Se la tua azienda produce, importa o distribuisce prodotti chimici per galvanica, additivi, bagni galvanici, decapanti, detergenti tecnici, sgrassanti, attivanti, fosfatanti, nichelatura, cromatura, zincatura, anodi e materiali per trattamenti superficiali, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è essenziale intervenire subito per evitare rischi operativi e perdita di clienti strategici.
Nel settore galvanico, ritardi nelle forniture possono bloccare intere linee di trattamento, impedire consegne, generare difetti di produzione e causare penali o recessi contrattuali immediati.
Perché le aziende di chimici per galvanica accumulano debiti
- aumento dei costi di prodotti chimici speciali e materie prime importate
- rincari energetici e costi elevati di smaltimento rifiuti (normative ambientali)
- pagamenti lenti da parte di galvaniche, metalmeccaniche e contoterzisti
- ritardi nei versamenti IVA, imposte e contributi
- magazzini complessi con prodotti pericolosi, scadenze e gestione ADR/CLP
- difficoltà nell’ottenere fidi bancari proporzionati ai volumi di acquisto
Cosa fare subito
- far analizzare da un professionista tutta la posizione debitoria
- identificare debiti che possono essere contestati, ridotti o rateizzati
- evitare piani di rientro non sostenibili che riducono la liquidità
- chiedere la sospensione immediata di eventuali pignoramenti
- proteggere rapporti con fornitori strategici e prodotti essenziali
- usare gli strumenti legali più efficaci per ristrutturare e rinegoziare i debiti
I rischi se non intervieni tempestivamente
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco delle forniture di additivi, bagni galvanici, acidi e materiali critici
- fermo delle linee di trattamento, difetti di finitura e reclami dei clienti
- perdita di aziende galvaniche, contoterzisti e industrie partner
- rischio concreto di chiusura dell’attività
Come può aiutarti l’Avvocato Monardo
Detto questo, l’Avvocato Monardo, cassazionista, coordina un team nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario.
Inoltre è:
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012)
- iscritto negli elenchi del Ministero della Giustizia
- professionista fiduciario di un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Può aiutarti concretamente a:
- bloccare pignoramenti e procedure esecutive
- ridurre o ristrutturare i debiti con gli strumenti normativi più efficaci
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- proteggere magazzino, prodotti chimici, attrezzature e continuità produttiva
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Introduzione
Un’azienda che produce prodotti chimici per galvanica e si trova in una situazione di pesante indebitamento deve affrontare scelte complesse per difendersi dai creditori e cercare di superare la crisi finanziaria. I debiti aziendali possono avere natura diversa – ad esempio finanziamenti bancari, fatture di fornitori rimaste insolute, cartelle esattoriali per imposte o contributi arretrati (debiti fiscali verso l’Erario e previdenziali verso INPS) – e ciascuna categoria di creditore dispone di strumenti giuridici propri per recuperare le somme dovute. In Italia, la normativa sulla crisi d’impresa (il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, D.Lgs. 14/2019, entrato in vigore a pieno regime dal 15 luglio 2022) ha introdotto nuovi strumenti e procedure per gestire tali situazioni in modo ordinato e, per quanto possibile, conservativo della continuità aziendale .
Affronteremo, dal punto di vista del debitore, le possibili strade da intraprendere quando un’azienda – ad esempio una S.r.l. o S.p.A. operante nel settore chimico/galvanico – non riesce più a far fronte ai propri debiti finanziari e commerciali. Analizzeremo gli obblighi legali dell’imprenditore nell’affrontare la crisi, le soluzioni stragiudiziali (negoziazioni private, piani attestati) e le procedure concorsuali previste dal Codice della Crisi (accordi di ristrutturazione dei debiti, piani di ristrutturazione soggetti a omologazione – i cosiddetti PRO, concordato preventivo – compresa la versione “semplificata” – e, ove inevitabile, la liquidazione giudiziale). Verranno illustrati i vantaggi e i limiti di ciascuno strumento, con riferimenti normativi aggiornati al 2025 e alle ultime sentenze rilevanti in materia.
Corrediamo la guida con tabelle riepilogative, esempi pratici di come potrebbe evolversi una crisi aziendale, e una sezione di domande e risposte frequenti, per chiarire i dubbi di imprenditori, professionisti e privati interessati a capire come difendersi efficacemente da azioni esecutive e iniziative dei creditori. Il tutto con un linguaggio giuridico accurato ma divulgativo, adatto anche ai non addetti ai lavori, e con riferimento alla sola normativa italiana vigente. L’obiettivo è fornire una guida completa e aggiornata su “cosa fare e come farlo” quando un’azienda è sovraindebitata, così da evitare errori (ad esempio l’inerzia o i favoritismi verso alcuni creditori) che potrebbero aggravare la situazione e comportare responsabilità personali per gli amministratori.
Segnali di crisi e obblighi dell’imprenditore
Il primo passo per difendere un’azienda indebitata è riconoscere tempestivamente lo stato di crisi. La legge definisce lo “stato di crisi” come la probabilità di futura insolvenza, cioè il rischio concreto di non riuscire a pagare regolarmente i debiti nei mesi a venire . Anche prima che l’insolvenza si manifesti in modo conclamato (ad esempio con inadempimenti gravi e generalizzati), è fondamentale che l’imprenditore monitori gli indici finanziari e gestionali dell’azienda. Dal 2019, il codice civile (art. 2086 c.c. comma 2) impone all’imprenditore che opera in forma societaria di dotarsi di “assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati” alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione di rilevare tempestivamente la crisi e la perdita della continuità aziendale . Ciò significa che amministratori e dirigenti devono tenere sotto controllo la situazione economico-finanziaria (ad esempio attraverso indicatori come il Debt Service Coverage Ratio – DSCR, gli indici di liquidità, l’andamento del capitale netto, ecc.) e attivarsi senza indugio per adottare strumenti di superamento della crisi non appena emergano segnali di difficoltà .
In pratica, se l’azienda inizia ad accumulare ritardi significativi nei pagamenti verso fornitori, banche o Erario, oppure se prevede flussi di cassa futuri insufficienti a coprire le uscite dei prossimi mesi, gli amministratori hanno il dovere di agire prontamente. Ciò può significare convocare immediatamente i consulenti (commercialisti, legali) per valutare un piano di risanamento, intavolare trattative con i creditori o ricorrere a una delle procedure di gestione della crisi previste dalla legge . Non è più ammesso attendere passivamente il progressivo deteriorarsi della situazione: un comportamento omissivo di questo tipo può costituire inadempienza ai doveri gestionali e fonte di responsabilità. Infatti, in caso di successivo fallimento (oggi chiamato “liquidazione giudiziale”), un curatore potrebbe agire contro gli amministratori per mala gestio, sostenendo che il ritardo nell’affrontare la crisi ha causato un aggravamento del passivo e dunque un danno ai creditori. Secondo un orientamento giurisprudenziale (ad es. Corte d’Appello di Milano, 16 giugno 2023), l’amministratore, una volta resosi conto dello stato di dissesto, deve adottare “tutte le misure necessarie ad evitare un ingiustificato aggravamento” del deficit patrimoniale . Continuare ad accumulare perdite o contrarre nuovi debiti quando l’insolvenza è già all’orizzonte viola questo dovere di diligenza e di conservazione del patrimonio sociale.
Va ricordato che, oltre agli obblighi civilistici, esistono possibili conseguenze penali per l’imprenditore che occulti o ritardi dolosamente la crisi. Ad esempio, il reato di bancarotta semplice (art. 217 R.D. 267/1942, vecchia legge fallimentare, ancora in vigore per la parte penale) punisce anche la gestione imprudente che aggrava il dissesto dell’impresa. In casi più gravi, condotte come la sottrazione o falsificazione di scritture contabili, o la distrazione di beni aziendali a fini personali, possono integrare il reato di bancarotta fraudolenta (artt. 216 e segg. L.Fall.) a carico degli amministratori. Pertanto, difendersi dai debiti significa prima di tutto mettere in sicurezza la gestione dell’azienda, adottando misure prudenti e trasparenti: bloccare operazioni azzardate, evitare di assumere nuove esposizioni se non strettamente necessario, e informarsi subito sulle opportunità di composizione della crisi offerte dalla legge. Come vedremo, agire tempestivamente può consentire di accedere a procedure che proteggono l’azienda dalle azioni esecutive dei creditori mentre si cerca una soluzione. Al contrario, l’inerzia espone al rischio che uno o più creditori “anticipino” il debitore – ad esempio presentando istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) – prima che sia il debitore stesso a proporre un piano di ristrutturazione .
Tipologie di debiti e rischi per l’azienda indebitata
Una mappa completa dei debiti dell’azienda consente di capire quali rischi immediati essa corre e quali strategie di difesa adottare. Possiamo distinguere varie tipologie di debito, ciascuna con peculiarità giuridiche:
- Debiti bancari: includono mutui, finanziamenti, scoperti di conto corrente non rientrati. Le banche vantano spesso garanzie sui crediti concessi, ad esempio ipoteche su immobili aziendali, pegni su macchinari, oppure fideiussioni personali rilasciate dai soci o amministratori a garanzia delle esposizioni. Se l’azienda salta le rate di un mutuo o sconfina oltre i fidi di cassa concordati, la banca può revocare gli affidamenti e pretendere il rientro immediato. In caso di inadempimento persistente, l’istituto di credito può avviare azioni esecutive: ad esempio iscrivere ipoteca giudiziale su immobili non ancora ipotecati, oppure iniziare un pignoramento dei beni su cui ha garanzia (ad es. promuovere un’esecuzione immobiliare sul capannone ipotecato, o escutere la fideiussione agendo sul patrimonio personale del socio garante) . Il rischio principale con i debiti bancari è la perdita di controllo sui beni strategici per l’azienda: un pignoramento immobiliare o mobiliare potrebbe paralizzare l’attività (si pensi al sequestro di macchinari essenziali per la produzione chimica). Inoltre, la segnalazione della posizione a sofferenza nella Centrale Rischi della Banca d’Italia compromette la reputazione creditizia e l’accesso a nuovo credito. Difendersi dai debiti bancari richiede di giocare d’anticipo: cercare una rinegoziazione del debito con la banca, proporre un piano di rientro sostenibile o coinvolgere la banca in un accordo di ristrutturazione più ampio (come vedremo più avanti). Se le trattative falliscono e un’azione legale della banca è imminente (es. decreto ingiuntivo e pignoramento), può diventare opportuno attivare una procedura concorsuale (come il concordato preventivo) che congeli le azioni esecutive della banca durante le trattative .
- Debiti verso fornitori: si tratta di fatture commerciali scadute nei confronti dei propri fornitori di materie prime, merci o servizi. Nel settore galvanico, ad esempio, possono essere fornitori di metalli, prodotti chimici (acidi, soluzioni galvaniche), impianti o dispositivi per il processo produttivo. Un fornitore insoddisfatto può reagire sospendendo le forniture (con grave impatto sulla continuità produttiva se i materiali chimici o metalli necessari non arrivano più) e avviando a sua volta azioni di recupero crediti. Tipicamente, il fornitore ottiene un decreto ingiuntivo dal tribunale e, se l’azienda non paga entro 40 giorni dalla notifica, può iniziare un pignoramento – ad esempio bloccando conti correnti aziendali, pignorando beni mobili strumentali, o i crediti che l’azienda vanta verso i propri clienti (pignoramento “presso terzi”). Per importi rilevanti, un fornitore particolarmente aggressivo potrebbe anche presentare ricorso per la dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) dell’azienda debitrice, qualora ritenga sussistenti i presupposti di insolvenza. È dunque importante gestire proattivamente i rapporti con i fornitori: comunicare con trasparenza la situazione di difficoltà, negoziare se possibile dilazioni di pagamento o accordi transattivi (ad esempio un pagamento parziale a saldo e stralcio del credito). In molti casi, i fornitori preferiscono ricevere qualcosa subito (anche se non l’intero importo dovuto) piuttosto che affrontare lunghe procedure concorsuali in cui il recupero è incerto e tardivo. Dal lato difensivo, se un fornitore cruciale minaccia un’istanza di fallimento, l’azienda può valutare di prevenire tale mossa attivando essa stessa una procedura di concordato preventivo o almeno avviando una composizione negoziata della crisi: in questo modo mette al riparo l’impresa dalle iniziative individuali mentre tratta collettivamente con tutti i creditori, evitando di essere presa di sorpresa su singoli fronti .
- Debiti fiscali (verso l’Erario) e contributivi (verso INPS): riguardano imposte non versate (ad esempio IVA, IRES, IRAP) e contributi previdenziali dei dipendenti o del titolare rimasti non pagati. Questi debiti hanno un regime particolare. Innanzitutto, la loro riscossione è affidata all’Agenzia delle Entrate-Riscossione (ex Equitalia), che emette cartelle esattoriali per conto del Fisco e degli enti previdenziali. Se le cartelle non vengono né saldate né almeno rateizzate, il concessionario della riscossione può attivare severe procedure esecutive esattoriali: iscrizione di fermo amministrativo sui veicoli aziendali, ipoteca legale sugli immobili dell’azienda, pignoramenti diretti (anche presso terzi, ad esempio bloccando crediti dell’azienda verso i suoi clienti) . Inoltre, alcuni debiti tributari e contributivi – se superano determinate soglie di importo – sono collegati a sanzioni penali a carico degli amministratori: ad esempio, l’omesso versamento dell’IVA per un importo annuo sopra €250.000 o di ritenute fiscali oltre €150.000 costituisce reato tributario punito con la reclusione . Ciò aggiunge ulteriore pressione sull’imprenditore, perché non si tratta solo di colmare un debito finanziario, ma anche di evitare conseguenze penali personali (tali conseguenze possono essere scongiurate pagando il dovuto entro specifici termini stabiliti dalla legge – ad esempio nel caso dell’omesso versamento IVA, il pagamento integrale del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento evita la confisca e può estinguere il reato ). Dal punto di vista difensivo, uno strumento immediato è richiedere all’Agenzia Entrate-Riscossione una rateizzazione dei carichi pendenti: ordinariamente si può ottenere una dilazione fino a 72 rate mensili (6 anni) senza dover provare lo stato di difficoltà per importi entro determinate soglie, oppure una rateazione straordinaria fino a 120 rate (10 anni) in casi di comprovata grave crisi. Ottenere un piano di rate congela le azioni esecutive del fisco, a condizione di rispettare regolarmente i pagamenti rateali concordati. Un’altra opportunità – se prevista dalla legislazione vigente – è la “rottamazione” delle cartelle esattoriali, ossia definizioni agevolate straordinarie che consentono di pagare il debito fiscale senza sanzioni e interessi. Ad esempio, la recente rottamazione-quater introdotta dalla Legge n. 197/2022 (Legge di Bilancio 2023) ha permesso di definire i carichi affidati alla riscossione fino al 2017 pagando solo gli importi di imposta e contributo, con esclusione di sanzioni e interessi, suddividendo il dovuto in 18 rate nell’arco di 5 anni . Tali misure straordinarie però sono attivabili solo nelle finestre temporali specifiche stabilite dal legislatore. In mancanza di rottamazioni o sanatorie, rimangono come strumenti di composizione dei debiti fiscali la transazione fiscale nell’ambito di procedure concorsuali (ne parleremo a breve) o, appunto, le rateazioni ordinarie presso l’ente di riscossione.
