Se la tua azienda produce, importa o distribuisce oli lubrificanti industriali, grassi tecnici, fluidi idraulici, lubrorefrigeranti, emulsioni, additivi e prodotti chimici destinati a officine, industrie, manutentori e impianti produttivi, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è fondamentale intervenire subito per evitare fermi, disservizi e perdita di clienti strategici.
Nel settore della lubrificazione industriale, ritardi nelle consegne possono bloccare linee produttive, impianti e officine, con conseguenze economiche e contrattuali importanti. La situazione finanziaria va quindi gestita con tempestività e metodo.
Perché le aziende di oli lubrificanti industriali accumulano debiti
- aumento dei costi delle basi lubrificanti e degli additivi
- rincari nei trasporti e nei prodotti chimici importati
- pagamenti lenti da parte di industrie, officine e rivenditori
- ritardi nei versamenti di IVA, imposte e contributi
- magazzini complessi con molte formulazioni e specifiche tecniche
- difficoltà ad ottenere fidi bancari proporzionati ai volumi di acquisto
- investimenti continui in stoccaggi, certificazioni e attrezzature
Cosa fare subito
- far verificare l’intera esposizione debitoria da un professionista esperto
- identificare debiti che possono essere contestati, ridotti o rateizzati
- evitare piani di rientro troppo pesanti che riducono la liquidità
- richiedere immediatamente la sospensione di pignoramenti o atti esecutivi
- proteggere rapporti con fornitori strategici e prodotti critici
- utilizzare strumenti legali per ristrutturare e rinegoziare i debiti
I rischi se non intervieni tempestivamente
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco delle forniture di oli, additivi e prodotti chimici essenziali
- impossibilità di evadere ordini per officine e industrie
- perdita di clienti fidelizzati e rivenditori tecnici
- rischio concreto di chiusura dell’attività
Come può aiutarti l’Avvocato Monardo
Detto questo, l’avvocato Monardo, cassazionista, coordina a livello nazionale un team di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario e tributario.
È inoltre:
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- professionista fiduciario presso un OCC (Organismo di Composizione della Crisi)
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
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Introduzione
Gestire un’azienda nel settore degli oli lubrificanti industriali può comportare notevoli esposizioni debitorie. Quando un’impresa accumula debiti significativi, occorre muoversi con consapevolezza per difendersi legalmente e salvaguardare sia l’attività economica sia il patrimonio del debitore. In questa guida affronteremo in dettaglio come agire dal punto di vista del debitore, con particolare focus sui debiti tributari (fiscali) e le strategie difensive disponibili a ottobre 2025 nell’ordinamento italiano. Verranno esaminati strumenti stragiudiziali (dilazioni di pagamento, definizioni agevolate), procedure concorsuali di ristrutturazione o liquidazione, nonché i possibili profili penali (ad esempio bancarotta fraudolenta e reati tributari) connessi a una gestione irregolare della crisi d’impresa. Il taglio sarà avanzato – adatto a professionisti legali, imprenditori e privati informati – utilizzando un linguaggio giuridico ma divulgativo, con rimandi alla normativa aggiornata e alle più recenti sentenze di rilievo. Troverete inoltre tabelle riepilogative per confrontare soluzioni, esempi pratici su casi tipici in Italia, e una sezione Domande & Risposte per chiarire i dubbi frequenti.
Ambito della guida: Ci concentreremo sui debiti di natura fiscale, come tasse e contributi non pagati, perché spesso rappresentano una parte rilevante dell’esposizione debitoria di un’azienda (IVA, imposte sui redditi, contributi previdenziali, ecc.) e presentano peculiarità nelle tutele e nei rischi. Molte considerazioni però valgono anche per altre tipologie di debiti (bancari, verso fornitori o dipendenti). Saranno trattate sia le soluzioni di ristrutturazione (per cercare di salvare l’impresa o rinegoziare i debiti) sia l’opzione della liquidazione volontaria dell’azienda, analizzando vantaggi e limiti di ciascuna. Non mancheranno riferimenti alle conseguenze penali in cui può incorrere un imprenditore indebitato (come la bancarotta o i reati di omesso versamento), così da comprendere come evitare condotte che possano aggravare la propria posizione giuridica.
Ricordiamo che la normativa sulle crisi d’impresa è stata profondamente rinnovata con il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, in vigore a regime dal 2022), che ha sostituito la vecchia Legge Fallimentare. Pertanto useremo la nuova terminologia – ad esempio liquidazione giudiziale al posto di “fallimento” – e segnaleremo gli aggiornamenti più recenti (inclusi i correttivi fino al 2024 e la giurisprudenza del 2024-2025). Obiettivo: fornire una panoramica completa e aggiornata su cosa fare se un’azienda di oli lubrificanti industriali si trova oppressa dai debiti, quali sono le tutele legali a disposizione per difendersi dai creditori e dalle azioni esecutive, e come scegliere la strategia migliore per limitare i danni e, se possibile, rilanciare l’impresa.
Debiti tributari: caratteristiche e rischi per l’impresa
I debiti tributari (o fiscali) sorgono quando l’azienda non riesce a pagare regolarmente imposte e contributi dovuti. Tipicamente, un’impresa di oli lubrificanti può accumulare debiti per IVA non versata, imposte sui redditi (IRES/IRAP), ritenute fiscali su stipendi o compensi non corrisposte al Fisco, oltre a contributi previdenziali non pagati. Questi debiti godono spesso di una tutela legale forte: ad esempio, lo Stato e gli enti previdenziali sono creditori privilegiati (hanno prelazione sul ricavato in caso di esecuzione o fallimento) e dispongono di poteri di riscossione coercitiva particolari.
Conseguenze dei debiti fiscali non pagati: l’Agenzia delle Entrate – Riscossione (ex Equitalia) può emettere cartelle esattoriali e atti di precetto trascorso un breve termine (60 giorni) dalla notifica del ruolo non pagato. Se l’azienda non provvede, scattano azioni esecutive automatiche come il fermo amministrativo di veicoli, l’iscrizione di ipoteca su immobili aziendali o il pignoramento di conti correnti e beni mobili . Inoltre, maturano interessi di mora e sanzioni tributarie amministrative che fanno lievitare l’importo dovuto. Ad esempio, il mancato versamento dell’IVA espone l’impresa a una sanzione amministrativa pari al 30% dell’imposta non versata (oltre interessi), salvo definizioni agevolate. In caso di crisi di liquidità protratta, queste misure rischiano di paralizzare l’attività (si pensi al pignoramento del conto aziendale o al blocco dei mezzi di trasporto) e accelerano l’aggravarsi dell’insolvenza.
Rischio di insolvenza e procedure concorsuali: se i debiti fiscali (sommati eventualmente ad altri debiti) raggiungono importi tali da superare la capacità finanziaria dell’impresa, questa può trovarsi in stato di crisi o di insolvenza conclamata. L’insolvenza è definita dalla legge come l’incapacità strutturale di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni (non basta un ritardo temporaneo) . Un forte indebitamento verso l’Erario è spesso una spia di insolvenza, soprattutto se l’attivo disponibile (liquidità, crediti esigibili, scorte) è insufficiente a coprire il passivo esigibile. In tal caso, oltre alle esecuzioni individuali, può aprirsi una procedura concorsuale: i creditori o lo stesso debitore potrebbero richiedere al Tribunale l’apertura di una liquidazione giudiziale (la procedura fallimentare) per gestire collettivamente il patrimonio dell’azienda e soddisfare i crediti secondo la par condicio. Va sottolineato che un’elevata esposizione verso il Fisco rende più probabile un’istanza di fallimento da parte dell’Agenzia delle Entrate o dell’INPS, specie se i tentativi di recupero coattivo non hanno avuto esito.
