Azienda Di Elevatori A Tazze Con Debiti: Cosa Fare Per Difendersi E Come

Se la tua azienda produce, installa o distribuisce elevatori a tazze, nastri elevatori, catene, tazze in acciaio o plastica, motoriduttori, sistemi di carico/scarico, ricambi tecnici e soluzioni per il trasporto verticale di granuli, cereali, polveri e materiali sfusi, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è indispensabile intervenire subito per evitare blocchi produttivi e perdita di commesse strategiche.

Nel settore dei sistemi di movimentazione, un guasto o un ritardo nelle consegne può bloccare interi impianti alimentari, mangimifici, cementifici, industrie di processo o logistiche, generando penali, fermo impianto e danni economici considerevoli.

Perché le aziende di elevatori a tazze accumulano debiti

  • aumento del costo di acciaio, catene, tazze e componentistica meccanica
  • rincari di motoriduttori, cuscinetti, elettronica e materiali importati
  • pagamenti lenti da parte di industrie alimentari, agricole e chimiche
  • ritardi nei versamenti IVA, imposte e contributi
  • magazzini complessi con molte varianti di tazze, catene e accessori
  • difficoltà nell’ottenere fidi bancari adeguati ai cicli dei cantieri
  • elevati investimenti in montaggi, collaudi, manutenzioni e certificazioni

Cosa fare subito

  • far analizzare da un professionista l’intera posizione debitoria
  • individuare quali debiti possono essere contestati, ridotti o rateizzati
  • evitare piani di rientro insostenibili che soffocano la liquidità aziendale
  • richiedere la sospensione immediata di pignoramenti e procedure esecutive
  • proteggere rapporti con fornitori chiave di acciaio, catene, motoriduttori e ricambi
  • utilizzare strumenti legali per ristrutturare o rinegoziare i debiti senza bloccare lavorazioni e consegne

I rischi se non intervieni tempestivamente

  • pignoramento del conto corrente aziendale
  • blocco delle forniture di catene, tazze, motoriduttori e materiali critici
  • impossibilità di consegnare elevatori o completare installazioni in corso
  • perdita di clienti industriali e contractor del settore agroalimentare o di processo
  • rischio concreto di chiusura dell’attività

Come può aiutarti l’Avvocato Monardo

Detto questo, l’Avvocato Monardo, cassazionista, coordina un team nazionale di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario e tributario.
Inoltre è:

  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012)
  • inserito negli elenchi del Ministero della Giustizia
  • professionista fiduciario presso un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)

Può aiutarti concretamente a:

  • bloccare subito pignoramenti e atti esecutivi
  • ridurre o ristrutturare i debiti con gli strumenti più efficaci previsti dalla legge
  • ottenere rateizzazioni realmente sostenibili
  • proteggere macchinari, ricambi, materiali e continuità produttiva
  • accompagnare la tua azienda verso un vero risanamento, evitando la chiusura

Agisci ora

Le aziende non falliscono per i debiti, ma per il ritardo con cui agiscono.
Intervenire oggi significa salvare commesse, clienti, impianti e stabilità economica.

👉 La tua azienda è indebitata?
Richiedi subito una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo e metti in sicurezza la tua azienda di elevatori a tazze.

Introduzione

Un’azienda di “elevatori a tazze” indebitata (un’impresa manifatturiera specializzata in macchinari industriali) rappresenta un caso paradigmatico di crisi d’impresa. Quando i debiti superano la capacità di rimborso dell’azienda, il debitore – tipicamente una società di capitali (es. S.r.l.) o un imprenditore – deve sapere come difendersi legalmente dalle pretese dei creditori e quali strumenti giuridici può utilizzare per risanare o gestire la crisi. In Italia, il quadro normativo è stato rivoluzionato dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 14/2019), più volte modificato (da ultimo col D.lgs. 136/2024) per adeguarsi alle direttive UE e alle esigenze pratiche . Questa guida – dal taglio tecnico ma divulgativo – esamina le possibili strategie difensive dal punto di vista del debitore: dalle azioni per prendere tempo o contestare le richieste di pagamento, fino alle procedure di ristrutturazione del debito o, in extrema ratio, alla liquidazione concorsuale con eventuale esdebitazione (liberazione dai debiti residui). Si forniranno esempi pratici, domande e risposte ai dubbi più comuni, oltre a tabelle riepilogative di norme e soluzioni, il tutto aggiornato alle novità normative e giurisprudenziali al 2025. L’obiettivo è consentire a imprenditori, professionisti e privati di orientarsi tra le opzioni disponibili in Italia per fronteggiare una situazione debitoria grave, evitando errori e sfruttando i meccanismi di tutela offerti dalla legge.

Tipologie di debiti aziendali e relative conseguenze

Il primo passo per difendere un’azienda indebitata è capire quali debiti gravano sull’impresa e quali conseguenze derivano da ciascuna tipologia. Non tutti i creditori, infatti, hanno le stesse armi né lo stesso rango legale. Di seguito analizziamo le principali categorie di debito che un’azienda può accumulare – fiscali, previdenziali, bancari, verso fornitori e verso dipendenti – evidenziando per ognuna i rischi e le azioni tipiche del creditore. Conoscere il “nemico” è fondamentale per scegliere la difesa più efficace.

Debiti tributari (Erario e fisco)

I debiti fiscali includono imposte non versate (IVA, IRES, IRAP, ecc.) e tributi locali. In Italia, questi crediti sono fortemente tutelati dalla legge: l’Agenzia delle Entrate e gli enti di riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex Equitalia) possono agire in via amministrativa senza bisogno di una sentenza. In pratica, dopo la notifica di una cartella esattoriale o di un avviso di accertamento definitivo, il Fisco può iscrivere ipoteca sui beni immobili dell’azienda, disporre il fermo amministrativo sui veicoli o procedere a pignoramenti (di conti correnti, macchinari, crediti verso clienti) mediante un atto di precetto semplificato (l’intimazione di pagamento). Il tutto avviene in tempi relativamente brevi e con pochi margini di opposizione formale per il debitore. Inoltre, i debiti per imposte hanno spesso privilegio generale sui mobili del debitore e quindi precedenza nel pagamento rispetto ai crediti chirografari (senza garanzie) in caso di fallimento o liquidazione giudiziale. Un ritardo nel versamento di IVA o ritenute può comportare anche sanzioni e interessi elevati, aggravando l’esposizione.

Dal punto di vista difensivo, l’azienda debitrice ha alcune opzioni:
Rateizzazione amministrativa: prima che il debito sia iscritto a ruolo o comunque prima di misure esecutive stringenti, è possibile chiedere un piano di dilazione al concessionario della riscossione. La legge consente normalmente fino a 72 rate mensili (6 anni) o, per importi rilevanti e comprovata difficoltà finanziaria, fino a 120 rate (10 anni). Il rispetto del piano evita azioni esecutive fintanto che si paga regolarmente.
Definizioni agevolate e “rottamazioni”: negli ultimi anni il legislatore ha introdotto periodicamente provvedimenti di saldo e stralcio (ad esempio la rottamazione delle cartelle), che consentono di pagare il debito fiscale scontando sanzioni e interessi. È importante monitorare eventuali nuove norme (Leggi di Bilancio, decreti fiscali) che offrano chance di regolarizzazione agevolata.
Transazione fiscale nelle procedure concorsuali: se l’azienda intraprende una procedura di concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione omologato, può proporre al Fisco un trattamento dei crediti tributari falcidato (parziale) e dilazionato, tramite la cosiddetta transazione fiscale (prevista ora dagli artt. 63 e 88 del Codice della Crisi). In passato la transazione fiscale era facoltativa e soggetta a limiti (ad es. garantire almeno il 20% all’erario se chirografario); con la riforma 2022-2024 è divenuta uno strumento più ordinario, purché la proposta sia più conveniente per il Fisco rispetto alla liquidazione . Addirittura, l’ultimo “correttivo” del 2024 ha stabilito che, in certi casi, il tribunale possa omologare forzosamente l’accordo o il concordato anche senza l’adesione del Fisco, se il piano d’impresa è in continuità e il trattamento proposto soddisfa il requisito di convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria . Ciò però non si applica se l’impresa ha debiti fiscali oltre l’80% del totale o se ha tenuto comportamenti fiscali gravemente scorretti: in tali ipotesi – tipiche di chi si autofinanzia evadendo imposte – la legge ora preclude il cram down (omologazione forzosa) del piano senza il voto favorevole del Fisco . In altre parole, le aziende che hanno quasi solo debiti tributari non potranno più “forzare la mano” al Fisco con un concordato cramoroso, ma dovranno necessariamente ottenere il suo accordo.
Composizione negoziata e accordo col Fisco: novità assoluta introdotta nel 2023/2024 è la possibilità, durante la composizione negoziata della crisi, di stipulare un accordo transattivo con l’Agenzia delle Entrate per pagare solo parzialmente i debiti fiscali e con dilazioni . Tale accordo, autorizzato dal Tribunale, consente all’azienda di alleggerire il carico tributario già nella fase di risanamento extra-giudiziale. Restano esclusi da questa trattativa i contributi previdenziali (che seguono altre regole) e i tributi UE come dazi (l’IVA invece è compresa) . È una misura premiale volta a incentivare le imprese ad attivarsi prontamente per ristrutturare il debito, prima che la situazione degeneri.

Attenzione: omettere il pagamento di alcuni tributi può anche esporre gli amministratori a responsabilità personali e perfino penali. Ad esempio, il mancato versamento dell’IVA superiore a una certa soglia (oggi €250.000 annui) entro le scadenze di legge è reato (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000). Lo stesso vale per l’IVA riscossa e non versata o per le ritenute fiscali operate sulle retribuzioni e non versate oltre €150.000 (art. 10-bis). Pertanto, una strategia difensiva del debitore non può consistere nell’ignorare indefinitamente i debiti tributari: conviene invece valutare tempestivamente una regolarizzazione (anche parziale) o inserirli in un piano negoziale, per evitare sia l’aggressione patrimoniale da parte del Fisco sia profili di illecito a carico degli organi societari.

Debiti verso enti previdenziali (INPS, INAIL)

Analoghi ai debiti fiscali, ma riferiti a contributi previdenziali e assistenziali, sono i debiti verso enti come INPS (contributi pensionistici e assicurativi per dipendenti e gestione separata) e INAIL (premi assicurativi contro gli infortuni). Queste somme, se non versate, vedono l’ente procedere con ingiunzioni e cartelle esattoriali attraverso lo stesso agente della riscossione. I contributi non pagati godono di privilegio generale sui mobili e devono essere saldati con priorità nelle procedure concorsuali (dopo i crediti prededucibili e quelli con privilegio speciale). Anche per i contributi esistono possibilità di dilazione amministrativa (rateizzazioni con INPS fino a 24 mesi o più in casi eccezionali) e “rottamazioni” di sanzioni in particolari provvedimenti legislativi.

Dal 2021, nell’ambito di concordati preventivi e accordi di ristrutturazione, è possibile proporre una transazione previdenziale analoga a quella fiscale, per pagare in parte i contributi dovuti. L’INPS valuta il piano e può aderire se il trattamento proposto non è inferiore a quanto l’ente otterrebbe in una liquidazione fallimentare. Le recenti riforme hanno esteso anche qui meccanismi di cram-down: il giudice può omologare il concordato o accordo nonostante il diniego dell’INPS, purché siano rispettate le condizioni di legge (convenienza del piano e rispetto delle priorità nei pagamenti).

Occorre tuttavia cautela: omettere il versamento dei contributi previdenziali trattenuti ai lavoratori (le trattenute in busta paga) oltre una soglia minima è fattispecie di reato (art. 2, c.1-bis D.L. 463/1983 conv. in L. 638/1983, soglie modificate dalla L. 205/2017), salvo poi estinguersi se si salda il dovuto entro certi termini. Dunque, come per i debiti fiscali, il debitore deve difendersi attivamente ma anche responsabilmente: non pagare i contributi dei dipendenti espone a denunce penali e all’azione diretta dell’INPS (che in caso di insolvenza può chiedere il fallimento dell’azienda per tutelare il fondo pensioni).

In sintesi, Fisco e contributi formano la categoria di debiti più “sensibile”: lo Stato dispone di privilegi e poteri speciali per la riscossione. La difesa dell’azienda debitrice consiste nell’anticipare le mosse (richiedere dilazioni, sfruttare eventuali condoni o predisporre tempestivamente transazioni fiscali/previdenziali in un piano di ristrutturazione) e nel rigoroso rispetto delle prescrizioni (versando almeno le ritenute per evitare responsabilità penali).

Debiti bancari e finanziari

I debiti verso banche e altri finanziatori (leasing, factor, obbligazionisti) derivano tipicamente da mutui, affidamenti in conto corrente, anticipazioni su fatture, leasing di macchinari o emissione di bond/pagherò. Questi creditori, diversamente da fornitori e Fisco, di solito si sono tutelati contrattualmente: è frequente che abbiano garanzie (es. ipoteche su immobili aziendali, pegno su macchinari o su beni in magazzino, fideiussioni personali degli imprenditori o soci). Inoltre, i contratti bancari contengono spesso clausole di decadenza dal beneficio del termine: al verificarsi di certi eventi (anche solo il peggioramento dei conti aziendali, rating negativo, o un ritardo di pagamento) la banca può revocare i fidi e chiedere il rimborso immediato di tutto il capitale.

Pertanto, quando un’azienda entra in crisi di liquidità, le banche sono tra le prime a muoversi: possono revocare gli affidamenti (costringendo l’impresa a rientrare immediatamente dello scoperto di conto), possono risolvere anticipatamente i mutui e richiedere il saldo del debito residuo, e – se c’è inadempimento – attivano procedure esecutive. Ad esempio: – Se c’è ipoteca su un capannone o terreno, la banca può avviare un pignoramento immobiliare e chiedere la vendita forzata del bene per soddisfarsi sul ricavato. – Se c’è un pegno su macchinari o merci, può escutere il pegno (a volte anche senza passare dal tribunale, attraverso patti marciani se pattuiti, cioè la vendita privata del bene con perizia). – Se un socio o l’imprenditore ha rilasciato una fideiussione personale (garanzia), la banca quasi sicuramente agirà anche contro di lui nel momento in cui l’azienda è inadempiente, chiedendo il pagamento dell’intero debito in base alla garanzia.

I crediti bancari godono di preferenza se assistiti da garanzia reale: l’ipoteca dà diritto di prelazione sul ricavato dell’immobile; un pegno su beni mobili conferisce privilegio speciale. In caso di fallimento, dunque, la banca ipotecaria è un creditore privilegiato e verrà soddisfatta prima dei chirografari (al netto dei costi procedurali prededucibili). Se però vi è un insufficiente valore di realizzo, la parte di credito non coperta dalla garanzia degrada a chirografo.

Come può difendersi l’azienda verso le banche? Innanzitutto, con la prevenzione e la negoziazione: è spesso utile dialogare con la banca non appena emergono difficoltà, anziché attendere la revoca. Se la crisi è temporanea, si può cercare una moratoria o rinegoziare le condizioni: ad esempio, ottenere una sospensione delle rate o un allungamento del piano di ammortamento. A tal riguardo, nel 2025 l’ABI insieme alle principali associazioni di imprese ha emanato delle Linee Guida per la sospensione dei finanziamenti alle PMI in difficoltà temporanea . Tali linee guida promuovono accordi volontari per congelare le rate dei mutui fino a un certo periodo, dando respiro all’azienda senza far scattare immediatamente la segnalazione a sofferenza. Il debitore quindi dovrebbe informarsi presso la propria banca se esistono moratorie attivabili (spesso vincolate a non avere posizioni già scadute da troppo tempo). La rinegoziazione può riguardare anche la riduzione dei tassi, la rinuncia a interessi di mora, o la concessione di nuove linee di credito (magari garantite dallo Stato o da consorzi fidi) necessarie per superare la crisi di liquidità.

Dal punto di vista legale, in caso di contenzioso con la banca, la difesa del debitore può assumere diverse forme:
Opposizione alle pretese: se la banca notifica un decreto ingiuntivo per il saldo, l’azienda può proporre opposizione (nei termini di 40 giorni) contestando l’ammontare del credito. Spesso si contestano gli interessi (ad es. sostenendo che vi sia stato anatocismo illegittimo – interessi capitalizzati trimestralmente – o che i tassi applicati superino la soglia d’usura). In tali casi, il giudice può disporre una perizia contabile: se emergono effettive irregolarità (es. commissioni occulte che portano il TAEG oltre soglia), la conseguenza può essere la nullità delle clausole usurarie e la ricapitalizzazione del debito su basi ridotte . Queste eccezioni tecniche non eliminano il debito ma possono ridurlo o comunque allungare i tempi della causa (un risultato spesso utile al debitore per guadagnare tempo e cercare soluzioni).
Contestazione della fideiussione: se un socio o amministratore ha firmato una fideiussione omnibus a favore della banca (cioè una garanzia che copre tutte le obbligazioni presenti e future dell’azienda verso la banca), vale la pena verificare la validità del contratto di garanzia. Molte fideiussioni bancarie degli scorsi decenni riproducono un testo standard ABI che fu oggetto di un provvedimento di Bankitalia nel 2005 (n. 55/2005) per violazione della normativa antitrust. Le clausole cosiddette di “reviviscenza”, “sopravvivenza” e “rinuncia ai termini” presenti in quel schema ABI sono state dichiarate nulle in vari giudizi perché frutto di intesa restrittiva della concorrenza. La Corte di Cassazione nel 2025 è tornata sul punto con l’ordinanza n. 18851/2025, confermando la nullità di quelle clausole standard ABI nei contratti di fideiussione omnibus . Ciò comporta, in pratica, la nullità parziale della fideiussione e può limitare l’importo garantito o far venir meno alcune obbligazioni del garante (ad esempio la reviviscenza permette alla banca di chiedere al garante il pagamento anche dopo la chiusura di un fallimento, se il debitore principale non ha pagato per intero: clausola che, se nulla, impedisce tale pretesa post-fallimentare). Attenzione: la giurisprudenza su queste nullità non è unanime – tanto che il contrasto è stato rimesso alle Sezioni Unite della Cassazione nel 2025 – ma molti tribunali hanno dato ragione ai garanti. Dunque il garante (socio) potrà sollevare questa eccezione per respingere o ridurre la richiesta della banca, allegando il provvedimento di Bankitalia e le pronunce conformi.
Azioni dilatorie o difensive in sede esecutiva: qualora la banca abbia già un titolo (decreto ingiuntivo non opposto reso esecutivo, o mutuo non pagato con clausola esecutiva) e avvii un pignoramento, il debitore può tentare un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. (sostenendo ad esempio che il titolo è invalido, o il debito estinto, o l’accordo rinegoziato) oppure un’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (se vi sono vizi formali nella procedura di pignoramento). Queste opposizioni sospendono o rallentano l’esecuzione solo se il giudice concede una sospensione, cosa non scontata (richiede “gravi motivi”). Un’altra mossa possibile è l’istanza di conversione del pignoramento (art. 495 c.p.c.): il debitore chiede di sostituire i beni pignorati con una somma di denaro, versando subito una percentuale (di regola 1/5 del debito) e il resto a rate, ottenendo la chiusura dell’esecuzione. È però una strada onerosa che richiede liquidità disponibile.
Protezione concorsuale: va ricordato che l’apertura di talune procedure concorsuali blocca o sospende le azioni esecutive individuali delle banche. Ad esempio, se l’azienda presenta domanda di concordato preventivo e il tribunale la “ammette” o anche solo concede misure protettive (stay), nessun creditore può avviare o proseguire pignoramenti sul patrimonio del debitore durante la procedura (art. 54 CCII). Lo stesso vale quando è avviata una liquidazione giudiziale (fallimento): dal giorno della sentenza, le esecuzioni in corso sono interrotte. Questa “automatic stay” può essere sfruttata strategicamente: ad esempio, se la banca minaccia un’azione immediata, la società potrebbe depositare un ricorso per concordato con riserva (concordato in bianco) ottenendo uno stop temporaneo e guadagnando tempo per negoziare. Naturalmente, non è una difesa nel merito del debito ma un congelamento per trattare in sede concorsuale.

