Se la tua azienda produce, importa o distribuisce sistemi filtranti a osmosi, impianti ad osmosi inversa, filtri a membrana, cartucce filtranti, sistemi di depurazione, pompe, centraline, valvole e ricambi per settore industriale, trattamento acque, laboratori o uso professionale, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è essenziale intervenire subito per evitare fermi operativi e perdita di clienti strategici.
Nel settore della filtrazione e dell’osmosi inversa, ritardi nelle consegne possono bloccare impianti industriali, attività produttive e processi di depurazione, causando penali e danni reputazionali importanti.
Perché le aziende di sistemi filtranti a osmosi accumulano debiti
- aumento dei costi di membrane, pompe, elettronica e materiali tecnici
- rincari delle importazioni e della componentistica specializzata
- pagamenti lenti da parte di impiantisti, industrie e rivenditori
- ritardi nei versamenti IVA, imposte e contributi
- magazzini complessi con cartucce, membrane, pompe e componenti differenti
- difficoltà ad ottenere fidi bancari adeguati ai cicli di approvvigionamento
Cosa fare subito
- far analizzare professionalmente l’intero quadro debitorio
- individuare debiti che possono essere contestati, ridotti o rateizzati
- evitare piani di rientro insostenibili che peggiorano la liquidità
- richiedere la sospensione immediata di eventuali pignoramenti
- proteggere i rapporti con fornitori critici e componenti essenziali
- utilizzare strumenti legali per ristrutturare e rinegoziare i debiti in modo efficace
I rischi se non intervieni tempestivamente
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco delle forniture di membrane, filtri, pompe e ricambi fondamentali
- impossibilità di completare installazioni, manutenzioni o forniture programmate
- perdita di clienti industriali, impiantisti e partner commerciali
- rischio concreto di chiusura dell’attività
Come può aiutarti l’Avvocato Monardo
Detto questo, l’Avvocato Monardo, cassazionista, guida un team nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario.
Inoltre è:
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012)
- iscritto negli elenchi del Ministero della Giustizia
- professionista fiduciario presso un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Può intervenire concretamente per:
- bloccare pignoramenti e procedure esecutive
- ridurre o ristrutturare i debiti con gli strumenti legali più efficaci
- ottenere rateizzazioni realmente sostenibili
- proteggere magazzino, componenti, attrezzature e continuità operativa
- evitare la chiusura e condurre la tua azienda verso un vero risanamento
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Introduzione
Un’azienda che opera nel settore dei sistemi filtranti a osmosi e che si trova sommersa dai debiti si confronta con una situazione critica ma purtroppo sempre più comune. Negli ultimi anni, specialmente dopo la fine delle misure emergenziali post-pandemiche, le procedure concorsuali sono tornate ad aumentare in modo significativo: si è passati dai 7.848 fallimenti nel 2023 ai 9.194 del 2024 (+17,2%) . Le piccole e medie imprese (PMI) sono tra le più colpite e, rispetto al 2022, i casi di dissesto sono quasi triplicati, complici l’aumento dei costi energetici, l’incremento degli oneri finanziari e il deterioramento del contesto economico .
Di fronte a una crisi di liquidità e all’incapacità di far fronte regolarmente alle obbligazioni, è fondamentale che l’imprenditore sappia come difendersi dai creditori e quali strumenti l’ordinamento italiano mette a disposizione per gestire o risolvere il sovraindebitamento. Questa guida, aggiornata a ottobre 2025, offre una panoramica avanzata – ma con linguaggio comprensibile – delle soluzioni giudiziali e stragiudiziali disponibili per un’azienda debitrice, con un taglio pensato sia per professionisti legali sia per imprenditori e privati interessati. L’obiettivo è fornire, dal punto di vista del debitore, indicazioni pratiche su cosa fare per difendersi e come tutelare l’attività e il patrimonio, il tutto alla luce della normativa italiana vigente (in particolare del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, D.lgs. 14/2019 e successive modifiche) e della più recente giurisprudenza.
In questa guida troverete:
- Analisi delle tipologie di debiti che un’azienda può accumulare (fiscali, bancari, verso fornitori, leasing, contributivi, ecc.) e dei relativi rischi.
- Strumenti stragiudiziali di gestione della crisi (rinegoziazione privata del debito, piani di risanamento attestati, accordi di ristrutturazione, composizione negoziata della crisi, ecc.).
- Strumenti giudiziali di tutela e difesa del debitore (concordato preventivo, procedure di sovraindebitamento come il concordato minore, opposizioni a decreti ingiuntivi, sospensione delle azioni esecutive, ecc.).
- Approfondimenti su tecniche di protezione patrimoniale (beni impignorabili, fondo patrimoniale, limiti alle azioni esecutive sui beni dell’imprenditore, responsabilità personali degli amministratori e dei soci).
- Domande e risposte frequenti (FAQ) con casi pratici e simulazioni, per chiarire i dubbi più comuni dall’ottica del debitore.
- Tabelle riepilogative che confrontano le caratteristiche dei vari strumenti giuridici, per una rapida consultazione delle opzioni disponibili.
Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono riportate in fondo alla guida, nella sezione Fonti e Riferimenti, per consentire ulteriori approfondimenti su leggi, sentenze e dati menzionati. Data la natura avanzata dell’argomento, verranno utilizzati termini giuridici precisi (es. par condicio creditorum, prededuzione, decreto ingiuntivo, concordato preventivo, ecc.), spiegandone comunque il significato in modo divulgativo quando necessario.
Importante: Agire per tempo è spesso decisivo. La normativa attuale incoraggia l’emersione anticipata della crisi e l’adozione di misure tempestive di ristrutturazione . Ignorare i segnali di insolvenza o rinviare le decisioni può aggravare le responsabilità degli amministratori e ridurre le chance di salvataggio dell’impresa. Viceversa, conoscere e attivare gli strumenti di tutela disponibili può permettere alla nostra azienda di sistemi filtranti a osmosi di negoziare con i creditori, evitare il tracollo finanziario e magari tornare in bonis (risanata), oppure quantomeno di gestire una liquidazione ordinata minimizzando gli impatti su patrimonio personale e famiglia.
Passiamo dunque ad esaminare le varie tipologie di debiti che un’azienda può trovarsi ad affrontare e, a seguire, gli strumenti di difesa specifici per ciascuna situazione.
Tipologie di debiti aziendali e relativi rischi
Una corretta strategia di difesa parte dall’analisi della natura dei debiti accumulati dall’azienda. Non tutti i debiti infatti sono uguali: a seconda che si tratti di debiti fiscali, bancari, commerciali o verso i dipendenti, cambiano i creditori coinvolti, le tutele di cui godono, le possibili azioni esecutive che possono intraprendere e gli strumenti di composizione più adatti. Di seguito esaminiamo le principali categorie di debito di un’azienda in crisi e i relativi rischi.
Debiti fiscali e contributivi
I debiti fiscali includono somme dovute all’Erario (allo Stato) per imposte non versate – ad esempio IVA, IRPEF trattenuta ai dipendenti, IRES, imposte locali – nonché le relative sanzioni e interessi. I debiti contributivi riguardano invece omessi versamenti agli enti previdenziali e assistenziali (INPS, INAIL, casse professionali) per contributi obbligatori dei lavoratori o dei titolari. Queste forme di debito hanno alcune caratteristiche peculiari:
- Creditori pubblici privilegiati: Lo Stato e gli enti previdenziali godono di privilegio generale sui beni mobili del debitore (ex art. 2752 c.c. per i tributi e art. 2753 c.c. per i contributi). Ciò significa che, in caso di concorso tra creditori, le loro pretese vengono soddisfatte con precedenza rispetto ai creditori chirografari (non privilegiati). Inoltre, su alcuni beni immobili dello società il Fisco può iscrivere ipoteca a garanzia del credito tributario. Ad esempio, Agenzia delle Entrate-Riscossione (già Equitalia) spesso iscrive ipoteca sugli immobili del debitore per tutelare crediti fiscali e previdenziali .
- Procedure di riscossione speciali: I debiti fiscali e contributivi vengono normalmente accertati con cartelle esattoriali o avvisi di addebito. Trascorsi i termini senza pagamento, l’Agente della Riscossione può procedere con misure esecutive amministrative, spesso più rapide delle ordinarie vie giudiziali. Ad esempio, può disporre fermo amministrativo di veicoli, pignoramento di stipendi e conti correnti, iscrizione di ipoteche e, in certi casi, esecuzione immobiliare. Va segnalato che la legge pone limiti al pignoramento della “prima casa” da parte del Fisco: se il contribuente possiede un solo immobile adibito a sua abitazione principale, non di lusso, l’Agenzia non può ipotecarlo né espropriarlo salvo che il debito superi determinate soglie (circa 120.000 €) e ricorrano specifiche condizioni . Questa tutela però vale solo verso i crediti fiscali: un creditore privato (es. banca o fornitore) può pignorare anche l’unica casa del debitore (salvo che questa sia protetta da un fondo patrimoniale, tema di cui diremo più avanti).
- Possibili piani di rateazione o “rottamazione”: Per i debiti fiscali, prima di attivare strumenti concorsuali, è spesso consigliabile verificare la possibilità di soluzioni amministrative. L’Agenzia delle Entrate-Riscossione consente di rateizzare i carichi iscritti a ruolo (in genere fino a 72 rate mensili, o 120 rate in casi di comprovata difficoltà), evitando così azioni esecutive finché si rispettano i pagamenti. Inoltre, periodicamente il legislatore ha introdotto misure di definizione agevolata dei debiti tributari – le cosiddette rottamazioni delle cartelle – permettendo di pagare l’importo dovuto senza sanzioni e interessi. Ad ottobre 2025, ad esempio, sono in corso le scadenze della “Rottamazione-quater” prevista dalla Legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) per le cartelle dal 2000 al 2017. Tali strumenti possono alleggerire il peso del debito fiscale ed evitare contenziosi, ma richiedono comunque liquidità per rispettare le rate.
- Conseguenze penali: Alcuni debiti fiscali, se particolarmente gravi, possono esporre l’amministratore a responsabilità penali. È il caso, ad esempio, dell’omesso versamento di IVA per importi superiori a una certa soglia annuale (attualmente 250.000 €), dell’omesso versamento di ritenute dovute sui redditi dei dipendenti oltre 150.000 €, o dell’omessa presentazione delle dichiarazioni se le imposte evase superano i limiti di legge (D.Lgs. 74/2000). In contesti di difficoltà finanziaria, può capitare che l’imprenditore scelga di pagare fornitori e stipendi e di rinviare i versamenti fiscali per far fronte alle spese correnti; ciò però, se protratto, può sfociare in reati tributari. Pertanto, una parte della difesa in presenza di ingenti debiti fiscali consiste anche nell’evitare condotte omissive ripetute che possano oltrepassare la soglia del penalmente rilevante.
In sintesi, i debiti verso l’Erario e gli enti previdenziali costituiscono un fronte particolarmente insidioso: i creditori pubblici dispongono di armi affilate (dalle iscrizioni di ipoteca ai pignoramenti diretti, fino alle denunce penali nei casi più seri) e godono di status privilegiato nelle procedure concorsuali. Tuttavia, come vedremo, esistono strumenti dedicati anche per trattare con il Fisco nel contesto di un risanamento (es. la transazione fiscale all’interno di un concordato preventivo, o il cram-down tributario nei nuovi accordi di ristrutturazione) .
Debiti bancari e finanziari (mutui, fidi, leasing)
La seconda macro-categoria è quella dei debiti bancari e finanziari, che tipicamente includono:
- Mutui e finanziamenti contratti con banche o società finanziarie.
- Scoperti di conto corrente e fidi bancari utilizzati dall’azienda e non rientrati.
- Leasing finanziari per macchinari, automezzi o immobili (canoni impagati e penali in caso di risoluzione).
- Garanzie escusse: fideiussioni o avalli prestati dall’azienda (o dal suo titolare) in favore di terzi e che la banca ha escusso, trasformandoli in debito diretto.
Questi debiti presentano peculiarità e rischi specifici:
- Presenza di garanzie reali o personali: Spesso i debiti bancari sono assistiti da garanzie. Nel caso di mutui ipotecari, l’immobile dato in garanzia può essere sottoposto a esecuzione forzata mediante espropriazione immobiliare se le rate non vengono pagate. Allo stesso modo, per finanziamenti su beni strumentali in leasing o con patto di riservato dominio, il creditore può rivendicare la restituzione del bene e chiedere il risarcimento del residuo credito (la differenza tra il debito e quanto ricavato dalla vendita del bene). Inoltre, non è raro che l’imprenditore (o i soci) abbiano firmato fideiussioni personali a garanzia di linee di credito bancarie dell’azienda: ciò significa che, in caso di insolvenza della società, la banca potrà rivalersi direttamente anche sul patrimonio personale del garante (casa, conto bancario, stipendio), ampliando il fronte di rischio.
- Azioni legali rapide (decreto ingiuntivo, risoluzione del contratto): Le banche e le società di leasing solitamente dispongono di documentazione contrattuale idonea per ottenere in tempi brevi un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. Ad esempio, il saldo di un conto corrente affidato o l’importo di rate scadute di mutuo risultano da estratti conto e contratti notarili: su queste basi l’istituto di credito può chiedere al giudice un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ex art. 642 c.p.c., che non richiede di attendere 40 giorni e consente di iniziare subito il pignoramento (salvo che il debitore ottenga una sospensione in sede di opposizione). Nel caso del leasing, spesso il contratto prevede che bastino due canoni non pagati per la risoluzione automatica: il concedente può riprendere possesso del bene e successivamente agire per il recupero del credito residuo.
- Rischio di segnalazioni e revoca fidi: Quando un’azienda è in sofferenza verso la banca, oltre alle azioni giudiziarie c’è il rischio della segnalazione a Centrale Rischi (presso Banca d’Italia) come “sofferenza” o posizione deteriorata, cosa che compromette la reputazione creditizia e l’accesso ad ulteriori finanziamenti. Inoltre, le banche possono revocare gli affidamenti e gli scoperti di conto corrente, chiedendo il rientro immediato. Questo effetto domino finanziario può aggravare la crisi di liquidità dell’impresa. Pertanto, il debitore dovrebbe, per quanto possibile, giocare d’anticipo negoziando con la banca una ristrutturazione del debito prima che la situazione degeneri (ad esempio, concordando una moratoria, un allungamento del piano di ammortamento del mutuo, la sospensione temporanea dei pagamenti – come avvenuto per molti nel periodo Covid). Va segnalato che esistono Accordi ABI o normative ad hoc che in certi periodi consentono moratorie generalizzate sui mutui alle PMI, ma al di fuori di questi contesti straordinari, serve la disponibilità della banca caso per caso.
- Posizione nel concorso tra creditori: In caso di procedura concorsuale (concordato, fallimento/liquidazione giudiziale), i crediti bancari garantiti da ipoteca o pegno sono crediti privilegiati (cosiddetti creditori prelatizi), e quindi hanno diritto di essere pagati con prelazione sul ricavato dei beni dati in garanzia. Questo significa che, ad esempio, la banca con ipoteca sul capannone dell’azienda verrà soddisfatta sul ricavato della vendita di quel capannone fino a concorrenza del proprio credito, prima che il residuo vada ai creditori chirografari. I crediti bancari chirografari (non garantiti) concorrono invece in pari grado con gli altri creditori non privilegiati: potranno essere oggetto di falcidia nei piani di ristrutturazione (cioè pagati in percentuale ridotta). Un caso particolare sono i debiti da derivati o altri strumenti finanziari eventualmente stipulati dall’azienda: in caso di risoluzione anticipata possono generare importi elevati a debito o credito. Se a debito, rientrano tra i chirografari salvo che sia stato previsto un collaterale a garanzia.
In definitiva, i debiti verso banche e finanziarie richiedono un’attenta gestione delle garanzie. Dal punto di vista difensivo, l’imprenditore dovrà valutare se vi sono margini per rinegoziare il debito (es. trasformare uno scoperto di conto in un mutuo rateale, ottenere una moratoria, ecc.), oppure se sia opportuno includere i crediti bancari in una procedura concorsuale per congelarli e trattarli in modo collettivo (nei limiti consentiti dalla legge, ad esempio proponendo un pagamento parziale in concordato). Bisogna anche considerare l’impatto di eventuali fideiussioni personali: in una strategia di difesa complessiva, proteggere il patrimonio personale del garante diventa fondamentale, come vedremo nella parte sui rimedi patrimoniali (ad es. ricorrendo a un fondo patrimoniale o altre forme di segregazione ex ante).
Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali
Un’azienda manifatturiera o commerciale – come quella di sistemi filtranti a osmosi – accumula facilmente debiti verso fornitori di materie prime, componenti, servizi di logistica, utenze, ecc. Questi debiti rientrano nella categoria generale dei debiti commerciali o trade payables, in cui il creditore è un altro soggetto dell’economia privata (impresa o professionista) che ha fornito beni o servizi all’azienda ma non è stato pagato nei termini convenuti.
Le caratteristiche e i rischi principali di questi debiti sono:
- Natura chirografaria (salvo eccezioni): I fornitori, in genere, non godono di garanzie reali specifiche né di cause legittime di prelazione sui beni del debitore. Fanno eccezione alcuni casi particolari: ad esempio, un fornitore che abbia riservato la proprietà dei beni venduti (clausola di riservato dominio ex art. 1523 c.c.) rimane proprietario fino al pagamento, e può rivendicare la merce se il compratore non paga; oppure il creditore che abbia un titolo cambiario (cambiale) può agire esecutivamente più rapidamente. Nella normalità dei casi, tuttavia, il credito del fornitore è chirografario e in concorso con gli altri sarà soddisfatto solo dopo l’integrale pagamento di tutti i creditori privilegiati. Ciò implica che, in un piano di ristrutturazione o concordato, i fornitori potrebbero vedersi offrire un pagamento parziale (es. 30% del dovuto) o dilazionato, nei limiti di quanto i beni liberi da garanzie consentono.
- Possibilità di azioni monitorie rapide: Nonostante siano creditori chirografari, i fornitori dispongono di uno strumento processuale snello per ottenere un titolo esecutivo: il decreto ingiuntivo. Se il debitore non paga la fattura entro la scadenza e il credito è provato da documentazione scritta (fatture, ddt firmati, contratti, estratti autentici delle scritture contabili), il fornitore può rivolgersi al tribunale e ottenere un decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c. entro poche settimane. Il decreto, una volta notificato, impone all’azienda debitrice di pagare entro 40 giorni. Trascorso tale termine senza pagamento né opposizione, il decreto diviene definitivo e il creditore può procedere con pignoramenti di beni aziendali, conti correnti, crediti verso terzi, ecc. In alcune circostanze (ad esempio se il credito è fondato su assegni, cambiali o confessione di debito) il giudice può concedere la provvisoria esecutività del decreto immediatamente, consentendo al creditore di agire ancor prima che decorra il termine di opposizione. È quindi evidente che ignorare un decreto ingiuntivo è estremamente pericoloso per il debitore: rischia di trovarsi beni pignorati in tempi brevi. Nel prosieguo vedremo come è possibile opporsi a un decreto ingiuntivo per guadagnare tempo o contestare la pretesa, ma occorre avere motivi seri di contestazione, altrimenti l’opposizione temeraria può rivelarsi solo un costoso rinvio.
- Interruzione forniture e danno commerciale: Un altro rischio collegato ai debiti verso fornitori è la perdita di fiducia commerciale. Il fornitore non pagato, oltre ad agire legalmente, sospenderà ulteriori forniture all’azienda debitrice (invocando l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., se applicabile, o semplicemente non accettando nuovi ordini). Questo può mettere in crisi la continuità operativa dell’impresa: ad esempio, se la nostra azienda di sistemi di osmosi non può più approvvigionarsi delle membrane filtranti da un fornitore chiave, rischia di non poter evadere gli ordini dei propri clienti, con un effetto a catena sul fatturato. Dunque, i debiti commerciali trascinati nel tempo non solo comportano azioni legali, ma minano la reputazione e la capacità di fare business, aggravando la crisi. Una gestione attiva del debito verso fornitori può includere il tentativo di accordi di saldo e stralcio (pagamento di una parte del dovuto immediatamente a fronte della rinuncia al restante), o di accordi di dilazione extragiudiziale, magari garantiti da effetti cambiari o piani di rientro formalizzati.
- Rischio di istanze di fallimento (liquidazione giudiziale): Sebbene le banche e il Fisco siano i creditori più “attrezzati” e frequenti nel presentare istanza di fallimento (oggi ricorso per apertura di liquidazione giudiziale), anche un fornitore commerciale può farlo. La legge fallimentare (ora Codice della crisi) prevede che un creditore, se il debito scaduto supera una certa soglia (attualmente €30.000) e l’impresa versa in stato d’insolvenza, possa chiedere al tribunale di dichiarare il fallimento (liquidazione giudiziale) del debitore. Spesso fornitori importanti valutano questa mossa come estrema ratio, sia per costringere il debitore a un tavolo negoziale, sia per evitare che altri creditori si muovano anticipatamente. Dal lato dell’azienda debitrice, ricevere una convocazione su istanza di fallimento da parte di un fornitore è un campanello d’allarme gravissimo: significa che non si può più procrastinare e occorre immediatamente attivare contromisure (come proporre un concordato preventivo “in bianco” per bloccare la procedura, come vedremo più avanti, o trovare un accordo last-minute col creditore).