Un aspetto critico dei debiti tributari è il tradizionale “potere di veto” del Fisco nelle soluzioni concordatarie: storicamente, un voto contrario dell’Erario poteva bloccare l’omologazione del concordato preventivo, rendendo di fatto impossibile tagliare i debiti tributari senza il consenso dell’Agenzia Entrate . Questa rigidità è stata recentemente attenuata grazie a un cambio di orientamento giurisprudenziale e ad interventi normativi: oggi è ammesso il “cram down” fiscale, ovvero l’omologazione forzosa del concordato anche senza voto favorevole dell’Erario, purché al Fisco sia garantito almeno quanto otterrebbe in caso di liquidazione fallimentare . La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27782 del 28 ottobre 2024, ha confermato che il tribunale può approvare il concordato preventivo nonostante il “no” dell’Agenzia delle Entrate o dell’INPS, se è provato che la proposta di concordato assicura a tali creditori pubblici una soddisfazione economica superiore a quella ricavabile dalla liquidazione giudiziale . Si tratta di una svolta storica: in precedenza bastava il veto del Fisco per far naufragare molti piani di risanamento, mentre ora l’interesse generale alla continuazione dell’attività (e alla migliore soddisfazione di tutti i creditori) può prevalere sul favor fiscale . Su questo punto la giurisprudenza del 2024 ha quindi innovato, in coerenza con la Direttiva UE 2019/1023 e con le modifiche normative apportate dal D.Lgs. 83/2022 e dal correttivo D.Lgs. 136/2024: oggi il giudice può omologare un concordato preventivo anche senza l’adesione del Fisco, se ritiene – con apposita perizia/attestazione – che il piano offra all’Erario almeno l’equivalente di quanto esso recupererebbe in un fallimento . Approfondiremo oltre il tema della transazione fiscale e del cram down fiscale nelle sezioni dedicate al concordato.
- Debiti verso dipendenti: se l’azienda ha personale dipendente e non riesce a pagare regolarmente gli stipendi o il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) maturato, oltre al danno sociale ed umano evidente, c’è il rischio di vertenze legali individuali (ingiunzioni di pagamento da parte dei lavoratori) e soprattutto di interventi sindacali o ispezioni degli enti del lavoro. I crediti dei lavoratori per retribuzioni degli ultimi mesi e TFR godono di privilegio generale sui beni mobili dell’azienda e, in caso di fallimento, vengono soddisfatti con precedenza rispetto ai debiti chirografari (nei limiti dell’importo privilegiato, determinato per legge). Inoltre, esiste un Fondo di Garanzia INPS che, a seguito di fallimento o anche di concordato preventivo inadempiuto, può anticipare ai lavoratori il TFR e le ultime mensilità impagate, per poi surrogarsi (sostituirsi) nelle loro pretese verso l’azienda. Tuttavia, in fase di crisi, accumulare debiti verso i dipendenti porta rapidamente alla perdita di fiducia e all’uscita del personale chiave, aggravando la possibilità di risanamento. È quindi prioritario, se possibile, tutelare i lavoratori anche durante la crisi: ad esempio ricorrendo agli ammortizzatori sociali (cassa integrazione guadagni straordinaria per crisi, ove ottenibile nel settore chimico-industriale), oppure stipulando accordi per differire il pagamento di alcune competenze con garanzie (come la prededucibilità in caso di successivo concordato, o l’intervento del fondo di garanzia). Dal punto di vista legale, i singoli dipendenti raramente possono portare direttamente l’azienda al fallimento (a meno che il loro credito non pagato sia molto elevato, il che è raro, o che agiscano in forma aggregata), ma restano stakeholder importantissimi da gestire con trasparenza durante la crisi, sia per ragioni etiche sia perché una fuga di competenze o scioperi potrebbero “spegnere” di colpo l’operatività aziendale.
- Debiti finanziari verso altri soggetti: qui includiamo esposizioni come contratti di leasing, operazioni di factoring, eventuali obbligazioni emesse dall’azienda, finanziatori privati o società di finanziamento non bancarie. Ognuno di questi creditori ha tutele contrattuali e legali specifiche, spesso con clausole risolutive espresse nei contratti. Ad esempio, un leasing non pagato consente alla società di leasing di risolvere il contratto e riprendere il bene concesso in locazione (macchinario, veicolo) richiedendo eventualmente il pagamento dei canoni residui a titolo di penale; un factor a cui l’azienda ha ceduto crediti può interrompere anticipi e chiedere la restituzione degli anticipi per crediti che l’azienda non incasserà; gli obbligazionisti (se l’azienda ha emesso mini-bond o prestiti obbligazionari) possono agire in via giudiziale per il rimborso se vi è inadempimento alle cedole o covenant contrattuali. Anche per questi creditori, l’apertura di una procedura concorsuale formale può temporaneamente congelare le pretese e vincolare i contratti (salvo il diritto di alcuni soggetti di chiedere comunque lo scioglimento), ma occorre valutare caso per caso le conseguenze di insolvenza su questi rapporti. In generale, la difesa passa per trattative individuali o per l’inclusione di questi rapporti in un eventuale piano unificato di ristrutturazione. Ad esempio, si potrà cercare di rinegoziare il canone di leasing o trovare un accordo sul residuo, includendolo nel pacchetto concordatario. Bisogna inoltre considerare che alcuni finanziatori potrebbero avere garanzie particolari (riserva di proprietà, patto di riacquisto di merci, ecc.) che necessitano di specifica attenzione.
Ricapitolando, l’azienda debitrice deve mappare con precisione chi sono i suoi creditori, quanto ciascuno vanta e quali poteri ha per agire. Un creditore ipotecario (come una banca garantita da ipoteca) avrà prelazione sugli immobili e tenderà a tutelare la propria posizione aggredendo quei beni; un creditore chirografario (senza garanzie) potrà spingere per azioni rapide come decreti ingiuntivi, ma ha meno tutela intrinseca sul patrimonio; il Fisco e l’INPS hanno un ruolo peculiare, combinando privilegi (nel concorso tra creditori vantano cause di prelazione su alcuni beni e crediti) e poteri pubblicistici (ad esempio iscrivere ipoteche, bloccare beni con fermo, ecc.). Spesso, la presenza di una molteplicità di creditori (multi-creditorialità) rende impossibile accontentare tutti contemporaneamente: se l’impresa paga un fornitore in difficoltà, sottrae liquidità che potrebbe servire a pagare imposte, o viceversa. Inoltre, bisogna stare attenti a non effettuare pagamenti preferenziali in periodo di sospetto fallimentare: se poi l’azienda viene comunque dichiarata fallita, i pagamenti effettuati nei mesi precedenti a favore di un creditore (e non di altri) possono essere revocati dal curatore come atti preferenziali lesivi della par condicio creditorum. In generale, i pagamenti di debiti scaduti fatti nei 6 mesi prima del fallimento possono essere revocati se il creditore beneficiato conosceva lo stato di insolvenza del debitore (art. 166 Cod. Crisi, ex art. 67 L.Fall.), e alcuni atti particolarmente pregiudizievoli hanno termini di vulnerabilità ancora più lunghi (fino a 2 anni per atti dispositivi anomali, es. vendita sottoprezzo di beni). Questo significa che, in ottica difensiva, favorire un creditore a scapito di altri è rischioso: meglio cercare una soluzione organica e trasparente, che coinvolga tutti i creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione stabilito dalla legge.
Di seguito, passeremo in rassegna gli strumenti di soluzione della crisi disponibili, dai più informali ai più strutturati, evidenziando come e quando ciascuno può aiutare un’azienda indebitata a difendersi e – dove possibile – a risollevarsi.
Soluzioni stragiudiziali: negoziazione privata e piani attestati
La prima categoria di strumenti per affrontare i debiti aziendali comprende le soluzioni stragiudiziali, ovvero quelle che non richiedono l’apertura immediata di una procedura concorsuale formale davanti al Tribunale. Si tratta di percorsi basati sul consenso volontario tra il debitore e i creditori, i quali hanno il vantaggio di essere riservati e flessibili, ma anche il limite di vincolare solo chi vi aderisce e di non offrire automaticamente protezione dalle azioni esecutive dei creditori dissenzienti. Vediamo i principali:
- Trattative private e piani di rientro bilaterali: l’azienda può contattare singolarmente i suoi principali creditori e proporre accordi di rientro del debito su misura per ciascuno. Ad esempio, con la banca potrebbe rinegoziare i termini del mutuo (allungare la durata, ottenere un periodo di pre-ammortamento solo interessi – interest only – per qualche mese, ecc.); con i fornitori si possono concordare pagamenti dilazionati (es. versare immediatamente una percentuale del dovuto e il resto a rate in 6-12 mesi), magari fornendo in garanzia cambiali o promissory note a scadenze fisse; col Fisco, come accennato, si può chiedere la rateazione amministrativa delle cartelle esattoriali presso Agenzia Riscossione. Queste soluzioni one-to-one sono relativamente snelle (basta l’accordo delle parti interessate, formalizzato in una scrittura privata), ma presentano due grandi problemi in un contesto di crisi generalizzata: coordinamento e pari trattamento. Coordinamento perché convincere ciascun creditore separatamente può essere arduo – ogni creditore tenderà a tutelare il proprio interesse individuale e magari a voler essere pagato per primo. Pari trattamento perché, se alcuni creditori vengono pagati in misura maggiore o più tempestivamente di altri, si genera malcontento e soprattutto si rischia, in caso di fallimento successivo, la già citata azione revocatoria per pagamenti preferenziali. Pertanto, le trattative private funzionano meglio se il numero di creditori è contenuto o se comunque c’è un consenso quasi unanime su una certa strategia di rientro. In situazioni di indebitamento diffuso, spesso si preferisce formalizzare un unico piano complessivo che coinvolga tutti i creditori in maniera coordinata.
- Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII): è uno strumento previsto dal Codice della Crisi che formalizza un piano di risanamento aziendale concordato privatamente, ma attestato da un esperto indipendente. In sostanza, l’imprenditore predispone – con l’aiuto di professionisti (commercialisti, consulenti aziendali, legali) – un piano industriale e finanziario finalizzato a risanare l’impresa (ad esempio tramite nuova finanza, dismissione di asset non strategici, ristrutturazione dei debiti con dilazioni e stralci negoziati). Questo piano deve essere fattibile e assicurare il riequilibrio dell’impresa, nonché il pagamento dei creditori secondo i termini pattuiti nel piano stesso. Un professionista indipendente (iscritto nell’apposito albo dei gestori della crisi) esamina il piano e redige una relazione di attestazione in cui dichiara che l’operazione è realizzabile e che, presumibilmente, l’azienda – eseguendo il piano – potrà superare la crisi e soddisfare i creditori coinvolti nei tempi previsti . Il piano attestato non è soggetto ad omologazione del tribunale né prevede la nomina di un commissario: resta un accordo privato. Tuttavia, la legge gli riconosce alcuni effetti protettivi importanti. In particolare, gli atti compiuti in esecuzione del piano attestato di risanamento sono esenti da revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento (art. 56, comma 3, CCII) . Ciò significa che, se il piano purtroppo non dovesse riuscire e l’azienda fallisse comunque, i pagamenti e le garanzie concesse in attuazione del piano non potranno essere attaccati dal curatore, a patto che il piano fosse idoneo e correttamente attestato. Questo “comfort” giuridico incoraggia i creditori ad aderire al piano, sapendo di non dover restituire quanto incassato in buona fede durante il tentativo di risanamento. Inoltre, il piano attestato consente all’imprenditore di continuare a operare senza il marchio pubblico di una procedura concorsuale: di solito il piano non viene reso noto esternamente (se non in limitati adempimenti pubblicitari, come talvolta il deposito presso il registro imprese), preservando la reputazione commerciale (clienti e fornitori potrebbero anche non venire a conoscenza formalmente della crisi in atto, diversamente da un concordato preventivo che è pubblicizzato nei registri).
I limiti: il piano attestato vincola solo chi lo sottoscrive. Se, ad esempio, l’imprenditore trova un accordo con le banche e con i fornitori principali ma non con altri creditori minori, questi ultimi potrebbero comunque agire autonomamente (pignoramenti, istanze di fallimento) essendo estranei all’accordo. Spesso, dunque, il piano attestato deve accompagnarsi a un accordo contestuale con tutti o quasi i creditori rilevanti. Inoltre, il piano attestato non prevede di per sé misure protettive automatiche: non c’è un automatic stay come nel concordato. Tuttavia, l’imprenditore può chiedere al tribunale, se necessario, provvedimenti cautelari ad hoc (ad esempio un decreto che sospenda temporaneamente specifiche azioni esecutive) in supporto al piano, ma non è scontato ottenerli al di fuori delle procedure concorsuali formalizzate.