In sintesi, i debiti bancari vanno gestiti con prontezza. Difendersi significa: negoziare quando possibile, e contestare legalmente quando vi sono appigli (tassi illegittimi, vizi contrattuali, nullità di garanzie). Un imprenditore accorto farà anche due diligence sulle proprie esposizioni: quali banche hanno garanzie? quali sono più disponibili a ristrutturare? e predisporrà un piano per evitare la revoca improvvisa di linee vitali di credito (magari attivando garanzie pubbliche come il Fondo PMI). Se la situazione è compromessa, inserirà le banche tra i soggetti chiave di un accordo di ristrutturazione o concordato, sapendo che un concordato preventivo può imporre anche alle banche dissenzienti un pagamento parziale, se approvato dalle maggioranze di legge. Anzi, le banche stesse a volte preferiscono un accordo di ristrutturazione (ADR) negoziato, piuttosto che far fallire l’azienda e recuperare forse meno.

Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali

Un’azienda in difficoltà accumula spesso ritardi nei pagamenti verso i fornitori di merci e servizi. Questi creditori sono generalmente chirografari (senza garanzia), quindi in posizione più debole giuridicamente rispetto a banche e Fisco. Tuttavia, i fornitori dispongono di azioni legali efficaci: se il credito è liquido ed esigibile (ad esempio fatture scadute per forniture effettivamente consegnate), il fornitore potrà ottenere rapidamente un decreto ingiuntivo dal tribunale. Il procedimento monitorio consente infatti al creditore, presentando le fatture e i DDT firmati o i contratti, di ottenere in poche settimane un decreto che ingiunge all’azienda di pagare entro 40 giorni. Se l’azienda non fa opposizione in quel termine, il decreto diviene esecutivo e il fornitore potrà procedere con pignoramenti (ad esempio pignorare il conto corrente aziendale, o i beni mobili presenti in sede tramite l’ufficiale giudiziario, o crediti verso terzi come crediti che l’azienda vanta verso i propri clienti). Anche senza garanzie specifiche, un singolo fornitore determinato può quindi creare notevoli problemi di liquidità all’impresa debitrice.

Un’altra leva che i fornitori hanno è commerciale: possono sospendere le forniture future (exceptio inadimpleti contractus se esiste un contratto quadro) o pretendere il pagamento anticipato “a vista” per continuare a consegnare beni indispensabili. Questo può mettere in ginocchio l’operatività dell’azienda debitrice, specie se il fornitore è strategico (es. forniture di materie prime critiche).

La difesa dell’azienda verso debiti commerciali si articola su due piani:
Sul piano giudiziale: se arriva un decreto ingiuntivo, è spesso opportuno fare opposizione (nei 40 giorni dalla notifica ). Anche se il debito è sostanzialmente dovuto, l’opposizione apre un giudizio ordinario che richiederà mesi o anni, durante i quali si può tentare di transigere (trovare un accordo pagando magari solo una parte) o quantomeno si rinvia l’eventuale esecuzione. Nell’atto di opposizione il debitore dovrà indicare le ragioni di contestazione del credito , ad esempio: contestare la qualità o quantità della fornitura, eccepire vizi della merce, compensare il debito con un proprio controcredito verso il fornitore, oppure invocare la prescrizione (i crediti commerciali in genere si prescrivono in 5 anni se derivano da forniture periodiche o dal lavoro autonomo, salvo diverso termine contrattuale; alcuni crediti come quelli professionali hanno prescrizione 3 anni, altri 10 anni se riconducibili a contratto scritto – una verifica va sempre fatta). Se l’opposizione è solo dilatoria, il fornitore può chiedere al giudice una provvisoria esecuzione del decreto ex art. 648 c.p.c., ma deve ricorrerne i presupposti (ad es. il credito è fondato su prova scritta e l’opposizione non pare sorretta da prova adeguata). In alcune circostanze il giudice concede l’esecuzione provvisoria immediata anche nel decreto (soprattutto per crediti già scaduti riconosciuti dal debitore), riducendo così l’effetto sospensivo dell’opposizione. Comunque, l’opposizione resta un diritto e offre chance: il debitore può anche chiedere la sospensione dell’esecutività al giudice istruttore se vi sono gravi motivi , ad esempio se sta per arrivare a un accordo col creditore o se ci sono seri vizi nel decreto.
Sul piano stragiudiziale: la chiave è comunicare col fornitore. Molti fornitori preferiscono evitare lunghe cause e recuperare almeno una parte del credito: l’azienda debitrice può proporre un piano di rientro (es. pagamento del 50% subito e 50% a 6 mesi) o un saldo e stralcio (pagamento immediato di una percentuale a fronte di rinuncia al resto). Questi accordi vanno idealmente formalizzati per iscritto (magari prevedendo che in caso di inadempimento il residuo torna esigibile per intero, così il fornitore è tutelato). Dal punto di vista del debitore, ogni accordo stragiudiziale con fornitori non vincola gli altri creditori: dunque si può creare disparità (uno accetta uno sconto, un altro no). Bisogna stare attenti a non favorire alcuni creditori a scapito di altri in periodo di insolvenza conclamata, perché pagamenti preferenziali potrebbero essere soggetti a revocatoria fallimentare se poi l’azienda fallisce entro 6 mesi (per pagamenti preferenziali volontari) o 1 anno (se atti anormali). Ad esempio, pagare integralmente un fornitore “amico” poco prima di un fallimento, mentre gli altri restano a bocca asciutta, espone quel pagamento al rischio di essere revocato dal curatore (in liquidazione giudiziale il curatore chiederà al fornitore di restituire quanto incassato in preferenza, ex art. 166 e 167 CCII).

Va sottolineato che i fornitori hanno anche un’arma collettiva: se i debiti commerciali non pagati superano certi importi, essi possono presentare istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) dell’azienda debitrice. In passato la legge prevedeva che i creditori potessero richiedere il fallimento di un imprenditore con debito > €30.000; oggi, con il Codice della Crisi, rimane la legittimazione del creditore a iniziare la procedura di liquidazione giudiziale se dimostra l’insolvenza, senza una soglia fissa (anche se prassi e giurisprudenza considerano non abusivo farlo solo per crediti di una certa consistenza). L’azienda deve quindi evitare di lasciare troppi fornitori insoddisfatti, altrimenti uno di loro potrebbe giocare la carta della richiesta di insolvenza in tribunale, avviando la procedura concorsuale d’ufficio.

In sintesi, i debiti verso fornitori si difendono negoziando (piani di rientro, transazioni) e, se necessario, contestando formalmente. Una buona prassi è classificare i fornitori per importanza: per quelli critici per la produzione, cercare accordi privilegiati (pagamenti parziali ma continuità forniture); per gli altri, eventualmente ritardare pagando prima chi serve alla prosecuzione dell’attività. Il tutto però va fatto con trasparenza e possibilmente nell’ambito di una strategia generale di risanamento (ad esempio invitando tutti i fornitori a un tavolo di concordato stragiudiziale o predisponendo un piano attestato di risanamento in cui ciascuno è chiamato a fare la sua parte – se ne parlerà più avanti).

Debiti verso dipendenti e collaboratori

Un’azienda indebitata può trovarsi nell’impossibilità di pagare regolarmente gli stipendi e i trattamenti di fine rapporto (TFR) ai propri dipendenti, o i compensi ai collaboratori. Questa categoria di crediti gode di una tutela speciale nell’ordinamento italiano, data la natura retributiva e la posizione di debolezza del lavoratore. I dipendenti hanno privilegio generale sui mobili dell’imprenditore per le ultime retribuzioni (di solito gli ultimi 6 mesi di lavoro) e per il TFR, con un certo tetto, nonché privilegio sul denaro in cassa dell’azienda. In caso di fallimento dell’azienda, inoltre, interviene il Fondo di garanzia INPS che anticipa ai lavoratori il TFR maturato e le ultime mensilità impagate (fino a un massimo di 3 mensilità), per poi surrogarsi nel passivo fallimentare. Questo meccanismo attutisce l’impatto per i dipendenti, ma comporta che l’INPS diventi creditore dell’azienda (con privilegio, per aver pagato i lavoratori al suo posto).

Dal lato giudiziale, un dipendente non pagato può rivolgersi al tribunale del lavoro e ottenere un’ingiunzione di pagamento (decreto ingiuntivo) molto rapidamente, spesso provvisoriamente esecutivo, per gli stipendi arretrati. Può anche chiedere il pignoramento di beni aziendali o conti, similmente a un fornitore, ma con qualche vantaggio procedurale (ad esempio, l’esecuzione per crediti di lavoro consente il pignoramento di una più ampia gamma di beni e ha priorità su altri pignoramenti in alcuni casi). Inoltre, il lavoratore può rassegnare dimissioni per giusta causa se non riceve lo stipendio, con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso (che aumenta il debito datoriale). I dipendenti spesso si coordinano attraverso i sindacati e possono esercitare pressione anche extragiudiziale (scioperi, vertenze collettive) che mettono ulteriore stress all’impresa debitrice.

Difendersi dai debiti verso i lavoratori è particolarmente delicato: da un lato, i dipendenti sono essenziali per portare avanti l’attività; dall’altro, hanno priorità assoluta dal punto di vista etico e sociale, e il loro mancato pagamento può portare rapidamente alla paralisi dell’azienda. Dunque:
Pagare i dipendenti dovrebbe essere la priorità: se le risorse sono scarse, di solito è preferibile destinare prima ai lavoratori ciò che spetta loro, anche perché ciò riduce il rischio di iniziative giudiziarie immediate.
Comunicare con trasparenza: spiegare ai lavoratori la situazione di crisi e magari concordare insieme soluzioni temporanee (es. riduzione orario, cassa integrazione se attivabile, ecc.) può evitare conflitti. Nel contesto delle crisi, esistono strumenti come la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS) per crisi aziendale, che consente di sospendere/ridurre il lavoro con supporto al reddito dei dipendenti, alleggerendo il costo del lavoro per l’azienda durante la ristrutturazione.
Inserire i crediti dei dipendenti in un piano: nelle procedure concorsuali, i crediti di lavoro devono essere soddisfatti in misura non inferiore a quanto otterrebbero in liquidazione. In un concordato in continuità, le paghe correnti vanno onorate regolarmente; in un concordato liquidatorio, i lavoratori spesso vengono licenziati ma ricevono TFR e preferibilmente una percentuale concordataria elevata sui residui (essendo privilegiati, di norma sono pagati integralmente sul privilegio fino al limite). Qualora il concordato preveda la continuità aziendale, il tribunale valuta con attenzione il trattamento riservato al personale (piani di esubero, mantenimento dei livelli occupazionali, ecc.).
Evitare comportamenti illeciti: l’omesso versamento delle ritenute previdenziali dai salari (come già detto) è penalmente rilevante. Anche far lavorare dipendenti senza pagarli per mesi potrebbe configurare ipotesi di sfruttamento o violazione di norme sulla retribuzione minima – con rischi di cause di lavoro, denunce e sanzioni amministrative. In altre parole, non pagare i dipendenti non è mai una strategia accettabile: se non è possibile pagarli, occorre ridurre il personale nei limiti consentiti (procedendo a licenziamenti collettivi se necessario) oppure attivare istituti di sostegno (CIGS, ecc.), ma accumulare debiti verso i dipendenti è il preludio di un fallimento certo oltre che ingiusto.

Dal punto di vista legale, l’azienda può prendere tempo opponendosi a eventuali decreti ingiuntivi dei lavoratori (ad esempio contestando le somme se c’è margine, o eccependo pagamenti parziali effettuati), ma essendo crediti di lavoro e generalmente documentati in busta paga, c’è poco spazio per contestazioni reali. Meglio negoziare eventualmente il rilascio del TFR a rate con i singoli (alcuni potrebbero accettare di attendere parte del TFR se vedono prospettive di salvare l’azienda). In caso di cessazione dell’attività, va ricordato che i lavoratori licenziati possono accedere tramite il curatore fallimentare al Fondo di garanzia, ricevendo TFR e ultime retribuzioni da INPS: quindi paradossalmente, la dichiarazione di fallimento può tutelare i dipendenti più che la prosecuzione arrischiata di un’attività decotta (gli permette di essere pagati dallo Stato in tempi relativamente brevi). Un imprenditore-debitore deve tenere a mente anche questo, in ottica di responsabilità sociale.

Di seguito, una tabella riepilogativa delle principali categorie di debito e delle rispettive conseguenze e strumenti di difesa:

Tipo di debitoCreditoriPoteri dei creditoriConseguenze per il debitoreStrumenti difensivi
Tributari (Fisco)Agenzia Entrate, Comuni, etc.Riscossione coattiva senza giudice (cartella, ipoteca, fermo); privilegio sui beni; sanzioni e interessi elevati; possibile denuncia penale per omessi versamenti (IVA/ritenute)Pignoramento di conti, beni mobili e immobili senza preavviso giudiziario; aggravio debito per sanzioni; rischio di reati tributari per l’amministratoreRateazione cartelle; ricorsi in Commissione Tributaria se il debito è contestabile; transazione fiscale in concordato/accordo ; accordo fiscale in composizione negoziata ; eventuali definizioni agevolate (rottamazione) previste per legge
PrevidenzialiINPS, INAILSimili al Fisco: ingiunzioni, cartelle; privilegio generale; possibile denuncia penale per omesso versamento contributi trattenutiPignoramenti tramite agente riscossione; azioni di recupero crediti contributivi; segnalazioni penali per contributi lavoratori non versatiDilazioni con INPS; transazione previdenziale nel concordato/accordo; utilizzo CIGS per ridurre oneri correnti; regolarizzazioni entro termini (per evitare reato)
Bancari/FinanziariBanche, leasing, factorRevoca fidi e mutui se covenants violati; esecuzione di garanzie (es. escussione ipoteche/pegni, escussione fideiussioni); cause per decreto ingiuntivoRischio immediato di perdere liquidità (revoca affidamenti); azioni esecutive su beni dati in garanzia (pignoramenti immobiliari); coinvolgimento patrimonio personale di garantiNegoziare moratorie (Linee guida ABI 2025 ); ristrutturare il debito bancario in accordo stragiudiziale o concordatario; opposizione a DI con eccezioni (anatocismo/usura) se fondate; contestare nullità fideiussioni omnibus ABI ; chiedere sospensione vendite (es. art 41 TUB) e conversione pignoramenti ex art.495 cpc; attivare misure protettive presentando domanda di concordato preventivo (blocco delle azioni esecutive)
Fornitori commercialiFornitori merci/serviziAzione monitoria (decreto ingiuntivo) veloce; se titolo esecutivo, pignoramenti su conti, beni mobili o crediti; sospensione forniture future; possibilità di chiedere fallimento se insolvenzaCongelamento operatività per pignoramento conti/merci; interruzione catena forniture essenziali; accumulo di cause e costi legali; rischio di istanza di liquidazione giudizialeNegoziare piani di rientro o saldo a stralcio; opposizione a decreti ingiuntivi per guadagnare tempo ; ricerca di soluzioni collettive (accordi plurilaterali, accordo di ristrutturazione con adesione di fornitori); in caso di concordato, possibile classare fornitori e proporre % di soddisfo minima (devono ricevere >= 20% se concordato liquidatorio puro)
DipendentiLavoratori, sindacatiIngiunzioni di pagamento per stipendi/TFR; privilegi in caso di fallimento; possibili proteste o vertenze collettive; diritto a dimissioni per giusta causa se non pagatiMalcontento interno, calo produttività; azioni giudiziarie individuali con condanna rapida; se fallimento, intervento Fondo di garanzia INPS (e INPS subentra come creditore)Tentare di pagare prioritariamente i salari correnti; accordi sindacali per gestione crisi (es. contratti di solidarietà, CIGS); in procedure concorsuali, prevedere soddisfacimento dei crediti di lavoro privilegiati (spesso integrale sul privilegiato); se inevitabile, concordare uscite dei dipendenti con il minor danno (es. incentivo all’esodo) per ridurre l’esposizione; trasparenza con i lavoratori per evitare cause; ricordare che post-fallimento i dipendenti recuperano da INPS (valutare quindi se proseguire attività o attivare concorsuale)

(Legenda: DI = decreto ingiuntivo; TFR = trattamento di fine rapporto; CIGS = cassa integrazione guadagni straordinaria; TUB = testo unico bancario.)

La tabella sopra evidenzia come ciascun tipo di debito richieda attenzioni diverse. Il debitore azienda deve quindi mappare la propria posizione debitoria e individuare le priorità: ad esempio, se ci sono gravi debiti fiscali conviene affrontarli subito (magari con transazione fiscale in un unico pacchetto), se vi sono banche con garanzie conviene trattare con loro per prime, se ci sono molti piccoli fornitori conviene pensare a un accordo collettivo, ecc. Una strategia di difesa efficace non può prescindere da una visione d’insieme: affrontare un solo creditore ignorando gli altri porta magari a vincere una battaglia ma perdere la guerra (es. un accordo ad hoc con una banca potrebbe lasciare scoperti i fornitori che poi istigano il fallimento).

Nei prossimi capitoli vedremo come l’ordinamento mette a disposizione strumenti organici di composizione della crisi, che consentono di affrontare tutti i debiti in modo coordinato (evitando quindi il far-west di azioni esecutive disordinate). Prima, però, è opportuno chiarire cosa rischiano soci e amministratori di una società indebitata: la responsabilità personale è infatti un tema cruciale.