In sintesi, i debiti verso fornitori e altri creditori commerciali rappresentano spesso la massa più consistente del debito di un’azienda in crisi. Sono crediti in genere non garantiti, ma ampiamente diffusi e rappresentati da soggetti che non esiteranno a interrompere i rapporti e ad agire legalmente. La difesa passa per negoziazioni mirate (sfruttando magari l’interesse del fornitore a mantenere un cliente, seppur in difficoltà) e, qualora il numero e l’importo dei debiti lo rendano necessario, per l’inclusione di questi creditori in un piano di ristrutturazione collettivo (accordo di ristrutturazione o concordato), dove potranno essere pagati parzialmente ma in modo ordinato.
Debiti verso dipendenti e TFR
Una categoria di debiti spesso sottovalutata, ma cruciale, è quella verso i dipendenti dell’azienda. Comprende le retribuzioni non pagate (stipendi, straordinari, ferie maturate) e il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) maturato dai lavoratori e non versato o accantonato. Anche questi debiti presentano caratteristiche particolari:
- Privilegi speciali e fondo di garanzia: I crediti dei lavoratori dipendenti hanno un privilegio generale mobiliare di grado molto elevato (art. 2751-bis c.c.) e, per gli ultimi 2-3 mesi di retribuzione, anche un privilegio superprivilegiato che li pone davanti a quasi ogni altro credito. In caso di fallimento o concordato, dunque, i dipendenti hanno diritto ad essere pagati prima della generalità dei creditori chirografari e anche prima del Fisco (eccetto l’IVA e ritenute, che hanno pari grado). Inoltre, esiste il Fondo di garanzia INPS che, in caso di insolvenza del datore di lavoro, interviene a pagare ai lavoratori il TFR e le ultime tre mensilità di stipendio non corrisposte, surrogandosi poi nel credito (in pratica i dipendenti vengono soddisfatti dal Fondo pubblico e sarà quest’ultimo a insinuarsi nel fallimento al loro posto). Tuttavia, l’intervento del Fondo richiede che vi sia stata appunto una procedura concorsuale o un’esecuzione individuale infruttuosa, quindi non previene la situazione di crisi ma ne mitiga le conseguenze per i lavoratori.
- Azioni rapida dinanzi al giudice del lavoro: I dipendenti non pagati possono agire molto velocemente. Possono ottenere un decreto ingiuntivo per crediti di lavoro (spesso provvisoriamente esecutivo, data la natura alimentare degli stipendi), oppure rivolgersi al Tribunale del Lavoro con un ricorso ordinario ma con tempi solitamente brevi rispetto al civile ordinario. Inoltre, il sindacato potrebbe organizzare azioni collettive o sollecitare ispezioni da parte dell’Ispettorato del Lavoro. Tutto ciò comporta un serio rischio per l’azienda: da un lato può vedersi pignorare conti e beni per pagare gli stipendi arretrati, dall’altro subisce un danno reputazionale e di clima interno (scioperi, dimissioni dei lavoratori più qualificati, ecc.).
- Conseguenze penali e interdittive: L’omesso versamento delle ritenute previdenziali operate sulle retribuzioni (ad esempio le quote INPS a carico del lavoratore trattenute in busta paga ma non versate dal datore) sopra determinate soglie costituisce reato (art. 2 D.L. 463/1983 conv. L. 638/1983). Anche il mancato versamento delle ritenute fiscali (IRPEF) può avere rilievo penale oltre una certa soglia. Inoltre, gravi violazioni in materia di lavoro (come il non pagamento sistematico di retribuzioni) possono portare a sanzioni amministrative e interdittive (esclusione da appalti pubblici, revoca di certificazioni di regolarità contributiva DURC, ecc.).
- Impatto sul prosieguo dell’attività: Senza il supporto dei dipendenti, l’azienda non può operare. Se questi non vengono pagati, è altamente probabile che smettano di prestare servizio (sciopero per giusta causa, dimissioni in massa) e che l’attività si fermi del tutto. Inoltre, in un eventuale piano di ristrutturazione, è prassi che i debiti verso i lavoratori vengano soddisfatti integralmente (magari dilazionati di qualche mese) – spesso la legge stessa lo impone per l’omologazione, specie se l’azienda prosegue l’attività. Ad esempio, nel concordato preventivo in continuità i crediti per stipendio maturati prima del concordato devono essere pagati entro il termine massimo di 6 mesi dall’omologazione . È quindi evidente che i debiti verso il personale sono una priorità assoluta da gestire.
Dal punto di vista difensivo, un imprenditore con debiti verso dipendenti dovrebbe comunicare con trasparenza la situazione ai lavoratori e, se possibile, cercare un accordo (ad esempio su una dilazione dei pagamenti arretrati magari garantita da un finanziamento in arrivo). Se l’azienda ha prospettive di risanamento, potrebbe essere utile coinvolgere i dipendenti nel sacrificio condiviso (ad esempio riducendo temporaneamente l’orario o congelando parte del salario), ma questo è fattibile solo con il loro consenso e con l’assistenza sindacale. In alternativa, l’attivazione tempestiva di una procedura concorsuale tutela i dipendenti perché consentirà l’intervento del Fondo di garanzia per TFR e stipendi. Non va dimenticato poi il lato umano: evitare conflitti con i propri dipendenti non è solo una questione giuridica ma anche morale e di responsabilità sociale dell’impresa.
Altre categorie di debito
Oltre ai tipi principali sopra elencati, un’azienda può trovarsi esposta anche verso altre categorie di creditori, tra cui:
- Debiti verso soci o finanziatori informali: ad esempio prestiti infruttiferi dei soci, apporti dei familiari dell’imprenditore, ecc. Questi in sede concorsuale sono trattati come chirografari postergati (i finanziamenti soci in SRL sono postergati ex art. 2467 c.c., quindi rimborsati dopo gli altri crediti). In fase di difesa, spesso i soci-finanziatori sono i più disponibili a rinunce o conversioni del credito in capitale, pur di risanare l’azienda.
- Debiti legati a strumenti di pagamento: ad esempio anticipi su fatture (factoring) o sconti su cambiali. Se l’azienda ha ceduto crediti a una società di factoring e poi il debitore ceduto non paga, il factor può rivalersi sulla società cedente (in caso di cessione pro-solvendo). Così pure se l’azienda ha emesso cambiali ai creditori e non le onora, questi possono protestarle e agire esecutivamente in base ad esse. Questi scenari rientrano per lo più nei debiti finanziari o commerciali, ma vanno monitorati per le scadenze imminenti: una cambiale a breve termine non pagata espone subito al protesto e al pignoramento.
- Debiti verso enti pubblici diversi dal Fisco: ad esempio sanzioni amministrative, multe, canoni per concessioni pubbliche, ecc. Molti di questi vengono comunque riscossi via Agenzia Riscossione con le stesse regole dei tributi. Alcuni (multe stradali) non possono portare a fallimento ma rimangono comunque dovuti e con potenziali fermi amministrativi.
In conclusione, mappare correttamente tutti i debiti dell’azienda è il primo passo. Ciò significa distinguere i crediti muniti di cause di prelazione (garanzie reali o privilegi di legge) da quelli chirografari, valutare la possibilità che taluni creditori agiscano più rapidamente di altri e individuare se vi sono debiti contestati (ad esempio fatture oggetto di contestazione per merce difettosa, ecc., che potrebbero costituire un motivo di opposizione in caso di ingiunzione). Una volta definito il quadro, il debitore può passare a scegliere gli strumenti più adeguati per difendersi, ossia per evitare/agire contro le iniziative dei creditori e per ristrutturare o estinguere i debiti in modo sostenibile.
Nel capitolo seguente affronteremo proprio questi strumenti di difesa, dividendoli in due macro-categorie: soluzioni stragiudiziali, in cui l’accordo con i creditori avviene senza l’apertura formale di una procedura concorsuale, e soluzioni giudiziali, in cui si fa ricorso all’autorità del tribunale per regolare la crisi d’impresa. Spesso un approccio integrato – tentare prima le vie negoziali e, se falliscono, ricorrere a quelle giudiziali – è la strategia vincente.
Conseguenze e rischi dell’insolvenza per l’azienda debitrice
Prima di addentrarci negli strumenti di soluzione, è utile riepilogare brevemente quali sono le conseguenze che un’azienda in stato di insolvenza o forte indebitamento subisce o rischia di subire, se non interviene per tempo. Questa “lista dei rischi” giustifica l’adozione delle misure difensive e consente di comprenderne l’importanza:
- Azioni esecutive individuali: come già anticipato, i creditori (specialmente banche, fornitori e Fisco) possono attivare procedure di pignoramento e vendita forzata dei beni dell’azienda. Ciò può comportare, ad esempio, il pignoramento del conto corrente aziendale (bloccando di fatto ogni operatività finanziaria), il sequestro di automezzi aziendali (tramite il fermo amministrativo, che impedisce la circolazione del veicolo), il pignoramento di macchinari o merci in magazzino (con conseguente asporto e vendita all’asta degli stessi) e perfino l’espropriazione degli immobili aziendali (capannoni, uffici) con successiva messa all’asta. Tali azioni spesso non arrivano tutte insieme, ma basta che uno o due creditori “apritreno” inizino le esecuzioni per creare un effetto domino: altri creditori si accodano nel pignorare ciò che resta, rendendo impossibile la prosecuzione dell’attività. Inoltre, va considerato il costo aggiuntivo: alle somme dovute si sommano spese legali, interessi di mora e costi di procedura, facendo lievitare ulteriormente l’esposizione.
- Provvedimenti cautelari: prima ancora del pignoramento, alcuni creditori potrebbero richiedere misure cautelari come sequestri conservativi su beni o crediti dell’azienda, soprattutto se temono che il debitore possa disperdere il patrimonio. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate in presenza di fondati indizi di evasione può chiedere il sequestro preventivo per equivalente su beni dell’imprenditore (misura di natura penale tributaria). Un fornitore potrebbe domandare un sequestro conservativo dei beni in caso di credito di importo rilevante e pericolo nel ritardo. Tali misure congelano il patrimonio in attesa del giudizio, e anche se spesso possono essere revocate se si attiva una procedura concorsuale, nel frattempo aggravano la crisi di liquidità.
- Istanza di fallimento (liquidazione giudiziale): come già accennato, un creditore (o il debitore stesso, o il Pubblico Ministero in determinati casi) può presentare ricorso al tribunale per la liquidazione giudiziale dell’azienda (il nuovo nome del fallimento nel Codice della Crisi). Se il tribunale accerta lo stato di insolvenza – ovvero l’impossibilità strutturale di adempiere regolarmente alle obbligazioni – emette una sentenza che apre la procedura concorsuale liquidatoria: gli amministratori perdono la gestione, che passa a un curatore nominato dal giudice; il patrimonio dell’azienda diventa patrimonio concorsuale destinato a essere liquidato e distribuito ai creditori secondo la graduatoria legale; l’impresa cessa l’attività (salvo esercizio provvisorio in rari casi). Per l’imprenditore si tratta di un evento traumatico: non si ha più il controllo dell’azienda da lui fondata, vengono investigate le cause del dissesto e le eventuali responsabilità, e spesso emergono conseguenze come azioni di responsabilità contro gli amministratori o azioni revocatorie su atti compiuti negli ultimi anni. Evitare la dichiarazione di fallimento, o quanto meno governarne i tempi presentando in autonomia soluzioni alternative (es. un concordato), è di solito uno degli obiettivi primari del debitore che vuole difendersi.
- Aumento dei costi finanziari e difficoltà di credito: un’azienda in palese difficoltà, con protesti o pignoramenti a carico, vedrà crollare il proprio merito creditizio. Le banche classificheranno la posizione come ad alto rischio, revocando fidi e segnalando la sofferenza a Centrale Rischi, rendendo impossibile ottenere nuova finanza lecita. Talvolta l’imprenditore disperato potrebbe essere tentato di rivolgersi a fonti di credito alternative (talora illegali, come usuraio o finanziatori occulti), con ulteriori pericoli. Inoltre, eventuali linee di fido commerciale (merce fornita a credito) verranno chiuse: i fornitori chiederanno pagamento anticipato cash per qualsiasi fornitura, peggiorando ancora il circolo vizioso della liquidità.
- Deterioramento dei rapporti contrattuali: molti contratti in essere con l’azienda prevedono clausole risolutive espresse o facoltà di recesso in caso di fallimento o insolvenza conclamata. Ad esempio, un importante cliente potrebbe recedere dal contratto se l’azienda fornitrice viene dichiarata insolvente o ammessa a concordato; i contratti di leasing prevedono la risoluzione automatica in caso di fallimento; le polizze di assicurazione credito revocano la copertura se il debitore è in procedura concorsuale. Anche senza clausole specifiche, la controparte può cessare la collaborazione se perde fiducia. Questo significa che la crisi finanziaria si trasmette subito al portafoglio ordini e alla continuità aziendale: l’impresa rischia di perdere commesse e opportunità sul mercato proprio quando avrebbe più bisogno di generare ricavi per risollevarsi.
- Responsabilità per gli amministratori: se l’impresa è gestita in forma societaria (es. S.r.l. o S.p.A.), lo stato di crisi non gestito adeguatamente può innescare responsabilità personali per gli amministratori. Secondo il codice civile (art. 2086, secondo comma, c.c.), l’organo amministrativo ha il dovere di istituire assetti organizzativi adeguati per rilevare tempestivamente la crisi e prendere le idonee iniziative. La prosecuzione scriteriata dell’attività in perdita può costituire violazione dei doveri di diligenza e prudenza, con conseguente azione di responsabilità promossa dai creditori o dal curatore fallimentare per le perdite cagionate (mala gestio). Inoltre, la nuova disciplina consente al tribunale di condannare personalmente l’amministratore al pagamento delle spese legali se questi propone azioni o impugnazioni temerarie volte solo a ritardare l’inevitabile fallimento . Ad esempio, la Corte di Cassazione ha confermato che il legale rappresentante di una S.r.l., in caso di reclamo infondato contro la sentenza dichiarativa di insolvenza, può essere condannato in solido con la società alle spese del procedimento, a titolo di responsabilità processuale aggravata . Questo per dissuadere gli amministratori dal compiere atti dilatori a danno dei creditori. In prospettiva, gli amministratori che non affrontano la crisi con gli strumenti appropriati rischiano quindi sia sul piano patrimoniale (azioni risarcitorie) sia su quello delle sanzioni processuali.
In sintesi, il messaggio per il debitore è chiaro: l’inerzia aggrava il problema. Lasciar fare ai creditori equivale a subire, nell’ordine, pignoramenti, blocco dell’operatività, istanze di fallimento e perdita del controllo. Al contrario, difendersi attivamente significa anticipare le mosse altrui: negoziare moratorie, attivare procedure concorsuali di regolazione della crisi, bloccare le azioni esecutive frammentarie per convogliarle in una soluzione unitaria. L’ordinamento, specialmente dopo la riforma del Codice della Crisi d’Impresa (entrato a regime dal 15 luglio 2022 ), mette a disposizione diversi strumenti proprio per consentire all’imprenditore meritevole di evitare la dispersione del patrimonio e di trovare un accordo con i creditori, mantenendo se possibile la continuità aziendale. Nei capitoli successivi esploreremo prima le soluzioni stragiudiziali, che dovrebbero essere valutate come prima opzione quando c’è spazio di manovra, e successivamente le soluzioni giudiziali che offrono tutele formali e possono imporre ai creditori discipline collettive (ma con maggiori costi e formalità).
Strumenti stragiudiziali per la gestione della crisi
Gli strumenti stragiudiziali (o extragiudiziali) sono quelli che non richiedono l’apertura immediata di una procedura concorsuale innanzi al tribunale. Si basano perlopiù su accordi volontari tra il debitore e i creditori o su piani interni all’azienda, sebbene alcuni di essi abbiano rilevanza legale (ad es. il piano attestato di risanamento) e possano poi sfociare in omologhe giudiziali (ad es. gli accordi di ristrutturazione). In genere è consigliabile tentare le soluzioni stragiudiziali prima di ricorrere al tribunale, soprattutto se l’entità della crisi è gestibile con il consenso di un numero limitato di creditori e se si vuole evitare il “marchio” di una procedura concorsuale che, come visto, può causare la fuga di clienti e partner.
Esaminiamo i principali strumenti stragiudiziali a disposizione di un’azienda indebitata:
Negoziazione privata e piani di rientro informali
La prima e più immediata strategia è affrontare i creditori uno ad uno, cercando di ottenere da ciascuno di essi delle condizioni di rientro più sostenibili per l’azienda. Questa fase, che potremmo definire di negoziazione privata informale, include vari possibili approcci:
- Dilazione dei pagamenti (piano di rientro): Si propone al creditore un calendario di pagamenti a rate, spesso con riconoscimento del debito magari in forma scritta. Ad esempio, pagare un fornitore in 12 rate mensili invece che in unica soluzione. Per formalizzare l’accordo, talvolta si ricorre a strumenti come cambiali (a garanzia delle rate) oppure scritture private dove il debitore riconosce il debito residuo e si impegna al piano concordato. Un piano di rientro, di per sé, non offre garanzie al creditore se non la parola del debitore (salvo appunto l’emissione di effetti cambiari che fungono da titolo esecutivo in caso di mancato pagamento). Pertanto, molti creditori lo accettano solo se reputano il debitore ancora affidabile e preferiscono evitare le vie legali. Dal lato del debitore, il vantaggio è di comprare tempo e magari evitare interessi moratori e spese legali ulteriori. È importante onorare rigorosamente le scadenze concordate: un piano di rientro disatteso fa perdere definitivamente la credibilità residua e quasi certamente spinge il creditore all’azione legale immediata.
- Accordo transattivo a saldo e stralcio: In alcuni casi, soprattutto quando il creditore teme di non riuscire a recuperare l’intera somma, il debitore può proporre un saldo e stralcio, ossia il pagamento immediato (o in tempi molto brevi) di una percentuale del debito, in cambio della rinuncia da parte del creditore a ogni ulteriore pretesa per il residuo. Ad esempio, offrire 30.000 € cash a fronte di un debito di 50.000 €, “stralciando” il restante 20.000 €. Questa soluzione è attuabile se il debitore riesce a procurarsi liquidità (ad esempio grazie a un nuovo socio finanziatore, o vendendo un bene non essenziale, o attingendo a risparmi personali) e la crisi è più che altro un problema di solvibilità immediata ma non di mancanza assoluta di patrimonio. Il creditore, dal canto suo, accetta il saldo e stralcio se ritiene che l’alternativa (azioni legali, attesa, concorsuale) possa portarlo a prendere ugualmente meno del 100% o a dilazionare troppo il recupero. Dal punto di vista legale, è bene formalizzare l’accordo transattivo per iscritto, specificando che il pagamento pattuito ha efficacia tombale (a saldo e stralcio) del maggior importo dovuto, così da prevenire future rivendicazioni.
- Moratoria o standstill agreement collettivo: Se l’azienda ha più banche finanziatrici, può essere utile tentare di stipulare con esse un accordo di moratoria temporanea, magari sotto l’egida di associazioni di categoria o con l’intervento di consulenti finanziari. In pratica, si chiede ai vari istituti di congelare le pretese per un certo periodo (es. 6 mesi) durante il quale l’azienda cercherà di ristrutturarsi o di predisporre un piano. Tali accordi di moratoria (noti anche come standstill) presuppongono che la maggioranza (se non tutte) le banche siano d’accordo – basti pensare che se anche una sola banca fuori accordo iniziasse azioni esecutive, l’intero castello crollerebbe. In passato, in Italia, vi sono stati protocolli (come le moratorie ABI per PMI) che hanno dato un quadro generale; oggi queste iniziative rientrano nell’autonomia privata. Un accordo di standstill non coinvolge i fornitori in genere, ma solo i creditori finanziari disposti ad attendere. Può essere propedeutico a un successivo accordo di ristrutturazione formalizzato o a un concordato preventivo, oppure condurre a un piano attestato. In ogni caso, è uno strumento basato sul consenso e sulla fiducia: fondamentale fornire informazioni chiare e periodiche alle banche aderenti sullo stato dell’azienda, perché continuino a rispettare la moratoria.
- Assistenza di un advisor: Nel gestire trattative multiple con i creditori, soprattutto se l’indebitamento è elevato, spesso l’imprenditore si avvale di consulenti (legali e finanziari) specializzati in ristrutturazione del debito. Questi advisor aiutano a predisporre un piano industriale e finanziario di rilancio, da presentare ai creditori per convincerli della sostenibilità delle proposte. Ad esempio, l’advisor elabora proiezioni sui flussi di cassa dimostrando che dilazionando i pagamenti su 5 anni l’azienda potrà rimborsare tutti, oppure che con un taglio del 30% sul debito e nuovo capitale l’impresa tornerebbe in equilibrio. Pur essendo una fase stragiudiziale, adottare un approccio professionale aumenta le probabilità di successo e prepara il terreno nel caso si debba poi passare a strumenti giudiziali (molti documenti prodotti potranno essere riutilizzati).
