Il filo conduttore per l’imprenditore è tempestività, trasparenza e consulenza specializzata. Tempestività nel riconoscere la crisi e non aspettare l’ultimo minuto (ciò può fare la differenza tra un risanamento riuscito e una rovina); trasparenza verso i creditori e gli organi delle procedure (presentare dati veritieri, collaborare con esperti e autorità – atteggiamento che la legge premia con protezioni e, se tutto va male, con l’esdebitazione); consulenza di professionisti esperti in crisi (nessuno può navigare queste acque da solo, servono competenze legali e finanziarie per strutturare piani credibili).
Dal punto di vista giuridico, come abbiamo visto, la difesa del debitore si articola su due fronti:
– Il fronte passivo, cioè bloccare o rallentare le aggressioni dei creditori (con strumenti come le misure protettive della composizione negoziata o la moratoria implicita di concordati/accordi omologati). In altre parole, guadagnare tempo e spazio di manovra.
– Il fronte attivo, ossia proporre una soluzione ragionevole e legalmente sostenibile per ristrutturare il debito. Ciò può significare chiedere sacrifici ai creditori (tagli, attese), ma in un quadro equo: la legge garantisce che nessun creditore venga indebitamente sacrificato rispetto ad altri (principio di par condicio e maggioranze qualificate). Quando il debitore prende l’iniziativa con un buon piano, il diritto gli mette a disposizione vari “scudi” (pensiamo all’esenzione da revocatoria per i piani attestati, alla protezione penale per pagamenti e finanziamenti autorizzati, o ancora al ruolo riconosciuto dalla Cassazione alla composizione negoziata come parte di strategie difensive) . Questo è un segnale importante: difendersi legalmente paga, mentre fuggire dalle responsabilità o – peggio – tentare scorciatoie illecite porta quasi sempre a conseguenze peggiori.
In conclusione, un’azienda di presse piegatrici indebitata – sia essa una S.r.l. medio-piccola o una S.p.A. più grande – ha oggi strumenti normativi avanzati per resistere alla pressione dei debiti e cercare di riorganizzarsi. Ogni situazione farà storia a sé, ma il messaggio unificante è: non c’è mai una situazione senza speranza finché si utilizzano le leve legali giuste. Che si tratti di salvare l’impresa come going concern, oppure di liquidarla in modo ordinato minimizzando i danni per tutte le parti, il diritto concorsuale riformato del 2022-2025 fornisce un percorso. Sta all’imprenditore, con i suoi consulenti, scegliere quel percorso e percorrerlo con determinazione.
Come abbiamo mostrato, i tribunali (anche con pronunce recentissime) sono sempre più orientati a favorire soluzioni negoziali e concordate – in ultima analisi perché un’azienda salvata o una crisi composta conviene anche al “sistema Paese” oltre che ai singoli creditori. Difendersi dai debiti si può: richiede coraggio nel guardare in faccia la realtà, umiltà nel chiedere aiuto e fermezza nel negoziare la propria sopravvivenza. Le norme e le sentenze sono dalla parte di chi agisce in buona fede per superare la crisi.
Fonti e Riferimenti Normativi e Giurisprudenziali
- Codice Civile, artt. 2086, 2446-2447, 2482-bis, 2485-2486 c.c., in tema di doveri degli amministratori in caso di perdite e crisi.
- D.Lgs. 12 gennaio 2019 n.14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, CCII), come modificato dal D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 e dal D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136. In particolare: definizioni di crisi e insolvenza; composizione negoziata (artt. 17-25-sexies CCII); piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) e relative esenzioni; accordi di ristrutturazione (artt. 57-64 CCII) e varianti (accordo agevolato, ad efficacia estesa, piano di ristrutturazione soggetto a omologa ex art. 64-bis); concordato preventivo (artt. 84-120 CCII), incluse novità su cram-down fiscale e classi dissenzienti; concordato semplificato (art. 25-sexies CCII); concordato minore (artt. 74-83 CCII).