Attenzione ai profili penali: l’omesso versamento di talune imposte sopra determinate soglie costituisce reato tributario. In altre parole, il titolare o legale rappresentante dell’azienda può incorrere in responsabilità penale non per la sola esistenza del debito (che di per sé non è reato), ma per il mancato pagamento oltre soglia di imposte dovute. Ad esempio, non versare l’IVA risultante dalla dichiarazione annuale per un importo superiore a €250.000 per periodo d’imposta integra il reato di omesso versamento IVA (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000), punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni . Analogamente, non versare le ritenute fiscali operate sui redditi dei dipendenti o collaboratori per importi oltre €150.000 annui configura il reato di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000), anch’esso con pena fino a 2 anni di reclusione . Questi reati sono sanzionati penalmente anche se l’impresa non ha commesso frodi o falsità: basta l’inadempimento consapevole sopra soglia, scattando comunque solo in presenza di dolo (volontà di non pagare) e al netto di situazioni di forza maggiore. Nel prosieguo esamineremo come difendersi da tali accuse, ma sin d’ora è fondamentale evidenziare che l’accumulo di grossi debiti IVA o contributivi va gestito in modo trasparente e tempestivo, perché ignorarli può portare non solo a sanzioni economiche ma addirittura al processo penale.
Riassumendo i rischi principali per l’azienda debitrice:
- Azioni esecutive individuali del Fisco (pignoramenti, ipoteche, fermi) che possono immobilizzare beni aziendali e flussi finanziari.
- Procedura concorsuale avviata da creditori insoddisfatti, con perdita del controllo dell’azienda e possibile liquidazione forzata dei beni.
- Responsabilità penale degli amministratori per omessi versamenti o, in caso di fallimento, per reati concorsuali (come bancarotta, v. oltre) se emergono condotte illecite nella gestione della crisi.
- Responsabilità civile verso i creditori: ad esempio, se gli amministratori tardano ingiustificatamente a affrontare la crisi e questo causa un aggravamento del dissesto, potranno risponderne patrimonialmente (ex art. 2486 c.c. e art. 2476 c.c. per le s.r.l.). In particolare, continuare ad accumulare debiti quando l’impresa è già decotta o non attivare alcuna procedura può costituire una grave colpa (bancarotta semplice per aggravamento del dissesto) . Pertanto, la difesa migliore è spesso la prevenzione: riconoscere per tempo lo stato di crisi e attivare gli strumenti legali opportuni.
Nei capitoli seguenti analizzeremo tali strumenti di difesa: prima quelli stragiudiziali (dall’accordo con il Fisco tramite rateazione o definizioni agevolate, alle trattative private), poi le procedure concorsuali vere e proprie (piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo, liquidazione giudiziale, ecc.), senza trascurare l’opzione della liquidazione volontaria da parte dei soci. Infine passeremo ai profili di responsabilità penale e agli accorgimenti per evitarla, prima di fornire esempi concreti e risposte ai quesiti più comuni.
Soluzioni stragiudiziali per gestire i debiti fiscali
Prima di ricorrere ai tribunali, un imprenditore indebitato dovrebbe valutare le soluzioni stragiudiziali, ovvero quelle misure che consentono di regolare o ridurre i debiti senza attivare una procedura concorsuale formale. Nel caso dei debiti verso l’Erario e gli enti previdenziali, le principali opzioni stragiudiziali sono: (1) la rateizzazione amministrativa del debito, (2) le definizioni agevolate dei carichi affidati all’Agente della Riscossione (come la rottamazione delle cartelle), e (3) eventuali transazioni fiscali stragiudiziali (in verità molto limitate, perché al di fuori di procedure concorsuali il Fisco non può generalmente accettare pagamenti parziali del dovuto, salvo specifiche norme di condono). Vi è poi la possibilità di accordi bonari con creditori privati (es. fornitori) al di fuori di procedure ufficiali, ma per i crediti tributari l’“accordo” è quasi sempre vincolato ai meccanismi normativi di rateizzo o condono: l’Amministrazione finanziaria infatti non ha discrezionalità di rinunciare a imposte se non nei casi previsti dalla legge.
Di seguito esaminiamo le opzioni a disposizione, con i loro pro e contro, dal punto di vista di un’azienda debitrice.
Rateizzazione dei debiti tributari
La rateizzazione (o dilazione) del debito fiscale è spesso il primo strumento da valutare. La legge consente al contribuente in difficoltà di chiedere all’ente creditore la possibilità di pagare gradualmente, in comode rate mensili, l’importo dovuto (comprensivo di sanzioni e interessi) anziché in un’unica soluzione. Questo può garantire respiro finanziario all’azienda, evitando nel frattempo azioni esecutive.
Norme di riferimento: l’art. 19 del D.P.R. 602/1973 disciplina la dilazione delle somme iscritte a ruolo. Attualmente, per debiti fino a €120.000 è concessa rateizzazione automatica sino a 72 rate mensili (6 anni) su semplice richiesta motivata di temporanea difficoltà . Per importi superiori, o per ottenere piani più lunghi (fino a 120 rate, cioè 10 anni, in casi di comprovata grave e prolungata difficoltà), è necessario documentare la situazione di crisi di liquidità e la sostenibilità del piano di rientro. Durante la pendenza di un’istanza di rateizzo e dopo la concessione, l’Agente della Riscossione sospende le azioni esecutive: ciò significa che, se l’azienda rispetta i pagamenti rateali, non verranno iscritti nuovi fermi o ipoteche né avviati pignoramenti su quei debiti dilazionati.
Vantaggi: il rateizzo consente di spezzettare il debito in importi mensili affrontabili col cash flow aziendale, evitando il tracollo immediato. Inoltre, mantiene l’impresa fuori dalle procedure concorsuali, con minori costi e formalità. Spesso ottenere un piano di rientro con il Fisco mette al riparo l’azienda da misure aggressive almeno temporaneamente, dando il tempo per il risanamento. Va segnalato che negli ultimi anni la normativa si è fatta più flessibile: sono ammessi fino a 18 rate mensili non pagate (anche non consecutive) prima di decadere dalla dilazione (regola introdotta dal DL 119/2018), così da tollerare eventuali momentanei inadempimenti.
Svantaggi e limiti: la dilazione non riduce l’importo dovuto: interessi e sanzioni rimangono, anzi continuano a maturare interessi di rateazione. Se l’azienda non è in grado di rispettare le rate, la rateizzazione decade e l’intero debito residuo torna esigibile in unica soluzione, rimettendo in moto le azioni esecutive sospese. Inoltre, durante la dilazione l’azienda rimane iscritta nei ruoli dei morosi: ad esempio, la presenza di cartelle non definite può precludere il rilascio del DURC (documento di regolarità contributiva) indispensabile per partecipare a certi appalti. Infine, se il debito è enorme rispetto alle capacità prospettiche dell’impresa, la sola dilazione potrebbe rivelarsi insufficiente: in questi casi occorre combinare il rateizzo con altre misure (aumento di capitale, taglio dei costi, ecc.), oppure valutare strumenti concorsuali che permettano anche una falcidia (riduzione) del debito.
Esempio: Alfa S.r.l. ha €200.000 di debiti IVA e IRAP: presenta istanza di rateizzo per 72 mesi. L’Agenzia delle Entrate-Riscossione concede un piano da circa €2.800 al mese. Alfa riesce a pagare le prime rate e nel frattempo negozia con la banca la dilazione di un mutuo. Grazie a queste mosse coordinate, evita i pignoramenti e prova a riequilibrare i flussi di cassa. Tuttavia, se il suo settore non si riprende e Alfa accumula anche nuovi debiti, potrebbe trovarsi dopo un anno con l’acqua alla gola nonostante il rateizzo in corso. In tal caso, come vedremo, sarà opportuno valutare un accordo di ristrutturazione o un concordato preventivo.
