Azienda Di Produzione Guarnizioni O-ring Con Debiti: Cosa Fare Per Difendersi E Come

Se la tua azienda produce, importa o distribuisce guarnizioni O-ring, O-ring in NBR, EPDM, FKM/Viton, silicone, PTFE, O-ring speciali per oleodinamica, pneumatica, automotive, industria meccanica, alimentare e impiantistica, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è fondamentale intervenire subito per evitare blocchi produttivi e perdita di clienti strategici.

Nel settore delle guarnizioni tecniche, un ritardo nelle consegne può fermare macchine, impianti, linee produttive e manutenzioni critiche: il rischio di penali, reclami e rescissione dei contratti è molto concreto.

Perché le aziende di O-ring accumulano debiti

  • aumento dei costi di gomma tecnica, elastomeri speciali, PTFE e materiali certificati
  • rincari delle importazioni e dei componenti da stampaggio
  • pagamenti lenti da parte di officine, integratori e industrie meccaniche
  • ritardi nei versamenti IVA, imposte e contributi
  • magazzini complessi con migliaia di misure, durezze, mescole e varianti
  • difficoltà nell’ottenere fidi bancari adeguati ai volumi di scorte
  • investimenti continui in stampi, macchinari, controlli qualità e certificazioni

Cosa fare subito

  • far analizzare da un professionista l’intera situazione debitoria
  • identificare debiti che possono essere contestati, ridotti o rateizzati
  • evitare piani di rientro insostenibili che consumano liquidità
  • richiedere la sospensione immediata di eventuali pignoramenti
  • proteggere rapporti con fornitori strategici e materiali critici
  • usare strumenti legali per ristrutturare o rinegoziare i debiti senza fermare la produzione

I rischi se non intervieni tempestivamente

  • pignoramento del conto corrente aziendale
  • blocco delle forniture di mescole, elastomeri, stampi e ricambi
  • impossibilità di evadere ordini urgenti e produzioni su misura
  • perdita di clienti industriali, integratori e rivenditori
  • rischio concreto di chiusura dell’attività

Come può aiutarti l’Avvocato Monardo

Detto questo, l’Avvocato Monardo, cassazionista, coordina in tutta Italia un team di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario.
È inoltre:

  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012)
  • inserito negli elenchi del Ministero della Giustizia
  • professionista fiduciario presso un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)

Può aiutarti concretamente a:

  • bloccare pignoramenti e azioni esecutive
  • ridurre o ristrutturare i debiti con gli strumenti più efficaci previsti dalla legge
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  • proteggere scorte, materiali, stampi, macchinari e continuità produttiva
  • condurre la tua azienda verso un vero risanamento, evitando la chiusura

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Introduzione

Una piccola o media impresa manifatturiera – come un’azienda produttrice di guarnizioni O-Ring – può trovarsi schiacciata dai debiti e in difficoltà finanziaria. In questi casi è fondamentale conoscere gli strumenti legali a disposizione per difendersi dalle azioni dei creditori e gestire la crisi di debito, evitando se possibile la liquidazione fallimentare (oggi liquidazione giudiziale). Le normative italiane, aggiornate al 2025, offrono una serie di soluzioni avanzate per ristrutturare i debiti, risanare l’impresa e tutelare al contempo sia il patrimonio aziendale sia quello personale degli amministratori.

Questa guida – aggiornata a ottobre 2025 – fornisce un’analisi dettagliata e approfondita delle opzioni disponibili per un’azienda indebitata, con un focus sulla normativa italiana vigente e sulle più recenti sentenze e orientamenti giurisprudenziali. Il taglio sarà giuridico ma divulgativo, rivolgendosi sia a professionisti del diritto (avvocati, commercialisti) sia a imprenditori e privati interessati a capire cosa fare in concreto dal punto di vista del debitore.

Vedremo innanzitutto le diverse tipologie di debiti che un’azienda può accumulare (debiti fiscali, previdenziali, bancari, verso fornitori, ecc.) e le implicazioni legali di ciascuna. Affronteremo poi gli strumenti di difesa e le possibili soluzioni: dalle strategie stragiudiziali di ristrutturazione del debito (piani attestati, accordi con i creditori, composizione negoziata della crisi) alle procedure concorsuali giudiziali previste dal nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza (concordato preventivo, liquidazione giudiziale ex fallimento, ecc.). Saranno incluse sezioni specifiche sulle responsabilità personali degli amministratori e sulla tutela del patrimonio personale, vista la delicatezza di questi profili. Inoltre, per rendere il quadro più concreto, proporremo alcune simulazioni pratiche di casi tipici (esempi di aziende indebitate e delle soluzioni adottate) e una sezione di Domande e Risposte frequenti per chiarire i dubbi più comuni. Tabelle riepilogative aiuteranno a sintetizzare e confrontare i principali strumenti e le loro caratteristiche.

Importante: il contesto normativo italiano è stato profondamente innovato negli ultimi anni. Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con D.Lgs. 14/2019 e pienamente in vigore dal 15 luglio 2022, ha sostituito la vecchia Legge Fallimentare, introducendo nuovi strumenti di allerta e composizione della crisi. Successivi correttivi (D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 136/2024, ecc.) e la recezione della Direttiva UE 2019/1023 hanno ulteriormente arricchito la disciplina. Parallelamente, la giurisprudenza più recente – inclusa la Suprema Corte di Cassazione – ha fornito importanti chiarimenti a tutela della continuità aziendale e dei diritti dei debitori onesti. Ci atterremo a queste novità normative e giurisprudenziali aggiornate al 2025, citando le fonti istituzionali più autorevoli (leggi e sentenze) per garantire la massima affidabilità.

In sintesi, l’obiettivo della guida è spiegare “cosa fare per difendersi e come” nel caso di un’azienda produttrice di guarnizioni O-Ring (o qualsiasi PMI similare) gravata dai debiti. Conoscere i propri diritti e doveri, agire tempestivamente utilizzando gli strumenti di ristrutturazione del debito e attivare le procedure corrette può fare la differenza tra il salvataggio dell’impresa – magari uscendone più forte e ristrutturata – e il tracollo con la perdita dell’attività. Nessuna situazione debitoria è senza via d’uscita: la legge “non può pretendere l’impossibile dal debitore” (nemo tenetur ad impossibilia) e per questo ha predisposto diverse vie d’uscita negoziate per evitare che un’impresa in crisi venga automaticamente travolta dai debiti . Nei capitoli che seguono vedremo come sfruttare al meglio queste vie d’uscita.

(NB: Tutti i riferimenti normativi citati – articoli di legge, decreti, sentenze – sono riportati nelle note e raccolti nella sezione finale Fonti e Riferimenti.)

Tipologie di debiti aziendali e implicazioni legali

Un’azienda indebitata deve anzitutto mappare la natura dei propri debiti, poiché non tutti i crediti sono uguali: a seconda che si tratti di debiti verso il Fisco, verso enti previdenziali, verso banche, fornitori o altri soggetti, cambiano le tutele dei creditori, le possibili azioni esecutive e gli strumenti di composizione disponibili. Di seguito analizziamo le principali categorie di debito che tipicamente gravano su un’azienda produttiva e le rispettive implicazioni giuridiche.

Debiti fiscali (verso il Fisco)

I debiti tributari verso l’Erario (Agenzia delle Entrate e Agenzia delle Entrate-Riscossione) comprendono imposte non versate (IVA, IRES, IRAP, ritenute fiscali su stipendi, ecc.) e relative sanzioni e interessi. Questa categoria di debito è spesso la più pericolosa, perché la normativa attribuisce agli enti impositori poteri di riscossione molto incisivi. In passato, la presenza di ingenti debiti fiscali conduceva quasi inevitabilmente al fallimento dell’impresa; oggi, invece, esistono strumenti innovativi per ristrutturare anche i debiti tributari, offrendo all’azienda una via d’uscita negoziata .

Conseguenze e rischi dei debiti fiscali: Se l’azienda non paga volontariamente le imposte dovute, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione procede ad iscrivere a ruolo le somme e notifica la cartella esattoriale (ora “cartella di pagamento”). Se la cartella non è pagata né rateizzata entro i termini, scattano le misure esecutive senza bisogno di ulteriori autorizzazioni giudiziarie: il concessionario della riscossione può disporre il fermo amministrativo di veicoli aziendali, iscrivere ipoteca sui beni immobili dell’impresa, pignorare conti correnti aziendali e altri beni (anche presso terzi debitori dell’azienda). I debiti IVA godono di privilegio generale mobiliare sui beni mobili aziendali (art. 2752 c.c.), mentre altri tributi possono avere privilegi speciali; ciò significa che, in caso di concorso con altri creditori, l’Erario è privilegiato nel soddisfacimento. Inoltre, per alcuni tributi “fiduciari” come l’IVA o le ritenute operate sulle retribuzioni, il mancato versamento configura anche reati tributari (ad es. omesso versamento IVA oltre soglia di €250.000, ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000) a carico degli amministratori.

Va evidenziato che, in linea di principio, i debiti fiscali della società non ricadono automaticamente sugli amministratori o sui soci. In altre parole, l’eventuale insolvenza dell’azienda nei confronti del Fisco non comporta di per sé una responsabilità illimitata personale degli amministratori. Una recente sentenza della Giustizia Tributaria di secondo grado (Lombardia) – la n. 752/2025, depositata il 18 marzo 2025 – ha ribadito con forza questo concetto: l’ex amministratore di una S.r.l. estinta non può essere escusso dal Fisco per i debiti tributari sociali in assenza di prove concrete di sue condotte illecite. Il tentativo dell’Agenzia Entrate di rivalersi sull’ex amministratore solo in base alla sua carica è stato dunque respinto, sottolineandosi che la responsabilità tributaria personale richiede presupposti giuridici solidi e accertamenti individualizzati. In termini pratici, ciò significa che l’Agenzia può chiamare in causa direttamente l’amministratore (o il liquidatore) solo in casi specifici previsti dalla legge – ad esempio ai sensi dell’art. 36 del DPR 602/1973 – quando il medesimo abbia agito in modo colpevole, ad esempio occultando attivi o distribuendo risorse ai soci senza pagare le imposte dovute in sede di liquidazione. Tali azioni di responsabilità “ex lege” hanno natura civilistica e non tributaria: non c’è un’automatica “successione” nel debito fiscale, ma un’obbligazione nuova a carico dell’amministratore o liquidatore, accertata con atto motivato impugnabile in sede tributaria. Dunque, di regola, l’amministratore non rischia con il proprio patrimonio per i debiti fiscali aziendali, salvo i casi espressi in cui la legge lo prevede e ne sia data prova (si vedano i dettagli nella sezione sulle responsabilità personali degli amministratori**).

Strumenti di difesa per il debitore fiscale: Un’impresa schiacciata dal debito fiscale ha a disposizione diverse strategie. In assenza di procedure concorsuali, è possibile richiedere una rateazione delle cartelle esattoriali (fino a 72 rate mensili, estendibili a 120 in casi di grave e comprovata difficoltà), ottenendo la sospensione delle azioni esecutive a patto di rispettare i pagamenti rateali. Il legislatore ha periodicamente introdotto anche misure di definizione agevolata (“rottamazione” delle cartelle), condonando sanzioni e interessi: ad esempio, la Rottamazione-quater del 2023 ha permesso di saldare i ruoli affidati entro il 2017 pagando solo l’imposta e una minima quota di interessi. Queste agevolazioni, però, sono eccezionali e subordinate a finestre temporali fissate per legge.

Quando il debito tributario è troppo elevato per essere onorato integralmente, diventa cruciale ricorrere agli strumenti di ristrutturazione del debito fiscale nell’ambito di una procedura di crisi d’impresa. Il principale istituto è la transazione fiscale, oggi disciplinata nel CCII (artt. 63 e 88 CCII, già art. 182-ter L.F.). La transazione fiscale consente all’imprenditore in crisi di proporre al Fisco un pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti tributari, inclusa la possibilità di stralciare sanzioni e interessi . Ad esempio, un’azienda indebitata per 300.000 € tra IVA e ritenute potrebbe proporre di pagare 120.000 € in 10 anni, azzerando sanzioni e interessi, purché tale somma non sia inferiore a quanto il Fisco otterrebbe nella liquidazione giudiziale . In sostanza, la transazione fiscale funziona come una “rottamazione su misura” all’interno di una procedura concorsuale, dove l’Erario accetta di rinunciare a parte del credito per favorire la continuazione dell’attività d’impresa ed evitare il tracollo . Tradizionalmente, la transazione fiscale era attuabile solo nel contesto di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione omologato dal tribunale (vedi oltre), e l’opposizione dell’Erario poteva impedire l’omologazione. Oggi non è più così: la Cassazione ha chiarito che il tribunale può omologare ugualmente l’accordo o il concordato anche se l’Agenzia delle Entrate vota contro, a condizione che l’offerta al Fisco rispetti le soglie minime di legge (indicativamente, almeno il 30% del credito) ed è più conveniente della liquidazione . In particolare, l’ordinanza Cass. civ. n. 27782/2024 ha eliminato di fatto il potere di veto solitario del Fisco, confermata poi dalle Sezioni Unite n. 20036/2024 . Ciò significa che l’amministrazione finanziaria non può più bloccare da sola un piano di risanamento serio e conveniente per i creditori solo rifiutando il voto: il giudice potrà procedere con omologazione forzosa se tutti i requisiti sono soddisfatti .

Ulteriore novità è la possibilità di trattare i debiti fiscali anche fuori dalle procedure giudiziali formali, grazie alla composizione negoziata della crisi (introdotta nel 2021 – v. oltre). L’art. 23 CCII, come novellato nel 2023/2024, prevede che durante una composizione negoziata si possa concludere un accordo transattivo con il Fisco avente gli stessi effetti di una transazione fiscale, previa approvazione del tribunale . In pratica, oggi un’azienda può rinegoziare stragiudizialmente i propri debiti tributari con possibilità di stralcio dell’imposta dovuta, prima impensabile al di fuori di un concordato preventivo . Inoltre, l’art. 25-bis CCII ha introdotto misure premiali per chi ricorre tempestivamente alla composizione negoziata: ad esempio, l’Agenzia delle Entrate può concedere piani di dilazione straordinaria fino a 6-10 anni sulle imposte non ancora a ruolo, con forte riduzione di sanzioni e interessi, incentivando così l’imprenditore che attiva per tempo la procedura negoziata .

Infine, va segnalato che se l’azienda aveva già un piano di rateizzazione fiscale in corso ma decide di accedere a una procedura concorsuale (es. concordato), non perde automaticamente il beneficio. La Cassazione (Sez. Trib. n. 12174/2024) ha statuito che l’apertura del concordato preventivo sospende di diritto le rateizzazioni fiscali in corso, impedendo che il debitore decada dal piano di dilazione per il mancato pagamento delle rate durante la procedura . In altri termini, se l’azienda presenta domanda di concordato, non verrà considerata inadempiente sul piano di rate già concordato col Fisco: il piano è “congelato” per legge finché dura la procedura, evitando un aggravio improvviso del debito . Questo principio – confermato anche da Cass. ord. 4081/2023 – tutela l’imprenditore che cerca una soluzione concordata, evitando che sia punito con la decadenza dalla dilazione proprio mentre tenta di risanare la situazione .

In sintesi, per i debiti fiscali le parole chiave sono: negoziazione e tempestività. Prima di subire azioni esecutive o istanze di fallimento dal Fisco, l’azienda dovrebbe valutare piani di rientro o la formalizzazione di una proposta di transazione fiscale all’interno di una procedura (negoziata o giudiziale). Il quadro normativo attuale offre margini per ridurre il carico fiscale a un livello sostenibile (purché il Fisco ottenga almeno quanto avrebbe dalla liquidazione) e diluirlo nel tempo, consentendo la prosecuzione dell’attività. Nel frattempo, l’attivazione di una procedura di concordato preventivo o di composizione negoziata permette di bloccare sul nascere nuove azioni esecutive del Fisco, creando uno spazio di respiro nel quale trattare un accordo. Nel prosieguo vedremo come integrare il trattamento del debito fiscale all’interno delle varie soluzioni di crisi.

Debiti previdenziali (verso INPS e altri enti)

Accanto ai tributi, molte aziende in difficoltà accumulano debiti contributivi verso enti previdenziali (principalmente INPS per i contributi obbligatori dei dipendenti e dei titolari, ma anche eventuali debiti verso INAIL per premi assicurativi obbligatori, casse professionali, ecc.). I contributi INPS non versati, specie quelli trattenuti in busta paga ai dipendenti, rappresentano una voce debitoria delicata: da un lato, la legge tutela in modo forte questi crediti (considerati “privilegiati” nelle procedure concorsuali al pari dei tributi, ex art. 2753 c.c.), dall’altro l’omesso versamento di alcune tipologie può integrare fattispecie di reato.

Conseguenze del mancato pagamento dei contributi: L’INPS ha poteri di riscossione similari all’Erario. In particolare, notifica avvisi di addebito immediatamente esecutivi per i contributi non versati, che – trascorsi i termini – vengono affidati all’Agente della Riscossione per le azioni esecutive (cartelle, fermi, ipoteche, pignoramenti). Un problema ulteriore è che il mancato pagamento dei contributi può pregiudicare il rilascio del DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva): senza DURC regolare, l’azienda rischia di essere esclusa da appalti pubblici o di vedersi sospendere pagamenti di lavori in corso. Inoltre, se l’azienda trattiene dalle retribuzioni dei dipendenti le quote contributive a loro carico e non le versa all’INPS entro i termini, l’amministratore commette il reato di omesso versamento di ritenute previdenziali (art. 2, co.1-bis D.L. 463/1983, conv. in L. 638/1983) – perseguibile penalmente quando l’omissione eccede una certa soglia (attualmente circa 10.000 € annui). Tale reato, di natura contravvenzionale, è evitabile pagando il dovuto entro il termine di legge (3 mesi dall’ingiunzione) o, in fase processuale, tramite l’adempimento integrale del dovuto prima del giudizio.

Come per i debiti fiscali, tuttavia, la responsabilità personale degli amministratori per i contributi non pagati non è automatica sul piano civilistico: gli amministratori non diventano debitori solidali dei contributi aziendali solo per il fatto dell’omesso versamento (fatte salve, naturalmente, le responsabilità penali appena menzionate e le ipotesi di azioni di responsabilità per mala gestio). Esiste peraltro una norma simile all’art. 36 DPR 602/73 in ambito contributivo: l’art. 3, co. 9 del D.Lgs. 46/1999 prevede che, in caso di liquidazione della società, il liquidatore risponde in proprio dei contributi previdenziali non versati se ha soddisfatto crediti di ordine inferiore a quello dei contributi (violando quindi l’ordine di graduazione dei crediti). Anche qui si tratta di una responsabilità per fatto proprio del liquidatore, non di un subentro generalizzato nei debiti INPS.

Soluzioni per i debiti INPS: L’INPS, tramite Agenzia Riscossione, consente analogamente al Fisco di accordare rateizzazioni dei debiti contributivi. È prassi comune chiedere la dilazione in 24/36 mesi degli importi dovuti, per ottenere subito il DURC regolare e scongiurare blocchi operativi (il DURC viene rilasciato se la rateazione è in corso e in regola). In situazioni di crisi conclamata, l’azienda può rientrare in piani straordinari fino a 72 rate, dimostrando la temporanea difficoltà.

All’interno delle procedure concorsuali negoziate, i debiti contributivi possono essere oggetto di trattativa congiunta ai debiti fiscali. L’istituto della transazione fiscale di cui sopra si estende infatti anche ai contributi previdenziali: il CCII prevede espressamente che nella proposta di concordato o di accordo omologato si possano includere i crediti degli enti previdenziali con lo stesso trattamento dei tributi erariali (parziale pagamento, dilazione, stralcio sanzioni). Storicamente l’INPS ha avuto un approccio più rigido dell’Erario sull’accettazione di tagli ai contributi (ritenendo intangibile la parte relativa alla quota dipendenti); tuttavia, con il nuovo Codice della Crisi, l’ente previdenziale è chiamato a valutare le proposte secondo criteri di convenienza economica complessiva, analoghi a quelli fiscali. Da notare: nell’ambito della composizione negoziata, a fine 2023 è emerso un dibattito sul cosiddetto “comma 2-bis dell’art. 23 CCII” (introdotto dal correttivo 2023) che disciplina l’accordo transattivo con le Agenzie fiscali; inizialmente pareva che tale norma permettesse la falcidia solo dei tributi erariali e non dei contributi (da cui il titolo “transazione fiscale ma non previdenziale” di alcuni commenti) . In realtà, con gli interventi correttivi più recenti, anche l’INPS può aderire a soluzioni negoziali in composizione negoziata, sebbene la prassi sia in divenire. Ciò che rimane fermo è che in nessun caso possono essere toccati i contributi trattenuti ai lavoratori: quelli vanno versati integralmente, o il piano fallirà l’approvazione (oltre a permanere il profilo penale).

In conclusione, per i debiti INPS l’azienda deve agire su due fronti: gestionale, evitando che la morosità contributiva comprometta il DURC e la prosecuzione dei lavori (quindi ricorrendo subito a piani di rateazione, magari anche “a saldo e stralcio” se la legge lo consente); e concorsuale, inserendo il debito previdenziale in un più ampio piano di risanamento (accordo o concordato) in cui si garantisca all’ente almeno quanto avrebbe ricavato in caso di fallimento. L’esperienza insegna che l’INPS tende a votare a favore di piani che offrano una soddisfazione significativa e credibile, mentre respinge proposte aleatorie o con tagli eccessivi. È quindi opportuno preparare, con l’ausilio di professionisti, proposte ben documentate, corredate da piani industriali che dimostrino la sostenibilità nel tempo anche del pagamento parziale proposto dei contributi.

Debiti bancari e finanziari

Le aziende di produzione, come quella del nostro esempio, spesso ricorrono al credito bancario per finanziare l’attività (mutui per l’acquisto di impianti, affidamenti in conto corrente per cassa o anticipi fatture, leasing strumentali, ecc.). Debiti bancari elevati possono derivare anche da esposizioni di conto scoperto o da garanzie escusse. Quando l’impresa entra in crisi di liquidità, i rapporti con le banche diventano critici: la banca, percependo segnali di insolvenza, può revocare gli affidamenti (ad esempio riducendo fidi e castelletti, costringendo l’azienda a rientrare immediatamente dell’esposizione) e chiedere il rientro anticipato dei finanziamenti (specialmente se vi sono clausole di decadenza dal beneficio del termine legate a inadempimenti o al peggioramento degli indici di bilancio). Inoltre, se il credito è assistito da garanzie reali (come ipoteche su immobili aziendali o pegni su macchinari) o da garanzie personali (fideiussioni dei soci/amministratori o di terzi), la banca insolvente può rapidamente attivare le garanzie per recuperare il dovuto: ad esempio avviando un’esecuzione immobiliare sull’immobile ipotecato, escutendo la fideiussione contro il garante, o pignorando beni dati in pegno. Le banche hanno anche la facoltà di compensare i depositi attivi dell’azienda con i debiti (compensazione tra conto corrente e conto finanziamenti), aggravando la tensione di cassa.

Conseguenze del default bancario: Se un’azienda non rimborsa le rate di un mutuo o sconfina oltre i fidi concessi, oltre alle azioni legali la banca segnala l’inadempimento nella Centrale Rischi di Bankitalia e nelle banche dati creditizie: ciò compromette la reputazione creditizia dell’impresa e rende difficile ottenere nuovo credito altrove. Vi è inoltre il rischio di vedersi revocare eventualmente altre linee di credito “in bonis” per effetto domino. In casi estremi, più banche creditrici possono coordinarsi o agire singolarmente per presentare un’istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) se il debito scaduto è rilevante e l’impresa appare insolvente.