Responsabilità di soci e amministratori in caso di debiti aziendali

Una società di capitali (come una S.r.l. o S.p.A.) ha una personalità giuridica distinta dalle persone dei soci e degli amministratori. Ciò significa che, in linea di principio, soci e manager non rispondono con il proprio patrimonio personale dei debiti sociali, limitando la loro responsabilità al conferimento sottoscritto (il capitale sociale). Questo principio di “patrimonio separato” subisce però importanti eccezioni e limitazioni, soprattutto quando la società è insolvente o prossima all’insolvenza. Inoltre, nel caso di imprese individuali o di società di persone (S.n.c., S.a.s.), la distinzione tra patrimonio dell’azienda e personale è molto più sottile o assente, comportando maggiori rischi diretti sui debitori.

Analizziamo le varie situazioni:

  • Società di capitali (S.r.l., S.p.A.): I soci (azionisti o quotisti) normalmente non rispondono dei debiti aziendali con i propri beni, tranne alcune ipotesi particolari. Ad esempio, i soci possono essersi volontariamente impegnati come garanti per la società (tipicamente tramite fideiussioni personali verso banche o fornitori strategici). In tal caso, come visto, il creditore può escutere il socio-garante direttamente. Fuori da tali accordi, però, un creditore sociale non può pretendere nulla dai soci, nemmeno se la società non paga. Neppure il fallimento della società estende automaticamente il fallimento ai soci (a differenza delle società di persone). C’è però un’eccezione rilevante: se emerge che la società è stata usata in modo abusivo come “schermo” (abuso della personalità giuridica), ad esempio confondendo conti sociali e personali, o fraudolentemente per sottrarre asset ai creditori, la giurisprudenza ammette rimedi come la “actions en comblement de passif” di derivazione francese o il più noto “piercing the corporate veil” anglosassone. In Italia non esiste una norma generale sul piercing, ma esistono norme specifiche: p.es., i soci che deliberatamente hanno deciso o autorizzato operazioni dannose potrebbero essere chiamati a rispondere (in casi di sottocapitalizzazione intenzionale e finanziamento soci anomalo, opera l’art. 2467 c.c.: i finanziamenti dei soci fatti a una società sottocapitalizzata in momento di difficoltà sono postergati rispetto agli altri crediti – e se rimborsati prima del fallimento possono essere revocati dal curatore). In estrema sintesi, pur essendo limitata, la responsabilità dei soci non è nulla: essi rischiano almeno di perdere tutto ciò che hanno investito nella società (il valore delle quote/azioni va a zero se l’impresa insolvente viene liquidata) e, se hanno compiuto atti di mala gestione come amministratori di fatto, potrebbero essere coinvolti in azioni di responsabilità.
  • Amministratori di società di capitali: Hanno una posizione più esposta. Gli amministratori (o il consiglio di amministrazione) hanno per legge il dovere di gestire con diligenza la società e di tutelare l’integrità del patrimonio sociale a garanzia dei creditori. Se la società precipita in una condizione di insolvenza, gli amministratori rischiano:
  • Azione di responsabilità civile verso la società (art. 2476 c.c. per S.r.l., art. 2393 c.c. per S.p.A.) e verso i creditori (azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c.). In caso di fallimento, queste confluiscono nell’azione del curatore ex art. 146 l.fall. (ora art. 255 CCII) per danni causati dall’organo amministrativo. Un caso tipico è la prosecuzione abusiva dell’attività: se la società aveva perso il capitale sociale e si doveva sciogliere (art. 2482-ter c.c.), oppure era già insolvente, gli amministratori che hanno continuato a fare affari aggravando il dissesto sono chiamati a risarcire i danni. Il nuovo art. 2486 c.c. comma 3 (introdotto dal Codice della Crisi) ha cristallizzato il criterio per quantificare questo danno da gestione illegittima: è la differenza del patrimonio netto tra il momento in cui doveva cessare l’attività e il momento dell’apertura della procedura . In pratica, se continuando l’attività il “buco” patrimoniale è passato da 100 a 300, i responsabili rispondono di 200. La Cassazione nel 2024 (sent. n. 5252/2024) ha confermato che questo criterio del differenziale dei netti patrimoniali si applica anche ai giudizi pendenti , salvo prova di un diverso criterio più aderente al caso concreto. Ciò segnala la severità con cui vengono valutati i dirigenti che tardano a staccare la spina all’impresa decotta: perseverare oltre il limite può costare caro sul piano patrimoniale personale.
  • Responsabilità penale (reati fallimentari e tributari): se la società viene dichiarata fallita, gli amministratori possono essere indagati per bancarotta. La bancarotta semplice scatta ad esempio se hanno aggravato colposamente il dissesto (es. con spese eccessive, libri non tenuti, ecc.), mentre la bancarotta fraudolenta (più grave) se hanno distratto beni, falsificato scritture, preferito alcuni creditori ad altri intenzionalmente poco prima del fallimento, od occultato attivo. La bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale è un reato grave, con pene detentive pesanti, e la sola apertura di un fallimento fa scattare l’obbligo di verifica da parte del tribunale e della Procura. Inoltre, come già visto, amministratori che abbiano omesso versamenti IVA o di ritenute oltre soglia rispondono personalmente di quei reati tributari. Ciò per dire che “difendersi” dai debiti non può mai significare compiere atti illegali per sfuggire ai creditori: cedere beni sottocosto a parenti, falsificare i bilanci per ottenere credito, pagare “sottobanco” solo alcuni creditori, sono tutte condotte che espongono l’organo amministrativo a imputazioni penali e annullano ogni protezione del patrimonio (un atto di distrazione di risorse sociali, ad esempio, comporta che quei beni possono essere aggrediti dai creditori tramite azione revocatoria e l’amministratore risponde penalmente).
  • Obblighi specifici dettati dal Codice della Crisi: oggi gli amministratori hanno per legge (art. 2086 c.c. co. 2) il dovere di istituire assetti organizzativi adeguati e di rilevare tempestivamente lo stato di crisi, attivandosi senza indugio per adottare uno strumento di superamento della crisi (accordi, piani, richiesta di concordato o composizione negoziata). Se non lo fanno, possono incorrere in una valutazione di inosservanza dei doveri sia in sede civile (responsabilità per aver aggravato il buco) che in sede concorsuale (il Tribunale può segnalare condotte di mala gestio). Anche i sindaci e revisori hanno doveri di segnalazione della crisi agli amministratori e, in casi estremi, all’OCRI (il meccanismo di allerta previsto dal Codice, anche se l’entrata in vigore degli obblighi di segnalazione esterna è stata sospesa e sostituita dalla composizione negoziata volontaria). Insomma, oggi chi amministra una società deve “fiutare” la crisi e agire proattivamente, altrimenti ne risponde.
  • Società di persone (S.n.c., S.a.s.): Qui i soci illimitatamente responsabili (tutti i soci della S.n.c., i soci accomandatari della S.a.s.) rispondono personalmente e solidalmente dei debiti sociali. Significa che un creditore può indifferentemente aggredire i beni della società o quelli personali dei soci (previa escussione del patrimonio sociale, art. 2268 c.c., ma in pratica se la società non paga, si passa velocemente ai soci). In caso di fallimento di una società di persone, per legge falliscono anche i soci illimitatamente responsabili (il fallimento in estensione). Quindi questi soci debitori non hanno scudo patrimoniale: il loro intero patrimonio (case, conti, ecc.) può essere pignorato per soddisfare i creditori sociali. L’unica limitazione è per i soci accomandanti della S.a.s., che sono assimilati agli azionisti (rischiano solo la quota conferita, a patto che non abbiano ingerito nella gestione).
    La difesa in questo scenario consiste nel fatto che i soci illimitatamente responsabili possono utilizzare a loro volta strumenti come il concordato minore o la liquidazione controllata (procedure di sovraindebitamento, v. oltre) per cercare di liberarsi dai debiti una volta escusso il patrimonio. Ma di base, chi è socio di una Snc o accomandatario di Sas deve essere consapevole del rischio illimitato: le strategie difensive dei creditori contro la società li colpiranno direttamente. Spesso, se tali soci hanno un patrimonio significativo separato dall’impresa, può convenire trasformare la società di persone in società di capitali prima che la situazione precipiti – operazione lecita se fatta per tempo e con rispetto dei diritti dei creditori (resta ferma la responsabilità per i debiti già esistenti al momento della trasformazione per 5 anni, ex art. 2500-quinquies c.c.).
  • Imprenditore individuale: L’impresa individuale non ha una personalità giuridica autonoma: l’imprenditore è il debitore in prima persona. Tutti i beni personali non necessari al sostentamento possono essere aggrediti dai creditori dell’impresa (con l’eccezione della casa coniugale in caso di fondo patrimoniale o di beni conferiti in un trust, se fatti in bonis, etc., ma sono astuzie delicate). L’imprenditore commerciale individuale sopra soglia può essere dichiarato fallito e tutti i suoi beni liquidati; il piccolo imprenditore sotto soglia può subire comunque pignoramenti multipli (non essendo fallibile, non c’è la par condicio salvo che adesso esistono le procedure di sovraindebitamento come la liquidazione controllata). La difesa per l’imprenditore individuale debitore è quindi incentrata sull’utilizzo di procedure concorsuali personali (concordato minore o piano del consumatore, se qualificabile, o liquidazione controllata) e su eventuali esdebitazioni post-liquidazione (vedremo questo importante istituto). Inoltre, l’imprenditore può tentare di proteggere parte del patrimonio col patto di famiglia (per trasferire l’azienda a eredi in cambio di liquidazione altri eredi – non aiuta contro i creditori però se fatto quando i debiti già ci sono, sarebbe revocabile), oppure costituendo una società e conferendovi l’azienda (ma i debiti restano in capo a lui salvo accollo, e se fatto per frodare i creditori è annullabile). Insomma, l’unica vera protezione per l’imprenditore persona fisica è non indebitarsi eccessivamente personalmente e in caso di crisi agire per tempo in forme concorsuali.

Vale la pena menzionare una novità introdotta dal Codice della Crisi: l’esdebitazione anche per l’imprenditore che sia persona giuridica. Tradizionalmente, solo la persona fisica fallita poteva chiedere di essere liberata dai debiti non pagati nel fallimento (ex art. 142 l.fall.). Il nuovo art. 278 CCII ha esteso l’istituto a tutti i debitori ex art.1 CCII, inclusa quindi la società fallita (persona giuridica) . Ciò significa che, in linea teorica, anche una società potrebbe ottenere una sorta di “fresh start” liberatorio, purché siano rispettate le condizioni (e a beneficio, va detto, non tanto della società – che probabilmente verrà cancellata – ma piuttosto di eventuali coobbligati). In pratica, l’art. 278 consente l’esdebitazione anche al fallito persona giuridica, ma precisa che le condizioni ostative (art. 280 CCII) non devono sussistere nei confronti dei soci illimitatamente responsabili e dei legali rappresentanti . L’interpretazione è complessa: sostanzialmente se amministratori o soci hanno colpe gravi, la società non ottiene il beneficio. Questo cambio di normativa risponde anche alla direttiva UE 2019/1023 (Insolvency), che spinge per dare una seconda chance anche a imprese costituite in forma societaria, specie PMI. Nella pratica italiana, l’esdebitazione della persona giuridica ha effetti limitati (una volta liquidata la società, i creditori non possono comunque più agire su di essa perché estinta, indipendentemente dall’esdebitazione; semmai l’esdebitazione serve a ripulire eventuali garanzie residue attivate su terzi o soci, ma qui entriamo in dettagli oltre scopo). Il segnale però è chiaro: oggi anche le società sono invitate a comportarsi correttamente durante la crisi, potendo aspirare a una chiusura “pulita” della vicenda debitoria, mentre prima restavano formalmente obbligate anche dopo il fallimento (sia pure senza patrimonio).

In conclusione, dal punto di vista del debitore è cruciale sapere cosa si rischia personalmente: i soci di S.r.l. rischiano l’investimento e possibili azioni se hanno ruoli gestionali; gli amministratori rischiano di persona sul fronte civile (danni) e penale (bancarotta, reati fiscali); gli imprenditori individuali e soci di persone rischiano tutto il loro patrimonio. Questa consapevolezza deve guidare le azioni di difesa: ad esempio, un amministratore che intravede l’insolvenza deve considerare seriamente di attivare una procedura concorsuale o negoziale invece di andare avanti dissennatamente, perché ciò potrebbe ridurre sia il danno per i creditori sia la propria esposizione a responsabilità. Il Codice della Crisi ha introdotto strumenti come le misure di allerta e la composizione negoziata proprio per responsabilizzare gli organi aziendali verso una soluzione ordinata della crisi. Nel prossimo capitolo vedremo questi strumenti di gestione preventiva del dissesto.

Strategie di gestione preventiva della crisi e misure extragiudiziali

Un’azienda indebitata non dovrebbe aspettare passivamente le azioni dei creditori, ma al contrario dovrebbe prendere l’iniziativa per gestire la crisi. L’ordinamento incoraggia l’emersione precoce delle difficoltà e offre strumenti per evitare che una crisi di liquidità si trasformi in insolvenza irreversibile. In questo capitolo esamineremo le strategie extragiudiziali di risanamento: dalle misure di “allerta” e monitoraggio interno, alla composizione negoziata della crisi, fino ai piani di ristrutturazione privatistici (piani attestati e accordi stragiudiziali senza tribunale). L’idea di fondo è: meglio prevenire che curare – ossia attivarsi quando l’azienda è ancora in piedi per ristrutturare il debito, piuttosto che subire un fallimento disordinato.

Assetti organizzativi e rilevazione tempestiva della crisi

Come accennato, l’art. 2086 c.c. impone all’imprenditore (società o individuale) di dotarsi di assetti adeguati in funzione anche della rilevazione della crisi. Cosa significa in concreto? Che la società dovrebbe avere sistemi di controllo di gestione, contabilità analitica, indicatori (KPI) finanziari per accorgersi se sta entrando in tensione di cassa o se il patrimonio netto si sta erodendo. Il Codice della Crisi (prima delle ultime modifiche) prevedeva anche meccanismi di allerta esterna: ad esempio, obbligo per l’INPS, l’Agenzia Entrate e l’agente della riscossione di avvisare l’azienda e un apposito Organismo di Composizione della Crisi (OCRI) se certi debiti scaduti superavano soglie. Tali misure sono state in parte congelate e rimpiazzate da un approccio volontario (la composizione negoziata), ma la filosofia rimane: è preferibile che l’impresa affronti i problemi prima che i creditori perdano del tutto la fiducia. Perciò, dal punto di vista del debitore, una strategia difensiva efficace è non negare la crisi, ma analizzarla e sceglierne i rimedi.

Tra gli indicatori di crisi classici ci sono: indebitamento crescente e flusso di cassa operativo negativo, continuo utilizzo di fidi al massimo, ritardi nei pagamenti di imposte e contributi (se hai dovuto saltare l’IVA, è un forte segnale d’allarme), tensioni con banche (sconfini di conto, rating peggiorato), fornitori che iniziano a spedire solo contro pagamento anticipato, etc. Gli amministratori dovrebbero predisporre piani di cash flow e verificare se la tesoreria regge a 6-12 mesi. Se emergono forti squilibri, difendere l’azienda significa “muoversi prima del precipizio”: magari si può ancora ottenere nuova finanza (soci o terzi) per tamponare, oppure si può vendere un ramo d’azienda per incassare liquidità e ridurre debiti, o ancora trattare una moratoria generale con banche e principali creditori (standstill agreement). Un accordo di standstill è un impegno informale dei principali creditori a non agire per un certo periodo, mentre l’azienda elabora un piano di ristrutturazione. Spesso è il preludio ad accordi più strutturati (accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII, o concordato). In questa fase iniziale, è utile coinvolgere consulenti esperti in crisi (advisor finanziari, legali d’impresa) e, se del caso, nominare un CRO (chief restructuring officer) in azienda, ovvero un manager specializzato nel risanamento, che affianchi o sostituisca il management esistente focalizzandosi sul turnaround.

La Composizione negoziata della crisi

Introdotta nel 2021 (D.L. 118/2021) e ora disciplinata nel Codice della Crisi (artt. 17-25 septies CCII), la composizione negoziata è uno strumento innovativo e volontario di gestione assistita della crisi. Dal punto di vista del debitore è un modo per cercare una soluzione fuori dai tribunali ma con alcune tutele legali. Ecco i punti chiave:
Accesso: L’imprenditore commerciale (anche piccolo, anche agricolo) in situazioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario può chiedere la nomina di un Esperto indipendente tramite una piattaforma gestita dalle Camere di Commercio. La domanda è riservata (non è pubblica) e l’imprenditore deve caricare vari documenti (bilanci, situazione debitoria, un piano aziendale iniziale, ecc.).
Esperto e negoziazioni: L’Esperto nominato (di solito un commercialista o altro professionista di crisi) analizza la situazione e convoca l’imprenditore e i creditori principali per tentare una trattativa. L’Esperto è un mediatore: il suo compito è facilitare un accordo tra le parti, ad esempio persuadere le banche a concedere dilazioni, i fornitori a rinunciare a una quota di credito, i soci a ricapitalizzare, ecc., in modo da fare un piano credibile di risanamento. Tutto ciò avviene in modo riservato (non c’è pubblicità, diversamente dal concordato). L’esperto scrive verbali periodici e alla fine, entro un termine (inizialmente 180 giorni, prorogabile), dichiara se l’esito è stato positivo o meno.
Misure protettive: Durante la composizione negoziata, il debitore può chiedere al Tribunale l’applicazione di misure protettive del patrimonio (art. 18 CCII). In pratica può ottenere un decreto che sospende per la durata delle trattative tutte le azioni esecutive e cautelari dei creditori. Ciò fornisce una calma piatta temporanea, simile a un mini-concordato in bianco. La richiesta dev’essere ben motivata e l’imprenditore deve dichiarare di ritenere che la continuità aziendale può essere recuperata. Il Tribunale di norma concede un primo periodo di protezione (fino a 4 mesi) rinnovabile una volta, e nomina un ausiliario per vigilare. Durante questo periodo, i creditori non possono iniziare né proseguire pignoramenti, e i contratti essenziali (forniture, utenze) non possono essere sospesi per i soli debiti pregressi.
Esito: Se la composizione negoziata ha successo, può sfociare in diversi risultati: – Un contratto di ristrutturazione del debito stragiudiziale, firmato da tutti o dai principali creditori, senza passare da omologa del tribunale. (Ad esempio: accordo multi-partes di moratoria e riscadenzamento). Questo però vincola solo chi lo sottoscrive e non offre protezione verso dissenzienti, ma può essere sufficiente se il perimetro è limitato e c’è consenso. – Un accordo di ristrutturazione dei debiti agevolato o un piano attestato (vedi oltre) che viene poi formalizzato e, nel caso dell’accordo ex art. 57 CCII, omologato dal tribunale. La fase negoziata può servire a definire i termini per poi presentare l’accordo in tribunale con adesioni già raccolte. – Un concordato preventivo semplificato: se non si trova una soluzione negoziale classica ma l’esperto vede che l’unica strada è liquidare l’azienda, l’imprenditore può proporre ai creditori un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Questo concordato non prevede voto dei creditori, viene proposto direttamente al tribunale con le somme da distribuire e i creditori possono solo fare osservazioni/opposizioni in sede di omologa. È uno strumento introdotto per evitare che composizioni negoziate fallite finiscano necessariamente in liquidazione giudiziale: offre una “scorciatoia” liquidatoria meno gravosa del fallimento, ma richiede comunque che durante la negoziazione non ci fossero soluzioni migliori. (Nel concordato semplificato, i debiti tributari non hanno una disciplina speciale, occorre rifarsi alle regole generali del concordato liquidatorio). – Piano di risanamento ad efficacia estesa: dal 2022 è previsto anche il “piano di ristrutturazione soggetto a omologazione” (PRO – art. 64-bis CCII) che consente di omologare un piano con classi di creditori che però devono essere tutti concordi. È una via di mezzo tra accordo e concordato. Potrebbe emergere da una composizione negoziata se si riesce a ottenere il 100% di accordo nelle singole classi. – Oppure, purtroppo, nessun accordo: se i creditori non ne vogliono sapere e l’azienda è insolvente, si dovrà optare per la liquidazione giudiziale (o controllata se piccola). In tal caso, almeno si sarà tentato; e l’esperto nella relazione finale attesterà le ragioni del fallimento, cosa che può tornare utile per dimostrare la buona fede degli amministratori (forse attenuante per loro).