Va sottolineato che la negoziazione privata presenta dei limiti: è difficilmente attuabile se i creditori sono troppo numerosi o eterogenei, o se il debito eccede di molto le capacità di rimborso, o ancora se qualche creditore mantiene un atteggiamento ostile e non collaborativo. Inoltre, qualsiasi accordo privato vincola solo chi lo sottoscrive: c’è sempre il rischio che un creditore “estraneo” spunti fuori e aggredisca i beni, vanificando gli sforzi (il cosiddetto free rider che non aderisce alla moratoria e si soddisfa prima degli altri). Per tale ragione, quando la situazione di crisi è grave e generalizzata, spesso è necessario fare un passo ulteriore e ricorrere a strumenti legali più strutturati, eventualmente sotto l’ombrello del tribunale. Prima di arrivare al tribunale, però, la legge prevede un percorso intermedio di assistenza alla negoziazione: la composizione negoziata della crisi, di cui parliamo subito.
Composizione negoziata della crisi d’impresa
Introdotta originariamente nel 2021 (D.L. 118/2021) e ora organicamente disciplinata nel Codice della Crisi (Titolo II, art. 12 e ss. D.Lgs. 14/2019), la composizione negoziata della crisi è uno strumento innovativo e stragiudiziale assistito pensato per aiutare l’imprenditore in difficoltà a risanare la propria azienda con l’aiuto di un esperto indipendente. Non si tratta di una procedura concorsuale, ma di un percorso volontario e riservato, attivabile quando “sussiste una situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tale da rendere probabile la crisi o l’insolvenza” (quindi già nella fase di allerta). Vediamone i punti chiave:
- Accesso tramite piattaforma e nomina dell’esperto: L’imprenditore presenta un’istanza di accesso alla composizione negoziata tramite una piattaforma telematica nazionale. Devono essere allegate informazioni sull’azienda, sui debiti e sulle prospettive di risanamento. Un’apposita commissione nomina un esperto indipendente (solitamente un commercialista o altro professionista qualificato in crisi d’impresa, iscritto in apposito elenco) che avrà il compito di facilitare le trattative con i creditori. L’esperto viene selezionato con criteri di terzietà e professionalità e presta giuramento di indipendenza.
- Fase negoziale protetta ma volontaria: Apertasi la procedura di composizione negoziata, l’esperto convoca l’imprenditore e ascolta le sue proposte di risanamento; quindi contatta i creditori principali per valutare soluzioni. Tutto avviene in modo riservato (non c’è una pubblicità iniziale, salvo richiesta di misure protettive di cui diremo dopo). I creditori non sono obbligati a partecipare né a rinunciare alle loro pretese, ma l’autorità dell’esperto e la cornice normativa favoriscono un dialogo costruttivo. L’esperto infatti redige delle relazioni periodiche sullo stato delle trattative e, se incontra ostacoli o scorrettezze, può segnalarle. Il debitore rimane in carica e conserva la gestione dell’azienda durante tutto il processo, ma deve cooperare in buona fede e con trasparenza.
- Durata e obiettivi: La composizione negoziata dura fino a 180 giorni (prorogabili di ulteriori 180 in casi complessi). In questo periodo si cerca di elaborare un piano di risanamento condiviso: può consistere in una ristrutturazione dei debiti (dilazioni, tagli, conversione di crediti in capitale), nella ricerca di nuova finanza (ad esempio un nuovo investitore che apporti liquidità), nella dismissione di asset non strategici per fare cassa, ecc. L’esperto aiuta a trovare un equilibrio tra le pretese dei creditori e le possibilità dell’impresa. Se si raggiunge un accordo soddisfacente, potrà assumere diverse forme giuridiche (un contratto con i creditori, oppure un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal tribunale, oppure addirittura la base per un concordato preventivo in continuità se serve l’adesione anche di dissenzienti). La legge è flessibile sul punto di arrivo: l’importante è favorire una soluzione consensuale. Se però non si trova alcun accordo, la composizione negoziata si chiude con esito negativo; in tal caso l’esperto può suggerire alternative (ad esempio consigliare all’imprenditore di presentare domanda di concordato semplificato per evitare il fallimento).
- Misure protettive e cautelari: Uno dei vantaggi cruciali di aderire alla composizione negoziata è la possibilità di richiedere al tribunale delle misure protettive delle trattative. In pratica, l’imprenditore – già all’avvio o anche durante la procedura – può chiedere che siano sospese o bloccate le azioni esecutive e cautelari dei creditori nei suoi confronti, per il tempo necessario a condurre le trattative (inizialmente fino a 4 mesi). Il tribunale, valutata la situazione e la serietà delle trattative, emette un decreto che impedisce nuovi pignoramenti e sospende quelli in corso, e inibisce anche la possibilità per i creditori di rifiutare l’adempimento dei contratti pendenti (salvo autorizzazione del giudice) . Questa protezione, però, non è automatica: va appunto richiesta e concessa se utile. Inoltre, la recente riforma (D.Lgs. 136/2024) ha chiarito che anche durante la composizione negoziata si possono stipulare accordi transattivi col Fisco e gli enti previdenziali , il che supera alcuni dubbi precedenti: dunque, l’azienda può negoziare a 360°, includendo ad esempio un accordo col Fisco per dilazionare o ridurre parte dei tributi dovuti (transazione fiscale), senza dover subito aprire un concordato preventivo.
- Vantaggi di merito e costo: La composizione negoziata ha il pregio di essere confidenziale e reversibile: se le trattative non vanno a buon fine, l’azienda non è automaticamente fallita né “bollata” pubblicamente (la riservatezza evita danni reputazionali iniziali). Inoltre, è relativamente economica: l’esperto ha diritto a un compenso determinato in base a parametri ministeriali, solitamente inferiore ai costi di una procedura concorsuale; non vi sono curatori o commissari da mantenere. Per contro, l’efficacia di questo strumento dipende molto dalla collaborazione dei creditori: se questi non sono disponibili o se la situazione è troppo compromessa, la composizione negoziata può rivelarsi un “nulla di fatto” e far solo perdere tempo. Ecco perché è indicata soprattutto quando l’impresa è in pre-crisi o crisi iniziale, non troppo avanzata, e ha ancora margini di risanamento concreto. I dati più recenti mostrano comunque un buon interesse verso lo strumento: nel 2023 c’è stata una forte crescita di attivazioni, anche perché molte imprese hanno cercato di evitare fallimenti ricorrendo a questi nuovi mezzi .
Esempio pratico: la nostra azienda di sistemi filtranti, trovandosi in difficoltà, potrebbe attivare la composizione negoziata nominando un esperto. Durante le trattative, la banca potrebbe accettare di moratoriare le rate di mutuo per 6 mesi, i fornitori principali potrebbero concordare forniture a fronte di pagamenti immediati dell’80% del valore (stralciando il 20% come abbuono per mantenere il rapporto), e l’Agenzia delle Entrate potrebbe acconsentire a spalmarci il debito IVA in 5 anni. L’esperto assembla queste intese e verifica che il piano di rilancio (magari basato sull’introduzione di un nuovo investitore che immette capitale fresco) sia realistico. Se tutto quadra, si formalizzano i contratti con i creditori. In caso di singoli creditori dissenzienti, l’azienda potrebbe utilizzare l’accordo con la maggioranza come base per un accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (vedi oltre) o un concordato, ma se la maggior parte è allineata spesso non serve. Se invece le trattative falliscono perché, ad esempio, un creditore importante (come il fornitore estero di componenti) rifiuta ogni accordo, l’esperto concluderà negativamente; a quel punto l’imprenditore dovrà considerare di passare a una soluzione giudiziale (ad esempio un concordato preventivo) per evitare l’iniziativa ostile di quel creditore.
In conclusione, la composizione negoziata è un strumento “ponte” che consente di provare fino all’ultimo un risanamento stragiudiziale con l’aiuto di un facilitatore e sotto la supervisione (lieve) di un tribunale per gli aspetti di protezione. Qualora con questo non si riesca a venirne a capo, si può procedere con misure più incisive che coinvolgono direttamente l’autorità giudiziaria, oppure – se invece si riesce – formalizzare il tutto senza bisogno di passare dal fallimento o dal concordato, salvando azienda e posti di lavoro.
Piano attestato di risanamento
Il piano attestato di risanamento è uno strumento classico di soluzione della crisi aziendale in via extragiudiziale, disciplinato originariamente dall’art. 67, co. 3, lett. d) della vecchia Legge Fallimentare e oggi ripreso nel Codice della Crisi (artt. 56 e ss. CCII). Si tratta, in sostanza, di un piano di risanamento dell’azienda che viene predisposto dall’imprenditore e asseverato da un professionista indipendente (attestatore) riguardo alla sua veridicità e fattibilità. L’obiettivo è duplice: da un lato, fornire ai creditori e stakeholder la garanzia che il piano è serio e realistico; dall’altro, ottenere alcuni effetti protettivi in caso di successivo fallimento (in particolare, protezione da azioni revocatorie).
Ecco le caratteristiche salienti:
- Contenuto del piano: Il piano di risanamento può prevedere qualsiasi operazione idonea a ristrutturare l’impresa e riequilibrarne la situazione finanziaria. Ad esempio, può contemplare nuovi finanziamenti, cessioni di rami d’azienda non profittevoli, conversione di debiti in capitale sociale, accordi con i creditori per riduzioni o dilazioni (ma qui bisogna ottenere il consenso di ciascuno, non essendo procedimento concorsuale). Ciò che importa è che il piano sia in grado di riportare l’azienda in bonis (in equilibrio) entro un orizzonte ragionevole. La legge di recente (terzo correttivo 2024) ha introdotto un contenuto minimo obbligatorio del piano attestato : esso deve includere una descrizione analitica della situazione aziendale, delle cause della crisi, delle strategie di intervento e dei tempi, nonché evidenziare l’apporto di risorse esterne (se previsti) e gli effetti per i creditori.
- Attestazione da parte di un esperto: Punto cardine è la relazione di attestazione redatta da un professionista indipendente (dottore commercialista, revisore o altra figura con i requisiti ex art. 2 CCII, generalmente la stessa tipologia di soggetto che potrebbe fare il commissario giudiziale in un concordato). L’attestatore deve dichiarare che i dati aziendali sono veritieri e che il piano è fattibile e idoneo a risanare l’impresa e a soddisfare i creditori meglio di un’alternativa liquidatoria. Questa relazione è fondamentale per dare credibilità al piano: i creditori saranno più propensi ad accettare transazioni o dilazioni proposte, sapendo che un terzo esperto le ha valutate realistiche. L’attestatore assume una responsabilità professionale importante: se assevera piani farlocchi o con dati falsi, risponde di eventuali danni (e rischia implicazioni penali, v. art. 236-bis L.F. per false attestazioni).
- Consenso individuale dei creditori: Diversamente da concordati e accordi di ristrutturazione, il piano attestato non è omologato da un tribunale né impone tagli ai creditori dissenzienti. È un accordo privatistico: ciascun creditore deve aderire individualmente alla ristrutturazione proposta. Ad esempio, il piano può prevedere che la banca A proroghi un mutuo di 5 anni, il fornitore B accetti il 70% a saldo, ecc., ma ciascuno dovrà firmare la propria transazione. Non c’è voto collettivo né imposizione a maggioranza. Questo significa che il piano attestato funziona bene se il numero di creditori è contenuto o comunque se si è riusciti a ottenere l’adesione di tutti quelli principali. Un creditore che resti fuori potrebbe, legittimamente, iniziare un’azione esecutiva e far saltare l’equilibrio previsto dal piano.
- Esonero da revocatoria fallimentare: Il vantaggio giuridico primario del piano attestato – e il motivo per cui viene spesso utilizzato – è che gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano non sono soggetti a revocatoria in caso di successivo fallimento (liquidazione giudiziale) . La revocatoria fallimentare è l’azione con cui il curatore fa dichiarare inefficaci pagamenti o garanzie fatti dal debitore nei periodi sospetti prima del fallimento, restituendo le somme alla massa. Ebbene, se quei pagamenti o garanzie erano previsti da un piano attestato ex lege, non potranno essere revocati. Ciò dà tranquillità ai partner contrattuali: ad esempio, una banca che nel contesto del piano riceve un’ipoteca di secondo grado a garanzia di nuova finanza non teme che, fallendo l’azienda entro 2 anni, quell’ipoteca venga spazzata via; oppure un fornitore che viene pagato parzialmente durante l’esecuzione del piano sa che non dovrà restituire i soldi al curatore. Questo scudo giuridico è un incentivo a collaborare con l’impresa nel risanamento.
- Efficacia temporale e monitoraggio: Un piano attestato ha solitamente una durata definita (es. piano triennale 2024-2026). Non vi è un organo esterno di monitoraggio (a meno che le parti non lo richiedano espressamente nominando un supervisore ad hoc), quindi sta all’imprenditore attuarlo fedelmente. Se il piano fallisce e l’azienda finisce comunque in default, almeno le operazioni fatte entro quel contesto rimangono protette come detto. La riforma recente pone l’accento sul contenuto minimo e richiede informativa nella nota integrativa di bilancio sull’avvenuta predisposizione di un piano attestato, per maggiore trasparenza.
In pratica, il piano attestato di risanamento è una sorta di “concordato privatistico”: può essere molto utile quando c’è coesione e fiducia tra debitore e principali creditori, e si vuole evitare la pubblicità e i costi di un concordato in tribunale. Ad esempio, molte ristrutturazioni di medio-grandi imprese in passato sono avvenute con piani attestati, soprattutto se c’era una forte esposizione bancaria (le banche tendenzialmente preferiscono negoziare riservatamente anziché passare per lunghi concordati). Chiaramente, se un creditore significativo non sta al gioco, bisognerà valutare un diverso approccio.
Esempio: la nostra azienda di sistemi filtranti potrebbe predisporre un piano attestato in cui un professionista assevera che, grazie a un aumento di capitale di €100.000 apportato dai soci e a una riduzione del 20% dei costi operativi, l’impresa tornerà redditizia e potrà in 5 anni ripagare i debiti chirografari al 50%. Si allega al piano l’accordo con la banca per prorogare i finanziamenti, l’accordo con i fornitori strategici per accettare un 70% dei loro crediti in 24 mesi, e così via. L’attestatore certifica che i numeri tornano. Questo documento viene presentato ai creditori restanti, molti dei quali – rassicurati dall’attestazione – aderiscono. L’azienda esegue i pagamenti secondo il piano. Se tutto va bene, esce dalla crisi senza passare dal tribunale. Se malauguratamente dopo due anni la situazione precipita, i creditori non potranno farsi restituire le somme incassate in esecuzione del piano attestato, e l’impresa avrà comunque guadagnato tempo prezioso.
In conclusione, il piano attestato di risanamento è uno strumento snello e flessibile, che richiede però un certo allineamento di interessi con i creditori. Dà benefici legali (protezione revocatoria) e non comporta sacrifici imposti: tutto è su base contrattuale. Oggi, con la riforma, se ne auspica un uso consapevole, evitando di utilizzare piani attestati solo come escamotage per ritardare un fallimento inevitabile: l’attestatore e la completezza del piano servono proprio a distinguere i casi di effettiva risanabilità da quelli destinati al fallimento, inducendo in quest’ultimo scenario a passare magari a strumenti concorsuali più adeguati.
Accordi di ristrutturazione dei debiti
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviati in ARD) rappresentano uno strumento “ibrido”, a metà tra il piano contrattuale e la procedura concorsuale. Previsti inizialmente dall’art. 182-bis L.F., sono ora regolati negli artt. 57 e seguenti del Codice della Crisi. Si tratta in sostanza di un accordo sottoscritto con una parte qualificata dei creditori, che viene poi omologato dal tribunale per acquistare efficacia anche verso eventuali dissenzienti limitatamente a certe condizioni. È un’alternativa al concordato preventivo, generalmente più semplice e veloce, ma che richiede un consenso molto elevato tra i creditori.
Caratteristiche principali degli accordi di ristrutturazione:
- Percentuale di adesione richiesta: Il requisito classico è che l’accordo sia sottoscritto da creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali (non numero di creditori, ma percentuale sul valore dei crediti) . Questo quórum elevato garantisce che solo situazioni di ampia condivisione possano passare per questa via. Tuttavia, il Codice della Crisi ha introdotto alcune varianti: gli “accordi di ristrutturazione agevolati” consentono di abbassare tale soglia al 30% in certi casi . In particolare, secondo l’art. 60 CCII, la soglia scende al 30% se il debitore non ha debiti verso banche/finanziari o se l’accordo non coinvolge questi ultimi, e se soddisfa integralmente i creditori estranei (indicativamente, è una facilitazione per PMI con pochi creditori). Ci sono poi gli “accordi ad efficacia estesa” (già noti in passato come 182-septies): in alcuni casi, se si raggiunge un certo accordo con una categoria di creditori (p.es. banche rappresentanti il 75% dei crediti finanziari), l’accordo può essere esteso anche alle banche dissenzienti minoritarie della stessa categoria, purché abbiano possibilità simili (omogeneità di trattamento). Il terzo correttivo 2024 ha ampliato questa possibilità di efficacia estesa anche a creditori non finanziari appartenenti a categorie omogenee . In pratica, l’accordo di ristrutturazione è modulabile: normale (60%), agevolato (30% in certe condizioni) ed esteso (con cram-down di minoranze omogenee).
- Contenuto e natura dell’accordo: Non ci sono schemi rigidi sul contenuto. L’accordo può prevedere dilazioni, remissioni parziali di debito, trasformazione di crediti in partecipazioni, ecc., analogamente a un concordato ma con la differenza che i creditori aderenti firmano effettivamente un contratto con il debitore. A differenza di un piano attestato puro, qui è necessaria la omologazione da parte del tribunale. Il debitore infatti deposita l’accordo e il piano concordato con i creditori aderenti, insieme a una relazione di un attestatore che assevera la fattibilità dell’accordo e il miglior soddisfacimento dei creditori rispetto all’alternativa liquidatoria. Il tribunale, verificati i requisiti, omologa l’accordo rendendolo efficace erga omnes per i creditori aderenti e, in taluni casi, anche per gli altri (vedi dopo). Durante la pendenza della domanda di omologazione, il debitore può chiedere misure protettive simili a quelle del concordato (stay delle azioni esecutive).
- Trattamento dei creditori non aderenti: E i creditori che non hanno firmato l’accordo? La regola base è che devono essere pagati integralmente entro i 120 giorni dall’omologazione (o dalla scadenza, se successiva) . In sostanza, l’accordo di ristrutturazione “classico” non vincola i non aderenti, i quali vengono soddisfatti fuori dall’accordo (in pratica, il debitore deve reperire risorse per pagarli al 100% o comunque assicurare loro il dovuto). Questo è un punto cruciale: se vi sono troppi creditori estranei e non li si può pagare per intero, l’accordo diventa non fattibile. Qui intervengono le varianti: con gli accordi ad efficacia estesa, il debitore può estendere le medesime condizioni anche ai creditori dissenzienti di una certa categoria, previa approvazione del tribunale, senza il loro consenso individuale (ad es., 80% delle banche firma per avere il 80% in 5 anni, il giudice può estendere anche alle banche che non hanno firmato, purché non abbiano trattamento deteriore). Inoltre, la riforma 2022 ha previsto i “accordi misti”, nei quali l’accordo si combina con un concordato per i creditori che non aderiscono: in pratica i firmatari stanno nell’accordo, i restanti vengono trattati con un mini-concordato (questa formula è piuttosto complessa e poco utilizzata finora).
- Vantaggi rispetto al concordato: Rispetto a un concordato preventivo, l’accordo di ristrutturazione è generalmente più rapido e meno costoso. Non c’è voto dei creditori gestito dal commissario: il raggiungimento delle soglie è su base di contratti raccolti dal debitore stesso. Non c’è spossessamento né nomina obbligatoria di organi (il commissario giudiziale non è previsto, salvo forse il tribunale ne nomini uno ad hoc in casi eccezionali). C’è però un controllo di omologazione per garantire che l’accordo non leda i non aderenti e che la percentuale sia stata raggiunta correttamente. Un altro vantaggio: la legge consente, negli accordi di ristrutturazione, di includere una moratoria del pagamento dei creditori privilegiati anche senza il loro consenso individuale, purché non ecceda 120 giorni dall’omologazione (questo per agevolare la trattativa con le banche garantite, ad esempio).