Difendersi dai debiti bancari: La parola chiave qui è rinegoziazione. Poiché le banche sono creditori forti (spesso assistiti da garanzie), è nell’interesse dell’azienda cercare un dialogo prima che la situazione precipiti in contenziosi. Alcune possibili azioni:

  • Moratoria o standstill: in caso di crisi temporanea (es. calo di mercato momentaneo), l’azienda può chiedere alla banca una moratoria sui pagamenti (ad esempio sospensione delle quote capitali dei mutui per 6-12 mesi) o un accordo di standstill in cui la banca si impegna a non intraprendere azioni esecutive per un periodo, consentendo all’impresa di riorganizzarsi. In passato, durante crisi sistemiche (es. pandemia Covid-19), vi sono state moratorie legislative generalizzate. Fuori da quei contesti, serve un accordo volontario con la banca.
  • Ristrutturazione del debito bancario: è possibile proporre alle banche un piano di rientro sostenibile, magari allungando le scadenze (la cosiddetta riscadenzazione), riducendo il tasso di interesse o concordando una riduzione parziale (stralcio) del capitale in cambio di un pagamento immediato di una parte (il classico “saldo e stralcio”). Queste trattative possono essere condotte bilateralmente oppure in modo coordinato se ci sono più banche coinvolte. Spesso viene richiesto all’imprenditore di apportare risorse fresche (ad es. ricapitalizzando l’azienda o offrendo garanzie aggiuntive) per convincere le banche ad accettare un sacrificio.
  • Accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII (già art. 182-bis L.F.): se la situazione è complessa con più banche/finanziatori, conviene incardinare la trattativa in una cornice giuridica formale, ossia l’accordo di ristrutturazione dei debiti. Questo strumento – approfondito più avanti – consente di negoziare un accordo con la maggioranza dei creditori finanziari e poi farlo omologare dal tribunale, rendendolo efficace anche verso eventuali dissenzienti (entro certi limiti). Ad esempio, se l’azienda ha debiti con 5 banche, ottenendo l’adesione di 4 su 5 che rappresentino almeno il 60-75% dei crediti finanziari, l’accordo può essere esteso anche alla quinta banca dissenziente (utilizzando l’istituto dell’accordo ad efficacia estesa previsto dal CCII) . Il risultato è vincolare tutte le banche al piano concordato (nuove scadenze, eventuali stralci) evitando azioni esecutive scoordinate.
  • Intervento del Fondo di Garanzia: molte PMI hanno finanziamenti assistiti dalla garanzia pubblica del Fondo Centrale di Garanzia PMI. In caso di insolvenza, la banca può escutere la garanzia statale (che copre una percentuale del prestito, es. 80%). Se il Fondo indennizza la banca, il debito residuo verso la banca si riduce ma sorge un debito di pari importo verso il Ministero (MCC MedioCredito Centrale), che subentra. Il vantaggio è che spesso la gestione pubblica del credito è più disponibile a dilazioni sul lungo termine. Inoltre, nell’ambito di un concordato o accordo, i crediti garantiti dallo Stato possono subire falcidia dietro autorizzazione ministeriale, secondo le norme pro tempore (nel 2020-2022 vi erano disposizioni speciali per facilitare la transazione sui crediti garantiti).
  • Concordato preventivo con continuità aziendale: se l’indebitamento bancario è insostenibile ma l’azienda ha prospettive di risanamento, una via è avviare un concordato preventivo (vedi oltre) in cui continuare l’attività e pagare le banche secondo un piano di ristrutturazione pluriennale. Nel concordato, le banche chirografarie potrebbero ricevere solo una percentuale del credito, mentre quelle garantite si soddisferanno sul ricavato dei beni posti a garanzia (fino a concorrenza del valore di stima del bene). Il concordato impone alle banche di rispettare un automatic stay: non potranno agire esecutivamente al di fuori del piano, e saranno vincolate dall’esito della procedura (in caso di omologazione). Naturalmente, per approvare il concordato occorre il voto favorevole delle classi di creditori, tra cui le banche stesse – quindi la proposta deve essere convincente anche per loro.

Nota bene: le banche, in virtù della vigilanza regolamentare, tendono ad effettuare svalutazioni e accantonamenti su crediti deteriorati e spesso preferiscono soluzioni concordate rapide, anche accettando perdite, piuttosto che lunghi contenziosi. Ciò significa che, se l’imprenditore presenta un piano credibile di recupero (magari coadiuvato da un attestatore indipendente che ne certifichi la fattibilità) e offre una soddisfazione ragionevole (ad esempio, immediata liquidazione di un cespite non essenziale per pagare parte del debito, e piano di rientro sul resto), le banche potrebbero aderire. Viceversa, in mancanza di dialogo, l’istituto di credito tenderà a tutelarsi giudizialmente nel modo più rapido, ad esempio chiedendo un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo e un pignoramento ipotecario.

In sintesi, per i debiti bancari l’azienda debitrice deve anticipare le mosse: appena si prospetta la difficoltà a rispettare i covenant o le scadenze, è bene affrontare apertamente la questione con i finanziatori, magari con l’ausilio di un advisor finanziario che predisponga un piano di risanamento. Proprio a tal fine il Codice della Crisi ha previsto l’obbligo per l’imprenditore di dotarsi di adeguati assetti organizzativi e monitorare costantemente la sostenibilità dei debiti (art. 3 CCII e art. 2086 c.c.): individuare tempestivamente il rischio di insolvenza permette di attivare strumenti come la composizione negoziata (anche con le banche al tavolo) prima che partano revoche e decreti ingiuntivi a raffica.

Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali

Le passività commerciali (fatture non pagate a fornitori di materie prime, componenti, servizi, utenze, affitti, etc.) costituiscono un’altra fetta importante del debito aziendale. In un’azienda di produzione guarnizioni O-Ring, ad esempio, potrebbe trattarsi di fornitori di gomma o materiali chimici, officine terziste, società di logistica, bollette energetiche o canoni di leasing operativo di macchinari. Quando l’azienda è in stress finanziario, tende a posticipare questi pagamenti per privilegiare spese più urgenti (stipendi, fisco, banche), creando però insoddisfazione nella filiera.

Conseguenze dei debiti verso fornitori: I fornitori insoddisfatti possono reagire in vari modi: alcuni bloccano le forniture in attesa di saldo (mettendo a rischio la continuità produttiva se si tratta di materie prime o parti essenziali), altri iniziano azioni legali di recupero crediti. Tipicamente un fornitore procede dapprima con solleciti e diffide, poi può ricorrere al decreto ingiuntivo ottenendo in tempi rapidi (qualche mese) un’ingiunzione di pagamento dal giudice, grazie alla prova scritta costituita da fatture, DDT firmati, estratti conto sottoscritti. Il decreto ingiuntivo, se non opposto dall’azienda debitrice entro 40 giorni, diventa definitivo ed esecutivo, consentendo al fornitore di iniziare pignoramenti (es. pignoramento presso la banca dell’azienda o pignoramento di beni presso la sede). Più fornitori potrebbero coordinarsi – ad esempio con l’assistenza di società di recupero crediti – accentuando la pressione. Inoltre, se il credito supera una certa soglia (nel passato la giurisprudenza utilizzava come riferimento la soglia di 30.000 € di debiti scaduti per dichiarare lo stato di insolvenza), un fornitore potrebbe anche presentare istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) contro l’azienda, al fine di evitare che altri creditori prendano tutto e di assicurarsi un pari trattamento.

Difesa e gestione dei debiti commerciali: Per i debiti verso fornitori, la gestione tempestiva delle relazioni è fondamentale. Alcune strategie:

  • Negoziazione individuale: Spesso è possibile ottenere dai fornitori un’estensione dei termini di pagamento o un piano di rientro bonario (es: pagamenti scaglionati in più mesi) semplicemente spiegando la situazione e garantendo la volontà di onorare il debito. Molti fornitori preferiscono mantenere la relazione commerciale piuttosto che troncarla, specie se l’azienda era un buon cliente: potrebbero accettare un compromesso (pagamento di una parte subito e il resto a scadenze concordate) anziché rischiare di non vedere nulla in un eventuale fallimento. È importante formalizzare questi accordi per iscritto (ad es. con scrittura privata di dilazione), per evitare future contestazioni.
  • Composizione plurilaterale dei debiti commerciali: Se i fornitori coinvolti sono tanti, l’imprenditore può convocarli collettivamente (o tramite i rappresentanti più rilevanti, come avviene talvolta nelle crisi distrettuali) per proporre un accordo corale: ad esempio tutti accettano un pagamento del 50% del loro credito in 12 mesi, oppure una moratoria generale di 6 mesi sulle scadenze imminenti. Questo approccio informale può essere efficace se vi è fiducia reciproca e se i fornitori intravedono che, sostenendo l’azienda oggi, potranno continuare a fare affari con essa domani. Tuttavia coordinare molti creditori è complesso senza una cornice giuridica: è qui che possono tornare utili gli strumenti concorsuali (accordo di ristrutturazione o concordato), che rendono vincolante l’accordo per tutti una volta approvato dalla maggioranza.
  • Interventi su fornitori strategici: L’azienda deve identificare quali fornitori sono critici per la prosecuzione dell’attività (es. l’unico fornitore di una certa mescola di gomma, o il proprietario del capannone in affitto, o il fornitore che rappresenta il 40% degli acquisti). Con questi va fatto un piano a parte, spesso prioritario: può convenire pagarli preferenzialmente (compatibilmente con la legge, cercando di non incorrere in atti di favore revocabili) per assicurarsi la continuità delle forniture. In caso di concordato preventivo con continuità, si può chiedere al tribunale di autorizzare il pagamento dei fornitori strategici prima dell’omologazione (art. 100 CCII, già 182-quinquies L.F.), proprio per evitare l’interruzione delle forniture vitali. Tali pagamenti autorizzati non sono revocabili e sono in prededuzione .
  • Opposizione ragionata ai decreti ingiuntivi: Se un fornitore ottiene un decreto ingiuntivo, l’azienda può valutare se vi siano motivi reali di contestazione (ad esempio merce contestata, importo errato, prescrizione, ecc.) e presentare opposizione entro 40 giorni per trasformare l’ingiunzione in una causa ordinaria. L’opposizione blocca intanto l’esecutorietà (salvo concessione di provvisoria esecuzione da parte del giudice se il credito è fondato su prova scritta certa) e prende tempo. Tuttavia, opporsi senza basi solide è solo un modo di rimandare l’inevitabile e può aggravare le spese (interessi di mora, spese legali a carico se si perde). Spesso la scelta migliore è guadagnare tempo negoziando: ad esempio, si può chiedere al fornitore di non procedere a esecuzione in cambio della rinuncia all’opposizione e dell’accettazione di un piano di pagamento concordato. In una composizione negoziata della crisi, tra l’altro, l’esperto nominato può aiutare a stipulare accordi transattivi con fornitori, e l’azienda può ottenere dal tribunale misure protettive che sospendono le azioni esecutive di fornitori per la durata delle trattative (approfondiremo questo aspetto più avanti) .
  • Utilizzo di factoring o strumenti finanziari: Se il problema è la mancanza di liquidità immediata, l’azienda potrebbe considerare operazioni di factoring (cedere i propri crediti verso clienti a una società finanziaria per ottenere subito cassa con cui pagare i fornitori) o la ricerca di investitori/partner che immettano capitale fresco (anche tramite operazioni di distressed M&A, vendendo magari un ramo d’azienda per pagare debiti e salvare il resto). Queste soluzioni vanno ponderate caso per caso e spesso richiedono il supporto di advisor finanziari.

In generale, i debiti verso fornitori vanno gestiti con trasparenza e tempestività. Nascondere la crisi ai fornitori fino all’ultimo porta quasi sempre a reazioni legali aggressive. È preferibile, per quanto difficile, mettere le carte in tavola con i partner commerciali strategici e cercare soluzioni condivise, magari temporanee, in attesa di un risanamento complessivo. Un fornitore informato è spesso più collaborativo di uno tenuto all’oscuro. Infine, è bene ricordare che, se l’azienda dovesse malauguratamente arrivare alla liquidazione giudiziale, i fornitori chirografari (senza privilegio) rischiano di recuperare solo una minima parte del credito – quindi anche dal loro punto di vista, un concordato che offra ad esempio il 30-40% subito potrebbe essere preferibile ad attendere anni in fallimento per forse il 5-10%. Questo argomento può essere usato dall’imprenditore per convincere i creditori ad accettare soluzioni di compromesso.

Debiti verso dipendenti (retribuzioni e TFR)

Un’azienda in crisi può trovarsi nell’impossibilità di pagare puntualmente gli stipendi e gli oneri collegati (trattenute fiscali, contributi, TFR – Trattamento di Fine Rapporto – maturato). Questa categoria di debiti è estremamente delicata perché incide sulla vita delle persone (i lavoratori e le loro famiglie) ed è oggetto di particolare tutela nell’ordinamento.

Conseguenze del mancato pagamento di stipendi: Innanzitutto, i dipendenti hanno diritto di agire velocemente per ottenere le retribuzioni dovute. Possono presentare ingiunzioni di pagamento al giudice del lavoro (che spesso concede decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi inaudita altera parte per crediti salariali). Possono anche dare le dimissioni per giusta causa se il datore omette il pagamento di stipendi per un certo periodo, con diritto all’indennità di disoccupazione (NASpI) a carico dell’INPS. Inoltre, il mancato pagamento degli stipendi per oltre una certa durata può integrare un’ipotesi di reato contravvenzionale (violazione dell’art. 2 L. 195/1952 – retribuzione non inferiore ai minimi, anche se questo si applica più a differenze di paga contrattuale; l’ordinamento penale in sé punisce specificamente solo l’omissione contributiva come visto, mentre per gli stipendi la tutela è civile, salvo casi di estorsione se il datore costringe a non pagarli).

Nel caso di procedure concorsuali, i crediti di lavoro hanno un rango privilegiato altissimo: i salari degli ultimi 12 mesi prima della procedura e il TFR maturato sono crediti privilegiati che vengono pagati prima dei chirografari; inoltre, esiste il Fondo di garanzia INPS che interviene a pagare ai lavoratori il TFR e le ultime mensilità non corrisposte nel caso di fallimento del datore di lavoro (nei limiti di legge). Ciò significa che, se si arriva all’insolvenza conclamata, i dipendenti possono comunque recuperare gran parte del dovuto tramite l’INPS (che poi si surroga come creditore privilegiato nella procedura).

Strumenti e tutele per i debiti verso lavoratori: Un’azienda in crisi dovrebbe dare priorità assoluta ai pagamenti dei dipendenti – sia per ragioni etiche sia perché una forza lavoro demotivata o in sciopero può precipitare definitivamente la situazione. Se vi è carenza di liquidità, l’impresa può provare a concordare con i dipendenti o i sindacati una dilazione nel pagamento delle spettanze (ad esempio: pagare con qualche settimana di ritardo, o rateizzare gli arretrati). Legalmente, l’accordo individuale per differire la retribuzione è discutibile (essendo il diritto alla retribuzione indisponibile), ma in pratica succede che, di fronte al rischio di perdere il lavoro, i dipendenti accettino temporanei ritardi. È fondamentale mantenere un dialogo trasparente, magari presentando loro il piano di rilancio o di salvataggio che l’azienda intende perseguire.

Un altro strumento, se la crisi è congiunturale, è l’accesso agli ammortizzatori sociali: ad esempio, la Cassa Integrazione Guadagni (CIG) nelle varie forme (ordinaria, straordinaria per crisi, fondo d’integrazione salariale) può temporaneamente farsi carico di parte delle retribuzioni, sospendendo o riducendo l’attività lavorativa. Questo consente all’azienda di non pagare gli stipendi (o pagarli solo in parte) per il periodo coperto da CIG, evitando di accumulare debito ulteriore verso i dipendenti e mantenendo la forza lavoro occupata per quando l’attività potrà riprendere a pieno regime.

Se la situazione sfocia in una procedura concorsuale, i lavoratori godono – come detto – di vari privilegi: in concordato preventivo con continuità aziendale, le retribuzioni correnti devono essere pagate regolarmente; in concordato liquidatorio, è previsto che i crediti di lavoro per stipendio e TFR abbiano soddisfazione integrale salvo il limite della capienza dei beni (ma spesso l’INPS interviene a garantire questi crediti). Inoltre, gli stipendi dei 3 mesi antecedenti la domanda di concordato sono considerati prededucibili (pagabili prima di tutti) se finalizzati ad assicurare le prestazioni dei lavoratori in vista del concordato (art. 6 D.L. 22/2022 conv. L. 122/2022).

Dal punto di vista del debitore-imprenditore, evitare tensioni con i dipendenti è cruciale anche per scongiurare denunce o cause di lavoro che possano aggravare la situazione legale. Ad esempio, un gruppo di dipendenti potrebbe presentare istanza di fallimento se l’azienda non li paga da molti mesi e non dà segni di reazione – questo accade di rado, ma è tecnicamente possibile. Più frequentemente, come detto, i dipendenti preferiscono tutelarsi andando in disoccupazione e delegando al Fondo di garanzia il recupero, ma ciò comporta comunque la perdita immediata delle risorse umane per l’azienda.

In sintesi: pagare i dipendenti deve essere la priorità; se proprio non è possibile, coinvolgerli nella ricerca di una soluzione (ammortizzatori, accordi temporanei) è l’unica via per evitare conflitti frontali. In sede di elaborazione di un piano di ristrutturazione del debito, i crediti di lavoro vanno sempre trattati come intoccabili (niente proposta di stralcio su stipendi e TFR, semmai dilazione se i lavoratori accettano): qualsiasi proposta concordataria che prevedesse di non soddisfare integralmente i lavoratori difficilmente verrebbe omologata (anche perché l’INPS, subentrando, si opporrebbe). Nel prosieguo, quando parleremo di concordato e altre procedure, daremo per scontato che la tutela dei dipendenti è integrata in quelle soluzioni, motivo per cui l’azienda può concentrarsi sul come soddisfare gli altri creditori.

Tabella 1: Tipologie di debito aziendale – caratteristiche e tutele principali

Tipo di debitoEsempiTutele del creditoreAzioni tipiche del creditorePossibili difese/soluzioni
Fiscale (Erario)IVA, IRES, IRAP, ritenute fiscaliPrivilegio generale (IVA), poteri esattoriali immediati, possibile responsabilità ex lege di amm.li in caso di liquidazione senza pagamento (art.36 DPR 602/73)Iscrizione a ruolo e cartella esattoriale; fermi amministrativi, ipoteche, pignoramenti; insinuazione al passivo con privilegio; istanza di fallimento se insolvenza graveRateizzazioni; Definizioni agevolate (rottamazioni); Transazione fiscale in concordato/accordo con stralcio sanzioni/interessi ; Composizione negoziata con accordo fiscale fuori dal tribunale ; misure protettive per sospendere esecuzioni; omologazione forzosa anche se Fisco dissente (Cass. 2024)
Previdenziale (INPS)Contributi dipendenti e datori, premi INAILPrivilegio generale (contributi ultimi 2 anni), privilegio speciale su beni del datore (art.2753 c.c.); avvisi di addebito esecutivi; reato penale se omesse ritenute > soglia; possibile responsabilità liquidatore per violazione ordine pagamenti (art. 3 co.9 D.lgs 46/99)Avviso di addebito e cartella; blocco DURC; pignoramenti; insinuazione al passivo come credito privilegiato; istanza di fallimento possibile (rara)Rateizzazioni (fino 72 mesi) con DURC regolare; eventuali condoni contributivi legislativi; Transazione contributiva (equiparata a fiscale) in concordato/accordo; Composizione negoziata (trattativa con INPS, ancora in evoluzione normativa); Pagamento integrale delle quote trattenute ai dipendenti imprescindibile; misure protettive in composizione/comcordato per fermare azioni; CIGS per ridurre maturazione debiti
Bancario/FinanziarioMutui, leasing, fidi bancari, scoperti CC, prestiti sociSpesso garantito (ipoteche, pegni, fideiussioni personali); possibilità di revoca affidamenti e compensazione conti; prelazione in caso di garanzie reali; segnalazioni Centrale RischiRevoca fidi e richiesta rientro; decadenza dal termine su mutui; decreto ingiuntivo immediato; esecuzione su beni ipotecati/pegni; escussione di garanti; insinuazione al passivo (privilegiata se ipoteca/pegno, chirografa sul residuo); istanza di fallimento se insolvenza manifestaNegoziazione privata (moratorie, riscadenzazione mutui); Accordo di ristrutturazione ex art.57 CCII (60% crediti) con omologa, anche vincolando dissenzienti (accordo ad efficacia estesa) ; Piano attestato di risanamento con banche principali ; Composizione negoziata con coinvolgimento banche e misure protettive; Concordato preventivo (continuità o liquidatorio) per bloccare azioni e imporre falcidia secondo valori beni; ricerca di nuovi finanziatori/investitori (anche ponte ex art. 100 CCII) .
Commerciale (Fornitori)Forniture materie prime, servizi, bollette, affittoCrediti chirografari (senza garanzie, salvo patto di riservato dominio su beni forniti se previsto); possibilità di interrompere forniture future (pressione contrattuale); se credito > soglia può chiedere fallimento; in alcuni casi privilegio speciale (es. credito del venditore per beni forniti con riserva di proprietà)Diffide di pagamento; Decreto ingiuntivo (titolo esecutivo veloce); pignoramenti di beni aziendali o crediti; sospensione forniture; ritenzione merce eventualmente (se consegna non completa); insinuazione al passivo chirografo; istanza di fallimento (soprattutto se credito rilevante e nessun dialogo)Negoziazione individuale: dilazioni, saldo e stralcio; Accordi collettivi informali tra più fornitori (difficili senza quadro legale); Composizione negoziata con accordi stragiudiziali mediati dall’esperto e stop temporaneo ai pagamenti coercitivi ; Concordato preventivo o accordo ex art.57 CCII: falcidia parziale ai fornitori con voto a maggioranza (spesso classe chirografari); Pagamento fornitori essenziali autorizzato dal tribunale per continuità (prededuzione) ; Opposizione a decreti ingiuntivi se contestazioni fondate (per guadagnare tempo o ridurre importo); factoring pro-soluto dei crediti dell’azienda per fare cassa e pagare fornitori critici.
Dipendenti (Lavoro)Retribuzioni non pagate, TFR maturato, ferie non godutePrivilegio generale sui mobili (ultimi 12 mesi retribuzioni e tutto il TFR); Prededuzione in concordato per alcune mensilità; accesso al Fondo di Garanzia INPS (TFR e max 3 mesi stipendi) in caso di insolvenza; potere di dimettersi per giusta causa; tutele sindacali; azioni rapide davanti al giudice del lavoroDecreto ingiuntivo immediato (crediti di lavoro privilegiati); insinuazione al passivo privilegiata; segnalazione INL (ispettorato) per violazioni; dimissioni collettive/sciopero; istanza di fallimento (rara, ma possibile se stipendi non pagati per lungo periodo)Attivazione ammortizzatori sociali (CIG) per contenere il debito corrente; Negoziazione con rappresentanze per ritardi temporanei (col rischio legale mitigato dalla volontà di salvare occupazione); Pagamento integrale in qualsiasi piano di ristrutturazione (no stralci su crediti lavoro, al più pagamento dilazionato se concordato col sindacato); Predisposizione di risorse ad hoc in concordato per soddisfare lavoratori subito (spesso requisito per ottenere consenso sociale e del tribunale).