Quali vantaggi ha la composizione negoziata per il debitore? La riservatezza (non etichetta subito l’azienda come “in concordato”), la flessibilità (non c’è uno schema rigido di cosa proporre: si può negoziare qualsiasi accordo), alcune protezioni legali (le misure protettive, e alcune misure premiali come esenzioni da certe responsabilità o possibilità di finanziare l’impresa con prededuzione durante le trattative). Inoltre, se l’imprenditore rispetta le indicazioni dell’esperto, la legge prevede che ciò possa escludere la colpa grave ai fini di future azioni di responsabilità: insomma, seguire la composizione negoziata mette l’organo amministrativo al riparo dall’accusa di inerzia.

Va detto che la composizione negoziata è volontaria e richiede la collaborazione dei creditori. Dal punto di vista pratico, molti imprenditori la scelgono per convincere le banche e il Fisco a ristrutturare i loro crediti fuori dal clamore di un tribunale. Con le modifiche del 2024, come visto, la composizione negoziata consente anche un accordo col Fisco per tagliare le imposte dovute , e ciò la rende ancora più appetibile in caso di pesanti debiti tributari che altrimenti sarebbero un ostacolo.

In conclusione, la composizione negoziata è un ombrello temporaneo sotto cui debitore e creditori possono sedersi attorno a un tavolo, con la supervisione di un esperto, per evitare il nubifragio del fallimento. Se c’è buona fede e un core business sano, molte crisi possono risolversi in questo ambito, con soddisfazione reciproca (il debitore salva l’azienda, i creditori recuperano più che in una liquidazione forzosa). Se invece l’azienda è decotta, la negoziazione servirà comunque a preparare la miglior exit strategy (concordato semplificato o fallimento pilotato). In ogni caso, il debitore non subisce passivamente ma guida il processo, e ciò è sempre preferibile in ottica difensiva.

Piani attestati di risanamento (ex art. 56 CCII)

Il piano attestato di risanamento è uno strumento di natura contrattuale, già previsto dalla vecchia legge fallimentare (art. 67, co.3, lett. d) l.f.) e ora disciplinato dall’art. 56 del Codice della Crisi. Consiste in un piano di risanamento aziendale, contenente le misure necessarie a riequilibrare la situazione finanziaria, che viene asseverato (attestato) da un professionista indipendente circa la sua veridicità e fattibilità. Il piano attestato è un accordo puramente privato: non richiede omologa o intervento del tribunale, e non vincola i creditori dissenzienti. Tipicamente funziona così: l’imprenditore elabora (magari con l’aiuto di consulenti) un business plan pluriennale, con ipotesi di ristrutturazione (es. nuovi apporti di capitale, dismissione di cespiti per pagare debiti, rinegoziazione individuale con alcuni creditori chiave, ecc.) e lo sottopone a un attestatore indipendente (iscritto all’albo dei revisori, senza conflitti di interesse). Il professionista esamina bilanci, situazione debitoria e ipotesi di piano e redige una relazione in cui dichiara che sulla base dei dati a disposizione il piano appare idoneo a risanare l’impresa e garantire il regolare pagamento dei creditori aderenti.

Qual è l’effetto pratico? Il piano attestato è un documento che, se i creditori vi aderiscono, offre due vantaggi legali importanti:
1. I pagamenti e le operazioni compiute in esecuzione del piano non sono soggetti a azione revocatoria fallimentare (art. 166, co.3, lett. d CCII). Questo crea un “porto sicuro” per i creditori che partecipano: ad esempio, se nel piano è previsto che Tizio banca rinunci a metà credito in cambio del pagamento immediato dell’altra metà, e la società poi fallisce entro 2 anni, quel pagamento non potrà essere revocato dal curatore. Ciò incentiva i creditori a fidarsi del piano perché non verranno penalizzati in seguito per aver accettato pagamenti durante la crisi.
2. Il piano attestato può costituire base per ottenere nuova finanza: chi eroga credito nuovo destinato ad attuare il piano (ad es. una banca che concede un nuovo prestito per pagare debiti, o un fornitore che concede dilazioni con garanzie) sa che, se anche si finisse in concorso, quel nuovo credito potrebbe essere riconosciuto come prededucibile (in quanto funzionale a un tentativo di risanamento attestato). La legge infatti permette al tribunale, in caso di successiva procedura, di dare priorità a tali finanziamenti e pagamenti se strettamente connessi al piano certificato.

Dal punto di vista del debitore, il piano attestato è utile quando la crisi è ancora gestibile con accordi mirati: ad esempio, l’azienda ha 5 banche creditrici, di cui 3 disponibili a ristrutturare il debito mentre 2 sono marginali; o ha pochi fornitori rilevanti. Invece di passare per tribunale, preferisce un approccio “riservato”: negozia privatamente con questi creditori un insieme di intese (es. proroga scadenze, riduzione interessi, remissione parziale) e le inquadra in un piano industriale credibile, che viene attestato. I creditori firmano lettere di adesione al piano. L’azienda esegue il piano e, se tutto va bene, evita la procedura concorsuale. Se qualcosa andasse storto, almeno le operazioni fatte col piano restano ferme e i terzi protetti.

Il limite è che il piano attestato non vincola i non aderenti e non offre di per sé protezioni automatiche: se un creditore estraneo decide comunque di pignorare, il piano non lo ferma (a differenza del concordato). Per questo spesso il piano attestato funziona in contesti relativamente semplici, dove la maggioranza dei creditori è d’accordo e magari i pochi estranei vengono comunque pagati regolarmente per non disturbarli.

Va notato che il Correttivo 2024 ha introdotto anche una figura nuova: il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO, art. 64-bis CCII) che è in sostanza un piano attestato evoluto, depositato in tribunale per ottenerne l’omologazione (pur senza il concorso di tutti i creditori come nel concordato). Il PRO però richiede il consenso unanime per classi: se il debitore organizza i creditori in classi omogenee, tutti i creditori di ciascuna classe devono essere concordi sul piano . Se c’è unanimità, il tribunale omologa e il piano diventa efficace verso tutti (vincola anche eventuali non aderenti in classe? in teoria se uno non aderisce non c’è unanimità, quindi niente PRO). Insomma, è una via per dare esecutorietà a un piano su cui c’è accordo totale ma si vuole evitare che anche un singolo fuoriuscito possa recedere. Non è molto diverso da un accordo stragiudiziale col 100% di adesioni, se non per il crisma dell’omologa. Non prevede cram down (forzatura) proprio perché richiede unanimità.

In pratica il piano attestato rimane uno strumento snello per difendere l’azienda dai debiti quando: (a) c’è fiducia residua tra azienda e creditori principali; (b) la crisi è perlopiù finanziaria e risolvibile con ristrutturazione del debito e un po’ di rilancio (non è una crisi irreversibile di modello di business); (c) si vuole evitare la pubblicità di una procedura. Ad esempio, molte ristrutturazioni lampo durante la pandemia sono avvenute con piani attestati: le banche prorogavano linee, i soci mettevano equity, i fornitori allungavano i termini, e un professionista attestava che con queste misure l’impresa sarebbe tornata in bonis. Se però la platea creditori è vasta o eterogenea (centinaia di fornitori, magari alcuni contrari), un piano attestato potrebbe non bastare a contenere il dissenso: in quel caso occorre uno strumento con efficacia erga omnes (accordo omologato o concordato).

Accordi di ristrutturazione dei debiti (ADR)

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono uno strumento semi-concorsuale: sono accordi negoziati tra il debitore e una parte significativa dei creditori, che vengono poi omologati dal tribunale per dargli efficacia generale e alcune protezioni. Introdotti come alternativa meno traumatica del concordato, gli ADR (artt. 57-64 CCII) richiedono che il debitore ottenga l’adesione di almeno il 60% dei crediti totali (quota qualificata), lasciando quindi fuori al massimo il 40% di creditori dissenzienti o non coinvolti. Questi ultimi però devono essere pagati integralmente nei termini di legge (di norma entro 120 giorni dall’omologa o scadenza) , salvo che si utilizzi una particolare variante di ADR che consenta di estendere gli effetti anche a creditori non aderenti (ne parliamo a breve).

Procedura in breve: l’imprenditore in crisi formula un piano di risanamento e una proposta di accordo ai creditori. Si fa assistere da un attestatore indipendente che certifica che il piano è realistico e che i creditori estranei all’accordo non subiranno pregiudizio (ossia verranno pagati per intero come richiesto dalla legge) . Raggiunte le adesioni scritte di almeno il 60% (per importo) dei creditori, il debitore deposita l’accordo in tribunale chiedendone l’omologazione. Il tribunale verifica la regolarità, la percentuale di adesioni, la fattibilità del piano (anche in base alla attestazione indipendente) e ascolta eventualmente i creditori dissenzienti (che possono opporsi se ritengono di essere pregiudicati). Se tutto è in regola, il giudice omologa l’accordo e da quel momento l’accordo diventa vincolante per tutti i creditori aderenti e anche per l’azienda, con efficacia di titolo esecutivo. I creditori non aderenti invece restano liberi, ma siccome la legge impone di pagarli integralmente, in teoria non hanno ragione di agire esecutivamente se vedono che nei termini previsti riceveranno il pagamento.

Vantaggi dell’ADR dal punto di vista del debitore:
– È un percorso più rapido e discreto del concordato. La negoziazione è privata e solo quando si deposita l’accordo in tribunale vi è pubblicità. Non serve il voto di tutti i creditori, basta quella maggioranza qualificata.
– Durante le trattative, e ancor più dopo il deposito per omologa, il debitore può chiedere misure protettive analoghe a quelle del concordato (sospensione delle azioni esecutive). Il CCII consente di ottenere protezione cautelare già nella fase di trattativa di un ADR, su richiesta, per evitare che un singolo creditore faccia saltare il tavolo agendo individualmente.
– Una volta omologato, l’accordo consente di beneficiare di strumenti accessori: ad esempio, la possibilità di concludere una transazione fiscale sui debiti erariali con la stessa efficacia del concordato (art. 63 CCII). Anche finanziamenti nuovi erogati in esecuzione dell’accordo, se autorizzati dal tribunale, godono di prededuzione in un eventuale successivo fallimento. In sintesi l’ADR fornisce un ombrello legale attorno a un accordo negoziato, dandogli forza e proteggendo i nuovi apporti di denaro e gli atti esecutivi.
– È flessibile: si può adattare ai casi. Ne esistono vari tipi:
– ADR standard (60% crediti, pagamento integrale non aderenti).
ADR agevolato: se l’accordo coinvolge solo creditori finanziari (banche, investitori istituzionali) ed almeno il 75% di essi aderisce, la percentuale minima totale scende a 30% del totale debiti (art. 61 CCII). Questo per favorire ristrutturazioni bancarie quando l’impresa ha debiti quasi esclusivamente con banche: basta convincerne una bella fetta per procedere.
ADR a efficacia estesa: innovazione recepita anche dal correttivo 2024, permette di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori finanziari dissenzienti se si raggiungono certe percentuali e condizioni (in pratica, con il 75% di adesione delle banche, l’accordo può essere esteso anche alla banca che non ha firmato, cramdown settoriale). Ci sono anche meccanismi per estendere l’accordo ai fornitori strategici che abbiano un interesse comune (per evitare il problema del “holdout” di pochi piccoli creditori). Il correttivo 2024 però ha escluso la possibilità di cram down fiscale se l’azienda ha elevatissimi debiti col Fisco (oltre 80% tot) o condotte abusive , come già spiegato.
ADR di gruppo: se c’è un gruppo di imprese, si possono fare accordi di ristrutturazione di gruppo con regole particolari (coordinamento dei piani, ecc.).

In un ADR il debitore può mettere dentro diverse misure di ristrutturazione (toolkit): dilazioni di pagamento, stralci parziali di debiti (haircut) previo accordo , conversione di debiti in quote societarie (debt-to-equity swap) , concessione di nuove garanzie o covenants ai creditori aderenti, eventuale cessione di asset non strategici per fare cassa, e così via . È un “menu” componibile in base a ciò che i creditori sono disposti ad accettare e a ciò che serve per la continuità aziendale. Lo scopo è riallineare il profilo del debito alla capacità di generare cassa dell’impresa .

Differenze rispetto al concordato: l’accordo ADR coinvolge solo le parti firmatarie attivamente, mentre nel concordato tutti i creditori sono chiamati a votare; il concordato può imporre tagli anche a dissenzienti (col meccanismo del voto a maggioranza e possibili cram down di classi), l’ADR no, salvo le eccezioni suddette per finanziari. D’altra parte, il concordato è una procedura più pubblica e lunga, mentre l’ADR è più riservato e, se c’è coesione tra principali creditori, è veloce (anche l’omologa è semplificata se c’è attestazione di convenienza e nessuno si oppone). In gergo si dice: l’ADR conviene se hai pochi creditori “pesanti” ragionevoli e la crisi è finanziaria ma recuperabile ; il concordato conviene se hai tanti creditori diversi, potenziali contenziosi, o un business da ristrutturare profondamente, quindi serve l’intervento più invasivo del tribunale .

Esempio: l’azienda Elevatori S.r.l. ha 5 banche e 20 fornitori rilevanti. Decide di fare un ADR. Presenta un piano: le banche A, B, C (che insieme hanno il 65% dei crediti) accettano di prorogare le scadenze e ridurre i tassi, mentre le banche D ed E vengono pagate interamente ma con nuovo finanziamento predisposto dal socio; i fornitori, che rappresentano il 20% del debito, vengono tutti pagati regolarmente a scadenza quindi non serve coinvolgerli nell’accordo; il Fisco accetta via transazione fiscale di prendere il 70% del dovuto in 5 anni, attestato che è meglio del 40% che otterrebbe in fallimento. Raggiunto l’accordo firmato con banche A, B, C e con l’Agenzia Entrate, la società lo deposita. I creditori estranei (fornitori, banche D/E già pagate etc.) non hanno nulla da eccepire perché non vengono intaccati (o addirittura alcuni sono stati già soddisfatti). Il tribunale omologa. La società prosegue, onora l’accordo, e supera la crisi. Questo mostra la logica inclusiva: nell’accordo includi chi devi rimodulare, escludi chi puoi pagare normalmente o chi è troppo complicato coinvolgere ma riesci a soddisfare a parte.

Se invece l’azienda avesse decine di piccoli creditori impossibili da pagare al 100%, oppure necessitasse di “imporre” un taglio generalizzato, l’ADR non sarebbe bastato e occorrerebbe un concordato (dove anche chi non è d’accordo subisce la falcidia decisa a maggioranza).

In sintesi, gli Accordi di Ristrutturazione sono uno strumento potente di difesa perché consentono al debitore di pilotare la ristrutturazione con chi conta, ottenendo al contempo la benedizione del tribunale che mette al riparo quelle intese e congela il resto. Se il concordato preventivo è un intervento chirurgico a cuore aperto, l’ADR è una laparoscopia: meno invasiva, più mirata, ma non adatta a tutti i casi. Nel prossimo paragrafo affronteremo proprio il concordato preventivo, che resta la procedura principe per risolvere le crisi più gravi con un intervento globale.

Il Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale giudiziale con cui l’imprenditore insolvente (o in stato di crisi) propone ai suoi creditori un accordo per evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) attraverso un soddisfacimento parziale o dilazionato dei loro crediti. È uno strumento complesso ma potente, che consente di ristrutturare il debito anche contro la volontà di alcuni creditori, purché la maggioranza sia favorevole e siano rispettate le regole di legge. Vista dal debitore, è spesso l’ultima spiaggia per salvare l’azienda in continuità o quanto meno per evitare le conseguenze più dure di un fallimento disordinato. Analizziamo i punti salienti del concordato alla luce della normativa vigente (Codice della Crisi d’Impresa, come modif. dai correttivi 2022-2024).

Tipologie di concordato: continuità vs liquidatorio

Il debitore può presentare due forme principali di concordato:
Concordato in continuità aziendale (art. 84 CCII): prevede che l’attività d’impresa prosegua, in capo allo stesso debitore o per effetto di un trasferimento (affitto o vendita) dell’azienda a un terzo, in modo da generare valore per pagare i creditori col flusso di cassa futuro. Ad esempio, il debitore propone: “tenetemi in vita, riducete i miei debiti del 40% e vi pago il 60% in 5 anni grazie agli utili futuri”. Oppure: “cedo il ramo d’azienda buono a un investitore, lui mette soldi che distribuiamo ai creditori” (continuità indiretta). Nel concordato in continuità c’è l’obiettivo di salvaguardare anche l’impresa come entità produttiva e i posti di lavoro, non solo di liquidare l’attivo. La legge consente qui di non rispettare integralmente i privilegi se c’è il voto, ma bisogna garantire ai creditori in continuità almeno il valore di liquidazione che avrebbero avuto se si liquidava tutto subito (principio della priorità assoluta sul valore di liquidazione). Oltre a ciò, eventuali valori creati dalla continuità possono essere distribuiti con priorità relativa (si possono trattare diversamente creditori subordinati, ecc., purché nessuno ottenga meno di quanto spetterebbe in liquidazione). Nel concordato in continuità non c’è soglia minima di pagamento ai chirografari fissata ex lege, ma il piano dev’essere tale da ottenere l’adesione dei creditori (quindi in pratica deve offrire un certo appeal). I crediti privilegiati possono, con voto, essere degradati in parte se la continuità richiede di impiegare risorse per mantenere l’impresa in esercizio (es. non si liquida un macchinario ipotecato ma lo si usa: la banca con ipoteca potrebbe accettare di essere pagata parzialmente, confidando che la continuità genererà più valore per tutti).
Concordato liquidatorio: prevede la cessione o liquidazione dei beni del debitore e la distribuzione del ricavato ai creditori, chiudendo l’attività. È simile a un fallimento concordato con i creditori ma sotto controllo del debitore proponente. La legge qui è più rigida perché non c’è un rilancio industriale: si chiede ai creditori di accettare uno sconto sui loro crediti in cambio di incassare subito il ricavato della liquidazione senza passare per fallimento. Nel concordato liquidatorio classico è richiesto per legge che i creditori chirografari ricevano almeno il 20% del loro credito (se non si raggiunge, il concordato non è ammissibile, a meno che un terzo apporto di risorse esterne aumenti la percentuale). Questo per evitare concordati “tombali” con percentuali infime. Inoltre, nel liquidatorio puro si devono liquidare tutti i beni non funzionali all’eventuale esercizio provvisorio. Il correttivo 2024 ha introdotto il concordato semplificato già descritto, che è una variante di concordato liquidatorio senza voto creditori, applicabile post-composizione negoziata fallita, in cui i creditori possono solo opporsi all’omologa ma non votano. In quello i creditori restano senza potere decisionale ma c’è comunque il controllo del tribunale sulla convenienza.