- Cram-down fiscale: Novità importante introdotta di recente (D.Lgs. 83/2022, confermato dal D.Lgs. 136/2024) è il cram-down fiscale e previdenziale anche negli accordi . In passato, per ristrutturare debiti verso il Fisco o l’INPS l’accordo di ristrutturazione richiedeva necessariamente il loro assenso (e spesso si preferiva allora il concordato con “transazione fiscale”). Oggi invece il debitore può proporre nell’accordo anche il pagamento parziale/dilazionato dei tributi e contributi, e se l’agenzia fiscale rifiuta senza motivo, il tribunale può omologare ugualmente l’accordo (cram-down) a certe condizioni (in primis, che il trattamento offerto al Fisco non sia inferiore a quello che avrebbe in alternativa). Questo toglie un potere di veto che prima il Fisco di fatto aveva, e uniforma gli accordi alla logica concorsuale anche su questo fronte.
In sintesi, l’accordo di ristrutturazione dei debiti è uno strumento potente se l’azienda riesce a portare a bordo la gran parte dei creditori principali. È consigliabile quando c’è un numero relativamente limitato di creditori decisivi (ad es. le banche e pochi fornitori): li si convince con tavoli negoziali, si ottiene la firma, e poi si ufficializza tutto con l’omologazione, ottenendo efficacia erga omnes. Se i creditori sono invece migliaia (come nel caso di debiti diffusi), è più appropriato un concordato preventivo che gestisce il voto in massa.
Esempio: supponiamo che la nostra azienda abbia debiti con 5 banche e 10 fornitori grossi, più molti piccoli creditori. Le 5 banche e 8 fornitori, che insieme rappresentano il 75% del totale del debito, concordano di aderire a un piano in cui ricevono il 60% del loro credito su 4 anni. I 2 fornitori che non aderiscono (20% del debito) secondo il piano potranno essere pagati integralmente grazie a risorse apportate dai soci e ad alcune dismissioni. Si deposita l’accordo con il 75% di firme: il tribunale controlla che i restanti creditori siano pagati in full e che l’attestatore abbia confermato il beneficio rispetto al fallimento. Omologa l’accordo. Da quel momento, l’accordo è vincolante per tutti i firmatari; i fornitori esterni verranno pagati come da piano (se non li si pagasse, potrebbero agire ma in tal caso decadrebbe l’accordo per inadempimento). Se per caso una banca dissenziente ci fosse stata, si sarebbe potuto chiedere al giudice di estendere l’efficacia se la classe banche nel suo complesso aveva superato la soglia (questo è l’accordo ad efficacia estesa).
Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO)
Tra le novità introdotte dalla riforma in attuazione della direttiva UE 2019/1023, il Piano di Ristrutturazione Soggetto ad Omologazione (abbreviato in PRO) merita una menzione. Si tratta di uno strumento creato per avere maggiore flessibilità rispetto al concordato preventivo, in particolare in termini di classi di voto e di possibilità di imporre il piano ai dissenzienti (si ispira ai scheme of arrangement anglosassoni e alle procedure di “preventive restructuring” europee).
In parole semplici, il PRO è un piano proposto dal debitore per la ristrutturazione dei debiti, che prevede la suddivisione dei creditori in classi e il loro soddisfacimento in vario modo, e che viene sottoposto all’omologazione del tribunale senza passare per un voto formale di tutti i creditori come nel concordato. Alcune classi chiave però devono approvare. È una procedura un po’ tecnica e ancora poco collaudata (essendo recente), ma ha aspetti rilevanti:
- Si applica solo a debitori che non sono ancora in stato di insolvenza conclamata ma in condizione di crisi o rischio (è per attivare ristrutturazioni preventive).
- Richiede che almeno una classe di creditori interessati (escluse eventuali classi di soci) voti a favore; il tribunale poi può omologare anche senza l’approvazione di altre classi, se ritiene comunque rispettati certi requisiti di equilibrio e maggior soddisfacimento rispetto all’alternativa liquidatoria.
- Consente quindi una sorta di cram-down interclassi: la corte può imporre il piano a classi dissenzienti se, ad esempio, il piano non li pregiudica oltre misura e c’è un trattamento equo tra classi (principi di assoluta priority o relativa priority a seconda dei casi).
- È in pratica uno strumento pensato per situazioni in cui c’è bisogno di ristrutturare, ma magari pochi creditori bloccano il consenso unanime richiesto dagli accordi di ristrutturazione. Con il PRO il debitore li può superare ottenendo l’omologa anche contro il loro voto, sempre che globalmente il piano sia vantaggioso per tutti rispetto al fallimento.
Per il nostro scopo, basti sapere che il PRO è un’ulteriore freccia all’arco dell’imprenditore: se ha un piano valido ma non riesce a ottenere tutte le firme necessarie per un accordo classico, potrebbe tentare la via del PRO per forzare la mano a un gruppo minoritario di creditori dissenzienti, ottenendo l’avallo giudiziario.
Tuttavia, data la complessità tecnico-legale di questo strumento e il livello avanzato di trattativa che presuppone, di solito è utilizzato in ristrutturazioni di società medio-grandi con assistenza di advisor legali e finanziari di alto livello. Per una PMI come l’azienda di sistemi filtranti, è più probabile che le soluzioni siano l’accordo di ristrutturazione standard o il concordato preventivo, se la via extragiudiziale pura non basta.
Riassumendo le soluzioni stragiudiziali discusse fin qui, presentiamo una tabella riepilogativa delle loro caratteristiche essenziali:
Tabella riepilogativa – Principali strumenti stragiudiziali di regolazione della crisi
| Strumento | Adesione dei creditori richiesta | Ruolo del tribunale | Effetti principali | Quando usarlo |
|---|---|---|---|---|
| Negoziazione privata informale (piani di rientro, saldo e stralcio) | Consenso di ogni singolo creditore coinvolto (accordi bilaterali) | Nessuno (contratti privati) | Nessuna moratoria legale; efficacia solo tra le parti. Rischio di azioni da creditori esterni. | Situazioni di crisi moderata con pochi creditori o per accordi ponte in attesa di soluzioni più strutturate. |
| Composizione negoziata (con esperto) | Volontaria, si punta al maggior consenso possibile (non c’è soglia fissa) | Limitato: nomina esperto; può concedere misure protettive su richiesta | Sospensione di azioni esecutive se concessa dal giudice; trattative riservate assistite da esperto; nessun accordo imposto, solo volontario. | Crisi in fase iniziale o reversibile; necessità di coordinare creditori con l’aiuto di terzi e ottenere una breve moratoria. |
| Piano attestato di risanamento | Nessuna soglia legale, occorre però accordo con creditori chiave (adesione individuale di chi rinuncia a qualcosa) | Nessuno (solo comunicazioni in registro imprese per trasparenza) | Protezione anti-revocatoria per atti e pagamenti eseguiti in piano ; nessun vincolo sui non aderenti. | Crisi gestibile in via privatistica con pochi creditori fondamentali cooperativi; importanza di blindare transazioni (es. nuovi apporti) da futuri fallimenti. |
| Accordo di ristrutturazione (ordinario) | Consenso di creditori >= 60% del debito . I non aderenti vanno pagati integralmente. | Omologazione da parte del tribunale (controllo di legittimità e merito circa convenienza per non aderenti) | Sospensione azioni esecutive dalla pubblicazione della domanda; vincola i firmatari. Non aderenti: da soddisfare per intero (salvo efficacia estesa). | Crisi significativa ma con concentrazione del debito in poche mani; utile se si raggiunge accordo con banche e principali fornitori e si può pagare gli altri. |
| Accordo di ristrutturazione agevolato | Consenso di creditori >= 30% (solo se condizioni art. 60 CCII: ad es. debiti finanziari marginali) | Omologazione (come sopra) | Come sopra. Ridotta soglia consensi facilita accesso. Non aderenti pagati o trattati se irrilevanti. | PMI con molti creditori di piccola dimensione e pochi creditori principali; permette di procedere anche senza il 60%. |
| Accordo ad efficacia estesa | Consenso 75% di una categoria omogenea (es. finanziari) per estendere ai dissenzienti della stessa | Omologazione (controllo ulteriore sull’equità inter-categorie) | Impone l’accordo anche a minoranza dissenziente di quella categoria. | Aziende con molte banche o bondholder: evita che una minoranza blocchi la ristrutturazione. Ora applicabile anche ad altre categorie omogenee . |
| PRO (Piano di ristrutturazione omologato) | Flessibile: almeno una classe di creditori vota a favore. Possibile cram-down su altre classi dissenzienti. | Omologazione decisiva: giudice può approvare il piano anche contro il voto negativo di classi minoritarie | Sospensione azioni come nel concordato quando richiesto; vincola tutti i creditori secondo il piano omologato, con possibili trattamenti diversificati per classi. | Crisi complessa dove è necessario imporre la ristrutturazione a taluni creditori (es. obbligazionisti o finanziatori recalcitranti) per salvare l’azienda. Generalmente per imprese medio-grandi. |
Come si vede, man mano che si sale di livello (dalla semplice negoziazione privata fino al PRO) aumenta il ruolo del tribunale e la capacità di vincolare le minoranze, ma diminuisce la “libertà” e la riservatezza. L’imprenditore dovrà valutare attentamente quale strumento si confà alla propria situazione. È fondamentale anche considerare i tempi: un accordo privato può chiudersi in settimane, un accordo di ristrutturazione omologato richiede qualche mese, un concordato o PRO possono richiedere oltre un anno per l’omologazione definitiva . Se la situazione dell’azienda è molto urgente (es. pignoramenti imminenti), potrebbe essere necessario attivare subito una procedura giudiziale (ad esempio un concordato preventivo “con riserva”) per congelare tutto, e poi eventualmente convertire in un accordo negoziato.
Nel prossimo capitolo approfondiremo proprio gli strumenti giudiziali a disposizione del debitore, tra cui il concordato preventivo, le procedure di sovraindebitamento (concordato minore, ecc.) e le possibili opposizioni legali a tutela del patrimonio.
Strumenti giudiziali per la difesa del debitore
Quando la crisi aziendale è troppo avanzata o complessa per essere risolta con meri accordi privati – oppure quando si rende necessario sfruttare appieno i poteri protettivi della legge fallimentare e vincolare anche i creditori dissenzienti – entra in gioco la leva giudiziaria. Gli strumenti giudiziali sono quelle procedure attivate davanti all’Autorità giudiziaria che consentono di regolare la crisi o l’insolvenza dell’impresa in modo ordinato e con effetti vincolanti per tutti i creditori. In questa sezione tratteremo i principali:
- Concordato preventivo, nelle sue varianti (in continuità aziendale o liquidatorio, e menzioneremo anche il “concordato semplificato”).
- Procedure di sovraindebitamento (dedicate agli imprenditori minori non fallibili, come il concordato minore, la ristrutturazione dei debiti del consumatore, la liquidazione controllata).
- Opposizione a decreto ingiuntivo e opposizioni esecutive, ossia gli strumenti processuali di difesa contro azioni dei creditori.
- Istanza di sospensione delle azioni esecutive in contesti particolari (ad esempio durante composizione negoziata o in attesa di omologa di un concordato).
- Liquidazione giudiziale (il fallimento) e la possibilità, entro di essa, di proporre un concordato ai creditori (concordato fallimentare), nonché l’istituto dell’esdebitazione per il debitore persona fisica.
Vediamoli nel dettaglio dal punto di vista del debitore.
Concordato preventivo
Il concordato preventivo è probabilmente lo strumento di regolazione della crisi più conosciuto e rappresenta, nell’immaginario, la “via maestra” per evitare il fallimento cercando al contempo di soddisfare i creditori in modo concordato. Come suggerisce il nome, si tratta di un accordo (concordato) proposto prima (preventivo) della dichiarazione di fallimento, che viene presentato dall’imprenditore in crisi al tribunale e sottoposto all’approvazione dei creditori sotto la supervisione di un commissario giudiziale.
Finalità e natura: Il concordato preventivo consente all’imprenditore insolvente o in crisi di evitare la liquidazione giudiziale, offrendo ai creditori un piano di soddisfacimento – che può consistere in una ristrutturazione dell’azienda con prosecuzione dell’attività (concordato in continuità) oppure nella liquidazione del patrimonio in modo controllato (concordato liquidatorio) – in cambio dell’esdebitazione (la liberazione dai debiti residui una volta eseguito il concordato). È una procedura concorsuale giudiziale a tutti gli effetti, che tuttavia vede come protagonista il debitore: è lui che propone il piano e lo gestisce (sotto controllo).
Ecco i punti fondamentali del concordato:
- Presupposti di ammissione: Può accedere al concordato preventivo qualsiasi imprenditore commerciale “fallibile” (ossia non di piccolissime dimensioni, su cui invece si applicano le procedure di sovraindebitamento) che si trovi in stato di crisi o insolvenza. Occorre presentare una domanda al tribunale competente, corredata dai bilanci, dall’elenco dei creditori, dalla relazione di un attestatore indipendente che certifichi la fattibilità del piano e la veridicità dei dati, nonché dal piano concordatario dettagliato e dalla proposta ai creditori. In alternativa, c’è la possibilità di depositare una domanda di concordato “con riserva” o “in bianco” (art. 44 CCII, ex art. 161 co.6 L.F.), ossia chiedere l’ammissione e ottenere le protezioni per poi presentare il piano dettagliato entro un certo termine. Questa opzione è spesso utilizzata quando c’è urgenza di bloccare i creditori, guadagnando tempo per completare la proposta.
- Effetti dell’ammissione (lo stay concorsuale): Dal momento in cui viene pubblicato il ricorso per concordato nel registro delle imprese, scatta il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore (art. 54 CCII, ex art. 168 L.F.) . Questo effetto è automatico e costituisce una protezione fondamentale: i pignoramenti in corso restano sospesi, nuovi pignoramenti non sono possibili. Inoltre, i creditori non possono acquisire titoli di prelazione (garanzie) se non concordati, né possono, se chirografari, compensare crediti (con qualche eccezione). Anche eventuali contratti pendenti con l’azienda non possono essere sciolti solo per il fatto della presentazione del concordato. Dunque, il concordato preventivo offre un poderoso respiro di sollievo al debitore, congelando la situazione e impedendo l’assalto alla diligenza mentre si cerca l’accordo.
- Gestione durante la procedura: Con l’ammissione, il tribunale nomina un Commissario Giudiziale, che ha compiti di vigilanza e riferisce al giudice delegato. L’imprenditore debitore rimane gestore dell’azienda (debitor in possession), però sotto l’osservazione del commissario e con atti di straordinaria amministrazione soggetti ad autorizzazione. In caso di concordato in continuità, l’attività prosegue sotto il piano; in caso di concordato liquidatorio, l’impresa in genere cessa l’attività corrente e si predispone solo a liquidare i beni, spesso affidando la gestione al liquidatore nominato dal tribunale (in tal caso c’è spossessamento). Il confine tra continuità e liquidatorio è importante perché le norme differiscono: ad esempio, in un concordato liquidatorio il Codice richiede che ai creditori chirografari sia garantito un pagamento minimo del 20% del loro credito , mentre in un concordato in continuità questa soglia non si applica (basta che prendano non meno di quanto avrebbero in liquidazione). Inoltre, nel concordato liquidatorio puro non è consentito pagare parzialmente i creditori privilegiati salvo rinuncia degli stessi, mentre nel concordato in continuità è ammessa una parziale deroga al loro pagamento integrale se compensata dal contributo economico del valore generato dalla continuità (la cosiddetta finanza esterna o apporto di utilità).
- Formazione delle classi e proposta ai creditori: Il debitore può (facoltativamente, ma di solito opportuno) suddividere i creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei (ad es. una classe di fornitori chirografari, una classe di banche chirografarie, una classe di subordinati, ecc.) . L’omologazione della direttiva UE ha reso la formazione delle classi generalmente facoltativa, salvo sia necessaria per differenziare trattamenti. Se non si formano classi, i creditori votano tutti insieme. La proposta concordataria deve specificare quanto e come saranno soddisfatti i creditori: ad esempio, “ai chirografari il 30% in 2 anni, ai privilegiati il 100% in 6 mesi, i dipendenti al 100% subito, ecc.”, e come si otterranno le risorse (vendita di cespite X, continuità aziendale produce utili Y, apporto di terzi Z, ecc.). Il piano deve essere attendibile e ragionevole; se si basa su ipotesi fantasiose e non documentate, verrà dichiarato inammissibile . La giurisprudenza ha sottolineato che le proiezioni economiche devono avere riscontro oggettivo e coerenza con i dati storici, e che il tribunale in sede di ammissione verifica la presenza di un patrimonio minimo o di garanzie di terzi tali da sostenere il piano . Inoltre, nel caso di continuità, la proposta deve evidenziare l’eventuale valore riservato ai soci (quanta parte della società rimane a loro, se rimane) perché i creditori possano valutarlo . La mancanza di trasparenza su questo punto viola i doveri di buona fede e può portare a inammissibilità .
- Votazione dei creditori: Una volta ammesso il concordato e depositata la relazione del commissario, si svolge l’adunanza dei creditori (oggi spesso in via telematica). I creditori votano sulla proposta: il meccanismo è a maggioranza di valore. Se non ci sono classi, serve il voto favorevole di creditori che rappresentino più del 50% dei crediti ammessi al voto. Se ci sono classi, in genere occorre la maggioranza in ciascuna classe, oppure, se alcune classi votano no, è possibile comunque omologare con il 50% complessivo e purché certe classi non siano alterate – su questo la riforma ha introdotto dettagli, ma nel concordato “classico” ante riforma la regola era che la maggioranza doveva essere raggiunta in ciascuna classe (ora pare viga la regola della maggioranza in valore e almeno la metà + una delle classi favorevoli, simile al Chapter 11). In ogni caso, i creditori privilegiati votano solo se la proposta li prevede soddisfatti parzialmente (se li paghi al 100% non votano perché non incide sul loro diritto). I creditori postergati o parti correlate di solito non votano o il loro voto non conta per quorum. Se la proposta ottiene la maggioranza richiesta, si passa alla fase di omologazione da parte del tribunale.
- Omologazione e forzatura delle opposizioni: Il tribunale, prima di omologare, verifica d’ufficio la legittimità del procedimento e la fattibilità del piano (solo apparente, non nel merito industriale) e decide sulle eventuali opposizioni. Infatti, i creditori dissenzienti possono proporre opposizione all’omologa se ritengono che il concordato violi la legge o li pregiudichi indebitamente. Ad esempio, un creditore può lamentare che nel piano un altro creditore è stato messo indebitamente in una classe separata avvantaggiata, oppure che la valutazione dei beni è troppo bassa. Il tribunale valuta queste opposizioni. Se tutto è regolare e la maggioranza c’è, emette decreto di omologazione, rendendo il concordato vincolante per tutti i creditori anteriori, compresi i dissenzienti e gli eventuali assenti. A seguito dell’omologa, il debitore (o il liquidatore nominato nel piano) procede all’esecuzione: pagamenti e atti secondo quanto stabilito. Quando il piano è eseguito, il tribunale dichiara l’avvenuto adempimento e il debitore è liberato dai debiti residui falcidiati.
- Concordato in continuità vs liquidatorio: È opportuno spendere qualche parola sulla differenza tra queste due modalità, perché dal punto di vista del debitore sono strategicamente diverse. Nel concordato in continuità aziendale, l’imprenditore propone di proseguire l’attività d’impresa (direttamente o tramite un affitto d’azienda a terzi) durante e dopo il concordato, reputando che ciò massimizzi il valore a beneficio dei creditori (oltre che preservare l’azienda stessa). In questo caso, la legge consente di soddisfare i creditori anche con i flussi di cassa futuri generati dall’attività (non solo col patrimonio disponibile all’ingresso della procedura). È richiesto però che il piano evidenzi i flussi di cassa attesi e che eventuali creditori strategici (come quelli fornitori essenziali) siano pagati regolarmente per continuare la fornitura. Il concordato in continuità non richiede un pagamento minimo ai chirografari, ma come contropartita impone di pagare integralmente i crediti prededucibili e i crediti di lavoro entro 6 mesi , e di non alterare l’ordine delle cause di prelazione (salvo consenso). Il concordato liquidatorio, invece, prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione di tutti i beni dell’azienda per ricavare denaro con cui pagare i creditori. Qui di solito si nomina un liquidatore (può essere lo stesso debitore sotto controllo del commissario o un professionista terzo). Come detto, per legge i creditori chirografari devono ricevere almeno il 20% a meno che l’apporto di risorse esterne aumenti significativamente l’attivo; inoltre è necessario che vi sia un apporto di finanza esterna pari ad almeno il 10% dell’attivo liquidando, se a proporre il concordato liquidatorio è l’imprenditore stesso in proprio (questa è un’innovazione del Codice, per evitare concordati meramente dilatori con offerte al minimo). Una forma speciale è il concordato semplificato per la liquidazione: introdotto nel 2021, consente – se la composizione negoziata è fallita – di presentare un concordato liquidatorio senza voto dei creditori, da omologare dal tribunale se ritiene che comunque i creditori ottengono il meglio possibile . È una ipotesi residuale e richiede appunto il passaggio dalla negoziata.