Legenda: privilegio = diritto di prelazione sul ricavato dei beni rispetto ad altri creditori; prededuzione = soddisfacimento con precedenza anche sui crediti privilegiati (tipico per spese della procedura o finanziamenti autorizzati); falcidia = pagamento parziale di un credito nell’ambito di un concordato/accordo; misure protettive = sospensione delle azioni esecutive individuali disposta dal tribunale a tutela di una trattativa in corso.

Strumenti di ristrutturazione e composizione stragiudiziale del debito

Passiamo ora a esaminare i principali strumenti attraverso cui un’azienda debitrice può ristrutturare i debiti e cercare il risanamento evitando di arrivare alla liquidazione giudiziale. Tali strumenti possono essere di natura stragiudiziale (ovvero realizzati tramite accordi negoziali, con minimo intervento del tribunale) oppure ibrida/concorsuale, quando richiedono un’omologazione da parte del tribunale pur basandosi su accordi volontari. L’ordinamento italiano, soprattutto dopo la riforma introdotta dal Codice della Crisi d’Impresa (CCII), incoraggia fortemente le soluzioni preventive e negoziate, che permettono di risanare l’impresa in crisi quando ancora vi sono margini di continuità.

Analizziamo gli strumenti chiave: dal piano attestato di risanamento, passando per gli accordi di ristrutturazione dei debiti (in diverse varianti), fino alla composizione negoziata della crisi, introdotta di recente come alternativa flessibile al fallimento.

Piano Attestato di Risanamento (strumento stragiudiziale)

Il piano attestato di risanamento è una soluzione totalmente stragiudiziale, disciplinata dall’art. 56 CCII (già art. 67, co. 3, lett. d) della vecchia Legge Fallimentare). Non si tratta di un procedimento concorsuale né di un accordo che vincola tutti i creditori, bensì di un piano unilaterale predisposto dall’imprenditore in crisi, finalizzato a riportare l’azienda in bonis, che ottiene la fiducia di alcuni creditori chiave e l’asseverazione di un esperto indipendente (attestatore).

Come funziona: l’imprenditore elabora, magari con l’ausilio di consulenti, un piano industriale e finanziario di risanamento pluriennale, indicando come superare la crisi e soddisfare i creditori. Il piano deve essere poi “attestato” da un professionista indipendente (revisore, commercialista o esperto ex art. 2 CCII) che ne verifica la fattibilità e la veridicità dei dati aziendali. I creditori non sono tenuti per legge ad aderire, ma tipicamente il piano viene negoziato informalmente con i principali creditori (es. la banca più esposta) per assicurarsi che lo sostengano.

Caratteristiche principali del piano attestato:

  • Nessuna soglia di adesione legale: a differenza degli accordi di ristrutturazione o concordati, il piano attestato non richiede il consenso di una percentuale predeterminata di creditori . Può essere costruito coinvolgendo solo alcuni creditori strategici (ad es. la banca principale e un fornitore critico), mentre altri creditori possono restare fuori senza essere formalmente vincolati. È uno strumento flessibile, spesso usato quando la crisi è ancora relativamente contenuta e si spera di poterla risolvere con un accordo mirato senza passare per il tribunale .
  • Forma e pubblicità: il piano attestato in sé è un documento privato. Non richiede omologazione da parte del tribunale né altri passaggi giudiziari. L’unico adempimento previsto (facoltativo ma opportuno) è la pubblicazione dell’attestazione e del piano presso il Registro delle Imprese. Perché depositarlo? La pubblicazione offre due vantaggi: (i) rende il piano opponibile ai terzi (evidenziando la data certa del risanamento intrapreso); (ii) consente di accedere ad alcuni benefici fiscali: ad esempio, le riduzioni di debito ottenute in un piano attestato pubblicato non sono considerate sopravvenienze attive tassabili ex art. 88, co.4-ter TUIR (nei limiti delle perdite fiscali pregresse) , e permette ai creditori di emettere note di credito IVA per le perdite su crediti analogamente a quanto avviene per i concordati .
  • Effetti sui creditori: i creditori che aderiscono volontariamente al piano (ad esempio firmando un accordo bilaterale di ristrutturazione del proprio credito) sono vincolati secondo i termini concordati (es: accettano il pagamento parziale o dilazionato). I creditori non aderenti, invece, non subiscono alcun effetto diretto: il piano non può imporre loro né attese né rinunce . Se Tizio (fornitore) non ha firmato nulla, mantiene intatto il suo diritto di credito e potrebbe comunque agire in via esecutiva. Dunque il piano attestato è indicato quando i creditori non coinvolti sono marginali o comunque tranquilli, mentre i principali sono d’accordo.
  • Assenza di protezione legale: diversamente dalle procedure concorsuali, il piano attestato non attiva automaticamente alcuna protezione contro le azioni dei creditori. Non c’è uno stay legale: se un creditore esterno vuole fare un pignoramento, può farlo. Questo è un limite: l’imprenditore deve confidare che i creditori “fuori piano” non intraprendano iniziative distruttive mentre il risanamento è in corso. Per ovviare in parte, come accennato, esiste la possibilità di presentare una domanda prenotativa di concordato in bianco contestualmente al piano attestato (la cosiddetta domanda “con riserva” ex art. 44 CCII, già art. 182-sexies L.F.) , ottenendo così misure protettive temporanee mentre si perfezionano gli accordi e magari lasciando il concordato come paracadute se il piano attestato non decolla.
  • Vantaggio principale: il piano attestato è snello, riservato e rapido. Non essendoci procedure giudiziarie, si evita la pubblicità e lo stigma di un concordato; si può negoziare con singoli creditori in modo mirato; l’attestazione funge da bollino di credibilità verso i terzi (come banche, fornitori strategici) senza però coinvolgere il tribunale. Inoltre, sul piano civilistico, gli atti e pagamenti compiuti in esecuzione di un piano attestato non sono soggetti a revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento (art. 67, co.3 lett. d L.F.): questo protegge sia l’imprenditore sia i creditori aderenti, perché ad esempio la banca che ha accordato lo stralcio non rischia che un curatore poi le chieda indietro quanto incassato in attuazione del piano.

Di contro, il piano attestato richiede stabilità del contesto: se la crisi è grave e molti creditori scalpitano, è difficile che stiano tutti fermi confidando in un piano privato. Perciò è utile soprattutto in crisi iniziali, “minori”, dove magari basta l’accordo con un paio di banche per sistemare la situazione di liquidità e poi l’azienda può ripartire.

Esempio pratico: la nostra Azienda O-Ring S.r.l. ha debiti totali per 800.000 €, di cui 500.000 € verso la Banca Alpha (mutuo ipotecario e scoperto di conto) e 300.000 € sparsi tra vari fornitori e il fisco. L’azienda prevede di poter tornare in utile con un nuovo contratto all’orizzonte, ma ha bisogno di abbattere il servizio del debito. Decide di tentare un piano attestato: negozia privatamente con Banca Alpha un’estensione del mutuo da 5 a 10 anni e uno stralcio di 50.000 € sullo scoperto (che la banca accetta perché ha un’ipoteca e preferisce evitare incagli). Ottiene anche dall’Agenzia Entrate-Riscossione una rateazione in 5 anni dei 100.000 € di debito fiscale (sfruttando le norme generali sulle dilazioni) e concorda con i 3 fornitori principali (che rappresentano 150.000 € su 200.000 € di debiti commerciali) di pagarli con un 20% di sconto entro un anno. Il tutto è inserito in un piano di risanamento a 3 anni certificato da un attestatore indipendente che conferma: con quelle riduzioni e dilazioni, l’azienda potrà generare cassa sufficiente per pagare i fornitori nei termini e onorare le nuove rate bancarie. Il piano viene depositato in registro imprese per trasparenza. I pochi fornitori minori (50.000 € in tutto) non coinvolti decidono di non agire giudizialmente perché vedono che l’azienda sta pagando regolarmente le forniture correnti e confidano di essere soddisfatti anch’essi col tempo.Questo è un tipico scenario da piano attestato: concentrarsi sui creditori cruciali e riportare l’azienda in carreggiata senza passare dal tribunale.

Va ricordato comunque che se uno dei creditori estranei avesse invece agito aggressivamente (es. un fornitore testardo che avvia un’ingiunzione per 10.000 € e blocca i conti), l’azienda si sarebbe trovata costretta a “paracadutarsi” in un concordato preventivo per congelare la situazione. Quindi la riuscita di un piano attestato dipende molto dalla capacità di tenere a bada i creditori non aderenti finché il piano non produce i suoi effetti.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-64 CCII)

L’accordo di ristrutturazione dei debiti è una procedura concorsuale negoziale, introdotta originariamente nell’ordinamento nel 2005 (art. 182-bis L.F.) e ora regolata dagli artt. 57 e seguenti del Codice della Crisi. Si tratta, in sostanza, di un accordo contrattuale tra l’impresa debitrice e una parte dei suoi creditori, accordo che però – una volta omologato dal Tribunale – produce effetti anche verso i creditori dissenzienti o estranei, a certe condizioni. È uno strumento a metà strada tra il piano attestato (completamente privato) e il concordato preventivo (completamente pubblico con voto di tutti i creditori): nell’accordo di ristrutturazione, infatti, solo alcuni creditori aderiscono attivamente, ma tutti beneficiano della ristrutturazione, mentre l’autorità giudiziaria interviene solo in fase di omologa per controllare legalità e fattibilità.

Caratteristiche salienti dell’accordo di ristrutturazione:

  • Soglia di adesione: per presentare un accordo di ristrutturazione occorre il consenso di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali (art. 60 CCII) . Questa è la soglia ordinaria, invariata rispetto alla vecchia disciplina. Significa che l’impresa deve convincere una super-maggioranza (in valore) dei creditori a sottoscrivere l’accordo. I restanti creditori (il 40% o meno) rimangono estranei all’accordo, ma l’accordo può prevedere come saranno trattati (solitamente: verranno pagati integralmente, fuori accordo, oppure soddisfatti in modo non pregiudizievole). L’adesione può essere “per classi” se ci sono molteplici categorie di creditori, ma formalmente basta il computo percentuale sul totale.
  • Intervento del tribunale: una volta raggiunte le firme necessarie, l’accordo viene depositato in tribunale con una relazione di un professionista attestatore che certifica che l’accordo assicura l’integrale pagamento dei creditori estranei nei 120 giorni dalla scadenza dei loro crediti (per i crediti già scaduti, 120 giorni dall’omologa) . Questa attestazione serve a tutelare i non aderenti. Il tribunale verifica la regolarità dell’accordo, la fattibilità e la non lesione dei non aderenti, e se tutto è in ordine emette un decreto di omologazione. L’omologazione rende l’accordo efficace erga omnes.
  • Effetti sui creditori non aderenti: in linea generale, i creditori che non hanno firmato l’accordo restano estranei e conservano i loro diritti, con però due importanti limitazioni: (i) dal deposito dell’accordo essi non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali per 60 giorni (o per la durata maggiore fissata dal giudice, spesso estesa fino all’omologa) – è una sorta di stay provvisorio; (ii) all’omologazione, se l’attestatore ha certificato che saranno pagati al 100% come sopra detto, quei creditori devono accontentarsi di ricevere quanto previsto entro i 120 giorni e non possono pretendere di più né agire in altro modo. In pratica, se l’accordo prevede che i fornitori estranei saranno pagati integralmente entro 6 mesi, e l’attestazione dice che ciò è fattibile e migliorativo rispetto alla liquidazione, quei fornitori non possono opporsi e devono attendere i 6 mesi. In nessun caso, però, l’accordo può imporre a un estraneo una decurtazione del credito: il principio è che i non aderenti vanno soddisfatti integralmente (salvo specifiche eccezioni per alcune tipologie di accordo, v. oltre). Questo distingue l’accordo dal concordato preventivo, dove invece si può imporre una falcidia a tutti i chirografari anche dissenzienti.
  • Varianti introdotte dal CCII: il Codice della Crisi ha arricchito la categoria degli accordi di ristrutturazione con alcune varianti:
  • Accordo ad efficacia estesa: già previsto dal 2015 per i creditori finanziari (banche, obbligazionisti), ora rifluito nell’art. 61 CCII. Consente di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori finanziari dissenzienti appartenenti a una categoria omogenea, purché l’accordo abbia l’adesione di almeno il 75% di quella categoria . Ad esempio, se 80% delle banche per valore concordano una ristrutturazione del debito, il restante 20% di banche contrarie viene comunque obbligato dallo stesso accordo (cram down settoriale). Questa è una misura per superare resistenze minoritarie all’interno di classi cruciali.
  • Accordo agevolato: introdotto col correttivo 2022/2023 (art. 60 CCII comma 1-bis). Ha ridotto al 30% la soglia di consenso necessaria solo se l’accordo prevede il pagamento integrale (100%) dei creditori non aderenti entro 120 giorni dall’omologa. In tal caso, per incentivare i debitori a utilizzare lo strumento, basta un consenso del 30% (invece del 60%). Questo riflette la Direttiva UE 2019/1023 che incoraggia la fattibilità degli accordi di ristrutturazione con soglie più basse quando i terzi non subiscono decurtazioni.
  • Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari pubblici: una novità specifica consente accordi anche con la sola partecipazione di creditori finanziari pubblici (es. Agenzia delle Entrate, INPS, Agenzia Riscossione) per favorire transazioni su tributi e contributi, con soglia ridotta al 30%. Questo per situazioni in cui i debiti principali sono verso il Fisco e pochi altri.
  • Accordi nell’ambito di gruppi di imprese: il CCII prevede la possibilità di accordi di ristrutturazione di gruppo, con una disciplina che consente l’omologazione unitaria di accordi che coinvolgono più società dello stesso gruppo.
  • Protezione durante le trattative: similmente al concordato preventivo, l’impresa può chiedere misure protettive anticipatorie anche mentre negozia l’accordo di ristrutturazione. L’art. 54 CCII consente di depositare in tribunale la domanda di omologazione con la documentazione, oppure anche una domanda “con riserva” di omologazione allegando almeno un accordo preliminare o un progetto di accordo e l’elenco creditori. Il tribunale, valutate le circostanze, può concedere la sospensione delle azioni esecutive individuali e cautelari per proteggere l’azienda durante gli ultimi step della trattativa (massimo 4 mesi, prorogabili). Questo strumento è importante perché evita il classico problema “ultimo momento”: se i creditori sanno che l’azienda sta per chiudere un accordo e uno di essi volesse fare il furbo attaccandosi ai beni prima degli altri, le misure protettive glielo impediscono.
  • Effetti premiali e penali: l’accordo di ristrutturazione, essendo omologato dal tribunale, ha effetti benefici simili al concordato su alcuni piani. Ad esempio, i finanziamenti effettuati in esecuzione dell’accordo o funzionali ad esso godono di prededuzione in un eventuale fallimento successivo (art. 99 CCII, ex 182-quater L.F.), per incentivare banche o soci ad apportare finanza nuova sapendo che verranno rimborsati prima di altri creditori se qualcosa va male . Inoltre, sul piano penale, l’art. 324 CCII prevede che non sono punibili come bancarotta preferenziale o semplice i pagamenti e le operazioni compiute in esecuzione di un accordo omologato . Dunque, se un imprenditore – prima del fallimento – ha pagato un certo creditore in adempimento di un accordo di ristrutturazione, non potrà essere accusato di averlo favorito a danno di altri (bancarotta preferenziale), né di mala gestio semplice, così come è esente chi ha eseguito un piano attestato pubblicato . Questo scudo penale è fondamentale per incentivare l’utilizzo di questi strumenti di risanamento in buona fede.

Esempio pratico: riprendiamo l’Azienda O-Ring S.r.l., ma stavolta la sua situazione debitoria è più complessa: 2 banche (Alpha e Beta) esposte per 600.000 €, 50 fornitori vari per tot. 300.000 €, debiti tributari per 200.000 €. L’azienda è insolvente ma ha ordini che potrebbero renderla nuovamente profittevole se alleggerita dai debiti pregressi. Decide di utilizzare un accordo di ristrutturazione: (i) raggiunge un’intesa con le 2 banche (che da sole detengono il 60% dei crediti totali) per cui convertirebbero i loro 600.000 € di crediti in un finanziamento a lungo termine di 10 anni ridotto a 400.000 € (quindi stralcio di 200k) garantito da ipoteca sugli immobili aziendali; (ii) concorda con l’Agenzia delle Entrate una transazione fiscale su 200.000 € di tributi: pagamento del 40% (80k) in 5 anni; (iii) propone ai fornitori chirografari di pagarli al 50% del dovuto in 1 anno. La maggior parte dei fornitori per valore (diciamo l’80%) accetta formalmente la proposta, attratti dal fatto che se no vedrebbero forse il 20% in fallimento. Complessivamente, l’azienda ha ora firme di creditori per ben l’85% del totale dei crediti (600k banche + 240k fornitori + l’Agenzia delle Entrate che però formalmente conta anch’essa per il suo importo). Superata la soglia del 60%, la S.r.l. deposita l’accordo in Tribunale con le firme e la relazione dell’attestatore che dichiara: il piano è sostenibile e i creditori rimasti fuori (il 15%) saranno pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologa. Il giudice concede subito misure protettive, bloccando eventuali azioni di fornitori dissenzienti. Dopo qualche settimana, omologa l’accordo. A questo punto, l’accordo è vincolante per tutti: le banche ricevono i nuovi titoli da 400k, i fornitori aderenti attendono il loro 50%, i fornitori non aderenti – che in teoria avrebbero diritto a 100% – vengono pagati anch’essi man mano secondo l’accordo (entro 120 gg). L’azienda, alleggerita del 50% dei debiti e dilazionato il resto, può proseguire l’attività. I creditori hanno ottenuto più di quanto forse avrebbero preso da un fallimento.Questo esempio evidenzia il potenziale dell’accordo: basta coinvolgere i creditori principali, senza passare per il lungo iter del concordato con classi e votazioni, ma si ottiene un risultato simile, con ombrello del tribunale.

L’accordo di ristrutturazione è particolarmente indicato quando c’è un numero limitato di creditori cruciali (es. banche) disponibili a negoziare, mentre i creditori minori possono comunque essere tutelati integralmente. Se invece occorre imporre sacrifici anche ai piccoli creditori contro la loro volontà, l’accordo incontra il suo limite, perché – a differenza del concordato – non può imporre un taglio unilaterale ai non aderenti. In questi casi, come vedremo, si dovrà optare per il concordato preventivo.

(Una nota sugli accordi per soggetti “non fallibili”: per completezza, il vecchio istituto dell’accordo di composizione delle crisi da sovraindebitamento (ex L. 3/2012) esiste ancora dentro il CCII come “concordato minore” e richiede anch’esso il 60% di consensi, omologato dal tribunale, ma è riservato a imprenditori sotto soglia o persone fisiche non fallibili. Nel contesto di un’azienda di produzione strutturata ciò non si applica, ma va ricordato che esistono procedure affini per i piccoli imprenditori.)

Composizione negoziata della crisi d’impresa

La Composizione Negoziata della Crisi (CNC) è uno degli strumenti più innovativi introdotti in Italia di recente (dapprima con il D.L. 118/2021, confluito nel CCII agli artt. 17-25 quinquies). Si tratta di una procedura volontaria e confidenziale, mirata a favorire il risanamento dell’impresa in crisi attraverso la negoziazione assistita da un esperto indipendente, fuori dalle rigidità delle procedure concorsuali tradizionali. In altre parole, è un percorso di soluzione stragiudiziale guidato da una figura terza, con possibili interventi mirati del tribunale solo per concedere protezioni o omologare accordi specifici.

Caratteristiche della composizione negoziata:

  • Accesso: Può accedere alla CNC qualunque imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione (anche “minore”, quindi estesa anche a imprese non fallibili). La condizione è trovarsi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da rendere probabile la crisi o l’insolvenza, ma con prospettive di risanamento. Non occorre essere formalmente insolventi, anzi l’idea è di intervenire prima che l’insolvenza sia irreversibile. L’imprenditore presenta un’istanza tramite apposita piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio) , allegando informazioni contabili e un piano di massima. Un algoritmo di autodiagnosi e indicatori finanziari aiutano a valutare lo stato di difficoltà.
  • Nomina dell’esperto: Accolta l’istanza, una commissione nomina un esperto indipendente, solitamente un professionista iscritto in un apposito elenco, con competenze in risanamento d’impresa. L’esperto contatta l’imprenditore e valuta la situazione (ha 30 giorni per uno screening iniziale). Se ritiene ci siano chance di composizione, accetta l’incarico e conduce le trattative tra l’azienda e i creditori. L’esperto deve agire con imparzialità, facilitando la ricerca di un accordo equilibrato. Egli non ha poteri sostitutivi, ma può proporre soluzioni, consigliare l’imprenditore su atti da compiere o da evitare, e soprattutto garantisce ai creditori la serietà del processo. Tutte le parti sono tenute a comportarsi secondo buona fede e tempestività.
  • Procedimento e riservatezza: La CNC si svolge in modo riservato; l’apertura della procedura non è pubblica (non c’è iscrizione immediata nel registro imprese, a meno che l’imprenditore non chieda misure protettive – vedi dopo). Ciò tutela la reputazione dell’azienda, evitando l’effetto stigma che spesso accompagna il concordato (clienti e fornitori potrebbero non sapere nemmeno che l’azienda è in composizione negoziata). L’esperto organizza incontri con i creditori principali, esamina le proposte dell’imprenditore e le controproposte dei creditori. Può aiutare a formulare una proposta concordataria, un accordo di ristrutturazione o qualsiasi altra soluzione (anche extra-concorsuale) che soddisfi le parti. La composizione negoziata non ha un esito prestabilito: può concludersi con un contratto di ristrutturazione, con un nulla di fatto, oppure traghettare verso un concordato preventivo se necessario. La durata standard è di 180 giorni, prorogabile di ulteriori 180 se le parti concordano.
  • Misure protettive e cautelari: Uno strumento cruciale è che, su istanza dell’imprenditore, il tribunale può concedere misure protettive temporanee durante la composizione negoziata (art. 20 CCII). Queste misure consistono principalmente nel blocco dei procedimenti esecutivi e cautelari da parte dei creditori sul patrimonio dell’impresa, per la durata delle trattative (inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili). In pratica, l’imprenditore mantiene il controllo dell’azienda ma beneficia di una sorta di automatic stay simile al concordato, senza però essere in procedura concorsuale formale. Questo permette di negoziare “in pace”. Inoltre, è previsto che i contratti pendenti con fornitori non possano essere risolti unilateralmente dai contraenti solo perché c’è la composizione (salvo eccezioni), evitando il classico problema dei fornitori che rescindono appena sanno della crisi (art. 21 CCII). Le misure protettive sono pubblicate nel registro imprese (dando notizia a terzi), e i creditori hanno facoltà di fare reclamo o chiedere la revoca se vi è pregiudizio. Il tribunale può anche nominare, in caso di abuso da parte dell’imprenditore, un ausiliario o revocare le misure.

Un recente sviluppo giurisprudenziale molto interessante: la Cassazione Penale (Sez. III) con sent. 30109/2025 ha stabilito che la pendenza di una composizione negoziata con misure protettive esclude il periculum in mora necessario per disporre un sequestro penale preventivo sui beni aziendali . In altri termini, se l’imprenditore sta seguendo la CNC e il tribunale ha bloccato i creditori, non c’è rischio di dispersione dei beni, quindi nemmeno la Procura (in un eventuale procedimento penale per reati fallimentari o fiscali) può giustificare un sequestro preventivo sugli asset . Questo riconoscimento avvalora la composizione negoziata come contesto protetto e ordinato, utile persino a congelare iniziative della magistratura penale fintanto che c’è una seria prospettiva di risanamento in corso.