Procedimento di concordato: dalla domanda all’omologa

Fase 1: Domanda di concordato – L’imprenditore presenta al tribunale un ricorso contenente la proposta di concordato, il piano dettagliato e tutta la documentazione (elenco creditori, bilanci, relazione di un attestatore indipendente sulla fattibilità del piano e l’attendibilità dei dati). Può farlo anche in situazione di crisi (non per forza insolvenza conclamata), anzi l’auspicio della riforma è che vi si ricorra prima del collasso. Esiste la possibilità di presentare una domanda “in bianco” o con riserva (art. 44 CCII): il debitore deposita il solo ricorso manifestando la volontà di accedere al concordato e chiedendo un termine (da 30 a 60 giorni prorogabile fino a 120, o anche di più se c’è attivata una composizione negoziata) per presentare piano e proposta definitivi. È un modo per attivare subito le protezioni della procedura e prendere tempo per perfezionare il piano. Il correttivo 2024 ha reso questa fase “prenotativa” più rigorosa: se il debitore deposita un ricorso con riserva senza specificare che strumento intende adottare, verrà considerato soggetto alle regole del concordato preventivo ordinario (le più rigide) , e per ottenere proroghe deve comunque presentare un abbozzo di piano di regolazione della crisi . Ciò per evitare abusi dilatori della procedura in bianco. Insomma, il concordato “in bianco” è utile ma va usato per guadagnare qualche mese di respiro durante cui definire il piano, non per stare anni sotto scudo.

Una volta depositata la domanda (completa o con riserva), scattano gli effetti protettivi: il tribunale di norma sospende eventuali procedure esecutive pendenti e vieta nuovi pignoramenti (o li autorizza caso per caso), similmente a quanto detto per l’ADR. Inoltre, il debitore rimane in possesso dei beni (debtor in possession), ma sotto la vigilanza di un Commissario Giudiziale nominato dal tribunale, che deve monitorare la gestione e riferire ai creditori.

Fase 2: Ammissibilità e adunanza dei creditori – Il tribunale valuta preliminarmente l’ammissibilità (completezza documenti, percentuale minima garantita se liquidatorio, ecc.). Se la domanda è in regola, ammette la società alla procedura e convoca i creditori per l’adunanza (assemblea) in cui si discuterà e voterà la proposta. Nel frattempo, il Commissario invia ai creditori una relazione sull’analisi del piano e del trattamento dei crediti. I creditori vengono divisi per classi se il piano lo prevede (la classazione è obbligatoria se ci sono creditori con garanzie prestate da terzi o se si intende trattare diversamente creditori di natura giuridica differente; ad esempio, spesso si fa classe banche, classe fornitori chirografi, classe crediti subordinati, etc.). Ogni classe voterà separatamente.

All’adunanza, che si tiene di fronte al giudice delegato e al commissario, il legale dell’azienda illustra il piano, i creditori possono fare domande e discussioni, poi si apre la votazione (che può avvenire anche per corrispondenza nei 20 giorni successivi). Per l’approvazione servono: maggioranza dei crediti ammessi al voto, calcolata come più del 50% in valore dei crediti votanti, e inoltre (nel caso di classi) maggioranza di classi (la maggioranza delle classi deve approvare, computando come approvata una classe se il sì viene dalla maggioranza in valore dei crediti in quella classe). Se una classe di creditori non ottiene la maggioranza ma il concordato ha comunque superato il 50% del passivo totale e certe condizioni sono rispettate (ad es. i dissenzienti vengono soddisfatti almeno quanto in liquidazione, e nessuna classe inferiore prende più di quella dissenziente – regole di priorità), il tribunale può comunque omologare il concordato (cram down interclassi). Il nuovo art. 84 CCII e segg. detta criteri di priorità assoluta/relativa come accennato, che servono proprio in caso di dissenso di classi: se per es. i chirografari votano sì ma i privilegiati votano no, il tribunale potrebbe imporlo se i privilegiati ricevono almeno il valore di liquidazione del loro pegno e comunque nessun subordinato prende qualcosa prima di loro, ecc. Viceversa, se la classe dei chirografari vota no, ma tutte le altre sì, il tribunale può forzare l’omologa se i chirografari dissenzienti prendono almeno il liquidation value e nessun altro di rango pari o inferiore prende più di loro (c.d. cram down per classi dissenzienti, previsto dall’art. 112-ter l.f. e ora trasfuso nel CCII).

Fase 3: Omologazione – Se i creditori approvano a maggioranza, si passa all’udienza di omologazione. Qui il tribunale verifica l’esito delle votazioni e la legittimità del piano. I creditori eventualmente dissenzienti possono fare opposizione all’omologa, contestando ad es. la convenienza (sostenendo che in fallimento avrebbero avuto di più) o vizi procedurali. Il giudice valuta queste opposizioni; se le ritiene infondate e tutto è a norma, emette il decreto di omologazione che rende il concordato definitivo. Da quel momento, l’azienda è vincolata ad eseguire il piano conforme all’omologato, e tutti i creditori ne sono vincolati: i crediti vengono “tagliati” o soddisfatti come da piano, e per l’eventuale parte eccedente non esigibile i creditori perdono il diritto (viene “falciata”). Se ci sono creditori rimasti inattivi, comunque il concordato li coinvolge: i loro crediti sono trattati secondo la classe di appartenenza come se avessero votato no (dissenzienti). I crediti privilegiati se non integralmente soddisfatti devono aver accettato (votando sì o tacendo in caso di pagamento parziale proposto, o col cram down fiscale se applicato).

Una volta omologato, il concordato viene attuato sotto la sorveglianza di un Liquidatore Giudiziale (se è liquidatorio) o del commissario (se continuità) o altro organo eventualmente nominato per controllare l’esecuzione. L’azienda conserva l’amministrazione sotto vigilanza (nel concordato in continuità ordinario) oppure, se è un concordato con cessione dei beni, la gestione passa al liquidatore nominato che vende i beni e distribuisce le somme come previsto.

Se la proposta NON raggiunge le maggioranze: il tribunale dichiara il fallimento (liquidazione giudiziale) se l’insolvenza persiste e c’è istanza, oppure archivia se magari nel frattempo il debitore ha pagato tutti (caso raro).

Modifiche introdotte: Il correttivo 2024 ha toccato vari punti, ad esempio: maggiore flessibilità nella fase prenotativa (ora è possibile presentare una domanda di concordato con riserva anche se pende una istanza di fallimento, purché si produca un progetto di piano immediatamente ); è stata chiarita la disciplina della classazione (obbligatoria solo per creditori muniti di garanzia da terzi dopo il correttivo , per il resto facoltativa); sono stati armonizzati i rapporti con l’istituto della convenienza e cram down (ribadendo come sopra: transazione fiscale ammessa anche in continuità e che il giudice può superare il dissenso del Fisco se le condizioni sono rispettate, tranne casi di abuso). Anche il tema dei contratti pendenti è stato rivisto in parte: l’imprenditore in concordato può chiedere di sciogliere o sospendere alcuni contratti se funzionale al piano, con autorizzazione del tribunale, pagando indennizzo eventuale al contraente (questo per liberarsi ad es. di affitti onerosi, ecc.).

Difendersi con il concordato: Dal lato pratico, la scelta di ricorrere a un concordato preventivo deve essere ponderata. È un’arma a doppio taglio: offre protezione (blocco delle azioni esecutive, niente interessi di mora sui crediti pregressi, sospensione dei contratti esecutivi in corso se autorizzata, possibilità di ottenere finanza interinale in prededuzione) e consente di “imporre” sacrifici a tutti i creditori con il crisma della maggioranza e del tribunale; tuttavia, è costosa (spese legali, spese di commissari e periti), complessa e soprattutto pubblica – la notizia dell’ammissione a concordato esce su registro imprese, la reputazione dell’azienda ne risente. Spesso i fornitori stringono i cordoni (perché i debiti pregressi vengono congelati e temono per i futuri) e i clienti possono perdere fiducia. Dunque l’azienda deve essere in grado di operare in concordato in continuità senza flussi di cassa dalle banche (che di solito bloccano le linee appena sanno del concordato). Una contromisura è ottenere finanziamenti prededucibili: il tribunale può autorizzare che taluni finanziatori (anche soci) diano fondi in corso di procedura, garantendo loro la prededuzione (restituzione prioritaria) anche in caso di fallimento. Questo in pratica serve per avere liquidità per portare avanti l’attività durante i mesi di concordato.

Dal punto di vista difensivo puro, il concordato è un po’ il “nuclear option”: se i creditori stanno attaccando da più fronti e non si riesce a star dietro, avviarlo può congelare la situazione e permettere di rimettere ordine, riducendo l’esposizione debitoria a ciò che l’azienda realisticamente può pagare. Ad esempio, l’imprenditore può dire: “Cari creditori, se mi forzate al fallimento prendereste forse il 20%. Vi offro concordato al 30%, pagato in 2 anni: accettate e l’azienda sopravvive”. Molti preferiranno se credono nel piano.

Esempio di concordato preventivo in continuità (simulazione semplificata)

Supponiamo la nostra Elevatori S.r.l. abbia debiti totali per 10 milioni, di cui 2 milioni privilegiati (dipendenti, Fisco, banca con ipoteca su capannone) e 8 milioni chirografari (banche senza garanzia residua e fornitori). L’azienda è insolvente ma ha un portafoglio ordini e potrebbe, se alleggerita, tornare redditizia. Propone un concordato in continuità: mantiene attiva la produzione, ottiene un nuovo finanziamento di 1 milione dai soci per capitale circolante (prededucibile), offre ai creditori: pagamento 100% ai privilegiati (ma dilazionato 2 anni per l’IVA e contributi, con transazione fiscale approvata dal Fisco accettando un lieve stralcio su sanzioni), e pagamento 40% ai chirografari in 5 anni. I chirografari stimano che in fallimento avrebbero preso 15%, quindi il 40% proposto è conveniente. Si classano i creditori in: classe 1 – dipendenti (100% entro 6 mesi), classe 2 – Fisco/INPS privilegiati (100% in 2 anni, accordo su interessi), classe 3 – banca ipotecaria (100% in 2 anni vendendo un immobile non strategico), classe 4 – chirografari (40% in 5 anni). Al voto, tutte le classi votano sì (o comunque raggiungiamo la maggioranza). Il tribunale omologa. L’azienda esce dal concordato dopo aver pagato le prime rate e continua la sua attività con un debito dimezzato e scadenze allungate. I soci hanno perso valore delle quote ma l’hanno preservata come going concern. Questo scenario richiede ovviamente che il piano fosse verosimile e ben attestato (ad esempio, l’attestatore deve aver certificato che con i flussi futuri si può pagare il 40% in 5 anni e mantenere l’impresa viva).

Naturalmente, se invece la crisi è troppo grave e l’azienda non è salvabile come attività, l’unico concordato proponibile sarebbe uno liquidatorio: vendere tutto ciò che ha valore (magari “spezzatino” a più compratori), e distribuire il ricavato in percentuale ai creditori. Può essere comunque vantaggioso per i creditori rispetto al fallimento perché i tempi sono più brevi e c’è un apporto di valore esterno (spesso nel concordato liquidatorio il debitore offre qualche incentivo in più: ad esempio un terzo – un nuovo investitore o i soci stessi – mette una somma extra per convincere i creditori ad accettare). Ad esempio, se la previsione di realizzo fallimentare è 20%, la proposta concordataria liquidatoria può essere 25% grazie a un contributo dei soci o a risparmi di spese.

Conclusione sul concordato: per il debitore, è uno strumento di difesa importante ma impegnativo. Non è un espediente per perdere tempo (anche se qualcuno lo usava così con la vecchia “domanda in bianco” per bloccare i creditori e poi non presentare piano – oggi più difficile). Va intrapreso con l’assistenza di professionisti e con la consapevolezza che poi bisogna rispettare il piano: se il debitore non esegue il concordato omologato, si va incontro alla risoluzione del concordato e all’apertura della liquidazione giudiziale di diritto (o su istanza). Quindi fallimento rinviato ma poi inevitabile, con aggravante di aver perso tempo e fiducia. Inoltre la risoluzione del concordato riapre la responsabilità degli amministratori per aggravamento nel frattempo. Dunque, il concordato preventivo è un’arma da usare quando si è abbastanza sicuri di poterla gestire e portare a termine.

La Liquidazione Giudiziale (ex fallimento)

Se tutte le misure di risanamento o difesa falliscono, l’esito è la liquidazione giudiziale, cioè la procedura concorsuale liquidatoria che dal 2019 ha sostituito il termine “fallimento”. Dal punto di vista del debitore, la liquidazione giudiziale è certamente un evento negativo: l’imprenditore perde la gestione dell’azienda, il patrimonio viene spossessato e destinato a soddisfare i creditori, l’impresa viene di regola chiusa o venduta. Tuttavia, a volte è l’unica soluzione residua, e può essere affrontata cercando di minimizzare i danni personali (ad es. tramite l’esdebitazione) e massimizzare l’ordine nella liquidazione (preferibile un fallimento ordinato che un collasso anarchico). Qui tratteremo brevemente come funziona la liquidazione giudiziale e che implicazioni ha per il debitore, completando così il quadro degli strumenti.

Apertura della procedura: La liquidazione giudiziale viene aperta con sentenza del tribunale su ricorso di un creditore, del debitore stesso (che può anche “auto-fallire” ammettendo l’insolvenza) o del PM. Presupposti: lo stato di insolvenza (incapacità strutturale di soddisfare regolarmente le obbligazioni) e la qualifica di debitore fallibile (impresa commerciale sopra le soglie dimensionali, o anche sotto soglia ma soggetta a liquidazione controllata – però la liquidazione giudiziale vera e propria riguarda imprese non piccolissime). Per le società di persone, basta l’insolvenza della società per trascinare i soci illimitatamente responsabili; per le società di capitali e imprenditori individuali, solo loro falliscono.

Con la sentenza di liquidazione giudiziale:
Spossessamento: l’imprenditore perde la disponibilità dei beni aziendali (e personali se impresa individuale). Viene nominato un Curatore che amministra il patrimonio in funzione della liquidazione. Al debitore fallito è anche fatto divieto di pagare i creditori anteriori, di disporre dei beni, etc., pena nullità degli atti.
Interruzione e divieto di azioni esecutive individuali: tutti i creditori devono portare le loro pretese nello stato passivo della procedura; i pignoramenti in corso sono inefficaci e nuovi atti individuali vietati. Ciò attua la par condicio (parità di trattamento): niente corse dei singoli, ma un processo collettivo controllato.
Cristallizzazione dei debiti: gli interessi sui debiti chirografari si fermano alla data della sentenza (i privilegiati maturano interessi solo entro il valore del bene su cui hanno privilegio).
Sospensione dei contratti pendenti: il curatore decide quali contratti in corso proseguire e quali sciogliere, secondo convenienza per la massa (es. potrà completare una commessa se redditizia, altrimenti recedere con indennizzo come da legge fall.).
Effetti personali sul debitore: ci sono restrizioni quali: obbligo di consegnare libri e documenti, obbligo di collaborazione, possibili esami in tribunale. Per l’imprenditore persona fisica fallito, alcune limitazioni civili (non può fare da amministratore di altre società, restrizioni a spostamenti all’estero senza autorizzazione, ecc.).

Svolgimento: Il curatore compie un inventario e gestisce l’esercizio provvisorio se autorizzato (ossia può continuare temporaneamente l’attività d’impresa se serve a conservare valore e vendere meglio gli asset, ad es. completare ordini in corso). Poi predispone un programma di liquidazione dove stabilisce come vendere i beni: vendite all’asta, oppure cessione di azienda in blocco se possibile, recupero crediti, cause attive, ecc. Nel frattempo i creditori presentano domande di insinuazione entro un termine (30-60 giorni): il curatore esamina le domande e predispone uno stato passivo, che viene vagliato dal giudice delegato in udienza. Ogni credito viene ammesso, respinto o ammesso con riserva, a seconda delle verifiche. I creditori possono fare opposizione se non ammessi o ridotti. Una volta formato lo stato passivo definitivo, si conosce l’ammontare delle pretese.

Graduazione dei crediti: Nella distribuzione delle somme ricavate si segue un preciso ordine: prima i crediti prededucibili (costi della procedura, compensi del curatore, e crediti sorti dopo l’apertura se autorizzati, come finanziamenti in esercizio provvisorio), poi i crediti privilegiati speciali sui beni vincolati (es. se c’è ipoteca su immobile, il ricavato di quell’immobile va prima alla banca fino concorrenza credito+interessi fino data apertura), poi eventuali privilegi generali sul mobiliare (dipendenti, Fisco per una parte, etc.) che concorrono sul patrimonio residuo in ordine di grado stabilito dalla legge (per esempio, privilegi generali dei lavoratori vengono prima di quelli dello Stato). Solo se avanza qualcosa si pagano i chirografari (in proporzione). Infine eventuali subordinati (soci finanziatori postergati, interessi moratori ecc.). In un fallimento di solito i chirografari recuperano poco (a volte zero), privilegiati parzialmente se il patrimonio è insufficiente, dipende.

Chi decide come vendere? Il curatore sotto la supervisione del Comitato dei creditori e del GD può vendere i beni tramite procedure competitive. Anche qui per il debitore è fuori controllo. Egli può però contribuire – se collabora – a miglior esito, magari segnalando acquirenti interessati.

Durata: I fallimenti duravano anni. Il CCII mira a chiuderli più in fretta. C’è un incentivo a chiudere in 3 anni salvo complessità. Un fallimento più rapido avvantaggia il debitore persona fisica perché può prima accedere all’esdebitazione.

