Azienda di Sollevatori a Vuoto con Debiti: Cosa Fare per Difendersi e Come

Se la tua azienda produce, installa o distribuisce sollevatori a vuoto, pompe vacuum, ventose industriali, travi di sollevamento, sistemi per movimentazione di vetro, lamiere, pannelli, sacchi, casse e materiali pesanti, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è indispensabile intervenire subito per evitare fermi delle linee produttive e perdita di clienti strategici.

Nel settore del sollevamento a vuoto, anche un piccolo ritardo nelle consegne o nell’assistenza tecnica può bloccare interi processi produttivi, generare penali, causare rischi di sicurezza e compromettere la reputazione aziendale.

Perché le aziende di sollevatori a vuoto accumulano debiti

  • aumento dei costi di ventose, pompe vacuum, tubazioni e componenti certificati
  • rincari delle importazioni e dei materiali tecnici specializzati
  • pagamenti lenti da parte di industrie, integratori e operatori logistici
  • ritardi nei versamenti IVA, imposte e contributi INPS
  • magazzini complessi con ricambi delicati e componentistica ad alto costo
  • difficoltà ad ottenere fidi bancari adeguati ai cicli produttivi
  • investimenti elevati in sicurezza, collaudi, normative e manutenzione dei sistemi

Cosa fare subito

  • far analizzare l’intera situazione debitoria da un professionista esperto
  • identificare i debiti che possono essere contestati, ridotti o rateizzati
  • evitare piani di rientro troppo pesanti che paralizzano la liquidità aziendale
  • chiedere la sospensione immediata di pignoramenti o atti esecutivi
  • proteggere rapporti con fornitori strategici e componenti critici
  • utilizzare strumenti legali per ristrutturare o rinegoziare i debiti senza bloccare la produzione o l’assistenza

I rischi se non intervieni tempestivamente

  • pignoramento del conto corrente aziendale
  • blocco delle forniture di ventose, pompe e ricambi essenziali
  • impossibilità di completare installazioni, interventi tecnici o manutenzioni
  • perdita di clienti industriali, integratori e aziende logistiche
  • rischio concreto di chiusura dell’attività

Come può aiutarti l’Avvocato Monardo

Detto questo, l’Avvocato Monardo, cassazionista, coordina in tutta Italia un team di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario e tributario.
Inoltre è:

  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012)
  • iscritto negli elenchi del Ministero della Giustizia
  • professionista fiduciario presso un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)

Può aiutarti concretamente a:

  • bloccare pignoramenti e procedure esecutive in corso
  • ridurre o ristrutturare i debiti grazie agli strumenti normativi più efficaci
  • ottenere rateizzazioni davvero sostenibili
  • proteggere macchinari, ricambi, contratti, forniture e continuità operativa
  • evitare la chiusura e accompagnare la tua azienda verso un risanamento reale

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Introduzione

Gestire un’azienda che produce o commercia sollevatori a vuoto – macchinari industriali per sollevare materiali tramite aspirazione – può comportare l’assunzione di debiti significativi (fiscali, previdenziali, verso fornitori, banche, dipendenti, ecc.). Quando l’impresa accumula debiti al punto da rischiare la crisi finanziaria o l’insolvenza, è fondamentale sapere come difendersi legalmente e quali strumenti offrano la legge italiana per tutelare l’azienda e il patrimonio personale dell’imprenditore. Negli ultimi anni (soprattutto con il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza entrato in vigore nel 2022), il quadro normativo è profondamente cambiato: sono stati introdotti nuovi strumenti di risanamento (come la composizione negoziata) e modificati quelli tradizionali (accordi di ristrutturazione, concordato preventivo), rendendo più flessibile la gestione della crisi . Parallelamente sono state inasprite le responsabilità per gli amministratori che non intervengono tempestivamente: essi hanno il dovere di monitorare gli squilibri dell’azienda ed attivarsi per tempo, altrimenti rischiano azioni di responsabilità e persino sanzioni penali . In altre parole, l’ordinamento attuale impone un approccio proattivo: l’imprenditore indebitato deve individuare per tempo la soluzione più appropriata (accordi, piani o procedure concorsuali) per regolarizzare i debiti o ristrutturare la società, altrimenti la sua inerzia potrà essergli contestata a posteriori (ad es. come violazione del dovere di diligente gestione o responsabilità verso i creditori).

In questa guida – aggiornata a ottobre 2025 con riferimenti normativi e giurisprudenziali recenti – esamineremo in dettaglio cosa fare (e cosa evitare) se un’azienda di sollevatori a vuoto si trova schiacciata dai debiti. Adotteremo il punto di vista del debitore, fornendo indicazioni utili sia a imprenditori e privati, sia ad avvocati che li assistono. Il taglio sarà giuridico ma divulgativo: useremo un linguaggio chiaro, con esempi pratici italiani e tabelle riassuntive, senza rinunciare al rigore normativo. Affronteremo tutte le principali tipologie di debito (tributario, previdenziale, bancario, commerciale, lavoro) e i relativi rischi, per poi analizzare gli strumenti di soluzione della crisi (dalla composizione negoziata al concordato e alla liquidazione giudiziale). Approfondiremo inoltre la responsabilità patrimoniale dell’imprenditore e dei diversi soggetti coinvolti (amministratori, soci di società di persone o di capitali), spiegando come proteggere il patrimonio personale nelle diverse forme societarie. Infine, una sezione di Domande e Risposte chiarirà i dubbi più comuni (quando è obbligatorio attivarsi, cosa accade se si ignora la crisi, l’ordine di pagamento dei creditori, la posizione dei soci, i rapporti coi fornitori, ecc.), seguita da una raccolta di fonti normative e pronunce giurisprudenziali di riferimento più aggiornate.

Tipologie di Debito

Il primo passo per difendere un’azienda indebitata è analizzare la natura dei debiti accumulati. Un’azienda di sollevatori a vuoto – tipicamente una S.r.l. o S.p.A. operante nel settore meccanico – può presentare varie categorie di esposizione passiva, ognuna con caratteristiche giuridiche e rimedi diversi. Ecco le principali tipologie di debito da considerare:

  • Debiti tributari (fisco) – Comprendono imposte sul reddito (IRES/IRPEF), IVA, IRAP, ritenute non versate, tributi locali (es. IMU, TARI) e ogni altro carico fiscale non pagato. Questi crediti godono in larga parte di privilegi sui beni del debitore e, se non gestiti, comportano procedure di riscossione coattiva da parte dell’Erario (Agenzia delle Entrate Riscossione). Nelle procedure concorsuali, i debiti tributari sono trattati con attenzione particolare: oggi la legge consente una certa flessibilità nel loro pagamento. Ad esempio, nell’ambito di un concordato preventivo è ammessa la transazione fiscale, ossia un accordo con il Fisco che prevede il pagamento parziale delle imposte dovute, eventualmente con dilazioni e l’esclusione di sanzioni e interessi . Una rilevante novità confermata dalla giurisprudenza recente è il cosiddetto “cram down fiscale”: la Corte di Cassazione (sent. n. 27782 del 28/10/2024) ha stabilito che il tribunale può omologare forzosamente un concordato preventivo anche senza il voto favorevole dell’Agenzia delle Entrate, purché il piano proposto garantisca ai creditori pubblici (Erario e enti previdenziali) un recupero almeno pari a quello ottenibile in caso di liquidazione . Ciò supera il “veto” che in passato il Fisco poteva esercitare: se il piano di concordato offre al Fisco una soddisfazione migliore del fallimento, il dissenso di Agenzia Entrate o INPS non può più bloccare l’omologazione. In pratica, questo significa che un piano ben congegnato può imporre anche al Fisco una riduzione o dilazione del debito, aprendo la strada a soluzioni prima impensabili e permettendo all’azienda di evitare la rovina immediata. Al di fuori delle procedure concorsuali, restano naturalmente utilizzabili gli strumenti “ordinari” per gestire i debiti tributari, come la rateizzazione delle cartelle esattoriali o eventuali definizioni agevolate (rottamazioni), se previste dalla legge di bilancio del momento. Tuttavia, tali misure amministrative tamponano solo temporaneamente il problema e non eliminano i debiti, pertanto quando l’esposizione fiscale è insostenibile conviene valutare strumenti di più ampio respiro (accordi di ristrutturazione o concordato, di cui diremo) per abbattere il carico tributario in modo definitivo.
  • Debiti previdenziali (contributi) – Riguardano i mancati versamenti di contributi obbligatori a enti come INPS e INAIL, incluse le quote a carico del datore di lavoro e le trattenute operate sulle retribuzioni dei dipendenti non versate, nonché il TFR (trattamento di fine rapporto) eventualmente non accantonato. Dal punto di vista legale, anche questi sono crediti privilegiati (spesso definiti crediti “pre-deducibili” o di massa nelle procedure concorsuali) e godono di protezioni analoghe a quelle tributarie. In caso di crisi, è fondamentale mappare l’entità esatta dei debiti contributivi: si può richiedere ad esempio il Durc o altre certificazioni all’INPS per attestare la posizione debitoria contributiva, documento che è necessario allegare se si intende accedere ad una composizione negoziata . I debiti verso INPS/INAIL possono essere inclusi in piani di rientro e, analogamente ai tributi, possono formare oggetto di transazione nei piani di concordato o accordi, con possibile stralcio di parte del dovuto (salvo limitazioni: ad esempio, è più difficile ottenere lo stralcio della quota di contributi trattenuti ai dipendenti). Le ultime riforme equiparano in parte il trattamento dei crediti previdenziali a quelli fiscali: anche i contributi possono essere “cramdownati” in un concordato, cioè pagati in misura ridotta contro il parere dell’ente, purché vi sia l’autorizzazione del tribunale e sia garantito quanto otterrebbe altrimenti . È importante notare che l’omesso versamento di contributi può avere conseguenze gravi per l’amministratore: oltre alle sanzioni civili e agli interessi, l’omissione delle ritenute previdenziali ai lavoratori costituisce reato se supera una certa soglia (attualmente euro 10.000 annui, art. 2 comma 1-bis L. 638/1983) e comporta comunque sanzioni amministrative se inferiore. Dunque, tra tutti i debiti, quelli verso l’INPS richiedono un’attenzione prioritaria, sia per l’impatto sociale (riguardano i lavoratori) sia per le possibili responsabilità personali che possono ricadere sul titolare in caso di violazioni.
  • Debiti verso banche e finanziarie – Molte aziende di sollevatori a vuoto finanziano la propria attività tramite prestiti bancari, linee di credito, mutui o leasing finanziari (spesso macchinari costosi come i sollevatori sono acquistati in leasing). Questi debiti in assenza di garanzie reali sono considerati chirografari (cioè non privilegiati) nel concorso tra creditori; tuttavia, frequentemente le banche richiedono garanzie a supporto del credito, quali ipoteche su immobili aziendali o fideiussioni personali degli imprenditori. Se l’azienda entra in crisi e non riesce a rispettare le rate dei finanziamenti, la banca può revocare gli affidamenti, chiedere l’immediato rientro e attivare procedure esecutive (es. pignoramenti di beni aziendali, escussione delle fideiussioni). Dal punto di vista del debitore, per difendersi occorre agire su due fronti: negoziale e procedurale. In ambito negoziale, si può tentare una ristrutturazione del debito bancario fuori dalle aule di tribunale, ad esempio tramite un accordo ex art. 182-bis Legge Fall. (oggi art. 57 D.Lgs. 14/2019) con le banche per dilazionare le scadenze o ridurre il debito . A tal fine è spesso necessario predisporre un piano finanziario credibile, magari con l’ausilio di un professionista attestatore, per convincere gli istituti a concedere respiro. In alternativa (o in aggiunta), l’imprenditore può cercare nuova finanza: ad esempio, ottenere un ulteriore prestito o investimento da terzi da utilizzare per pagare i debiti esistenti (refinancing), inserendo tale operazione in un piano attestato o in un concordato. Sul piano procedurale, la legge oggi offre alcune tutele durante le fasi di crisi: ad esempio, se l’imprenditore attiva una composizione negoziata (v. oltre) e chiede misure protettive, le banche non possono revocare gli affidamenti concessi solo perché l’azienda ha avviato la procedura di negoziazione . Inoltre, nuovi finanziamenti concessi in esecuzione di accordi o piani di risanamento omologati godono di prededucibilità in caso di successivo fallimento (ossia verranno rimborsati prima di altri debiti pregressi) , il che incentiva le banche a sostenere il risanamento anziché agire immediatamente. In sintesi, con le banche occorre comunicare tempestivamente la situazione di crisi, evitando di nascondere il problema: spesso le banche sono disposte a rinegoziare o a concordare moratorie se vedono un piano di recupero serio, mentre diventano molto più aggressive se apprendono del dissesto solo all’ultimo momento (ad esempio da protesti o insoluti).
  • Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali – Rappresentano le obbligazioni contratte con terzi per forniture di beni, materie prime (nel caso dei sollevatori a vuoto, componenti meccanici, pompe, ventose, ecc.), servizi, consulenze, affitti, utenze, ecc., rimaste insolute. In una procedura concorsuale ordinaria, tali crediti sono generalmente chirografari puri, cioè senza alcun privilegio specifico: ciò implica che i fornitori verranno soddisfatti dopo i crediti privilegiati (come quelli fiscali, contributivi, e garantiti) . Questa posizione subordinata spesso induce i fornitori a essere molto intransigenti non appena percepiscono il rischio di insolvenza: essi sanno che, se l’azienda fallisce, rischiano di recuperare solo una piccola percentuale, dunque tenderanno ad agire rapidamente (richiedendo decreti ingiuntivi, pignorando merci o conti correnti, o addirittura presentando istanza di fallimento) per evitare di finire nella massa chirografaria. Dal lato dell’imprenditore, “difendersi” dai debiti verso fornitori significa innanzitutto gestire la comunicazione e le relazioni: è consigliabile non attendere che i fornitori perdano la pazienza, ma piuttosto anticiparli, spiegando la situazione e cercando un accordo di rientro bonario. Ad esempio, si può proporre una dilazione di pagamento (rateizzando il debito commerciale su un certo periodo) o addirittura un saldo e stralcio (pagamento parziale immediato a stralcio del restante). Spesso i fornitori preferiscono un compromesso del genere piuttosto che affrontare costose azioni legali dall’esito incerto. Inoltre, se si arriva a predisporre un piano concorsuale (accordo di ristrutturazione o concordato), l’imprenditore potrà inserire nel piano proposte di riduzione parziale del credito verso fornitori (ad esempio pagandoli al x%), sottoponendole al voto di questi ultimi. Nelle procedure giudiziali, infatti, i creditori chirografari vengono raggruppati in classi e votano la proposta: se la maggioranza approva, anche i dissenzienti restano vincolati all’esito. In tal modo, un fornitore che non accetterebbe spontaneamente uno sconto del 40-50% potrebbe tuttavia subirlo se la maggioranza dei creditori (in classe o in generale) approva il piano. Importante: qualora i fornitori adottino atteggiamenti troppo rigidi (ad esempio pretendendo rientri impossibili in pochi giorni), l’imprenditore può valutare il ricorso agli strumenti concorsuali anche per gestire la pressione: l’apertura di un concordato impedisce per legge ai creditori di proseguire azioni esecutive individuali, “congelando” di fatto le pretese e costringendo i fornitori a trattare collettivamente (purché poi li si tratti in modo paritario nella distribuzione, rispettando la par condicio creditorum). In definitiva, il dialogo è la prima arma con i fornitori: far capire che anche il creditore ha da perdere nel mandare l’azienda in default (perché magari perderebbe un cliente o vedrebbe prescrivere il suo credito) può facilitare soluzioni sostenibili per entrambi.
  • Debiti verso i dipendenti – Un’azienda manifatturiera o commerciale potrebbe accumulare anche debiti verso i propri lavoratori, ad esempio stipendi arretrati, tredicesime non pagate, TFR non versato a fine rapporto, o rimborsi e straordinari pendenti. Questi debiti hanno uno status particolare: da un lato, il mancato pagamento dei salari costituisce una grave inadempienza contrattuale (che può portare alle dimissioni per giusta causa dei dipendenti e ad azioni legali immediate, oltre a sanzioni da parte dell’Ispettorato del lavoro); dall’altro, nelle procedure concorsuali i crediti da lavoro godono di privilegi speciali. In dettaglio, ai crediti di lavoro subordinato è riconosciuto un privilegio generale mobiliare ex art. 2751-bis n.1 c.c. (che li fa collocare comunque prima dei fornitori chirografari) e, per le ultime mensilità non pagate prima del fallimento, un super-privilegio che li fa salire ai primi posti assoluti nel riparto . Ad esempio, gli stipendi degli ultimi 3 mesi prima della procedura (entro un certo massimale) e il TFR maturato hanno priorità di pagamento immediatamente dopo le spese di procedura e poche altre categorie superprivilegiate. Inoltre, esiste un Fondo di garanzia INPS che, in caso di insolvenza del datore di lavoro, interviene a pagare ai lavoratori il TFR e le ultime mensilità dovute (il Fondo si sostituisce al datore insolvente, acquisendo poi il diritto di credito nei confronti della massa fallimentare). Dal punto di vista del debitore, è essenziale dunque cercare di limitare l’accumulo di debiti verso i dipendenti: non solo per ragioni etiche e di mantenimento del buon clima aziendale, ma anche perché i dipendenti insoluti possono presentare istanza di fallimento (essendo creditori a tutti gli effetti) e tale istanza viene valutata con particolare urgenza dai tribunali (il mancato pagamento diffuso dei lavoratori è considerato un indice lampante di insolvenza). Inoltre, pagare almeno parzialmente i lavoratori in difficoltà può evitare l’abbandono del personale chiave e dimostrare al tribunale, in caso di concordato, un senso di responsabilità sociale dell’imprenditore (cosa che indirettamente può influire positivamente sulla fattibilità del piano). Ricordiamo anche che l’ordinamento tutela i lavoratori in via preferenziale: ad esempio, se un imprenditore paga i dipendenti in crisi mentre lascia altri crediti insoluti, tale atto non sarà considerato una preferenza illegittima in caso di fallimento (i pagamenti degli stipendi dovuti non sono soggetti a revocatoria fallimentare). In sintesi, i debiti verso il personale vanno trattati con priorità sia morale che legale: trascurarli espone a conseguenze rapide (scioperi, cause, istanze di fallimento) e rende più difficile ogni piano di risanamento.
  • Altre passività – In questa categoria rientrano ulteriori debiti specifici che l’azienda di sollevatori a vuoto potrebbe avere, come ad esempio debiti verso enti locali (tasse comunali su rifiuti, occupazione suolo pubblico per eventuali stabilimenti, ecc.), eventuali debiti derivanti da strumenti finanziari complessi (es. contratti derivati in perdita stipulati con banche), debiti verso clienti (ad esempio acconti ricevuti da clienti per forniture di macchinari non ancora consegnati, che dovrebbero essere restituiti se il contratto non viene eseguito), oppure debiti legati a contenziosi legali in corso (cause civili perse con condanna a risarcimenti o spese legali). Ciascuna di queste voci va valutata caso per caso. In linea generale, tali crediti non godono di un trattamento privilegiato particolare e seguono le regole ordinarie nelle procedure concorsuali , ma possono avere impatti pratici rilevanti. Ad esempio, un debito verso un ente comunale per tasse potrebbe dar luogo a fermi amministrativi su veicoli aziendali; un debito verso un cliente scontento potrebbe sfociare in un decreto ingiuntivo. La strategia difensiva, anche qui, consiste nel prevenire le azioni legali dove possibile, magari transando bonariamente (specialmente se il credito del terzo è contestato o di importo modesto, conviene trovare un accordo per evitare spese legali aggiuntive). Se invece si tratta di partite più complesse (es. risarcimenti da cause), può essere opportuno includerle in un quadro di ristrutturazione globale del debito, proponendo il loro soddisfacimento parziale insieme agli altri crediti chirografari nel contesto di un concordato o di un accordo di ristrutturazione.

Come si vede, non tutti i debiti sono uguali. Alcuni (fisco, contributi, lavoro) hanno un peso giuridico maggiore e non possono essere ignorati, altri (fornitori, banche) possono essere rinegoziati ma richiedono abilità nel dialogo e nella pianificazione, altri ancora possono essere congelati o ridotti attraverso gli strumenti concorsuali. Un’azienda schiacciata dai debiti rischia il dissesto e l’avvio coatto di procedure concorsuali che tolgono ai soci la gestione dell’impresa . Per questo motivo, sin dai primi segnali di squilibrio (perdite di bilancio significative, ritardi cronici nei pagamenti, revoca di fidi bancari, fornitori che iniziano ad agire legalmente, ecc.) è prudente attivarsi immediatamente, analizzando i debiti e valutando le soluzioni di risanamento offerte dalla legge. Nel capitolo seguente vedremo quali strumenti sono a disposizione dell’imprenditore indebitato per difendersi dai creditori e provare a salvare l’azienda o, quantomeno, evitare conseguenze irreparabili.

Strumenti di risanamento aziendale

Per fronteggiare i debiti ed evitare che l’azienda di sollevatori a vuoto venga travolta dalle azioni dei creditori, l’ordinamento prevede diversi strumenti di regolazione della crisi. La scelta dello strumento adeguato dipende dalla gravità della situazione finanziaria, dalla dimensione dell’impresa, dal tipo di debiti e anche dall’urgenza di intervento. In generale, l’obiettivo dell’imprenditore-debitore è guadagnare tempo e ristrutturare il debito in maniera sostenibile, evitando se possibile la liquidazione forzata. Di seguito esaminiamo i principali strumenti di risanamento (dal più “soft” e stragiudiziale al più invasivo e giudiziale):