Dal punto di vista pratico per il debitore, il concordato preventivo è uno strumento potente ma impegnativo: una volta attivato, l’imprenditore è sotto i riflettori del tribunale e dei creditori, e deve rispettare rigorosamente le regole (ogni atto di gestione straordinaria extra piano richiede autorizzazione, occorre informare il commissario su incassi e pagamenti, etc.). La violazione di questi vincoli o il peggioramento del patrimonio durante la procedura possono portare alla revoca del concordato e all’apertura del fallimento (ad esempio, se si scopre che il debitore ha distratto beni o aggravato la posizione dei creditori con azioni in mala fede, il concordato può essere revocato e l’azienda dichiarata insolvente). In compenso, se correttamente gestito, il concordato permette di ristrutturare i debiti con tagli e dilazioni anche senza il consenso di tutti i creditori (basta la maggioranza), e di cristallizzare la situazione debitoria alla data del deposito: i crediti anteriori non producono più interessi (salvo privilegiati nei limiti di capienza), non possono più essere perseguiti individualmente, e i creditori dovranno accontentarsi di quanto previsto dal piano.
Esempio semplificato: la nostra azienda, schiacciata dai debiti ma ancora vitale, presenta un concordato in continuità offrendo: pagamento 100% ai lavoratori e fornitori strategici entro 6 mesi dall’omologa; pagamento 40% ai chirografari ordinari in 4 anni con rate semestrali; pagamento 100% a banche ipotecarie mediante rifinanziamento del debito (o vendita del bene con soddisfazione integrale fino a concorrenza del valore). I soci apportano nuove risorse pari al 10% dell’attivo per coprire le spese. I creditori votano, la maggioranza approva. Il tribunale omologa. L’azienda prosegue l’attività sotto il controllo del commissario fino all’omologa; dopo, esegue i pagamenti previsti. Al termine, i debiti residui sono cancellati. I soci mantengono la proprietà dell’azienda (magari con valore diluito se sono entrati nuovi finanziatori). I creditori hanno evitato l’incertezza del fallimento e ottenuto una percentuale concordata.
Procedure di sovraindebitamento (concordato minore e altri strumenti per il debitore non fallibile)
Non tutte le imprese possono accedere al concordato preventivo: sono escluse infatti quelle sotto le soglie di fallibilità (imprenditori minori, piccoli, o non commerciali). Pensiamo a una ditta individuale artigiana o a una startup molto piccola, o a un professionista, o un imprenditore agricolo: costoro, pur potendo avere debiti elevati, non rientrano nel fallimento. Per loro il legislatore ha predisposto delle procedure ad hoc di composizione della crisi da sovraindebitamento, introdotte dapprima con la L. 3/2012 e ora ricomprese nel Codice della Crisi (artt. 65 e ss. CCII).
Le procedure di sovraindebitamento principali sono:
- Concordato minore: è una sorta di concordato preventivo in miniatura destinato ai debitori non fallibili (piccoli imprenditori, professionisti, consumatori che svolgono attività imprenditoriale residuale, ecc.). La logica è simile al concordato preventivo: il debitore propone un piano ai creditori e, con il voto favorevole del 50% dei crediti, ottiene l’omologazione dal tribunale. Un aspetto rilevante è che il concordato minore richiede la nomina di un Gestore della crisi (figura analoga al commissario, di solito dall’Organismo di Composizione della Crisi – OCC) fin dall’inizio, che aiuta il debitore a predisporre il piano e vigila. Il piano ha contenuto libero (può prevedere moratorie, stralci, continuazione dell’attività etc.), ma non può alterare le cause di prelazione: in altre parole, anche nel concordato minore i crediti privilegiati vanno soddisfatti integralmente salvo diversa disposizione di legge o consenso specifico . La Cassazione di recente ha ribadito che non è mai consentito violare la par condicio fra creditori privilegiati e chirografari nel concordato minore . Ad esempio, non è ammissibile offrire il 5% sia ai creditori ipotecari sia a quelli chirografari indiscriminatamente: i primi (garantiti) devono avere di più dei secondi, perché così prevede la legge (art. 2741 c.c. e art. 84 CCII) . Un caso pratico commentato dalla Cassazione (sent. n. 28574 del 28/10/2025) ha visto proprio un professionista proporre un concordato minore pagando ipoteca al 100% a scadenze e tutti gli altri al 5%: il tribunale ha dichiarato inammissibile la proposta per violazione dell’ordine delle prelazioni, e la Cassazione ha confermato che non si può “appiattire” tutti i creditori su un uguale trattamento se la legge impone differenze . Pertanto, il debitore nel concordato minore deve rispettare rigorosamente i privilegi; l’elasticità è semmai sui creditori chirografari (che possono essere falcidiati anche integralmente se il piano dimostra che non potrebbero comunque ricevere nulla dalla liquidazione). Come nel concordato preventivo, anche qui l’omologazione rende il piano vincolante per tutti.
- Ristrutturazione dei debiti del consumatore: è la procedura riservata ai consumatori sovraindebitati, cioè persone fisiche che hanno debiti prevalentemente contratti per scopi estranei all’attività imprenditoriale (es. privati cittadini indebitati per mutui, finanziarie, spese di famiglia). Non rientrerebbe nel nostro caso aziendale se non indirettamente (ad esempio, il socio o l’amministratore può essere un consumatore indebitato per garanzie prestate). La ristrutturazione del consumatore è simile al concordato minore ma senza voto dei creditori: decide solo il giudice se omologare, valutando meritevolezza e convenienza per i creditori. È un piano unilaterale che i creditori subiscono (salvo eventuali classi con accordo parziale). Nel contesto aziendale, qui basta ricordare che il titolare persona fisica dell’azienda potrebbe farvi ricorso se i debiti sono personali e da consumatore (ma se sono debiti d’impresa, no, allora è concordato minore).
- Liquidazione controllata del sovraindebitato: questa è l’equivalente del fallimento per i non fallibili. Se un piccolo imprenditore non ha alcuna prospettiva di risanamento o proposta credibile, può (o possono i creditori) chiedere al tribunale la liquidazione controllata del suo patrimonio. Un liquidatore nominato venderà i beni e distribuirà il ricavato ai creditori. Al termine, però, la persona fisica può ottenere l’esdebitazione di tutti i debiti insoddisfatti, a certe condizioni (non aver frodato, cooperato, ecc.). È dunque una via per chiudere la posizione debitoria per chi non ha i requisiti del fallimento. Per l’imprenditore collettivo (es. piccola srl sottosoglia?), teoricamente anche loro se non fallibili potrebbero accedere, ma in genere le società di capitali, anche se piccole, se superano parametri minimi possono essere dichiarate fallite. Comunque la liquidazione controllata è un’opzione se un accordo non è praticabile.
In sostanza, per la nostra azienda di sistemi filtranti, se si trattasse di una ditta individuale o una società di persone di dimensioni ridotte, che non raggiunge le soglie di fallibilità, la strada del concordato preventivo classico sarebbe sbarrata. In tal caso, il titolare potrebbe cercare il concordato minore, magari con l’aiuto di un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) che mette a disposizione un gestore. Il concordato minore gli permetterebbe di proporre ai creditori un piano – per esempio, liquidare il magazzino e la casa coniugale per pagare il 50%, e chiedere l’esdebitazione sul resto – ottenendo una votazione simile a quella del concordato preventivo. Se invece non ha davvero nulla da offrire, potrebbe optare direttamente per la liquidazione controllata così da liberarsi dai debiti in 3 anni (il Codice prevede che la liquidazione controllata debba chiudersi di regola entro 3 anni , dopodiché scatta l’esdebitazione di diritto).
Una nota: anche per i sovraindebitati esiste una sorta di “composizione negoziata”, ossia la procedura familiare se più membri della stessa famiglia sono coinvolti, o la possibilità di presentare proposte congiunte. Non entriamo nel dettaglio, ma il sistema è ormai completo e copre ogni soggetto.
Opposizione a decreto ingiuntivo e altre difese processuali
Finora abbiamo parlato di procedure concorsuali (accordi, concordati, ecc.), ma esistono anche strumenti giudiziali difensivi individuali che il debitore può (e deve) attivare per contestare o ritardare le pretese dei singoli creditori quando vi siano i presupposti. Tra i principali:
- Opposizione a decreto ingiuntivo: Se l’azienda riceve un decreto ingiuntivo da un creditore (bancario, fornitore, ecc.) che ingiunge il pagamento di una somma entro 40 giorni, è fondamentale valutare se sussistono motivi per proporre opposizione (art. 645 c.p.c.). L’opposizione va presentata con atto di citazione entro 40 giorni dalla notifica (o 50 se il decreto è notificato fuori dal comune), e dà vita a un giudizio ordinario in cui il debitore diventa attore opponente e il creditore opposto assume l’onere di provare il proprio credito. Quali possono essere i motivi? Ad esempio: la merce fornita era difforme o viziata, quindi il debitore contesta di dover pagare tutto; oppure il servizio è stato svolto male; oppure il credito è prescritto; o ancora, il creditore ha contabilizzato interessi usurari; o infine, magari il creditore ha già ricevuto pagamenti non considerati nel decreto. Anche vizi formali del decreto (mancanza di requisiti) possono essere contestati. L’opposizione, se accoglibile, porta alla revoca del decreto e al rigetto della domanda del creditore, almeno in parte. Per la nostra prospettiva, anche se il debitore sa di dovere la somma, può considerare l’opposizione come strumento tattico per guadagnare tempo: la proposizione dell’opposizione sospende l’efficacia esecutiva del decreto, salvo che esso sia stato dichiarato provvisoriamente esecutivo dal giudice ex art. 642 c.p.c. (in quel caso, l’opponente deve chiedere al giudice la sospensione dell’esecuzione, provando “gravi motivi”). Una volta in corso il giudizio di opposizione, di norma i creditori attendono l’esito prima di poter pignorare, a meno di aver ottenuto l’esecuzione provvisoria. Dunque, se l’azienda ha ragionevoli contestazioni, l’opposizione è doverosa; se non ne ha, può comunque tentare un’opposizione dilatoria, ma con cautela: un’opposizione pretestuosa espone poi a maggiori spese legali e, in casi estremi, a responsabilità aggravata (se si ravvisa mala fede). Nella logica difensiva, a volte si utilizza l’opposizione come leva negoziale: durante il giudizio, il debitore e creditore possono sempre transigere e conciliare la controversia.
- Opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi: Se un creditore ha già un titolo esecutivo (es. decreto non opposto, sentenza, cambiale protestata) e avvia un pignoramento, il debitore può reagire con due tipi di opposizione:
- L’opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.) mira a contestare il diritto del creditore di procedere ad esecuzione, integralmente o parzialmente. Ad esempio: “non gli devo nulla perché ho già pagato” (adempimento sopravvenuto), oppure “il titolo non è (più) efficace”, oppure “il bene pignorato è impignorabile”. Un caso tipico: l’Agente della Riscossione pignora un bene che è nel fondo patrimoniale e il debitore sostiene che il debito non era per bisogni familiari, dunque chiede di bloccare l’esecuzione su quel bene invocando l’art. 170 c.c. . L’opposizione all’esecuzione può essere proposta finché non è terminata la procedura, ma se è proposta prima o con il pignoramento, sospende l’azione esecutiva. Sta al giudice dell’esecuzione valutare se sospendere in via provvisoria.
- L’opposizione agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.) invece attacca vizi formali della procedura (es. nullità del precetto, irregolarità nella notifica, errori nei pubblici avvisi, ecc.). Va fatta in tempi strettissimi (5 giorni o 20 giorni a seconda del caso). Se accolta, può portare all’annullamento di quell’atto (ad esempio nullità del precetto significa che il pignoramento perde efficacia). Non risolve il debito, ma può rallentare il creditore che dovrà rimediare all’errore.
- Sospensione delle azioni esecutive in contesti di regolazione della crisi: Come accennato, quando un imprenditore avvia una procedura concorsuale (concordato preventivo, accordo di ristrutturazione, composizione negoziata con misure protettive), ha la possibilità di ottenere una sospensione generalizzata delle esecuzioni, come previsto dalle norme specifiche. È bene sottolineare che questa sospensione non è automatica in ogni caso:
- Nel concordato preventivo, scatta automaticamente dal deposito della domanda al registro imprese (effetto ex lege).
- Negli accordi di ristrutturazione, scatta dal momento della pubblicazione dell’istanza di omologazione con richiesta di protezione (il tribunale può concederla).
- Nella composizione negoziata, come detto, va chiesta e concessa con decreto.
- Nel sovraindebitamento (concordato minore), analogamente alla preventiva, si può chiedere sospensione.
Quindi, se l’imprenditore sa già che andrà verso un concordato o accordo, può sfruttare questi meccanismi invece di fare opposizioni frammentarie. Ad esempio, se arriva un precetto minacciando pignoramento fra 10 giorni, depositare una domanda di concordato in bianco sospenderà quell’azione e tutte le altre; forse è più efficace che fare un’opposizione ex 615 che potrebbe non ottenere subito sospensione.
- Ricorsi urgenti (reclamo art. 700 c.p.c. ecc.): In casi particolari, il debitore può tentare strade più creative. Ad esempio, se un istituto finanziario minaccia di escutere un’ipoteca su un immobile vitale per l’azienda, il debitore potrebbe chiedere in via d’urgenza al tribunale civile di inibire tale azione cautelarmente, provando che sta predisponendo un piano che garantirà meglio il creditore. Non è scontato affatto ottenere un provvedimento del genere, ma la giurisprudenza talvolta ha concesso sospensioni in attesa di concordati. Normalmente, tuttavia, questi ricorsi si integrano con le procedure concorsuali (ad esempio il debitore può chiedere al tribunale fallimentare di sospendere una specifica esecuzione su un bene strategico ex art. 54 CCII comma 3).
In conclusione su questo punto: il debitore deve valutare caso per caso le opportunità di opposizione e difesa processuale. Se ha ragione sul merito, l’opposizione gli eviterà di pagare indebitamente. Se ha torto sul merito ma ha bisogno di tempo, l’opposizione è un ponte ma va accompagnata presto con una soluzione più strutturale (accordo o concordato). Inoltre, va considerato il costo: opporsi, fare cause, significa avvocati e spese (che se perse, ricadono ulteriormente sull’azienda). Quindi queste difese vanno orchestrate in una strategia unica di ristrutturazione, per evitare di dissipare risorse in mille micro-contenziosi.
Liquidazione giudiziale (fallimento) ed esdebitazione
Parliamo ora brevemente di ciò che accade se, nonostante tutti gli sforzi difensivi, l’epilogo è la dissoluzione dell’azienda per via concorsuale. La liquidazione giudiziale è la procedura che prende il posto del vecchio fallimento ed è orientata – come dice il nome – a liquidare il patrimonio del debitore insolvente per soddisfare i creditori secondo le regole della par condicio.
Dal punto di vista del debitore, non è propriamente uno strumento di difesa (anzi, è quello da evitare di solito), ma in certi casi può diventare la soluzione ultima e ordinata. Ad esempio, se l’azienda non è più risanabile e non c’è alcuna proposta credibile da fare, avviare volontariamente la liquidazione giudiziale (ossia depositare istanza di fallimento in proprio) può essere un atto di responsabilità che evita ulteriori aggravamenti. Il Codice prevede una sorta di premialità per il debitore cooperativo: se l’imprenditore collabora con gli organi della procedura e non ci sono stati atti di frode, la persona fisica merita l’esdebitazione di diritto dopo la chiusura della liquidazione, senza bisogno di un giudizio apposito . L’esdebitazione è la cancellazione dei debiti residui non soddisfatti, un concetto fondamentale per dare al fallito persona fisica la possibilità di ripartire. Con la riforma, per i fallimenti aperti dopo il 15/7/2022, l’esdebitazione non richiede neppure un’istanza: è automatica trascorsi 3 anni dalla chiusura, salvo eccezioni .
Per le società, invece, la liquidazione giudiziale porta alla loro estinzione senza alcun “dopo”, e non essendo persone fisiche non c’è esdebitazione (i debiti insoddisfatti restano insussistenti perché la società non esiste più, ma eventualmente i soci di società di persone ne rispondono, i soci di srl no). A proposito, vale la pena menzionare un recente intervento della Cassazione a Sezioni Unite (sent. 3625/2025): ha stabilito che i soci di S.r.l. cancellata dal registro non sono automaticamente responsabili dei debiti tributari della società, a meno che l’Agenzia delle Entrate non provi concretamente che abbiano ricevuto distribuzioni di attivo in sede di liquidazione . In pratica, non basta più dire “la società è estinta, quindi il debito passa ai soci”: serve una nuova specifica azione contro ciascun socio, motivata e provata (quanto hanno incassato, ecc.) . Ciò a tutela di quegli imprenditori che chiudono una srl senza aver distratto nulla: non potranno essere perseguiti dal Fisco senza una seria base . Questo principio, di riflesso, incoraggia il comportamento corretto in liquidazione.
Quindi, se il fallimento (liquidazione giudiziale) è inevitabile, conviene al debitore: – Cooperare col curatore, consegnare documenti, evitare di nascondere beni o ostacolare (questo sia per evitare azioni penali per bancarotta, sia per avere l’esdebitazione). – Non distribuire niente ai soci prima di pagare i creditori nelle società (per evitare che i soci poi siano attaccabili). – Valutare l’opportunità di un concordato fallimentare: anche dopo la dichiarazione di liquidazione giudiziale, il debitore (o un terzo, o il curatore stesso) può proporre un concordato nella liquidazione ai creditori (in pratica un accordo di chiusura anticipata del fallimento offrendo una certa %). Il Codice stabilisce però che se è il debitore a proporlo, deve aggiungere almeno il 10% di risorse esterne . Non è uno strumento comunissimo, ma potrebbe essere utile se ad esempio un familiare offre soldi per chiudere la partita fallimentare e liberare il debitore prima.
- Richiedere l’esdebitazione finale (se non automatica, a seconda della tempistica): l’esdebitazione non copre però i debiti per sanzioni penali, né quelli per obblighi di mantenimento e alimentari, né debiti da dolo non eradicabili (es. risarcimenti da illecito extra-fallimentare).
In sintesi, arrivare al fallimento è chiaramente l’ultima spiaggia e la sconfitta del risanamento. Ma una volta lì, “difendersi” significa almeno salvare il salvabile: la propria onorabilità (non commettere reati di bancarotta), il proprio futuro (ottenere esdebitazione), e mitigare i danni ai terzi (collaborare per massimizzare l’attivo ai creditori).
La tutela del patrimonio personale del debitore
Un imprenditore alle prese con i debiti dell’azienda deve preoccuparsi non solo del destino della società o dell’attività commerciale, ma spesso anche del proprio patrimonio personale e di quello familiare. Molti piccoli imprenditori, infatti, hanno mescolato le sorti dell’impresa con quelle della famiglia, magari firmando garanzie personali, utilizzando beni personali (come l’abitazione) per finanziare l’azienda o semplicemente confondendo spese aziendali e familiari. Pertanto, “difendersi” dai debiti significa spesso cercare di proteggere la casa di abitazione, i risparmi personali, i beni dei familiari dagli effetti rovinosi dell’insolvenza dell’azienda.
Vediamo gli strumenti e i limiti di questa protezione patrimoniale.
Beni impignorabili per legge
La legge italiana individua alcune categorie di beni che, per motivi sociali o di equità, non possono essere pignorati dai creditori, o lo possono solo entro certi limiti. Conoscerli è importante per sapere cosa il creditore non può portar via e quindi eventualmente concentrare su di essi la tutela della vita familiare. I principali sono:
- Beni di prima necessità: l’art. 514 c.p.c. elenca i beni assolutamente impignorabili, tra cui i vestiti, la biancheria, i mobili e gli utensili di casa indispensabili al debitore e alla sua famiglia, nonché gli alimenti e combustibili necessari per un mese. Questo significa che il creditore non può svuotare la casa di tutto lasciando la famiglia sul lastrico: ad esempio, non può pignorare il letto, il tavolo da pranzo, il frigorifero, la stufa, ecc. Ovviamente c’è margine di interpretazione su cosa sia “indispensabile” e spesso si lascia al buon senso dell’ufficiale giudiziario. Allo stesso modo, scorte di cibo o riscaldamento per un mese sono protette.
- Strumenti di lavoro: l’art. 515 c.p.c. rende relativamente impignorabili gli strumenti, oggetti e libri indispensabili per l’esercizio della professione, arte o mestiere del debitore, a meno che il creditore procedente sia lo stesso che ha fornito quei beni (in quel caso li può riprendere). Cosa significa? Che se l’imprenditore è un artigiano o un professionista, gli attrezzi del mestiere (macchinari, computer, attrezzatura tecnica) non possono essere pignorati da un creditore qualsiasi, perché altrimenti gli si toglierebbe la possibilità di continuare a lavorare e guadagnare. Però, attenzione: la norma tutela ciò che è “indispensabile”; se l’imprenditore ha 10 macchinari e gliene bastano 2 per l’attività minima, gli altri 8 non sono indispensabili e possono essere pignorati. Inoltre il giudice, su istanza del creditore, può autorizzare pignoramenti di strumenti di lavoro se reputa che il valore del bene eccede di molto l’importanza per il debitore (con l’impegno di convertire una parte del ricavato in acquisto di beni equivalenti al debitore). In generale però, il parco minimo per lavorare è salvo.