- Decreto Legge 24 agosto 2021 n.118 (conv. L.147/2021) istitutivo della composizione negoziata; Relazione illustrativa e successiva confluenza nel CCII.
- Unioncamere – Osservatorio sulla crisi d’impresa (ed. marzo 2025): dati statistici sulle procedure 2021-2024, evidenziando l’aumento delle composizioni negoziate (1089 nel 2024) e il sorpasso numerico sui concordati preventivi .
- Cassazione Civile, Sez. I, 9 luglio 2025 n. 30109 – ha riconosciuto che la pendenza di una composizione negoziata con esito promettente influenza la valutazione del pericolo nel concedere misure cautelari, rafforzando il ruolo protettivo della composizione .
- Cassazione Civile, Sez. I, 29 maggio 2024 n. 15054 – in tema di responsabilità degli amministratori ex art. 2486 c.c.: conferma il criterio di quantificazione del danno da continuazione indebita dell’attività, pari all’aggravamento del passivo (differenza di patrimonio netto a posteriori) .
- Cassazione Civile, Sez. I, 16 luglio 2025 (pubblicata in IlCaso.it) – in tema di rapporti tra impugnazioni e apertura di liquidazione giudiziale: ha chiarito gli effetti di un concordato preventivo pendente sugli altri giudizi civili.
- Cassazione Civile, Sez. Un., 8 gennaio 2025 n. 348 – definizione di “continuità aziendale” in ambito concordatario; decisione che delinea i confini tra continuità diretta (azienda proponente mantiene attività) vs indiretta (cessione o affitto d’azienda a terzi nell’ambito del concordato).
- Cassazione Civile, 28 ottobre 2025 n. 28574 – principi in materia di concordato minore e trattamento dei creditori: conferma la necessità di rispettare limiti dell’istituto (no abusivio del concordato minore per eludere norme, par condicio da garantire anche nel “mini-concordato”).
- Tribunale di Roma, 10 luglio 2024 – sentenza in concordato preventivo in continuità con cram-down fiscale: ha evidenziato l’incompatibilità di un certo uso estensivo del cram-down interclassi con la mancata adesione dell’Erario, dettando linee guida sulla soddisfazione del credito tributario nei concordati in continuità .
- Tribunale di Mantova, 25 novembre 2024 – decreto in composizione negoziata: caso di concessione di misure protettive per un piano decennale, confermando un approccio pragmatico nell’interpretare la “prospettiva di risanamento” anche su orizzonti lunghi (l’azienda presentava commesse pluriennali e i creditori sono stati bloccati per consentire un accordo di lungo periodo) .
- Cassazione Penale, 26 gennaio 2023 n. 3429 – in tema di reati di bancarotta degli amministratori (distrattiva, documentale, bancarotta impropria): la Corte ha affermato che l’operazione di cessione a titolo gratuito di un contratto di leasing con finalità traslativa integra bancarotta fraudolenta per distrazione ; inoltre ha ribadito gli elementi del dolo nel reato di bancarotta documentale (mancata tenuta o sottrazione di libri per ostacolare la ricostruzione del patrimonio).
La tua azienda che produce, importa, distribuisce o manutiene presse piegatrici, piegatrici CNC, presse idrauliche, piegatrici meccaniche, linee integrate di taglio e piega, utensili e punzoni, ricambi e assistenza tecnica, al servizio di carpenterie, officine meccaniche, metalmeccanica, cantieri e industrie, oggi è schiacciata dai debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
La tua azienda che produce, importa, distribuisce o manutiene presse piegatrici, piegatrici CNC, presse idrauliche, piegatrici meccaniche, linee integrate di taglio e piega, utensili e punzoni, ricambi e assistenza tecnica, al servizio di carpenterie, officine meccaniche, metalmeccanica, cantieri e industrie, oggi è schiacciata dai debiti?
Ricevi solleciti, richieste di rientro, blocchi dei fornitori, cartelle esattoriali, decreti ingiuntivi o addirittura minacce di pignoramento da parte di banche, fornitori, Fisco, INPS o Agenzia Entrate-Riscossione?