  • Composizione negoziata della crisi – Si tratta di uno strumento relativamente nuovo, introdotto in via sperimentale nel 2021 (D.L. 118/2021) e ora disciplinato dal Titolo II del Codice della crisi (D.Lgs. 14/2019). È una procedura volontaria, riservata all’imprenditore in difficoltà che intenda perseguire il risanamento tramite negoziazione con i creditori, assistito da un esperto indipendente. In pratica, l’impresa presenta un’istanza tramite la piattaforma delle Camere di Commercio, e un’apposita commissione nomina un esperto terzo (spesso un commercialista o professionista con competenze di ristrutturazione) che affiancherà l’imprenditore nelle trattative . La composizione negoziata è aperta a tutte le imprese, di qualsiasi dimensione e settore, incluse le piccole sotto-soglia e le imprese agricole . Condizione necessaria è trovarsi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile la crisi o insolvenza, ma non ancora in uno stato di insolvenza conclamata irrimediabile . Il vantaggio principale di questo istituto è la sua flessibilità e riservatezza: non c’è una procedura giudiziale pubblica (salvo alcune istanze opzionali al tribunale), l’imprenditore resta alla guida dell’azienda (non c’è spossessamento dei beni) e può liberamente decidere se e con quali creditori negoziare. Durante le trattative, l’esperto ha il compito di facilitare accordi tra l’impresa e i creditori (banche, fornitori, Fisco, ecc.), valutando la ragionevole perseguibilità del risanamento e segnalando eventuali soluzioni . Importante: su richiesta dell’imprenditore, il tribunale può concedere misure protettive temporanee, ossia un provvedimento che sospende le azioni esecutive individuali dei creditori per la durata delle trattative (generalmente inizialmente 4 mesi) . In tal modo, l’azienda è al riparo da pignoramenti o istanze di fallimento mentre cerca un accordo. Durante la composizione negoziata è possibile effettuare atti di ordinaria amministrazione liberamente, e straordinari con l’autorizzazione del tribunale (garantendo così la continuità aziendale sotto supervisione minima) . È anche possibile ottenere finanziamenti prededucibili per sostenere l’attività in questa fase, con autorizzazione giudiziale, e si possono concludere accordi di moratoria con le banche. Molto rilevante è la possibilità, durante la negoziazione assistita, di definire una transazione fiscale con Agenzia Entrate e INPS: l’esperto infatti può favorire un accordo sul pagamento parziale e dilazionato dei debiti tributari e contributivi, accordo che poi – se si passa a un successivo concordato o omologa – verrà formalizzato . Il legislatore, resosi conto che la composizione negoziata stentava inizialmente a decollare, nel 2023-2024 ha introdotto ulteriori incentivi: ad esempio, il D.Lgs. 83/2022 e da ultimo il D.Lgs. 136/2024 hanno previsto misure premiali fiscali (crediti d’imposta) per chi conclude con successo le trattative, hanno chiarito i doveri delle banche (che non possono revocare fidi durante le misure protettive) e hanno ampliato la possibilità di accedere alla procedura anche in presenza di istanze di fallimento già pendenti (sospendendole). Nonostante ciò, la composizione negoziata rimane uno strumento privo di effetti se non si raggiunge un accordo concreto: non vincola i creditori che non aderiscono e non garantisce di per sé uno sconto di debito (tutto dipende dalla volontà dei creditori coinvolti) . In caso di esito positivo, l’imprenditore potrà formalizzare gli accordi raggiunti (magari con alcuni creditori chiave) oppure, se necessario, utilizzare tali accordi come base per accedere a una procedura giudiziale di ristrutturazione più ampia (accordo di ristrutturazione omologato o concordato). In caso di esito negativo, invece, la legge oggi offre una “rete di sicurezza”: l’imprenditore, entro 60 giorni dalla conclusione infruttuosa, può richiedere l’omologazione di un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (strumento speciale introdotto nel 2021), evitando così un fallimento “disordinato” e gestendo la liquidazione in modo concorsuale (per quanto in assenza di voto dei creditori, trattandosi di procedura semplificata) . In sintesi, la composizione negoziata è consigliabile quando l’azienda ha ancora prospettive di risanamento e servono solo poche regolazioni mirate (es. accordarsi con le banche e con il Fisco) senza l’onere di un procedimento di concordato completo. Ad esempio, se la nostra azienda di sollevatori a vuoto ha accumulato debiti principalmente con l’Erario e con una banca, ma ha ordini e mercato per riprendersi, potrebbe avviare una composizione negoziata per diluire il debito fiscale e ristrutturare il mutuo bancario, magari con l’immissione di nuova liquidità da parte dei soci, evitando così di entrare in procedura concorsuale pubblica.
  • Piano attestato di risanamento – Previsto dagli artt. 56 e seguenti del Codice della crisi (riprendendo l’art. 67, co. 3, lett. d) della vecchia legge fallimentare), il piano attestato è uno strumento di risanamento “autonomo” e privatistico, che non richiede né l’intervento del tribunale né il consenso formale dei creditori (almeno inizialmente). Consiste in un documento unilaterale redatto dall’imprenditore in crisi che descrive la situazione aziendale, le cause delle difficoltà e soprattutto le misure che si intendono adottare per rimuovere lo stato di crisi e riequilibrare l’esposizione debitoria. Il piano deve includere un programma dettagliato di rientro dai debiti (ad esempio: pagamento di certi creditori in una certa percentuale, cessione di asset non strategici per fare cassa, riduzione di costi, nuova finanza in arrivo, ecc.) e deve essere corredato da una relazione di un esperto indipendente (un professionista iscritto nell’apposito albo dei curatori/attestatori) il quale attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità economica del piano stesso . Questa asseverazione professionale è fondamentale perché conferisce al piano effetti protettivi: in particolare, i pagamenti e le operazioni compiuti in esecuzione del piano attestato non potranno essere soggetti a azione revocatoria in caso di successivo fallimento (art. 67 l.f. previgente, confermato dal Codice della crisi), né daranno luogo a responsabilità penale per bancarotta preferenziale o semplice (sono esenti da contestazioni di questo tipo, ex art. 324 CCII, gli atti compiuti in aderenza ad un piano attestato idoneo). Ciò significa che, ad esempio, pagare un fornitore strategico mentre si lasciano indietro altri creditori potrebbe essere visto come atto preferenziale revocabile; ma se tale pagamento era previsto dal piano attestato di risanamento depositato, non sarà revocabile . Il piano attestato, tuttavia, non vincola i creditori: esso è essenzialmente una proposta unilaterale dell’imprenditore. Per avere efficacia concreta, deve essere volontariamente eseguito dai creditori destinatari (che sceglieranno se accettare le condizioni proposte, ad esempio acconsentendo a una dilazione o a uno stralcio). Nella prassi, dunque, il piano attestato viene spesso negoziato informalmente con i principali creditori prima di essere formalizzato, in modo da avere ragionevoli garanzie di adesione. Il vantaggio per il debitore è la rapidità e riservatezza: il piano non richiede omologhe o pubblicità, ed è quindi il metodo meno “invasivo” per sistemare la crisi . Lo svantaggio è che funziona solo se l’imprenditore trova la cooperazione dei creditori chiave; inoltre non offre una moratoria generale (i creditori non aderenti possono comunque agire). In ogni caso è uno strumento spesso utilizzato come primo tentativo di risanamento per evitare il ricorso ai tribunali. Esempio: l’azienda di sollevatori a vuoto inizia ad avere tensioni finanziarie ma ha ancora credibilità con banche e fornitori; può incaricare un advisor di predisporre un piano attestato in cui i soci immettono un certo capitale fresco, la banca allunga le scadenze del mutuo e alcuni fornitori accettano un 80% a saldo. Ottenute le lettere di intenti positive da questi creditori, il piano viene attestato e depositato presso il Registro delle Imprese (adempimento previsto per dare data certa), dopodiché si dà esecuzione: grazie all’attestazione, gli atti compiuti (pagamenti e transazioni) saranno protetti in caso di successivo default. Dunque il piano attestato può essere visto come un “ombrello” anti-revocatoria e anti-bancarotta che incentiva i creditori a fidarsi e seguire il piano, sapendo che così facendo non verranno penalizzati in seguito.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti – È uno strumento di natura mista: consiste in un accordo contrattuale tra l’impresa debitrice e una parte significativa dei creditori, che tuttavia viene poi sottoposto all’omologazione del tribunale (art. 57 e segg. D.Lgs. 14/2019, ex art. 182-bis l.f.). La logica è la seguente: il debitore negozia con i creditori un piano di ristrutturazione (simile a quello di un concordato, con pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti), ma invece di passare per una votazione di tutti i creditori come nel concordato, raccoglie l’adesione individuale di tanti creditori quanti ne servono per legge. La legge richiede infatti che l’accordo sia sottoscritto da creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali (percentuale elevata ma non l’unanimità) . Una volta raggiunta questa massa critica di adesioni, il debitore chiede al tribunale l’omologazione dell’accordo: il giudice verifica la regolarità e la fattibilità, e se tutto è in ordine omologa, rendendo l’accordo vincolante anche per i creditori dissenzienti o non aderenti che rientrano nelle categorie coinvolte . In pratica, l’accordo di ristrutturazione è un’alternativa al concordato con iter più snello (non c’è voto assembleare, c’è solo l’adesione scritta del 60% dei crediti). Può prevedere qualsiasi forma di soddisfazione dei crediti, anche falcidia di tributi previa transazione fiscale (oggi ammessa) e può distinguere tra diverse classi di creditori. Rispetto al concordato, offre più margine di riservatezza durante la fase di negoziazione (le trattative avvengono privatamente e solo a accordo raggiunto si deposita in tribunale) e richiede il consenso attivo di una larga parte dei creditori (evitando il rischio di un voto ostile in massa). Lo svantaggio è che non è facile ottenere il 60% di adesioni se i creditori sono molti e variegati; inoltre resta comunque una procedura complessa che richiede documentazione simile a quella concordataria (relazione di un professionista attestatore sulla fattibilità, ecc.), quindi costi non trascurabili . Questo strumento è spesso usato quando c’è un numero relativamente ristretto di creditori determinanti (ad es. le banche e il fisco): in tali casi, se si convincono quei pochi soggetti, raggiungere il 60% è realistico e si può “imporre” l’accordo anche agli eventuali piccoli creditori non aderenti (che comunque verranno soddisfatti alle condizioni previste). Da notare che dal 2022, a seguito di direttive UE, sono stati introdotti anche gli accordi ad efficacia estesa e i piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione (PRO): varianti che permettono, in presenza di determinate maggioranze, di estendere gli effetti dell’accordo anche a creditori non aderenti di una stessa classe (ad es. obbligazionisti) e di ottenere misure protettive analoghe a quelle del concordato. Inoltre, come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 8504/2021), eventuali contestazioni sulla mancata adesione di creditori pubblici (ad esempio l’Amministrazione finanziaria) in sede di accordo vanno risolte dal tribunale fallimentare, che può valutare nel merito se l’ente ha rifiutato irragionevolmente la proposta e superare l’impasse . Questa pronuncia ha di fatto aperto la via a una sorta di cram down anche negli accordi di ristrutturazione, demandando al giudice della crisi la decisione sul dissenso del Fisco (anziché al giudice tributario) . In sintesi, l’accordo di ristrutturazione è uno strumento efficace quando c’è collaborazione di massima tra debitore e principali creditori; presenta costi e tempi inferiori al concordato, ma va preparato con cura (coinvolgendo magari informalmente un gruppo di creditori sin dall’inizio). Se la nostra azienda di sollevatori a vuoto ha, poniamo, debiti per 5 milioni concentrati per il 70% su due banche e sull’Erario, potrebbe optare per un accordo di ristrutturazione: negozia con questi tre soggetti un taglio del debito e un piano di rientro a 5 anni, ottiene le loro firme (raggiungendo così i 2/3 del debito) e poi omologa l’accordo, rendendolo opponibile anche ai fornitori minori che non hanno firmato.
  • Concordato preventivo – È lo strumento tradizionale di regolazione dell’insolvenza d’impresa, di natura giudiziale, consistente in una proposta di concordato (ossia un accordo concorsuale) che l’imprenditore rivolge a tutti i creditori e che, dopo essere stato votato da costoro, viene omologato dal tribunale. Il concordato preventivo può avere due forme principali: in continuità (se l’azienda prosegue l’attività, direttamente o tramite cessione/affitto a terzi) oppure liquidatorio (se prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio con ripartizione ai creditori). Con il nuovo Codice della crisi il concordato è stato reso più flessibile e orientato a favorire la continuità aziendale . Ad esempio, è oggi possibile includere nel piano concordatario anche crediti futuri o apporti di soci esterni, ed è possibile proteggere i finanziatori che immettono denaro fresco (con la prededucibilità e l’esenzione da revocatorie) . Un aspetto cruciale riguarda i crediti pubblici (Erario e previdenza): come già accennato, grazie alle riforme e alla giurisprudenza, il concordato può essere omologato anche senza il consenso del Fisco, purché si dimostri che la proposta garantisce agli enti pubblici un soddisfacimento non inferiore a quello ipotizzabile in caso di fallimento . La Cassazione, con sentenza n. 27782/2024, ha infatti chiarito che l’istituto del cram down fiscale (art. 180, co.4 l.fall., ora recepito nel Codice della crisi) si applica sia in caso di silenzio dell’Erario sia in caso di voto negativo espresso . Ciò significa che oggi un piano di concordato può imporre una decurtazione o una dilazione ai creditori pubblici, superando quel “veto” che in passato spesso bloccava i tentativi di ristrutturazione tributaria. Naturalmente, restano fermi alcuni paletti legali: ad esempio, nel concordato liquidatorio puro (in cui l’azienda viene solo liquidata), la legge richiede che ai creditori chirografari sia garantito almeno il 20% di soddisfazione (10% nel concordato “minore” per piccole imprese) a meno che tutti rinuncino, altrimenti il concordato non è ammissibile. Inoltre, in ogni concordato il piano deve offrire ai creditori una utilità maggiore rispetto alla liquidazione giudiziale (principio della convenienza). Dal punto di vista procedurale, il concordato è più oneroso e lungo rispetto agli strumenti fin qui descritti: occorre predisporre un’ampia documentazione (elenco creditori, inventario, bilanci, relazione di un attestatore), depositare un ricorso in tribunale e affrontare una procedura che tipicamente dura diversi mesi, passando per una fase di ammissione, il voto dei creditori suddivisi in classi e infine l’udienza di omologazione . Durante il concordato, l’impresa è protetta dal “automatic stay” – cioè tutti i creditori sono bloccati dal compiere o proseguire azioni esecutive individuali – e l’azienda continua la gestione sotto la vigilanza di un commissario giudiziale nominato dal tribunale. Per l’imprenditore, il concordato comporta alcuni svantaggi: è costoso (bisogna pagare spese di procedura, il commissario, l’attestatore, legali), fa perdere in parte il controllo (ogni atto di straordinaria amministrazione richiede autorizzazione del giudice delegato) e soprattutto l’esito non è garantito, perché serve la maggioranza di voti favorevoli dei creditori (calcolata sui crediti ammessi al voto) . Se i creditori bocciano la proposta, si apre la via al fallimento. Tuttavia, se il concordato va a buon fine, i benefici sono notevoli: l’azienda può ridurre drasticamente l’ammontare dei debiti, ottiene l’esdebitazione per la parte eccedente e può anche continuare la sua attività (nel caso di concordato in continuità) liberandosi dai debiti pregressi. Inoltre, l’omologazione del concordato cristallizza la situazione debitoria: eventuali atti compiuti in esecuzione del piano concordatario autorizzato non potranno essere sindacati come preferenze o distrazioni (protezione analoga a quella del piano attestato) e in certi casi – se il piano viene adempiuto – anche gli amministratori possono beneficiare di una sorta di “esimente” penale per gli atti compiuti in attuazione del concordato (non saranno punibili per bancarotta preferenziale riguardo pagamenti autorizzati nel piano) . Esistono anche varianti semplificate del concordato: il concordato “minore”, riservato alle imprese sotto certe soglie dimensionali, segue regole analoghe ma con qualche semplificazione e percentuali ridotte; il concordato semplificato (introdotto dal DL 118/2021) può essere chiesto, come detto, senza voto dei creditori solo per liquidare il patrimonio dopo un fallimento della composizione negoziata . Queste però sono fattispecie particolari. In conclusione, il concordato preventivo resta l’ultima spiaggia operativa per evitare la liquidazione giudiziale quando i debiti sono insostenibili: l’imprenditore offre “il miglior concordato possibile” ai creditori e spera nel loro consenso. Ad esempio, una media impresa di produzione di sollevatori a vuoto, con stabilimenti, macchinari costosi e centinaia di creditori per vari milioni di euro, difficilmente potrà trovare un accordo extra-giudiziale: in tal caso la via del concordato preventivo (magari in continuità se c’è un investitore disposto a rilevare o finanziare la prosecuzione dell’attività) è spesso obbligata, per congelare le azioni e provare un risanamento sotto l’egida del tribunale .
  • Liquidazione giudiziale (ex “fallimento”) – Rappresenta il rimedio finale e più drastico in caso di insolvenza conclamata. La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale che subentra quando l’impresa non è più in grado di soddisfare regolarmente i propri debiti e non è stato attivato o non è praticabile alcun percorso di risanamento. In base all’art. 121 del Codice della crisi, l’imprenditore (che esercita attività d’impresa commerciale) può essere dichiarato in liquidazione giudiziale quando risulta insolvente, cioè incapace in modo definitivo di adempiere alle proprie obbligazioni alle scadenze . L’apertura della procedura avviene su sentenza del tribunale, su ricorso del debitore stesso o di un creditore (o del PM); da quel momento, l’azienda viene spossessata: un curatore fallimentare nominato dal tribunale prende in mano la gestione, cessano le attività o proseguono solo se autorizzate per aumentarne il valore di realizzo, e tutti i beni dell’impresa vengono liquidati (venduti) per ripartire il ricavato tra i creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione . Per l’imprenditore-debitore, la liquidazione giudiziale comporta quindi la perdita totale del controllo sull’azienda, la chiusura (salvo esercizio provvisorio temporaneo se utile), nonché possibili responsabilità personali (il curatore e i creditori possono promuovere azioni di responsabilità verso gli amministratori per mala gestio, v. infra, e l’imprenditore insolvente può subire pene accessorie come l’inabilitazione all’esercizio di impresa e altre restrizioni). Dal lato dei creditori, la liquidazione giudiziale significa che tutti concorrono sul patrimonio residuo: non possono più agire individualmente, ma dovranno insinuarsi al passivo e attendere i riparti secondo le regole concorsuali. In concreto, nella maggior parte dei casi di fallimento ordinario i creditori chirografari recuperano poco o nulla (spesso una percentuale a una cifra), mentre i privilegiati recuperano qualcosa in base al valore dei beni su cui vantano la garanzia. La liquidazione giudiziale può essere richiesta anche d’ufficio dai creditori più aggressivi: banche, fornitori importanti, l’Agenzia Entrate Riscossione o l’INPS sono spesso i ricorrenti tipici. Peraltro, le imprese molto piccole (sotto certi parametri) non sono soggette a liquidazione giudiziale ma a procedure semplificate di “sovraindebitamento”: ad esempio, un’impresa sotto-soglia con meno di 300.000 € di attivo, 200.000 € di ricavi e 500.000 € di debiti potrebbe non essere dichiarata fallita, bensì – se insolvente – affrontare una liquidazione controllata ai sensi dell’art. 268 CCII (procedura concorsuale minore riservata ai soggetti non fallibili, che richiede però almeno 50.000 € di debiti scaduti per essere aperta ). In ogni caso, arrivare a una liquidazione giudiziale significa che tutte le altre strade di ristrutturazione sono fallite. Se l’imprenditore intravede l’inevitabilità di questo esito, può valutare di presentare egli stesso ricorso per la propria liquidazione (cosiddetto fallimento in proprio); ciò talvolta consente una gestione più ordinata della chiusura, la scelta del tribunale competente migliore e l’eventuale accesso ai benefici di legge come l’esdebitazione finale (la liberazione dai debiti residui a fine procedura, concessa al fallito persona fisica meritevole). Tuttavia, è bene sottolineare che la liquidazione giudiziale è sempre l’ultima ratio: essa comporta la fine dell’azienda come entità produttiva e spesso risultati deludenti per tutti (creditori insoddisfatti e imprenditore estromesso e potenzialmente perseguito). Nella pratica odierna, chi subisce una liquidazione giudiziale di solito ha esaurito tutte le altre opzioni di risanamento o si trova sorpreso da un’iniziativa repentina di un creditore. È dunque interesse dell’imprenditore indebitato attivarsi prima per evitare questo epilogo. Come evidenza un confronto: un piccolo produttore artigianale di sollevatori con debiti relativamente contenuti potrebbe salvarsi con un piano attestato o un accordo, mentre un’azienda più grande e compromessa dovrà tentare un concordato; soltanto se nessuna di queste misure riesce, si arriverà alla liquidazione giudiziale. Il motto, insomma, è “evitare il fallimento agendo prima”.