In sintesi, la difesa stragiudiziale è consigliabile quando: (a) la crisi è ancora gestibile con interventi mirati e l’azienda non è insolvente conclamata, (b) si prevede di poter ottenere il consenso quasi unanime dei creditori chiave e magari apportare qualche risorsa fresca (nuovi finanziamenti, oppure apporto di capitale dei soci) per dare credibilità al piano, (c) si vuole evitare la pubblicità e i costi di una procedura giudiziaria. La tabella seguente riepiloga le caratteristiche di un piano attestato rispetto ad altre soluzioni stragiudiziali:
| Strumento | Natura | Adesione creditori | Protezione legale | Vantaggi | Svantaggi |
|---|---|---|---|---|---|
| Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) | Accordo privato attestato da esperto indipendente; non è procedura concorsuale pubblica | Solo creditori che aderiscono formalmente al piano (accordi bilaterali con ciascuno) | Nessuna protezione automatica, ma atti esecutivi del piano esenti da revocatoria; possibili misure cautelari su richiesta | Riservato (non pubblico); flessibile nei contenuti; evita stigma del fallimento; tutela da revocatorie per atti eseguiti in buona fede | Non ferma di per sé le azioni dei creditori dissenzienti; richiede consenso individuale di larga parte dei creditori; nessun voto collettivo né omologa; efficacia limitata ai soli aderenti |
| Trattative private informali (piani di rientro individuali) | Accordi ad hoc con ciascun creditore separatamente | Coinvolgimento caso per caso (nessun vincolo tra creditori diversi) | Nessuna protezione concorsuale (accordi privati volontari) | Molto rapido se c’è volontà delle parti; costi ridotti (basta accordo scritto) | Rischio di azioni esecutive da chi non aderisce; possibile disparità di trattamento; instabilità (un creditore può recedere se altri non pagano) |
Nota: esistono anche altri strumenti stragiudiziali meno comuni, come la “convenzione di moratoria” ex art. 62 CCII (accordi temporanei con banche per sospendere pagamenti), ma sono di utilizzo pratico limitato. In questa sede ci concentriamo sulle soluzioni principali.
Composizione negoziata della crisi: l’esperto indipendente
Tra le novità più rilevanti introdotte dal Codice della Crisi (come modificato dal D.L. 118/2021, convertito con L. 147/2021, e dal D.Lgs. 83/2022) vi è la Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa. Si tratta di un percorso volontario e riservato in cui l’imprenditore, una volta riconosciuta la situazione di crisi o insolvenza incipiente, chiede l’assistenza di un esperto indipendente nominato da un’apposita Commissione presso la Camera di Commercio . L’esperto ha il compito di facilitare le trattative tra l’imprenditore e i creditori, per individuare una soluzione consensuale che eviti l’insolvenza conclamata e la necessità di aprire procedure concorsuali tradizionali.
Come funziona? L’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma online nazionale (gestita dalle Camere di Commercio), fornendo informazioni sull’azienda, sui bilanci, sull’elenco dei creditori e sull’entità della crisi. Una commissione competente nomina un esperto (di norma un commercialista, un avvocato o un consulente con esperienza in ristrutturazioni aziendali) il quale, dopo un primo esame della situazione, convoca il debitore e i creditori principali per incontri negoziali. Il ruolo dell’esperto è di terzo imparziale: non ha poteri di decisione vincolante, ma aiuta le parti a trovare un accordo equo e sostenibile. Il processo è confidenziale: fino a che non si raggiunge un accordo o non si sfocia in una procedura formale, l’avvio della composizione negoziata non è pubblico (salvo il caso in cui il debitore richieda espressamente misure protettive al tribunale, come diremo a breve, poiché in tal caso un provvedimento viene pubblicato) .
Durante la composizione negoziata, l’imprenditore rimane alla guida dell’azienda (non c’è spossessamento o commissariamento), ma è tenuto ad astenersi da atti che possano pregiudicare i creditori; alcune operazioni straordinarie – come la cessione dell’azienda o di rami di azienda – possono richiedere il nulla osta dell’esperto se compiute durante le trattative. Il vantaggio principale è che la legge consente al debitore di chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive temporanee: in pratica, può essere richiesto che per la durata delle trattative i creditori non possano iniziare o proseguire azioni esecutive né acquisire nuove garanzie sui beni del debitore (salvo eccezioni) . Il tribunale, verificati i presupposti (esistenza dello stato di crisi, serietà delle trattative avviate), emette un decreto di concessione delle misure protettive che viene pubblicato (questo passaggio, di fatto, rende nota l’esistenza di una procedura di composizione in corso). Da quel momento i creditori sono bloccati: non possono iniziare pignoramenti né iscrivere ipoteche, e anche le eventuali istanze di fallimento presentate sono sospese finché dura la protezione. Ciò crea uno spazio di respiro perché l’imprenditore possa negoziare senza la “pistola alla tempia” delle esecuzioni forzate pendenti .
Il fine della composizione negoziata può essere molteplice: se le parti trovano un accordo, questo può prendere la forma di un contratto (ad esempio un accordo quadro firmato da tutti i creditori, che preveda un misto di dilazioni e stralci) oppure sfociare in uno degli strumenti formali previsti dal Codice della Crisi. Ad esempio, se si raggiunge un’intesa con una maggioranza qualificata di creditori, l’accordo può essere portato in tribunale per ottenerne l’omologazione come accordo di ristrutturazione dei debiti (vedi oltre), in modo da essere vincolante erga omnes. Se invece serve includere anche creditori dissenzienti che non hanno firmato alcunché, si può optare per un concordato preventivo (in continuità o liquidatorio) costruito sulla base dell’accordo trovato, sottoponendolo poi al voto di tutti i creditori. In alternativa, l’esito può essere che non si trovi alcuna soluzione: in tal caso l’esperto chiude la procedura con una relazione finale negativa. Tuttavia, perfino il fallimento della composizione negoziata prevede uno sbocco utile: entro 60 giorni dalla relazione finale dell’esperto, l’imprenditore può presentare una proposta di concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII) . Si tratta – come vedremo – di una procedura concorsuale speciale, senza voto dei creditori, concepita per liquidare rapidamente i beni residui evitando il fallimento “tradizionale” e distribuendo il ricavato ai creditori secondo le regole legali.
Dal punto di vista difensivo, la composizione negoziata è uno strumento prezioso perché: (a) consente di coinvolgere tutti i creditori sin dall’inizio in un dialogo unitario, mediato da un esperto, evitando negoziati separati e scoordinati; (b) offre la possibilità di ottenere una sospensione delle azioni esecutive (le misure protettive sopra dette) durante le trattative, impedendo ai singoli creditori impazienti di far saltare il tavolo con pignoramenti o istanze di fallimento; (c) lascia l’imprenditore alla guida dell’azienda e non stigmatizza l’azienda come “fallita” – anzi, spesso se la composizione riesce, all’esterno potrebbe non trapelare nulla e l’azienda continua a operare regolarmente; (d) è flessibile nel risultato finale, potendo sfociare sia in accordi puramente contrattuali sia, se necessario, in procedure formali (accordi omologati, concordati, ecc.). Di contro, bisogna considerare che: (e) la composizione negoziata non garantisce l’esito – se i creditori sono troppo ostili o la situazione dell’azienda è troppo compromessa, essa potrebbe semplicemente allungare un po’ i tempi ma senza evitare il dissesto finale; (f) finché non si passa a una procedura omologata (accordo o concordato), un creditore dissenziente (ad esempio uno minoritario che rifiuta qualunque intesa) rimane tale e, finito il periodo di protezione, potrà agire come ritiene; (g) c’è un costo da considerare: per quanto inferiore a un lungo concordato, bisogna remunerare l’esperto nominato e impiegare risorse professionali per predisporre proposte, analisi e piani da discutere.
In generale, la Composizione negoziata è consigliabile quando l’impresa ha ancora prospettive di risanamento (non è già “decotta”), ma necessita di ristrutturare i debiti avendo una platea ampia di creditori. È uno strumento tipicamente adatto alle PMI in temporanea crisi di liquidità ma con un business sano di fondo, oppure a situazioni in cui occorre mettere d’accordo soggetti diversi (banche, fornitori, Fisco) evitando di passare subito per il tribunale. I dati dei primi anni di applicazione mostrano che molte imprese hanno tentato questo percorso: alcune sono riuscite a concludere accordi stragiudiziali efficaci, altre hanno utilizzato la composizione come anticamera per un successivo concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione dei debiti formalizzato.
Esempio pratico: la nostra azienda galvanica Alfa S.r.l., ancora operativa ma con debiti elevati verso banca, Erario e tre fornitori principali, potrebbe avviare una composizione negoziata. Il tribunale concede misure protettive: le banche sospendono i pignoramenti e la revoca dei fidi, l’Agenzia Entrate-Riscossione sospende le procedure esecutive. L’esperto facilita un accordo dove: la banca principale accetta di allungare il mutuo residuo di 5 anni, riducendo la rata; i fornitori cruciali accettano un pagamento del 50% del dovuto in 12 mesi e uno stralcio (rinuncia) sul restante 50%, pur di evitare la perdita completa; il Fisco e l’INPS ottengono l’impegno al pagamento integrale dell’IVA e dei contributi in 5 anni, ma con abbattimento di sanzioni e interessi attraverso una transazione fiscale inclusa nell’accordo (che sarà soggetta a omologazione). Raggiunta l’intesa di massima, la si porta in tribunale per farla omologare come accordo di ristrutturazione dei debiti, così da essere vincolante per tutti anche nei confronti dei pochi creditori minori non coinvolti attivamente. L’azienda esce dalla composizione negoziata e, grazie all’accordo omologato, riprende a pagare secondo i nuovi termini, evitando il fallimento.
Accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-64 CCII)
Se la negoziazione privata – con o senza composizione assistita – porta a un consenso sufficientemente ampio tra i creditori, uno strumento che consente di dare efficacia giuridica erga omnes a tale accordo è l’Accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal tribunale. Questo istituto, già presente nella vecchia Legge Fallimentare (art. 182-bis L.F.) e ora disciplinato negli artt. 57 e seguenti del Codice della Crisi, prevede che l’imprenditore possa proporre ai creditori un accordo di sistemazione della propria esposizione debitoria, formalizzato in un atto sottoscritto da esso e da una percentuale qualificata di creditori e quindi sottoposto all’omologazione da parte del tribunale .
I requisiti principali sono: (i) l’accordo deve essere approvato da creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (in valore) . Questa soglia si riferisce al totale dell’indebitamento dell’impresa. Occorre dunque coinvolgere e ottenere l’adesione di una larga maggioranza (non necessariamente tutti i creditori, ma ben oltre la metà). (ii) I creditori non aderenti (il rimanente 40% o meno) devono essere pagati integralmente entro la scadenza prevista dall’accordo, oppure l’accordo deve prevedere nei loro confronti un trattamento tale per cui ottengono almeno quanto otterrebbero in un’eventuale liquidazione giudiziale (fallimento) dell’azienda. In sostanza, non si può imporre a un dissenziente una decurtazione (haircut) del credito senza contropartita: o lo si paga al 100%, oppure bisogna dimostrare – tramite l’attestazione dell’esperto – che comunque, aderendo all’accordo, quel creditore non subisce un trattamento peggiore rispetto all’alternativa liquidatoria (principio del “best interest test”). (iii) È necessaria la relazione di un esperto indipendente attestatore, che dichiari che l’accordo è idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini previsti e la sostenibilità dell’accordo stesso .
Una volta raccolte le firme necessarie, il debitore deposita ricorso in tribunale chiedendo l’omologazione dell’accordo. Il tribunale, verificati i presupposti (percentuale di adesioni raggiunta, regolarità dell’attestazione, convenienza per i creditori estranei, ecc.), omologa l’accordo rendendolo vincolante anche per i creditori che non hanno firmato (purché fossero stati almeno informati/inclusi nell’accordo). Da quel momento, l’accordo di ristrutturazione ha efficacia simil-contrattuale ma con la forza di un provvedimento giudiziario: se il debitore non rispetta i patti, i creditori possono chiederne la risoluzione in tribunale; se invece creditori dissenzienti tentassero ugualmente azioni esecutive, l’accordo omologato è opponibile come titolo e il debitore potrà farle sospendere sulla base dell’accordo stesso .
Ci sono vari tipi speciali di accordi di ristrutturazione previsti dal Codice della Crisi, che ampliano e modulano l’istituto base:
- Accordo ad efficacia estesa: in certi casi, se i creditori finanziari (banche e intermediari finanziari) che aderiscono rappresentano almeno il 75% della loro categoria, l’accordo può essere esteso ope legis anche alle banche dissenzienti minoritarie (previa approvazione della Banca d’Italia). Questo meccanismo serve a evitare che una banca con piccola quota faccia saltare tutto l’accordo.
- Accordo agevolato: la soglia di adesione può scendere al 30% dei crediti (invece del 60%) se l’accordo prevede il pagamento integrale dei creditori estranei entro 120 giorni dall’omologazione. È una versione “snella” introdotta dalle modifiche recenti per facilitare l’accesso delle PMI, a fronte però di un impegno di pagamento molto rapido verso i non aderenti.
- Accordo in continuità aziendale: un accordo di ristrutturazione può prevedere la continuazione dell’attività dell’impresa (e i creditori vengono soddisfatti col flusso di cassa generato nel tempo, non solo con la liquidazione di beni). In tali casi, l’attestatore deve valutare anche la sostenibilità prospettica del piano industriale.
- Accordo con intervento del tribunale sulle opposizioni: se vi sono opposizioni di creditori estranei all’omologazione (cioè creditori che non hanno aderito e contestano l’omologa), il tribunale decide in camera di consiglio valutando la convenienza del loro trattamento rispetto al fallimento. Se il giudice ritiene che il dissenziente abbia comunque un trattamento equo (best interest test soddisfatto) e che l’accordo sia vantaggioso per la massa dei creditori, può respingere le opposizioni e omologare l’accordo.