  • Esiti possibili: La composizione negoziata può concludersi con:
  • Un contratto o accordo stragiudiziale con uno o più creditori (es. accordo transattivo multilaterale) senza omologazione, se si riesce a far aderire tutti i principali. Questo accordo, anche se raggiunto grazie all’esperto, ha natura privatistica; tuttavia può essere “cristallizzato” attraverso vari strumenti: se coinvolge banche, potrebbe essere formalizzato come accordo ex art.57 CCII da omologare; se coinvolge solo Fisco, come accordo transattivo ex art. 23 CCII da confermare in tribunale (vedi infra); se è un mix, magari si traduce in un concordato semplificato (vedi oltre).
  • Un accordo agevolato con il Fisco: come accennato, l’art. 23 CCII consente all’imprenditore in composizione negoziata di proporre un accordo di ristrutturazione ad hoc con il Fisco e gli enti previdenziali, con stralcio di imposte/contributi, che viene presentato al tribunale per l’omologazione. Se il tribunale approva, quell’accordo produce gli stessi effetti di una transazione fiscale in concordato . Ciò è estremamente utile se il grosso del problema sono i debiti tributari: si può risolvere con l’Erario in CNC e magari per i restanti crediti trovare intese bilaterali.
  • Un concordato preventivo o liquidazione giudiziale: se durante la negoziazione appare chiaro che non si raggiungerà un accordo soddisfacente, l’imprenditore può “convertire” la procedura depositando domanda di concordato preventivo oppure, se ritiene di non poter proseguire l’attività, può “arrendersi” e chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale. La CNC prevede anzi un meccanismo di allerta: l’esperto, se valuta che le trattative sono inutili o l’impresa non è risanabile, invita l’imprenditore a scegliere un’alternativa (concordato, liquidazione o altro) e, se l’imprenditore non segue i consigli e la situazione degenera, l’esperto può chiudere la procedura. La segnalazione dell’esperto può essere poi vista dal tribunale come un elemento per valutare l’insolvenza in eventuale fase pre-fallimentare.
  • Un concordato semplificato per la liquidazione: questo è un particolare istituto (art. 25-sexies CCII) introdotto insieme alla CNC. Se la composizione negoziata fallisce nel senso che non si raggiunge un accordo ma l’imprenditore ha comunque individuato la necessità di liquidare l’azienda, può – entro 60 giorni dalla fine della CNC – presentare una proposta di concordato senza voto dei creditori, finalizzato solo alla liquidazione dei beni, da omologare direttamente dal tribunale (sentiti i creditori) . È il cosiddetto “concordato semplificato”, pensato per evitare il fallimento quando, pur non essendoci accordo, c’è comunque un piano di liquidazione migliore del fallimento (ad es. cessione unitaria dell’azienda a un terzo). Su questa procedura i creditori non votano, ma possono opporsi in sede di omologa. In caso di esito positivo, i beni vengono liquidati secondo il piano e l’impresa cessa.
  • Vantaggi e limiti: La composizione negoziata ha vari vantaggi: è rapida e poco costosa (rispetto a concordato, niente votazioni né formalismi, l’esperto viene pagato secondo tariffe contenute); è riservata (salvo misure protettive); coinvolge attivamente i creditori in modo collaborativo e non conflittuale; consente soluzioni creative (non tipizzate) e parziali (si può trovare accordo con alcuni e predisporre altre tutele per altri). Il legislatore ha persino previsto incentivi come esenzioni da certa responsabilità (ad es. se l’imprenditore attiva la CNC tempestivamente, non incorre in alcune sanzioni civili per tardiva richiesta di concordato). Anche fiscalmente, come visto, ci sono benefici: dilazioni straordinarie dal Fisco, ecc. .

Il limite principale è che la CNC non può imporre un esito ai creditori dissenzienti: tutto si basa sul consenso. Se un creditore chiave non ne vuole sapere, l’esperto può solo cercare compromessi, ma non c’è uno strumento votazione come nel concordato. Tuttavia, qui si innesta la possibilità di usare la CNC come anticamera di un concordato: l’esperto può consigliare l’imprenditore di predisporre un concordato quando capisce che alcuni creditori non aderiranno. In tal caso la CNC avrà comunque aiutato a chiarire la situazione e magari ottenere il sostegno di altri (ad es. banche) al concordato.

Evoluzione e utilizzo: Dalla sua introduzione (Novembre 2021) la composizione negoziata ha visto crescere via via il numero di casi. Nel solo 2024 si è registrato un aumento dell’87% di istanze in Lombardia rispetto all’anno precedente, segno che imprenditori e professionisti iniziano a percepirla come una reale alternativa al fallimento e non più come un marchio negativo . A livello nazionale, al 31 dicembre 2024 circa 1.723 imprese avevano presentato istanza di composizione negoziata; di queste, il 70% circa sono S.r.l. (PMI), e la maggior parte microimprese con meno di 10 dipendenti . Ciò conferma che lo strumento è particolarmente utile per le piccole realtà del tessuto produttivo italiano. Inoltre, circa 78% delle imprese in CNC hanno richiesto misure protettive e cautelari per sospendere azioni esecutive durante le trattative , segno che la protezione offerta è un fattore determinante. Pur essendo nuovo, lo strumento ha già consentito il risanamento effettivo di diverse imprese e la salvaguardia di migliaia di posti di lavoro (solo in Lombardia, 38 imprese salvate e 2.100 posti di lavoro tutelati nel 2024 grazie alla CNC) .

Esempio pratico: la nostra Azienda O-Ring S.r.l., per anticipare la crisi, decide nel 2025 di accedere alla composizione negoziata. I bilanci evidenziano squilibri ma l’azienda è ancora operativa. Viene nominato un esperto. L’azienda chiede e ottiene misure protettive: ciò blocca un paio di decreti ingiuntivi che alcuni fornitori avevano avviato e sospende un’azione ipotecaria della banca. Con l’aiuto dell’esperto, l’imprenditore presenta ai creditori una proposta: i fornitori critici saranno pagati al 40% in 12 mesi, la banca principale convertirà l’esposizione in strumenti partecipativi (o nuovo mutuo a lungo termine), l’Agenzia delle Entrate accetterà un 50% di stralcio su IVA e sanzioni. Dopo trattative, quasi tutti i creditori concordano. Viene redatto un accordo quadro firmato dall’80% dei creditori. Per i pochi non firmatari, l’azienda utilizza due strumenti: (i) deposita l’accordo con il Fisco in tribunale per l’omologa (transazione fiscale autorizzata); (ii) per un creditore finanziario dissenziente (una società di leasing) attiva la norma dell’accordo ad efficacia estesa, includendolo visto che il 90% degli altri finanziatori ha aderito. In pratica, la CNC ha fatto da cabina di regia: l’azienda esce dalla CNC con un pacchetto di soluzioni che poi vengono formalizzate in parte come accordo di ristrutturazione omologato. L’esperto chiude la procedura certificando il successo delle trattative. L’impresa evita il fallimento e riprende fiato.

Naturalmente, non tutte le CNC finiscono positivamente; qualora l’esperto, dopo qualche mese, constatasse che i creditori sono troppo ostili e non c’è accordo possibile, consiglierebbe all’azienda di predisporre magari un concordato preventivo “classico” da presentare al volo. In tal senso, la CNC può anche essere vista come un “laboratorio” per preparare la via al concordato: molte informazioni raccolte dall’esperto possono confluire nella domanda di concordato, e il periodo di trattativa non è tempo perso perché ha chiarito posizioni e magari creato presupposti per classi nel concordato.

In conclusione, la composizione negoziata è oggi uno strumento cardine per il debitore in crisi: permette di giocarsi una chance di risanamento con l’aiuto di un mediatore qualificato, in un ambiente protetto e senza l’immediatezza del giudizio dei creditori (niente voto formale). Dal punto di vista dell’imprenditore-debitore, è spesso la prima mossa consigliabile appena si percepisce che i debiti iniziano a diventare ingestibili. Anche gli amministratori, ai fini delle loro responsabilità, dimostrano diligenza se attivano la CNC: infatti l’art. 24 CCII sottolinea che gli amministratori hanno il dovere di attivarsi per superare la crisi adottando strumenti adeguati (come appunto la CNC) . Al contrario, ignorare la crisi e far aggravare i debiti espone a responsabilità (tema del prossimo capitolo).

Procedure concorsuali giudiziali: concordato preventivo e liquidazione giudiziale

Se gli strumenti negoziali e stragiudiziali non bastano a risolvere la crisi, l’ordinamento prevede procedure concorsuali più strutturate e autoritative, con un coinvolgimento diretto dell’autorità giudiziaria e dei creditori in forma collettiva. Queste procedure – il concordato preventivo e la liquidazione giudiziale (nuova denominazione del fallimento) – operano quando l’insolvenza è conclamata o imminente e serve una soluzione ordinata che coinvolga tutti i creditori.

Nelle righe che seguono, esamineremo brevemente come funzionano queste procedure, quale può essere l’utilità per un’azienda debitrice e quali sono i riflessi per gli amministratori e i creditori. Anticipiamo che, dal punto di vista del debitore, il concordato preventivo rappresenta un’ultima opportunità di evitare la dissoluzione dell’impresa attraverso un accordo “imposto” ai creditori sotto controllo del tribunale, mentre la liquidazione giudiziale è la soluzione finale di tipo liquidatorio in cui l’impresa viene spossessata e i beni liquidati per pagare i creditori secondo le regole concorsuali.

Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è una procedura concorsuale giudiziale che consente al debitore insolvente (o in crisi) di proporre ai creditori un piano di ristrutturazione o liquidazione dei debiti, al fine di evitare la ben peggiore liquidazione giudiziale (fallimento). Il concordato è caratterizzato dalla partecipazione attiva dei creditori, che vengono chiamati a votare sulla proposta, e dal controllo del tribunale in fase di apertura e omologazione.

Principali aspetti del concordato:

  • Requisiti di accesso: Può chiedere il concordato qualsiasi imprenditore soggetto a liquidazione giudiziale (fallibile) che si trovi in stato di crisi o insolvenza (art. 84 CCII). Lo stato di crisi è definito come difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza; quindi è possibile accedere anche prima di essere insolventi conclamati (concordato in continuità indiretta anticipativo). La domanda si presenta al tribunale competente allegando la proposta, il piano e la documentazione richiesta (elenco creditori, inventario attivo, bilanci, certificati). Un professionista attestatore indipendente deve relazionare sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano.
  • Tipologie di concordato:
  • Concordato in continuità aziendale: se il piano prevede la prosecuzione dell’attività (continuità diretta) o la cessione/affitto dell’azienda ad un terzo che la mantenga attiva (continuità indiretta). In tal caso, l’obiettivo è il risanamento e la soddisfazione dei creditori col flusso di cassa generato dalla continuità (integralmente o parzialmente). La legge incentiva questa forma: minori requisiti di pagamento minimo ai chirografari (non c’è soglia fissa, basta che prendano almeno quanto in liquidazione), possibilità di trattamento più flessibile dei crediti privilegiati con soddisfazione differita, ecc. Inoltre, come visto, durante il concordato in continuità l’azienda può ottenere autorizzazione a pagare fornitori strategici o contrarre finanziamenti urgenti (D.Lgs. 14/2019, art. 100 e 101).
  • Concordato liquidatorio: se il piano prevede la cessione dei beni e la cessazione dell’attività. Qui il fine è liquidatorio, simile al fallimento ma con la differenza che è proposto dal debitore e potenzialmente può offrire ai creditori qualche beneficio in più (es. maggiore rapidità, un contributo di terzi, etc.). La legge richiede, per evitare concordati “pilateschi”, che nel concordato liquidatorio i creditori chirografari ottengano almeno il 20% del loro credito (salvo che un apporto esterno di risorse incrementi tale percentuale) – art. 84, co.4 CCII. Ciò per garantire un minimo risultato.
  • Concordato misto o con assunzione: esistono formule miste (parte dell’attività continua, parte si liquida) o concordati dove un terzo assume l’onere di pagare i creditori (concordato con assuntore). Questi modelli si adattano alle situazioni peculiari (ad es. un investitore che prende l’azienda e si incarica di pagare X% ai creditori).
  • Fase iniziale (ammissione): Il tribunale, ricevuta la domanda, se la documentazione è completa e la proposta non è manifestamente impossibile, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo. Viene nominato un commissario giudiziale (figura di controllo) e fissata la data adunanza dei creditori (entro 120 giorni circa). Da quel momento, scatta l’automatic stay su tutti i creditori: non possono iniziare o proseguire azioni esecutive né acquisire titoli di prelazione (ipoteche) sul patrimonio del debitore. Gli eventuali procedimenti esecutivi pendenti vengono sospesi. L’azienda continua la gestione sotto la supervisione del commissario (nel concordato di solito l’imprenditore rimane “in possesso”, debtor in possession, salvo atti straordinari che richiedono autorizzazione).
  • Classi e voto dei creditori: Il debitore può suddividere i creditori in classi omogenee per posizione giuridica e interessi economici. Ad esempio: classe banche ipotecarie, classe fornitori chirografari, classe Fisco (se degradato a chirografo per parte del credito). I creditori privilegiati il cui credito è soddisfatto integralmente in piano non votano (si considerano come consenzienti ex lege). Gli altri creditori, invece, sono chiamati a votare la proposta. Serve il voto favorevole (doppia maggioranza) di creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto e, se vi sono classi, almeno la maggioranza delle classi. Se c’è una sola classe, basta la maggioranza dei crediti. Se più classi e qualcuna dice no, il tribunale può comunque omologare forzosamente (cram-down) se la maggioranza delle classi ha detto sì e la proposta non danneggia la classe dissenziente più di quanto essa avrebbe in fallimento (art.112 CCII). Come già ricordato, per la classe Erario/INPS è ora possibile l’omologa anche se hanno votato contro, purché abbiano il trattamento legale minimo (30%) . Ciò grazie alle pronunce Cassazione 2024 e ora codificato in normativa.
  • Omologazione: Se i creditori approvano la proposta (o se sussistono i presupposti per il cram-down), il tribunale procede all’omologazione con decreto motivato, verificando la legittimità del procedimento e la fattibilità del piano (tenendo conto della relazione del commissario e di eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti). Con l’omologa, il concordato diventa vincolante per tutti i creditori anteriori, secondo i termini del piano. I crediti restano cristallizzati alla data di apertura: eventuali eccedenze oltre quanto previsto sono remisse.
  • Esecuzione e chiusura: Il debitore (o un liquidatore nominato se concordato liquidatorio) esegue il piano: paga le percentuali dovute ai creditori nei tempi omologati, eventualmente vende beni se previsto. Una volta completato, il tribunale dichiara la chiusura del concordato. Se invece la esecuzione fallisce (il debitore non rispetta gli impegni), su istanza di creditore si può aprire la liquidazione giudiziale.

Vantaggi per il debitore: Il concordato preventivo offre il grande vantaggio di poter imporre un sacrificio anche ai creditori dissenzienti, cosa che gli strumenti negoziali non consentono. È quindi l’ultima spiaggia per evitare la mera liquidazione: permette di tagliare i debiti in modo autoritativo, mantenendo magari la società in vita e l’attività (in continuità) o quantomeno controllando la liquidazione (ad esempio vendendo l’azienda a chi garantisce meglio i creditori). Durante la procedura, come visto, il debitore gode della protezione dalle aggressioni individuali, potendo così lavorare al piano senza subire esecuzioni.

Svantaggi e oneri: Di contro, il concordato è pubblico (l’apertura è iscritta nel Registro delle Imprese), spesso lungo e complesso. Il debitore perde parte dell’autonomia (deve gestire in modo vigilato e non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza ok del giudice). Ci sono costi procedurali (commissario, attestatore, legali). E soprattutto, il concordato è incerto: serve convincere i creditori in votazione. Se la proposta non passa, l’alternativa immediata è il fallimento. Dunque va intrapreso con prudenza, possibilmente avendo già sondato il terreno con i creditori (qui torna utile la composizione negoziata come preludio).

Posizione degli amministratori: Dal punto di vista di chi amministra la società, presentare un concordato può essere visto anche come adempimento di un dovere: quando la crisi non è risolvibile diversamente, la legge si aspetta che non si attendano istanze di fallimento esterne ma ci si faccia parte attiva con un concordato o altra procedura. Questo può ridurre il rischio di imputazioni per tardiva richiesta di insolvenza. Inoltre, se il concordato viene omologato, come già detto, vari atti compiuti prima non sono punibili penalmente (pagamenti autorizzati, ecc.) , e gli amministratori stessi ottengono una sorta di “riabilitazione” una volta eseguito (non scatta interdizione come nel fallimento, salvo reati pregressi).

Liquidazione Giudiziale (ex Fallimento)

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale destinata ai casi in cui l’insolvenza del debitore non può più essere risolta diversamente e occorre liquidare il patrimonio sotto il controllo di un organo pubblico, con ripartizione del ricavato tra i creditori secondo le cause di prelazione. È la diretta discendente del fallimento previsto dalla vecchia legge – di fatto ne mutua la disciplina sostanziale, pur con alcune modifiche terminologiche e procedurali introdotte dal CCII.

In liquidazione giudiziale, il debitore (impresa) viene spossessato dell’amministrazione e i suoi beni formano una massa attiva gestita da un curatore, nominato dal tribunale. I creditori devono presentare domanda di insinuazione al passivo e verranno soddisfatti in via collettiva, secondo l’ordine delle cause di prelazione (prima i crediti prededucibili, poi privilegiati, poi chirografari pro rata). Al termine, se è una società, essa viene cancellata; se è un imprenditore individuale, può ottenere l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui) una volta chiusa la procedura.

Per aprire la liquidazione giudiziale occorre:

  • Stato di insolvenza attuale: definito come l’incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni (art. 2 CCII). Deve essere accertato dal tribunale con sentenza, su ricorso del debitore stesso, di uno o più creditori o del PM (in casi di interesse pubblico).
  • Soglia di fallibilità: il CCII ha eliminato le vecchie soglie dimensionali (fatturato < 200k ecc.) per l’esclusione dal fallimento. Ora tutti gli imprenditori commerciali sono soggetti, tranne lo Stato ed enti pubblici. Gli imprenditori minori possono comunque andare in liquidazione giudiziale ma beneficiano di una procedura semplificata (detta “liquidazione controllata” nel sovraindebitamento). Quindi la nostra ipotetica azienda O-Ring, essendo società di capitali, è soggetta a liquidazione giudiziale senza eccezioni.

Effetti e svolgimento:

  • Con la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale: si producono effetti devastanti per il debitore: spossessamento dei beni (che passano sotto custodia del curatore), scioglimento degli organi sociali o decadenza degli amministratori (se società), interdizione dell’imprenditore dall’esercizio di impresa, sospensione di tutti i processi individuali esecutivi e cautelari pendenti (confluiscono nella procedura collettiva). Gli atti dispositivi compiuti nei periodi sospetti pre-fallimento possono essere dichiarati inefficaci (azioni revocatorie fallimentari). Si forma il passivo: i creditori devono insinuarsi entro termini stabiliti, depositando domanda al giudice delegato, e il curatore esamina i crediti e formula proposte di ammissione o esclusione.
  • Il curatore redige l’inventario, può proseguire temporaneamente l’esercizio d’impresa se utile ai creditori (ad es. completare commesse in corso per vendere l’azienda come going concern), ma di regola si passa presto alla liquidazione dei beni: vendite all’asta di immobili, di macchinari, cessione crediti, cessione dell’intero complesso aziendale se possibile (così da salvaguardare eventualmente occupazione – questo è il caso auspicabile, vendere l’azienda come attivo funzionante, altrimenti si spogliano i singoli beni).
  • Ripartizioni ai creditori: mano a mano che si realizza cassa, il curatore propone piani di riparto. Si paga prima i crediti prededucibili (costi procedura, crediti post istanza autorizzati, ecc.), poi i crediti privilegiati secondo prelazioni (tra cui Erario, INPS, dipendenti etc come già evidenziato), e solo se avanza qualcosa i crediti chirografari in percentuale. Spesso i chirografari prendono poco o nulla.
  • Chiusura: quando tutto è stato liquidato e distribuito, il tribunale emette decreto di chiusura della liquidazione giudiziale. Se l’attivo è insufficiente neppure a pagare le spese, può chiudere anticipatamente per “insufficienza di attivo”. La società è cancellata d’ufficio. Per le persone fisiche, come detto, c’è la possibilità di ottenere l’esdebitazione (cancella i debiti residui non soddisfatti, tranne pochi eccezionali).

La liquidazione giudiziale è chiaramente l’esito meno desiderabile per il debitore: segna la fine dell’impresa. Dal punto di vista dell’imprenditore, tuttavia, va affrontata con spirito collaborativo: un amministratore che collabora col curatore (consegna documenti, spiega operazioni) può evitare guai peggiori. Invece, chi ostacola la procedura, non consegna le scritture, ecc., rischia conseguenze penali (bancarotta semplice o aggravata). Inoltre, nel fallimento (liquidazione giudiziale) gli amministratori saranno con tutta probabilità soggetti ad azioni di responsabilità da parte del curatore (azione sociale o verso i creditori ex art. 2394/2476 c.c. se ne ricorrono i presupposti) per atti di mala gestio commessi prima. Saranno inoltre vagliate le loro condotte per individuare eventuali reati fallimentari (si veda la prossima sezione).

In alcuni casi, la liquidazione giudiziale può offrire vantaggi ai debitori persona fisica (esdebitazione) e anche ad alcuni creditori rispetto a concordati troppo spinti; ma per un’azienda come la nostra esempio, significherebbe la perdita di anni di lavoro, la dispersione di know-how, costi sociali (licenziamenti). Pertanto è sempre l’ultima ratio, da considerare solo se non c’è alcuna possibilità di risanamento né di accordo, oppure se i creditori stessi forzano la mano presentando istanza.

È importante segnalare: chi può presentare istanza di liquidazione giudiziale? Oltre al debitore (autofallimento, poco frequente se non per evitare peggiori conseguenze penali), qualsiasi creditore (anche per pochi euro, ma in pratica i tribunali richiedono insolvenze non triviali) e persino la Procura della Repubblica se ravvisa situazioni di insolvenza con interesse pubblico (es. dissesto con reati o molti lavoratori coinvolti). Quindi, un singolo fornitore esasperato potrebbe trascinare in tribunale l’azienda per ottenerne il fallimento: se dimostra che l’azienda non paga più debiti da tempo ed è insolvente, il giudice può accogliere. Questo è un altro motivo per cui il debitore deve muoversi prima (con accordi o concordato) per evitare di farsi trovare passivo di fronte a un’iniziativa di terzi.

Confronto in sintesi: Il concordato preventivo e la liquidazione giudiziale rappresentano due esiti alternativi: – Concordato: il debitore propone, i creditori decidono (in parte) e l’impresa può sopravvivere (se in continuità) o comunque la liquidazione è gestita secondo il suo piano. Impatto reputazionale c’è ma è “proattivo”. – Liquidazione giudiziale: i creditori prendono quel che c’è secondo legge, il debitore perde tutto e la procedura è principalmente punitiva verso eventuali mala gestio. La durata di un fallimento può essere lunga (anche anni), mentre un concordato spesso si chiude in 1-2 anni.

Dal punto di vista del debitore, scegliere il concordato (quando fattibile) è quasi sempre preferibile, a meno che l’impresa non abbia veramente alcuna soluzione e magari l’imprenditore persona fisica voglia chiudere e ottenere l’esdebitazione al più presto. Per i creditori, invece, non sempre: se il concordato offre percentuali irrisorie, alcuni preferiscono il fallimento sperando in azioni revocatorie o in responsabilità amministratori per recuperare di più.