Chiusura: La procedura si chiude con decreto di chiusura per riparto finale eseguito o per insufficienza di attivo. A quel punto la società fallita, se è società di capitali, viene cancellata dal registro imprese e cessa di esistere; l’imprenditore individuale torna “libero” dai vincoli, ma i debiti insoddisfatti di regola resterebbero a suo carico (es. un fallito persona fisica prima della riforma, se aveva pagato ai creditori solo il 20%, restava debitore per il 80% residuo, seppure i creditori non potevano più agire perché non aveva beni – ma in teoria se avesse vinto alla lotteria dopo potevano rifarsi).

Esdebitazione: ecco perché c’è l’istituto dell’esdebitazione del fallito: per dare una liberazione dai debiti residui all’onesto ma sfortunato. Oggi l’esdebitazione (artt. 278-281 CCII) può essere chiesta sia dal fallito persona fisica sia, come detto, dalle società (in casi particolari). Nel caso di persona fisica, la legge prevede che venga concessa salvo che: il debitore sia stato sanzionato per frodi o condotte dolose che hanno causato il dissesto, o non abbia cooperato durante la procedura, o abbia già beneficiato di esdebitazione nei 5 anni precedenti, o non abbia soddisfatto neanche in minima parte i creditori concorsuali (quest’ultimo punto è stato per anni dibattuto, come visto con Cass. 15359/2023: sostanzialmente ora l’orientamento è di concedere l’esdebitazione anche se i creditori hanno avuto poco, purché non proprio zero assoluto, in linea con il favor debitoris e la direttiva UE ). Con la riforma, non occorre più attendere la fine formale del fallimento: trascorsi 3 anni dalla apertura (per persone fisiche, 2 anni per i soggetti di sovraindebitamento), il debitore meritevole può chiedere l’esdebitazione anche se il fallimento non è chiuso . Inoltre, esiste una forma di esdebitazione “immediata” per il debitore incapiente (art. 282 CCII, ex L.3/2012): se un privato o piccolo imprenditore non ha nulla da offrire ai creditori, può ottenere la cancellazione dei debiti subito, a patto di essere meritevole e non aver dolo, e i creditori possono opporsi se emergono utilità nascoste ecc.

Ma torniamo al fallimento: per l’azienda Elevatori, la liquidazione giudiziale significherebbe che un curatore vende i suoi macchinari, brevetti, immobili; i contratti di lavoro vengono cessati (dipendenti accedono al fondo di garanzia per TFR); i creditori vedranno qualche soldo se c’è attivo. Gli amministratori magari subiranno azioni di responsabilità se hanno colpe. La società, esaurito l’attivo, sparirà. Se i soci avevano garanzie personali, i creditori insoddisfatti andranno poi contro di loro; se no, i crediti chirografari insoddisfatti restano senza più soggetto da inseguire (la società non c’è più).

Difendersi nel fallimento: Una volta dichiarato, poco da fare se non cooperare e puntare all’esdebitazione finale. Il debitore può contestare alcune scelte (fare opposizione allo stato passivo se non concorda con qualche credito ammesso, proporre reclamo contro provvedimenti del GD se lesivi, ecc.). Ma sostanzialmente il timone è altrove. Può però concordare col curatore soluzioni migliorative: per es., se i soci volessero evitare una svendita all’asta del marchio aziendale a terzi, potrebbero offrire loro di comprarlo dal fallimento a prezzo equo (il curatore valuterà). Il fallimento talvolta si chiude con un concordato fallimentare (ora “concordato nella liquidazione giudiziale”): una proposta fatta dal fallito stesso o da terzi ai creditori dopo la sentenza di fallimento, del tipo: diamo subito 30% e chiudiamo la procedura. Se i creditori lo approvano e il tribunale omologa, il fallimento si chiude anticipatamente soddisfacendo parzialmente i creditori. È una strada percorribile se spunta un white knight postumo o i soci racimolano fondi per rilevare l’attivo e pagare una percentuale.

Dal punto di vista morale, il fallimento non è più uno stigma infamante come un tempo (il legislatore ha anche abolito termini come “fallito” in favore di “debitore”). È visto come un evento fisiologico possibile nel fare impresa. Tuttavia, resta un evento che ogni imprenditore vuole evitare, e giustamente: segna la fine di un progetto, la dispersione di valore. Tutte le difese del debitore sin qui illustrate servono appunto a evitare di arrivare a questo capolinea, o ad arrivarci limitando i danni (ad es. preferendo una liquidazione concordata che preservi magari la parte sana dell’azienda in nuove mani, piuttosto che un fallimento puro).

Strumenti per il debitore sovraindebitato (procedura di crisi da sovraindebitamento)

Oltre alle procedure fin qui viste, che riguardano principalmente imprese commerciali di dimensioni medio-grandi, esiste un intero titolo del Codice della Crisi dedicato alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. Queste sono le eredi della legge 3/2012, pensate per: piccoli imprenditori sotto soglia di fallibilità, imprenditori agricoli, professionisti, consumatori e in genere chi non ha accesso al concordato o al fallimento. Dal punto di vista del debitore persona fisica o piccola impresa indebitata, rappresentano vie d’uscita importantissime. Le citiamo brevemente:

  • Concordato minore (art. 74 CCII): è l’equivalente del concordato preventivo ma per debitori non fallibili o sotto soglia. Richiede il voto dei creditori (maggioranza semplice) e consente di proporre il pagamento parziale dei debiti. Serve un attestatore che certifichi la fattibilità. La disciplina richiama molto quella del concordato preventivo, con alcune semplificazioni (ad esempio, la classazione è obbligatoria solo in casi ristretti). Purtroppo non è chiarissimo il coordinamento con la transazione fiscale: il correttivo 2024 non ha risolto tutti i dubbi, rinviando in blocco alle norme del concordato preventivo . In pratica, un piccolo imprenditore (artigiano, start-up non fallibile) può presentare un concordato minore se vuole evitare la liquidazione totale e ha un business ancora sostenibile.
  • Piano del consumatore (ora Piano di ristrutturazione per il consumatore, art. 67 CCII): riservato a chi ha debiti personali (non d’impresa) e si trova sovraindebitato per cause non imputabili a sua colpa grave. Consente di proporre al giudice un piano di pagamento parziale/dilazionato dei debiti, senza necessità di voto dei creditori (il giudice lo omologa verificando che i creditori ottengano almeno quanto avrebbero da una liquidazione). Utile per famiglie soffocate da debiti (es. mutui, finanziarie).
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato (art. 268 CCII): è la procedura liquidatoria per i debitori non fallibili. L’equivalente del fallimento ma su scala ridotta e con qualche elasticità. Il patrimonio del piccolo debitore viene liquidato da un liquidatore nominato dal giudice, e poi il debitore può chiedere l’esdebitazione. È spesso l’approdo per chi non ha un piano sostenibile o non raggiunge accordi.
  • Esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII): come accennato, se un debitore (persona fisica) non possiede nulla di liquidabile (se non cose di poco conto) e non ha prospettive di reddito soddisfacenti, può chiedere immediatamente la cancellazione dei debiti, a patto di essere considerato meritevole (non deve aver colposamente causato la sua insolvenza né mentito, né fatto atti in frode). È una sorta di “fresh start” fulmineo per chi altrimenti rimarrebbe debitore a vita senza poter pagare. I creditori possono opporsi se nei 4 anni successivi scoprono che ha migliorato la sua situazione (nel qual caso il beneficio può essere revocato in parte). Questo istituto è molto rilevante per gli ex imprenditori falliti onesti ma nullatenenti: consente loro di ripartire da zero subito dopo la chiusura del fallimento (o anche prima, se la procedura è chiusa per insufficienza, ecc.).

Per la nostra trattazione, basti sapere che anche il piccolo imprenditore o il garante (che spesso resta esposto dopo il fallimento della società) hanno un ventaglio di procedure ad hoc per ristrutturare o cancellare i debiti residui. Dal punto di vista difensivo, se un imprenditore vede sfumare la possibilità di salvare la società, può comunque cercare di salvare se stesso dal peso dei debiti tramite queste procedure. Ad es., il socio garantitore della Elevatori S.r.l. potrebbe ricorrere a un accordo di composizione (vecchio piano del consumatore) o farsi mettere in liquidazione controllata per far vendere i suoi beni e poi ottenere l’esdebitazione. L’importante è agire legalmente: tentare trucchi per sottrarre beni (donazioni a familiari last minute, o far dimettere la società lasciandola vuota) espone a revocatorie e sanzioni, mentre sfruttare la protezione legale del sovraindebitamento permette di voltare pagina lecitamente.

Riassumendo la gerarchia delle soluzioni dal punto di vista del debitore:
1. Soluzioni negoziali informali (nessuna procedura): rinegoziazioni bilaterali, moratorie, piani attestati (se efficaci, evitano di entrare in concorso).
2. Procedure di regolazione concordata: composizione negoziata (pre-concorsuale), accordi di ristrutturazione (semi-concorsuale), concordato preventivo o minore (concorsuale). Obiettivo: risanare o comunque evitare la liquidazione integrale, pagando i creditori in parte.
3. Procedure liquidatorie: liquidazione giudiziale o controllata. Obiettivo: liquidare tutto con ordine, distribuire ai creditori pro-quota, estinguere la società.
4. Post liquidazione – Esdebitazione: liberare il debitore (soprattutto persona fisica) dai debiti residui per dargli chance di ripartenza senza zavorra.

Domande frequenti (FAQ)

Domanda: Cosa può fare concretamente un imprenditore debitore per guadagnare tempo ed evitare che i creditori pignorino subito i beni aziendali?
Risposta: Può attivare vari strumenti legali di sospensione delle azioni esecutive. In fase iniziale, se i creditori non sono ancora muniti di titolo, può contestare le loro richieste in giudizio (ad esempio opponendosi a un decreto ingiuntivo entro 40 giorni , il che apre un processo ordinario di durata ben maggiore durante cui il pignoramento rimane in stand-by, salvo provvisoria esecuzione). Se invece un creditore ha già un titolo esecutivo e avvia un pignoramento, il debitore può chiedere al giudice dell’esecuzione la sospensione presentando un’opposizione all’esecuzione (se ha motivi seri per contestare il diritto del creditore) o un’opposizione agli atti esecutivi (se ci sono vizi procedurali). In parallelo, sul piano “collettivo”, il debitore può ricorrere a misure protettive tramite procedure concorsuali: ad esempio, depositare un ricorso per concordato preventivo con riserva (concordato “in bianco”). Dal momento del deposito, il tribunale su istanza in genere emette un provvedimento che blocca temporaneamente i pignoramenti dei creditori (nessuno può iniziare o proseguire esecuzioni individuali ex art. 54 CCII). Similmente, se l’imprenditore accede alla composizione negoziata e chiede misure protettive, ottiene dallo stesso art. 18 CCII uno stay generale. Queste soluzioni forniscono una tregua (qualche mese) utile a negoziare con i creditori un accordo o predisporre un piano concordatario. Infine, esiste l’istituto (poco noto) della conversione del pignoramento: se un creditore ha pignorato ad esempio un macchinario, il debitore può proporre al giudice di sostituire il bene con una somma in deposito, pagando a rate (art. 495 c.p.c.). È però necessario disporre di liquidità per versare un quinto subito e garantire le restanti. In sintesi: l’opposizione giudiziale e l’accesso a una procedura concorsuale sono le vie maestre per guadagnare tempo in modo lecito. Bisogna però usare questo tempo per arrivare a una soluzione di fondo (accordo di ristrutturazione o concordato), non per procrastinare indefinitamente.

Domanda: Ho sentito dire che i debiti si prescrivono e non sono più dovuti dopo un tot di anni. È vero? Posso rifiutarmi di pagare un debito aziendale perché “vecchio”?
Risposta: Sì, molti debiti si estinguono per prescrizione se il creditore non agisce entro un certo termine. Ad esempio, i debiti commerciali derivanti da forniture di beni/servizi di regola hanno prescrizione decennale (termine ordinario ex art. 2946 c.c.), ma vi sono eccezioni: compensi professionali 3 anni, interessi e tutto ciò che è periodico 5 anni, retribuzioni lavoro 5 anni, contributi previdenziali 5 anni, tributi in alcuni casi 5 anni (es. bollo auto) altri 10, ecc. Se un debito è davvero molto vecchio e il creditore è rimasto inerte, il debitore può sollevare la prescrizione come eccezione per non pagarlo. Attenzione però: la prescrizione va eccepita in giudizio e spetta al giudice dichiararla, non è automatica. Inoltre può essere interrotta da atti del creditore (una diffida, una citazione, un sollecito formale interrompono e fanno decorrere da capo il termine). Dunque, prima di pensare “non pago perché sono passati 6 anni”, bisogna consultare un legale, valutare se nel frattempo quel debito non è stato interrotto. Se effettivamente è prescritto, l’azienda può rifiutare il pagamento; se il creditore insiste legalmente, il giudice rigetterà la sua domanda per intervenuta prescrizione. In sede concordataria, i crediti prescritti o contestati possono essere esclusi o inseriti come “contestati” e non pagati per intero. Quindi la prescrizione è un’ottima difesa ma richiede un’analisi accurata delle date e atti. Esempio pratico: un fornitore vi fatturò nel 2017, poi più nulla. Nel 2025 vi chiede i soldi. Sono passati oltre 5 anni; se non c’è un riconoscimento scritto vostro nel frattempo né atti interruttivi, quel credito è presunto prescritto (molte forniture rientrano in 5 anni come “prestazioni periodiche” o rapporti di conto). Voi potrete opporvi a un eventuale decreto ingiuntivo eccependo la prescrizione e, se confermata, non pagherete nulla.

Domanda: La banca mi ha fatto firmare anni fa una fideiussione omnibus per le linee di credito della società. Ora la società è insolvente e la banca chiede a me (fideiussore) di pagare. Posso difendermi?
Risposta: Può controllare se la fideiussione che ha firmato contiene le famose clausole ABI nulle (le clausole di “reviviscenza”, “sopravvivenza” e “deroga articolo 1957 c.c.”). Molti moduli di fideiussione predisposti dalle banche in passato riprendevano fedelmente lo schema ABI 2003 che la Banca d’Italia, con provvedimento n. 55/2005, ha dichiarato contrario alla legge antitrust per intesa restrittiva. La giurisprudenza negli ultimi anni – da ultimo anche Cassazione ord. n. 18851/2025 – ha confermato che quelle clausole standard sono nulle per violazione di norme imperative (antitrust) in quanto replicano il modello incriminato. La nullità è parziale: significa che cade l’efficacia di quelle singole clausole, ma la fideiussione rimane valida per il resto. Quali effetti concreti? Ad esempio, la clausola di reviviscenza prevedeva che se la banca incassa qualcosa dal debitore principale o altri, e poi quel pagamento viene revocato o annullato, il fideiussore ridiventa obbligato per quell’importo anche se la garanzia era cessata. Con la nullità, il fideiussore potrebbe non dover coprire importi già oggetto di pagamento poi revocato. La clausola di sopravvivenza faceva durare la fideiussione anche dopo chiusura dei rapporti; anch’essa nulla comporta che se la banca non ha escusso entro certi termini, decade. La clausola ex art. 1957 c.c. è la più immediata: normalmente, se il creditore non agisce contro il garante entro 6 mesi dalla scadenza del debito garantito, la fideiussione si estingue; le fideiussioni omnibus contenevano clausola di rinuncia a tale decadenza. Se questa clausola è nulla, il garante può eccepire la decadenza della garanzia se la banca è stata inerte oltre il termine legale. In sintesi, sì, esistono difese del fideiussore: la prima cosa è far esaminare il contratto di fideiussione da un avvocato esperto. Se coincide con il testo ABI standard (solitamente 11 articoli, di cui il 2, 6 e 8 sono quelli incriminati), si potrà eccepirne la nullità parziale. Molti giudici di merito già danno ragione ai debitori su questo, e come detto la Cassazione ha spianato la strada, ancorché la questione sia stata rimessa alle Sezioni Unite per uniformare definitivamente (c’è un contrasto su come valutare il nesso causale tra intesa illecita e contratto). Quindi ad oggi conviene sollevare l’eccezione. Oltre a ciò, il fideiussore può valutare altre difese “classiche”: ad esempio, se la banca non ha escusso la società debitore principale entro i termini contrattuali, o ha fatto decadere un beneficio, ecc. Ma la questione ABI è quella di maggiore impatto negli ultimi tempi.

Domanda: I debiti fiscali e contributivi possono essere inclusi in un concordato o accordo di ristrutturazione? Ho sentito pareri discordanti.
Risposta: Sì, i debiti verso Erario e enti previdenziali possono essere ristrutturati, ma con regole specifiche. Nel concordato preventivo l’istituto si chiama transazione fiscale e contributiva (ex art. 182-ter l.f., ora art. 88 CCII). Il debitore propone un trattamento per IVA, imposte, contributi, di solito non integrale, e l’Agenzia delle Entrate e l’INPS valutano se aderire. Un tempo c’erano limiti: per l’IVA e ritenute era richiesta almeno il 100% salvo eccezioni, poi la giurisprudenza ha ammesso anche il pagamento parziale se motivato (recependo la direttiva UE). Oggi il CCII consente la falcidia anche di IVA e ritenute all’interno di un concordato, a patto che i crediti fiscali siano in una classe separata e che l’erario ottenga non meno del valore di liquidazione e rispetti le priorità (ad es. un chirografo fiscale non può prendere meno di un altro chirografo se quello fiscale non acconsente) . Se il Fisco (o INPS) vota contro la proposta, ma la maggioranza dei creditori approva e la proposta fiscale è conveniente rispetto alla liquidazione, il tribunale può comunque omologare (cosiddetto cram-down fiscale) , tranne nei casi di abuso (aziende con debito fiscale predominante e condotte fiscali scorrette, come abbiamo visto, non beneficiano del cram-down secondo le modifiche 2024 ). Negli accordi di ristrutturazione (ADR) c’è analoga possibilità: l’art. 63 CCII regola la transazione fiscale negli accordi. La novità del 2024 è che, per evitare abusi, se i debiti fiscali > 80% totali, il giudice non può omologare forzosamente l’accordo senza adesione del Fisco . Ma al di sotto di tale soglia, se l’accordo è in continuità e soddisfa il fisco almeno come alternativa, si può chiedere l’omologa anche senza l’adesione dell’ente (se il no del Fisco è determinante e impedisce di raggiungere le maggioranze, il tribunale può forzare se condizioni rispettate ). Nei fatti, però, l’Agenzia delle Entrate oggi è più propensa a valutare transazioni: normative recenti spingono a considerarle uno strumento ordinario e non eccezionale . Infine, come ricordato, in composizione negoziata da gennaio 2025 è ammesso persino un accordo stragiudiziale col Fisco per pagare parzialmente e a rate i tributi , autorizzato dal tribunale ma negoziato fuori da concordato. È un fatto rivoluzionario: prima se un’azienda non fallibile voleva tagliare i debiti fiscali doveva passare dal concordato con transazione fiscale. Ora c’è questa chance in fase pre-concorsuale. Quindi, sì: i debiti fiscali e contributivi si possono “trattare”, però è necessario coinvolgere formalmente l’ente: l’Agenzia Entrate Riscossione e l’INPS devono ricevere una proposta e valutare. Non basta inserire “pago 10% delle tasse” senza che il Fisco aderisca o senza passare da un giudice: va fatto nelle sedi adeguate.