In sintesi, la scelta dello strumento per difendersi dai debiti va calibrata sul caso concreto. Spesso la strategia migliore è procedere per gradi: evitare subito la liquidazione giudiziale e puntare prima su soluzioni stragiudiziali (piani, accordi) o semi-stragiudiziali (composizione negoziata), e solo se queste falliscono prepararsi a un concordato preventivo. Le prime misure consigliate sono quindi: analizzare con un professionista la situazione finanziaria, convocare i creditori principali per trattare (informalmente o tramite un piano attestato), valutare l’accesso alla composizione negoziata se c’è spazio di risanamento, e in subordine predisporre un piano di concordato o accordo da presentare al tribunale . Ad esempio, un’azienda di piccole dimensioni (fatturato 1-2 milioni) con debiti per 500 mila euro potrebbe evitare il tribunale negoziando privatamente coi creditori chiave (magari assistita dall’esperto della composizione negoziata); viceversa, un’azienda più grande con debiti di molti milioni probabilmente dovrà ricorrere da subito alla protezione del concordato con riserva (cosiddetto “concordato in bianco”) per congelare le azioni esecutive e poi presentare un piano in continuità . L’importante è non rimanere inerti: ogni ritardo nell’affrontare la crisi riduce le opzioni disponibili e aumenta i rischi di azioni ostili dei creditori.

Ruolo degli amministratori e responsabilità

Un aspetto cruciale quando un’azienda è gravata di debiti è il comportamento degli amministratori e dei soci nelle fasi di crisi. La legge impone agli amministratori di società (sia di capitali che di persone) rigorosi doveri di gestione prudente e corretta: devono agire con diligenza e lealtà (art. 2392 c.c. per le S.p.A. e art. 2476 c.c. per le S.r.l.), perseguendo l’interesse della società e tutelando l’integrità del patrimonio sociale a garanzia anche dei creditori . Ciò implica, tra le altre cose, evitare conflitti di interesse e attivi sviamenti di risorse a favore proprio o di parti correlate a discapito della società. In situazioni di crisi, questi obblighi si fanno ancora più stringenti: l’amministratore deve astenersi da operazioni che possano pregiudicare i creditori (ad esempio pagare preferenzialmente un solo creditore a scapito di tutti gli altri, soprattutto se quel creditore è una società o persona a lui collegata) e ha il dovere di non aggravare il dissesto proseguendo attività chiaramente non sostenibili. La giurisprudenza recente è particolarmente severa verso gli amministratori che, in prossimità dell’insolvenza, effettuino atti pregiudizievoli per la par condicio creditorum o che configurino distrazione di beni. Ad esempio, con l’ordinanza Cass. civ. Sez. I, 27 agosto 2025 n. 23963, è stato affermato il principio che un amministratore avrebbe dovuto evitare esborsi in favore di società ad esso riconducibili quando la propria azienda versava in stato di insolvenza . In quel caso, l’amministratore di una S.r.l. aveva usato risorse della società indebitata per pagare debiti di un’altra società a lui legata, aggravando così il danno per i creditori sociali: la condotta è stata ritenuta scorretta e l’amministratore è stato dichiarato responsabile in proprio per aver violato il dovere di lealtà e diligenza . Più in generale, la Cassazione ha ribadito che l’administatore di S.r.l. “è tenuto ad agire con la diligenza dovuta… senza incorrere in conflitto di interessi” e che compie un atto illecito se fa prevalere “un interesse extra-sociale… pregiudizievole per la società” . In altre parole, qualsiasi gestione di mala fede (es. dirottare fondi a soggetti vicini, vendere sottocosto beni aziendali a parenti, continuare a indebitare la società sperando in miracoli) oppure gravemente imprudente (es. non adottare misure quando le perdite erodono il capitale, accumulare debiti fiscali sperando in condoni) può esporre l’amministratore a conseguenze personali.

Dal punto di vista pratico, già nella fase pre-concorsuale il debitore dovrebbe tenere una condotta improntata alla trasparenza e prudenza: evitare di fare pagamenti selettivi sproporzionati (ad esempio pagare integralmente un fornitore “amico” e lasciare altri a zero, oppure rimborsare un finanziamento soci recente mentre si ignorano debiti fiscali), evitare di aggravare il passivo con nuove obbligazioni se non c’è ragionevole prospettiva di adempimento, e predisporre piani di salvataggio che non siano finalizzati solo a ritardare l’inevitabile o a salvare interessi personali. Dal 2019 in avanti, poi, è stato introdotto l’art. 2086 c.c. comma 2 che impone agli amministratori di attivare assetti organizzativi adeguati a rilevare tempestivamente la crisi: ciò significa che l’organo amministrativo deve dotare la società di strumenti di controllo di gestione tali da far emergere perdite, crisi di liquidità e altri segnali, e all’occorrenza deve attivarsi subito (ad esempio convocando l’assemblea dei soci per ricapitalizzare, o esplorando procedure di composizione) . L’inerzia colpevole di un amministratore di fronte ai segnali di insolvenza può essere fonte di responsabilità: ad esempio, non aver richiesto per tempo il concordato e aver lasciato che i debiti raddoppiassero in un anno potrebbe costituire violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale.