Tabelle riepilogative: Procedura concorsuale vs Strumenti negoziali

CaratteristicaConcordato PreventivoLiquidazione Giudiziale (Fallimento)Accordo di ristrutturazione (omologato)Composizione negoziata
IniziativaDebitore (volontaria)Debitore o creditori o PM (involontaria possibile)Debitore (volontaria)Debitore (volontaria)
PresuppostiCrisi o insolvenza (attuale o imminente)Insolvenza attuale conclamataCrisi o insolvenza; accordo con ≥60% creditori totaliSquilibrio potenzialmente reversibile (pre-crisi)
Organi nominatiCommissario giudiziale; eventuale liquidatore per fase esecutivaCuratore, Giudice delegato, Comitato creditoriNessuno stabile (solo attestatore; omologa da parte giudice)Esperto indipendente (negoziatore); (Tribunale solo per misure protettive)
Amministrazione aziendaDebitore in possesso (salvo casi di abuso) con atti autorizzatiCuratore sostituisce organi amministrazioneDebitore (l’accordo è negoziato, l’azienda continua con organi propri)Debitore (gestione ordinaria rimane all’imprenditore, sotto supervisione soft esperto)
Effetti sugli atti e sulle azioni dei creditoriSospensione generale delle azioni esecutive e cautelari; impossibilità acquisire pegni/ipoteche su crediti anteriori; contratti possono proseguire con regole speciali (divieto patto sospensione forniture)Sospensione azioni esecutive; atti del debitore revocabili se pregiudizievoli (periodi sospetti); contratti pendenti soggetti a scioglimento o continuazione su scelta curatoreRichiesta possibile di misure protettive per sospendere azioni (simile concordato) in fase omologa; i non aderenti non possono agire dopo omologa fino scadenze previste in accordoMisure protettive ottenibili dal tribunale bloccano esecuzioni per durata trattative ; contratti essenziali non rescindibili per crisi (art. 21 CCII)
Coinvolgimento creditoriVotazione necessaria (maggioranze di legge); opposizioni in omologaNessuna votazione; creditori insinuano i crediti, partecipano tramite comitato alle decisioni minoriAdesione contrattuale di ≥60% creditori; eventuali opposizioni all’omologa dal 40% dissenziente (giudice comunque omologa se non danneggiati)Nessuno formalizzato; negoziazione volontaria (creditori possono abbandonare trattativa)
Falcio dei creditiPossibile per chirografari anche senza loro consenso (se maggioranza approva); possibile degradare parzialmente privilegi se bene insufficiente; ma minimi legali: 20% ai chirografi in liquidatorio, nessun minimo in continuità (purché > liquidazione)Completa secondo esito liquidazione: i chirografari ricevono percentuale ex post (spesso bassa); privilegiati potenzialmente soddisfatti su attivo ma dipende asset; eventuali scoperti restano a carico debitore (persona fisica poi esdebitabile)Limitata: i creditori non aderenti devono essere pagati integralmente (salvo accordo agevolato col 30% consensi ma 100% pagamento estranei) ; falcidia applicata solo ai consenzienti e a eventuali dissenzienti finanziari con efficacia estesaNessuna imposizione unilaterale: il falcio deve essere concordato con ciascun creditore. Se uno non accetta stralcio, occorre soddisfarlo integrale o adottare poi concordato
Vantaggi per debitoreMantiene chance di continuare attività; taglio debito imposto anche a dissenzienti; protezione totale durante procedura; esdebitazione per socio illimitatamente responsabile (come PF)Procedura gestita da terzo, debitore esonerato da scelte operative; debiti residui persona fisica cancellati (esdebitazione) al termine; chiusura rapida di una situazione insostenibileMeno stigma e pubblicità rispetto a concordato; tempi rapidi; debito ristrutturato in modo flessibile; possibile cram-down parziale su finanziari; atti in esecuzione accordo esenti revocatoria e bancarotta preferenzialeRiservatezza (no pubblicità iniziale); approccio collaborativo con creditori; costi contenuti; esperto mediatore facilita accordi; possibili misure premiali (dilazioni fiscali straordinarie ); nessuno spossessamento; se risanamento riesce, azienda salva senza procedure formali concorsuali
Svantaggi per debitoreProcedura pubblica, costosa, incerta (rischio bocciatura e fallimento); gestione sotto supervisione, perdita reputazione temporanea; necessita piano rigoroso e trasparente (responsabilità penali se false attestazioni)Fine dell’impresa; stigma reputazionale; possibili azioni di responsabilità contro amministratori; durata lunga e costi alti; perdita totale controllo; se persona fisica, alcuni debiti non esdebitabili (es. sanzioni penali, alimenti)Necessita alta adesione (60%); no falcidia obbligatoria dei dissenzienti non finanziari -> occorre pagare estranei 100% quindi richiede risorse; pubblicità dell’omologa (Registro imprese); se creditore chiave rifiuta, accordo non realizzabile; serve attestazione e controllo tribunale, quindi formalitàNon vincolante – possibilità di insuccesso se creditori non collaborano; nessuna certezza di esito (dipende volontà terzi); durata limitata (6-12 mesi) poi bisogna scegliere altra via; misure protettive temporanee e revocabili; se negoziazione fallisce si è perso tempo (anche se con nuove info); eventuale pubblicità di misure protettive può allarmare controparti; non adatta a insolvenza già conclamata se creditori sono ostili (situazione in cui di solito si deve passare a concordato/fallimento)

(Legenda: PF = persona fisica. Nota: la tabella semplifica alcune condizioni, ad es. nell’accordo agevolato col 30% è ammesso pagare anche parzialmente i non aderenti purché integralmente i privilegiati e almeno 30% chirografi; qui abbiamo indicato la regola generale 60%-100% per semplicità.)

Come si nota dal confronto, dal punto di vista del debitore la preferenza va alle soluzioni meno invasive (composizione negoziata, accordi) finché possibile, riservando il concordato come rete di sicurezza per imporre la ristrutturazione se necessario e la liquidazione giudiziale proprio come ultima spiaggia quando non c’è più nulla da fare (o come minaccia che pende se le altre soluzioni non vengono attuate correttamente).

Responsabilità personali degli amministratori e tutela del patrimonio personale

Finora abbiamo parlato degli strumenti a disposizione dell’impresa debitrice per gestire e risolvere la situazione debitoria. Tuttavia, dal punto di vista del debitore-imprenditore (soprattutto se l’azienda è gestita tramite società di capitali), occorre approfondire quali possono essere le responsabilità personali di chi amministra in caso di debiti insostenibili e crisi d’impresa. La normativa italiana, soprattutto con la riforma del Codice della Crisi, ha accentuato gli obblighi degli amministratori nel prevedere e affrontare tempestivamente la crisi, pena conseguenze sul piano civile (risarcimento danni), e ha mantenuto ferme le responsabilità su piano fiscale e penale per determinate condotte.

In questa sezione esamineremo:

  • I doveri degli amministratori di società in relazione alla gestione dell’impresa in crisi (adeguati assetti, obbligo di conservazione del patrimonio sociale in caso di perdita del capitale, dovere di attivarsi per strumenti di allerta).
  • Le possibili azioni di responsabilità civilistica nei confronti degli amministratori (da parte della società stessa, dei creditori o del curatore fallimentare) per omissioni o atti dannosi che abbiano aggravato l’insolvenza.
  • Le responsabilità specifiche per debiti tributari e contributivi non pagati (sanzioni amministrative e, in casi limitati, obblighi di pagamento in proprio).
  • I profili di responsabilità penale, in primis i reati fallimentari (bancarotta) ma anche reati tributari connessi alla gestione.
  • La tutela del patrimonio personale dell’imprenditore/socio: in quali casi i beni personali possono essere attaccati dai creditori dell’azienda e come proteggersi.

Il tutto ponendo attenzione al punto di vista del debitore onesto: spesso l’amministratore di un’azienda in crisi è egli stesso vittima di circostanze avverse, ma deve sapere come muoversi per evitare di incorrere in colpe ulteriori.

Doveri degli amministratori in situazioni di crisi

Gli amministratori di società (sia di capitali che di persone) hanno, per legge, una serie di doveri generali: amministrare con diligenza, in buona fede, nell’interesse sociale e nel rispetto delle leggi e dello statuto. In condizioni normali, questi doveri implicano perseguire l’oggetto sociale e creare valore. In situazione di crisi o perdita del capitale, però, subentra un dovere particolare: preservare l’integrità del patrimonio sociale e non aggravare il dissesto.

Due norme chiave sanciscono questo concetto:

  • L’art. 2086, comma 2 c.c. (introdotto dall’art. 375 del D.Lgs. 14/2019) impone all’imprenditore collettivo di istituire adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili funzionali alla rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale, ad attivarsi senza indugio per adottare gli strumenti previsti per il superamento della crisi e il recupero della continuità. In parole più semplici, gli amministratori hanno per legge il dovere di dotarsi di sistemi (controllo di gestione, monitoraggio indici finanziari, ecc.) in grado di far emergere segnali di crisi (come indici di allerta: DSCR, ecc.) e, quando tali segnali si manifestano, di prendere iniziative per affrontare la crisi (dalla rinegoziazione dei debiti alla richiesta di composizione negoziata o concordato). La violazione di questo dovere può costituire in sé un profilo di responsabilità per negligenza gestionale.
  • L’art. 2486 c.c. stabilisce che, una volta che la società ha perso il capitale minimo legale (o è avverata altra causa di scioglimento, come la deliberazione di scioglimento per impossibilità di funzionamento, ecc.), gli amministratori devono limitarsi a compiere atti di gestione conservativa del patrimonio, finalizzati alla sola conservazione dell’integrità e del valore dell’attivo, in vista della liquidazione. In pratica, se una S.r.l. subisce perdite che azzerano il capitale sociale (art. 2482-ter c.c.), gli amministratori non possono continuare “business as usual”; devono o ricapitalizzare la società (convocando i soci) oppure avviare la liquidazione. Se continuano l’attività senza tali misure, rispondono dei danni causati ai creditori e ai soci per la prosecuzione indebita. Il Codice della Crisi, all’art. 378, ha aggiunto il comma 3 a questo art. 2486, introducendo criteri presuntivi di quantificazione del danno: il danno risarcibile degli amministratori in caso di violazione del dovere di gestione conservativa, salvo prova contraria, si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data di apertura della liquidazione/fallimento e il patrimonio netto alla data in cui avrebbero dovuto cessare l’attività (o altra formula analoga) . Questa norma codifica una presunzione già elaborata dalla giurisprudenza (Cass. SS.UU. n. 9100/2015) e significa che se gli amministratori ritardano il fallimento aggravando il dissesto, la misura del danno è il peggioramento del deficit patrimoniale in quel periodo.

In sintesi, il combinato di queste norme impone che l’amministratore non deve mai ignorare i segnali di allarme. Se l’azienda è in difficoltà: – deve attivare meccanismi di allerta interna (controllo su flussi di cassa, allerta su ritardi pagamenti, ecc.); – se i rimedi ordinari (taglio costi, ricerca soci, ecc.) non bastano, deve proporre soluzioni straordinarie (accordo con creditori, attivare composizione negoziata, predisporre concordato, ecc.); – se ormai non c’è soluzione e l’attivo non copre più neanche il capitale sociale, deve fermarsi e non contrarre nuovi debiti se non indispensabili, altrimenti quei nuovi debiti – contratti sapendo di non poterli onorare – potrebbero costituire una malagestione dolosa o colposa.

La giurisprudenza ha in più occasioni punito amministratori che hanno tirato a campare aumentando il buco. Ad esempio, la Cassazione con ord. 17139/2023 ha escluso la responsabilità di un amministratore che non aveva immediatamente rilevato la riduzione del capitale sotto il minimo, quando poi un pronto aumento di capitale aveva eliminato ex tunc la causa di scioglimento . Questo caso indica che se l’errore è rimediato senza danno (il capitale fu ricostituito prontamente), l’amministratore non viene ritenuto responsabile. Diversamente, se non si fosse corso ai ripari, l’amministratore sarebbe incorso in responsabilità per aver omesso di attivarsi di fronte a perdite gravi.

Altro dovere, spesso dimenticato: l’art. 2485 c.c. obbliga l’amministratore, quando si verifica una causa di scioglimento (perdite, ecc.), a convocare senza indugio l’assemblea o a dare avvio alla liquidazione. Se non lo fa, risponde dei danni. È un dovere procedurale, ma essenziale.

Da segnalare anche che la riforma ha esteso questi obblighi anche agli organi di controllo (sindaci e revisori): l’art. 14 CCII impone ai sindaci di segnalare immediatamente agli amministratori eventuali indizi di crisi e, se loro non agiscono, possono attivare essi stessi la composizione negoziata. Questo a riprova che tutto l’assetto normativo mira a far emergere la crisi precocemente.

In conclusione, per un amministratore che vede la propria azienda accumulare debiti: – Non agire affatto e sperare in un miracolo è l’atteggiamento peggiore e fonte di responsabilità. – Continuare a indebitarsi per prolungare artificialmente la vita societaria (es. prendere forniture a credito sapendo che non si pagheranno) può configurare, oltre a responsabilità civile verso quei creditori, anche reati (si pensi alla bancarotta preferenziale se paga alcuni e altri no, o alla bancarotta per aggravamento del passivo). – L’amministratore deve invece studiare un piano e utilizzare, per quanto possibile, gli strumenti offerti (piani attestati, accordi, CNC, concordato). Queste mosse dimostrano diligenza e, se fatte correttamente, potrebbero anche liberarlo da responsabilità future (ad esempio, se un concordato va a buon fine, i creditori non potranno lamentare danni – hanno accettato quel piano; se va male ma l’amministratore ha seguito le regole, difficilmente sarà colpa sua la liquidazione finale).

Azioni di responsabilità civile verso gli amministratori

Nel caso in cui l’impresa decida di procedere al risanamento o sia comunque in crisi, c’è sempre sullo sfondo la questione: gli amministratori hanno fatto tutto il possibile? Se no, possono essere chiamati a rispondere personalmente.

Le azioni di responsabilità possono essere di tre tipi: – Azione sociale (art. 2393 c.c. per S.p.A., art. 2476 c.c. per S.r.l.): è esercitata dalla società (o dai soci, anche post fallimento dal curatore) per danni causati dagli amministratori alla società (erosione patrimonio, perdite derivanti da atti negligenti o in violazione di legge). – Azione dei creditori sociali (art. 2394 c.c. per S.p.A., art. 2476 co. 6 c.c. per S.r.l.): quando il patrimonio è insufficiente a soddisfare i creditori, questi ultimi possono chiedere il risarcimento del danno agli amministratori per inosservanza degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale. È una responsabilità quasi “da wrongful trading”: se il buco patrimoniale che li ha lasciati insoddisfatti è causato da mala gestio degli amministratori, i creditori (o il curatore in rappresentanza di tutti) possono agire. Questa azione spetta tipicamente al curatore fallimentare (che la esercita cumulativamente per tutti i creditori, massimizzando l’attivo fallimentare). – Azione individuale del socio o terzo (art. 2395 c.c.): se l’amministratore con dolo o colpa causa danno direttamente al patrimonio di un socio o di un terzo, costoro possono agire individualmente. Esempio classico: false comunicazioni sociali che inducono un terzo a fare credito e poi subisce danno. È un’azione residuale.

Nella crisi d’impresa, la figura più rilevante è la seconda: i creditori insoddisfatti che cercano di rivalersi sugli amministratori. Come detto, l’art. 2486 c.c. arricchito dal CCII offre loro forti argomenti: se il patrimonio è stato eroso dal proseguimento dell’attività oltre il dovuto, c’è una presunzione di danno pari allo sbilancio peggiorato . Il curatore di un fallimento certamente usa questa norma per quantificare il risarcimento richiesto agli amministratori.

Ci sono state sentenze notevoli su come calcolare il danno e su quando l’azione è fondata. Ad esempio, Cass. Civ. Sez. Unite n. 9100/2015 (citata prima) aveva già indicato che il criterio del deficit fallimentare (differenza attivo/passivo) può essere adottato quando la contabilità è inattendibile, come presunzione. Alcune Corti d’Appello (Firenze 2024) hanno confermato che il nuovo 2486 c.c. è di fatto ricognitivo di quell’orientamento, quindi applicabile anche a fatti precedenti .

Per difendersi da tali azioni, l’amministratore può provare che: – Nonostante le perdite, la sua condotta è stata diligente e le scelte gestionali erano ragionevoli (la business judgment rule in Italia è mitigata: se c’è violazione di norme come 2486, è difficile invocarla, ma se ha tentato sinceramente di evitare il peggio, potrebbe alleggerire la colpa). – Oppure provare che il danno invocato non è conseguenza del suo operato. Ad esempio, se la crisi è venuta da cause esterne inevitabili (Covid, guerra, ecc.), potrebbe ridurre la sua responsabilità se ha comunque gestito correttamente. Tuttavia, se con cause esterne l’impresa era destinata a fallire, l’amministratore doveva semmai attivarsi prima per minimizzare i danni, quindi non c’è esonero totale. – Nel caso della presunzione 2486, può dare prova contraria: cioè dimostrare che il peggioramento del deficit non è tutto imputabile a lui, ad esempio era già presente un passivo nascosto, oppure che ha salvaguardato alcuni valori (magari ha evitato un danno maggiore vendendo in extremis degli asset per pagare debiti fiscali, riducendo future sanzioni – sono valutazioni complesse). – Va ricordato che se gli amministratori da citare sono più d’uno, rispondono in solido verso la società e i creditori, salvo potersi rivalere tra loro in proporzione alle rispettive colpe.

Per gli amministratori di S.r.l., storicamente c’era un dubbio se i creditori potessero agire direttamente: la norma (art. 2476 co. 6 c.c.) lo consente in caso di inadempimento degli obblighi verso la conservazione del patrimonio sociale. Oggi, con l’universalità del principio, sì, un creditore di S.r.l. può agire se il patrimonio è diminuito colposamente. Ad esempio, Cass. 7279/2023 ha condannato un amministratore S.r.l. che agì in conflitto di interessi causando danno al socio, ma per i creditori c’era l’insufficienza attivo per quell’operazione, quindi doppi profili .

In pratica, se un’impresa va in default lasciando debiti impagati, è quasi certo che i creditori (via curatore se c’è fallimento) tenteranno un’azione contro gli amministratori per recuperare qualcosa. Ciò spinge ancora di più gli amministratori onesti a far di tutto per evitare il default disordinato (meglio un concordato che li libera da quell’incubo se rispettato).

Responsabilità per debiti fiscali e contributivi

Si è accennato prima, parlando dei debiti verso Fisco e INPS, che normalmente una società di capitali risponde con il suo patrimonio delle obbligazioni tributarie e contributive, mentre amministratori e soci godono del beneficio della responsabilità limitata. Ci sono però eccezioni specifiche da tenere presenti:

  • Responsabilità nel ruolo di liquidatore (o amministratore/liquidatore di fatto): Il famigerato art. 36 DPR 602/1973 (riscossione imposte) prevede che i liquidatori di società rispondano in proprio per le imposte dovute dalla società se, avendo nelle mani attivo liquidabile, non pagano le imposte dovute e ripartiscono attivo ad altri. In pratica, se liquidano la società distribuendo risorse ai soci e saltando il Fisco, il Fisco può chiedere a loro i tributi rimasti insoluti (nei limiti di quanto indebitamente distribuito). La norma estende tale azione anche agli amministratori che nei 2 anni precedenti la liquidazione abbiano compiuto operazioni di liquidazione (es. vendite di cespiti) oppure abbiano occultato attività sociali . Questa è una forma di responsabilità ex lege che, come chiarito dalla Cassazione 2024 citata prima, non è coobbligazione tributaria, ma un’obbligazione civilistica propria, accertabile con atto motivato dell’AdE . Un esempio: società Alfa si liquida, l’amministratore scioglie la società vendendo gli asset ma non paga IVA dovuta di quegli asset; se distribuisce magari denaro residuo ai soci, il Fisco potrà chiedergli quell’IVA non pagata.
  • Soci di società estinta: non attiene agli amministratori, ma ai soci: l’art. 2495 c.c. dice che i soci di società cancellata rispondono dei debiti sociali nei limiti di quanto riscosso in liquidazione. Cass. ord. 32729/2023 l’ha ribadito con riferimento a un debito risarcitorio: se il creditore prova che il socio ha ricevuto attivo, lo può pretendere indietro . Quindi, un amministratore-socio che si fosse distribuito dividendi o attivo e lasciato debiti fiscali, indirettamente ne risponde come socio.
  • Sanzioni amministrative tributarie: se un amministratore commette violazioni tributarie (es. omessa dichiarazione, infedele dichiarazione, omessi versamenti sotto soglia), la società può essere sanzionata con multe e soprattasse. Queste sanzioni sono a carico della società, ma va segnalato che c’è dibattito se, in caso di fallimento della società, l’Amministrazione possa irrogarle agli amministratori personalmente in quanto “persone fisiche obbligate all’adempimento” (ad esempio, il DLgs 472/97 art. 11 prevede la solidarietà del soggetto che ha diretto fatto la violazione se la persona giuridica non paga). Di regola comunque, se la società non paga le sanzioni tributarie, restano insolute salvo prova di frode personale.
  • Debiti IVA e ritenute non versate: Per l’IVA, come visto, oltre una certa soglia diventa reato. Questo comporta che l’amministratore possa subire un processo penale e, in caso di condanna, una multa (che è personale) e magari confische sul suo patrimonio pari all’IVA evasa. Non è esattamente responsabilità civile verso il tributo, ma in sostanza se condannato potrebbe dover risarcire l’erario come parte della sanzione penale (le sentenze penali spesso dispongono la confisca del profitto del reato).
  • Contributi dipendenti non versati: c’è una responsabilità peculiare: se l’amministratore non versa le ritenute previdenziali operate ai lavoratori per oltre €10.000/anno, commette reato. Ma se la società è insolvente, quei contributi rimangono dovuti. Il reato è personale, quindi l’amministratore potrà essere condannato (multa o carcere fino a 3 anni per importi rilevanti). Oltre all’aspetto penale, talvolta l’INPS ha cercato di escutere direttamente l’amministratore per quei contributi: i giudici sono divisi, ma alcune pronunce (Trib. Torino 5/3/2024) hanno affermato la responsabilità dell’amministratore almeno per le sanzioni e interessi, in virtù del nesso causale tra l’omissione e il danno all’ente . Ad ogni modo, l’INPS può iscrivere a ruolo i contributi a nome società; se poi c’è reato, il recupero coattivo di solito è contro la società. Diverso se si configura il caso del liquidatore che paga altri e non i contributi (simile ad art. 36 DPR 602, c’è norma analoga per contributi).

In sintesi: non esiste in Italia una regola generale “gli amministratori rispondono sempre dei debiti fiscali/contributivi”: anzi, la regola generale è il contrario, come evidenziato dalla Sentenza del 2025 che abbiamo citato: senza prova di comportamento illecito specifico, gli amministratori non sono debitori solidali delle imposte . Tuttavia, ci sono specifiche circostanze in cui possono diventarlo: – Se hanno svolto ruoli di liquidazione distribuendo attivo a scapito del Fisco. – Se hanno compiuto reati tributari (allora pagheranno in sede penale). – Se l’azienda era una ditta individuale o società di persone (ovvio, rispondono con tutto). – Se hanno personalmente garantito quei debiti (es. firma su ruoli, ma non succede perché le cartelle sono intestate alla società; tuttavia amministratori di enti pubblici a volte sono chiamati in causa per danno erariale, scenario diverso). – Non va poi dimenticato: l’inesatto adempimento di obblighi fiscali può far scattare una loro responsabilità verso la società e i soci/creditori. Ad esempio, sanzioni e interessi che colpiscono la società per tardivi pagamenti dovuti a negligenza dell’amministratore sono visti come danno da mala gestio. Cassazione penale ha affermato che l’amministratore è responsabile per i maggiori oneri (interessi e sanzioni) su tributi pagati in ritardo, perché derivano dalla sua omissione . Quindi un curatore potrebbe chiedere a un ex amministratore di rifondere la massa fallimentare delle sanzioni accumulate per non aver pagato imposte a suo tempo.