Definizione agevolata (rottamazione delle cartelle esattoriali)
Periodicamente il legislatore introduce misure di definizione agevolata dei debiti iscritti a ruolo, note colloquialmente come “rottamazione delle cartelle” o “pace fiscale”. Si tratta di disposizioni eccezionali che consentono ai debitori di pagare importi ridotti rispetto al dovuto, tipicamente stralciando le sanzioni e gli interessi di mora. In alcuni casi particolari (come il saldo e stralcio del 2019) è stata consentita persino la cancellazione di parte del tributo per contribuenti in comprovata difficoltà. Queste opportunità sono strettamente stabilite dalla legge e a tempo determinato: ad esempio, la Rottamazione-quater prevista dalla Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) ha permesso di definire i carichi affidati dal 2000 al 30 giugno 2022 pagando solo l’imposta e pochi oneri, senza sanzioni né interessi, a patto di presentare domanda entro il 30 giugno 2023 e pagare le somme dovute (anche a rate, fino a 18 rate in 5 anni) . Al 31 marzo 2023, inoltre, la medesima legge ha disposto l’annullamento automatico dei debiti fino a €1.000 affidati dal 2000 al 2015 : in pratica, milioni di micro-cartelle sono state cancellate d’ufficio per alleggerire l’arretrato.
Vantaggi: se l’azienda rientra nei parametri di una definizione agevolata attiva, può conseguire un notevole risparmio: ad esempio, aderendo alla rottamazione-quater, la società debitrice paga solo il capitale e i diritti di riscossione, mentre tutte le sanzioni e gli interessi sono condonati. Il risparmio può superare il 20-30% del carico iscritto. Inoltre, durante il periodo tra la domanda di rottamazione e la scadenza delle rate, la legge sospende le azioni esecutive sui debiti definibili: ciò offre un’ulteriore tregua. Le definizioni agevolate quindi rappresentano una valvola di sfogo che consente a molte imprese di liberarsi di arretrati con condizioni vantaggiose, evitando magari il fallimento.
Svantaggi/limitazioni: essendo misure straordinarie, non vi è garanzia che siano sempre disponibili. Ad ottobre 2025, ad esempio, la finestra per la rottamazione-quater è chiusa; bisognerà attendere eventuali nuove “pacificazioni fiscali”. Inoltre, la definizione richiede comunque di reperire le somme (seppur ridotte) entro le scadenze prefissate, pena la decadenza dai benefici. Un’impresa con gravi problemi di liquidità potrebbe non riuscire a pagare nemmeno le rate agevolate, vanificando la rottamazione. Infine, non tutti i debiti sono definibili: sono esclusi, ad esempio, i recuperi per aiuti di Stato, le multe UE, e l’IVA all’importazione; inoltre lo stralcio automatico sotto €1.000 non si applica a debiti per risorse proprie UE (IVA import) o per alcune sanzioni . Dunque bisogna verificare caso per caso. In sintesi, la rottamazione è un’ottima opportunità quando c’è, ma non risolve situazioni di insolvenza strutturale se l’azienda comunque non ha risorse per pagare nemmeno il ridotto.
Esempio: Beta S.p.A., anch’essa nel settore lubrificanti, aveva €500.000 di cartelle esattoriali (principalmente IVA 2018-2019 e IRPEF trattenuta ai dipendenti non versata). Aderendo alla rottamazione-quater 2023, Beta quantifica in circa €350.000 il dovuto senza sanzioni e ottiene un piano in 18 rate semestrali. Ciò le fa risparmiare €150.000. Beta deve però rispettare le scadenze: riuscirà a pagare le prime rate grazie a una commessa incassata, ma se dovesse saltare una rata, perderebbe il beneficio e tornerebbe debitrice dell’importo originario (con sanzioni ripristinate). La direzione di Beta quindi monitora strettamente il piano di cassa. Questa soluzione ha ridotto il debito, ma Beta resta in una situazione fragile: un ritardo di pagamenti clienti o un calo di vendite potrebbe farla vacillare di nuovo, dovendo valutare in quel caso procedure concorsuali.
Accordi transattivi extra-giudiziali e altri strumenti
Al di fuori delle procedure concorsuali (di cui parleremo nel prossimo capitolo), la possibilità di negoziare direttamente con il Fisco una riduzione del debito è molto limitata. Diversi anni fa era prevista la “transazione fiscale” stragiudiziale, ma tale istituto è stato sostituito e oggi esiste solo in ambito concorsuale. Pertanto, fuori dal concordato o dall’accordo di ristrutturazione, l’Amministrazione finanziaria non può legalmente concordare con il contribuente uno sconto sull’imposta dovuta: può solo concedere dilazioni (come visto) o applicare le definizioni agevolate stabilite per legge. Un’azienda in difficoltà potrebbe tentare di proporre al Fisco un pagamento parziale a saldo e stralcio, ma l’Erario non ha potere di accettarlo liberamente. L’unico caso in cui il Fisco può rinunciare a parte del credito al di fuori di procedure è quando vi sia una vera e propria insinuazione al passivo in un’esecuzione individuale infruttuosa (ad esempio, se dopo un pignoramento il creditore fiscale prende atto dell’incapienza, può chiudere la posizione per inesigibilità): ma ciò non è frutto di un accordo negoziale, bensì dell’accertata impossibilità di recupero.
Diverso è il discorso con creditori privati: banche, fornitori, locatori, ecc. Un’impresa indebitata può certamente trattare privatamente con essi per ottenere dilazioni, atti di transazione, riduzioni del credito (magari offrendo un pagamento immediato parziale). Tali accordi stragiudiziali, però, vincolano solo chi vi partecipa. Ad esempio, un’azienda potrebbe convincere alcuni fornitori a rinunciare al 20% del loro credito in cambio del pronto pagamento del restante 80%; tuttavia, i creditori estranei a questa intesa (es. il Fisco, o altri fornitori non interpellati) potranno comunque agire per intero. E se anche un solo creditore rilevante resta escluso e procede legalmente, può precipitare l’azienda nell’insolvenza. Pertanto le soluzioni informali funzionano solo se il numero di creditori è limitato e c’è consenso diffuso. Nel caso di debiti tributari, come detto, l’unica “trattativa” possibile è l’istanza di rateizzo (che è in realtà una procedura amministrativa) o, al più, la richiesta di sgravio in autotutela se si ritiene che il debito non sia dovuto (ad esempio per vizi dell’atto).
In sintesi, gli strumenti stragiudiziali a disposizione del debitore fiscale sono principalmente dilazioni e sanatorie legislative. Se questi non bastano a risolvere la crisi, occorre passare a strumenti concorsuali (cioè con il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria) che consentono di ristrutturare i debiti in modo più incisivo, coinvolgendo tutti i creditori e – sotto controllo del tribunale – anche di imporre tagli ai crediti secondo un piano. Tali procedure, disciplinate dal Codice della crisi, presentano maggiore complessità ma possono offrire la soluzione definitiva per aziende sovraindebitate. Le esamineremo nel prossimo paragrafo.
Di seguito una tabella riepilogativa delle principali opzioni stragiudiziali per gestire debiti fiscali, con evidenziati i relativi vantaggi e limiti:
| Strumento | Cos’è (base giuridica) | Vantaggi per il debitore | Limiti e condizioni |
|---|---|---|---|
| Rateizzazione fiscale | Piano di pagamento a rate del debito tributario (art. 19 DPR 602/73) concesso dall’Agente Riscossione. | – Evita esecuzioni durante il pagamento<br>– Fraziona l’esborso in più anni (fino a 6-10 anni) | – Non riduce l’importo dovuto (si pagano interessi)<br>– Richiede capacità di onorare tutte le rate (decadenza se insolvenza persiste) |
| Definizione agevolata<br>(Rottamazione) | Pagamento ridotto dei debiti a ruolo previsto da legge speciale (es. L.197/2022), di solito senza sanzioni/interessi. | – Riduce l’ammontare totale da pagare (risparmio su sanzioni e mora)<br>– Sospende azioni esecutive durante la procedura | – Misura straordinaria, disponibile solo nei periodi previsti<br>– Necessario pagare comunque il capitale (spesso importi rilevanti) entro scadenze prefissate |
| Accordi bonari con creditori privati | Intese informali con singoli creditori (fornitori, banche) per dilazionare o ridurre il debito. | – Flessibilità negoziale: si può adattare alle parti<br>– Evita formalità giudiziarie se tutti collaborano | – Non vincola i creditori dissenzienti<br>– Difficile se molti creditori o importi elevati<br>– Il Fisco non può aderire a riduzioni fuori legge |
(N.B.: La “transazione fiscale” con l’Erario non è praticabile in via extragiudiziale, se non aderendo alle definizioni agevolate di legge. Per coinvolgere il Fisco in un accordo con falcidia del credito, occorre una procedura concorsuale con transazione fiscale, v. infra.)