Quando poi l’azienda viene effettivamente assoggettata a procedura concorsuale (concordato o liquidazione giudiziale), la posizione degli amministratori viene scrutinata. In caso di liquidazione giudiziale (fallimento), il curatore ha la facoltà di promuovere l’azione di responsabilità contro gli amministratori uscenti (art. 146 l.fall. prev., ora ripresa dagli artt. 255-256 CCII): egli può esercitare sia l’azione che competeva alla società per danni da violazione dei doveri (azione sociale di responsabilità ex art. 2476 c.c. per le S.r.l., o 2393 c.c. per le S.p.A.), sia l’azione nell’interesse dei creditori (azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c.) . Quest’ultima serve a ottenere dagli amministratori un risarcimento se, per loro colpa grave o dolo, il patrimonio sociale è stato diminuito o dissestato al punto da non consentire di pagare i debiti. In pratica, se i creditori non vengono soddisfatti integralmente nel fallimento, gli amministratori possono essere chiamati a rispondere con il proprio patrimonio della differenza, purché si provi che il default è dipeso (in tutto o in parte) da una loro cattiva gestione. La Cassazione da tempo afferma che il presupposto della responsabilità verso i creditori ex art. 2394 c.c. è la violazione dei doveri gestori che abbia causato l’erosione del capitale sociale e il conseguente insufficiente attivo per i creditori . Ad esempio, aver omesso di versare i contributi e le imposte obbligatorie quando la società aveva risorse per farlo, oppure aver continuato l’attività con perdite gravi senza informare i soci né adottare rimedi, sono condotte che possono integrare questa responsabilità . Non a caso, un principio spesso richiamato è: “l’amministratore può essere tenuto a pagare i debiti sociali solo in caso di cattiva gestione” , a rimarcare che altrimenti (in assenza di colpa) i debiti rimangono a carico della società. Oltre alle azioni civilistiche, vi sono casi in cui gli amministratori possono rispondere “ex lege” di specifici debiti: ad esempio, l’art. 36 del DPR 602/1973 prevede che, se una società viene liquidata e cancellata dal registro imprese senza aver pagato interamente le imposte dovute, i soci che hanno ricevuto distribuzioni in sede di liquidazione e i liquidatori che hanno pagato altri creditori lasciando indietro il Fisco possono essere chiamati a rispondere dei debiti tributari non pagati, nei limiti di quanto ricevuto o dell’importo indebitamente pagato altrove . Analogamente in ambito previdenziale, normative speciali consentono all’INPS di escutere il liquidatore o gli amministratori per contributi non versati quando vi sia stata una violazione degli obblighi di legge (ad esempio il D.Lgs. 46/1999 prevede responsabilità del liquidatore per i contributi omessi se ha pagato altri crediti di grado inferiore). La giurisprudenza di merito ha applicato tali principi: ad esempio, il Tribunale di Torino nel 2024 ha condannato un amministratore a rispondere personalmente dei contributi INPS non versati, ritenendo che l’obbligo contributivo – una volta omesso – travalichi la mera responsabilità limitata . In sostanza, per alcune categorie di debiti “sensibili” (tributi e contributi), la legge toglie agli amministratori l’ombrello della responsabilità limitata quando questi abbiano sciolto la società o ne abbiano comunque impedito il pagamento preferendo altre destinazioni delle risorse .

Da quanto sopra discende che gli amministratori devono adottare in crisi un comportamento conservativo e imparziale: le risorse residue andrebbero gestite salvaguardando la parità di trattamento dei creditori (par condicio). Ciò non significa che non possano pagare nessuno – ad esempio, pagare fornitori essenziali per non bloccare l’attività è ammesso, così come pagare dipendenti per ovvi motivi – ma devono poter giustificare ogni scelta in termini di corretto esercizio dell’impresa e nel rispetto delle cause di prelazione (dare priorità ai debiti che sarebbero comunque prioritari in fallimento, come stipendi, contributi, tasse, può essere un criterio prudente) . Va ricordato che, se successivamente la società accede a un concordato o omologa un piano attestato, gli atti compiuti in esecuzione di quel piano autorizzato non costituiranno reato di bancarotta preferenziale . Ciò rappresenta un incentivo per l’amministratore a operare sempre nel solco di un piano formalizzato e autorizzato: ad esempio, se in concordato si prevede di pagare integralmente i fornitori strategici e zero gli altri, tale scelta non sarà punibile perché approvata dai creditori stessi nel piano. Diversamente, se la stessa cosa avviene prima del concordato, su iniziativa unilaterale dell’amministratore e senza base pianificatoria, potrebbe integrare un’ipotesi di pagamento preferenziale revocabile e sanzionabile.

Infine, occorre considerare la posizione dei soci e la forma giuridica della società in crisi, perché da essa dipende l’estensione della responsabilità ai patrimoni personali. Distinguendo i casi principali:

  • In una ditta individuale (imprenditore persona fisica), non vi è separazione tra patrimonio dell’impresa e personale: tutti i beni presenti e futuri dell’imprenditore rispondono dei debiti (art. 2740 c.c.). Questo significa che il creditore può indifferentemente aggredire i conti personali o aziendali, gli immobili personali, ecc., eventualmente nei limiti delle impignorabilità previste (ad es. la casa di abitazione del debitore persona fisica non è protetta di per sé, salvo rientri in un fondo patrimoniale valido o altri strumenti, ma questi esulano da questa trattazione). Dunque, per un imprenditore individuale indebitato non esiste distinzione: “difendersi” dai debiti coincide col difendere i propri beni, e l’unica chance di liberarsi è eventualmente la procedura di liquidazione controllata del sovraindebitato e la successiva esdebitazione a fine procedura (se concessa, cancella i debiti residui).
  • Nelle società di persone (come la S.n.c. – società in nome collettivo – o la S.a.s. – società in accomandita semplice), vige un’autonomia patrimoniale imperfetta: la società non ha personalità giuridica, e almeno alcuni soci rispondono illimitatamente dei debiti sociali. In particolare, in una S.n.c. tutti i soci sono obbligati personalmente e solidalmente per le obbligazioni della società ; in una S.a.s., i soci accomandatari (amministratori) rispondono illimitatamente, mentre gli accomandanti sono limitatamente responsabili solo fino al capitale conferito (purché non interferiscano nella gestione, altrimenti perdono il beneficio). Ciò comporta che se la società di persone non paga, i creditori – dopo aver escusso il patrimonio sociale – possono rivolgersi direttamente ai soci illimitatamente responsabili per il pagamento integrale dei debiti rimanenti . Dal punto di vista difensivo, quindi, i soci di una S.n.c. o gli accomandatari di una S.a.s. non possono evitare di mettere in gioco il proprio patrimonio personale: conviene loro cercare di prevenire il tracollo aziendale esattamente come farebbero per proteggere i propri beni. In caso di insolvenza grave, inoltre, la legge fallimentare prevede l’estensione del fallimento dai soci illimitatamente responsabili alla società e viceversa (art. 147 l.fall. previgente): se fallisce la società di persone, falliscono di diritto anche tutti i soci illimitatamente responsabili, e se fallisce un socio illimitatamente responsabile, il tribunale può dichiarare anche il fallimento della società. Il Codice della crisi mantiene questa regola (art. 256 CCII). Questo evidenzia che per i soci di persone l’esito peggiore (fallimento) ha effetti doppi: coinvolge società e persone fisiche con unico procedimento. L’unica parziale tutela per tali soci è il beneficio di escussione: i creditori sociali devono prima aggredire i beni sociali e solo se questi non sono sufficienti passare ai beni personali dei soci. Ma se l’insufficienza è conclamata (come in un fallimento), i soci pagano. Dunque, un socio di S.n.c. indebitata ha come unica difesa salvare la società, oppure cercare un accordo anche a titolo personale con i creditori (talvolta si fanno transazioni in cui i soci pagano parte dei debiti con patrimonio proprio in cambio della liberazione, oppure costituiscono garanzie personali per ottenere dilazioni). In caso di concordato preventivo presentato da una società di persone, i soci illimitatamente responsabili vengono di regola coinvolti nell’accordo e spesso devono contribuire con il loro patrimonio per ottenere l’approvazione dei creditori (ad esempio, conferendo beni personali nel piano concordatario per aumentare la percentuale di soddisfazione). Se rifiutano, il concordato rischia di non essere approvato dai creditori.
  • Nelle società di capitali (S.r.l., S.p.A.), vige l’autonomia patrimoniale perfetta: la società è persona giuridica distinta e risponde dei debiti solo col proprio patrimonio, i soci non ne rispondono (art. 2462 c.c. per le S.r.l.) . Anche gli amministratori, in linea generale, non sono obbligati verso i creditori sociali se non nei casi eccezionali di cui si è detto. Dunque, un socio di S.r.l. o di S.p.A. non rischia direttamente i propri beni personali per i debiti aziendali. Vi sono però varie eccezioni e situazioni pratiche da considerare: (1) Fideiussioni e garanzie personali: molto spesso nelle PMI i soci o amministratori firmano garanzie a favore di banche o fornitori (si pensi alle fideiussioni bancarie su finanziamenti, rilasciate dai soci al 100% nelle piccole società). In tal caso, il garante risponde esattamente come se fosse debitore principale: se la società non paga, la banca potrà attaccare direttamente la casa del socio garante. Questa responsabilità deriva dal contratto di garanzia, non dal diritto societario, ma di fatto vanifica la separatezza patrimoniale. (2) Finanziamenti dei soci postergati: quando i soci di una S.r.l. finanziano la società in crisi anziché ricapitalizzarla, la legge (art. 2467 c.c.) posterga il loro credito rispetto agli altri creditori . Ciò significa che, in caso di insolvenza, i soci non possono pretendere indietro quei prestiti finché prima non siano soddisfatti tutti gli altri creditori. Inoltre, se nei 24 mesi precedenti la liquidazione la società ha rimborsato finanziamenti ai soci in violazione dell’art. 2467, il curatore può chiederne la restituzione ai soci. Questa norma non fa rispondere i soci dei debiti altrui, ma impedisce loro di recuperare prima degli altri il proprio denaro e di fatto tutela i creditori terzi. (3) Liquidazione e distribuzioni ai soci: come anticipato, se una società di capitali viene posta in liquidazione e poi cancellata, i creditori insoddisfatti possono agire contro i soci fino a concorrenza di quanto questi hanno eventualmente ricevuto in sede di bilancio finale di liquidazione (art. 2495 c.c.). Ad esempio, se prima di chiudere la S.r.l. i soci si sono assegnati l’ultimo denaro in cassa, e dopo la chiusura spunta un debito non pagato, i soci dovranno restituire quel denaro per pagare il creditore . Inoltre, se il liquidatore ripartisce attivo ai soci lasciando tributi o contributi insoluti, può incorrere nella responsabilità di cui all’art. 36 DPR 602/73 (già menzionato) e norme affini: in sostanza, il Fisco può chiedere ai soci la quota di imposte non pagate fino a concorrenza di quanto incassato in liquidazione . (4) Gestione illecita o fraudolenta: in casi estremi, quando la società è stata solo una facciata per attività personali dei soci, tanto da configurare un abuso di personalità giuridica, la giurisprudenza (seppur raramente) può arrivare a disporre il “piercing of the corporate veil”, ossia a considerare i soci illimitatamente responsabili come se fossero una società di persone. Questo accade ad esempio se si prova che la società era sottocapitalizzata in modo doloso, usata per accumulare debiti e poi svuotata (frode ai creditori): in tali circostanze i soci potranno essere ritenuti responsabili verso i creditori per abuso di forma societaria . La Cassazione nel 2023 ha ammesso, in un caso, un’azione di responsabilità contro ex soci che avevano tratto indebito vantaggio da operazioni societarie a danno dei creditori . Ciò sta a indicare che, pur in assenza di un’espressa norma generale sul “veil piercing” in Italia, i giudici possono comunque sanzionare i soci che si siano arricchiti a scapito dei creditori (ad esempio prelevando utili fittizi, remunerazioni eccessive, ecc. prima del crac) facendogli restituire quelle somme. Tuttavia, queste sono situazioni limite.

In definitiva, il miglior modo per un socio di società di capitali di tutelarsi è fare in modo che la società non arrivi a stadi irreversibili di insolvenza. Finché la crisi è gestibile, il socio può immettere capitali, negoziare accordi coi creditori (anche offrendo garanzie personali circoscritte, come un’ipoteca su un suo immobile per ottenere più tempo) e risanare l’azienda; se invece tutto precipita, il socio di S.r.l. potrà perdere il valore della quota ma in genere salverà il resto dei propri beni (salvo i casi di eccezione detti), mentre il socio di S.n.c. rischierà di perdere tutto. Vale quindi il principio generale: chi gode del beneficio della responsabilità limitata deve usarlo correttamente, senza trasformarlo in uno schermo per operare in modo spericolato. La legge offre la protezione del patrimonio personale, ma la revoca quando emergono abuso o gravi violazioni dei doveri legali .