Dal punto di vista del debitore, l’accordo di ristrutturazione è un ottimo strumento di difesa quando si ha già il consenso della maggior parte dei creditori principali: evita la lunga procedura del concordato (con votazioni di tutti, classi, ecc.) e consente di cucirsi un “abito su misura” con i partner più importanti. Il fatto di poter forzare la mano ai dissenzienti (minoranza) tramite l’omologazione è cruciale: basta convincere il 60% (o, nei casi agevolati, anche meno) e l’accordo può diventare vincolante per il 100%. Ad esempio, se su 10 milioni di debiti totali se ne convincono 7 milioni (70%) a firmare un accordo che prevede uno stralcio del 40% per tutti, i rimanenti 3 milioni dissenzienti potranno essere comunque soggetti allo stesso trattamento se il tribunale omologa, a condizione che quei dissenzienti non prendano meno di quanto avrebbero dalla liquidazione fallimentare (e che dunque l’attestazione confermi la loro convenienza) .
Un altro beneficio dell’accordo di ristrutturazione (condiviso col concordato preventivo) è che già dalla pubblicazione della domanda di omologazione presso il registro delle imprese, il debitore può chiedere al tribunale misure protettive che sospendono le azioni esecutive dei creditori durante l’iter di omologazione . Quindi, pur essendo una procedura più semplice del concordato, l’accordo di ristrutturazione gode comunque di uno stay delle esecuzioni mentre il tribunale esamina ed eventualmente omologa l’intesa, analogamente a ciò che avviene nel concordato preventivo.
Differenze rispetto al piano attestato: l’accordo di ristrutturazione richiede il coinvolgimento del tribunale (anche se limitatamente alla fase finale di omologa e non alla gestione attiva della procedura). Per ottenerlo, l’azienda deve già aver costruito a monte il consenso con la maggioranza dei creditori richiesti: quindi presuppone un certo lavoro di negoziazione preventiva. Però, una volta omologato, è molto più solido e vincolante di un piano puramente privato. Inoltre, include tipicamente anche la transazione fiscale e contributiva: infatti, il Codice consente che nell’accordo vengano falcidiati i debiti fiscali e contributivi previo assenso formale dell’Agenzia Entrate e dell’INPS (che, se aderiscono, conteranno tra i creditori necessari per raggiungere il 60%). Se l’Erario non aderisce, l’accordo può lo stesso essere omologato, ma in tal caso il debito fiscale dovrà essere pagato integralmente: non si può imporre una riduzione ai crediti pubblici estranei senza il loro consenso, salvo usare lo strumento – più avanzato – del PRO o del concordato preventivo con cram down fiscale (di cui diremo a breve) .
In conclusione, l’accordo di ristrutturazione è un compromesso tra il piano privato e il concordato preventivo: c’è più flessibilità negoziale rispetto al concordato (niente classi obbligatorie, nessun voto di tutti i creditori ma solo l’adesione di chi serve) e minore pubblicità, ma c’è anche la validazione giudiziaria che conferisce stabilità e protezione. Lo svantaggio è che non risolve situazioni di forte conflitto: se ampie categorie di creditori sono contrarie e non si raggiunge il quorum, non si arriverà mai a quel 60% necessario. In tal caso, bisogna considerare il concordato preventivo, dove invece decide la maggioranza nel voto anche di classi dissenzienti.
Caso pratico: la Beta S.r.l. (azienda di prodotti chimici), ormai in grave crisi ma con ancora qualche possibilità di risanamento, riesce a convincere l’80% dei creditori (banche e fornitori, in valore) a sottoscrivere un accordo in cui riceveranno il 60% dei loro crediti: ad esempio, il 30% subito grazie alla vendita di un magazzino di sostanze chimiche pregiate e un altro 30% in tre anni mediante i flussi di cassa futuri. Restano fuori solo pochi creditori minori, che rappresentano il 20% del debito e rifiutano ogni taglio. Beta deposita l’accordo in tribunale con l’attestazione di un professionista che conferma che i dissenzienti prenderebbero comunque circa il 20% in caso di fallimento; quindi, con l’accordo al 60%, non sono pregiudicati. Il tribunale omologa l’accordo: a questo punto anche i dissenzienti devono accettare il pagamento del 60% in tre anni, molto migliore di quanto avrebbero avuto nel fallimento (20%), e non possono agire diversamente. Beta evita così il fallimento e riposiziona la sua situazione debitoria in modo sostenibile.
Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO)
Una novità assoluta portata dal D.Lgs. 83/2022 (attuativo della Direttiva UE 2019/1023 sulla ristrutturazione preventiva) è il Piano di Ristrutturazione Soggetto a Omologazione, spesso abbreviato in PRO. Introdotto nel Capo I-bis, Titolo IV del CCII (artt. 64-bis, 64-ter, 64-quater), il PRO si configura come uno strumento “ibrido”, a metà strada tra l’accordo di ristrutturazione e il concordato preventivo . In sostanza, consente al debitore di predisporre un piano di risanamento dei debiti che, se approvato da certe maggioranze di creditori e omologato dal tribunale, diventa vincolante per tutti i creditori, anche dissenzienti, persino derogando alle cause legali di prelazione tradizionali. È dunque uno strumento potente che permette forme spinte di cram-down e di superamento delle rigidità di pari trattamento, purché vi sia un consenso qualificato tra i creditori.
Vediamone le caratteristiche principali:
- Accesso riservato a imprese medio-grandi: il PRO può essere utilizzato dall’imprenditore commerciale in crisi o insolvenza che non rientra nella definizione di “impresa minore” (piccola impresa) ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d) CCII . Significa che le micro-imprese sotto certe soglie di attivo/ricavi, o i soggetti non fallibili (come imprenditori agricoli, enti non profit) ne sono esclusi. Il legislatore ha voluto destinare il PRO a situazioni più complesse, dove siano presenti diverse classi di creditori e interessi in gioco articolati.
- Formazione delle classi e votazione: a differenza degli accordi di ristrutturazione (che non prevedono classi se non volontariamente), il PRO richiede di suddividere i creditori in classi omogenee per posizione giuridica e interessi economici. Ad esempio: classe banche chirografarie, classe fornitori chirografari, classe creditori privilegiati degradati (per la parte del loro credito non coperta da garanzia, se insolvenza la rende in parte chirografa), ecc. Il debitore propone il piano e lo sottopone al voto delle classi. Non è necessario il voto unanime: la Direttiva UE 2019/1023 prevede che basti l’approvazione di una maggioranza qualificata in ciascuna classe, e in certi casi è possibile l’omologazione anche con il dissenso di alcune classi (“cram down” cross-class). Il CCII richiede che in ogni classe voti a favore una maggioranza di crediti (tipicamente si applica analogia col concordato: 2/3 in valore, e la maggioranza dei creditori in numero, salvo diversa specificazione). Se qualche classe vota contro, il tribunale può comunque omologare il piano, a condizione che il piano rispetti i criteri di equità e convenienza: in particolare, nessuna classe dissenziente può ricevere meno di quanto le spetterebbe in liquidazione (best interest test) e nessuna classe inferiore può ricevere più di una classe superiore (principio di priorità relativa, salvo consenso esplicito) . In altre parole, il tribunale ha il potere di imporre il piano ai dissenzienti se complessivamente è equo e sostenuto da una parte significativa dei creditori. Questa è una differenza chiave rispetto al concordato preventivo tradizionale: nel PRO si possono “schiacciare” (cram down) non solo singoli creditori, ma intere classi di creditori contrari, se il piano nel suo insieme soddisfa determinate condizioni di garanzia per i dissenzienti.
- Contenuto del piano: il PRO può contemplare sia ristrutturazione in continuità (l’azienda prosegue l’attività, magari con riorganizzazione, ingresso di nuovi investitori, conversione di debiti in capitale, ecc.) sia liquidazione di tutto o parte del patrimonio. È dunque flessibile: si può usare un PRO anche a scopo meramente liquidatorio, sebbene la sua vocazione principale sia quella di salvare imprese tramite il risanamento. La deroga alle cause di prelazione consentita dal PRO significa che, ad esempio, si potrebbe prevedere che un creditore ipotecario riceva un pagamento non integrale (cosa di regola non possibile in un concordato preventivo se non col consenso di quel creditore) o che alcune categorie di credito vengano trattate in modo non proporzionale, purché la classe di appartenenza approvi. Il PRO consente quindi soluzioni creative: un certo asset potrebbe essere destinato a soddisfare parzialmente anche creditori chirografari se la classe privilegiata accetta di rinunciare a una parte, ecc. Va però rispettata la regola per cui una classe superiore non può essere sacrificata a vantaggio di una inferiore (priorità relativa) senza consenso, e in generale vanno rispettati i parametri di cui sopra sul voto.
- Ruolo del tribunale: il PRO, pur negoziale nell’ispirazione, è comunque una procedura concorsuale (infatti è incluso nell’elenco delle procedure di insolvenza riconosciute anche a livello europeo). Ciò implica che dall’ammissione il tribunale nomina verosimilmente un commissario o supervisore (specie se richieste misure protettive e per gestire eventuali creditori dissenzienti), e che vi sarà un giudice delegato che vigilerà sulle operazioni di voto e sull’omologazione. Tuttavia, rispetto al concordato tradizionale, il PRO nasce da una spinta negoziale: spesso il PRO può essere l’esito di una composizione negoziata o di trattative pregresse informali, quando c’è accordo tra i maggiori creditori su un piano ma serve vincolare una minoranza recalcitrante. Il tribunale nel PRO ha dunque un ruolo di arbitro di ultima istanza, più che di gestore attivo: interviene per assicurare legalità, trasparenza nelle classi e per eventualmente imporre il piano ai dissenzienti secondo i criteri di legge. Naturalmente, anche nel PRO il debitore può chiedere misure protettive (come nel concordato e negli accordi) per bloccare le azioni esecutive durante la fase di trattazione del piano .
In termini di vantaggi per il debitore: il PRO è uno strumento potentissimo se c’è una convergenza di interessi tra i principali creditori per evitare la liquidazione, ma qualche nodo da sciogliere su trattamenti differenziati. Ad esempio, può salvare imprese in cui c’è bisogno di ridurre il peso di debiti privilegiati senza il consenso di tutti i creditori privilegiati – cosa che il concordato normale non permette, se non ottenendo il voto di ciascuno. Nel PRO, se la classe dei privilegiati accetta a maggioranza, i dissenzienti in quella classe vengono comunque trascinati (“crammed down”); addirittura, se un’intera classe di privilegiati rifiuta ma un’altra classe (ad esempio quella dei chirografari) approva il piano, e il piano garantisce comunque ai privilegiati dissenzienti più di quanto otterrebbero vendendo le garanzie in fallimento, il tribunale potrebbe omologare ugualmente nell’interesse generale . In pratica, il PRO permette di “sovvertire” la regola per cui nel concordato tradizionale o paghi integralmente i privilegiati o devi ottenere il loro voto: qui, se la classe dei privilegiati accetta a maggioranza una falcidia, la minoranza è vincolata; se la classe rifiuta ma il piano è chiaramente migliore del fallimento, il giudice può cercare di forzare l’omologa comunque (con cautela). Analoghe considerazioni valgono per i debiti fiscali: come accennato, oggi anche nel concordato preventivo si può fare cram-down fiscale, ma il PRO lo aveva già previsto come struttura, inserendo espressamente nel nostro ordinamento il meccanismo del “voto forzoso” sul Fisco . Dunque il PRO prevede espressamente che, se la classe dell’Erario approva a maggioranza, i dissenzienti (es. una particolare Agenzia territoriale) siano vincolati; se la classe Erario non approva, ma il piano offre comunque al Fisco il best interest rispetto al fallimento, il giudice può omologare lo stesso.
Gli svantaggi o limiti del PRO: innanzitutto la complessità – è una procedura elaborata, che richiede un piano dettagliato, la formazione di classi, votazioni separate, e tipicamente è pensata per situazioni non semplici, con molti creditori. Inoltre, il PRO richiede comunque del consenso: se proprio nessun creditore è disposto a sacrifici o a credere nel piano, non è una panacea (in tal caso rimane solo la liquidazione giudiziale). Anche l’iter giudiziale, pur più flessibile che nel concordato, comporta tempi e costi simili a un concordato, con la necessità di un’istruttoria in tribunale, eventuali opposizioni, perizie, ecc. In sostanza, il PRO è un’opportunità in più per chi vuole evitare il fallimento e ha già avviato un dialogo costruttivo con almeno alcune categorie di creditori, ma non è uno strumento “magico” per chi è isolato.
Nel contesto del nostro tema (azienda di prodotti chimici con debiti), un PRO potrebbe entrare in gioco se, ad esempio, l’azienda avesse alcune banche con garanzia ipotecaria sugli stabilimenti e varie banche o finanziatori chirografari, e si volesse fare un piano dove anche le banche ipotecarie accettano di ridurre il loro credito (cosa normalmente vietata senza consenso) per consentire all’azienda di sopravvivere. Si potrebbero creare due classi: (1) Banche ipotecarie e (2) Altri creditori. Se entrambe le classi approvano a maggioranza il piano, il tribunale omologa e tutti i creditori, anche eventuali oppositori, devono adeguarsi. Se una classe dice no, il tribunale valuterà se applicare il cram down cross-class: ad esempio, se la classe chirografa approva al 100% ma le banche ipotecarie no, tuttavia il piano dà a queste ultime più di quanto otterrebbero liquidando gli immobili, il giudice potrebbe omologare ugualmente per salvare l’azienda. Viceversa, se la classe privilegiata approva ma i chirografari no, eppure questi ricevono il massimo possibile, potrebbe forzare comunque.
In conclusione, il PRO è uno strumento avanzato, destinato in particolare a imprese di dimensioni significative o a composizione del debito complessa. Esso arricchisce le opzioni difensive del debitore, permettendo soluzioni creative e aumentando la probabilità di successo di piani di risanamento complessi che sotto le vecchie regole sarebbero stati bloccati da pochi creditori. Se l’azienda chimica di cui parliamo fosse, ad esempio, una S.p.A. di medie dimensioni con migliaia di creditori e debiti bancari ingenti, il PRO sarebbe certamente uno strumento da considerare con attenzione, in alternativa al concordato preventivo tradizionale.