Procedure concorsuali e soluzioni giudiziali per la crisi d’impresa
Quando i rimedi stragiudiziali non bastano a risanare l’azienda o quando ci si trova già in uno stato di insolvenza conclamata, è necessario ricorrere agli strumenti concorsuali, ossia a quelle procedure previste dalla legge fallimentare (oggi Codice della crisi) che coinvolgono l’autorità giudiziaria e tutti i creditori, per gestire la crisi dell’impresa in modo unitario. Le procedure concorsuali permettono di superare i limiti degli accordi individuali: tutti i creditori vengono vincolati dalle decisioni prese secondo le maggioranze di legge o le pronunce del tribunale, evitando che l’azione di uno possa vanificare lo sforzo di ristrutturazione. Di contro, comportano un controllo più rigoroso e possibili effetti invasivi (ad es. nomina di organi ausiliari, limitazioni ai poteri dell’imprenditore, pubblicità della procedura).
Le principali opzioni concorsuali attualmente offerte all’imprenditore commerciale (come la nostra azienda di oli lubrificanti) sono:
- il Piano attestato di risanamento (art. 56 Codice della crisi, già art. 67 LF) – in realtà si tratta di uno strumento para-concorsuale, perché non prevede il coinvolgimento del tribunale se non indirettamente; è un piano di risanamento asseverato da un professionista, utilizzato per ottenere esenzioni da revocatoria fallimentare;
- l’Accordo di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-60 Codice crisi, ex art. 182-bis LF) – un accordo sottoscritto col consenso di almeno il 60% dei creditori (in valore) e omologato dal tribunale, che vincola solo i aderenti (salvo estensioni particolari previste per legge);
- il Concordato preventivo (artt. 84-120 Codice crisi, già art. 160 e ss. LF) – la classica procedura concorsuale minore: il debitore propone un piano ai creditori, suddivisi in classi, che prevede il pagamento (integrale o parziale) dei debiti e ottiene l’omologazione dal tribunale se approvato dalle maggioranze o comunque ritenuto conveniente per i creditori;
- la Liquidazione giudiziale (artt. 121 e ss. Codice crisi) – la procedura che sostituisce il vecchio fallimento, in cui l’impresa insolvente viene spossessata e un curatore liquida i beni distribuendo il ricavato ai creditori secondo le prelazioni;
- (per completezza segnaliamo anche la Composizione negoziata della crisi, introdotta nel 2021, che è un percorso volontario di negoziazione assistita da un esperto, finalizzato a trovare un accordo o accedere a uno degli strumenti di cui sopra; nonché le procedure “minori” di sovraindebitamento destinate a piccoli imprenditori non fallibili, come il concordato minore o la liquidazione controllata, che tuttavia esulano dal caso di una società commerciale di dimensioni rilevanti).
Qui ci focalizzeremo sulle procedure più rilevanti per un’azienda di media dimensione con debiti: accordo di ristrutturazione, concordato preventivo e liquidazione giudiziale, con un accenno al piano attestato. Analizzeremo come ciascuna può aiutare il debitore, con particolare riguardo al trattamento dei crediti fiscali (transazione fiscale) e ai riflessi sui debiti verso dipendenti, banche e fornitori. Infine, tratteremo anche la liquidazione volontaria disposta dai soci e la sua interazione con il fallimento.
Piano attestato di risanamento
Il piano attestato di risanamento è uno strumento previsto dall’art. 56 del Codice della crisi (già art. 67, co. 3, lett. d) Legge Fall.) che consente all’imprenditore in difficoltà di predisporre un piano di risanamento della propria impresa, sottoposto alla verifica di un professionista indipendente (attestatore), il quale deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. Questo piano, se effettivamente idoneo a risanare l’impresa e a consentire il pagamento dei creditori, non è soggetto all’omologazione del tribunale, ma offre come beneficio la protezione rispetto all’azione revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento. In pratica, pagamenti e atti compiuti in esecuzione di un piano attestato non potranno essere revocati dal futuro curatore.
Quando usarlo: il piano attestato è utile se l’imprenditore ritiene di poter superare la crisi con le proprie forze (ad esempio attraverso ristrutturazioni operative, dismissione di asset non strategici, nuove linee di credito) e magari con accordi consensuali con alcuni creditori, senza bisogno di un procedimento formale. È uno strumento riservato (non comporta pubblicità legale) e flessibile. Tuttavia, non vincola i creditori dissenzienti: è un accordo di natura privata, seppur “protetto” dall’attestazione. Dunque tutti i creditori devono essere gestiti consensualmente: se ce ne sono alcuni che minacciano azioni esecutive, il piano attestato da solo non le blocca (non c’è automatic stay). Inoltre, l’efficacia del piano dipende dalla realtà: deve esserci una prospettiva concreta di risanamento.
Nel contesto di debiti fiscali, il piano attestato può includere l’impegno a pagare il Fisco integralmente (magari dilazionato) e potrebbe essere coordinato con una richiesta di rateizzazione. Ma non consente al debitore di imporre all’Erario sconti sul dovuto. Per questo, se l’esposizione fiscale è molto elevata e non pagabile integralmente, il piano attestato rischia di non risolvere il problema a meno che l’Agenzia Entrate non abbia già accettato una rottamazione o dilazione per l’intero importo.
In sintesi, il piano attestato è uno strumento di composizione della crisi “light”, adatto a crisi reversibili in breve termine, con creditori collaborativi. Se invece serve una ristrutturazione del debito più incisiva, con falcidia delle pretese dei creditori, occorre passare all’accordo di ristrutturazione o al concordato.
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 182-bis L.F.)
L’accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD) è una procedura prevista dagli artt. 57 e seguenti del Codice della crisi (corrispondente all’art. 182-bis della vecchia legge). Consiste in un accordo giuridico tra l’imprenditore e una quota qualificata di creditori, finalizzato a ristrutturare l’esposizione debitoria. I requisiti principali sono:
- Deve essere raggiunto con creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti totali (in valore). I creditori non aderenti resteranno estranei all’accordo (salvo particolari meccanismi di estensione per omogeneità di posizione).
- Deve essere omologato dal Tribunale: il debitore deposita la domanda di omologazione corredata dall’accordo firmato e da una relazione di un esperto indipendente che attesta la fattibilità del piano e il fatto che l’accordo assicura il pagamento integrale dei creditori estranei nei 120 giorni dalla scadenza dei loro crediti (o dall’omologazione).
- All’atto della presentazione della domanda, il debitore può chiedere al Tribunale misure protettive (stay) per sospendere le azioni esecutive dei creditori in pendenza di trattative o di omologazione.
Caratteristiche: rispetto al concordato, l’accordo di ristrutturazione è più snello e meno invasivo: la gestione resta all’imprenditore, non c’è voto dei creditori in senso tecnico (c’è l’adesione negoziata). Tuttavia, proprio perché vincola solo i creditori aderenti, richiede che i principali attori siano d’accordo. I creditori estranei dovranno essere pagati per intero entro tempi brevi, altrimenti il giudice non omologa. Questo strumento è spesso utilizzato in crisi finanziarie dove banche e principali fornitori trovano un’intesa col debitore (ad esempio per prorogare le scadenze o ridurre tassi), mentre i piccoli creditori vengono pagati cash.
Transazione fiscale nell’ARD: per includere i debiti fiscali in un accordo di ristrutturazione con una eventuale falcidia (riduzione), la legge prevede la possibilità di una transazione fiscale (art. 63 Codice crisi, ex art. 182-ter LF). Significa che l’accordo può prevedere il pagamento parziale e/o dilazionato di imposte e contributi, con stralcio di sanzioni e interessi. Tuttavia, richiede l’adesione formale dell’Agenzia delle Entrate e degli enti coinvolti. In mancanza, il tribunale non può omologare l’accordo in cui il Fisco subisca una decurtazione. Ciò rende l’Erario un creditore con un “veto” di fatto anche nell’ARD: se non sottoscrive l’accordo, i suoi crediti devono essere pagati integralmente nei termini di legge, oppure l’accordo non passa. Questo aspetto è stato considerato un ostacolo in molti casi: la Pubblica Amministrazione è spesso restia ad accettare transazioni sui tributi, salvo che il piano offra chiaramente più di quanto il Fisco otterrebbe da un fallimento.