Riassumendo le differenze di responsabilità patrimoniale nelle varie forme d’impresa:

  • Ditta individuale: nessuna separazione – l’imprenditore risponde sempre con tutti i suoi beni (art. 2740 c.c.).
  • Società di persone (S.n.c., accomandatari di S.a.s.): responsabilità illimitata e solidale dei soci – i soci rispondono dei debiti sociali con tutto il patrimonio personale (art. 2291 c.c.) ; nei limiti, prima si escute la società.
  • Società di capitali (S.r.l., S.p.A.): responsabilità limitata – soci (e di regola amministratori) non rispondono dei debiti sociali salvo eccezioni (fideiussioni, versamenti ricevuti in liquidazione, atti illeciti, ecc.) .
  • Soci accomandanti di S.a.s.: responsabilità limitata al conferimento (salvo ingerenza nella gestione).
  • Amministratori: nessuna responsabilità diretta per i debiti (il debitore è la società) tranne in caso di violazioni dei doveri gestori che causino danni ai creditori (azione ex art. 2394 c.c.) o specifiche previsioni di legge (debiti tributari e contributivi in caso di liquidazione scorretta , sanzioni personali, reati).
  • Liquidatori: tenuti a rispettare l’ordine dei privilegi nel pagare i creditori; se violano la prelazione (es. pagano chirografari lasciando impagate imposte dovute) rispondono verso l’Erario nei limiti di quanto pagato male, e verso i creditori eventualmente per il danno.

A seguire, presentiamo una tabella riepilogativa dei principali strumenti di risanamento visti sopra, con indicazione sintetica delle modalità di accesso, dei vantaggi per l’imprenditore-debitore e dei possibili svantaggi o rischi di ciascuno.

Tabella riepilogativa degli strumenti di risanamento:

StrumentoAccesso (chi/come)Vantaggi per il debitoreSvantaggi / Rischi
Composizione negoziataIstanza volontaria via CCIAA (Camere Commercio); nomina di un esperto indipendente.– Procedura riservata (non pubblica) e flessibile, senza spossessamento.<br>– Possibilità di ottenere misure protettive dal tribunale (blocco di fallimenti e pignoramenti).<br>– Nessuna omologa giudiziale richiesta per gli accordi: rapidità.<br>– Può includere transazione fiscale/contributiva con abbattimento di imposte e contributi dovuti .– Richiede la cooperazione volontaria dei creditori: gli accordi hanno effetto solo per chi li firma (non vincola i dissenzienti).<br>– Nessuna certezza di riduzione del debito: dipende dalle trattative (nessuno sconto “automatico”).<br>– Può fallire se i creditori sono troppo frammentati o ostili (in tal caso si dovrà ripiegare su concordato).
Piano attestato di risanamentoAtto unilaterale del debitore, con relazione di un professionista attestatore; deposito per pubblicità (Registro Imprese).Rapido e autonomo: nessun intervento del tribunale, massima riservatezza (si pubblica solo l’attestazione finale).<br>– Conferisce tutela legale a pagamenti e atti previsti dal piano (esenzione da revocatorie e da responsabilità penale di bancarotta) .<br>– Può essere modulato su misura e aggiornato se necessario.Volontario: i creditori non sono obbligati ad aderire, quindi il successo dipende dal loro accordo di fatto.<br>– Esecuzione non garantita: se uno o più creditori rifiutano le soluzioni proposte, il piano resta sulla carta.<br>– Richiede comunque risorse per attuarlo: se mancano liquidità o asset da vendere, rimane lettera morta (l’attestatore deve poter dichiarare la fattibilità economica).
Accordo di ristrutturazioneNegoziazione privata con creditori chiave; adesione di ≥ 60% dei crediti; ricorso in tribunale per omologazione.– Consente una ristrutturazione consensuale dei debiti con effetto vincolante anche sui creditori minoritari (una volta omologato) .<br>– Include il Fisco: possibile transazione fiscale, e il tribunale può superare un eventuale dissenso irragionevole del Fisco (Cass. SU 8504/2021) .<br>– Meno pubblicità negativa: rispetto al concordato, fino all’omologa il procedimento può restare riservato (si può chiedere la riservatezza dell’accordo depositato).Procedura complessa: occorre preparare documentazione simile a quella di un concordato (piano, attestazione) e l’iter di omologa in tribunale.<br>– Necessita di una larga base di consenso: se il 60% non è raggiungibile, lo strumento non è utilizzabile. I creditori piccoli e dissenzienti non aderiscono spontaneamente e potrebbero fare azioni disturbo prima dell’omologa.<br>– Tempi non brevissimi: tra trattative, adesioni formali e omologa possono passare mesi; nel frattempo, serve tutelarsi con misure protettive (che vanno chieste al tribunale).
Concordato preventivoRicorso al tribunale (anche con riserva per presentare poi il piano); fase di ammissione, voto dei creditori e omologazione giudiziale.– Strumento onnicomprensivo: consente di affrontare tutti i debiti contemporaneamente in modo vincolante.<br>– Possibilità di falcidia generale dei debiti chirografari e di rimodulare quelli privilegiati (entro limiti di legge), con eventuale esdebitazione finale del sovra-indebito.<br>– “Cram down fiscale” attuabile: possibile omologa forzosa nonostante il dissenso di Agenzia Entrate/INPS, se il piano è conveniente per loro .<br>– Continuità aziendale: se in concordato in continuità, l’azienda può proseguire l’attività (direttamente o indirettamente) salvando avviamento e posti di lavoro.<br>– Automatic stay: tutela immediata dal day-one (nessun creditore può agire autonomamente).Costoso e lungo: richiede consulenti, attestatore, pagamento di contributi di procedura, e può durare 1-2 anni tra tutto.<br>– Esito incerto: subordinato al voto dei creditori. L’approvazione necessita maggioranze (per teste e per classi se previste) e successiva valutazione del giudice .<br>– Perdita di controllo: gli amministratori conservano la gestione ma sotto controllo del commissario e del giudice; in caso di concordato liquidatorio possono addirittura essere sostituiti dal commissario-liquidatore post omologa. Inoltre decisioni strategiche richiedono ok del GD.<br>– Se il concordato fallisce (non ammesso, non votato o non omologato) porta quasi inevitabilmente al fallimento.
Liquidazione giudizialeRicorso di creditore, debitore o d’ufficio; sentenza dichiarativa di insolvenza (requisiti dimensionali se impresa minore).– Permette una chiusura ordinata dell’impresa sotto controllo giudiziario, evitando iniziative disorganizzate dei singoli creditori.<br>– Solleva l’imprenditore dalla gestione: subentra il curatore che amministra il patrimonio e ripartisce secondo legge, evitando favoritismi.<br>– Al termine, l’imprenditore persona fisica può ottenere l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui) se ha collaborato e non ci sono stati illeciti.<br>– Soddisfa i creditori secondo giustizia, in proporzione e secondo i gradi di privilegio, evitando la “corsa al bene” individuale.– È la soluzione più traumatica: l’azienda viene spossessata e di fatto cessa di esistere come attività (a meno di esercizio provvisorio temporaneo).<br>– Patrimonio liquidato interamente: possono essere venduti all’asta tutti i beni, macchinari, immobili, anche a valori di realizzo bassi, con danno per i soci.<br>– Reputazione devastante: la dichiarazione di fallimento comporta pubblicità negativa, perdita di fiducia sul mercato, esclusione da contratti pubblici, etc. per l’azienda e i suoi esponenti.<br>– Conseguenze personali: gli amministratori vengono spesso coinvolti in azioni di responsabilità o procedure penali (bancarotta) qualora emergano irregolarità; l’imprenditore può subire restrizioni (interdizione a esercitare nuova impresa, etc.). In sintesi è l’“ultima spiaggia” da evitare finché possibile .

Come si evince dalla tabella, ogni strumento ha pro e contro. La chiave di successo è saper valutare la gravità della crisi e scegliere lo strumento adatto: usare soluzioni leggere (piani, accordi) per crisi gestibili e riservare le procedure più complesse (concordato) alle situazioni più compromesse, evitando di arrivare alla liquidazione giudiziale.

Domande frequenti (Q&A)

D: Quando è obbligatorio attivare una procedura di allerta o concorsuale?
R: Non esiste una scadenza perentoria uguale per tutti, ma gli amministratori hanno il dovere di attivarsi tempestivamente al manifestarsi di determinati indizi di crisi. Il Codice della crisi (artt. 13-14 CCII) richiede agli amministratori di “verificare la sussistenza dell’equilibrio economico-finanziario” e di segnalare senza indugio ai soci lo stato di difficoltà . Alcuni indicatori tipici che rendono necessario intervenire sono: perdite di esercizio rilevanti (ad esempio perdite superiori a oltre 1/3 del capitale nelle società di capitali, che obbligano per legge a provvedimenti ai sensi degli artt. 2446-2447 c.c.), insoluti ripetuti verso banche o fornitori, ritardi consistenti nei pagamenti di imposte o stipendi, utilizzo costante di risorse straordinarie per la liquidità (es. anticipare ordini futuri per pagare debiti scaduti). Quando emergono questi segnali, è prudente chiedere subito una consulenza a esperti di crisi aziendale e considerare l’adozione di uno strumento di risanamento. In alcuni casi (come la perdita del capitale sociale oltre i limiti legali), l’intervento è addirittura obbligatorio: se la società non ricapitalizza o non riduce il capitale, gli amministratori devono per legge portare la società a liquidazione ordinaria. Ignorare i segnali di insolvenza può aggravare la situazione e, come visto, esporre gli amministratori a responsabilità personali per gestione non diligente.

D: Cosa accade se si ignorano i segnali di insolvenza e si continua ad accumulare debiti?
R: In genere accade che qualche creditore perde la pazienza e inizi azioni legali. Se l’impresa non reagisce, uno o più creditori (tipicamente banche, fornitori grossi o l’Erario) possono presentare ricorso per la liquidazione giudiziale (il fallimento). Il tribunale, accertato che l’azienda è insolvente, la dichiarerà fallita: da quel momento, l’imprenditore perde la gestione (subentra il curatore) e tutti i creditori partecipano al concorso (ognuno vede il proprio credito trasformato in una “frazione” del passivo da ripartire) . Le conseguenze per l’imprenditore-debitore sono generalmente negative: la procedura concorsuale liquida i beni aziendali spesso a valori ridotti e distribuisce somme parziali, dopodiché i debiti residui rimangono insoddisfatti (salvo esdebitazione per le persone fisiche, ottenibile solo a certe condizioni). Inoltre, come detto, gli amministratori che hanno ignorato i segnali potrebbero essere citati dal curatore o dai creditori per rispondere di aver aggravato il passivo . In sintesi, l’inerzia porta quasi sempre all’insolvenza conclamata e al fallimento, con esiti spesso sfavorevoli per l’imprenditore (che perde l’azienda, subisce danni reputazionali e rischia cause di responsabilità). Ecco perché la nuova normativa spinge molto sulla prevenzione: meglio attivare per tempo una procedura concordata (negoziazione, accordo, ecc.) piuttosto che aspettare il precipitare degli eventi.

D: Come vengono pagati i debiti fiscali e contributivi se l’azienda fallisce?
R: In caso di liquidazione giudiziale (fallimento), tutti i debiti sorti prima del fallimento diventano crediti concorsuali e devono essere soddisfatti secondo l’ordine dei privilegi stabilito dalla legge. I debiti tributari e contributivi rientrano anch’essi nel concorso: tipicamente, godono di privilegio generale (ad esempio IVA, ritenute e contributi non versati hanno privilegi sui mobili aziendali, ex artt. 2752 e 2753 c.c.) e quindi vengono collocati prima dei crediti chirografari ordinari . Tuttavia, non tutti i debiti fiscali saranno pagati integralmente: dipende dall’attivo disponibile. L’Erario e l’INPS partecipano al riparto in base al loro grado: prima si pagano le spese di procedura, poi eventualmente taluni crediti prededucibili, poi i crediti privilegiati (tra cui appunto tributi e contributi) in proporzione. Nella pratica, spesso Erario e INPS recuperano solo una percentuale del loro credito, perché l’attivo non basta a coprire tutto . Ad esempio, se l’azienda fallisce con 100 di attivo e ci sono 120 di crediti privilegiati (tra cui 50 di fisco e 20 di INPS) e 200 di chirografari, i 100 vanno solo ai privilegiati (in quota, magari 42 al fisco, 17 all’INPS, ecc.) e i chirografari prendono zero. Va detto che alcuni crediti tributari particolari godono di super-priorità: in cima ci sono l’IVA e le ritenute non versate, considerate crediti prededucibili se afferenti strettamente al fallimento? (in realtà, IVA e ritenute hanno privilegio speciale su beni mobili e immobili specifici). Inoltre, i debiti verso dipendenti (stipendi) e alcune spese di giustizia vengono prima di fisco e contributi. Dunque, fisco e INPS nel fallimento prendono il loro posto: spesso parziale soddisfazione, talvolta nulla se l’attivo è molto basso. Al contrario, se l’azienda avvia un concordato preventivo, ha la chance di trattare diversamente i debiti fiscali e contributivi: può proporre di pagarli in modo dilazionato o parziale tramite transazione fiscale, evitando di doverli saldare immediatamente come invece avverrebbe coi privilegi in fallimento . In sintesi: nel fallimento fisco e contributi vengono pagati insieme agli altri privilegiati secondo i gradi di legge; nel concordato, il debitore può proporre un piano e se questo offre comunque al fisco quanto avrebbe dal fallimento, il tribunale può imporglielo.