Domanda: Se la mia società è indebitata e non recuperabile, posso aprirne un’altra e trasferire l’attività per continuare senza debiti?
Risposta: Questa pratica, purtroppo diffusa come espediente (la cosiddetta “phoenix company”: far rinascere l’attività in un nuovo soggetto e lasciare i debiti nel vecchio), è estremamente rischiosa e nella maggior parte dei casi illegittima, se realizzata a danno dei creditori. Se semplicemente apri una nuova società e fai confluire i contratti e i beni della vecchia senza pagarli, i creditori della prima società possono agire in vari modi:
– Possono chiedere al giudice una azione revocatoria per far dichiarare inefficaci gli atti di trasferimento di beni dalla vecchia società alla nuova, se fatti a titolo gratuito o anche oneroso ma con pregiudizio e consapevolezza (entro 2 anni per atti gratuiti, 1 anno per pagamenti anomali in periodo sospetto, etc.). Così i beni tornerebbero aggredibili.
– Possono sostenere che c’è stata una sorta di continuità aziendale o confusione di patrimoni e chiedere di coinvolgere la nuova società come responsabile dei debiti (in alcuni casi di cessione d’azienda senza rispetto dell’art. 2560 c.c., la nuova azienda risponde dei debiti inerenti l’esercizio anteriori, se risultano dai libri contabili). Se la nuova entità è gestita dalle stesse persone, con stessi clienti, e la vecchia viene svuotata, i tribunali possono riconoscere un abuso di personalità giuridica e considerare la seconda società come successore o addirittura come schermo fittizio.
– In caso di fallimento della vecchia società, l’operazione potrebbe configurare reati di bancarotta fraudolenta (per distrazione di beni a favore della nuova società) a carico degli amministratori. La nuova società magari formalmente indipendente in realtà è il veicolo per sottrarre attivo ai creditori: classico scenario di bancarotta.
Insomma, chiudere una società indebitata spogliandola e proseguire con un’altra è considerato frode ai creditori. Invece, nulla vieta di aprire una nuova attività ex novo, purché non si usino in modo illecito beni o risorse della vecchia senza soddisfare i creditori. Ad esempio, se l’imprenditore dichiara fallimento della vecchia società e poi dopo un anno crea una nuova azienda che svolge lo stesso business ma con capitale diverso, di per sé non è illecito – è il mercato (dopo il fallimento è libero di ricominciare, salvo eventuali inabilitazioni temporanee). Quello che non si deve fare è portarsi dietro sottobanco i beni o contratti senza accordo.
Se l’obiettivo è salvare l’avviamento o il know-how dell’impresa indebitata, c’è una via lecita: proporre un concordato con trasferimento dell’azienda a una NewCo. In pratica, costituire una nuova società pulita, e nel piano di concordato prevedere che essa acquisti l’azienda (marchio, attrezzature, ecc.) pagando un prezzo che andrà ai creditori della vecchia. Così i creditori ottengono qualcosa (il valore di mercato dell’azienda trasferita) e l’attività può proseguire nella NewCo sgravata dal debito, senza violare la par condicio. Questo accade spesso: un investitore (che può essere lo stesso imprenditore tramite terzi) fa un’offerta di acquisto nel concordato. Se nessuno offre di più, viene approvato e l’operazione è legittima e opposable.
Quindi la risposta è: non farlo di nascosto o unilateralmente. Qualsiasi passaggio di attività da una società indebitata a un’altra dev’essere fatto con criteri di correttezza verso i creditori. Altrimenti, i creditori e il tribunale avranno molti strumenti per colpire la nuova impresa (e te personalmente).

Domanda: Dopo la chiusura di un fallimento o di un concordato liquidatorio, rimarranno debiti insoddisfatti. Il debitore è liberato da essi o può ancora essere perseguito?
Risposta: Dipende dal tipo di debitore e dalla procedura, ma grazie all’esdebitazione oggi è possibile ottenere la liberazione dai debiti residui in molti casi. Se il debitore è una persona fisica (un imprenditore individuale, un socio illimitatamente responsabile, o anche un consumatore), al termine della liquidazione giudiziale può chiedere al tribunale l’esdebitazione: se concessa, i debiti concorsuali non soddisfatti diventano inesigibili (i creditori non possono più chiederli). L’esdebitazione non copre debiti di natura personale non concorsuale (ad es. obblighi di mantenimento, alcune sanzioni penali o amministrative, debiti per risarcimenti da illecito extra-fallimentare: questi restano). Ma copre praticamente tutti i debiti civili e commerciali inclusi nel fallimento, anche fiscali (attenzione però: l’esdebitazione cancella il debito ma non toglie eventuali sanzioni penali già comminate per omessi versamenti). Per ottenerla, il fallito deve aver cooperato e non aver frodato. Oggi, come ricordato, il requisito ostativo del “nessun creditore pagato” è interpretato non rigidamente: la Cassazione ha detto che se i creditori hanno ricevuto anche poco, l’esdebitazione va data salvo casi estremi . Nel caso di società di capitali, una volta chiuso il fallimento la società viene estinta: giuridicamente i debiti insoddisfatti restano, ma non c’è più un soggetto da perseguire (salvo recuperare su fideiussori o coobbligati). La novità è che il Codice della Crisi prevede l’esdebitazione anche per il debitore persona giuridica , quindi si può chiedere una declaratoria di inesigibilità residui pure per la società (ha forse valore per eventuali soci garante?). Invece, nei concordati preventivi, se il piano viene eseguito i creditori hanno già rinunciato a una parte (quella falcidiata) quindi quella parte è “cancellata” dall’omologa stessa. Se però il concordato non viene eseguito e si risolve, i creditori riacquistano diritto all’intero credito originario, dedotti acconti ricevuti. Nei casi di sovraindebitamento, come visto c’è l’esdebitazione a fine liquidazione controllata e la possibilità di esdebitazione del debitore incapiente immediata. Quindi, in sostanza, sì, è possibile liberarsi dai debiti residui, specialmente per le persone fisiche, a patto di passare attraverso la procedura concorsuale e dimostrare buona fede. Non è possibile invece “auto-esdebitarsi” fuori da procedure: ad esempio, se hai debiti e i creditori non ti inseguono più perché sei nullatenente, legalmente quei debiti restano (prescrizione a parte) e potrebbero perseguitarti se le cose cambiassero. Per chiudere definitivamente il capitolo debiti serve la pronuncia di esdebitazione del giudice. L’ordinamento italiano dal 2006 in avanti ha voluto dare una seconda opportunità all’imprenditore onesto ma sfortunato, allineandosi a paesi come USA e UK: il fallito non è più condannato a una vita da debitore a vuoto. Certo, l’esdebitazione può essere negata in presenza di frodi, e vanno pagati almeno in parte i debiti se possibile. Ma la direzione è un fresh start: in UE ora è obbligatorio per le piccole imprese un esdebitazione entro 3 anni massimo. In Italia ce l’abbiamo. Dunque il debitore può difendersi anche pensando al post-crisi: subire un fallimento non è la fine del mondo se poi riesce a ripartire liberato dai vecchi debiti.

Domanda: Se la mia azienda è in concordato preventivo o altra procedura, i creditori possono ancora aggredirmi personalmente? (Ad es. le banche sui garanti, o Agenzia Entrate su amministratori per tributi)?
Risposta: La regola è che la protezione concorsuale vale sul patrimonio del debitore soggetto alla procedura. Quindi se la società S.r.l. è in concordato, i creditori sociali non possono aggredire i beni della società in quel periodo. Ma se uno o più soci o terzi hanno prestato garanzie personali (fideiussioni) o reali su propri beni, quei coobbligati e garanti non sono protetti dalla procedura (salvo rarissime eccezioni, tipo concordati con estensione ai fideiussori previsti in qualche ordinamento ma non nel nostro mainstream). Ciò significa che, ad esempio, durante il concordato della società, la banca potrebbe escutere la fideiussione dell’amministratore per intero, a meno che l’amministratore stesso non chieda al tribunale una sospensione delle azioni anche nei confronti dei fideiussori – cosa che la legge consente in composizione negoziata e concordato per massimo 120 giorni e solo per crediti bancari se strettamente necessario alla continuità (era un istituto previsto dal DL 118/21, la sospensione temporanea delle azioni verso i soci garanti, ma va motivata e concessa caso per caso). Quindi in generale, il garante è esposto. Lo stesso per tributi: se l’amministratore è stato sanzionato personalmente (es. cartella per responsabilità solidale su sanzioni fiscali) quella è posizione personale sua non bloccata dal concordato della società. Tuttavia, se il concordato prevede che i creditori garantiti otterranno pagamento, spesso convinciamo la banca a non agire sul garante nel frattempo, per non far saltare il banco (le banche di solito attendono l’esito del concordato prima di aggredire il fideiussore, specie se la garanzia può essere escussa allo stesso modo dopo). Comunque giuridicamente ne hanno facoltà. La difesa del garante è magari attivare anche lui una procedura di sovraindebitamento o liquidazione personale per pararsi: può chiedere che i creditori sospendano le azioni in attesa di definire la sua posizione con un accordo.
In sintesi: la procedura concorsuale protegge solo il patrimonio del soggetto in procedura. I coobbligati no (principio di relatività). Fa eccezione il caso di concordato con garanzia di terzi: se un terzo garantisce l’esecuzione del concordato, pagando lui i creditori, e questi accettano, allora di fatto il garante esegue il concordato e non gli si potrà chiedere altro (ma è un accordo). Legalmente, invece, i creditori potrebbero anche dopo l’omologa del concordato, per la parte non pagata dal debitore, rifarsi sul garante salvo patto contrario. Per fortuna, la giurisprudenza tende a considerare che se il creditore partecipa al concordato e riceve tot, implicitamente accetta di liberare i garanti per l’eccedenza – ma non è automatico per legge, è un argomento equitativo. Dunque, un garante prudente potrebbe far inserire nel piano di concordato una clausola che preveda la liberazione delle garanzie personali a fronte dell’adempimento del concordato, vincolando così i creditori (lo fanno spesso nei piani di ristrutturazione: “pagandovi il 30% ora, liberate fideiussione”). Se i creditori votano sì, accettano anche quella condizione.
Quindi, il debitore azienda deve coordinarsi col garante: non può ignorare le sue posizioni. Una difesa comune è fare in modo che il garante intervenga nella procedura magari offrendo lui un apporto (così i creditori lo vedono come alleato e non agiscono individualmente).

Domanda: Quali sono i costi di queste procedure? Non rischio di spendere troppi soldi in avvocati, tribunale, ecc., peggiorando la situazione?
Risposta: Le procedure concorsuali hanno effettivamente dei costi: vanno pagati i professionisti (avvocati, commercialisti, attestatori) e ci sono diritti di giustizia, eventuali compensi per commissari o curatori. Nel concordato, ad esempio, bisogna includere nel piano il pagamento delle spese di procedura in prededuzione (il che significa che se non c’è prospettiva di pagare almeno quelle, il concordato non è fattibile). Tuttavia, molti costi sono proporzionati alla dimensione dell’impresa e vengono liquidati dal tribunale in base a parametri. Inoltre, spesso la scelta è tra “pagare qualcosa e sopravvivere” o “non pagare nulla e fallire” – nel secondo caso poi i costi del fallimento li paga il patrimonio residuo comunque. Un concordato può costare, tra atti e compensi, qualche decina di migliaia di euro per una PMI, ma se consente di risparmiare centinaia di migliaia in debiti, ne vale la pena. Gli accordi stragiudiziali attestati costano meno (non c’è tribunale, solo l’attestatore e i consulenti). La composizione negoziata ha costi ridotti (l’Esperto ha un compenso limitato a tariffa; la procedura in sé è quasi gratuita salvo spese vive). Il vero rischio non sono i costi diretti, ma il tempo di gestione: la direzione aziendale deve dedicare tante energie a predisporre piani e documenti, trascurando magari il business. Ma purtroppo, in crisi, è un passaggio obbligato. Va visto come un investimento per salvare l’impresa. E molte spese vengono dopo: ad esempio, il commissario nel concordato viene pagato con i fondi del concordato stesso a esito raggiunto. Nella liquidazione giudiziale, il curatore si paga dai beni liquidati. Insomma, i costi si prelevano dal patrimonio già destinato ai creditori, riducendo forse il dividendo ma rendendo possibile l’intera operazione.
Un consiglio è cercare di fare un uso efficiente dei professionisti: scegliere consulenti esperti in crisi che sappiano guidare al meglio, evitando giri a vuoto e atti respinti, che farebbero aumentare costi e tempi.

Domanda: Come incide la recente normativa (post 2020) sulla crisi d’impresa? Ci sono differenze rispetto al vecchio fallimento che dovrei conoscere come debitore?
Risposta: Sì, il Codice della Crisi (CCII), pienamente in vigore da luglio 2022 e corretto fino al 2024, ha introdotto diverse innovazioni rispetto alla vecchia legge fallimentare (R.D. 267/42). In sintesi:
– Ha potenziato l’idea di prevenzione con la composizione negoziata e l’obbligo di assetti organizzativi per intercettare la crisi presto. Cioè ora la legge chiede all’imprenditore di muoversi prima, non di aspettare il punto di non ritorno.
– Ha unificato le procedure di sovraindebitamento con quelle delle imprese più grandi, creando strumenti analoghi per tutti (es. concordato minore simile a concordato preventivo).
– Ha cambiato nomi: fallimento -> liquidazione giudiziale, concordato fallimentare -> concordato nella liquidazione giudiziale, ecc., nel tentativo di destigmatizzare.
– Ha introdotto la esdebitazione per tutti i debitori e immediata in alcuni casi (prima la società fallita formalmente non aveva esdebitazione, ora c’è la possibilità anche per persona giuridica di liberazione residui ).
– Ha recepito la direttiva UE 2019/1023 con novità come: facilitare ristrutturazioni precoci, consentire cram-down su crediti pubblici (niente privilegio assoluto del fisco), garantire esdebitazione in 3 anni al massimo ai falliti onesti, introdurre concetti di absolute priority e relative priority per trattare i creditori nelle classi in modo più flessibile ma equo .
– Ha fornito strumenti nuovi come il piano di ristrutturazione soggetto a omologa (per accordo con 100% classi), gli accordi estesi ai dissenzienti (cramdown finanziatori), e il concordato semplificato post-composizione negoziata (liquidazione senza voto creditori).
– Ha anche inasprito alcune responsabilità: es. l’art. 378 CCII ha modificato l’art. 2486 c.c. per calcolare i danni da gestione oltre il dovuto col criterio del patrimonio netto (che la Cassazione ha applicato retroattivamente ). Quindi i manager ora sanno esattamente a cosa vanno incontro se ritardano.
Per un debitore queste differenze significano maggiori opportunità di ristrutturazione del debito (più strumenti, più flessibilità) ma anche maggiore dovere di attivarsi (non c’è più l’alibi di dire “non avevo modo di fare nulla”: la legge offre vie, e se non le percorri potresti essere ritenuto negligente). Quindi, rispetto al passato, oggi un imprenditore deve essere ancora più proattivo e consapevole legalmente. L’aggiornamento al 2025 include il terzo correttivo del CCII che ha sistemato tante piccole incoerenze, ad esempio sui rapporti di lavoro nel concordato e sul trattamento del fisco (impedendo i concordati con 99% debiti erario scontati senza il suo ok). Inoltre, in questi anni post-Covid ci sono state molte misure emergenziali (moratorie, incentivi, fondo perduto) che hanno un po’ rimandato l’emersione di crisi – ora però questi nodi vengono al pettine e il 2024-2025 vede un aumento di procedure, con i nuovi strumenti rodati. Dunque conoscere le differenze normative è cruciale: un consiglio è consultare sempre un esperto che sia aggiornato (se sente ancora parlare di “art. 160 l.fall.” come base, forse non è al passo!).

Domanda: In concreto, qual è la scelta migliore per difendere un’azienda di medie dimensioni sovraindebitata? Concordato, accordo o composizione negoziata?
Risposta: Non c’è una risposta valida per tutti: dipende dalla situazione specifica. Alcune linee guida:
– Se l’azienda ha prospettive industriali solide ma soffre solo temporaneamente (es. un calo di liquidità, debiti finanziari pesanti ma pochi creditori totali), conviene tentare la via stragiudiziale o semistragiudiziale: composizione negoziata e poi accordo di ristrutturazione. Questo minimizza l’impatto reputazionale e coinvolge solo i creditori necessari (ottenendo magari moratorie mirate).
– Se l’azienda è ampiamente insolvente e con molti creditori eterogenei, il concordato preventivo in continuità può essere la via necessaria per imporre un sacrificio a tutti in modo coordinato. Soprattutto se ci sono problematiche legali (contenziosi) o necessità di annullare contratti sfavorevoli, il concordato consente interventi drastici con l’autorità del tribunale.
– Se l’imprenditore è incerto, può avviare la composizione negoziata quasi come “trial”: è riservata e se capisce che non c’è accordo possibile, può ancora ripiegare su concordato o liquidazione semplificata. Vista la sua gratuità iniziale e confidenzialità, è spesso raccomandata come primo passo.
– Il piano attestato è indicato quando i problemi sono circoscritti e servono poche modifiche: è rapido e evita pubblicità, ma presuppone fiducia reciproca tra debitore e almeno i principali creditori.
– Se l’azienda è decotta, senza chance di rilancio, la difesa migliore paradossalmente è assecondare una liquidazione ordinata: magari presentare direttamente una domanda di liquidazione giudiziale “autogestita” oppure un concordato liquidatorio con un terzo acquirente se possibile. Questo perché tirare avanti un’agonia porta solo a peggiorare i danni e le responsabilità. Meglio chiudere con dignità e cercare esdebitazione, piuttosto che accumulare altre perdite.
In generale un professionista del crisis management farà uno stress test e vedrà: se l’ebitda è strutturalmente negativo e non invertibile, allora liquidazione; se c’è ebitda positivo ma troppi debiti, allora ristrutturazione con accordi; se c’è ebitda positivo ma serve tagliare debito e contratti, allora concordato; se è incerto, allora composizione negoziata per capire le disponibilità delle controparti.
Dal punto di vista del “difendersi”, bisogna scegliere la strada che massimizza la salvaguardia dell’impresa e minimizza le conseguenze personali. Spesso coincide col fare ciò che massimizza anche la soddisfazione dei creditori rispetto all’alternativa fallimentare (perché leggi e tribunali orientano a quello).