Concordato preventivo: continuità e liquidazione
Il concordato preventivo è storicamente la procedura concorsuale di salvataggio per eccellenza dell’impresa in crisi. Anche nel Codice della Crisi d’Impresa (artt. 84 e seguenti CCII) mantiene un ruolo centrale, pur con alcune innovazioni rispetto alla vecchia legge fallimentare. In generale, il concordato preventivo è una procedura giudiziaria in cui il debitore propone un piano ai propri creditori (eventualmente suddivisi in classi) e lo sottopone a votazione; se i creditori lo approvano a maggioranza e il tribunale lo omologa, il piano diventa vincolante per tutti i creditori anteriori e consente all’impresa di evitare la liquidazione fallimentare, attuando quanto promesso ai creditori.
Esistono due grandi categorie di concordato:
- Concordato in continuità aziendale: quando il piano prevede che l’azienda continui l’attività (sia pure eventualmente ristrutturandosi, cedendo rami d’azienda, prevedendo l’ingresso di nuovi soci o investitori, ecc.). L’obiettivo è preservare l’avviamento e il valore produttivo dell’impresa, nella convinzione che i creditori possano essere soddisfatti meglio tenendo in vita l’azienda piuttosto che liquidandola pezzo per pezzo. La continuità può essere diretta (la stessa società prosegue l’attività durante e dopo il concordato) o indiretta (il piano prevede la cessione dell’azienda o di un ramo ad un altro soggetto, ad esempio un investitore, che proseguirà l’attività al posto della società originaria).
- Concordato liquidatorio: quando invece il piano prevede la sola cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio dell’impresa, distribuendo il ricavato ai creditori. In pratica equivale ad un fallimento pilotato dal debitore, con però qualche vantaggio aggiuntivo: ad esempio, il debitore in concordato può individuare soluzioni più rapide di realizzo (vendita unitaria dell’azienda, se c’è un compratore, anziché aste frammentate) oppure offrire ai creditori qualche beneficio extra come l’apporto di risorse esterne (denaro fresco messo dai soci o da terzi) o impegni di rinuncia dei soci (ad es. i soci rinunciano a riavere crediti loro verso la società, per aumentare la massa disponibile ai creditori estranei).
La legge incoraggia la prima forma (continuità) perché preservare l’attività economica è considerato di interesse generale (posti di lavoro, indotto sul territorio, ecc.). Infatti, è previsto che il tribunale dia preferenza alle proposte che assicurano la continuità aziendale rispetto a quelle puramente liquidatorie in caso di più proposte concorrenti . Ciò non significa che una proposta liquidatoria sia bocciata a priori, ma se durante la procedura un soggetto terzo presenta una proposta concorrente che salva l’azienda, questa verrà favorita in sede di omologa (è il meccanismo delle offerte concorrenti e del concordato concorrente, introdotto dalle riforme).
Requisiti chiave del concordato preventivo:
- L’impresa deve trovarsi in stato di crisi o di insolvenza (ormai il concordato è ammesso anche prima dell’insolvenza conclamata, quindi in stato di crisi; nelle procedure minori esiste anche il “concordato minore” per i non fallibili).
- Il piano proposto deve garantire ai creditori un soddisfacimento non inferiore a quello che avrebbero ottenuto in una liquidazione giudiziale (principio di convenienza: il giudice lo verifica comparativamente).
- Nel concordato liquidatorio (cioè senza continuità), la legge richiede una soglia minima di soddisfacimento per i creditori chirografari (non garantiti): almeno il 20% del loro credito . Questa percentuale va calcolata sui creditori chirografari considerati nominativamente, con adeguata certezza, pur trattandosi di una valutazione prognostica sul risultato liquidatorio. Si tratta di un limite introdotto per evitare concordati liquidatori “abusivi” che offrivano percentuali irrisorie: se il piano liquidatorio non fa ottenere almeno il 20% agli chirografari, è inammissibile (la legge preferisce a quel punto il fallimento classico, ritenendo che un concordato che paga ad esempio 5% non sia meritevole). Importante: questa soglia non si applica al concordato in continuità aziendale . La Cassazione ha chiarito (ordinanza n. 21336 del 30 luglio 2024) che l’obbligo di garantire almeno il 20% ai chirografari vale per tutti i concordati tranne quelli con continuità aziendale . Ciò per favorire i salvataggi: se mantieni l’azienda viva, puoi proporre anche meno del 20% ai chirografari, purché dimostri che tale offerta è comunque meglio di ciò che avrebbero dalla liquidazione e rappresenta il massimo ottenibile date le risorse generate dalla continuità. In pratica, magari i creditori chirografari prendono solo il 10%, ma l’azienda sopravvive e continua a dare lavoro, e quell’alternativa è preferibile al 5% che avrebbero in caso di fallimento. Se invece il concordato è puramente liquidatorio (vendi i beni e chiudi l’impresa), allora la legge vuole almeno il 20%; altrimenti, per percentuali più basse si ritiene preferibile la liquidazione giudiziale. Ovviamente anche in continuità, dal punto di vista pratico, offrire troppo poco (es. 2-5%) rischia di farti bocciare il piano dai creditori in sede di voto, quindi c’è comunque un vincolo di sostenibilità politica dell’offerta oltre che giuridico.
- Il piano di concordato deve essere attuabile e attestato: richiede infatti che un professionista indipendente rediga una relazione attestatrice sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano (art. 87 CCII). Inoltre, prima dell’adunanza di votazione, il commissario giudiziale nominato dal tribunale esprime un parere. Se il piano è manifestamente inattuabile o privo dei requisiti, il tribunale non lo ammette o non lo omologa.
Dal momento della pubblicazione del ricorso per concordato, il debitore gode di un automatic stay sulle azioni esecutive: i creditori non possono iniziare o proseguire esecuzioni individuali né acquisire garanzie. Inoltre, l’azienda in concordato continua ad operare sotto la gestione dell’imprenditore (“debtor-in-possession”) se è in continuità, ma con la vigilanza di un commissario giudiziale nominato dal tribunale e sotto autorizzazione del giudice per alcuni atti (in concordato liquidatorio invece l’attività cessa salvo esercizio provvisorio autorizzato).
Nell’ambito del concordato preventivo, il debitore può proporre anche il pagamento parziale dei debiti fiscali e previdenziali tramite la transazione fiscale e contributiva (art. 63 CCII, ex art. 182-ter L.Fall.). È prassi offrire il pagamento integrale dell’IVA e delle ritenute (che per legge non potevano essere falcidiate in passato), mentre su altre imposte, interessi e sanzioni si può proporre un taglio. Oggi, grazie al cambiamento di orientamento descritto prima, è possibile che il tribunale omologhi il concordato anche se l’Erario vota contro, purché il piano garantisca al Fisco almeno la quota di realizzo comparabile al fallimento . Questa innovazione ha aperto la strada a concordati preventivi dove finalmente i debiti col fisco possono essere ridotti in modo coerente con le possibilità dell’impresa, senza subire automaticamente il veto erariale .
Una volta che i creditori votano (la maggioranza richiesta è di 2/3 dei crediti ammessi al voto, salvo diverse classi dissenzienti da gestire col cram down interno) e che il tribunale omologa il concordato, l’azienda deve eseguire il piano sotto la vigilanza di un commissario o liquidatore nominato (a seconda del tipo di concordato). Se il piano viene regolarmente eseguito, l’azienda si libera dai debiti residui (ad eccezione di quelli verso eventuali fideiussori o coobbligati, che restano obbligati come detto altrove). Se invece il piano non viene eseguito (inadempimento), può essere dichiarata la risoluzione del concordato e si apre la strada al fallimento.
Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio
Merita un paragrafo a sé il concordato semplificato, introdotto inizialmente in via transitoria col D.L. 118/2021 e ora stabilizzato nell’art. 25-sexies CCII. È riservato ai casi in cui la composizione negoziata della crisi non abbia portato ad un accordo e l’esperto constati l’impossibilità di risanamento . In tale circostanza, entro 60 giorni dalla relazione finale negativa dell’esperto, il debitore può presentare direttamente un ricorso per concordato semplificato al tribunale .
Le caratteristiche peculiari: – È un concordato solo liquidatorio: serve per liquidare l’intero patrimonio in modo ordinato ai creditori . Non prevede la continuità aziendale (infatti se c’erano chance di continuità, si presume si sarebbero perseguite durante la composizione negoziata). – Non è previsto il voto dei creditori: a differenza del concordato preventivo ordinario, qui i creditori non vengono chiamati a votare il piano. Il tribunale decide sull’omologa dopo aver sentito eventualmente il commissario e i creditori opponenti, ma non c’è una votazione. Ciò rende la procedura più rapida. – Poiché non c’è voto, viene meno anche il vincolo del 20% ai chirografari: teoricamente il tribunale potrebbe omologare anche un concordato semplificato con percentuale molto bassa (es. 5-10%), se purtroppo quello è il valore di realizzo dei beni. Il giudice comunque valuterà con rigore la correttezza della stima dei beni liquidati per assicurarsi che il piano offra il best interest ai creditori . – Ruolo degli organi: il tribunale nomina un commissario giudiziale (nonostante non vi sia voto) per vigilare sulla procedura; dopo l’omologa nominerà un liquidatore che effettuerà la liquidazione dei beni (salvo che sia lo stesso debitore a farlo sotto controllo). – Esdebitazione del debitore: se il debitore è una persona fisica (imprenditore individuale) o un socio illimitatamente responsabile, l’omologa del concordato semplificato consente poi di accedere all’esdebitazione alle condizioni di legge, allo stesso modo di un fallimento liquidatorio . Cioè, se l’imprenditore individuale liquida tutto con il concordato semplificato e non paga integralmente tutti i debiti, potrà comunque chiedere al tribunale di essere liberato dai debiti residui una volta chiusa la procedura, come avviene dopo il fallimento (purché abbia cooperato e sia meritevole). Se invece il debitore è una società di capitali, come detto altrove la società si estingue alla fine e i debiti insoddisfatti restano inesigibili per estinzione del soggetto.
Quando e perché utilizzarlo? Il concordato semplificato è pensato come extrema ratio dignitosa per chi ha tentato la composizione negoziata ma non è riuscito a raggiungere un accordo con i creditori . Invece di finire subito in fallimento, l’imprenditore può prendere l’iniziativa e proporre egli stesso come liquidare i propri beni e distribuire il ricavato. In questo modo mantiene un maggiore controllo sulla chiusura della vicenda, evita l’alea di un fallimento gestito interamente da terzi e in genere accorcia i tempi. Un concordato semplificato può chiudersi in pochi mesi, mentre un fallimento dura mediamente anni. Per i creditori, ovviamente, non c’è la possibilità di voto, ma in teoria non sono danneggiati perché comunque devono ricevere almeno quanto avrebbero ricevuto dal fallimento (il tribunale verifica la convenienza del piano).
Applicazione pratica: immaginiamo che la nostra azienda galvanica Beta S.p.A., dopo aver constatato con l’esperto che non esistono soluzioni di risanamento, presenti un concordato semplificato: propone di vendere gli impianti e i macchinari ad un certo prezzo (magari c’è già un compratore interessato), di incassare i crediti residui verso i clienti (ancora qualche decina di migliaia di euro), e di distribuire tutto ai creditori. Prevede che ai creditori chirografari andrà, poniamo, il 10%. Indica anche che i soci persone fisiche metteranno a disposizione una somma ulteriore, oppure che rinunciano ai crediti soci, per incrementare di qualche punto la soddisfazione. Il tribunale, se ritiene il piano conveniente per i creditori e non ci sono frodi, omologa il concordato semplificato anche se i creditori chirografari rimasti prendono solo il 10% (supponiamo che in fallimento avrebbero preso il 5%). I creditori non potranno far altro che accettare quel 10%, non avendo potuto votare ma avendo comunque ottenuto il massimo possibile in base al valore di liquidazione stimato . La società viene quindi liquidata in pochi mesi, evitando anni di procedura fallimentare. I soci persone fisiche (se avevano prestato fideiussioni personali, rimarranno obbligati per quelle nei confronti delle banche, a meno che il concordato non abbia previsto liberatorie contrattuali con i creditori; se non avevano garanzie personali, semplicemente perdono il capitale investito). In sostanza, il concordato semplificato è la mossa difensiva finale del debitore per chiudere la partita dei debiti in maniera ordinata e relativamente rapida, quando non c’è più nulla da salvare sul piano aziendale. Per un imprenditore onesto ma sfortunato può rappresentare la possibilità di uscire di scena senza trascinarsi dietro l’onta di un fallimento giudiziale e con la prospettiva di ripartire senza debiti pendenti.
Va sottolineato che il concordato semplificato non è uno strumento generale di liquidazione disponibile a piacimento: è attivabile solo dopo aver tentato la composizione negoziata senza successo . Dunque il legislatore lo ha concepito come una via d’uscita condizionata, per incentivare comunque le imprese a passare prima dal tentativo negoziale. Se un’azienda indebitata cerca di saltare direttamente al concordato semplificato senza la composizione, non può farlo.