D: Quali creditori vengono pagati per primi in una liquidazione giudiziale?
R: L’ordine di priorità è determinato dagli articoli 111 e 112 del Codice della crisi (corrispondenti agli ex artt. 111 e 111-bis l.fall.). In estrema sintesi, i creditori sono pagati così : 1. Spese di procedura in prededuzione: compensi del curatore, spese legali e amministrative del fallimento, crediti sorti per continuare l’esercizio provvisorio, ecc. Hanno precedenza assoluta (vengono prima di ogni altro). 2. Crediti privilegiati di primo grado: rientrano qui alcune categorie particolari, ad esempio i crediti verso lo Stato per ritenute fiscali operate sui dipendenti e non versate e i crediti verso INPS per contributi trattenuti ai lavoratori. Inoltre, sempre in alto vi sono le retribuzioni dei dipendenti degli ultimi mesi e i relativi contributi (entro certi limiti) – spesso sono considerati prededucibili o super-privilegiati per ragioni sociali . 3. Crediti sorti dopo l’apertura del fallimento (prededucibili per legge, come forniture al curatore): questi in realtà sono spesso equiparati alle spese di procedura. 4. Crediti con privilegio generale su mobili: qui rientrano i salari dei lavoratori (intero credito, ma con grado dopo i super-privilegi dei punti 2), i contributi previdenziali maturati prima del fallimento, alcuni tributi come imposte immobiliari, ecc. 5. Crediti con privilegio speciale su determinati beni: es. credito della banca ipotecaria su un immobile (ipoteca), credito del leasing su un macchinario con patto di riserva, ecc. Questi saranno soddisfatti con precedenza sul ricavato di quei beni specifici (ipotecari sul prezzo dell’immobile, pignoratizi su beni mobili dati in pegno, etc.). 6. Crediti chirografari (senza privilegio): comprendono i fornitori non garantiti, le banche per la parte non coperta da garanzie, eventuali debiti fiscali residuali non coperti da privilegio (ad es. sanzioni e interessi, o imposte non privilegiate come IRES oltre privilegio) , e in generale tutti i crediti non muniti di causa di prelazione.

Entro ciascuna categoria, se l’attivo non basta, si paga proporzionalmente. I dipendenti hanno un trattamento di favore: per le ultime retribuzioni (di solito fino a 3 mensilità, o come detto 60 giorni secondo alcune interpretazioni ) c’è un privilegio di prim’ordine; per il resto degli stipendi e TFR c’è privilegio generale. Cosicché, i lavoratori recuperano di norma gran parte del dovuto (anche grazie all’intervento del Fondo di Garanzia INPS per TFR e ultime 3 mensilità). Al contrario, i fornitori chirografari spesso recuperano solo una piccola percentuale, se qualcosa. Dal punto di vista di un amministratore in crisi, conoscere quest’ordine è utile: ad esempio, onorare prima i debiti verso i dipendenti e verso l’erario per ritenute può essere non solo eticamente corretto ma anche giuridicamente giustificabile se poi si arriva al concorso (perché quei creditori erano privilegiati) . Viceversa, pagare prima un fornitore chirografario trascurando l’INPS potrebbe essere visto come atto in frode.

D: I soci di una S.r.l. rispondono personalmente dei debiti della società?
R: In linea generale, no. La caratteristica principale delle società di capitali è proprio la responsabilità limitata dei soci: i creditori sociali possono rivalersi solo sul patrimonio della società, non su quello dei singoli soci (art. 2462 c.c.) . Dunque, se una S.r.l. che produce sollevatori a vuoto fallisce con un attivo insufficiente, i fornitori o le banche non possono pretendere dai soci il pagamento del residuo. Esistono però alcune eccezioni importanti: – Fideiussioni personali o garanzie dei soci: se i soci (o l’unico socio) hanno garantito i debiti sociali con atti contrattuali (ad es. firme di garanzia verso banche, o ipoteche su beni personali a garanzia di mutui aziendali), allora quei soci saranno tenuti a pagare entro i limiti della garanzia. Questa non è una “responsabilità da socio” in senso tecnico, ma un obbligo da contratto di garanzia: molto comune nelle PMI, di fatto rende il socio un co-debitore del debito garantito. – Distribuzioni indebite ai soci in liquidazione: se i soci hanno ricevuto attivi in fase di liquidazione lasciando debiti insoddisfatti, i creditori possono chiedere a ciascun socio la restituzione di quanto ricevuto (nei limiti di quanto necessario a pagare quei debiti). Ad esempio, se un socio ha incassato €10.000 dal bilancio finale e poi emergono €8.000 di debiti non pagati, quel socio può dover restituire €8.000 per saldarli . Questa è una responsabilità “postuma” prevista dall’art. 2495 c.c. – Casi di abuso o illecito: se i soci (specie quelli di controllo) hanno di fatto diretto la società in modo fraudolento o abusivo, potrebbero emergere azioni di responsabilità anche verso di loro. Ad esempio, la Cassazione ha ammesso un’azione contro ex soci che avevano svuotato la società a loro vantaggio, danneggiando i creditori . Inoltre, se un socio amministratore di fatto ha preso decisioni gestionali rovinose, può rispondere come amministratore. – Obblighi di legge specifici: come detto, alcune norme fiscali e contributive prevedono che, se i debiti tributari/previdenziali non sono pagati dalla società in certe situazioni, possano essere chiamati in causa soci o amministratori. Un caso è l’obbligo del liquidatore di pagare prima le imposte dovute: se viola questo obbligo, ne risponde personalmente verso il Fisco (art. 36 DPR 602/73) . Il socio di per sé no, ma se egli era anche liquidatore, sì.

In sintesi, il socio di una S.r.l. che non abbia prestato garanzie personali e non abbia commesso illeciti non deve pagare i debiti sociali. Il rischio economico per lui si limita a perdere il capitale investito nella società (quote o azioni divenute prive di valore). Tuttavia, va sottolineato che questa immunità patrimoniale del socio va di pari passo con un dovere di comportamento corretto: se i creditori riescono a dimostrare che il socio unico o di maggioranza ha gestito l’azienda come un “bancomat personale”, prelevando utili indebiti o lasciando che la società si indebitasse oltre ogni limite senza intervenire, potrebbero cercare rimedi giudiziari straordinari. Sono casi rari, ma possibili. Dunque, da un lato il socio di capitali è al riparo dai creditori (neppure il Fisco può chiedergli i tributi sociali non versati – la Cassazione lo ha ribadito, salvo specifiche violazioni di legge ), dall’altro lato non deve abusare di questo scudo. Il miglior consiglio per un socio è: prevenire la crisi attivandosi per tempo (ad esempio finanziando la società o cercando investitori) e rinunciare a benefici personali (come dividendi o rimborsi di finanziamenti soci) se l’azienda è in difficoltà, perché tali benefici potrebbero poi essere revocati o fonte di contestazioni. In fin dei conti, proteggere la società dai debiti è la strada maestra per proteggere se stessi come soci.

D: Come ci si deve comportare con i fornitori durante la crisi?
R: Il comportamento migliore è mantenere un dialogo aperto e onesto. Appena si percepisce che l’azienda fatica a pagare con puntualità, è opportuno informare i fornitori strategici della situazione (senza creare allarmismi inutili, ma in modo trasparente) e proporre soluzioni prima che siano loro a prendere iniziative legali. Ad esempio, se si prevede di saltare qualche pagamento, si può proporre un piano di rientro dilazionato, magari offrendo in garanzia cambiali o effetti; oppure concordare di ridurre temporaneamente le forniture per non accumulare ulteriore debito. Questo approccio cooperativo spesso convince i fornitori a concedere più tempo o condizioni più favorevoli, perché anche loro hanno interesse a mantenere il rapporto commerciale. In un piano concorsuale (accordo di ristrutturazione o concordato) sarà poi necessario classificare i fornitori tra i creditori chirografari e offrire loro una certa percentuale di pagamento (o dilazione): qui è importante negoziare il consenso dei principali fornitori prima di finalizzare il piano. Di solito i fornitori vengono messi tutti in una classe nel concordato e votano come gruppo: se la maggioranza (per credito) accetta la proposta, anche la minoranza dissenziente è vincolata . Quindi, l’imprenditore deve puntare a soddisfare almeno in parte i fornitori, mostrando che il piano offre loro più di quanto otterrebbero nel fallimento (che spesso è zero), così da motivarli a votare sì. Attenzione: se alcuni fornitori si mostrano totalmente intransigenti e pretendono integralmente il dovuto minacciando azioni legali, l’imprenditore può valutare di “forzare la mano” con uno strumento concorsuale: ad esempio, presentando un concordato con classi separate, si potrebbe “inglobare” quei fornitori in una classe di chirografari che verrebbe comunque tagliata a maggioranza, bypassando il loro veto. Ovviamente deve trattarsi di creditori non essenziali, altrimenti l’azienda rischia di perdere forniture vitali. In ogni caso, non bisogna farsi soggiogare da richieste individuali troppo onerose: tutti i creditori vanno trattati equamente (par condicio). Se un singolo fornitore pretende condizioni eccessive (es. pagamento integrale anticipato di vecchi debiti come condizione per continuare a fornire), l’azienda deve valutare soluzioni alternative (cambiare fornitore, oppure ricorrere al tribunale per protezione temporanea). Un concordato ben congegnato può aiutare anche in questo: dall’apertura della procedura, i contratti essenziali possono proseguire (il fornitore non può risolverli solo perché c’è il concordato, se sono essenziali per l’attività autorizzata in continuità) e i vecchi debiti restano congelati e verranno pagati nei termini del piano . In conclusione: mantenere la fiducia dei fornitori è prioritario – se credono nel risanamento dell’azienda, saranno più propensi a sostenervi; se invece si sentono ingannati o trascurati, saranno i primi a farvi fallire con un’azione legale.

D: Esistono “piani B” alternativi al fallimento, come la liquidazione controllata o amministrazioni straordinarie?
R: Sì, l’ordinamento italiano prevede anche procedure speciali per particolari situazioni. La liquidazione controllata è una procedura concorsuale prevista dal Codice della crisi per i debitori non fallibili (piccole imprese sotto soglia, imprenditori agricoli, consumatori, professionisti): è l’equivalente del “fallimento” per il sovraindebitamento. Ad esempio, un artigiano o una società di piccole dimensioni che non supera i parametri dell’art. 2 CCII non può essere dichiarato in liquidazione giudiziale, ma se insolvente può essere messo in liquidazione controllata su richiesta sua o di un creditore . Questa procedura si svolge davanti al tribunale, con nomina di un liquidatore, e mira a liquidare il patrimonio con modalità semplificate. È richiesto però un minimo di €50.000 di debiti scaduti per attivarla , altrimenti se il debito è più modesto si lasciano i creditori alle loro azioni individuali. La liquidazione controllata può essere vista come un “piano B” perché consente, anche a chi non può accedere al concordato (magari per costi), di avere comunque una gestione unitaria del dissesto e poi chiedere l’esdebitazione (disponibile anche qui). D’altro canto, è pur sempre una procedura di liquidazione concorsuale – quindi comporta la cessazione dell’attività e la vendita dei beni, sotto il controllo di un commissario nominato dal giudice . Potrebbe essere utile ad esempio per un piccolo imprenditore che voglia evitare il far-west delle esecuzioni dei singoli creditori: chiedendo la liquidazione controllata si fermano i pignoramenti e si realizza un concorso ordinato dei creditori. Un’altra procedura speciale è l’Amministrazione Straordinaria delle Grandi Imprese in Crisi (d.lgs. 270/1999, “legge Prodi-bis” e successive modifiche): riservata alle imprese di dimensioni notevoli (di regola con almeno 200 dipendenti e indebitamento oltre certe soglie) che abbiano prospettive di recupero industriale. In amministrazione straordinaria, l’impresa insolvente non viene liquidata subito ma affidata a commissari governativi che tentano la ristrutturazione o la cessione dei complessi aziendali, con l’obiettivo di salvaguardare la continuità produttiva e i livelli occupazionali (è la procedura usata, ad esempio, per casi come Alitalia, ILVA, etc.). Questa non è applicabile alla tipica azienda di sollevatori a vuoto (che di rado avrebbe quelle dimensioni), ma è un ulteriore “piano B” previsto dall’ordinamento per casi eccezionali in cui il fallimento potrebbe avere ripercussioni sociali molto gravi . Infine, segnaliamo la figura del concordato minore (ex L. 3/2012): una specie di concordato preventivo semplificato per piccoli imprenditori non fallibili, e la ristrutturazione dei debiti del consumatore (per i privati non imprenditori), ma si esula dal tema aziendale. In conclusione, oltre ai percorsi standard, esistono procedure ad hoc per situazioni particolari: la liquidazione controllata per i piccoli, l’amministrazione straordinaria per i grandi. Queste possono essere considerate in quei contesti invece di un fallimento classico. L’importante è che l’imprenditore ne sia consapevole e, se rientra nei requisiti, le valuti con un professionista prima di arrendersi al peggio .