Domanda: Quali modelli o atti dovrei predisporre per iniziare, ad esempio, un’opposizione a decreto ingiuntivo o un ricorso di concordato?
Risposta: Per un’opposizione a decreto ingiuntivo, serve un atto di citazione contenente: l’indicazione del tribunale competente (lo stesso che ha emesso il DI), le parti (debitore opponente come attore, creditore ingiungente come convenuto), la descrizione del decreto impugnato (numero, data, importo), e soprattutto i motivi di opposizione – cioè in fatto e diritto perché ritiene ingiusta la condanna. Ad esempio: contestazione del credito (merce non conforme, fattura mai ricevuta), eccezione di prescrizione, richiesta di compensazione, errore di calcolo, invalidità del titolo, ecc. Va inserita l’istanza di sospensione se il decreto era esecutivo e ci sono gravi motivi (art. 649 c.p.c.) . L’atto va notificato al creditore entro 40 giorni dalla notifica del DI. Allegare eventuali documenti probatori. Un fac-simile potrebbe essere: “Tribunale di __ – Atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 cpc… Oggetto: Opposizione avverso decreto ingiuntivo n. __/2025. Parte Opponente: Alfa Srl (C.F.…), elettivamente domiciliata presso…, rappresentata da avv. …; Parte Opposta: Beta Spa (C.F. …) con sede…, – Premesso che: (1) In data __ Beta notificava ad Alfa decreto ingiuntivo n. per €, relativo a fatture __; (2) Il credito ingiunto è contestato per i seguenti motivi: … Tutto ciò premesso, Alfa Srl cita Beta Spa a comparire innanzi al Tribunale di , Giudice designando, all’udienza di , per ivi sentir accogliere le seguenti conclusioni: – In via principale, revocare e annullare detto decreto ingiuntivo n.__/2025 e per l’effetto dichiarare che nulla è dovuto da Alfa a Beta; – In via subordinata, rideterminare l’importo dovuto detraendo…; – Con vittoria di spese. MOTIVI: 1) Sulla carenza del credito: la fornitura X presenta vizi… (spiegare); 2) Sulla prescrizione: il credito risale al __, prescrizione quinquennale maturata; 3) etc. Istanza ex art. 649 cpc: si chiede la sospensione della provvisoria esecuzione del DI, ricorrendo gravi motivi, atteso che… (spiegare eventuale periculum). – Liste testi riservandosi di… – Documenti: 1. copia contratto, 2. diffida del __, etc. – Si produce copia del DI opposto.”
Naturalmente questo è solo uno schema di massima. Conviene farsi aiutare da un legale per la redazione precisa.
Quanto a un ricorso per concordato preventivo, trattandosi di procedura concorsuale, deve contenere: i dati dell’azienda, la descrizione dello stato di crisi/insolvenza, la proposta dettagliata (percentuali, tempi, eventuali suddivisione in classi, eventuale intervento terzi), il piano (che può essere allegato come documento), la relazione dell’attestatore (allegata), gli elenchi di creditori, dei beni, dei contratti, dei dipendenti, etc. È un atto più complesso e spesso voluminoso. Si deposita come ricorso in tribunale fallimentare. Un modello semplificato: “Tribunale di __, Sezione fallimentare – Ricorso per ammissione a concordato preventivo ex art. 40 CCII. Ricorrente: Elevatori Srl… (dati) rappresentata da … – Premesso che: (1) Elevatori Srl versa in stato di crisi ai sensi dell’art. 2 CCII, trovandosi nell’impossibilità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni per complessivi € __; (2) Si intende evitare la liquidazione giudiziale attraverso proposta concordataria, come da piano industriale allegato ed attestazione di esperto indipendente; tutto ciò premesso, Elevatori Srl propone ai propri creditori un concordato preventivo con continuità aziendale ex art. 84 CCII alle seguenti condizioni: – L’attività d’impresa sarà continuata dalla ricorrente [ovvero trasferita a NewCo XY]; – I creditori sono suddivisi in classi come da piano: Classe 1 dipendenti (100% in 6 mesi), Classe 2 Fisco privilegiato (100% in 2 anni, interessi falcidiati), Classe 3 chirografari (30% in 4 anni), Classe 4 chirog. postergati (0%]; – È previsto l’apporto di finanza esterna per € __ da parte dei soci, destinata integralmente ai creditori chirografari; – Il piano dettagliato delle operazioni di ristrutturazione (allegato) prevede … [riassumere punti cardine: dismissioni, nuova finanza, rinegoziazione contratti etc.]; – Il soddisfacimento dei creditori secondo il piano risulta più conveniente rispetto alla liquidazione (cfr. relazione attestatore §__, che indica percentuale in concordato vs in fallimento); – Tutto ciò considerato, si chiede che l’Ecc.mo Tribunale Voglia: a) dichiarare aperta la procedura di concordato preventivo di Elevatori Srl, nominare il Giudice Delegato e il Commissario Giudiziale; b) fissare l’adunanza dei creditori; c) in pendenza, concedere le misure protettive di cui all’art. 54 CCII con divieto di azioni esecutive individuali; e, successivamente all’adunanza, omologare il concordato sulla base della proposta sopra esposta. – Documenti allegati: 1) Piano concordatario dattiloscritto; 2) Relazione attestatore Dr. X ex art. 87 CCII; 3) Situazione patrimoniale al __; 4) Elenco creditori con cause di prelazione; 5) Elenco debiti fiscali e contributivi; 6) Elenco beni; 7) Elenco contratti pendenti; 8) Bilanci ultimi 3 esercizi; 9) Dichiarazione di attuale nessun procedimento pendente per liquidazione giudiziale.”
Questo è un sunto. In realtà un ricorso completo può essere di decine di pagine più gli allegati. Non è richiesto un particolare formato rigido, ma deve contenere tutte le informazioni elencate dall’art. 39 e 40 CCII. Niente vieta di farlo sotto forma di atto molto discorsivo con capitoli, o più sintetico e rimandare al piano per i dettagli. Il Tribunale esamina la completezza innanzitutto.
In conclusione, per gli atti cruciali conviene usare formulari predisposti (molti tribunali pubblicano linee guida e schemi di ricorso). Questa guida non può offrire un “modulo” universale, però i punti chiave li abbiamo visti.

Conclusioni

Affrontare una situazione di azienda indebitata è impegnativo, ma la normativa italiana – aggiornata alle ultime riforme del 2022-2025 – offre un arsenale di strumenti difensivi e di composizione. Dal punto di vista del debitore (imprenditore o società), “difendersi” significa innanzitutto conoscere i propri diritti e doveri: sapere come reagire alle azioni dei creditori (con opposizioni, sospensioni, ecc.), ma anche quando è il momento di passare all’offensiva costruttiva proponendo un piano di ristrutturazione. Come abbiamo visto:

  • È fondamentale distinguere i vari tipi di debiti e trattarli adeguatamente (non tutti i creditori sono uguali: priorità a Fisco/lavoratori per evitar guai, negoziazione con banche per stabilità, transazione con fornitori per continuità, ecc.).
  • I soci e amministratori devono essere consapevoli dei rischi personali: la legge punisce l’inerzia e i comportamenti sleali; al contrario, chi gestisce con trasparenza la crisi può spesso uscirne senza strascichi irreparabili (grazie anche all’esdebitazione).
  • Il ventaglio delle soluzioni concordate (dai piani attestati ai concordati) consente di trovare l’abito su misura per la propria crisi: la soluzione va calibrata su dimensione dell’impresa, numero di creditori, prospettive di rilancio. Un buon consulente saprà consigliare se partire con una riservata composizione negoziata o se saltare direttamente a un concordato preventivo, o ancora se basta un accordo mirato con le banche.
  • Ricordiamo che ogni procedura concorsuale ha implicazioni sulla vita dell’azienda e su quella del debitore: il concordato può salvare l’impresa ma va poi rispettato rigidamente; la liquidazione giudiziale chiude l’impresa ma permette di ripartire puliti (se esdebitati). In ogni scelta c’è un trade-off tra la tutela del patrimonio residuo e la continuazione dell’attività.

La guida ha fornito un livello avanzato di dettaglio, citando fonti normative e sentenze aggiornate (fino a ottobre 2025) per orientare il lettore nei meandri giuridici. In calce, si elencano le fonti e riferimenti citati, che il debitore e i suoi consulenti possono approfondire per ciascun aspetto (dalla nullità delle fideiussioni ABI , alla Cassazione sull’esdebitazione , alle novità del “Correttivo ter” 2024 ).

In definitiva, il messaggio chiave per il debitore è: non disperare e non restare isolato. Ogni crisi ha una soluzione migliore di quella che i creditori vorrebbero imporre con la forza. Agendo per tempo, con gli strumenti adeguati e l’assistenza di professionisti (avvocati, commercialisti esperti in crisi), si può spesso difendere l’essenza dell’azienda (la parte sana del business) sacrificando in modo sostenibile la parte debitoria eccessiva. Anche quando ciò non sia possibile e si debba cessare, la legge offre un atterraggio controllato e la possibilità di un nuovo inizio senza debiti. La conoscenza è potere: un debitore informato delle proprie tutele è un debitore che può affrontare i suoi creditori da una posizione più forte e negoziare soluzioni equilibrate, invece di subire passivamente.

Nota finale: ogni caso concreto ha le sue peculiarità; le norme cambiano e la loro applicazione si evolve (ad es. attendiamo nel 2026 le Sezioni Unite sulle fideiussioni, possibili ulteriori ritocchi legislativi, ecc.). È quindi consigliabile, dopo aver acquisito questa panoramica avanzata, consultare le fonti originali e farsi affiancare da consulenti qualificati per tradurre in azioni le strategie difensive delineate.

Fonti normative e giurisprudenziali utilizzate

  • Codice Civile, art. 2086 (dovere di assetti adeguati introdotto dal D.Lgs. 14/2019).
  • Codice Civile, art. 2486 comma 3 (responsabilità amministratori per continuazione attività oltre soglia capitale; introdotto da art. 378 D.Lgs. 14/2019) – vedi conferma applicazione Cass. Civ. Sez. I, 28-02-2024 n. 5252 .
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII, D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14), con modifiche: D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (attuazione direttiva UE 2019/1023) e D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (c.d. “Correttivo ter”, in vigore dal 28/09/2024) .
  • D.Lgs. 136/2024 – Disposizioni integrative e correttive al CCII:
  • Introduzione art. 23 co.2-bis CCII (accordo fiscale nella composizione negoziata) .
  • Modifiche art. 63 CCII (transazione fiscale negli accordi di ristrutturazione; limite 80% debiti fiscali per cram down) .
  • Modifiche art. 80 CCII, 84, 85 CCII (classi obbligatorie solo per crediti garantiti da terzi) .
  • Modifiche art. 44 CCII (domanda prenotativa concordato: necessità progetto piano, commi 1-bis, 1-ter, 1-quater introdotti) .
  • Cassazione Civile, Sez. I, 31-05-2023 n. 15359 – Esdebitazione del fallito: presupposti di meritevolezza e interpretazione del requisito del pagamento parziale dei creditori . Conferma tassatività cause di diniego e approccio favor debitoris (recepisce art. 23 Dir. UE 2019/1023).
  • Cassazione Civile, Sez. I, 10-07-2025 n. 18851 – Nullità delle fideiussioni omnibus conformi allo schema ABI 2003: clausole di reviviscenza, sopravvivenza e rinuncia termini ex art.1957 c.c. nulle perché riproducono intesa illecita . (Ordinanza interlocutoria in attesa Sez. Unite, ma indicativa di orientamento).
  • Tribunale di Siracusa, ord. 01-08-2025 – Rimessione alle Sezioni Unite delle questioni sulla nullità parziale delle fideiussioni ABI .
  • Corte d’Appello di Torino, sent. 15-07-2025 n. 672 – Conferma nullità parziale fideiussioni omnibus e specifiche con clausole ABI vietate .
  • Linee Guida ABI-imprese 2025 per la sospensione dei finanziamenti – ABI e Associazioni di categoria, marzo 2025 . (Prevede possibilità di moratoria rate fino a 12 mesi per imprese in temporanea difficoltà; scaricabile da sito ABI).
  • Legge fallimentare RD 267/42 (abrogata nel 2022, rilevante per fatti pregressi): art. 67 (revocatoria; piano attestato esenzione), art. 160-186 (concordato preventivo previgente), art. 142-144 (esdebitazione fallito). Richiamata Cass. Sez. Un. 18-05-2013 n. 1521 sulla interpretazione di “creditori soddisfatti in parte” in art. 142 l.f. – orientamento confermato poi .
  • D.Lgs. 74/2000, art. 10-bis e 10-ter (reati omesso versamento ritenute e IVA).
  • D.L. 118/2021 conv. L.147/2021 (introduzione composizione negoziata; misure premiali e protettive, sospensione azioni su garanti art. 6).
  • Esempi di giurisprudenza in materia di anatocismo/usura: Cass. Civ. Sez. I, 05-09-2024 n. 23866 (TEG mutui e soglia usura) ; Cass. Civ. Sez. III, 24-07-2024 n. 20648 (nullità clausola interessi ultra-soglia, clausola salvaguardia) . Servono a ricordare di verificare i tassi bancari contrattuali.
  • Camera dei Deputati – Dossier riforma insolvenza (2022): in nota il recente D.Lgs.136/2024 come “terzo correttivo” , utile per contesto storico delle modifiche legislative.

La tua azienda che progetta, produce, installa o manutiene elevatori a tazze, trasportatori elevatori verticali, nastri elevatori, tazze, catene e cinghie, sollevatori per granuli e polveri, sistemi per mangimifici, mulini, agroalimentare, cerealicolo, chimico e industriale, oggi è schiacciata dai debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo

La tua azienda che progetta, produce, installa o manutiene elevatori a tazze, trasportatori elevatori verticali, nastri elevatori, tazze, catene e cinghie, sollevatori per granuli e polveri, sistemi per mangimifici, mulini, agroalimentare, cerealicolo, chimico e industriale, oggi è schiacciata dai debiti?
Ricevi solleciti, richieste di rientro, blocchi delle forniture, decreti ingiuntivi, cartelle esattoriali o minacce di pignoramento da parte di banche, Fisco, INPS, fornitori meccanici o Agenzia Entrate-Riscossione?

Il settore degli elevatori a tazze richiede investimenti pesanti: carpenterie metalliche, motori, riduttori, catene rinforzate, tazze, elettroniche di controllo, installazioni complesse e manutenzioni frequenti. I clienti pagano spesso a 60–120 giorni, mentre i fornitori chiedono pagamenti immediati: la liquidità può saltare in un attimo.

La buona notizia? La tua azienda può essere salvata, se intervieni ora con la strategia corretta.


Perché un’Azienda di Elevatori a Tazze va in Debito

  • aumento dei costi di acciai, carpenterie, motori, riduttori e componenti di trasporto
  • pagamenti lenti da parte di clienti agricoli, industriali e contractor
  • magazzino immobilizzato tra tazze, catene, cinghie, motori e ricambi critici
  • costi elevati di installazione, sollevamento, collaudi e trasferta tecnica
  • investimenti in progettazione, disegno tecnico, sicurezza e aggiornamenti normativi
  • riduzione o revoca dei fidi bancari

Il vero motivo della crisi non è la mancanza di lavoro, ma la mancanza di liquidità immediata.


I Rischi se Non Agisci Subito

  • pignoramento dei conti correnti aziendali
  • blocco dei fidi bancari
  • sospensione delle forniture di componenti essenziali
  • atti esecutivi, decreti ingiuntivi, precetti
  • sequestro di ricambi, carpenterie e attrezzature
  • impossibilità di montare impianti e completare cantieri
  • perdita di clienti strategici e contratti pluriennali

Cosa Fare Subito per Difendersi

1. Bloccare immediatamente i creditori

Un avvocato specializzato può:

  • sospendere pignoramenti
  • bloccare richieste aggressive di rientro
  • proteggere conti correnti e liquidità aziendale
  • fermare le azioni dell’Agenzia Riscossione

Prima si mette in sicurezza la tua azienda, poi si lavora alla ristrutturazione.


2. Analizzare i debiti ed eliminare quelli non dovuti

Spesso emergono irregolarità che possono ridurre drasticamente il debito:

  • interessi non dovuti
  • sanzioni errate o gonfiate
  • importi duplicati
  • debiti prescritti
  • errori di notifica o calcolo della Riscossione
  • commissioni e spese bancarie anomale

Una parte importante del debito può essere cancellata o ridotta legalmente.


3. Ristrutturare i debiti con un piano sostenibile

Tra le soluzioni disponibili:

  • rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
  • accordi di rientro con fornitori strategici (catene, tazze, cinghie, carpenterie)
  • rinegoziazione delle linee di credito bancarie
  • sospensione dei pagamenti per alcuni mesi
  • accesso alle definizioni agevolate quando attive

4. Attivare strumenti legali che bloccano TUTTI i creditori

Se la crisi è più severa, la legge mette a disposizione:

  • PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
  • Accordi di Ristrutturazione
  • Concordato Minore
  • (nei casi estremi) Liquidazione Controllata

Questi strumenti consentono all’azienda di continuare a lavorare pagando solo una parte dei debiti, mentre ogni azione esecutiva viene sospesa.


Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo

Per salvare un’azienda meccanica e impiantistica servono competenze specifiche.
L’Avv. Monardo è:

  • Avvocato Cassazionista
  • Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento – negli elenchi del Ministero della Giustizia
  • Professionista fiduciario di un OCC
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)

È il professionista ideale per bloccare creditori, ristrutturare debiti e salvare aziende che lavorano con elevatori a tazze e trasportatori verticali, dove continuità e affidabilità sono fondamentali.


Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo

  • analisi immediata della tua esposizione debitoria
  • stop urgente ai pignoramenti e ai decreti ingiuntivi
  • riduzione dei debiti non dovuti
  • ristrutturazione del debito con piani personalizzati
  • protezione del magazzino, ricambi, componenti e cantieri aperti
  • trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
  • tutela completa dell’amministratore e dell’impresa

Conclusione

Avere debiti nella tua azienda di elevatori a tazze non significa essere destinati alla chiusura.
Con una strategia rapida, efficace e completamente legale, puoi:

  • fermare subito i creditori,
  • ridurre realmente i debiti,
  • salvare installazioni, consegne e cantieri,
  • proteggere il futuro della tua azienda.

Agisci ora.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata:
il percorso di salvataggio può iniziare oggi stesso.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
Si invita a leggere attentamente il disclaimer del sito.

Torna in alto

Abbiamo Notato Che Stai Leggendo L’Articolo. Desideri Una Prima Consulenza Gratuita A Riguardo? Clicca Qui e Prenotala Subito!