- Beni sacri o di particolare valore morale: ad esempio le cose necessari al culto religioso (se il debitore è un ministro di culto), o le decorazioni al valore, scritti di famiglia, ecc. (artt. 514 e 515 c.p.c.). Sono casi rari, ma se un imprenditore ha medaglie al valore o ricordi di famiglia, non glieli porteranno via.
- Stipendi, salari e pensioni: qui la regola è di impignorabilità parziale. Per redditi da lavoro dipendente o assimilati, la legge fissa un limite: solo un quinto del netto mensile è pignorabile (art. 545 c.p.c.), salvo debiti alimentari (in quel caso il giudice può elevare la quota) o casi di concorso con crediti esattoriali (in cui un altro quinto può sommarsi). Inoltre c’è una soglia di minima tutela: se il debitore ha uno stipendio o pensione bassa, un importo pari all’assegno sociale (circa €574 nel 2025) aumentato della metà è impignorabile totalmente; la parte eccedente è pignorabile per il quinto . Esempio: pensione €800, impignorabile fino a ~€861 (574+50%), quindi si pignora su €800-861=0, nulla. Pensione €1200, impignorabili €861, sul resto €339 si può pignorare il 20% (~€67 al mese). Per gli stipendi su conto corrente, normative recenti proteggono l’ultimo stipendio accreditato integralmente e, per il pregresso, sempre la regola del quinto. Questi limiti sono cruciali se l’imprenditore o i garanti hanno redditi da lavoro dipendente: i creditori non possono prendere più di tanto, e questo garantisce un minimo per vivere. Attenzione: se il debitore è un socio lavoratore o amministratore che percepisce compenso dalla sua società, anche quel compenso è tecnicamente pignorabile (quinto) da parte di terzi.
- Prima casa con Equitalia (Agenzia Entrate-Riscossione): come già accennato, esiste una tutela specifica per l’abitazione principale del debitore nei confronti del Fisco. La regola generale (art. 76 DPR 602/73 modificato) è che l’Agente della Riscossione non può espropriare l’unico immobile di proprietà del debitore se è adibito a sua abitazione principale, salvo che sia di lusso (categorie A/8, A/9) o che il debito sia molto elevato. In particolare, per procedere a pignorare un immobile di un debitore, l’ADER deve: 1) aver iscritto ipoteca e atteso 6 mesi; 2) il debito deve superare €120.000; 3) il debitore deve possedere più immobili oppure l’immobile non deve essere l’abitazione principale . Questo significa, traducendo: la prima casa non di lusso e unica proprietà è sostanzialmente impignorabile dal Fisco . Può esservi iscritta ipoteca (se debito > 20.000), ma non seguita da esecuzione. Invece, come ricordato, per banche e altri creditori privati non esiste un divieto di pignoramento della prima casa: essi possono procedere (una banca con mutuo è anzi la situazione tipica). Quindi questa tutela è mirata solo contro i debiti fiscali.
- Fondo patrimoniale e trust: Tecnicamente non sono “beni impignorabili per legge”, ma meccanismi che rendono tali (o cercano di rendere tali) alcuni beni destinandoli a uno scopo. Ne parliamo nel prossimo sottopunto, perché richiede approfondimento.
Il fondo patrimoniale: vantaggi e limiti
Il fondo patrimoniale è un istituto del diritto di famiglia (artt. 167-171 c.c.) con cui due coniugi (o anche una persona singola, se vedova o genitore per i figli) destinano uno o più beni – tipicamente un immobile, titoli o altri cespiti – a far fronte ai bisogni della famiglia. In pratica, si crea un vincolo di destinazione su quei beni: essi costituiscono un patrimonio separato dai beni “normali” dei coniugi, utilizzabile solo per spese che riguardano la famiglia (mantenimento, istruzione figli, casa, salute, etc.). Qual è l’effetto in caso di debiti? L’art. 170 c.c. stabilisce che i beni del fondo e i loro frutti non possono essere pignorati per debiti che il creditore sapeva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni familiari .
Tradotto: se ho messo la casa di abitazione in fondo patrimoniale e contraggo un debito che nulla ha a che vedere con la famiglia (ad esempio un debito dell’azienda, o una fideiussione per l’attività d’impresa), quel creditore non potrà espropriare la casa a patto che si possa dimostrare che egli era consapevole della estraneità del debito ai bisogni familiari. Viceversa, se il debito è stato contratto per bisogni familiari (es: un finanziamento per pagare spese di casa, o tasse scolastiche) allora i beni del fondo rispondono e possono essere pignorati.
Questa protezione ha reso il fondo patrimoniale uno strumento molto diffuso tra imprenditori sposati: è frequente che, soprattutto all’avvicinarsi di situazioni rischiose, la coppia decida di costituire un fondo patrimoniale mettendovi la casa di abitazione, nella speranza di sottrarla alle pretese dei creditori dell’azienda. Tuttavia, occorre conoscerne bene i limiti e i rischi:
- Estraneità del debito ai bisogni familiari: Su questo concetto è intervenuta più volte la Cassazione. Essa ha chiarito che di norma, le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività d’impresa o professionale sono considerate estranee ai bisogni della famiglia , poiché mirano al guadagno e non al sostentamento familiare diretto. Dunque, in linea generale i debiti fiscali, bancari, verso fornitori dell’azienda sarebbero fuori dall’ambito familiare. Ma c’è un però: spesso i proventi dell’impresa servono anche alla famiglia. Se il creditore (es. la banca) può sostenere che quel finanziamento imprenditoriale in realtà mirava anche a mantenere un tenore di vita familiare, potrebbe affermare che è connesso ai bisogni familiari. La legge dà rilievo alla conoscenza del creditore: deve sapere che il debito era per scopi estranei. La giurisprudenza ha elaborato che questa conoscenza può essere provata dal debitore anche tramite presunzioni semplici . Ad esempio, Cassazione ha detto: se un soggetto ha più attività e dimostra che una (da cui origina il debito) era scollegata dal budget familiare, può far valere l’estraneità . Nel dubbio, il giudice deve valutare caso per caso. La conseguenza pratica è che il debitore che oppone il fondo patrimoniale deve avviare un giudizio (tipicamente, un’opposizione all’esecuzione o un giudizio di merito) per far dichiarare che quel pignoramento va annullato per carenza di presupposti (estraneità del debito). Nel giudizio dovrà fornire elementi sulla natura del debito e la consapevolezza del creditore. Ad esempio, se l’azienda è intestata al marito e il debito è verso fornitore dell’azienda, è abbastanza chiaro che la fornitura di membrane osmosi non riguarda la famiglia. Se invece il debito è una carta di credito o un mutuo liquidità, può essere discusso se i soldi servivano per la famiglia.
- Timing di costituzione del fondo: se il fondo patrimoniale è stato costituito dopo che il debito è sorto (o era prevedibile che sorgesse), c’è il forte rischio che il creditore possa esercitare l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., sostenendo che si tratta di un atto in frode ai creditori. Ad esempio, se in vista di un insoluto grosso, un imprenditore mette la casa in fondo, quel atto può essere revocato (entro 5 anni dalla costituzione) se il creditore dimostra che così facendo lo si pregiudica e c’era scienter (consapevolezza). La Cassazione penale addirittura considera la costituzione in fondo, se dolosa verso i creditori, come possibile oggetto di reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) se fatto per non pagare il Fisco. Quindi, come strumento protettivo, funziona meglio se fatto “in bonis” e molto prima dei problemi. Se fatto all’ultimo, rischia di saltare.
- Oggetto del fondo: di solito si vincola la casa coniugale. Attenzione che se sul bene c’è un’ipoteca (es. mutuo), il fondo non pregiudica il creditore ipotecario: la banca potrà comunque pignorarla in caso di inadempimento, perché il suo credito è per definizione legato alla famiglia (mutuo casa serve ai bisogni) e comunque l’ipoteca è anteriore. Non solo: l’Agenzia delle Entrate Riscossione può comunque iscrivere ipoteca sui beni in fondo se il debito è fiscale, in attesa di chiarire se poi potrà espropriare . La Cassazione (Sez. Trib.) nel 2024 ha statuito ad esempio che se il debitore non prova l’estraneità, l’ipoteca resta legittima . Anche su questo c’è un contenzioso.
- Ambito soggettivo: il fondo vale per debiti dei coniugi, non per debiti di soggetti terzi. Se l’imprenditore è single o non può fare fondo, esistono istituti analoghi come il trust familiare o il vincolo ex art. 2645-ter c.c. (destinazione per bisogni famiglia o disabili). Il trust può segregare beni per un fine, ma è spesso guardato con sospetto dai giudici italiani se fatto per sottrarre beni ai creditori, e può anch’esso essere revocato se fraudolento.
Dunque, consiglio pratico: se l’imprenditore ha la possibilità (è coniugato e c’è un immobile di proprietà), costituire un fondo patrimoniale prima di indebitarsi troppo può essere un elemento di salvaguardia della casa. Tuttavia, non è una garanzia assoluta: come visto, molti trovano modi per aggirarlo se il debito risale all’attività di impresa. Ad esempio la Cassazione ha sancito in più pronunce che non basta la mera natura imprenditoriale del debito a salvare automaticamente il fondo : serve comunque che il debitore vinca la presunzione di legittimità dell’azione esecutiva. In altre parole, se il debitore non reagisce, l’esecuzione va avanti; spetta a lui attivarsi e convincere il giudice che il creditore procedente sapeva del fine extra-familiare. Non è sempre semplice.
Un ulteriore appunto: i frutti dei beni in fondo (es. affitto della casa) seguono lo stesso regime. E i redditi da lavoro dei coniugi non entrano automaticamente nel fondo (quindi pignorabili salvo il limite del quinto come visto).
Altre forme di protezione patrimoniale
Oltre al fondo patrimoniale, esistono altri strumenti o accorgimenti con finalità simili:
- Trust: l’imprenditore può istituire un trust trasferendo beni (es. immobili, liquidità) a un trustee affinché li gestisca per un certo scopo (ad es. mantenimento della famiglia, pagamento degli studi dei figli). Il trust crea una separazione patrimoniale anche più forte del fondo (i beni escono dalla titolarità del disponente). Tuttavia, un trust costituito dopo che i debiti sono sorti viene normalmente considerato un atto a titolo gratuito pregiudizievole, quindi facilmente revocabile dai creditori entro 5 anni. Ci sono trust “di garanzia” usati in ristrutturazioni (es. i beni vanno in trust a beneficio creditori, non per proteggerli dal creditore!). Insomma, il trust se fatto a scopo puramente protettivo e con creditori attorno è pericoloso. In ambito familiare può essere utile ad esempio per tutelare un figlio disabile (infatti c’è una legge speciale sul “dopo di noi”), ma per sottrarre beni a creditori è spesso smontato come pauliano (illegittimo).
- Vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c.: dal 2006 esiste la possibilità di trascrivere un vincolo di destinazione su un immobile o bene registrato, per massimo 90 anni o vita del beneficiario, destinandolo a soddisfare interessi meritevoli come quelli della famiglia o di un disabile. Questo vincolo ha effetti simili al fondo: il bene è destinato solo a quello scopo. Però, anche qui, se il creditore dimostra frode, può revocarlo. Inoltre è poco usato e c’è ancora poca giurisprudenza.
- Polizze vita e previdenza: le somme investite in polizze vita (a premio ricorrente) godono di impignorabilità e insequestrabilità finché i premi versati non sono manifestamente eccedenti le capacità economiche (art. 1923 c.c.). Molti imprenditori versano surplus di liquidità in assicurazioni vita, sia come investimento sia come riserva non attaccabile dai creditori. Ma attenzione: se uno versa 1 milione in polizza e guadagna 50k l’anno, è ovvio che eccede e i creditori possono far dichiarare inefficacia quell’impignorabilità (c’è giurisprudenza in merito). Però versare contributi a piani pensionistici integrativi o assicurazioni con moderazione può mettere qualcosa al riparo (oltre a costituire risparmio).
- Società e separazione dei patrimoni: gestire l’attività tramite una società di capitali (S.r.l.) in sé è una forma di protezione: i debiti sociali non intaccano il patrimonio personale dei soci, salvo garanzie e responsabilità particolari. Dunque un imprenditore individuale fortemente esposto potrebbe valutare di conferire l’azienda in una S.r.l. e così circoscrivere i rischi futuri. Tuttavia questa operazione non retroagisce: i debiti pregressi restano suoi e i creditori potrebbero seguire i beni trasferiti (con azioni revocatorie sul conferimento se li pregiudica). Non di rado, imprenditori falliti riaprono con una nuova società intestata a prestanome o familiare: questa pratica “abusiva” rischia la revocatoria dei passaggi di asset e potenziali azioni risarcitorie se si dimostra che la nuova società è un mero alter ego per sottrarre affari alla vecchia massa fallimentare (oltre a possibili accuse di bancarotta). Dunque la soluzione lecita è farlo preventivamente e correttamente.
- Rinuncia all’eredità e impresa familiare: se i debiti sono insostenibili, l’imprenditore potrebbe anche decidere di togliere dal proprio patrimonio i beni intestati (ad esempio donandoli ai figli). La donazione di beni in costanza di debiti è certamente revocabile per 5 anni; tuttavia, dopo 5 anni senza fallimento, diventa inoppugnabile dai creditori (salvo se si prova dolo specifico oltre i 5 anni, difficile). Non è una protezione forte, ma talvolta viene tentata. Bisogna bilanciare col fatto che donare un immobile lo rende invendibile (i terzi non comprano volentieri beni donati da meno di 20 anni) e può generare conflitti con eventuali altri eredi. Alternative: cedere beni a terzi a valore di mercato e usare i proventi per i creditori preferiti o trasferirli all’estero (pratica borderline, facilmente contestabile). In extremis, la rinuncia all’eredità di un imprenditore sull’orlo del fallimento che riceve eredità potrebbe servire a non far confluire beni ereditati alla massa debitoria (ma anche questo atto è revocabile se fatto a danno creditori).
In sintesi, proteggere il patrimonio personale in presenza di debiti è un tema delicato: gli strumenti legali esistono, ma vanno usati per tempo e in buona fede. Un utilizzo tardivo o scorretto rischia di essere annullato e, peggio, di far perdere credibilità al debitore di fronte al giudice (ad esempio in un concordato, se il commissario vede che poco prima hai donato casa a tua moglie, segnalerà l’atto come sospetto). D’altra parte, predisporre ex ante qualche cuscinetto (mettere la casa in fondo quando ancora le cose vanno bene, separare i beni matrimoniali con separazione dei beni, intestare magari l’immobile al coniuge non rischioso, ecc.) è prudenza che molti imprenditori adottano. L’importante è essere consapevoli che nessuna formula magica esiste: la migliore difesa del patrimonio è non esporsi a debiti insostenibili; se ciò accade, poi ogni mossa va ponderata con professionisti esperti per evitare reati o cause perse.
Responsabilità dell’imprenditore e degli amministratori
Un ultimo aspetto cruciale è la responsabilità personale di chi gestisce l’azienda indebitata: questo riguarda sia l’imprenditore individuale sia, nelle società, gli amministratori e i soggetti con potere decisionale. Difendersi dai debiti significa anche conoscere i propri doveri legali nella crisi d’impresa e i rischi di essere chiamati a risponderne con il proprio patrimonio (o penalmente) se tali doveri non vengono rispettati.
Vediamo le principali aree di responsabilità:
Obblighi di legge in caso di crisi (assetti adeguati e dovere di intervento)
Il Codice Civile, all’art. 2086 comma 2, impone all’imprenditore (società o ditta) di istituire assetti organizzativi adeguati per rilevare tempestivamente la crisi e attuare le misure necessarie. Nelle società di capitali, gli amministratori sono direttamente soggetti a questa norma. Cosa significa in concreto?
Significa che l’imprenditore deve dotarsi di sistemi contabili, di controllo di gestione e di monitoraggio finanziario tali da far emergere i segnali di difficoltà prima che diventino insolvenza conclamata. Ad esempio: verificare periodicamente gli indici di liquidità, la sostenibilità del debito nei 6-12 mesi seguenti, l’andamento delle perdite e del patrimonio netto. Se questi segnali dicono che c’è il rischio di insolvenza, l’imprenditore ha il dovere di attivarsi per salvaguardare l’impresa: può cercare nuova finanza, rinegoziare i debiti, ridurre costi, e – se capisce che da solo non ce la farà – ha l’obbligo di valutare le procedure di composizione della crisi (dalla negoziata al concordato).
Omettendo questo e tirando a campare finché qualcuno non lo “obbliga” (es. con istanza di fallimento), l’amministratore viola i suoi doveri. Questo può costituire base per una futura azione di responsabilità: i creditori, o il curatore fallimentare, potranno dire “se avesse adottato misure un anno prima, si sarebbero evitati tot danni, invece ha aggravato il dissesto”.
Un esempio tipico: l’amministratore di S.r.l. che, pur in presenza di perdite rilevanti che erodono il capitale sociale, non convoca l’assemblea né ricapitalizza né liquida la società, e continua ad operare accumulando ulteriori debiti – magari verso il Fisco o fornitori. All’arrivo del fallimento, il curatore quasi certamente eserciterà l’azione di responsabilità ex art. 146 L.F. (ora art. 255 CCII) per “violazione dell’art. 2486 c.c.”. Infatti l’art. 2486 c.c. dispone che quando la società ha perso il capitale minimo (o comunque è sciolta per altre cause), gli amministratori devono limitarsi ad atti di ordinaria amministrazione, e sono personalmente responsabili per le nuove obbligazioni sorte violando tale limite. Cassazione nel 2022 e 2023 ha consolidato che il danno risarcibile è spesso pari al peggioramento del dissesto patito dai creditori nella gestione illegittima post scioglimento (calcolato come differenza tra patrimonio netto a momento in cui si doveva cessare e patrimonio netto al fallimento). Quindi, se la S.r.l. aveva capitale azzerato già nel 2024 e l’amministratore l’ha tirata fino al 2025 peggiorando il passivo di 100.000 €, quei 100.000 divengono danno risarcibile da lui agli occhi del curatore.
Inoltre, sempre sul piano civilistico, gli organi di controllo (sindaci o revisori) se esistenti, hanno responsabilità se non segnalano per tempo la crisi e non sollecitano gli amministratori ad attivarsi. Il Codice della Crisi prevedeva addirittura misure di allerta esterna (Camerali) per adesso non operative, ma in futuro potrebbero reintrodursi.
Azioni di responsabilità civile verso gli amministratori
Abbiamo già anticipato l’esempio sopra. Approfondiamo: nelle società di capitali, i creditori sociali non possono agire individualmente contro gli amministratori per atti di mala gestio finché la società è in bonis, perché il loro referente è la società. Tuttavia, se la società va in liquidazione o fallimento, il curatore (o i liquidatori) possono esercitare l’azione di responsabilità verso gli amministratori per conto della società e anche dei creditori (un’azione unitaria ex art. 255 CCII, ex art. 146 L.F.). I creditori sociali, anche senza fallimento, potrebbero agire ex art. 2394 c.c. ma devono dimostrare che il patrimonio sociale è insufficiente per le loro ragioni per colpa degli amministratori (è complessa e di solito confluisce nel fallimento).
Quali condotte possono portare a responsabilità? Molte, ad esempio: – Omessa istituzione di assetti adeguati e conseguente ritardo nella percezione della crisi (di cui sopra). – Continuazione imprudente dell’attività aggravando il dissesto (es. fare forniture sottocosto pur di avere liquidità immediata, indebitarsi a tassi usurai last minute, svendere beni a terzi compiacenti, ecc.). – Pagamento preferenziale di alcuni creditori a scapito di altri in situazione di insolvenza conclamata (che può costituire bancarotta preferenziale sul penale e sul civile danno ai non pagati). – Inadempimenti fiscali deliberati senza poi risanare: accumulare milioni di debiti IVA e INPS per anni per finanziare la gestione è considerata grave mala gestio (ha goduto di credito forzoso dallo Stato). – Difetto di informazioni ai soci o presentazione di bilanci non veritieri (che impediscono ai terzi di percepire la reale situazione). – Atti di distrazione o dilapidazione del patrimonio (che sono anche il presupposto delle bancarotte fraudolente a livello penale; sul civile, ad es. vendere a prezzo irrisorio un immobile a un amico). – Ostilità ingiustificata alle proposte di concordato: addirittura, c’è chi ipotizza che se un amministratore rifiuta senza motivo di attivare un concordato o altro e ciò peggiora il risultato per i creditori, potrebbe risponderne.
Se l’azione di responsabilità viene accolta, l’amministratore (o ex amministratore) condannato risponde con il suo patrimonio personale illimitatamente per i danni. Questo si affianca naturalmente alla perdita di eventuali garanzie personali che aveva dato.