La morale per un amministratore debitore: pagare, per quanto possibile, i debiti fiscali e contributivi in via prioritaria, o comunque assicurarsi di non distrarre risorse altrove quando Fisco e INPS rimangono a bocca asciutta. Non solo perché il Fisco/INPS sono creditori “pericolosi” che possono causare fallimenti, ma anche per evitare di incorrere nelle specifiche ipotesi normative di responsabilità.

Rischi penali (reati fallimentari e fiscali)

Oltre alle responsabilità civilistiche, la crisi d’impresa può sfociare per gli amministratori in responsabilità penali. Il diritto penale dell’insolvenza è principalmente incentrato sul reato di bancarotta (disciplinato dal R.D. 267/42 e ora trasfuso negli artt. 322 e seguenti del CCII, anche se per fatti commessi prima della riforma continua ad applicarsi la legge fallimentare). La bancarotta si distingue in: – Bancarotta fraudolenta: se prima o durante il fallimento l’imprenditore (o amministratore) ha distratto beni, sottratto o falsificato scritture contabili, preferito dolosamente taluni creditori a scapito di altri (pagamenti preferenziali poco prima del fallimento, se fatti con intenti di frode), o in genere tenuto comportamenti dolosi pregiudizievoli per i creditori. È un reato grave (punibile con pena detentiva importante, fino a 6-10 anni). – Bancarotta semplice: se l’imprenditore ha aggravato il dissesto per colpa grave (es: spese personali esagerate, operazioni imprudenti, mancata richiesta tempestiva di fallimento). È punita più lievemente (fino a 2 anni di reclusione).

Gli amministratori che portano la società al fallimento possono essere imputati di bancarotta (fraudolenta se c’è stato dolo, semplice se solo colpa). Ad esempio, l’amministratore che ha tenuto doppia contabilità o ha sottratto merci dagli stock per venderle “in nero” prima del fallimento -> bancarotta fraudolenta patrimoniale. Oppure l’amministratore che, pur vedendo la crisi, ha continuato a giocare in borsa con i soldi della società peggiorando il buco -> bancarotta semplice per imprudenza.

Ora, quel che interessa qui è: come un amministratore debitore può mitigare i rischi penali?

  • Comportamento trasparente e corretto durante la crisi: Tenere le scritture contabili in ordine (il disordine contabile di per sé è bancarotta semplice se fallisce); non fare sparire beni aziendali (spesso la tentazione di intestare beni a terzi o portare via attrezzature “prima che arrivino i curatori” può costare l’accusa di bancarotta fraudolenta per distrazione).
  • Non preferire arbitrariamente alcuni creditori in periodo sospetto: Pagare certi debiti e non altri a ridosso del fallimento è bancarotta preferenziale (fraudolenta se con dolo di favorire il creditore amico). Tuttavia, ecco un punto di grande interesse: pagamenti effettuati nell’ambito di un piano attestato, di un accordo omologato o autorizzati nel concordato non costituiscono reato di bancarotta preferenziale . La legge in pratica esenta tutte le fattispecie di pagamento “funzionali a un risanamento autorizzato”. Quindi, se l’amministratore segue la via concordataria e ottiene autorizzazioni dal tribunale per pagare fornitori essenziali, non potrà mai essere accusato di averli preferiti. All’opposto, se li pagava di nascosto senza procedura, rischierebbe.
  • Attivazione di procedure concorsuali: Paradossalmente, dichiarare fallimento prima spontaneamente (autofallimento) non esime di per sé dai reati commessi prima, ma può ridurre il profilo di bancarotta semplice se fatto per tempo. Mentre chiedere un concordato e portarlo a termine evita proprio il fallimento e quindi non c’è bancarotta (nessun fallimento, nessuna bancarotta). Anche se il concordato poi venisse revocato per inadempimento e trasformato in fallimento, gli atti fatti durante concordato in esecuzione di esso non sarebbero punibili.
  • Reati fiscali: questi possono concorrere con la bancarotta. Ad esempio, omesso versamento IVA per 1 anno -> reato ex art. 10-ter D.lgs 74/2000; se poi l’azienda fallisce, quell’omissione ha causato un debito, ma non è bancarotta fraudolenta (perché omettere un pagamento non è distrazione, è semmai preferenziale verso se stessi? No, semplicemente non è reato fallimentare non pagare un debito). Però l’amministratore affronterà il processo per omesso versamento IVA. Come evitarlo? C’è la norma che estingue il reato se prima del dibattimento l’imposta è pagata integralmente. Un concordato che preveda di pagare almeno in parte quell’IVA forse non basta a evitare la condanna (serve integrale pagamento prima del processo). Tuttavia, il legislatore ha introdotto nel 2019 la causa di non punibilità per chi è in concordato: se un imprenditore ha commesso omesso versamento, può non essere punito se il debito IVA viene soddisfatto nel concordato almeno per la parte che il Fisco avrebbe preso in fallimento (per l’IVA, essendo privilegiata, in fallimento forse avrebbe avuto il 0% se attivo incapiente? Normativa un po’ grigia). In ogni caso, l’approvazione e omologa di un piano di ristrutturazione del debito fa buona impressione anche in sede penale: dimostra la volontà di sistemare la posizione fiscale. Spesso i giudici penali attendono l’esito del concordato prima di decidere se condannare, e se il concordato paga l’IVA, estinguono il reato.
  • Altri reati: false comunicazioni sociali (bilanci falsi) se fatti per nascondere la crisi – questo è un pericolo: se l’amministratore, per ottenere credito, truccava i bilanci, quell’illecito è punibile (art. 2621 c.c.). Nel contesto di crisi, c’è la tentazione di abbellire i conti per tirare avanti: è però un boomerang, meglio essere sinceri e cercare soluzioni legali.

In definitiva, la miglior difesa penale per un amministratore è agire in trasparenza e utilizzare gli strumenti legali di composizione della crisi, così che nessuna condotta gli possa essere imputata come volontariamente fraudolenta. Molti amministratori negli ultimi anni, informati di ciò, preferiscono un concordato o accordo anche per avere quella “sponda” di legalità che li mette al riparo da accuse di aver dissipato il patrimonio in modo occulto.

Un caso esemplare: prima citavamo Cass. pen. 30109/2025 che dice che se c’è composizione negoziata in corso, non c’è pericolo di distrazione => ergo, non c’è base per sequestro perché l’impresa sta ordinatamente trattando . Analogamente, un amministratore in CNC non potrà essere accusato di star nascondendo i beni se sta attuando misure protettive con l’ausilio del tribunale.

Tutela del patrimonio personale dell’imprenditore (soci e garanti)

Un imprenditore che opera con una società di capitali (ad es. S.r.l.) gode, in linea generale, della separazione patrimoniale: i debiti sociali si soddisfano sul patrimonio sociale; i beni personali dell’amministratore o dei soci non sono aggredibili dai creditori sociali. Questo principio di responsabilità limitata è un pilastro del diritto societario (art. 2462 c.c. per S.r.l., art. 2325 c.c. per S.p.A.).

Tuttavia, esistono eccezioni e scenari pratici da considerare: – Garanzie personali: Molto spesso, per ottenere finanziamenti bancari o dilazioni importanti, i soci o gli amministratori di PMI rilasciano fideiussioni personali o ipoteche su beni personali a favore dei creditori aziendali (banca in primis). In tal caso, la distinzione società/persona viene meno per contratto: se la società non paga, il creditore può rifarsi direttamente sul patrimonio personale del garante (la casa di abitazione, altri beni). Questo è un rischio concreto e diffuso. Avviare un concordato o accordo per l’azienda non libera automaticamente il garante: anzi, la legge (art. 184 L.F. vecchio, non ricordo se replicato nel CCII) prevedeva che l’omologazione del concordato non libera i coobbligati e fideiussori. Quindi la banca può ancora chiedere al fideiussore (socio) l’intero credito, diminuito di quel che incassa in concordato dall’azienda. A meno che, come spesso accade, la banca in sede di accordo concordi anche la liberazione del garante in cambio di qualcos’altro (es. pagamento parziale immediato). Quindi i soci garanti devono farsi parte attiva nelle trattative: potrebbe convenire loro offrire un contributo al piano (versare una somma ai creditori) in cambio della liberazione dalle garanzie. Questo spesso avviene nei piani di ristrutturazione: il socio mette capitale fresco per convincere creditori a stralciare e con quell’accordo chiudono anche le fideiussioni.

  • Debiti personali correlati: se l’imprenditore ha indebitato anche se stesso (es: anticipi di imposte personali, debiti privati), quelli rimangono estranei alle procedure dell’azienda. Talvolta, soprattutto se l’impresa è individuale o SNC, si cerca il consolidamento dei debiti personali e aziendali in un’unica procedura (sovraindebitamento). Ma se parliamo di S.r.l., i debiti personali (tipo mutuo casa, carte di credito) restano a lui. In caso di disastro, il socio persona fisica può valutare la propria di insolvenza personal e accedere a procedure di sovraindebitamento (es. “esdebitazione del sovraindebitato” se non ha impresa, oppure liquidazione controllata per sovraindebitato). Queste procedure permettono di cancellare i debiti personali residui consegnando il patrimonio personale ai creditori (salve le cose impignorabili). Ad esempio, se la banca escute la casa del socio, e rimane ancora debito, il socio potrebbe poi chiedere di essere esdebitato.
  • Patrimoni dedicati o tutele legali: esistono strumenti come il fondo patrimoniale o il trust, con cui talvolta imprenditori disaccoppiano parte del patrimonio familiare dai rischi di impresa. Tuttavia, se i debiti contratti erano per bisogni dell’impresa, i creditori (banche, fisco) possono aggredire anche beni nel fondo patrimoniale, secondo giurisprudenza costante, in quanto il fondo esenta dai debiti estranei ai bisogni familiari, ma spesso i debiti d’impresa vengono considerati oltre il perimetro salvo motivare che l’impresa serviva al mantenimento familiare. In sostanza, contare sul fondo patrimoniale per proteggersi da debiti aziendali è di efficacia limitata.
  • Azione revocatoria: se un amministratore/socio ha distratto risorse dalla società verso di sé (per es. prestiti soci restituiti prima del fallimento, immobili sociali venduti al socio a prezzo vile), il curatore può fare azione revocatoria o peggio azione di responsabilità per restituire quei beni alla massa. Anche atti compiuti da lui come privato (es. regala la villa al figlio per non farsela pignorare) possono essere revocati dai creditori personali. Quindi tentare di mettere al riparo il patrimonio con atti dispositivi sospetti può fallire e addirittura aggravare la posizione (perché indicatori di frode).
  • Responsabilità verso terzi: ci sono situazioni in cui l’amministratore può essere chiamato a rispondere con il proprio patrimonio per obbligazioni risarcitorie specifiche: ad esempio, se viola norme di sicurezza sul lavoro causando un infortunio grave, potrebbe avere una responsabilità civile diretta verso il danneggiato (oltre all’assicurazione INAIL). Oppure i debiti ambientali in certi casi (bonifiche) possono ricadere su amministratori. Ma sono situazioni particolari.

Alla luce di ciò, come può un socio/amministratore difendere il proprio patrimonio personale? – Prima di tutto, gestendo bene l’azienda per non incorrere in quelle situazioni di responsabilità: se evita atti di mala gestio, non avrà azioni risarcitorie. – Non firmando garanzie personali alla leggera: facile a dirsi, difficile a farsi perché spesso la banca non concede fidi senza. Ma magari limitare l’importo garantito o far scadenzare la fideiussione (chiedere di liberarla quando l’esposizione cala). – In sede di ristrutturazione del debito, negoziando la posizione dei garanti: ad esempio, inserire una clausola che la banca rinuncia a escutere il socio se il concordato va a buon fine con pagamento del X%. Ciò può essere formalizzato e spesso i giudici lo accettano come lecito (non è un pagamento ai creditori extra concordato, è parte integrativa). – Separare i beni personali: se possibile, intestare a un coniuge non coinvolto, o costituire un fondo patrimoniale se i debiti sono solo business (parziale protezione per debiti futuri). Ma come detto, efficacia limitata se i creditori provano che il fondo serve per eludere. – In ultima analisi, se tutto precipita e il socio è oberato da debiti personali (magari perché la banca l’ha escusso), considerare una procedura personale: dal 2021 c’è l’“esdebitazione del sovraindebitato meritevole” anche senza liquidazione (una sorta di esdebitazione a zero, se proprio nullatenente e meritevole). Oppure la liquidazione controllata ex L.3/2012 (ora CCII art. 268 e segg.) dove cede ai creditori i suoi beni e ottiene l’esdebitazione.

Infine, sottolineiamo una cosa: se la società è di persone (snc, sas) o ditta individuale, l’effetto per il debitore coincide con quello per la persona fisica: tutti i crediti aziendali sono anche personali. In questi casi, il concordato preventivo (per l’imprenditore individuale fallibile) o il concordato minore/sovraindebitamento (per non fallibile) includerà anche la liberazione del patrimonio individuale. Ad es., l’imprenditore individuale in liquidazione giudiziale, dopo, ottiene esdebitazione e i creditori non possono più nulla sul residuo.

In conclusione su questo punto: la struttura societaria di per sé offre uno scudo, ma buchi grandi spesso lo trapassano. Il punto di vista del debitore deve essere: salvare l’azienda se possibile, ma al tempo stesso limitare i danni personali. Ciò significa anche saper decidere quando staccare la spina. Molti imprenditori commettono l’errore di impegnare anche la casa e i risparmi personali nel tentativo disperato di salvare l’impresa oltre ogni ragionevole speranza, finendo per perdere entrambi. A volte una scelta dolorosa ma lucida – liquidare l’azienda in tempo vendendo gli asset per pagare i debiti e magari conservarne una parte per ricominciare altrove – può salvare il patrimonio personale. Oppure avviare un concordato liquidatorio dove il socio conferisce parte di beni personali al piano (ad esempio, mette liquidità propria per pagare creditori in cambio di tenersi la casa) può essere una soluzione equa.

In ogni caso, rivolgersi per tempo a professionisti e pianificare anche gli aspetti personali è fondamentale. La legge oggi, per esempio, consente di concordare transazioni fiscali dove il socio/imprenditore può metterci del suo: l’Agenzia Entrate a volte chiede ai soci di assumersi un impegno di versare tot oltre l’attivo sociale per approvare un piano. Questo può essere doloroso per il socio, ma preferibile a ipotecare la propria casa con equitalia in futuro.

Dopo aver affrontato tutti questi aspetti, passiamo ora a consolidare le conoscenze con alcune domande e risposte frequenti, utili per chiarire i dubbi più pratici che sorgono ai debitori in difficoltà, e con alcuni esempi concreti per illustrare l’applicazione delle norme.

Domande e Risposte Frequenti (FAQ)

D: La mia azienda ha debiti fuori controllo. Devo farla fallire subito?
R: Non necessariamente. Il fallimento (oggi liquidazione giudiziale) è l’ultima opzione. Prima valuta se l’impresa ha ancora futuro: hai ordini, mercato, competenze che meritano di salvare l’attività? Se sì, vale la pena tentare una ristrutturazione del debito (tramite accordi con i creditori o procedure come il concordato preventivo in continuità) per evitare la chiusura. Attiva subito consulenti esperti e monitora gli indici di crisi. Se invece l’azienda è strutturalmente decotta (prodotti obsoleti, mercato sparito) e accumula solo passivo, procrastinare peggiora le cose: in quel caso è più onesto considerare la liquidazione (anche negoziata, ad esempio vendendo l’azienda a terzi). Ricorda che non puoi “far fallire” l’azienda a tuo piacimento: devi essere insolvente e sarà il tribunale a dichiararlo su ricorso tuo o di un creditore.

D: Quali vantaggi ho a usare la composizione negoziata invece di aspettare un eventuale fallimento?
R: La composizione negoziata ti consente di gestire proattivamente la crisi con l’aiuto di un esperto, in modo riservato e flessibile. Puoi ottenere una sospensione temporanea delle azioni dei creditori (misure protettive) senza essere formalmente “fallito” o in concordato . Ciò mantiene intatto il valore aziendale (evitando pignoramenti o fughe di clienti spaventati). Inoltre puoi negoziare stralci di debito su base volontaria con Fisco, banche e fornitori, perfino con effetti di una transazione fiscale approvata dal tribunale . Se riesci a trovare un accordo, salvi l’impresa senza passare da procedure lunghe; se non riesci, hai comunque guadagnato tempo e puoi sempre ripiegare su un concordato. Al contrario, subire un fallimento significa perdere il controllo: un curatore liquiderà tutto e tu (o i soci) potreste essere chiamati a risponderne. Quindi, la CNC è un tentativo a basso rischio e alto potenziale di successo: statisticamente molte PMI si stanno salvando così, con benefici anche reputazionali (non sei visto come “fallito” ma come imprenditore che ha gestito la crisi in modo ordinato).

D: La società è mia (sono socio unico). I debiti aziendali possono togliermi la casa intestata a me personalmente?
R: Se la tua società è una S.r.l. o S.p.A., i creditori sociali non possono attaccare direttamente la tua casa personale, a meno che tu non abbia firmato garanzie personali (fideiussioni, ipoteche) o a meno di condotte fraudolente che fanno scattare responsabilità specifiche. Ad esempio, se hai garantito con fideiussione un mutuo aziendale, allora sì: la banca, non ottenendo tutto dalla società, può escutere te e aggredire i tuoi beni. Oppure, se hai distratto denaro dalla società per comprarti la casa, un curatore fallimentare potrebbe fare un’azione revocatoria e renderla aggredibile. In generale però, la regola è la separazione patrimoniale: i debiti della S.r.l. restano sulla S.r.l. . Attenzione però al Fisco: se la tua società viene cancellata con debiti tributari, l’Agenzia Entrate può chiederti conto fino a concorrenza di quanto hai ricevuto in liquidazione . Inoltre, se sei amministratore e hai omesso di versare contributi dei dipendenti, potresti avere conseguenze personali (anche penali). Quindi, se temi per la casa, verifica se hai firmato garanzie e considera eventualmente di rinegoziare con la banca la tua posizione di garante nell’ambito di un accordo (a volte liberano i garanti se ricevono un certo pagamento). Tieni presente che, post-fallimento, tu come persona fisica potresti essere liberato dai debiti residui tramite esdebitazione, ma ciò non impedisce che nel frattempo ti pignorino i beni disponibili.

D: Cos’è il “concordato semplificato” di cui ho sentito parlare?
R: È una particolare forma di concordato introdotta di recente, riservata al caso in cui tu abbia tentato la composizione negoziata senza successo. Se non riesci a trovare un accordo con i creditori, ma hai comunque un piano per liquidare i beni in modo più vantaggioso del fallimento (es. hai un acquirente per l’azienda che offre qualcosa per rilevarla), entro 60 giorni dalla chiusura della CNC puoi proporre un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. La grosse differenza è che non c’è voto dei creditori: presenti la proposta al tribunale, i creditori possono solo fare osservazioni/opposizioni, e decide il giudice se omologare . Ovviamente devi offrire ai creditori almeno quello che otterrebbero dalla liquidazione fallimentare e seguire le priorità dei crediti. È uno strumento “straordinario” per evitare il fallimento quando le trattative sono fallite ma c’è comunque una soluzione liquidatoria in vista (tipicamente la vendita dell’azienda in blocco). Nella pratica è ancora poco utilizzato (introdotto nel 2021), ma è bene sapere che esiste questa via d’uscita se hai agito correttamente provando la negoziazione.

D: La banca mi ha revocato il fido e chiesto il rientro immediato di 100k€. Possiamo fare qualcosa per fermarla?
R: Sì, ci sono alcune mosse. Per prima cosa, contatta la banca e verifica se c’è margine di moratoria o di rimodulazione (spesso le banche revocano formalmente ma poi trattano un piano di rientro se l’azienda è collaborativa). Se la banca è inflessibile e minaccia subito decreto ingiuntivo/pignoramento, valuta di attivare una procedura concorsuale o protettiva: ad esempio, un ricorso per concordato preventivo con riserva (con gelata delle azioni esecutive) o, ancor meno traumatico, la composizione negoziata chiedendo misure protettive. Con le misure protettive, la banca non potrà eseguire il pignoramento ipotecario per un certo periodo . Nel frattempo potrai negoziare con tutti i creditori una soluzione di respiro più ampia (magari includendo la stessa banca). Tieni però presente: se il credito è legittimamente dovuto e scaduto, la banca ha diritto di revoca. Dunque, il tuo obiettivo deve essere guadagnare tempo ma anche predisporre un piano concreto: o trovi nuova finanza per rimborsarla (ad esempio rifinanziamento con un’altra banca o investitore) o la includi in un accordo di ristrutturazione offrendo un parziale rimborso in X anni. Uno strumento legale specifico per bloccare la banca non c’è, se non quelli generali di cui sopra. Nota: se la banca ha ipoteca su un immobile, anche in concordato preventivo potrà escutere l’ipoteca dopo un certo tempo se il concordato non prevede soddisfazione adeguata (i creditori ipotecari possono chiedere la vendita del bene in concordato). Quindi la miglior difesa è la trattativa: proponi alla banca ad esempio di pagare gli interessi subito e rientrare del capitale in 5 anni, e contestualmente attiva la CNC così da avere lo scudo. Spesso di fronte a una procedura concorsuale, la banca preferisce trattare entro quella, perché sa che se va a fallimento, recupererà forse meno e dopo anni.

D: Posso oppormi a un decreto ingiuntivo anche se il debito è effettivamente dovuto, solo per prendere tempo?
R: Tecnicamente puoi sempre fare opposizione a un decreto ingiuntivo (entro 40 giorni dalla notifica), anche solo per contestare la quantificazione o chiedere una dilazione. Tuttavia, sconsigliamo vivamente opposizioni pretestuose: primo, il giudice potrebbe concedere la provvisoria esecuzione al creditore se l’opposizione è pretestuosa o se il credito è fondato su prova certa, rendendo il procedimento inutile ai fini dilatori. Secondo, finirai per pagare ulteriori spese legali e interessi. Meglio utilizzare gli strumenti concorsuali che automaticamente sospendono le azioni esecutive (prenotativa di concordato, misure protettive CNC) se il fine è guadagnare tempo in modo “ordinato”. Se invece hai motivi validi (es. il creditore ha richiesto più del dovuto, ci sono vizi nel bene fornito, ecc.), allora opporsi è tuo diritto e dovere, e l’opposizione in sé allungherà i tempi (si apre una causa civile ordinaria). Durante l’opposizione potresti trovare un accordo transattivo col creditore. Ma bada: opporsi sapendo di avere torto può irritare il creditore e fargli perdere fiducia in qualsiasi soluzione bonaria. Quindi va usata con cautela. Un approccio migliore se vuoi dilazione è magari non opporre e contestualmente contattare il creditore proponendo un piano di pagamento: se accetta e lo formalizzate, lui potrebbe astenersi dal procedere appena scaduti i 40 giorni e attendere. Oppure, se sei già in trattativa seria per un accordo, a volte i legali consigliano di depositare comunque un’opposizione per riservarsi spazio di manovra e poi chiedere rinvii al giudice mentre si tratta. È un gioco delicato che va valutato caso per caso con l’avvocato.