Esempio aggiuntivo (scenario negativo): Beta S.p.A., la nostra azienda galvanica dell’esempio, aveva da tempo segnali di crisi ma gli amministratori li hanno ignorati, continuando ad accumulare debiti. Quando i fornitori hanno iniziato a sospendere le consegne di prodotti chimici essenziali, Beta ha cercato di nascondere la situazione con artifici contabili, sperando in una grande commessa risolutiva che però non è mai arrivata. Beta si ritrova con 3 milioni di debiti complessivi, produzione ferma e magazzino quasi vuoto. Tra i debiti: 1 milione verso banche (ipoteca sul capannone industriale), 1,5 milioni verso fornitori, 200.000 € di stipendi arretrati ai dipendenti, 300.000 € tra IVA e INPS non pagati. I dipendenti sono in sciopero per gli stipendi e fioccano decreti ingiuntivi. Beta è insolvente conclamata. A questo punto, su pressing del collegio sindacale (che minaccia di rivolgersi esso stesso al tribunale), gli amministratori attivano tardivamente la composizione negoziata. Tuttavia, la situazione è troppo compromessa: né investitori né creditori vedono margini per continuare l’attività. Durante le trattative, le banche rifiutano ulteriori dilazioni (preferiscono escutere l’ipoteca), i fornitori vogliono solo chiudere e incassare il possibile. L’esperto quindi constata che non c’è un accordo di risanamento perseguibile. Redige relazione finale negativa. A questo punto, per evitare il fallimento diretto (che alcuni fornitori avevano già iniziato a chiedere), Beta S.p.A. ricorre al concordato semplificato liquidatorio. Presenta al tribunale un piano: propone di vendere il capannone ipotecato (valore stimato 800.000 €) e i macchinari (200.000 €) tramite procedure competitive, e di incassare i crediti verso clienti residui (circa 100.000 €). Poiché non vi sono prospettive di prosecuzione dell’attività, tutti i dipendenti sono stati licenziati ma possono attingere al Fondo di Garanzia INPS per il TFR e le ultime mensilità. Con il ricavato totale (circa 1,1 milioni), il piano prevede di pagare le spese della procedura, poi integralmente la banca ipotecaria (800k, soddisfatta con prelazione speciale dall’immobile), e di ripartire il resto tra i chirografari (fornitori, ecc.) che dunque ricevono circa il 20% dei loro crediti. Il tribunale, verificato che la banca privilegiata è soddisfatta e che i chirografari prenderebbero nel piano il 20% contro, ad esempio, un 10% stimato in caso di fallimento, omologa il concordato semplificato . Beta S.p.A. viene liquidata: il liquidatore nominato vende il capannone (realizzando magari un po’ più del previsto), vende i macchinari e recupera i crediti. Dopo un anno circa, chiude la procedura distribuendo ai chirografari un riparto finale del 22%. La società viene cancellata e dichiarata estinta. I creditori residui non possono più agire verso di essa (non esiste più), ma possono rivalersi eventualmente sui fideiussori (in questo caso i garanti erano i soci, che ora dovranno affrontare personalmente le banche a meno che non riescano a trovare un accordo a loro volta o accedere a procedure di sovraindebitamento personalizzate). Nel frattempo, tuttavia, gli amministratori di Beta S.p.A. non hanno evitato le proprie responsabilità personali: per le condotte di occultamento delle perdite e distrazione di beni (ammanco di magazzino) sono stati rinviati a giudizio per bancarotta fraudolenta. Questo evidenzia come “difendersi” dai debiti per un’azienda non significhi semplicemente sfuggire ai creditori, ma governare la crisi secondo la legge: se lo si fa, la legge offre protezione all’impresa (misure di stay, esdebitazione, ecc.) e generalmente non colpisce chi ha agito correttamente; se non lo si fa, alla fine i conti tornano in altri modi (azioni di responsabilità, sanzioni penali).
Domande frequenti (FAQ) su aziende indebitate e soluzioni di crisi
D: La mia S.r.l. è sommersa dai debiti. Posso evitare il fallimento?
R: Sì, la legislazione attuale offre vari strumenti per evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) se c’è la possibilità di un accordo con i creditori o di un recupero aziendale. Puoi tentare un accordo di ristrutturazione dei debiti ottenendo l’adesione di almeno il 60% dei creditori , oppure proporre un concordato preventivo presentando un piano fattibile e convenienza dimostrata per i creditori. Anche la composizione negoziata può aiutare a trovare soluzioni prima di arrivare in tribunale (o quantomeno a guadagnare tempo e protezione mentre cerchi un accordo). Se proprio l’azienda non è salvabile come attività, ma vuoi evitare il fallimento “classico”, c’è il concordato semplificato (attivabile però solo dopo una composizione negoziata fallita) che liquida i beni sotto controllo del tribunale ma senza la lunga procedura fallimentare . L’importante è agire in tempo: se aspetti troppo, i creditori potrebbero attivarsi per chiedere essi stessi il fallimento e a quel punto saresti più in balìa degli eventi anziché protagonista della soluzione.
D: Che differenza c’è tra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione dei debiti?
R: Entrambi sono strumenti per evitare il fallimento mediante un’intesa con i creditori, ma funzionano in modo diverso. Nel concordato preventivo, tutti i creditori sono coinvolti: il piano viene sottoposto a voto secondo regole di maggioranza e la procedura è più formalizzata (c’è un commissario giudiziale, un’udienza di discussione, eventuale suddivisione in classi, ecc.). L’accordo di ristrutturazione, invece, è più snello: serve il consenso di almeno il 60% dei crediti e si chiede al tribunale solo di omologare l’accordo, ma i creditori che non firmano devono comunque essere pagati integralmente o almeno come in fallimento . Quindi l’accordo è più basato su una trattativa privata (con l’omologazione per estenderlo ai dissenzienti alle condizioni di legge), mentre il concordato è più “pubblico” e coinvolge tutti i creditori in un voto collettivo. In generale, se hai già dalla tua parte la maggioranza dei creditori principali d’accordo su un piano, l’accordo di ristrutturazione è preferibile (meno costoso e più rapido). Se invece devi gestire molti dissensi e vuoi coinvolgere tutti sotto la protezione del tribunale, allora serve il concordato preventivo.
D: La mia azienda ha debiti col Fisco: è possibile ridurli tramite un piano?
R: Sì, attraverso la transazione fiscale nell’ambito di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti. Puoi proporre di pagare solo parzialmente i tributi dovuti: ad esempio falcidiare (tagliare) le sanzioni e gli interessi, offrendo un pagamento dilazionato del solo capitale d’imposta, oppure – nei limiti di legge – ridurre anche parte delle imposte. Tieni presente che generalmente va offerto almeno il pagamento integrale dell’IVA e delle ritenute fiscali (queste voci sono considerate “protette”), mentre puoi proporre sconti su altre imposte, sugli interessi e sulle sanzioni. Storicamente serviva l’adesione formale dell’Agenzia delle Entrate per validare la transazione fiscale, ma con le riforme recenti e i nuovi orientamenti giurisprudenziali, il tribunale può omologare il piano anche senza l’assenso del Fisco se si dimostra che il Fisco riceve almeno quanto avrebbe dal fallimento . Ciò ha aperto la strada a riduzioni dei debiti tributari nei piani di concordato, prima quasi impossibili a causa del veto erariale. Quindi sì, oggi l’Erario può essere trattato come un qualsiasi creditore, nei limiti del miglior interesse: se il piano è più conveniente della liquidazione, può passare anche senza il suo consenso.
D: Ho debiti con fornitori che minacciano azioni legali immediate. Come posso difendermi?
R: Se un fornitore ti cita in giudizio (ottiene un decreto ingiuntivo) e avvia un pignoramento, l’unica difesa specifica in sede esecutiva è trovare un accordo di pagamento o, se possibile, proporre opposizione legale se il debito è contestabile (ma solitamente il credito del fornitore è certo). Tuttavia, a un livello più generale, puoi attivare una procedura concorsuale (ad esempio presentare un ricorso per concordato preventivo o avviare una composizione negoziata chiedendo misure protettive) che metta in stand-by tutte le azioni esecutive dei fornitori . Durante una procedura concorsuale aperta (o una composizione negoziata con provvedimento protettivo), i fornitori non possono procedere individualmente e dovranno attendere o aderire al piano collettivo. In altre parole: se vuoi guadagnare tempo e spazio di manovra, devi richiedere l’“ombrello” del tribunale tramite uno degli strumenti di crisi; questo sospenderà i pignoramenti e darà modo di trattare con tutti i fornitori sul lungo termine. Ricorda però che se attivi una procedura concorsuale, poi dovrai presentare un piano serio: non puoi usarla solo per bloccare i creditori senza offrire loro una prospettiva di soddisfacimento migliore (altrimenti il tribunale non omologherà e si tornerà al fallimento).
D: La mia società è una S.r.l.: i debiti sociali possono ricadere su di me come amministratore o come socio?
R: In linea di principio, no per il socio (di società di capitali) e sì in certe condizioni per l’amministratore. Mi spiego: i soci di S.r.l. o S.p.A. non rispondono dei debiti aziendali con il loro patrimonio personale, salvo abbiano prestato garanzie personali (fideiussioni) o salvo casi eccezionali di abuso di personalità giuridica (azione di lifting del velo societario, molto rara e legata a frodi gravi). Quindi se sei un socio al 100% ma non hai firmato garanzie, in genere i creditori non possono toccare i tuoi beni personali per i debiti della società. L’amministratore, invece, può diventare responsabile verso i creditori sociali se ha gestito male, violando i doveri di conservazione del patrimonio sociale. Ad esempio, se ha aggravato il dissesto continuando ad indebitare la società quando avrebbe dovuto fermarsi, potrà essere citato in giudizio dal curatore fallimentare o dai creditori stessi (tramite azione di responsabilità ex art. 2394 c.c. o 2476 c.c.) per risarcire il danno . Questo danno viene spesso quantificato, in giurisprudenza, nella differenza tra l’attivo netto della società al momento in cui si sarebbe dovuto intervenire e l’attivo al momento del fallimento (criterio dei netti patrimoniali, recentemente confermato anche dalla Cassazione nel 2024). Non è però una responsabilità automatica per tutti i debiti: è commisurata al danno effettivo derivante dalla cattiva gestione, e va provato caso per caso. Se come amministratore hai operato correttamente e la crisi è dovuta a cause esterne, difficilmente ti condanneranno a pagare i debiti sociali. Se invece hai colposamente prolungato l’agonia dell’azienda facendo nuovi debiti quando era già decotta, allora sì, potresti doverne rispondere di tasca tua per la parte di aggravamento del buco. Inoltre, l’amministratore può avere guai penali in caso di bancarotta (se la società fallisce e emergono distrazioni, irregolarità contabili, ecc.), ma quella è responsabilità penale (sanzioni fino al carcere nei casi di frode), non significa che paga i debiti – subisce però condanne e interdizioni. Quindi: il socio in genere è al riparo, l’amministratore può essere chiamato a rispondere ma solo in caso di colpa o dolo nella gestione e nella tardiva emersione della crisi.
D: Quali sono i tempi di queste procedure? Non rischio che durino troppo mentre l’azienda muore comunque?
R: I tempi variano a seconda dello strumento: una composizione negoziata è abbastanza breve, la legge fissa una durata di norma di 3 + 3 mesi (proroghe possibili fino a un massimo di 6 mesi, estendibili in casi eccezionali) per le trattative. Un accordo di ristrutturazione può richiedere qualche mese di negoziazione privata e, una volta depositato in tribunale, l’omologa arriva in pochi mesi (il Codice incoraggia un esito rapido, spesso in 4-6 mesi totali dal deposito). Un concordato preventivo classico può richiedere più tempo: ci sono casi che arrivano all’omologa in 6 mesi, altri più complessi che impiegano 1 anno o più, dipende da quante classi ci sono, se vi sono opposizioni, se serve un periodo di osservazione per raccogliere offerte, ecc. Il concordato semplificato è invece molto rapido: tolto il passaggio già fatto di composizione negoziata prima, una volta proposto può essere omologato in tempi brevi (qualche mese) perché salta tutta la fase di voto. La liquidazione giudiziale (fallimento) è la più lunga in assoluto: liquidare tutti i beni e ripartire i soldi ai creditori può richiedere anni (mediamente in Italia 5-7 anni per chiudere un fallimento, anche se per creditori chirografari piccoli talvolta i tempi si sono un po’ ridotti con le procedure telematiche). Dunque sì, alcune procedure concorsuali possono essere lunghe. Tuttavia, durante – per esempio – un concordato in continuità l’azienda continua ad operare: non è detto che “muoia” nell’attesa, anzi, se il piano è valido dovrebbe mantenersi attiva e protetta dai creditori. Certo, c’è il rischio che clienti e fornitori vedano con preoccupazione un’azienda “in concordato”: questo va gestito con comunicazione attenta, rassicurando che l’attività prosegue e il piano è sostenibile. In sintesi: i tempi non sono trascurabili, ma spesso rappresentano un rischio minore rispetto a subire subito pignoramenti e azioni disordinate dei creditori senza fare nulla.
D: I dipendenti che fine fanno in un concordato o in un fallimento?
R: Dipende dallo strumento scelto:
- In un concordato in continuità, l’idea è di preservare i posti di lavoro. I dipendenti rimangono assunti dall’azienda, salvo eventuali ristrutturazioni previste (ad esempio, il piano potrebbe contemplare l’affitto o cessione di un ramo d’azienda, e i dipendenti passerebbero al nuovo soggetto; oppure potrebbe prevedere la Cassa Integrazione Straordinaria durante l’attuazione del concordato per gestire esuberi temporanei; o accordi sindacali per ridurre l’organico se inevitabile). In generale, l’obiettivo è salvarne il più possibile. I crediti dei lavoratori (stipendi arretrati, TFR) rientrano tra quelli privilegiati e di solito il piano concordatario li paga integralmente, oppure – se proprio non vi sono risorse sufficienti – interviene l’INPS con il Fondo di Garanzia a coprire TFR e ultime mensilità . Quindi i lavoratori di regola recuperano quanto dovuto.
- In un concordato liquidatorio, purtroppo l’attività cessa, quindi i dipendenti vengono licenziati. Hanno diritto all’indennità di mancato preavviso e alla NASpI (indennità di disoccupazione). I loro crediti maturati (stipendi non pagati, TFR) vengono insinuati nel concordato e, se l’azienda non li paga per intero, interviene comunque il Fondo di Garanzia INPS a saldarli almeno in parte (il Fondo copre interamente il TFR e fino a 3 mesi di retribuzioni non pagate) . In pratica i dipendenti recuperano i crediti ma il posto di lavoro viene perduto perché l’azienda chiude.
- In un fallimento (liquidazione giudiziale), similmente al concordato liquidatorio l’esercizio d’impresa cessa (a meno di un esercizio provvisorio temporaneo disposto dal tribunale per vendere meglio l’azienda come un tutt’uno, ma è raro e breve). I dipendenti vengono licenziati dal curatore. Poi c’è l’intervento del Fondo di Garanzia per TFR e stipendi arretrati come sopra. Quindi anche qui i dipendenti recuperano di solito i loro crediti (grazie al privilegio e al Fondo), ma perdono l’occupazione salvo che qualcun altro rilevi l’azienda e li riassuma.