In aggiunta, se la società è di persone (S.n.c, S.a.s), i soci stessi (illimitatamente responsabili) rispondono coi loro beni delle obbligazioni sociali. In caso di fallimento di una società di persone, falliscono di diritto anche i soci illimitatamente responsabili, confondendo patrimonio sociale e personale. Quindi, la distinzione amministratore/società in quel contesto è meno marcata (il socio-amministratore in snc è ovviamente responsabile di tutto comunque).
Responsabilità penale in caso di insolvenza
La crisi d’impresa può degenerare anche in risvolti penali, soprattutto se l’imprenditore compie atti illeciti per cercare di tamponare o per egoismo. I principali reati da tenere presenti:
- Bancarotta fraudolenta: Se l’azienda viene dichiarata fallita (liquidazione giudiziale), gli amministratori possono essere accusati di bancarotta fraudolenta (artt. 322 e seguenti CCII, corrispondenti agli artt. 216 e segg. L.F.) se hanno sottratto, occultato o dissipato beni del patrimonio (distrattiva), oppure se hanno falsificato le scritture contabili per nascondere il dissesto (documentale), o ancora se hanno favorito taluni creditori pagando loro a svantaggio degli altri nei tempi sospetti (preferenziale). La bancarotta fraudolenta è un reato grave, punito con pena detentiva rilevante (fino a 6-10 anni). Anche atti come la costituzione di un fondo patrimoniale o trust potrebbero, se fatti per sottrarre i beni prefallimento, integrare bancarotta per distrazione. Se l’amministratore invece non ha fatto nulla di doloso ma è stato solo imprudente, può configurarsi bancarotta semplice (oggi disciplinata, ad es., dall’art. 324 CCII, punisce tra l’altro chi ha aggravato indebitamente il dissesto, o fatto spese personali eccessive, o tardato a chiedere il fallimento di oltre 90 giorni da cessazione attività). La bancarotta semplice ha pene inferiori, ma pur sempre penali.
- Reati tributari: Come detto, l’omesso versamento IVA oltre soglia, l’omesso versamento ritenute oltre soglia, l’emissione di fatture false, la sottrazione fraudolenta di beni al pagamento imposte (quest’ultima fattispecie può colpire chi svuota l’azienda o fa atti sui beni per non pagare il Fisco, come vendite simulate) sono reati specifici. Un amministratore che per risanare la cassa trucca le fatture, o ricorre a false compensazioni di crediti d’imposta (anche questo è reato), rischia incriminazioni. Nel momento della crisi, la tentazione di “giocare sporco” col Fisco (non dichiarare, o spostare beni a parenti per farli sparire dall’esecuzione) può essere forte, ma bisogna ricordare che queste mosse possono portare a conseguenze peggiori del fallimento stesso, includendo processi e possibili condanne.
- Altri reati societari: ad esempio false comunicazioni sociali (falso in bilancio) se si cerca di coprire la realtà con bilanci artefatti per ottenere credito in più. O anche aggiotaggio se in società quotate (non il nostro caso). Nelle PMI, il falso in bilancio è raramente perseguito se non c’è fallimento a svelarlo, ma se c’è bancarotta spesso c’è anche contabilità irregolare e ciò aggrava la posizione penale.
- Reati finanziari: ad esempio abusiva attività finanziaria se l’azienda in crisi raccoglie denaro dai privati senza autorizzazione (tipo schemi piramidali). Non comune, ma visti alcuni casi di aziende che emettono prestiti obbligazionari al pubblico senza prospetto in disperazione di causa (violazione TUF).
- Responsabilità verso la sicurezza e l’ambiente: un’azienda in dissesto magari risparmia su misure di sicurezza, e se accade un infortunio o incidente ambientale, l’amministratore ne risponde penalmente (ciò indipendentemente dalla crisi economica, ma quest’ultima a volte porta a tagliare costi vitali).
Dal punto di vista difensivo, la consapevolezza di questi rischi è fondamentale. Agire con correttezza e trasparenza durante la crisi tutela l’imprenditore: ad esempio, portare i libri in tribunale e chiedere un concordato piuttosto che nascondere le carte e far fallire l’azienda allo sbando; oppure pagare i dipendenti e i contributi preferendoli magari a pagare se stessi o altri. Certo, l’imprenditore è comprensibilmente portato a salvare il suo lavoro, ma deve farlo entro binari legali.
Merita un cenno anche la responsabilità processuale: l’abbiamo vista con Cass. 25402/2025 , dove l’amministratore è stato condannato a pagare le spese legali per aver proposto un reclamo infondato in malafede contro la sentenza di insolvenza. Questo è un caso di sanzione economica per aver abusato del processo. Quindi, anche nei giudizi, bisogna stare attenti a non promuovere opposizioni o impugnazioni totalmente pretestuose perché possono ritorcersi con condanne personali alle spese.
Conseguenze per i soci
Infine, due parole sui soci non gestori e le conseguenze che la crisi può avere per loro: – Se la società è di persone, come detto, i soci illimitatamente rispondono dei debiti sociali anche col patrimonio personale. Dunque per loro proteggersi = magari uscire per tempo dalla società (recesso) prima che arrivi il tracollo, sebbene restino responsabili per le obbligazioni sorte fino al momento dell’uscita per un periodo (art. 2290 c.c.). La Cassazione (Sez. Unite 2025) ha anche escluso la responsabilità “automatica” dei soci di S.r.l. dopo la cancellazione , il che è un aspetto specifico: un tempo l’Agenzia delle Entrate tentava di colpire i soci di S.r.l. sciolte ritenendoli successori nei debiti fiscali; ora non può farlo se non provando l’avvenuta distribuzione di attivo . Questo tutela i soci di capitali fedeli alla regola del capitale limitato.
- I soci che abbiano prestato fideiussioni o garanzie personali sui debiti sociali restano pienamente obbligati anche se la società fa concordato o fallisce (salvo eccezioni: per esempio, nella transazione fiscale concordataria a volte l’Erario accetta di liberare i garanti in cambio del pagamento parziale erga omnes, ma è negoziale). Quindi un imprenditore-socio potrebbe trovarsi lui stesso sovraindebitato per le garanzie escusse: in tal caso, può ricorrere ai strumenti per persone fisiche (accordo di ristrutturazione personale, sovraindebitamento, esdebitazione del sovraindebitato senza attivo – quest’ultimo è un istituto nuovo che permette ai meritevoli che proprio non hanno nulla di chiedere l’esdebitazione immediata, cosiddetto “fresh start”, ma è con parsimonia applicato).
- I soci potrebbero dover rispondere di utili o dividendi percepiti illegalmente (es. se staccati in presenza di bilancio falso o di perdite, il curatore può chiedere restituzione di dividendi indebitamente distribuiti).
Per concludere questa sezione: dal punto di vista del debitore, difendersi dai debiti implica anche difendersi dal rischio di colpe e sanzioni. Muoversi per tempo, essere trasparenti con i creditori onesti (non fare preferenze occulte), coinvolgere professionisti, e rispettare gli obblighi societari (come convocare assemblee se il capitale va sotto zero, come tenere i libri in ordine) sono tutte azioni che oltre a dare una migliore chance di risanamento, proteggono l’imprenditore da guai peggiori.
Domande frequenti (FAQ) e casi pratici
In questa sezione finale, proponiamo una serie di domande e risposte che riassumono in forma breve gli interrogativi più comuni di un imprenditore debitore (o dei suoi familiari) e le risposte basate su quanto esposto nella guida. Le FAQ aiutano a chiarire dubbi specifici e costituiscono anche piccole simulazioni pratiche di situazioni tipo.
Domanda: La mia azienda è sommersa dai debiti ed un fornitore ha minacciato di chiedere il fallimento. Posso evitarlo? Cosa devo fare subito?
Risposta: Sì, puoi cercare di evitarlo. La prima cosa da fare è non aspettare passivamente: valuta di proporre tu stesso una soluzione concorsuale prima che il fornitore ottenga il fallimento. Ad esempio, potresti presentare un ricorso per concordato preventivo con riserva (concordato in bianco) prima dell’udienza sull’istanza di fallimento: questo congela la procedura e ti dà tempo per presentare un piano . Nel frattempo puoi contattare il fornitore e vedere se accetta un accordo (magari pagando una parte del suo credito subito e il resto a rate). Se il fornitore vede che stai agendo in modo strutturato (concordato o composizione negoziata avviata), potrebbe soprassedere dall’azione istantanea. Ricorda anche di partecipare all’udienza pre-fallimentare e rappresentare al giudice che stai intraprendendo un percorso di ristrutturazione: il tribunale può rinviare la decisione se c’è una prospettiva seria (magari perché hai depositato un piano di risanamento). In sostanza, anticipa le mosse del creditore: se resti fermo, è quasi certo che otterrà la liquidazione giudiziale, mentre se attivi un concordato o accordo, potrai evitare o almeno ritardare il fallimento .
Domanda: Ho ricevuto un decreto ingiuntivo per 50.000 € da una banca. Non ho difese concrete (il debito è reale), ma pagarla ora è impossibile. Mi conviene fare opposizione per prendere tempo?
Risposta: Fare opposizione senza vere ragioni comporta dei rischi, ma a volte può dare respiro. Se il decreto non è provvisoriamente esecutivo, presentando opposizione entro 40 giorni eviterai che diventi definitivo e nel frattempo la banca non potrà iniziare il pignoramento. Guadagneresti probabilmente molti mesi (il tempo del giudizio di opposizione, che può durare un anno o più). Questo tempo può servirti per, ad esempio, concludere la vendita di un cespite o trovare un accordo transattivo. Tuttavia, sappi che se non hai alcuna eccezione valida e l’opposizione appare pretestuosa, alla fine dovrai pagare anche le spese legali della banca e potenzialmente interessi e maggior danno. C’è anche un lieve rischio di condanna per lite temeraria (responsabilità aggravata) se emergerà che lo hai fatto solo per rinviare . Quindi, il consiglio: valuta se puoi allegare almeno un motivo plausibile (es. chiedere la verifica del calcolo interessi, o contestare qualche voce) per giustificare l’opposizione. Nel frattempo, usa bene quel tempo: cerca magari di includere il debito della banca in un accordo di ristrutturazione più ampio o un concordato. Nota che se il decreto era dichiarato esecutivo immediatamente, la banca può già pignorare durante l’opposizione: in tal caso dovresti chiedere urgentemente al giudice una sospensione dell’esecuzione provvisoria dimostrando “gravi motivi” (non facile se non hai contestazioni reali). In definitiva, l’opposizione è uno strumento dilatorio, ma da usare con cautela e come parte di una strategia più ampia di risanamento.
Domanda: Ho un mutuo ipotecario sulla sede aziendale e non riesco più a pagare le rate. La banca può togliermi l’immobile? Posso impedire l’esecuzione in qualche modo?
Risposta: Se sei in ritardo con le rate (di solito oltre 6-7 mensilità), la banca può invocare la risoluzione del mutuo e avviare l’esecuzione immobiliare, avendo un titolo esecutivo (il contratto di mutuo ipotecario notarile) e una garanzia ipotecaria. Per legge, la banca deve inviarti una lettera di decadenza dal beneficio del termine; dopodiché può iscrivere precetto e pignorare. Prevenire la perdita dell’immobile non è semplice se non hai liquidità: alcune possibili vie sono rinegoziare con la banca (chiedere un periodo di sospensione delle rate o un allungamento del piano; certe volte le banche accettano per evitare la procedura lunga e costosa), oppure attivare una procedura concorsuale. Ad esempio, se presenti un concordato e l’immobile è essenziale per la continuità, puoi chiedere al giudice di sospendere o impedire l’esecuzione ipotecaria come misura cautelare nell’ambito del concordato . In un accordo di ristrutturazione, potresti applicare il cram-down fiscale per l’eventuale ipoteca di Equitalia, ma per la banca generalmente devi trovare un accordo: magari prevedere nel piano che l’immobile verrà venduto e la banca soddisfatta in percentuale con il ricavato (la banca voterebbe in classe in concordato). Se nulla di tutto ciò funziona e la banca procede, sappi che la prima casa è protetta dal pignoramento fiscale ma non da quello della banca : quindi se la sede è anche abitazione e unica casa, Equitalia non potrebbe pignorarla, ma la banca sì perché c’è ipoteca volontaria. Puoi partecipare all’asta e cercare di concordare una vendita privata pre-asta (talvolta la banca preferisce se trovi un acquirente che paga di più). In estrema sintesi: prova la strada negoziale (moratoria o piano di rientro), in parallelo preparati a inserire il debito bancario in un piano concordatario se puoi, altrimenti l’azione esecutiva sarà inevitabile e l’immobile rischia di essere venduto all’asta.
Domanda: Ho debiti tributari (IVA e INPS) per circa €100.000 e non posso pagarli ora. Posso proteggere la casa di abitazione da Equitalia mettendola a nome di mia moglie o in un fondo patrimoniale?
Risposta: Attenzione: fare atti dispositivi sulla casa quando hai già debiti importanti con il Fisco può essere molto pericoloso. Trasferire a tua moglie (con una vendita simulata o donazione) sarebbe probabilmente considerato frodo fiscale e potrebbe integr are il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) se fatto per evitare l’esecuzione. In ogni caso, Equitalia (Agenzia Riscossione) potrebbe agire con azione revocatoria entro 5 anni su quella donazione/vendita perché lesiva delle sue ragioni. Il fondo patrimoniale, se sei sposato, è lecito costituirlo, ma con debiti già in essere non garantisce immunità: l’Agenzia potrebbe comunque iscrivere ipoteca e, se il debito supera 120.000 €, potrebbe anche pignorare trascorsi i 6 mesi dall’ipoteca (specie se avete altri immobili) . Tu potresti opporti sostenendo che il debito IVA o INPS è per attività d’impresa quindi estraneo ai bisogni familiari , ma dovresti dimostrare che il Fisco “sapesse” questa estraneità. In pratica, in alcuni casi i giudici hanno dato ragione ai contribuenti, annullando l’ipoteca/pignoramento su beni in fondo patrimoniale perché l’obbligazione tributaria non aveva riflesso familiare . Tuttavia è un esito incerto: altre volte prevale l’idea che, se non porti prove specifiche, l’azione esecutiva resta . Inoltre, costituire il fondo dopo che i debiti sono sorti appare come fatto per pregiudicare il Fisco, e se non altro potrebbe farti perdere la possibilità di future definizioni agevolate (l’Amministrazione potrebbe irrigidirsi). Considera invece misure “pulite”: rateizzazione delle cartelle – con 100k puoi ottenere 6 anni di rate (72 rate), avrai quota gestibile? – oppure attendere se esce una nuova rottamazione (in passato condoni parziali). Nel frattempo, Equitalia non può pignorare la tua prima casa se è l’unica, non di lusso e ci abiti , quindi c’è già una tutela legale: al massimo può metterci ipoteca (che è fastidiosa ma non ti caccia finché non vendi). Il consiglio: sfrutta la norma a tuo favore (se hai i requisiti di impignorabilità, dormi tranquillo su quel fronte) e concentrati sul trovare un accordo con AdER (rate o saldo e stralcio se consentito). Usare strumenti come fondo o atti a posteriori potrebbe complicare la situazione invece di risolverla.
Domanda: La mia S.r.l. è insolvente e probabilmente dovrò portare i libri in tribunale. I soci (che sono anche miei parenti) rischiano di dover pagare i debiti sociali?
Risposta: In generale, no: i soci di una S.r.l. hanno responsabilità limitata, rispondono delle perdite solo con la quota conferita. Quindi i debiti della società restano in capo alla società. Se però tu come amministratore hai tenuto una gestione non regolare e la società fallisce, il curatore potrebbe fare azione di responsabilità contro di te, ma questo riguarda il tuo patrimonio, non direttamente quello dei soci (salvo che i soci fossero anche amministratori o complici). C’è un’eccezione: se in passato, al momento dello scioglimento o riduzione del capitale, i soci hanno ricevuto assegnazioni di beni o denaro in pregiudizio ai creditori, potrebbero dover restituire quelle somme (es: distribuzioni di utili fittizi, rimborsi anticipati di finanziamenti soci in violazione del divieto di postergazione ex art. 2467 c.c.). Ma se i soci non hanno preso nulla indebitamente e non hanno prestato garanzie personali, non pagheranno i debiti. Fino a poco tempo fa, l’Agenzia delle Entrate spesso notificava ai soci delle S.r.l. cancellate cartelle per i debiti tributari residui, sostenendo che fossero successori per i debiti fiscali. Oggi questo non è più possibile automaticamente: le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito nel 2025 che i soci sono responsabili solo entro quanto hanno ricevuto in sede di liquidazione, e in ogni caso serve un atto specifico di accertamento individuale . Quindi, se la tua S.r.l. viene liquidata giudizialmente e i soci non ricevono nulla (cosa probabile se insolvente), il Fisco non potrà rivalersi su di loro . Diverso se qualche socio aveva fatto da fideiussore su mutui o fidi: in tal caso, purtroppo la banca escuterà lui, ma ciò deriva dal contratto di garanzia, non dal suo status di socio. In conclusione, la S.r.l. in quanto tale protegge i patrimoni dei soci non garanti. Tu come amministratore assicurati di collaborare col curatore per evitare ulteriori addebiti.
Domanda: Ho garantito personalmente con fideiussione i debiti bancari della mia società, che ora è in crisi. Posso liberarmi da queste garanzie con un concordato o accordo?
Risposta: Questo è un problema comune: la banca, se la società non paga, si rivarrà su di te come garante. Purtroppo, le procedure concorsuali della società non liberano le garanzie dei terzi, salvo consenso del creditore. Cioè, se la società fa un concordato pagando il 50% a quella banca, la banca incasserà il 50% dalla società e poi potrebbe chiedere a te il restante 50% in base alla fideiussione. Per proteggerti, l’ideale sarebbe coinvolgere la banca in un accordo globale dove anche tu sei parte. Ad esempio, potresti negoziare con la banca un accordo in cui, a fronte di un certo pagamento (magari qualcosa in più del 50%), essa rinuncia a perseguire te come garante. A volte ciò avviene: la banca preferisce una soluzione unica e liberatoria. Se la banca aderisce a un accordo di ristrutturazione dei debiti della società, assicurati di inserire una clausola di liberatoria delle fideiussioni. Legalmente, c’è anche la figura del concordato preventivo con “esdebitazione” del terzo garante, ma non è prevista: il concordato riguarda la società soltanto. Solo i debiti della società vengono falcidiati. Il Codice della Crisi però prevede che se un socio o terzo apporta denaro per migliorare la proposta, può ottenere che i creditori lo liberino (è più su base contrattuale comunque). Per sicurezza, tu stesso potresti parallelamente valutare la tua situazione personale: se la società fallisse e la banca venisse solo da te, tu potresti dover ricorrere alle procedure da sovraindebitato per persona fisica (concordato minore tuo personale o liquidazione). Insomma, non è automatico liberarsi dalla fideiussione con gli strumenti della società: serve trattativa diretta con la banca. Sii franco: proponi “mi offro di pagare X personalmente, e in cambio stralciate la mia garanzia”. Se la banca vede che altrimenti rischia di non recuperare molto dal tuo patrimonio, potrebbe accettare. Diversamente, tieni presente che se poi tu fossi sovraindebitato, potresti chiedere la liquidazione controllata personale ed ottenere esdebitazione, che varrebbe anche verso quel debito (cancella le fideiussioni perché estingue i tuoi debiti). Ma è una strada lunga e dolorosa (vendi tutto ciò che hai). Meglio cercare un accordo stragiudiziale con liberatoria.
Domanda: Posso continuare a gestire l’azienda durante il concordato preventivo? O rischio di perderne la guida?
Risposta: Nel concordato preventivo, normalmente rimani alla guida dell’azienda (non c’è spossessamento totale come nel fallimento). Sarai però in una sorta di amministrazione controllata: viene nominato un commissario giudiziale che supervisiona e riferisce al tribunale . Per gli atti di ordinaria amministrazione continui tu, per quelli di straordinaria amministrazione (es. vendere un immobile, contrarre nuovi finanziamenti, cedere l’azienda) devi chiedere autorizzazione al giudice delegato. Se segui le regole e il piano procede, manterrai la gestione anche dopo l’omologazione (specie se è un concordato in continuità). Solo in casi particolari il tribunale può toglierti la gestione durante il concordato, nominando un amministratore giudiziario: succede se vi è frode ai creditori o gravi irregolarità (ad esempio, si scopre che stai distraendo beni, o hai fornito dati falsi). Altrimenti la procedura è debtor-in-possession, proprio per agevolare il risanamento con chi conosce l’azienda. Tieni presente che dopo l’omologa dovrai eseguire il piano sotto la vigilanza del commissario (che di solito diventa liquidatore giudiziale per la fase esecutiva o comunque certifica l’adempimento). Quindi, sì, continui a gestire ma con trasparenza e sotto controllo. Se invece fosse un concordato puramente liquidatorio, spesso il piano stesso prevede che un liquidatore terzo venda i beni: in tal caso, tu comunque perdi la gestione corrente perché l’attività cessa. Ma se c’è anche solo un minimo di continuità (es. affitto d’azienda a un terzo in esercizio provvisorio, ecc.), potresti restare coinvolto. Importante: se sei tu l’amministratore e anche socio, sappi che potrebbe esser chiesto uno sforzo anche a te – ad esempio l’apporto di finanza esterna o la rinuncia a crediti verso la società – per rendere la proposta equa (soprattutto se mantieni la proprietà a fine concordato). I creditori valuteranno con sospetto se tu conservi tutto senza contribuire: infatti la legge impone di dichiarare qualsiasi “valore riservato ai soci” nel piano . Comunque, il concordato non mira a espellere l’imprenditore virtuoso, anzi vuole aiutarlo a risanare la sua impresa. Quindi collabora col commissario, segui le regole, e potrai continuare a condurre la tua azienda anche durante la procedura.