Novità recenti: con la riforma 2022 e la giurisprudenza successiva, si sono aperti alcuni spiragli per estendere l’efficacia dell’accordo ai creditori dissenzienti in determinate condizioni (c.d. accordo ad efficacia estesa verso banche o finanziari) e per rendere meno assoluto il veto del Fisco. In particolare, una sentenza innovativa della Cassazione nel 2024 (originata però in un concordato preventivo) ha affermato il principio che, se il piano offre al Fisco una soddisfazione non inferiore a quella ricavabile dalla liquidazione fallimentare, il giudice può omologare il concordato anche senza il voto favorevole dell’Erario . Questo “cambio di rotta” potrebbe riflettersi anche negli accordi di ristrutturazione, attenuando il potere di veto dell’Erario in futuro, quantomeno sul piano interpretativo. Tuttavia, formalmente, nel caso di ARD l’adesione individuale del creditore pubblico è ancora richiesta dalla norma.
Utilità per il debitore: l’accordo di ristrutturazione è indicato se l’impresa ha sostegno dalle sue principali controparti (banche, fornitori strategici) ed intende evitare la pubblicità negativa e la rigidità di un concordato. Permette soluzioni tailor-made (ad esempio differenti trattamenti per creditori, fuori da schemi di classi rigide), purché chi aderisce sia soddisfatto. In pratica, è un grande accordo transattivo con “benedizione” del tribunale. Va però preparato con cura, perché serve convincere individualmente tanti creditori a firmare.
Concordato preventivo
Il concordato preventivo è la più nota procedura concorsuale alternativa al fallimento, e rappresenta spesso la soluzione principale per un’azienda sovraindebitata che voglia evitare la liquidazione giudiziale. Si tratta di una procedura in cui il debitore propone un piano ai creditori, il quale può consistere in una ristrutturazione con continuazione dell’attività (concordato in continuità aziendale) o nella cessione/liquidazione dei beni (concordato liquidatorio), o una combinazione di entrambe. Il piano prevede come saranno trattati i diversi crediti: in concordato, i creditori sono raggruppati in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei, e ciascuna classe vota sulla proposta.
Apertura e svolgimento: l’imprenditore presenta ricorso al Tribunale chiedendo l’ammissione al concordato, depositando il piano, la proposta e una relazione giurata di un esperto (attestatore) che certifichi la veridicità dei dati e la fattibilità del piano. Se la documentazione è completa e adeguata, il Tribunale ammette la società alla procedura e nomina un commissario giudiziale. Da quel momento, scatta un blocco delle azioni esecutive individuali: i creditori non possono iniziare o proseguire pignoramenti, né acquisire cause di prelazione senza autorizzazione (automatic stay). Si svolge poi la votazione: i creditori votano (eventualmente in adunanza o per via telematica) se accettare il concordato. Serve il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto, calcolata nel complesso o per classi (a seconda del tipo di concordato e di classi). Infine, il Tribunale procede all’omologazione: verifica la regolarità e (in caso di dissenso di alcuni creditori) la convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria. Se omologa, il concordato diviene vincolante per tutti i creditori anteriori, anche quelli che hanno votato contro o non hanno partecipato.
Condizioni di fattibilità minima: la legge prescrive alcuni requisiti. Ad esempio, in caso di concordato liquidatorio puro (dove l’azienda non prosegue l’attività), è obbligatorio assicurare il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari (non privilegiati). Nei concordati con continuità aziendale non vi è una percentuale minima per i chirografari, ma il piano deve essere tale da non risultare peggiorativo rispetto alla liquidazione, e deve indicare come si finanzi la prosecuzione dell’attività. I crediti privilegiati vanno di regola soddisfatti integralmente, salvo che i titolari rinuncino alla prelazione o il piano dimostri che una soddisfazione parziale è comunque non inferiore a quella che avrebbero ottenuto liquidando i beni su cui insiste la prelazione (principio del best interest of creditors).
Un elemento delicato è la transazione fiscale in concordato: come per l’ARD, il debitore può chiedere all’Erario e agli enti previdenziali di accettare un trattamento parzialmente falcidiato dei loro crediti (ad esempio pagamento solo del 50% dell’IVA, con stralcio di interessi e sanzioni). In passato, bastava il voto contrario del Fisco per far naufragare il concordato: sotto la vecchia legge, infatti, il tribunale non poteva omologare un concordato non approvato dall’Erario se questo deteneva la maggioranza in quella classe, salvo il caso di mancata espressione di voto (art. 180 LF) . Questo rigore spesso portava al fallimento imprese che avrebbero offerto comunque di più ai creditori, solo per l’opposizione del Fisco, creando il paradosso di un “summum ius, summa iniuria” .
La svolta del 2024 – il “cram down” fiscale: la tendenza però è cambiata. Il nuovo Codice della crisi e la normativa UE spingono verso una maggiore flessibilità per salvare imprese in crisi. In linea con ciò, la Corte di Cassazione, Sez. I civ., sentenza n. 27782 del 28 ottobre 2024, ha sancito che il tribunale può omologare un concordato preventivo anche in presenza di voto contrario dell’Erario, purché sia provato che la proposta garantisce ai crediti pubblici una soddisfazione economica superiore a quella ricavabile dalla liquidazione giudiziale . Si tratta di una pronuncia storica: in pratica introduce il cram down sui creditori pubblici, superando il veto fiscale quando il piano è comunque vantaggioso per il Fisco rispetto al fallimento. La Cassazione rileva che questo equilibrio tra interesse pubblico e continuità aziendale è coerente con lo spirito del nuovo Codice . D’ora in avanti, dunque, un imprenditore potrà proporre in concordato il pagamento parziale dei debiti tributari e contributivi e – se l’Amministrazione finanziaria rifiuta irragionevolmente – ottenere comunque l’omologazione dimostrando che il concordato è più conveniente per il Fisco rispetto alla liquidazione .
Questa novità elimina uno dei maggiori ostacoli alle ristrutturazioni del debito fiscale. Significa che un’azienda potrà ridurre il carico fiscale attraverso il concordato, senza dover ottenere per forza il consenso formale del Fisco, a patto di offrire almeno ciò che risulterebbe dal realizzo in caso di fallimento (spesso una percentuale molto bassa, considerati i tempi e le spese della liquidazione). Resta ovviamente fondamentale predisporre piani seri e supportati da perizie, per convincere il giudice della bontà dell’offerta.
Concordato in continuità vs liquidatorio: se l’azienda di oli lubrificanti ha prospettive di risanamento, potrebbe optare per un concordato in continuità, ove l’attività prosegue (magari con ristrutturazione aziendale, nuovi investitori o la cessione dell’azienda a terzi). Ciò consente di preservare il valore d’impresa e i posti di lavoro, e spesso permette di offrire ai creditori una soddisfazione migliore, finanziata dai flussi futuri. Alternativamente, se non vi sono speranze di rilancio, si ricorre a un concordato liquidatorio, dove l’azienda cessa e i beni vengono liquidati, ma sotto la regia del debitore e con un piano concordato (ad esempio vendita in blocco, o liquidazione frazionata più rapida che in fallimento) e magari con il debitore stesso che apporta risorse esterne (soci o terzi disposti a versare somme per evitare il fallimento). Nel concordato liquidatorio puro è obbligatorio destinare almeno il 20% ai chirografari, come detto, salvo deroghe.
Vantaggi per il debitore in concordato:
- Si evita la dichiarazione di fallimento (liquidazione giudiziale), mantenendo l’iniziativa in mano all’imprenditore (anche se sotto vigilanza del commissario).