Va detto che, in tutti i casi, i crediti dei lavoratori (salari, TFR) sono tra i più protetti: hanno privilegio di rango elevato e vengono normalmente soddisfatti integralmente se c’è abbastanza attivo. Il Fondo di Garanzia INPS assicura comunque che TFR e ultime 3 mensilità trovino copertura anche se l’azienda non ha fondi . Il Fondo poi si surroga e diventa esso stesso creditore privilegiato al posto loro. Quindi da quel punto di vista i dipendenti quasi sempre recuperano quanto dovuto (salvo voci particolari come stock option, etc., ma quelle di solito non hanno privilegio). La parte più dolorosa è la perdita del lavoro se l’azienda non prosegue: il concordato in continuità è l’unico che mira a evitarla.
D: Cos’è il “cram down” di cui sento parlare nelle ristrutturazioni?
R: “Cram down” è un termine anglosassone che indica l’imposizione forzata di un piano di ristrutturazione anche ai creditori dissenzienti. In pratica significa che il giudice omologa il piano “schiacciando giù” l’opposizione di qualcuno. Nel contesto italiano recente, si parla molto di cram down fiscale riferendosi alla possibilità di omologare un concordato preventivo nonostante il voto contrario dell’Erario (Agenzia Entrate) . Più in generale, con il nuovo Codice della Crisi, il concetto di cram down si è esteso: ad esempio, nel PRO (Piano di ristrutturazione omologato) si può omologare un piano nonostante il dissenso di un’intera classe di creditori, se il piano è equo e una maggioranza di classi lo approva . Anche nel concordato preventivo, già prima, esisteva la possibilità di cram down di singole classi dissenzienti: il tribunale poteva superare il “no” di una classe di creditori privilegiati se venivano soddisfatti almeno in misura pari alla liquidazione (art. 112 CCII, ex art. 180 L.Fall.). Quindi, in parole semplici: il cram down è la forzatura giudiziale dell’accordo sui creditori che non lo accettano volontariamente. È uno strumento a tutela del debitore virtuoso e della maggioranza dei creditori, quando pochi si oppongono irragionevolmente. Naturalmente va usato con garanzie: il giudice verifica che i dissenzienti non ricevano un trattamento peggiore di quello che avrebbero nelle alternative (liquidazione) e che il piano sia comunque corretto e fattibile.
D: Se la società viene liquidata o fallisce, i suoi debiti scompaiono?
R: I debiti della società di capitali, nella misura in cui rimangono insoddisfatti dopo la liquidazione, diventano inesigibili perché la società stessa si estingue. Quando la procedura di liquidazione giudiziale (fallimento) si chiude, la società viene cancellata dal registro delle imprese e cessa di esistere; i creditori non soddisfatti non hanno più un soggetto giuridico da cui pretendere il dovuto . Ciò significa, ad esempio, che se c’era un debito verso fornitori di 100 e in fallimento hanno recuperato 20, il restante 80 non potrà più essere preteso da nessuno una volta chiusa la procedura: è come se “sparisse” per estinzione del debitore. Discorso diverso invece per un imprenditore individuale o un socio illimitatamente responsabile di società di persone: in quel caso la persona fisica, dopo il fallimento, rimane formalmente debitore per gli eventuali debiti residui non pagati dal fallimento. Tuttavia, può chiedere l’esdebitazione, ossia un provvedimento del tribunale che cancella legalmente quei debiti e libera il debitore persona fisica . L’esdebitazione viene concessa se il fallito ha cooperato lealmente, non ha commesso frodi, e non è stato colpevole di gravi violazioni (e chiaramente solo per i soggetti persone fisiche, non serve per le società perché come detto si estinguono). Per le società, infatti, non occorre esdebitazione perché la società defunta non ha più bisogno di “essere liberata dai debiti”: essendo cessata, quei debiti rimangono privi di un soggetto da aggredire. Invece, attenzione: i debiti garantiti da fideiussioni o avalli di terzi non scompaiono per i garanti. Come detto, se Tizio (persona fisica) ha garantito un debito della società con fideiussione, e la società fallisce pagando 0 su quel debito, il creditore può rivalersi interamente su Tizio. Il garante a sua volta, se si trova impossibilitato a pagare, potrà eventualmente accedere per sé alle procedure da sovraindebitamento (piano del consumatore, liquidazione controllata, ecc.), ma questa è un’altra storia. Quindi, riassumendo: i debiti insoddisfatti muoiono con la società, ma restano “vivi” verso eventuali coobbligati o garanti personali.
D: Posso aprire un’altra azienda dopo che questa è fallita o ha fatto concordato?
R: Se la procedura si chiude regolarmente, sì, in linea di massima non ci sono preclusioni legali assolute, specialmente in caso di concordato. Ad esempio, se hai fatto un concordato preventivo con la tua vecchia società e poi quella società è stata liquidata o comunque ha risolto la crisi, tu come persona (se eri amministratore o socio) puoi senz’altro avviare nuove iniziative imprenditoriali. Anche se la tua società è fallita, tu come persona fisica puoi aprire un’altra società: non c’è un divieto legale permanente. Tuttavia, se sei stato dichiarato fallito personalmente (perché eri un imprenditore individuale o un socio illimitato fallito), durante la procedura di fallimento hai alcune incapacità: ad esempio, non puoi fare l’amministratore di altre società finché dura il fallimento, non puoi avere cariche pubbliche, etc., fino a che non sei riabilitato o ottieni l’esdebitazione. Una volta ottenuta l’esdebitazione e chiuso il fallimento, torni libero civilmente e puoi riprendere attività normalmente . Nel caso di amministratori di società fallite (non falliti personalmente, ma gestori di società fallite), la legge fallimentare prevedeva che per 5 anni non potessero assumere altre cariche societarie se non ottenevano la riabilitazione; con il Codice della Crisi queste norme sono state in parte attenuate, ma la regola generale è che non c’è un’interdizione a vita. Ovviamente, c’è anche il lato pratico: se una tua società è fallita lasciando debiti, le banche o i partner commerciali futuri potrebbero essere diffidenti nel fare affari con te su una nuova società (la reputazione ne risente). Viceversa, un concordato preventivo adempiuto con successo (dove hai pagato i creditori, anche solo in parte, ma rispettando il piano) è spesso visto meglio: dimostra che hai gestito la crisi responsabilmente. In conclusione: legalmente, dopo una procedura concorsuale puoi tornare a fare impresa (salvo brevi interdizioni temporanee, che finiscono con la chiusura della procedura o la riabilitazione); ma di fatto dovrai impegnarti a ricostruire la fiducia sul mercato finanziario e commerciale.
D: Cosa succede ai beni personali dei garanti (es. la casa di un socio garante) in queste procedure?
R: Le procedure concorsuali aziendali hanno effetto sul patrimonio della società debitrice. I beni dei garanti personali (soci o terzi) non entrano nella procedura, perché il garante è un soggetto diverso. Tuttavia, il creditore garantito può agire separatamente sul garante. Ad esempio, se un socio ha ipotecato la sua casa a garanzia di un mutuo aziendale, se la società va in concordato o fallisce e non paga tutto il mutuo, la banca potrà comunque escutere l’ipoteca sulla casa del socio. Quindi, se il socio-garante non paga spontaneamente, la banca potrà pignorare e vendere la casa (seguendo la normale procedura esecutiva immobiliare) per soddisfarsi. La procedura concorsuale della società non protegge automaticamente i beni personali del garante, perché il garante non è parte della procedura (a meno che non entri attivamente offrendo qualcosa e ottenendo liberatoria nel piano concordatario, ma sarebbe un accordo contrattuale parallelo con i creditori). In alcuni concordati, si cerca di coinvolgere i garanti: ad esempio, il piano potrebbe prevedere che i creditori rinuncino ad escutere le fideiussioni in cambio di una percentuale extra pagata nel concordato (questa è una trattativa da fare caso per caso con i creditori interessati). Se ciò non avviene, il garante risponde normalmente. Per difendere i beni personali, il garante potrebbe valutare a sua volta procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento se è una persona fisica non imprenditore (ad es. il socio persona fisica potrebbe fare un piano del consumatore o una liquidazione del patrimonio per liberarsi dai debiti di regresso che gli cadono addosso). In conclusione, la protezione dell’impresa nelle procedure concorsuali non copre i garanti personali: loro devono attivarsi separatamente se vogliono evitare l’escussione.
D: Un concordato preventivo può prevedere che i creditori chirografari prendano meno del 20%?
R: Solo se è un concordato in continuità aziendale. Infatti la regola del 20% minimo si applica “ad esclusione del concordato in continuità”, come ha chiarito la Cassazione . Significa che se tu mantieni l’azienda in attività, puoi offrire anche meno del 20% ai creditori chirografari, purché dimostri che quella offerta è migliore di ciò che avrebbero da una liquidazione fallimentare e che è il massimo ottenibile date le risorse generate dalla continuità. Questa flessibilità serve a incentivare i salvataggi: magari i creditori prendono solo il 10%, ma l’azienda sopravvive e continua a dare lavoro, e quell’alternativa è comunque preferibile al 5% in caso di fallimento. Se invece il concordato è puramente liquidatorio (vendi i beni e chiudi l’attività), allora la legge impone almeno il 20% ai chirografari , altrimenti non ammette la proposta (per evitare concordati liquidatori usati solo per dilazionare, senza un reale vantaggio per i creditori). Ovviamente, anche in continuità, dal punto di vista pratico offrire troppo poco rischia di farti bocciare il piano dai creditori al voto, anche se formalmente sarebbe ammissibile.
D: Ho sentito parlare di “adeguati assetti organizzativi” obbligatori: cosa significa in concreto per una piccola azienda?
R: Significa che anche le PMI devono dotarsi di strumenti di controllo di gestione proporzionati. In pratica: tenere una contabilità ordinata e tempestiva; avere sistemi per monitorare la tesoreria e fare previsioni di cash-flow; predisporre bilanci infrannuali se serve; organizzare la struttura interna con ruoli chiari e flussi informativi verso l’organo amministrativo (consiglio di amministrazione o amministratore unico). Lo scopo è accorgersi dei segnali di squilibrio in anticipo (esempio: ritardi sistematici nei pagamenti, erosione del capitale, indice DSCR < 1, ecc.) e prendere provvedimenti. Per una piccola azienda può voler dire incaricare un commercialista di fare report trimestrali, oppure usare software gestionali per controllare costi/ricavi e scadenze, oppure implementare indicatori basici ma efficaci. Non è richiesta una struttura da multinazionale, ma non è più ammesso improvvisare alla giornata: l’imprenditore deve saper leggere i propri numeri e reagire tempestivamente. L’art. 2086 c.c. novellato lo mette nero su bianco dal 2019. Quindi il consiglio è: se sei un piccolo imprenditore e non l’hai già fatto, implementa un cruscotto di controllo: tieni d’occhio la liquidità, gli incassi futuri, gli impegni finanziari, e pianifica. E nel momento in cui gli indicatori virano al rosso, attivati subito (non aspettare il bilancio annuale per scoprire che sei sott’acqua).
D: Quali atti o pagamenti posso fare o non fare in prossimità di un fallimento, per non incorrere in revocatorie?
R: Domanda molto pratica. In generale, nei 6 mesi prima della domanda di concordato o della dichiarazione di fallimento, evita di fare pagamenti di debiti scaduti fuori dall’ordinario: sono potenzialmente revocabili (cioè il curatore potrà chiedere indietro al creditore quei soldi) se il creditore beneficiato conosceva il tuo stato di crisi. Ad esempio, pagare un vecchio fornitore mentre ne lasci altri non pagati potrebbe essere visto come pagamento preferenziale revocabile. Alcune cose sono escluse per legge dalla revocatoria: i pagamenti di forniture essenziali fatti nei termini d’uso; i pagamenti di stipendi ai dipendenti; i pagamenti di debiti scaduti effettuati durante una composizione negoziata se autorizzati dall’esperto o dal tribunale; ecc. (art. 166 CCII elenca esenzioni analoghe all’art. 67 L.Fall.). Ma in linea generale, se vedi l’insolvenza in arrivo, non fare il furbo: non pagare il parente creditore lasciando a bocca asciutta gli altri, e non vendere sottoprezzo beni a terzi compiacenti. Questi sarebbero atti revocabili (entro 2 anni addirittura, se per es. vendi un immobile a molto meno del valore o se paghi debiti di un garante invece di far escutere la garanzia). Inoltre, in vista di una procedura concorsuale, è meglio conservare cassa per la gestione concordataria: quindi paga solo l’indispensabile per tenere viva l’azienda (utenze, materie prime per ordini in corso, stipendi se puoi) ma sospendi il pagamento dei debiti scaduti non cruciali finché non hai un quadro unitario. Quando presenti il concordato, potrai chiedere di pagare anticipatamente alcuni fornitori strategici in prededuzione (con autorizzazione del tribunale) per assicurarti la continuità dell’attività, e questi pagamenti autorizzati non saranno revocabili. Ma non farlo di testa tua prima, sennò esponi quei fornitori al rischio di doversi restituire i soldi se fallisci e te a possibili contestazioni (oltre a sprecare liquidità preziosa in modo disordinato). In sintesi: massima prudenza negli ultimi mesi prima di una procedura; rispetta la par condicio (pari trattamento) tra i creditori e segui le vie autorizzate se devi assolutamente pagare qualcuno durante la procedura.
D: La mia azienda è piccola (fatturato 300k). Posso comunque fallire o ci sono soglie di esenzione?
R: Con il Codice della Crisi, quasi tutti gli imprenditori commerciali possono essere soggetti a liquidazione giudiziale, a prescindere dalle vecchie soglie dimensionali. Le vecchie soglie di “non fallibilità” (i famosi limiti di €300k attivo, €200k ricavi, €500k debiti dell’art. 1 L.Fall.) sono state di fatto eliminate: l’intento è che anche le piccole imprese possano accedere alle procedure di composizione della crisi (come la composizione negoziata, gli accordi, ecc.) e se serve essere liquidate in modo ordinato . Tuttavia, rimane la definizione di “impresa minore” (art. 2 CCII lett. d) – quelle sotto certi parametri – che non sono soggette ad alcune parti come le misure d’allerta (che comunque sono sospese) e soprattutto beneficiano di procedure semplificate di sovraindebitamento (invece del fallimento tradizionale) . Quindi, in parole povere: una ditta individuale o società molto piccola oggi può essere dichiarata insolvente e liquidata, ma spesso si applicheranno le norme del sovraindebitamento (ora integrate nel CCII) se prima non sarebbe stata soggetta a fallimento. Ad esempio, l’impresa agricola o la micro-impresa sotto soglia fanno un “concordato minore” o una “liquidazione controllata” invece del fallimento. Comunque, il concetto base è: nessuno è troppo piccolo per affrontare i debiti legalmente. Se la tua azienda è micro, hai comunque le soluzioni di composizione della crisi da sovraindebitamento: piano di ristrutturazione minore, concordato minore, ecc., analoghe a quelle grandi ma più semplificate. Non pensare di poter evitare le procedure solo perché sei piccolo: i creditori possono farti liquidare lo stesso, anche se la procedura non si chiama “fallimento” ma ha effetti simili.