Domanda: La mia ditta individuale è fallita (liquidazione controllata). Rimarrò indebitato a vita per la parte di debiti che non sarà pagata?
Risposta: No, non necessariamente. L’ordinamento prevede l’esdebitazione, ossia la cancellazione dei debiti residui a favore dell’imprenditore persona fisica meritevole, una volta che la procedura concorsuale abbia liquidato tutto il suo patrimonio e distribuito ai creditori quello che c’era. Con la riforma, l’esdebitazione è diventata più accessibile e quasi automatica. Nella liquidazione controllata (che è l’equivalente del tuo fallimento personale) il codice stabilisce che il debitore è esdebitato di diritto decorso il termine di chiusura della procedura, salvo che il giudice non accerti qualche comportamento doloso o una causa ostativa . In pratica, se hai collaborato e non hai nascosto nulla, appena la liquidazione chiude (o al massimo 3 anni dopo la chiusura, se alcune ripartizioni sono ancora in corso), sarai liberato dal pagare quanto non è stato soddisfatto . Già con la legge precedente l’esdebitazione era concessa abbastanza spesso ai falliti onesti; ora è ancora più garantita. C’è persino l’istituto dell’esdebitazione del debitore incapiente: se sei nullatenente, puoi chiedere di essere esdebitato anche senza liquidazione, purché tu non abbia dolo o colpa grave e almeno per 4 anni tu metta a disposizione i tuoi eventuali sopravvenienti redditi oltre il minimo (è una novità per dare il “fresh start” anche a chi non ha nulla da liquidare). Quindi, per rispondere: no, non resterai debitore a vita. La gran parte dei debiti (tranne quelli esclusi per legge, tipo multe penali, obblighi alimentari) sarà spazzata via dall’esdebitazione. Chiaramente, questo benefit ti è dato una sola volta e devi meritarlo. Evita di incorrere in situazioni di frode, perché quelle possono farti negare l’esdebitazione (es: se emergerà che hai tenuto nascosti soldi all’estero, il giudice potrebbe escluderti). Ma se sei in buona fede, la procedura concorsuale segna la “fine” del peso dei debiti per te come persona e potrai ricominciare da capo senza quelle zavorre.
Domanda: Ho sentito parlare della composizione negoziata con un esperto: ma i miei creditori (fornitori e banche) sono piccoli e sparsi, dubito parteciperebbero. Ha senso attivarla lo stesso?
Risposta: La composizione negoziata funziona bene se c’è una ragionevole chance di accordo con i creditori e se l’azienda ha prospettive di ripresa. Anche se i creditori sono molti e piccoli, l’esperto potrebbe aiutarti a individuare quelli strategici e a formulare una proposta che li convinca, fungendo da mediatore. In più, la composizione negoziata ti consente di chiedere al tribunale delle misure protettive generali (sospensione di azioni esecutive) per un certo periodo, il che di per sé potrebbe essere utile per mettere in ordine le idee e predisporre un piano. Considera anche che oggi la composizione negoziata permette di coinvolgere il Fisco in transazioni durante le trattative , quindi se hai debiti fiscali potresti trovare soluzioni su quel fronte con l’aiuto dell’esperto. È vero però che la partecipazione dei creditori è volontaria: l’esperto li invita al tavolo, ma se non vengono non c’è modo di obbligarli. Diciamo che ha senso attivarla se la tua crisi non è ancora gravissima (cioè hai ancora flussi di cassa o valore industriale che i creditori, ragionando, capirebbero essere meglio preservare anziché farti fallire) e se vuoi tentare un approccio meno conflittuale. Se invece i creditori sono già inferociti e poco inclini alla ragione, potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua e faresti prima ad andare in concordato preventivo direttamente. In ogni caso, la composizione negoziata è confidenziale e revocabile: non ti espone pubblicamente come un fallimento o concordato, se non ottieni risultati puoi sempre passare ad altro. Valuta costi e benefici: c’è il costo dell’esperto (relativamente contenuto rispetto a un commissario) e tempo da investire nelle trattative. Se la tua sensazione è che nessun accordo privato sia fattibile (perché i creditori pretendono il 100% e subito, ad esempio), allora probabilmente conviene saltare quel passaggio e pensare a un concordato (dove ai dissenzienti puoi imporre un taglio con l’omologazione). Ricorda comunque che la legge incoraggia la composizione negoziata come primo step; magari prova a confrontarti con un OCC (Organismo di Composizione) che ti faccia un check-up sulla fattibilità di un piano.
Domanda: La società è in crisi e temo di essere accusato di aver peggiorato la situazione. Quando dovrei smettere di pagare alcuni creditori? Ad esempio, se pago solo alcuni fornitori per poter lavorare, sto violando la legge?
Risposta: Questa è una zona grigia ma importante. In situazione di insolvenza, pagare alcuni creditori a discapito di altri può configurare la cosiddetta violazione della par condicio, che in sede fallimentare è bancarotta preferenziale (se c’è dolo di favorire quel creditore). Tuttavia, se tu paga dei fornitori indispensabili per evitare che si fermi l’attività, e lo fai nella speranza di risanare l’impresa, spesso questa scelta viene considerata, col senno di poi, giustificabile (mira a salvare la continuità, e se avesse avuto successo avrebbe giovato a tutti i creditori). Il problema è che se poi si fallisce, quelle preferenze vengono esaminate e magari il curatore le contesta. In un concordato preventivo, invece, tutti i creditori concorrono, quindi non dovresti pagare anticipatamente nessuno (salvo autorizzazioni per pagamenti urgenti di forniture essenziali). Diciamo che il momento di smettere di pagare selettivamente coincide con la consapevolezza di essere insolvente e la decisione di andare in procedura collettiva. A quel punto, continua a pagare solo ciò che è strettamente necessario alla gestione corrente lecita (es: stipendi, utenze, materie prime per ordini con pagamento anticipato) e magari informandone l’eventuale commissario se sei già in pre-concordato. Se invece stai navigando a vista senza procedura: pagare uno e non l’altro può scatenare reazioni (chi non viene pagato ti fa decreto ingiuntivo). È un gioco pericoloso. Legalmente, non c’è un obbligo di “pagare tutti contestualmente”; però, se scegli di pagarne solo alcuni quando eri già in dissesto conclamato, un domani qualcuno potrebbe vederlo come atto in frode ai danni degli altri. Ad esempio, se paghi integralmente un fornitore amico a scapito di altri prima del fallimento, il curatore potrebbe revocare quel pagamento (entro 6 mesi se pagamento normale, entro 2 anni se anomalo) e potrebbe anche esserci rilevanza penale se c’era l’intento di favorirlo ingiustamente. Quindi è una linea sottile: finché speri ragionevolmente di evitare l’insolvenza, fai quel che serve per tenere viva l’azienda (pagare fornitori chiave, ecc.). Ma nel momento in cui decidi di portare i libri in tribunale o di attivare un concordato, allora è meglio congelare i pagamenti non autorizzati e lasciare che la distribuzione venga decisa nella procedura. Ricorda: se poi c’è fallimento, avrai comunque la chance di spiegare che quei pagamenti a taluni creditori erano fatti nel tentativo di salvare l’impresa (bancarotta semplice anziché fraudolenta, forse nessuna condanna se ritenuto errore non doloso). La chiave è la buona fede e documentare il perché delle tue scelte.
Domanda: In caso di liquidazione giudiziale, posso perdere anche i miei beni personali estranei all’azienda? Ad esempio la mia auto privata o il conto personale?
Risposta: Se sei un imprenditore individuale, purtroppo sì: nel fallimento (liquidazione giudiziale) ditta individuale = persona fisica, quindi tutto il tuo patrimonio (salvo i beni impignorabili di cui parlavamo) diventa parte della massa attiva. La procedura riguarderà casa, auto, conti correnti, ecc., anche se non utilizzati nell’impresa, perché rispondi delle obbligazioni con tutti i tuoi beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.) . Naturalmente, su alcuni di essi i creditori potrebbero non avere interesse (es. se hai una vecchia auto di modesto valore, può rimanerti perché una volta valutato costo/beneficio il curatore potrebbe lasciarla). Se invece sei socio di una società di capitali, e non hai garanzie personali, il tuo patrimonio personale non è aggredito per i debiti sociali. Tuttavia, se per esempio la società è fallita e tu avevi un conto corrente soci (cioè la società magari vantava crediti verso di te per prelievi non giustificati o finanziamenti a te fatti), il curatore può chiederti quei soldi. O se tu possiedi l’immobile sede società affittato a questa, il curatore potrebbe sciogliere il contratto e lasciarti con l’immobile sfitto (non è “perdere un bene”, ma perdi un reddito). Insomma, la regola: – Impresa individuale fallita: tutti i beni del titolare, di qualsiasi genere, entrano nella procedura, tranne quelli assolutamente impignorabili (vestiti, letti, ecc.). La casa di abitazione verrà venduta (salvo, come detto, se è unica e il creditore è solo il Fisco sotto soglia – ma nel fallimento può essere venduta lo stesso perché nel fallimento valgono altre regole, quell’impignorabilità era per esecuzioni singole del Fisco). La vettura se ha un buon valore sarà venduta, se è di modesto valore il curatore può lasciartela in godimento se serve magari per recarti al lavoro, ma è discrezionale. Il conto personale: i soldi sopra vanno alla massa, ti lasciano solo quanto serve per mantenimento immediato eventualmente (c’è una prassi di lasciare qualche migliaio di euro per le spese vive all’inizio, ma legalmente pure quelli sarebbero dei creditori, salvo tu faccia istanza al giudice). – Società fallita: i soci persona fisica mantengono i loro beni personali, eccetto i casi di soci illimitatamente responsabili (società di persone) dove, come detto, anche loro vengono dichiarati falliti personalmente e quindi perdono i beni personali analogamente all’imprenditore individuale.
La legge fallimentare cercava di salvaguardare comunque la dignità del fallito: ad esempio, prevedeva che al fallito persona fisica potesse essere lasciata una somma per il mantenimento suo e della famiglia su istanza (art. 46 L.F.). Il CCII dovrebbe avere norma analoga (forse il giudice delegato può disporre un mantenimento). Ma in pratica, contano molto le dimensioni: se il patrimonio è modesto e i debiti grandi, al curatore non conviene aggredire proprio tutto (per dire, non va a venderti gli utensili da cucina). Se c’è la casa, quella sì, di solito finisce sul mercato se c’è ipoteca o se serve liquidità.
In sintesi, sì, nella liquidazione giudiziale dell’imprenditore individuale non c’è distinzione tra azienda e persona: proteggere i beni personali era possibile prima (con un fondo, con intestazione a terzi, ecc., se lecito). Una volta dentro, è tardi. Il contrappeso è l’esdebitazione: sacrificando tutto il patrimonio, esci pulito dai debiti. Quindi almeno sai che dopo non avrai più obblighi verso i creditori. Qualcosa di simile succede nel fresh start anglosassone: perdi i beni ma salvi la persona.
Conclusione: Abbiamo percorso le molteplici strade che un’azienda di sistemi filtranti a osmosi indebitata può intraprendere per difendersi: dalle trattative bonarie alle aule di tribunale, dalle misure di protezione patrimoniale individuale alla gestione responsabile della crisi. La scelta dell’una o dell’altra via dipende dalla gravità della situazione, dalla struttura dell’impresa e dalla volontà di risanare o liquidare. Importante è agire con cognizione di causa e con l’assistenza di professionisti qualificati (avvocati d’affari, commercialisti esperti in crisi) perché il campo è insidioso e in continuo aggiornamento. L’auspicio del legislatore è che le imprese in difficoltà ricorrano per tempo agli strumenti di composizione della crisi, evitando che una situazione temporanea degeneri in un fallimento irreversibile . Dal punto di vista dell’imprenditore-debitore, conoscere i propri diritti e doveri è il primo passo per non subire passivamente gli eventi ma guidarli, per quanto possibile, verso l’esito meno doloroso. Questa guida, aggiornata a ottobre 2025, ha fornito una panoramica avanzata e speriamo utile; si raccomanda sempre di approfondire i singoli istituti con la normativa e la giurisprudenza recente (alcuni riferimenti essenziali seguono qui di seguito), e di costruire la propria strategia difensiva tenendo presenti sia gli aspetti legali che quelli economici e umani della crisi d’impresa.
Fonti e Riferimenti
- Codice Civile: articoli citati (es. artt. 167-170 c.c. sul fondo patrimoniale ; art. 2086 c.c. sugli assetti adeguati; artt. 2392, 2476 c.c. sulle responsabilità degli amministratori; art. 2740 c.c. sulla responsabilità patrimoniale universale; art. 2741 c.c. sul principio di par condicio creditorum ).
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019 e s.m.i.): in particolare artt. 12-25 CCII (composizione negoziata) , artt. 56-64 CCII (piani attestati di risanamento e accordi di ristrutturazione) , artt. 65-83 CCII (sovraindebitamento: ristrutturazione consumatore, concordato minore) , artt. 84-120 CCII (concordato preventivo) , artt. 121-136 CCII (omologazione concordato e accordi), artt. 268-277 CCII (esdebitazione del debitore civile) , artt. 322-341 CCII (reati concorsuali).
- D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024 (correttivi al CCII): introdotto cram-down fiscale negli accordi , concordato semplificato , accordi di ristrutturazione agevolati (30%) e ad efficacia estesa.
- Legge 3/2012 (vecchia legge sul sovraindebitamento) e relative modifiche nel CCII per storicità.
- Codice di Procedura Civile: norme su esecuzione forzata e opposizioni – artt. 514-515 c.p.c. (beni mobili impignorabili), art. 543 c.p.c. (pignoramento presso terzi, limiti su stipendi), art. 633 sgg. c.p.c. (decreto ingiuntivo), art. 645 c.p.c. (opposizione a ingiunzione), artt. 615-617 c.p.c. (opposizioni esecutive).
- DPR 602/1973 (riscossione tributi): art. 76 DPR 602/73 – limite pignorabilità prima casa da Agente Riscossione .
- Cassazione Civile, Sezioni Unite, sent. n. 3625/2025 – Responsabilità ex soci SRL cancellata: niente automatismi, serve prova concreta di attivo ricevuto .
- Cassazione Civile, sent. n. 28574/2025 – Concordato minore: inderogabilità dell’ordine delle prelazioni (no pagamento flat 5% a tutti) .
- Cassazione Civile, sent. n. 25402/2025 – Condanna dell’amministratore alle spese per abuso del processo (reclamo infondato in liquidazione giudiziale) .
- Cassazione Civile, ord. n. 32759/2024 – Fondo patrimoniale e debiti tributari: conferma limiti (impignorabilità prima casa fiscale entro 120k, onere probatorio su debitore per estraneità) .
- Cassazione Civile, sent. n. 28593/2024 – Revocabilità atti relativi a fondo patrimoniale tra coniugi (azione revocatoria ordinaria) .
- Cassazione Civile, sent. n. 24006/2025 – Azione di responsabilità contro amministratore deceduto, costituzione parte (Unijuris) .
- Cassazione Civile, sent. n. 22002/2025 – Responsabilità ex amministratori per danni successivi a dimissioni (conferma principi di continuità della responsabilità per mala gestio) .
- Tribunale di Milano, 4 settembre 2025 – Concordato preventivo in continuità: obbligo indicare valore per soci, classi omogenee e motivate, attendibilità piano (decisione richiamata) .
- Osservatorio Cerved sulle Procedure 2024 – Dati statistici aumento fallimenti +17% nel 2024, effetto fine moratorie .
- Camera dei Deputati, dossier “Riforma delle procedure di insolvenza”, giugno 2025 – Sintesi novità CCII (primo, secondo, terzo correttivo) , spiegazione cram-down fiscale , procedure sovraindebitamento riformate , tempi omologazione concordato (12 mesi) .
- Commercialista Telematico, 27/11/2025 – Approfondimento su concordato minore e par condicio (nota a Cass. 28574/2025) ..
La tua azienda che produce, installa o distribuisce sistemi filtranti a osmosi, osmosi inversa, impianti di depurazione acqua, filtri a membrane, addolcitori, ultrafiltrazione, microfiltrazione, cartucce filtranti, sistemi per uso civile, industriale e alimentare, oppure fornisce assistenza e manutenzione, si trova oggi in difficoltà a causa dei debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Ricevi solleciti, richieste di rientro, blocchi di materiale, decreti ingiuntivi, cartelle esattoriali o minacce di pignoramento da parte di banche, Fisco, INPS, fornitori di componenti o Agenzia Entrate-Riscossione?
Il settore dell’osmosi e della filtrazione dell’acqua è tecnico e costoso: membrane, pompe, vessel, elettroniche, ricambi specifici, normative stringenti, magazzini complessi e clienti che pagano tardi. Bastano pochi mesi di tensione finanziaria per entrare in crisi.
La buona notizia è che la tua azienda può essere salvata, se intervieni subito e con metodo.
Perché un’Azienda di Sistemi a Osmosi va in Debito
- aumento dei costi di membrane, vessel, pompe, tubazioni, resine e componenti elettroniche
- pagamenti lenti da parte di clienti civili, industrie, impianti alimentari e aziende municipalizzate
- magazzino immobilizzato tra membrane, filtri, centraline, pompe e ricambi
- costi elevati di installazione, collaudi, sanificazioni e assistenze
- investimenti in certificazioni, documentazione tecnica e normative sanitarie
- riduzione o revoca delle linee di credito bancarie
In quasi tutti i casi, il problema è la mancanza di liquidità immediata, non la mancanza di lavoro.
I Rischi se Non Intervieni Subito
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco dei fidi bancari
- sospensione delle forniture di membrane, pompe e componenti
- atti esecutivi, precetti e decreti ingiuntivi
- sequestro dei materiali, membrane, filtri e attrezzature
- impossibilità di completare installazioni e manutenzioni
- perdita di clienti importanti e appalti strategici
Cosa Fare Subito per Difendersi
1. Bloccare immediatamente i creditori
Un avvocato esperto può:
- sospendere pignoramenti
- fermare richieste di rientro
- proteggere conti correnti e liquidità
- bloccare iniziative dell’Agenzia Riscossione
Prima si mette in salvo l’azienda, poi si affrontano i debiti.
2. Analizzare i debiti ed eliminare ciò che non è dovuto
Nella maggior parte dei casi emergono anomalie come:
- interessi non dovuti
- sanzioni calcolate male
- importi duplicati
- debiti prescritti
- errori nelle cartelle della Riscossione
- commissioni bancarie anomale
Una parte significativa del debito può essere ridotta o cancellata.
3. Ristrutturare i debiti con piani sostenibili
Strumenti disponibili:
- rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
- accordi con fornitori strategici (membrane, pompe, componenti idraulici)
- rinegoziazione dei fidi bancari
- sospensioni temporanee dei pagamenti
- utilizzo delle definizioni agevolate
4. Usare strumenti legali potenti che bloccano TUTTI i creditori
Quando la situazione è più grave, la legge permette di attivare:
- PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
- Accordi di ristrutturazione dei debiti
- Concordato minore
- (nei casi limite) Liquidazione controllata
Questi strumenti consentono di continuare a lavorare pagando solo una parte dei debiti, mentre tutte le azioni esecutive vengono sospese.
Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo
Per salvare un’impresa tecnica come la tua servono competenze elevate.
L’Avv. Giuseppe Monardo è:
- Avvocato Cassazionista
- Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012), registrato negli elenchi del Ministero della Giustizia
- Professionista fiduciario di un OCC
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Un profilo ideale per bloccare creditori, ristrutturare debiti e proteggere aziende del settore trattamento acque e osmosi.
Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo
- analisi completa e immediata della tua esposizione debitoria
- blocco di pignoramenti e decreti ingiuntivi
- riduzione dei debiti non dovuti
- ristrutturazione del debito con piani sostenibili
- protezione di materiali, membrane, pompe e magazzino
- trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
- tutela totale dell’azienda e dell’amministratore
Conclusione
Avere debiti nella tua azienda di sistemi filtranti a osmosi non significa essere destinato alla chiusura.
Con una strategia rapida, efficace e completamente legale, puoi:
- fermare subito i creditori
- ridurre realmente i debiti
- salvare commesse, installazioni e magazzino
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