D: Quali debiti posso tagliare legalmente in un concordato preventivo? Devo pagare per forza tutti i fornitori almeno al 20%?
R: In un concordato preventivo liquidatorio puro, la legge oggi richiede di garantire almeno il 20% ai creditori chirografari (fornitori senza garanzie, ecc.) . Significa che, stimati i beni, se il realizzo previsto è inferiore al 20% dei debiti chirografari, devi procurare risorse esterne (o rinunciare al concordato). Se invece fai un concordato in continuità aziendale, non c’è una percentuale minima fissa – devi offrire però ai chirografari più di quanto otterrebbero dalla liquidazione fallimentare. Quindi, se i beni liberi darebbero il 5%, potresti offrire anche solo il 6-10%. Ovviamente, offrire troppo poco espone al rischio che i creditori votino contro. Per i creditori privilegiati (es. banche con ipoteca, Erario per IVA): in concordato puoi falcidiare (ridurre) il loro credito solo se il valore di realizzo del bene su cui hanno privilegio è inferiore al credito. Esempio: banca credito €200k ipotecario su immobile che ne vale 150k -> puoi proporre dare 150k (soddisfazione integrale del valore di garanzia, il resto è chirografo). Se il bene vale di più del credito, devi pagarli integralmente, salvo diverso accordo col creditore. I debiti verso dipendenti per salari e TFR vanno pagati integralmente (hanno super privilegio) ma spesso interviene il Fondo di garanzia INPS a coprirli. I debiti fiscali e contributivi: tramite transazione fiscale puoi proporre di non pagarli per intero, anche la quota di imposta, a patto che il Fisco non riceva meno del 20% (questa soglia del 20% per imposte e contributi la indica la legge per accettazione automatica, ma la Cassazione ha aperto al cramd-down fiscale sotto certe condizioni come visto) . Quindi, ricapitolando: fornitori chirografari almeno 20% (liquidatorio) o quanto risulta dal valore di liquidazione (continuità); privilegiati almeno il valore di garanzia; Erario/INPS dipende, generalmente almeno come altri chirografari o comunque non meno del 20-30% secondo prassi; dipendenti 100% (ma magari in tempi dilazionati). Tieni conto che queste sono soglie legali minime, ma ai fini del voto se proponi ai chirografari il 20% a 5 anni, è probabile che molti votino no. Un concordato di solito passa se offre una percentuale soddisfacente in tempi decenti e se l’alternativa (fallimento) darebbe sicuramente meno. Infine: quali debiti non puoi proprio tagliare? Quelli nati dopo la domanda di concordato (prededucibili), eventuali debiti per finanziamenti bancari garantiti da pegno su titoli se li hai in mano (perché potresti liquidare i titoli e soddisfarli), e in genere i crediti privilegiati entro il limite di capienza dei beni su cui insistono.

D: L’agenzia delle entrate mi ha pignorato il conto per tasse non pagate. Posso liberarlo in qualche modo?
R: Se il pignoramento è già eseguito, le somme bloccate verranno assegnate al Fisco, a meno che tu non faccia opposizione (difficile, il debito sarà certo) o non ottenga una sospensione amministrativa. Puoi tentare di rivolgerti all’Agente della Riscossione e chiedere un piano di dilazione: spesso, concedendo la rateazione prima che il procedimento di pignoramento si concluda, l’Agente può sbloccare il conto (perché la legge dice che con la dilazione in regola non procedono ad esecuzione). In parallelo, potresti attivare la composizione negoziata e chiedere misure protettive: se il giudice le concede, anche l’Agente della Riscossione deve sospendere le azioni esecutive . Questo tuttavia opera meglio prima che il pignoramento sia avviato. Un’altra strada: se i fondi sul conto servono per pagare stipendi o continuare l’attività, in sede di concordato preventivo con riserva, puoi chiedere al tribunale di sbloccare quelle somme per l’esercizio provvisorio (non semplice, ma in teoria si può autorizzare il pagamento di spese urgenti anche se c’è il fermo). In pratica, la mossa più efficace è la dilazione o definizione agevolata: se riesci a rientrare in una rottamazione (quando aperte) o a dilazionare in 72 rate, comunicandolo alla banca e all’agente, spesso sospendono il pignoramento. Negozia con il Fisco eventualmente nella CNC offrendo pagamento parziale concordato: l’art. 23 CCII permette di concludere un accordo, ma serve tempo e l’intervento del tribunale per l’omologa, quindi sul momento non risolve il conto bloccato. Dunque, immediatezza: vai all’Agente Riscossione, vedi se c’è margine di sospensione per rateazione, e parallelamente proteggiti con procedura concorsuale se l’importo è alto e non gestibile.

D: Ho debiti verso fornitori piccoli e grandi. Devo coinvolgerli tutti in un accordo o posso lasciarne fuori alcuni?
R: Dipende dallo strumento che scegli. Nel piano attestato o in accordi stragiudiziali liberi, puoi negoziare solo con alcuni creditori chiave e lasciare fuori altri – purché paghi regolarmente quelli fuori, o che essi rimangano silenti. Ad esempio, potresti trattare con i fornitori grandi uno sconto e continuare a pagare a scadenza i piccoli (così non si agitano). Non c’è obbligo di coinvolgere tutti, ma considera: se lasci fuori qualcuno e non lo paghi, quello probabilmente agirà legalmente. Nelle procedure formali (accordo omologato o concordato), devi presentare un piano per tutti i creditori. Puoi decidere di soddisfare integralmente alcuni (ad es. piccoli creditori sotto una certa soglia) e falcidiare altri, ma devi includerli. Un concordato ad esempio può dire: “i creditori con credito inferiore a €5.000 saranno pagati al 100% alla scadenza, gli altri al 30% in 2 anni”. Questo può essere strategico per ottenere il voto favorevole dei piccoli (che se pagati integrali non votano nemmeno). Negli accordi di ristrutturazione, se non raggiungi adesione universale, devi dimostrare che i non aderenti li pagherai comunque per intero entro 120 giorni (salvo alcune eccezioni con accordo agevolato, ma lì comunque i non aderenti chirografari vanno almeno soddisfatti integralmente se privilegiati, e al 100% entro 120gg se chirografari – in accordo agevolato puoi ridurre proporzionalmente tutti di una certa percentuale, ma diciamo che è complicato e rischioso). Quindi, in pratica: se scegli la via negoziale privata, puoi concentrare il “sacrificio” su chi è disposto e lasciare intonsi gli altri; se scegli la via concorsuale, devi contemplare un trattamento per tutti. Spesso si fa così: classi di creditori in concordato – es. classe fornitori strategici (pagati di più), classe fornitori generici (meno), classe piccoli (integrale). Ci vuole equità e logica di convenienza economica: non puoi discriminare arbitrariamente (il tribunale non omologa se crei disparità ingiustificate). Ma puoi diversificare in base al ruolo dei creditori (es. strategici li pago di più per garantire continuità ). Se lasci fuori letteralmente alcuni (non citi il credito), quel debito resta e sopravvive alla procedura: non consigliabile. Quindi è meglio includere tutto e magari dire: “questo lo pago cash, questo lo taglio”.

D: Come incide una crisi d’impresa sui contratti in corso (affitti, forniture, leasing)? Posso sospendere i pagamenti?
R: Durante una crisi senza procedura, sospendere unilateralmente i pagamenti contrattuali è un inadempimento: il fornitore può risolvere il contratto e chiedere danni. Quindi attenzione: se non puoi rispettare un contratto, meglio negoziare una modifica o attivare formalmente strumenti legali. Ad esempio, nella composizione negoziata c’è una protezione: i contratti di fornitura essenziali non possono essere risolti dal creditore solo perché tu hai avviato la CNC o sei in ritardo per cause della crisi (art. 19-21 CCII). E in più, se ottieni misure protettive, non possono nemmeno interromperti servizi pubblici essenziali (energia, telecom) per debiti pregressi, a patto che paghi il corrente. Nel concordato preventivo, hai la facoltà di chiedere al tribunale di scioglierti da contratti in corso che non ti servono (art. 97 CCII) o di sospenderli fino a 60 giorni, oppure di mantenerli attivi (il contrattario non può risolvere solo per tuo concordato, clausole di “fallimento” sono inefficaci). Nei leasing, ad esempio, puoi chiedere lo scioglimento: il lessor ritira il bene e insinua il suo credito per la differenza. Nei contratti di affitto locali: in concordato puoi scioglierti pagando un’indennità (credito prededucibile per controparte per danni). Fuori dalle procedure, se sospendi pagamenti d’affitto senza accordo, il locatore può sfrattarti (procedura di sfratto per morosità) e chiedere i canoni. Quindi, è rischioso farlo senza paracadute. Valuta l’urgenza: se proprio non hai liquidità, a volte la controparte preferisce darti respiro che farti fallire – contattala. Strumenti come la CNC prevedono il coinvolgimento volontario delle controparti contrattuali: potete rinegoziare i termini. In sintesi: non sospendere unilateralmente se puoi evitarlo; usa la cornice legale di una procedura per sospendere/sciogliere contratti onerosi o proteggerti da risoluzioni. Spesso, purtroppo, in una crisi severa qualche contratto va lasciato indietro (es. fornitore non pagato) perché non hai soldi: sappi che giuridicamente compi un inadempimento e la controparte può reagire. Con una procedura concorsuale, quell’inadempimento viene gestito nelle regole (il creditore sarà un creditore concorsuale per il danno).

D: Gli amministratori rischiano qualcosa se usano i soldi dell’azienda per pagare solo alcuni creditori poco prima del fallimento?
R: Sì, rischiano sia sul piano civile che penale. Civilmente, pagare alcuni creditori e non altri a ridosso dell’insolvenza può essere contestato come violazione del principio di parità: il curatore potrebbe agire in revocatoria fallimentare per farsi restituire quei pagamenti preferenziali (entro 6 mesi se pagamenti non normali) e questo indirettamente può generare responsabilità degli amministratori per aver dissipato liquidità in modo non funzionale (specie se pagavano garanzie personali o parti correlate – sarebbe danno alla massa). Penalmente, se il fallimento segue, pagare scientemente alcuni creditori con intento di favoritismo costituisce bancarotta preferenziale, punita come bancarotta fraudolenta , a meno che quei pagamenti siano avvenuti nell’ambito di un piano di risanamento regolare (in esecuzione di piano attestato o concordato, come già detto, non sono reato). Quindi gli amministratori dovrebbero evitare di fare “preferenze” nel periodo di crisi, se non autorizzate formalmente. Se l’azienda non è in procedura e scegli di pagare Tizio e non Caio, in caso di fallimento ti contesteranno l’intenzione di favorire Tizio (magari perché Tizio è fornitore essenziale? Potresti giustificarlo come atto nell’interesse dell’impresa – a volte la giurisprudenza assolve se il pagamento era fatto per procurare beni indispensabili alla continuità. Ma è rischioso). Molto meglio, se devi fare pagamenti selettivi per necessità, coprirli con autorizzazione: ad esempio, se sei in concordato con riserva, chiedi al giudice di poter pagare quel fornitore perché fornisce materiale senza cui l’azienda si ferma (art. 99 CCII, ex 182-quinquies L.F.). Se il giudice autorizza, sei a posto: quel pagamento non è revocabile e non è bancarotta . Se non sei in procedura, valuta di entrarci piuttosto che rischiare accuse dopo. Insomma: sì, c’è un rischio concreto. Ci sono casi in cui amministratori sono stati condannati perché, ad esempio, pochi giorni prima di portare i libri in tribunale, pagarono un fornitore amico. Anche se non l’hanno fatto per malizia ma per pressione dell’amico, la legge lo vede come danno ad altri creditori.

D: Dopo un concordato o fallimento, l’imprenditore persona fisica rimane con debiti?
R: Dipende. Se era una società di capitali a fallire o concordare, la società viene liquidata o esce dalla procedura e i soci non hanno più nulla a pretendere né a pagare (salvo appunto garanzie personali). La società di capitali cessata non ha “debiti residui” giuridicamente esigibili – cessa essa stessa. Il problema è per l’imprenditore individuale o i soci illimitatamente responsabili (snc, sas): nel concordato preventivo, se omologato e adempiuto, anche i creditori personali di soci di SNC ne beneficiano limitatamente al soddisfo ottenuto (non li libera dal resto, in realtà, se non è previsto). Nel fallimento (liquidazione giudiziale) di un imprenditore individuale o di soci illimitati, c’è l’istituto dell’esdebitazione: una volta chiusa la procedura, il debitore persona fisica può chiedere al tribunale di essere liberato dai debiti concorsuali rimasti insoddisfatti (eccetto obblighi alimentari, risarcimenti danni da illecito extracontrattuale e poche altre eccezioni). Se concesso – e di solito lo è se il fallito ha collaborato e non ha frodi – quei debiti residui non sono più esigibili (art. 278 CCII). Novità del CCII: anche il debitore persona fisica non fallibile (sovraindebitato) ha una procedura di esdebitazione del debitore incapiente: può essere liberato dai debiti senza neanche attivo, purché meritevole, una tantum nella vita. Quindi, l’imprenditore persona fisica può rinascere pulito. Il socio di SNC invece se la SNC fallisce, fallisce pure lui e dunque segue lo stesso percorso: chiusura e esdebitazione (se meritevole).
Per un imprenditore che passa da concordato, il discorso è: il concordato omologato vincola i creditori per la parte eccedente quanto previsto (quindi la società ne esce netta). Se è persona fisica e paga solo una percentuale in concordato, sui debiti restanti c’è un effetto esdebitatorio implicito nell’omologa – anche se la legge non lo dice esplicitamente, di fatto i creditori non possono più pretendere oltre il concordato (perché il concordato ha efficacia novativa). Dunque, dopo un concordato persone fisiche e società non hanno più l’obbligo di pagare il residuo (diversamente che in accordo di ristrutturazione, dove i non aderenti se non soddisfatti restano col diritto integro – ma di solito li paghi per intero).
In breve: con le procedure giuste, sì, un imprenditore onesto può avere la fresh start – nuova partenza senza il fardello del debito passato.

D: Quali sono i segnali che devo monitorare per capire se la mia azienda è in “crisi” secondo la legge?
R: Il Codice della Crisi e gli indici del CNDCEC indicano alcuni parametri quantitativi di allerta. Tra i principali: – DSCR (Debt Service Coverage Ratio) a 6 mesi < 1: cioè la capacità di cassa prospettica di coprire i debiti a scadenza 6 mesi. Se il DSCR, calcolato secondo certi schemi, è sotto 1, è segnale di probabile crisi (non generi abbastanza cash per ripagare il debito imminente). – Indice di sostenibilità oneri finanziari: rapporto fra flusso di cassa operativo e oneri finanziari. Se non riesci a pagare gli interessi col margine operativo, è un brutto segno. – Indice di liquidità (rapporto attivo a breve vs passivo a breve) << 1: se è troppo basso, vuol dire che potresti non far fronte alle obbligazioni correnti. – Ritardi nei pagamenti reiterati: ad esempio, se non paghi stipendi, contributi, tributi oltre certi limiti (nel 2021 erano: debiti fiscali > 30k e >10% attivo stato patrimoniale, debiti INPS > la metà di due mensilità contributive, ecc. – poi quegli indici sono stati un po’ sospesi e rimodulati). In pratica, accumulo di arretrati fiscali e contributivi è segnale forte di crisi. – Perdite a bilancio che erodono il patrimonio netto: se perdi più del terzo del capitale e negli anni successivi non recuperi, attenzione. Se addirittura vai sotto zero, sei legalmente in stato di scioglimento e devi intervenire subito (ricapitalizzare o liquidare). – Eventi esterni: revoca fidi bancari, pignoramenti subiti, fidi bloccati dai fornitori (richiesta pagamenti anticipati) – anche senza guardare indici numerici, questi fatti indicano che la piazza percepisce la tua difficoltà. La legge impone agli amministratori di attivare assetti per rilevare questi segnali. Quindi, ad esempio, predisporre un budget di tesoreria periodico per vedere se a 6-12 mesi hai buchi di cassa, monitorare l’andamento di fatturato e margini, analizzare il Bilancio con indici di leva finanziaria e liquidità. Se emergono squilibri persistenti, devi agire.
In pratica: se ogni mese rincorri stipendi e fornitori, tiri sui fidi al massimo, e vedi che l’anno prossimo dovrai rinnovare mutui e non sai come, la crisi c’è. Non aspettare l’ultimo giorno per cercare aiuto.
Gli indici ministeriali di allerta, elaborati dal Consiglio dei Dottori Commercialisti, variano per settore e dimensione ma includono ad esempio: EBITDA su oneri finanziari, Patrimonio netto negativo, etc. Anche un Patrimonio Netto negativo o sotto il capitale sociale è un allarme rosso.

D: In caso di fallimento, l’ex amministratore può continuare a fare l’imprenditore?
R: Se fallisce una società, i suoi amministratori non vengono automaticamente sanzionati con divieti (a meno che siano anche soci illimitatamente responsabili). Tuttavia, se dall’esito del fallimento emergono condotte scorrette, potrebbero subire pene accessorie da eventuali condanne penali (es. l’interdizione dall’esercizio di impresa o di amministrare società, in caso di condanna per bancarotta fraudolenta, può arrivare fino a 10 anni). Inoltre, il nuovo Codice della Crisi prevede che se un soggetto è stato amministratore di una società poi fallita, la successiva riabilitazione dipende dalla chiusura del fallimento e dall’esdebitazione. Non c’è un istituto di incapacità civile come una volta (nel vecchio RD 267/42 c’era l’interdizione dai pubblici uffici durante il fallimento per il fallito). Oggi la persona fisica fallita non ha più quelle interdizioni civili (può votare, etc.), e può, in teoria, aprire una nuova attività. Ma nella pratica: ottenere credito o fiducia dopo un fallimento è arduo (la storia rimane nella Centrale Rischi e registro imprese per un po’).
Attenzione però: l’art. 250 CCII prevede che se un imprenditore individuale fallisce, per i successivi 5 anni eventuali nuovi fallimenti di imprese riconducibili a lui potranno essere cumulati (insomma, c’è vigilanza su recidiva). Per gli amministratori di società fallite, non c’è impedimento formale ad amministrare nuove società, salvo se dichiarati “inabilitati” dal tribunale civile o interdetti penalmente. Quindi, salvo provvedimenti giudiziari, un ex amministratore può, finito il fallimento, tornare in pista.
Nel concordato preventivo, addirittura, non c’è stigma giuridico: amministrare una società che ha fatto concordato non ti impedisce di amministrarne altre.
Ricapitolando: dopo il fallimento, se l’amministratore non ha pendenze penali, può continuare a fare l’imprenditore (salvo la difficoltà pratica di trovare partner e credito). È comunque consigliabile, nel caso, usare figure diverse o nomi diversi almeno inizialmente, per non attirare diffidenza. E molti preferiscono attendere l’esdebitazione e la chiusura definitiva prima di lanciarsi in nuove avventure.

D: Quali sono gli errori più comuni che commettono gli imprenditori in crisi che dovrei evitare?
R: Eccone alcuni: – Negare la crisi e aspettare troppo a lungo prima di cercare aiuto. Questo porta spesso a perdere le opzioni di risanamento precoce (ad esempio un piano attestato funziona se ci sono ancora basi sane; se aspetti di avere i macchinari pignorati, è tardi). Il nuovo obbligo di adeguati assetti serve proprio a evitare ciò – non ignorare i sintomi. – Finanziare la crisi con debiti erariali (non pagando IVA, contributi) o con debiti personali (mettendo ipoteche sulla casa, chiedendo prestiti usurai): nel breve sembra aiutare, nel medio ti ritrovi con un buco fiscale gigantesco e magari rovine personali. Meglio affrontare la ristrutturazione apertamente che tamponare con soluzioni che aggravano il debito “cattivo”. – Favorire alcuni creditori (es. parenti, amici, fornitori personali) con pagamenti preferenziali sotto banco. Abbiamo visto che questo può portare a revoche e reati. Invece cerca una soluzione equa e legale per tutti. – Distrarre beni dell’azienda pensando di salvarli: es. spostare macchinari a un’altra società di famiglia o svuotare il magazzino. Oltre ad essere eticamente discutibile, è quasi sempre scoperto dal curatore e costituisce bancarotta fraudolenta. Molti imprenditori si sono trovati in guai penali per aver “pensato di portarsi avanti” salvando furgoni o attrezzature. – Non tenere le scritture contabili in ordine: alle volte per disperazione smettono di registrare le fatture o di fare bilanci. Questo peggiora tutto: i creditori/giudici interpreteranno la mancanza di contabilità come volontà di nascondere. Mantieni contabilità aggiornata anche nella tempesta, e se vai in default almeno saprai presentare i numeri chiari (può risparmiarti accuse). – Evitare il confronto con professionisti per risparmiare: comprensibile voler non spendere soldi in consulenti quando già mancano. Ma gestire una crisi senza esperto è come operarsi da soli: molto pericoloso. Un buon advisor magari costa, ma ti fa risparmiare di più trovando la via giusta e evitando errori costosi. – Ignorare le posizioni personali: non considerare che la crisi aziendale può travolgere anche il patrimonio familiare. Bisogna invece parallelamente proteggere il nucleo familiare legalmente (valutare fondo patrimoniale per la casa, etc., se ancora possibile con anticipo, e soprattutto non indebitare la famiglia oltre la soglia di recupero). Pianifica con il consulente anche uno scenario worst-case per te come persona. – Comunicare male: non informare banche e partner, o peggio mentire, fa perdere credibilità. Molti imprenditori in crisi smettono di rispondere alle chiamate, scappano dai creditori: ciò esaspera gli animi. È difficile, ma spesso un approccio trasparente (“ho problemi, sto lavorando a una soluzione, datemi tempo”) può ottenere più tolleranza che sparire. Ovviamente va calibrato cosa dire a chi (meglio con supporto legale). – Continuare a contrarre debiti sapendo di non poterli onorare: c’è una linea sottile tra sperare in una ripresa e frodare i creditori. Se accetti ordini o forniture quando ormai sai che probabilmente non pagherai, rischi accuse di truffa o comunque ti pregiudichi eventuali futuri accordi (chi si sente ingannato poi non vota il concordato). Quindi, se sei in crisi nera, limita le nuove esposizioni e anzi prediligi accordi di pagamento anticipato per cose nuove, per non creare “vittime” fresche. – Non rispettare le condizioni delle procedure scelte: ad esempio, depositare domanda di concordato e poi non presentare il piano nei termini – questo porta a fallimento quasi sicuro e perdi fiducia del tribunale. Oppure ottenere misure protettive e poi violare i doveri informativi verso il giudice o l’esperto – rischi che le revochino. Quindi, una volta scelta una strada, segui le regole alla lettera.

Evitando questi errori e seguendo i consigli di chi ha competenza in crisi d’impresa, aumentano le chance di uscirne senza strascichi insostenibili.

Esempi pratici di gestione della crisi (casi ipotetici)

Per meglio comprendere l’applicazione concreta dei concetti esposti, ecco alcuni scenari simulati riguardanti un’azienda manifatturiera (come la nostra ipotetica produttrice di guarnizioni O-Ring) in situazione di crisi, con le possibili azioni intraprese e gli esiti conseguenti.