- Si ottiene il blocco delle azioni esecutive e cautelari dei creditori dal momento dell’ammissione, congelando la situazione e impedendo il deteriorarsi con pignoramenti disordinati.
- Si possono cancellare definitivamente parte dei debiti: ad omologazione avvenuta, il debitore è esdebitato per la quota falcidiata (ad eccezione di alcuni debiti non falcidiabili per legge, come l’IVA se non inclusa correttamente in transazione fiscale – ma come visto ora anche quella può esserlo con cram down).
- Se è in continuità, l’azienda ha chance di sopravvivere e tornare sul mercato risanata.
- Dal punto di vista dei rischi penali, l’apertura di concordato blocca di norma le istanze di fallimento e quindi rinvia (o evita) il possibile scenario di bancarotta fraudolenta, a meno che il concordato non dovesse sfociare comunque in una successiva liquidazione per inadempimento.
Svantaggi e oneri: il concordato è una procedura complessa e costosa: richiede la redazione di un piano dettagliato, le attestazioni di un esperto, l’intervento di avvocati e commercialisti, e le spese di procedura (commissario, eventuali coadiutori). Inoltre, impone una trasparenza totale: gli atti dell’impresa sono soggetti a verifica, e c’è pubblicità legale della situazione (il che può avere riflessi reputazionali). Durante la procedura, il debitore può essere limitato negli atti di gestione straordinaria (serve autorizzazione del giudice per vendite di rilievo, ecc.). Non ultimo, se poi il piano non viene rispettato (inadempimento concordatario), si rischia la conversione in liquidazione giudiziale d’ufficio. Dunque è un percorso delicato che va intrapreso solo con una strategia ben congegnata e realistica.
Esempio: Gamma S.r.l., azienda di lubrificanti con 50 dipendenti, ha debiti totali per 3 milioni (€1M con banca, €500k fornitori, €800k debiti fiscali, €200k TFR e salari arretrati, resto vari). Decide per un concordato in continuità: presenta un piano in cui un investitore apporta €500k, l’attività prosegue riorganizzata e i creditori chirografari riceveranno il 40% in 4 anni. Banca (garantita da ipoteca) viene pagata al 100% ma a scadenza prorogata; dipendenti 100% (TFR garantito dal Fondo INPS e crediti privilegiati entro un anno di lavoro come da legge). Lo Stato (Agenzia Entrate) ha €500k tra IVA e ritenute: il piano propone di pagargliene 300k (60%) dilazionati in 5 anni, falcidiando sanzioni e il 40% dell’imposta. Lo Stato vota contro in adunanza (oppure per ipotesi non raggiunge la maggioranza nella sua classe). In base alla nuova giurisprudenza, Gamma chiede comunque l’omologazione dimostrando che in caso di fallimento il Fisco avrebbe preso forse il 20%. Il Tribunale, verificate queste circostanze, omologa il concordato nonostante il voto contrario dell’Erario, attuando il cram down . Gamma S.r.l. esce dalla procedura, paga puntualmente le rate del concordato: in qualche anno riduce il proprio indebitamento e prosegue la sua attività con successo, salvando i posti di lavoro e soddisfacendo i creditori meglio di quanto avrebbe fatto una liquidazione forzata.
Liquidazione giudiziale (già “fallimento”)
La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale “estrema”, cui si giunge quando l’insolvenza dell’impresa non può essere risolta altrimenti. È regolata dagli art. 121 e seguenti del Codice della crisi (in gran parte riprendendo il R.D. 267/1942). Viene aperta con sentenza del Tribunale su ricorso di un creditore, del debitore stesso (cd. autofallimento) o del PM. Presupposti: che l’impresa sia insolvente e che non rientri tra i soggetti “non fallibili” (ad es. piccolissimi imprenditori sotto soglie di legge, enti pubblici, etc.). Nel caso di una società di capitali come un’azienda di oli industriali, la fallibilità è la regola se l’attività è commerciale e vi è insolvenza, a meno che per tre anni consecutivi non abbia superato congiuntamente determinati limiti dimensionali (es. attivo di bilancio < €300k, ricavi < €200k, debiti < €500k) – soglie che comunque spesso un’azienda strutturata supera .
Effetti dell’apertura: la sentenza di liquidazione giudiziale determina lo spossessamento dell’impresa – gli amministratori perdono la gestione, che passa a un curatore fallimentare nominato dal giudice delegato. Viene dichiarato lo stato di insolvenza e tutti i creditori anteriori devono presentare domanda di ammissione al passivo; i debiti restano congelati e non producono più interessi (salvo i privilegiati entro i limiti di capienza). Si forma così la massa attiva (beni e crediti da incassare) e la massa passiva (tutti i debiti). Il curatore procede a liquidare i beni: vendendo l’azienda o i singoli cespiti, incassando crediti, ecc., sotto la vigilanza degli organi della procedura e secondo le norme (spesso con autorizzazione del comitato creditori). Periodicamente ripartisce le somme realizzate secondo l’ordine delle cause di prelazione: prima si pagano le spese di procedura, poi i crediti prededucibili, quindi i creditori privilegiati (ipotecari, pignoratizi, privilegi speciali e generali – ad es. lavoratori, Fisco, banca ipotecaria), infine eventuali creditori chirografari con ciò che resta. Al termine, il giudice chiude la procedura con decreto se l’attivo è esaurito o se, soddisfatti in parte i creditori, residuano debiti non più recuperabili.
Conseguenze per il debitore: la società in liquidazione giudiziale viene di fatto dissolta; con la chiusura del fallimento, la società si estingue (art. 2495 c.c.). I creditori chirografari eventualmente non soddisfatti perdono la possibilità di recuperare oltre, perché il soggetto giuridico è cessato. Se l’impresa era individuale o i soci erano illimitatamente responsabili (snc, sas accomandatari), il fallimento si estende anche a queste persone fisiche, aggredendone i beni personali . Nel caso di società di capitali (srl, spa), invece, i soci non rispondono dei debiti sociali (salvo obblighi di versamenti ancora dovuti sul capitale o in casi di abuso della personalità giuridica), dunque essi non falliscono personalmente. Attenzione però: l’art. 2495 c.c. prevede che i creditori insoddisfatti, chiusa la liquidazione, possano agire contro i soci (nei limiti di quanto ricevuto in sede di liquidazione) e contro gli amministratori o liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi . Ciò significa che, ad esempio, se i liquidatori hanno distribuito attivi ai soci lasciando debiti, i soci dovranno restituire quelle somme per pagare i creditori, e i liquidatori negligenti potranno essere chiamati a rispondere del danno.
Differenze rispetto alle soluzioni negoziali: la liquidazione giudiziale è una procedura invasiva e punitiva per il debitore: questi perde la gestione e subisce gli effetti del fallimento (compresi eventuali istituti afflittivi come l’inabilitazione all’esercizio d’impresa per 10 anni in caso di condanna per bancarotta ). Tuttavia, ha anche l’effetto di liberare la società dai debiti al termine, sebbene al prezzo della cessazione dell’attività. Per i creditori, il fallimento assicura un trattamento paritario e trasparente secondo legge, anche se spesso i tempi sono lunghi e le percentuali di recupero basse.
Perché il debitore potrebbe attivare l’autofallimento: in alcuni casi, paradossalmente, il debitore stesso può preferire chiedere il proprio fallimento (autofallimento) invece di attendere l’iniziativa dei creditori. Ciò può avvenire per responsabilità: il Codice della crisi impone all’imprenditore di attivarsi tempestivamente in caso di insolvenza. Trascinare l’agonia dell’impresa può costituire bancarotta semplice per omissione . Chiedendo l’autofallimento, l’organo amministrativo dimostra di non voler aggravare ulteriormente il dissesto. Inoltre, presentare istanza di liquidazione spontanea può essere una mossa tattica per evitare misure cautelari personali (in passato, nel vecchio fallimento, l’amministratore poteva essere sottoposto a misure come l’interdizione se si sottraeva; collaborando, attenua i rischi). In ogni caso, l’apertura del fallimento sposta il focus dalla direzione aziendale alla gestione concorsuale, e segna la fine dell’impresa come entità economica autonoma.