D: Conviene rivolgersi a un professionista? Posso gestire da solo la crisi col buon senso?
R: È fortemente consigliato rivolgersi a professionisti esperti di crisi d’impresa (un commercialista specializzato in risanamenti o un avvocato d’affari esperto in diritto concorsuale). La materia è tecnica e una mossa sbagliata può pregiudicare tutto. Il semplice “buon senso” imprenditoriale, pur prezioso, potrebbe dettarti azioni istintive (ad esempio pagare il fornitore più arrabbiato per calmarlo) che legalmente sono controproducenti (come visto, quel pagamento preferenziale potrebbe essere revocato e tu intanto hai finito la liquidità). Un professionista ti aiuta a fare un check-up finanziario, valutare se l’azienda è ristrutturabile o se è destinata alla liquidazione, preparare documenti e piani, redigere attestazioni, e trattare coi creditori parlando la “loro lingua”. Inoltre molte procedure (concordato, accordi) richiedono per legge relazioni di esperti e assistenza legale: non è solo opportuno, è quasi obbligatorio. Considera la spesa per un professionista come un investimento per salvare l’azienda o perlomeno chiudere senza strascichi. C’è anche la figura dell’esperto indipendente nella composizione negoziata: anch’egli è qualcuno che capisce di risanamenti e negoziazioni, e ti aiuterà a trovare soluzioni. Quindi la risposta è: assolutamente sì, coinvolgi un consulente qualificato. Difendersi dai debiti non è solo questione finanziaria, ma legale e procedurale: devi muoverti rispettando norme e scadenze, e da solo è improbabile avere il quadro completo (a meno che tu stesso non sia un esperto in materia).
Conclusioni
Affrontare i debiti di un’azienda produttrice di prodotti chimici per galvanica (o di qualsiasi impresa in difficoltà finanziaria) richiede una combinazione di strategia finanziaria e conoscenza giuridica approfondita. Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, aggiornato alle ultime riforme del 2022-2024, offre un ventaglio di strumenti di natura preventiva e risolutiva che, se utilizzati per tempo, possono evitare la dispersione di valore e consentire di risolvere la crisi con il minor impatto possibile su creditori e stakeholder. Dal punto di vista del debitore, “difendersi” dai debiti non significa fuggire dalle proprie obbligazioni, bensì gestirle attivamente: riconoscere la crisi per tempo, dialogare con i creditori in modo trasparente e scegliere il percorso legale più adatto (dal piano attestato al concordato, a seconda dei casi). La difesa migliore è la tempestività: le normative premiano l’imprenditore che agisce prima che sia troppo tardi (lo proteggono dalle azioni esecutive, gli danno potere contrattuale in procedure ordinate, e tendono a non punirlo se dimostra buona fede e correttezza).
Al contrario, ritardare o peggio occultare la crisi porta quasi inevitabilmente a esiti peggiori: procedure concorsuali più dure (liquidazione giudiziale) e possibili responsabilità personali per gli organi sociali. Le sentenze più recenti della Cassazione confermano un orientamento severo con chi abusa del ritardo: ad esempio, Cass. civ. Sez. I, 6893/2023 ha affermato il divieto per gli amministratori di compiere nuove operazioni dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (perdita del capitale) e ha sancito la loro responsabilità se aggravano il dissesto . D’altro canto, la giurisprudenza apre spiragli positivi per soluzioni innovative: Cass. Sez. I, 27782/2024 (già citata) ha reso possibile il cram down fiscale, superando il veto del Fisco nei concordati nell’interesse generale .
In definitiva, un’azienda indebitata oggi ha a disposizione sia scudi protettivi (per frenare nell’immediato le aggressioni dei creditori), sia percorsi di ristrutturazione (per rimettere in ordine i conti, con sacrifici equilibrati e monitorati dal tribunale). La chiave è usarli con competenza e buona fede, possibilmente con l’ausilio di consulenti qualificati, e mantenendo sempre il rispetto della legalità (contabilità regolare, nessuna sottrazione di attivo, coinvolgimento corretto dei lavoratori e degli organi di controllo). Così facendo, anche da una situazione di debiti ingenti si può uscire – talvolta salvando l’impresa, talvolta chiudendola ma limitando i danni per tutte le parti e consentendo all’imprenditore di ripartire senza l’ombra di procedimenti giudiziari pendenti.
Fonti e riferimenti normativi
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, aggiornato con D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 (attuazione Dir. UE 2019/1023) e D.Lgs. 28 settembre 2024, n. 136 (c.d. “Correttivo-ter”). Testo vigente consultabile su portali normativi ufficiali. Contiene, tra gli altri, gli articoli citati: art. 25-sexies (concordato semplificato), artt. 56-64 (piani attestati e accordi di ristrutturazione), art. 64-bis e seguenti (PRO – Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione), artt. 84-120 (concordato preventivo), artt. 121-270 (liquidazione giudiziale), art. 2 lett. d (definizione di impresa minore), art. 166 (azioni revocatorie), art. 2086 c.c. comma 2 (obbligo assetti adeguati), art. 2486 c.c. (doveri dopo perdita capitale).
- Relazione Illustrativa al Codice della Crisi (2018-2019) e documenti del Ministero della Giustizia – spiegano la ratio delle nuove norme. In particolare, chiariscono il philosophy dietro la sostituzione delle soglie di fallibilità con procedure di sovraindebitamento e l’introduzione della composizione negoziata (vedi D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021).
- Confindustria – Monitor Legislativo “Primo tagliando del Codice della crisi d’impresa” (2023) – Panoramica sulle modifiche del correttivo 2022 (D.Lgs. 83/2022): adeguati assetti, abolizione dell’allerta in favore della composizione negoziata, introduzione del PRO, modifiche al concordato preventivo, ecc.
- Corte di Cassazione, Sez. I, 30 luglio 2024, n. 21336 – Ordinanza che ribadisce la soglia minima del 20% per i creditori chirografari nei concordati liquidatori, escludendola invece per i concordati in continuità.
- Corte d’Appello di Milano, 16 giugno 2023 – Sentenza in tema di dovere degli amministratori di evitare aggravamenti del dissesto e responsabilità per tardiva richiesta di fallimento.
- Corte di Cassazione, Sez. I, 8 marzo 2023, n. 6893 – Sentenza che ha stabilito che gli amministratori di S.r.l. sono responsabili verso i creditori sociali per gli atti di gestione non conservativa posti in essere dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (es. perdita integrale del capitale) .
- Corte di Cassazione, Sez. I, 28 febbraio 2024, n. 5252 – Principio di retroattività dell’art. 2486 c.c. comma 3 (introdotto dal D.Lgs. 14/2019) applicato ai giudizi pendenti: viene confermato il criterio dei netti patrimoniali come presunzione di danno da cattiva gestione nel periodo di scioglimento .
- Agenzia Entrate-Riscossione – Definizione agevolata 2023 (c.d. Rottamazione-quater) – Sito ufficiale con istruzioni e scadenze (Legge n. 197/2022, art. 1 commi 231-252). Ha previsto il pagamento dei carichi 2000-2017 senza sanzioni né interessi, in unica soluzione o 18 rate .
- Codice Civile (c.c.) – Disposizioni rilevanti: artt. 2446-2447, 2482-bis, 2482-ter (riduzione capitale per perdite nelle S.p.A. e S.r.l.), art. 2484 (cause di scioglimento società, tra cui perdita capitale), art. 2477 (obbligo di nomina organo di controllo nelle S.r.l. sopra soglie ridotte, funzionale agli adeguati assetti), art. 2394 e 2476 c.c. (azioni di responsabilità dei creditori verso amministratori), art. 2086 comma 2 (adeguati assetti organizzativi obbligatori).
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari) – Prevede i reati di omesso versamento IVA oltre €250.000 per periodo d’imposta e omesso versamento ritenute oltre €150.000 , puniti con reclusione 6 mesi – 2 anni; indica inoltre cause di non punibilità (pagamento integrale del debito tributario prima del dibattimento, art. 13, che estingue i reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter).
- Cassazione Penale, Sez. III, 3 novembre 2025, n. 35840 – Sentenza in tema di reati tributari (omesso versamento IVA) e misure ablatorie: la Cassazione ha annullato la confisca disposta a carico di una società ritenuta colpevole, poiché il debito IVA era stato integralmente pagato nell’ambito di un concordato fallimentare . Ha affermato che, una volta soddisfatto integralmente il debito tributario (anche attraverso accordo transattivo in sede concorsuale), viene meno la “causa giustificativa” della confisca del profitto del reato, che non può dunque essere mantenuta. Principio importante: se l’impresa paga il dovuto al Fisco, non c’è profitto illecito da confiscare (favorendo così le soluzioni concordate anche ai fini penali).
La tua azienda che produce, importa, miscela o distribuisce prodotti chimici per galvanica, bagni galvanici, additivi, soluzioni acide e alcaline, elettroliti, sgrassanti galvanici, decarbonatanti, passivanti, brillantanti, agenti di deposito, soluzioni per zincatura, nichelatura, cromatura, ramatura, argentatura e stagnatura, si trova oggi in difficoltà a causa dei debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Ricevi solleciti, richieste di rientro, sospensioni delle forniture, decreti ingiuntivi, cartelle esattoriali o minacce di pignoramento da parte di banche, Fisco, INPS, fornitori chimici o Agenzia Entrate-Riscossione?
Il settore della galvanica è uno dei più costosi e regolamentati dell’industria: reagenti elevati di prezzo, normative ambientali stringenti, smaltimenti costosi, impianti delicati, continui controlli e clienti che pagano tardi. Basta un calo dei fidi o ritardi negli incassi per far precipitare la situazione finanziaria.
La buona notizia? La tua azienda può essere salvata, se intervieni subito e con la strategia corretta.
Perché un’Azienda di Chimica per Galvanica va in Debito
- aumento dei costi di reagenti, acidi, additivi galvanici, tensioattivi e packaging
- pagamenti a 60–120 giorni da parte di galvaniche, officine e industrie metalmeccaniche
- magazzino immobilizzato tra fusti, IBC, soluzioni galvaniche, additivi e semilavorati
- costi elevati di trasporto, smaltimento rifiuti, analisi di laboratorio e normative ambientali
- ingenti investimenti in qualità, formulazioni, test e certificazioni
- riduzione o revoca delle linee di credito bancarie
- esposizioni gravose verso fornitori strategici di chimici
Il problema principale non è la mancanza di ordini, ma la mancanza di liquidità immediata.
I Rischi se Non Intervieni Subito
- pignoramento dei conti correnti aziendali
- blocco dei fidi
- sospensione delle forniture indispensabili per i cicli galvanici
- decreti ingiuntivi, precetti e atti esecutivi
- sequestro di prodotti chimici, fusti, IBC e attrezzature
- impossibilità di rifornire i clienti e completare le forniture
- perdita di clienti strategici e contratti ricorrenti
Cosa Fare Subito per Difendersi
1. Bloccare immediatamente i creditori
Un avvocato specializzato può:
- sospendere pignoramenti e atti esecutivi
- fermare richieste urgenti di rientro
- proteggere conti correnti e liquidità aziendale
- bloccare iniziative dell’Agenzia Riscossione
Prima si mette al sicuro l’impresa, poi si agisce sui debiti.
2. Analizzare i debiti ed eliminare ciò che non è dovuto
In molti casi emergono irregolarità come:
- interessi non dovuti
- sanzioni sbagliate o gonfiate
- importi duplicati
- debiti prescritti
- errori nelle cartelle della Riscossione
- commissioni bancarie anomale o illegittime
Una parte rilevante dei debiti può essere ridotta o cancellata.
3. Ristrutturare i debiti con piani sostenibili
Le soluzioni principali:
- rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
- accordi con fornitori chimici strategici
- rinegoziazione dei fidi bancari
- sospensione temporanea dei pagamenti
- utilizzo delle definizioni agevolate
4. Usare strumenti legali potenti che bloccano TUTTI i creditori
Quando l’esposizione è molto alta, la legge consente di ricorrere a:
- PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
- Accordi di Ristrutturazione
- Concordato Minore
- (nei casi estremi) Liquidazione Controllata
Questi strumenti permettono all’impresa di continuare a lavorare pagando solo una parte del debito, con protezione totale da pignoramenti e azioni esecutive.
Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo
Per salvare un’azienda che opera con prodotti chimici in ambito galvanico servono competenze specifiche e profonde.
L’Avv. Monardo è:
- Avvocato Cassazionista
- Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
- Iscritto come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012) negli elenchi del Ministero della Giustizia
- Professionista fiduciario di un OCC (Organismo di Composizione della Crisi)
- Certificato come Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Un profilo ideale per bloccare i creditori, ristrutturare debiti e salvare aziende del comparto galvanico, dove ogni errore può avere conseguenze tecniche ed economiche importanti.
Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo
- analisi immediata dell’esposizione debitoria
- blocco urgente di pignoramenti e decreti ingiuntivi
- riduzione di debiti non dovuti
- ristrutturazione sostenibile dell’esposizione
- protezione di magazzini, fusti chimici e cicli produttivi
- trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
- tutela completa dell’impresa e dell’amministratore
Conclusione
Avere debiti nella tua azienda di prodotti chimici per galvanica non significa essere destinati alla chiusura.
Con una strategia specializzata, rapida e completamente legale, puoi:
- bloccare subito i creditori
- ridurre davvero i debiti
- salvare produzione, clienti e continuità operativa
- proteggere il futuro della tua impresa
Agisci ora.
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