Il settore delle presse piegatrici è tra i più impegnativi della meccanica industriale: macchinari costosi, componenti idraulici ed elettronici delicati, manutenzioni frequenti, magazzino ricambi impegnativo, installazioni complesse e clienti che pagano tardi.
In queste condizioni, bastano pochi mesi difficili per ritrovarsi in forte crisi di liquidità.
La buona notizia? La tua azienda può essere salvata, se intervieni subito e con la strategia corretta.
Perché un’Azienda di Presse Piegatrici va in Debito
- aumento dei costi di acciai, idraulica, motori, CNC, elettroniche e utensili
- pagamenti ritardati da parte di carpenterie, meccaniche e industrie
- magazzino immobilizzato tra presse, punzoni, matrici, ricambi e schede elettroniche
- costi elevati di installazione, collaudo e trasferta tecnica
- investimenti continui in aggiornamenti, software e sicurezza CE
- riduzione o revoca delle linee di credito bancarie
Il problema, quasi sempre, non è la mancanza di ordini ma la mancanza di liquidità immediata.
I Rischi se Non Intervieni Subito
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco dei fidi bancari
- sospensione delle forniture di componenti critici
- atti esecutivi, decreti ingiuntivi, precetti
- sequestro di macchinari, ricambi e attrezzature
- impossibilità di completare installazioni o manutenzioni
- perdita di clienti strategici e commesse importanti
Cosa Fare Subito per Difendersi
1. Bloccare immediatamente i creditori
Un avvocato specializzato può:
- sospendere pignoramenti in corso
- bloccare richieste aggressive di rientro
- proteggere conti correnti e liquidità
- fermare le azioni dell’Agenzia Riscossione
Il primo passo è mettere in sicurezza l’azienda.
2. Analizzare i debiti ed eliminare quelli non dovuti
Molti debiti presentano irregolarità che possono ridurre drasticamente l’esposizione:
- interessi non dovuti
- sanzioni sbagliate o gonfiate
- importi duplicati
- posizioni prescritte
- errori nelle cartelle esattoriali
- commissioni bancarie anomale
Una parte consistente del debito può essere tagliata o cancellata.
3. Ristrutturare i debiti con un piano sostenibile
Soluzioni efficaci includono:
- rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
- accordi di rientro con fornitori strategici
- rinegoziazione dei fidi bancari
- sospensione dei pagamenti per 3–12 mesi
- accesso alle definizioni agevolate quando disponibili
4. Usare strumenti legali potentissimi che bloccano TUTTI i creditori
Nelle crisi più serie è possibile ricorrere a:
- PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
- Accordi di Ristrutturazione dei Debiti
- Concordato Minore
- (in casi estremi) Liquidazione Controllata
Queste procedure permettono all’azienda di continuare a operare pagando solo una parte dei debiti, sospendendo tutti gli atti esecutivi.
Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo
Per salvare un’azienda nel settore macchine utensili servono competenze elevate e specifiche.
L’Avv. Monardo è:
- Avvocato Cassazionista
- Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento – negli elenchi del Ministero della Giustizia
- Professionista fiduciario di un OCC (Organismo di Composizione della Crisi)
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
È il professionista ideale per bloccare creditori, ristrutturare debiti e salvare aziende produttrici di presse piegatrici, dove la continuità è fondamentale.
Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo
- analisi immediata della tua esposizione debitoria
- stop urgente ai pignoramenti e ai decreti ingiuntivi
- riduzione dei debiti non dovuti
- ristrutturazione del debito con un piano realmente sostenibile
- protezione del magazzino, dei macchinari e dei ricambi
- trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
- tutela completa dell’imprenditore e dell’azienda
Conclusione
Avere debiti nella tua azienda di presse piegatrici non significa essere condannati alla chiusura.
Con una strategia rapida, tecnica e completamente legale, puoi:
- bloccare subito i creditori,
- ridurre davvero i debiti,
- salvare installazioni, assistenze e clienti,
- proteggere il futuro della tua impresa.
Agisci ora.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata:
il percorso di salvataggio può iniziare oggi stesso.