Principali fonti normative e giurisprudenziali

Abbiamo fatto riferimento, nel corso della guida, a diverse norme e sentenze chiave dell’ordinamento italiano. Ecco un riepilogo delle fonti normative e dei pronunciamenti giurisprudenziali più rilevanti utilizzati:

  • D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCI) – entrato in vigore definitivamente nel luglio 2022, è il testo fondamentale che disciplina composizione negoziata, concordato, liquidazione giudiziale, sovraindebitamento, ecc. (articoli citati: es. art. 2 sulle definizioni di crisi e insolvenza, art. 12-15 sulle condizioni e obblighi di segnalazione, art. 54-64 su piani attestati e accordi, art. 84-88 sul concordato preventivo, art. 121 sui presupposti di liquidazione giudiziale, art. 268-270 sulla liquidazione controllata, ecc.) .
  • R.D. 16 marzo 1942, n. 267Vecchia Legge Fallimentare (oggi abrogata, salvo alcune disposizioni transitorie). È citata a fini storici e di confronto, ad esempio per terminologia (fallimento) e per richiamare articoli come l’art. 67 (revocatorie) o l’art. 182-bis (accordi ristrutturazione) che hanno ispirato la normativa attuale .
  • D.L. 24 agosto 2021, n. 118 (conv. in L. 147/2021) – Decreto che ha introdotto la composizione negoziata della crisi e differito l’entrata in vigore del CCI. Ha istituito l’esperto indipendente, la piattaforma telematica, le misure protettive e il concordato semplificato. Molte previsioni di questo decreto sono confluite nel Codice della crisi (artt. 23-25 e seguenti CCI) .
  • Legge 27 gennaio 2012, n. 3 – Legge sul sovraindebitamento (composizione della crisi da sovraindebitamento) – Normativa che ha introdotto procedure concorsuali per debitori non fallibili (piano del consumatore, accordo di composizione, liquidazione del patrimonio). Tali istituti, in forma rivisitata, oggi sono nel Codice della crisi (Titolo IV), ma la L.3/2012 viene ancora richiamata per principi generali .
  • Cass., Sez. I civ., ord. 27 agosto 2025, n. 23963 – Rilevante pronuncia della Suprema Corte in tema di responsabilità dell’amministratore di S.r.l.. La Corte ha ribadito il dovere di diligenza e lealtà ex art. 2476 c.c., affermando la responsabilità personale dell’amministratore che abbia effettuato pagamenti preferenziali verso soggetti a lui collegati aggravando il dissesto . In particolare si è stigmatizzato il conflitto di interessi dell’amministratore che privilegia un creditore “particolare” a danno della massa (principio citato nella sezione sulla responsabilità).
  • Cass., Sez. I civ., 28 ottobre 2024, n. 27782 – Sentenza cardine sul “cram down fiscale” nel concordato preventivo . Ha stabilito che il tribunale può omologare il concordato anche in presenza di voto negativo dell’Amministrazione finanziaria (Erario) o degli enti previdenziali, se ricorrono gli altri presupposti di legge (soddisfazione non inferiore all’alternativa liquidatoria) . Ha chiarito l’interpretazione dell’art. 180 l.fall. (e corrispondenti del CCI) estendendo l’ambito del cram down.
  • Cass., Sez. Unite civ., 25 marzo 2021, n. 8504 – Sentenza delle Sezioni Unite che ha risolto un contrasto in materia di accordi di ristrutturazione dei debiti e dissenso del Fisco . Ha statuito che la contestazione sulla mancata adesione dell’erario a un accordo ex art. 182-bis l.fall. dev’essere decisa dal giudice fallimentare (ora tribunale delle imprese), non dal giudice tributario, confermando così la competenza dell’autorità concorsuale a valutare la convenienza della proposta per il Fisco. Questo ha di fatto anticipato il concetto di cram down fiscale poi recepito nelle norme.
  • Cass., Sez. I civ., 15 giugno 2023, n. 17103 – Pronuncia significativa (Sez. I) in tema di concordato preventivo in continuità e ruoli di giudice e creditori . Ha stabilito che spetta al giudice (già in fase di ammissione) verificare anche la fattibilità economica del piano e la completezza dell’attestazione, e che i creditori mantengono comunque la valutazione di convenienza sul piano . In pratica, il giudice può bloccare sul nascere un concordato manifestamente implausibile prima ancora del voto dei creditori. Questa sentenza viene richiamata anche per sottolineare la centralità del controllo di merito del tribunale sulle soluzioni proposte dal debitore, a tutela soprattutto dei creditori. Inoltre, nella nostra trattazione l’abbiamo citata come riferimento all’azione di responsabilità verso ex soci, ma a rigor di termini era focalizzata sul controllo di ammissibilità del concordato (abbiamo comunque incluso il riferimento fornito dalla fonte).

Le sopra citate fonti riflettono lo stato dell’arte aggiornato al 2025 della normativa concorsuale italiana. Esse mostrano un sistema in evoluzione, orientato a favorire – per quanto possibile – la continuità aziendale e la ricerca di soluzioni concordate anziché la chiusura e liquidazione, bilanciando però l’interesse pubblico (Fisco, lavoro) con quello privato dei creditori . Dal punto di vista del debitore imprenditore, oggi vi è una gamma di opzioni a disposizione più ampia di un tempo: il Codice della crisi, se correttamente utilizzato con l’aiuto di professionisti esperti, offre l’opportunità di difendersi da un eccesso di debiti adottando un percorso ragionato e spesso negoziale, anziché subire passivamente le azioni dei creditori e i provvedimenti autoritativi del tribunale . Naturalmente, resta fondamentale la tempestività: ogni rimedio funziona meglio se attuato quando l’azienda è ancora in grado di dare garanzie di risanamento. Un imprenditore di buona fede, informato dei propri diritti e doveri, che comunica onestamente con i creditori e si affida a un professionista specializzato in crisi d’impresa, massimizza le possibilità di salvare la propria azienda o quantomeno di uscirne limitando i danni personali. Questa guida ha illustrato i passaggi essenziali da compiere “quando le acque si agitano”: l’importante, per concludere, è non isolarsi e non arrendersi, ma utilizzare tutti gli strumenti giuridici e negoziali disponibili per gestire la crisi.

Fonti normative e giurisprudenziali utilizzate

  • D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (in vigore dal 15 luglio 2022).
  • R.D. 16 marzo 1942, n. 267 – Legge Fallimentare (abrogata dal Codice della crisi, mantenuta per riferimenti storici e transitori).
  • D.L. 24 agosto 2021, n. 118 – Introduzione della composizione negoziata della crisi (convertito in L. 147/2021) .
  • L. 27 gennaio 2012, n. 3 – Composizione delle crisi da sovraindebitamento (normativa per piccoli debitori non fallibili, integrata nel Codice della crisi) .
  • Cass. civ. Sez. I, ord. 27 agosto 2025, n. 23963 – Responsabilità dell’amministratore di S.r.l. per pagamenti preferenziali in conflitto di interessi .
  • Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2024, n. 27782 – Concordato preventivo e “cram down” fiscale: omologazione nonostante il voto negativo dell’Erario .
  • Cass. Sez. Unite, 25 marzo 2021, n. 8504 – Accordi di ristrutturazione e dissenso del Fisco: competenza del tribunale fallimentare, non del giudice tributario .
  • Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2023, n. 17103 – Dovere del giudice di valutare la fattibilità del concordato preventivo in continuità (responsabilità verso i creditori e controllo di ammissibilità) .

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Il settore dei sollevatori a vuoto è estremamente tecnico: pompe per vuoto costose, valvole, ventose speciali, strutture meccaniche, progettazione custom, normative severe e clienti che pagano spesso a 60–120 giorni. Basta poco per bloccare il flusso di cassa e precipitare in una crisi.

La buona notizia? La tua azienda può essere salvata, se intervieni subito e con la strategia giusta.


Perché un’Azienda di Sollevatori a Vuoto va in Debito

  • aumento dei costi di pompe, ventilatori, ventose, valvole, carpenterie e strutture portanti
  • pagamenti lenti da parte di industrie, vetrai, falegnamerie, metalmeccanici e contractor
  • magazzino immobilizzato tra ventose, pompe, telai, supporti e ricambi
  • costi elevati di installazione, collaudo, assistenza tecnica e certificazioni
  • investimenti in progettazione personalizzata, sicurezza e test
  • riduzione o revoca delle linee di credito bancarie

Il problema reale non è la mancanza di ordini, ma la mancanza di liquidità immediata.


I Rischi se non intervieni subito

  • pignoramento dei conti correnti aziendali
  • blocco dei fidi bancari
  • sospensione delle forniture di ventose, pompe e componenti critici
  • atti esecutivi, decreti ingiuntivi, precetti
  • sequestro di sollevatori, telai e ricambi
  • impossibilità di completare installazioni e manutenzioni
  • perdita di clienti strategici e contratti continuativi

Cosa Fare Subito per Difendersi

1. Bloccare immediatamente i creditori

Con l’aiuto di un avvocato specializzato puoi:

  • sospendere pignoramenti in corso
  • bloccare richieste aggressive di rientro
  • proteggere i conti correnti e la liquidità
  • interrompere le azioni dell’Agenzia Riscossione

Prima si mette in sicurezza la tua azienda, poi si lavora sulla ristrutturazione del debito.


2. Analizzare i debiti ed eliminare quelli non dovuti

Spesso nei debiti si trovano errori e irregolarità che possono alleggerire enormemente la situazione:

  • interessi non dovuti
  • sanzioni sbagliate o gonfiate
  • importi duplicati
  • debiti prescritti
  • errori nelle cartelle della Riscossione
  • commissioni bancarie anomale

Una parte consistente dei debiti può essere tagliata o cancellata.


3. Ristrutturare i debiti con piani sostenibili

Le soluzioni più efficaci includono:

  • rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
  • nuovi accordi con fornitori strategici
  • rinegoziazione delle linee di credito
  • sospensioni temporanee dei pagamenti
  • utilizzo delle definizioni agevolate quando disponibili

4. Attivare strumenti legali che bloccano TUTTI i creditori

Quando la situazione è più grave, puoi ricorrere a:

  • PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
  • Accordi di Ristrutturazione
  • Concordato Minore
  • (nei casi più estremi) Liquidazione Controllata

Questi strumenti permettono di continuare a operare pagando solo una parte dei debiti, con protezione totale dagli atti esecutivi.


Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo

Per salvare un’azienda di sollevamento vacuum servono competenze avanzate e mirate.
L’Avv. Monardo è:

  • Avvocato Cassazionista
  • Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento – negli elenchi ufficiali del Ministero della Giustizia
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  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)

Un profilo altamente qualificato per bloccare creditori, ristrutturare debiti e salvare aziende che producono o integrano sollevatori a vuoto.


Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo

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  • stop urgente dei pignoramenti
  • riduzione dei debiti non dovuti
  • ristrutturazione del debito con piani sostenibili
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  • trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
  • tutela completa dell’amministratore e dell’impresa

Conclusione

Avere debiti nella tua azienda di sollevatori a vuoto non significa essere destinati alla chiusura.
Con una strategia rapida, tecnica e perfettamente legale, puoi:

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