Trattamento dei debiti fiscali in liquidazione giudiziale: Lo Stato e gli enti previdenziali partecipano al concorso come creditori privilegiati (hanno privilegio generale mobiliare sui beni mobili per IVA, ritenute, contributi fino a un certo importo). Ciò significa che, una volta pagate le spese di fallimento e i lavoratori (che sono privilegiati di grado superiore), il Fisco verrà soddisfatto – se vi sono attivi – prima dei creditori chirografari. Se però il patrimonio è scarso, anche il Fisco subisce decurtazioni. Dopo la chiusura del fallimento, i debiti fiscali non soddisfatti restano a carico del debitore solo se quest’ultimo è persona fisica: ma la legge consente al fallito persona fisica di ottenere l’esdebitazione, cioè la cancellazione di tutti i debiti residui, compresi quelli verso il Fisco, purché abbia collaborato e non ci siano stati comportamenti fraudolenti (art. 278 Codice crisi). Dunque un imprenditore individuale può ottenere il fresh start post-fallimentare, liberandosi anche del debito tributario non pagato . Nel caso di società, come detto, essa cessando non ha più soggettività, quindi i debiti insoddisfatti sono inesigibili (salvo soci illimitatamente responsabili). Il curatore fallimentare ha anche il potere di esercitare azioni per recuperare attivi aggiuntivi: ad es. azioni revocatorie di pagamenti preferenziali eseguiti nei mesi prima del fallimento o di atti dispositivi lesivi dei creditori (comprende anche pagamenti al Fisco se fatti nell’ultimo anno in modo preferenziale, benché con restrizioni: la legge attuale esenta certi pagamenti fiscali e contributivi dalla revocatoria, per non penalizzare chi adempie spontaneamente in crisi).
In definitiva, la liquidazione giudiziale è ciò che deve essere evitata se si vuole salvare l’impresa; tuttavia a volte è la soluzione finale inevitabile. Il ruolo del difensore del debitore è cercare di percorrere tutte le vie alternative (concordati, accordi) e, se non vi sono prospettive, gestire anche il fallimento nel modo meno traumatico, cooperando col curatore e tutelando l’imprenditore (ad esempio aiutandolo a ottenere l’esdebitazione se persona fisica).
Liquidazione volontaria e scioglimento della società
Un cenno a parte merita la liquidazione volontaria disposta dai soci. Spesso, di fronte all’andamento negativo dell’azienda e all’incapacità di pagare i debiti, i titolari possono pensare: “Chiudiamo noi l’azienda prima che ci portino i libri in tribunale”. La liquidazione volontaria è il procedimento di scioglimento della società attivato con deliberazione assembleare (art. 2484 c.c. per le cause di scioglimento, tipicamente la decisione dei soci di cessare l’attività). Vengono nominati uno o più liquidatori che subentrano agli amministratori con il compito di liquidare l’attivo e pagare i debiti sociali, per poi distribuire l’eventuale residuo ai soci e cancellare la società dal Registro Imprese .
Differenze rispetto al fallimento: la liquidazione volontaria è un procedimento privatistico e non concorsuale. Non c’è intervento del tribunale (se non eventuali omologhe su nomine o controllo ex post in casi specifici), non c’è spossessamento: i liquidatori agiscono per conto della società. Non vige la par condicio creditorum in senso stretto (anche se i liquidatori devono rispettare l’ordine delle cause legittime di prelazione nel pagare i creditori). I creditori mantengono le loro azioni individuali: non sono bloccati come nel concordato o fallimento. Ciò significa che, se la società non paga qualcuno, quel creditore può comunque agire in via esecutiva o chiedere il fallimento, anche se la società è in liquidazione volontaria. Infatti, lo stato di liquidazione di per sé non impedisce la dichiarazione di fallimento . Anzi, la legge (art. 33 Codice crisi, ex art. 10 LF) prevede esplicitamente che il fallimento può essere aperto entro un anno dalla cancellazione della società, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente o entro detto termine . Dunque non basta chiudere la società per mettersi al riparo: qualora residuino debiti e l’attivo sociale fosse insufficiente, i creditori insoddisfatti hanno un anno di tempo per provocare comunque un fallimento postumo. In tal caso, la società viene “resuscitata” ai soli fini del fallimento e il curatore potrà revocare gli atti di liquidazione eventualmente lesivi (es. riparti ai soci) e perseguire i responsabili.
Quando è utile la liquidazione volontaria: se l’impresa è di fatto solvibile (cioè il suo attivo può coprire tutte le passività) ma i soci non vogliono più proseguire l’attività, la liquidazione volontaria è il normale percorso di chiusura. Anche in situazioni di difficoltà non estrema, dove con la liquidazione di alcuni beni si riescono a pagare i debiti in buona misura, la strada volontaria permette di evitare lo stigma del fallimento e di gestire la chiusura in modo autonomo. Ad esempio, se i soci sono disponibili a immettere risorse proprie per saldare i creditori e poi chiudere la baracca, la liquidazione volontaria consente di farlo ordinatamente.
I rischi se la società è insolvente: se invece la società è già gravemente insolvente e in liquidazione volontaria non riuscirà a pagare tutti, la strategia di evitare il fallimento potrebbe fallire. I creditori che rimangono insoddisfatti quasi certamente chiederanno il fallimento entro l’anno dalla cancellazione (spesso anche prima, appena vedono che la liquidazione non li soddisferà). In più, i liquidatori e i soci possono andare incontro a responsabilità: i liquidatori, in base all’art. 2495 c.c., rispondono personalmente verso i creditori per colpa nel non aver pagato i debiti . Ciò include la situazione in cui il liquidatore procede a cancellare la società pur sapendo dell’esistenza di debiti impagati: è una condotta che la giurisprudenza valuta come potenzialmente colposa o dolosa. Il liquidatore diligente, se si accorge che l’attivo non basta, dovrebbe valutare di ricorrere al tribunale (istanza di fallimento) invece di chiudere e basta . Anche gli amministratori precedenti possono essere chiamati in causa se l’insolvenza deriva da loro cattiva gestione.
Insomma, liquidare volontariamente una società insolvente non evita le conseguenze legali, ma le rinvia e le può aggravare. È preferibile piuttosto usarla quando l’insolvenza è solo potenziale e gestibile. In alcuni casi, la liquidazione volontaria può essere un preludio per un concordato preventivo liquidatorio: i liquidatori possono proporre un concordato per chiudere la procedura volontaria con un accordo di soddisfacimento parziale dei crediti (il Codice della crisi prevede il concordato semplificato in caso di fallimento del negoziato, e comunque i liquidatori possono accedere a concordato ordinario se ne ricorrono i presupposti).
Esempio pratico: Omega S.r.l. (settore lubrificanti) nel 2025 decide la liquidazione volontaria. Ha debiti per €1 milione e attivi per €700k stimati. I liquidatori vendono alcuni macchinari, incassano €500k; riescono a pagare dipendenti e fornitori strategici per €400k, ma rimangono €600k di debiti non pagati (soprattutto erariali). Non potendo far miracoli, chiedono ai soci se vogliono immettere altro denaro: i soci rifiutano. I liquidatori allora preparano il bilancio finale e propongono la cancellazione. Uno dei creditori (Agenzia Entrate, creditore di €300k rimasti) si oppone e presenta ricorso per fallimento. Il Tribunale accerta che Omega era insolvente già prima e, benché in liquidazione volontaria, la dichiara fallita. Il curatore revoca ai soci l’anticipo di liquidazione di €100k che avevano ricevuto, chiamando anche i liquidatori a rispondere per aver chiuso senza soddisfare il Fisco. Se invece i liquidatori avessero subito segnalato la situazione e magari proposto un concordato liquidatorio offrendo al Fisco una percentuale (o avessero suggerito l’autofallimento), forse avrebbero evitato l’azione di responsabilità.