Caso 1: Ristrutturazione negoziale con successo
Situazione: Alfa S.r.l., 40 dipendenti, produce guarnizioni industriali. Ha accumulato 500.000 € di debiti: 200k con Banca X (mutuo e fido), 150k con fornitori, 100k di IVA arretrata e 50k verso l’INPS (contributi non versati). Il fatturato è in calo ma l’azienda ha ancora commesse; soffre principalmente di un calo temporaneo e di un investimento sbagliato su un macchinario. Il patrimonio netto è sceso ma è positivo (capitale 100k, PN residuo 30k). I segnali di allerta ci sono (DSCR < 1). Gli amministratori attivano subito la Composizione Negoziata cercando di prevenire l’insolvenza conclamata. Ottengono misure protettive: i fornitori sospendono le azioni legali (avevano minacciato decreti ingiuntivi). Con l’aiuto dell’esperto negoziano: – Banca X accetta di allungare il mutuo di 5 anni e lascia il fido aperto per liquidità, in cambio di ipoteca su capannone e garanzia Confidi. – I fornitori, vedendo il coinvolgimento di un esperto, accettano all’unanimità un piano di rientro: 50% dei debiti in 12 mesi (finanziati da nuovo ordine in arrivo) e il restante 50% in ulteriori 12 mesi; rinunciano a interessi moratori. – Con l’Agenzia Entrate, l’azienda sfrutta l’art. 23 CCII: propone di versare 40k (su 100k di IVA) in 24 rate e stralciare 60k tra sanzioni e quota imposta; l’accordo transattivo è omologato dal tribunale . – L’INPS, all’interno di questo, concede una dilazione straordinaria di 5 anni per i contributi senza sanzioni (misura premiale art. 25-bis CCII) . Dopo 4 mesi di trattative, si firma un accordo quadro omnicomprensivo: tutti i creditori concordano le nuove scadenze/riduzioni. L’esperto chiude con esito positivo. Alfa S.r.l. nei mesi seguenti rispetta il piano: paga fornitori e fisco secondo accordo, grazie anche al fatto che la banca non ha chiuso i rubinetti (anzi, ha concesso 50k di nuovo finanziamento in prededuzione ex DL 118/2021 con garanzia statale). L’azienda evita il fallimento, i posti di lavoro sono salvi, e dopo 2 anni i debiti arretrati sono pressoché estinti. Gli amministratori non subiscono azioni legali né responsabilità, anzi hanno adempiuto al dovere di salvaguardia tempestiva. – Questo caso mostra la migliore delle ipotesi: crisi affrontata per tempo con strumenti negoziali, sacrifici spalmati (fornitori e fisco rinunciano a qualcosa ma ottengono il resto), continuità aziendale preservata.

Caso 2: Concordato preventivo in continuità
Situazione: Beta S.r.l., 15 dipendenti, guarnizioni O-ring speciali per automotive. Un suo importante cliente estero fallisce, lasciandole insoluti e facendo crollare il 50% del fatturato. Beta si ritrova con insolvenza: 800k di debiti, zero utili, cassa quasi esaurita. Prova a vendere prodotti su nuovi mercati ma ci vuole tempo. I fornitori iniziano a non essere pagati, l’INPS notifica avvisi per contributi non versati da 6 mesi, due ex-dipendenti licenziati avviano decreti ingiuntivi per TFR. Gli amministratori, riconosciuta l’impossibilità di accordo stragiudiziale (troppi creditori e non c’è liquidità subito), depositano un ricorso per concordato preventivo “in bianco” (con riserva). Il tribunale ammette la procedura e concede misure protettive immediate, congelando i decreti ingiuntivi e pignoramenti in corso. In 60 giorni, Beta presenta un piano di concordato in continuità: prevede che l’attività prosegua, magari ridimensionata, e che un investitore (Gamma S.p.A.) apporti 300k € freschi in cambio del 60% delle quote. Con questi soldi e con i flussi attesi da nuovi ordini (c’è una trattativa con un cliente sostitutivo), Beta propone di pagare: – I dipendenti e INPS al 100% (interamente, con parte subito grazie all’intervento del Fondo di Garanzia per TFR). – Il Fisco al 30% del suo credito chirografo (IVA insoluta) in 2 anni . – Le banche mantenute ai patti (hanno garanzie su macchinari, vengono rimborsate per intero ma a scadenze prorogate). – I fornitori chirografari al 35% in 4 anni (rate semestrali), stimando che in fallimento avrebbero preso meno del 10%. Il professionista attestatore giura sulla fattibilità: l’investitore Gamma è solido e condiziona l’ingresso all’omologazione del concordato (vuole azienda “pulita” da debiti). Nella votazione, i creditori approvano a larga maggioranza (banche e dipendenti favorevoli, Fisco si esprime contrario perché 30% gli sembra poco; tuttavia, grazie alla nuova normativa, il tribunale potrà omologare lo stesso visto che il 30% è sopra la soglia minima e comunque meglio di quanto il Fisco otterrebbe dalla liquidazione ). Le classi di fornitori votano 70% sì, 30% no, ma il concordato passa perché raggiunge le maggioranze. In sede di omologa, un fornitore dissenziente fa opposizione sostenendo che il 35% in 4 anni è troppo poco; il tribunale però, vista la maggioranza favorevole e la convenienza rispetto al fallimento, omologa il concordato. Gamma immette i 300k di equity, i creditori iniziano a ricevere i pagamenti. Beta S.r.l. continua l’attività, ridotta ma profittevole, sotto la nuova proprietà. Dopo 4 anni, tutti i pagamenti concordatari sono eseguiti e il tribunale dichiara eseguito il concordato e chiude la procedura. Gli amministratori originari – che sono usciti dalla società cedendo le quote a Gamma – non vanno incontro a azioni di responsabilità (il concordato li ha di fatto “salvati” da possibili richieste: i creditori hanno accettato quell’esito transattivo). Non ci sono state bancarotte, anzi i pagamenti avvenuti durante il concordato erano legittimi (alcuni fornitori essenziali furono pagati anticipatamente su autorizzazione, senza incorrere in reati) . – Questo scenario evidenzia l’uso del concordato come strumento di risanamento con l’ingresso di un investitore e sacrificio parziale dei creditori. L’esito positivo richiede un piano credibile e il contributo di terzi.

Caso 3: Liquidazione giudiziale con azioni di responsabilità
Situazione: Omega S.r.l., 10 dipendenti, in crisi nera per perdita di commesse e inefficienze. Gli amministratori attendono troppo sperando in una vendita miracolosa dell’azienda che non si concretizza. Nel frattempo, non pagano per mesi contributi e IVA, né fornitori. Arrivano pignoramenti, il conto è vuoto, la produzione ferma. Un gruppo di fornitori (crediti per 100k) presenta istanza di fallimento. Omega S.r.l. è chiaramente insolvente: debiti 500k, attivo forse 100k di macchinari usati e crediti insoluti. Gli amministratori non si oppongono (anche perché non hanno un piano alternativo). Il tribunale dichiara la liquidazione giudiziale (fallimento) di Omega. Un curatore prende possesso: scopre che nell’ultimo anno gli amministratori, pur di tirare avanti, hanno venduto a prezzi stracciati alcuni macchinari a un’altra azienda (riconducibile a un parente di un amministratore) e usato il ricavato per pagare solo la banca locale (dove l’amministratore aveva anche il mutuo personale). Inoltre, la contabilità è un disastro: gli ultimi bilanci non redatti, molte scritture mancanti. Il curatore comunque ricostruisce: patrimonio netto era diventato negativo un anno prima del fallimento, e quell’anno di ritardo ha generato ulteriori 200k di debiti. Egli avvia: – Un’azione di responsabilità contro gli amministratori chiedendo 200k€ di danni, basandosi sull’art. 2486 c.c. (violazione dovere conservativo, presunzione di danno pari all’aggravamento del deficit) . – Un’azione revocatoria per le vendite di macchinari: ottiene che l’azienda collegata li restituisca o paghi la differenza di valore (erano venduti sottocosto). – Sul piano penale, segnala al PM: questi ravvisa bancarotta fraudolenta (distrazione, preferenza alla banca, documenti contabili spariti). Gli amministratori vengono rinviati a giudizio. – I creditori, alla fine, recuperano solo 20% dal fallimento (il curatore recupera qualcosa dalle revocatorie, vende i beni, incassa crediti, poi ripartisce). – Gli amministratori si trovano a dover risarcire con il loro patrimonio: il tribunale civile li condanna per 150k (danno ridotto perché provano che 50k erano già persi comunque). Inoltre, in sede penale, patteggiano 3 anni di reclusione (con sospensione condizionale, ma subiscono l’interdizione dall’impresa per 5 anni). – Uno dei soci amministratori, avendo anche garanzie personali su debiti bancari, viene escusso e si ritrova in proprio fallito (estensione di fallimento a socio illimitato, ipotesi non esclusa se fosse socio di fatto, o altrimenti la banca lo fa pignorare). Esdebitazione: Omega S.r.l. cessa di esistere (cancellata), gli amministratori ovviamente restano debitori per le condanne e rischiano il loro patrimonio personale. Non c’è esdebitazione per loro perché riguarda la società (che è cessata e non ne ha bisogno) e per loro come persone fisiche la procedura non li ha coinvolti (erano amministratori, non imprenditori individuali falliti). Di fatto, i loro debiti personali (in primis verso i creditori sociali per danni) permarranno finché non li pagano o trovano accordi individuali. – Questo caso mostra il lato peggiore: tardiva reazione porta al fallimento disordinato, e gli amministratori ne subiscono tutte le conseguenze negative (azioni risarcitorie e penali).

Caso 4: Sovraindebitamento del socio garante
Situazione: Tizio è socio e amministratore di Delta S.r.l., piccola impresa artigiana. Delta S.r.l. accumula debiti e finisce in liquidazione giudiziale. I creditori sociali chirografari non prendono nulla, le banche incassano parzialmente realizzando i pegni su beni. Tizio aveva però firmato fideiussioni per 200k di finanziamenti bancari. Le banche, dopo escussione del fallimento, rimangono con un residuo di 120k e aggrediscono Tizio. Inoltre Tizio ha 50k di debiti personali (carta credito, finanziamento auto). Tizio, senza più l’azienda e disoccupato, non può pagare 170k € di debiti personali totali. Si rivolge all’OCC (Organismo Composizione Crisi) e attiva una procedura di sovraindebitamento come consumatore (poiché i debiti gli derivano da garanzie e spese personali, e lui ora non è imprenditore). Propone ai creditori un piano del consumatore: ha solo una casa modesta (bene impignorabile se ci abita e di valore contenuto) e uno stipendio nuovo di 1.500 €/mese. Offre di pagare in 5 anni il 30% dei debiti utilizzando il suo reddito disponibile (detratte spese di sostentamento). Le banche votano (oggi nel concordato minore c’è voto, nel piano del consumatore vecchia maniera no – ma supponiamo nella nuova disciplina presentata come concordato minore). Il tribunale omologa il piano di sovraindebitamento. Tizio paga per 5 anni le rate stabilite. Al termine, ottiene l’esdebitazione: le parti di debito non pagate sono cancellate. In questo modo, le garanzie personali non lo condannano a vita: dopo la sfortunata vicenda societaria, può ripartire da zero (pur avendo perso l’investimento nella società e soldi, almeno salva la casa e non ha più debiti inestinguibili). – Questo scenario parallelo indica che anche quando la società non si salva, ci sono strumenti per salvare l’uomo.

Questi esempi evidenziano l’importanza di: – agire con tempestività e secondo legge (casi 1 e 2 positivi), – comprendere i rischi di non far nulla (caso 3 negativo), – e ricordare che esistono vie per l’fresh start personale (caso 4).

Conclusioni

Affrontare una situazione di sovraindebitamento aziendale è un compito arduo, ma la normativa italiana offre oggi un ventaglio di strumenti avanzati che, se ben utilizzati, consentono all’imprenditore onesto di difendersi dai creditori e di cercare di ristrutturare l’impresa o, nel peggiore dei casi, di liquidarla ordinatamente riducendo i danni. Dalla composizione negoziata della crisi – lo strumento più innovativo, flessibile e precoce – fino ai più tradizionali concordati preventivi e alla stessa liquidazione giudiziale, ogni soluzione ha i suoi pro e contro, le sue condizioni e le sue procedure da seguire attentamente.

Il filo conduttore, in ottica di “difesa” del debitore, è la tempestività e la buona fede. Tempestività nel riconoscere la crisi e nell’attivarsi (in ciò ora aiutano gli “adeguati assetti” e gli obblighi di segnalazione interna) – aspettare passivamente riduce le opzioni e aumenta il rischio di azioni aggressive dei creditori e responsabilità personali. Buona fede nel rapporto con i creditori e nelle procedure: utilizzare gli strumenti giuridici in modo trasparente, senza intenti dilatori abusivi, ma con l’obiettivo concreto di trovare un accordo equo o una soluzione sostenibile. Questo atteggiamento, oltre a essere eticamente corretto, viene premiato dal sistema: i tribunali e i creditori sono più disponibili ad accettare piani ragionevoli da parte di debitori cooperativi; inoltre le sanzioni (civili e penali) sono pensate per colpire chi dissipa o aggrava dolosamente, non chi cerca onestamente di rimediare.

Abbiamo esaminato le principali leve a disposizione: negoziazioni stragiudiziali (piani attestati, accordi ad hoc), procedure di composizione assistita (CNC, accordi di ristrutturazione omologati), procedure concorsuali (concordati, liquidazione giudiziale) e le tutele per l’imprenditore (limitazione della responsabilità, esdebitazione). Un’azienda indebitata deve spesso impiegare una combinazione di questi strumenti – ad esempio, negoziando con alcuni creditori in composizione negoziata e poi omologando un accordo, oppure presentando un concordato che includa una transazione fiscale.

Fondamentale è avvalersi di consulenti esperti in crisi d’impresa (legali, commercialisti, attestatori) e – nei casi più complessi – anche di manager specializzati in turnaround. La materia è altamente tecnica e in continua evoluzione (abbiamo citato sentenze fino al 2025 che cambiano equilibri, come quelle sul cram-down fiscale e sulla composizione negoziata ). Solo con un team competente il debitore potrà sfruttare appieno le opportunità offerte dalla legge ed evitare i tranelli. Ad esempio, capire quando è il momento giusto per passare da una composizione negoziata a un concordato (né troppo presto, né troppo tardi), oppure come trattare il credito erariale nel piano per evitare un veto – sono decisioni strategiche che richiedono visione legale e finanziaria.

Dal punto di vista giuridico avanzato, abbiamo visto come la giurisprudenza recente sia spesso andata incontro alle esigenze di conservazione dei valori aziendali: consentendo l’omologazione forzosa nonostante il diniego del Fisco , tutelando l’imprenditore che negozia (sospensione rate erariali , niente sequestro penale ), introducendo criteri presuntivi per facilitare l’azione contro chi ha agito tardivamente . Ciò traccia un quadro normativo in cui al debitore si chiede rigore e attivismo, ma in cambio gli si dà una seconda chance e una dignitosa gestione della crisi.

In definitiva, un’impresa produttrice di guarnizioni O-Ring (o qualsiasi PMI) indebitata ha oggi strumenti per difendersi legalmente: può congelare le pretese dei creditori mentre cerca un accordo, può ridurre l’ammontare dei debiti in base alla capacità di rimborso, può evitare che errori gestionali si traducano in condanne penali se adotta i percorsi giusti, e può proteggere almeno in parte il proprio patrimonio personale aderendo alle norme. Naturalmente, non ogni azienda potrà essere salvata – il diritto non fa miracoli economici – ma anche nei casi di inevitabile liquidazione, l’ordinamento mira a limitare i danni e dare un ordinato epilogo, anziché il caos delle esecuzioni individuali e la morte civile dell’imprenditore.

Per il debitore, la strategia vincente è quindi: conoscere i propri diritti e doveri (meglio ancora farsi assistere), comunicare e negoziare con i creditori sotto le ali protettive della legge, agire tempestivamente (anticipare i creditori in mosse come concordato o composizione negoziata), e mantenere la correttezza formale e sostanziale in ogni passo.

Facendo ciò, anche un momento drammatico come il sovraindebitamento aziendale può essere affrontato e superato, con l’auspicio di poter tornare a concentrarsi sull’innovazione e la produzione – magari di quelle stesse guarnizioni O-Ring – e lasciarsi alle spalle i debiti come un’esperienza di cui fare tesoro.

Fonti e Riferimenti

  • Codice Civile (artt. 2086, 2393-2394, 2476, 2482-bis/ter, 2484-2487, 2486) – modifiche ex D.Lgs. 14/2019 .
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, modificato da D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024): artt. 3-4, 13-24 (allerta, assetti, obblighi organi controllo); artt. 17-25-sexies (Composizione Negoziata) ; artt. 54-64 (Accordi di ristrutturazione) ; artt. 84-120 (Concordato preventivo) ; artt. 121-147 (Liquidazione giudiziale); artt. 268-277 (Concordato minore sovraindebitamento); artt. 278-282 (Esdebitazione).
  • Decreto Legge 118/2021 conv. L. 147/2021: introduzione Composizione Negoziata e Concordato semplificato .
  • DPR 602/1973 art. 36 – Responsabilità di liquidatori e amministratori per debiti tributari in liquidazione .
  • D.Lgs. 74/2000 – Reati tributari (omesso versamento IVA, ecc.).
  • Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) – disposizioni transitorie ancora rilevanti (es. art. 216, 217 bancarotta).
  • Sentenze e Giurisprudenza recente:
  • Cass. civ. Sez. I, ord. 27782/2024 – Concordato con transazione fiscale omologabile nonostante voto contrario Erario .
  • Cass. Sez. Un. 20036/2024 – Conferma omologazione forzosa transazione fiscale se condizioni di legge rispettate .
  • Cass. civ. Sez. Trib. 12174/2024 – Concordato sospende rateizzazioni fiscali in corso (mantenimento benefici) .
  • Cass. civ. Sez. I, ord. 4081/2023 – Conferma sospensione piani di dilazione durante concordato .
  • Cass. pen. Sez. III, sent. 30109/2025 – Misure protettive in composizione negoziata escludono periculum in mora per sequestro penale .
  • Cass. civ. Sez. Un. 9100/2015 – Criteri di quantificazione danno da continuazione abusiva attività (deficit fallimentare) .
  • Cass. civ. Sez. VI, ord. 17139/2023 – Nessuna responsabilità amm.re se perdita capitale poi colmata da aumento (nessun danno) .
  • Cass. civ. Sez. V, ord. 32790/2023 – Responsabilità ex art. 36 DPR 602/73 ha natura civilistica e non implica successione in debiti tributari .
  • Corte Giust. Trib. II grado Lombardia, sent. 752/2025 – Debiti fiscali società non si trasferiscono automaticamente su amministratori assenti condotte illecite .
  • Cass. pen. sez. V, sent. 37130/2013 – Amministratore risponde penalmente di omesso versamento ritenute (reato) .
  • Tribunale di Torino, sent. 573/2024 – Afferma responsabilità amministratore per omesso versamento contributi (profilo civile) .

La tua azienda che produce, importa o distribuisce guarnizioni O-ring, anelli in gomma NBR/EPDM/FKM/Viton, tenute in silicone, O-ring custom, kit assortiti, guarnizioni per oleodinamica, pneumatica, automotive, impianti industriali e manutenzione, oggi è schiacciata dai debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo

La tua azienda che produce, importa o distribuisce guarnizioni O-ring, anelli in gomma NBR/EPDM/FKM/Viton, tenute in silicone, O-ring custom, kit assortiti, guarnizioni per oleodinamica, pneumatica, automotive, impianti industriali e manutenzione, oggi è schiacciata dai debiti?
Stai ricevendo solleciti, richieste di rientro, blocchi delle forniture, decreti ingiuntivi, cartelle esattoriali o minacce di pignoramento da parte di banche, Fisco, INPS, fornitori di elastomeri o Agenzia Entrate-Riscossione?

Il settore delle guarnizioni O-ring è competitivo e impegnativo: materie prime in aumento, lotti minimi elevati, grandi scorte di magazzino, lavorazioni su misura, normative e test, clienti che pagano spesso a 60–120 giorni. Bastano pochi ritardi negli incassi per mettere in crisi la liquidità.

La buona notizia? L’azienda può essere salvata, se intervieni velocemente e con la strategia giusta.


Perché un’Azienda di O-Ring va in Debito

  • aumento dei costi di gomma tecnica, elastomeri, FKM, silicone, EPDM
  • pagamenti lenti da parte di rivenditori, manutentori e industrie
  • magazzino immobilizzato tra migliaia di misure di O-ring, kit e guarnizioni su richiesta
  • costi elevati di stampi, produzione e test qualità
  • concorrenza internazionale e margini compressi
  • riduzione o revoca di fidi bancari

Il problema reale non è la mancanza di ordini, ma la mancanza di liquidità immediata.


I Rischi se Non Intervieni Subito

  • pignoramento dei conti correnti aziendali
  • blocco dei fidi e delle linee bancarie
  • sospensione delle forniture di gomma, elastomeri e stampi
  • atti esecutivi, decreti ingiuntivi, precetti
  • sequestro di magazzino, guarnizioni, stampi e attrezzature
  • impossibilità di evadere ordini o fornire clienti strategici
  • perdita di rapporti commerciali importanti

Cosa Fare Subito per Difendersi

1. Bloccare immediatamente i creditori

Un avvocato specializzato può:

  • sospendere pignoramenti in corso
  • fermare richieste di rientro improvvise
  • proteggere conti correnti e flussi di cassa
  • bloccare le azioni dell’Agenzia Riscossione

Prima si mette in sicurezza l’impresa, poi si interviene sui debiti.


2. Analizzare i debiti ed eliminare quelli non dovuti

Molti debiti risultano irregolari:

  • interessi non dovuti
  • sanzioni sbagliate
  • importi duplicati
  • debiti prescritti
  • errori della Riscossione
  • commissioni e costi bancari anomali

Una parte significativa dell’esposizione può essere tagliata o cancellata.


3. Ristrutturare i debiti con un piano sostenibile

Le soluzioni più efficaci includono:

  • rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
  • accordi di rientro con fornitori strategici
  • rinegoziazione dei fidi bancari
  • sospensione temporanea dei pagamenti
  • accesso alle definizioni agevolate

4. Usare strumenti legali potentissimi che bloccano TUTTI i creditori

Quando la situazione è critica si può ricorrere a:

  • PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
  • Accordi di ristrutturazione
  • Concordato minore
  • (nei casi estremi) Liquidazione controllata

Queste procedure permettono all’azienda di continuare a lavorare pagando solo una parte del debito, sospendendo completamente pignoramenti e atti esecutivi.


Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo

Per salvare un’azienda della meccanica e della gomma servono competenze elevate.
L’Avv. Monardo è:

  • Avvocato Cassazionista
  • Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012), negli elenchi del Ministero della Giustizia
  • Professionista fiduciario di un OCC
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)

È uno dei profili più competenti in Italia per bloccare creditori, ristrutturare debiti e salvare aziende produttrici di guarnizioni e O-ring.


Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo

  • analisi immediata della tua esposizione debitoria
  • stop urgente ai pignoramenti
  • riduzione dei debiti non dovuti
  • ristrutturazione del debito con soluzioni sostenibili
  • protezione del magazzino, degli stampi e delle forniture critiche
  • trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
  • tutela completa dell’azienda e dell’amministratore

Conclusione

Avere debiti nella tua azienda di produzione di guarnizioni O-ring non significa essere destinati alla chiusura.
Con una strategia rapida, professionale e completamente legale, puoi:

  • fermare subito i creditori,
  • ridurre realmente i debiti,
  • salvare magazzino, produzione e clienti,
  • proteggere il futuro della tua impresa.

Agisci ora.

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Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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