Conclusione su liquidazione volontaria: è un’arma a doppio taglio. Va intrapresa con prudenza. Per i debitori, non è una scappatoia magica: bisogna comunque pagare i creditori. Per gli amministratori/liquidatori, attenzione alla responsabilità personale in caso di gestione irragionevole della procedura. In generale, se l’obiettivo dei soci è “tirarsi fuori” dall’impresa, la liquidazione volontaria funziona solo se la situazione è sotto controllo. Altrimenti, meglio ricorrere a procedure concorsuali dove la riduzione dei debiti avviene in modo trasparente e legittimo.
Di seguito, una tabella comparativa semplificata tra concordato preventivo, liquidazione giudiziale e liquidazione volontaria, dal punto di vista del debitore:
| Caratteristica | Concordato preventivo | Liquidazione giudiziale (Fallimento) | Liquidazione volontaria |
|---|---|---|---|
| Iniziativa | Debitore (volontaria, proposta di piano) | Creditore, debitore o PM (involontaria o auto) | Soci (delibera assembleare di scioglimento) |
| Gestione dell’impresa | Rimane in capo al debitore ma sotto vigilanza (commissario) – possibili limitazioni per atti straordinari. | Passa al curatore nominato dal tribunale; debitor spossessato completamente. | Affidata ai liquidatori nominati dai soci; debitore perde i poteri ordinari. |
| Sorte dell’attività | Può proseguire (in continuità) o cessare (liquidatorio) a seconda del piano. Obiettivo è evitare cessazione integrale. | Cessa l’attività salvo esercizio provvisorio limitato autorizzato dal tribunale per miglior realizzo. | Attività tipicamente cessata (salvo necessità di completare operazioni in corso per liquidare meglio). |
| Vincolo sui creditori | Tutti i creditori anteriori sono vincolati dall’omologazione (anche dissenzienti). Azioni esecutive sospese dalla fase di ammissione. | Tutti i creditori anteriori partecipano al concorso; azioni individuali vietate dalla sentenza dichiarativa. | Creditori non vincolati: possono agire individualmente (anche chiedere fallimento) durante la liquidazione. |
| Trattamento debiti | Possibile pagamento parziale dei crediti chirografari e, con transazione fiscale, falcidia di tributari (ora anche se Fisco dissenziente) . Privilegiati in linea di massima da pagare salvo diverse classi e rinunce. | Pagamento secondo prelazioni fino a capienza dell’attivo; di norma chirografari prendono poco o nulla se attivo insufficiente. Debiti residui inesigibili dopo chiusura (esdebitazione solo per persone fisiche) . | Liquidatori tenuti a pagare i debiti man mano con l’attivo disponibile. Devono rispettare prelazioni (pagare prima privilegiati). Nessuna falcidia autorizzata: se attivo non basta, alcuni creditori rimarranno impagati e potranno agire. |
| Ruolo del tribunale | Centrale: ammette, nomina commissario, omologa il piano se maggioranze ok e piano fattibile/conveniente. | Centrale: dichiara la liquidazione, nomina curatore e giudice delegato, sovrintende a tutta la procedura. | Marginale: interviene solo per omologare la nomina di liquidatori se non unanime, o in caso di controversie tra soci/liquidatori. |
| Durata indicativa | 1-2 anni (a seconda di complessità del piano e pagamento rateale; fase intermedia tra ammissione e omologa ~6-12 mesi). | 5-7 anni in media per PMI (può variare molto in base all’attivo da liquidare e contenziosi). | Variabile: dipende da tempi di realizzo attivo; in media 1-2 anni per chiudere attività semplici. Cancellazione immediata dopo bilancio finale se creditori soddisfatti; altrimenti rischio fallimento post. |
| Esiti per il debitore | Se adempie al piano: azienda salva (se in continuità) o comunque soci mantengono controllo su liquidazione concordataria.<br>Debiti stralciati non più esigibili dopo omologa adempita. | Impresa cessata; società estinta a fine procedura (per persone fisiche possibile esdebitazione, fresh start). Amministratori/soci possono incorrere in azioni di responsabilità o reati concorsuali se emerse irregolarità. | Se attivo sufficiente, società chiude senza strascichi giudiziari negativi (no stigma fallimentare). Se attivo insufficiente, probabile azione dei creditori insoddisfatti (responsabilità liquidatori, possibile fallimento entro 1 anno) . |
Profili di responsabilità: rischi penali e civili per il debitore in crisi
Dal punto di vista del debitore insolvente (sia esso l’imprenditore individuale sia gli amministratori di una società), affrontare una situazione di debiti richiede anche attenzione ai rischi di responsabilità personale. Questi rischi si collocano su due piani: penale, qualora certe condotte integrino reati; e civile, in termini di richieste risarcitorie o obblighi patrimoniali personali verso i creditori.
Reati fallimentari: bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice
Il diritto penale fallimentare punisce le condotte più gravi commesse dall’imprenditore in danno dei creditori in vista o in occasione del fallimento (liquidazione giudiziale). I reati classici sono la bancarotta fraudolenta e la bancarotta semplice, ora disciplinate rispettivamente dagli artt. 322 e 323 del Codice della crisi (corrispondenti agli artt. 216 e 217 della vecchia legge).
- Bancarotta fraudolenta (propria): è il più grave. Si distingue in bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale e preferenziale. In generale punisce l’imprenditore dichiarato fallito (in liquidazione giudiziale) che dolosamente sottrae o distrugge attivi, nasconde beni, espone passività fittizie, trucca o distrae risorse dell’azienda, oppure tiene le scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio . Anche pagare alcuni creditori preferendoli ad altri in pregiudizio della par condicio, quando l’insolvenza è già in essere, configura bancarotta fraudolenta preferenziale . È richiesta la volontà di frodare (dolo). La pena prevista è alta: reclusione da 3 a 10 anni per la bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale, e da 1 a 5 anni per la bancarotta preferenziale . Inoltre, la condanna comporta pene accessorie come l’interdizione decennale dall’attività d’impresa .
- Bancarotta semplice: punisce comportamenti imprudenti o negligenti dell’imprenditore fallito che hanno contribuito al dissesto. Ad esempio, aver sostenuto spese personali eccessive rispetto alle risorse, aver fatto operazioni azzardate che hanno aggravato il patrimonio, non aver richiesto tempestivamente il proprio fallimento aggravando il dissesto, o aver mancato di tenere i libri contabili senza intento di frode . La bancarotta semplice richiede la dichiarazione di fallimento e una colpa grave dell’imprenditore, ma non il dolo di ingannare. La pena è più lieve: reclusione da 6 mesi a 2 anni .
È fondamentale capire che questi reati scattano solo in caso di fallimento (liquidazione giudiziale) dichiarato. Se l’impresa riesce a evitare il fallimento (ad esempio con concordato o pagamento dei debiti), non vi sarà bancarotta. D’altro canto, al momento in cui il tribunale apre la liquidazione giudiziale, tutte le condotte del periodo antecedente vengono scrutinizzate. Il curatore prepara un rapporto segnalando fatti di rilievo penale. Dunque, se un imprenditore in crisi distrugge documenti, sottrae beni dell’azienda per sé, paga di nascosto qualche creditore amico a scapito di altri, o semplicemente lascia incustodite le scritture creando caos contabile, rischia – in caso di fallimento – l’incriminazione per bancarotta (fraudolenta o semplice a seconda del profilo). Da notare che non serve che la condotta abbia causato il fallimento: anche atti distrattivi compiuti dopo che l’insolvenza si è manifestata o quando già c’era un concordato possono integrare bancarotta . La Cassazione penale ha chiarito che per la bancarotta fraudolenta non è necessario un nesso causale tra l’atto doloso e il dissesto: è sufficiente la volontarietà dell’atto in danno ai creditori, purché poi vi sia il fallimento . Questo amplia la responsabilità: ad esempio, anche se l’azienda sarebbe fallita comunque, il fatto di aver distratto dei fondi costituisce reato di bancarotta.
Per l’amministratore di una società, occorre anche menzionare i casi di bancarotta impropria (art. 329 CCI, ex art. 223 LF): sono situazioni in cui il fallimento è conseguenza di reati societari o gestioni fraudolente dell’organo amministrativo. Ad esempio, false comunicazioni sociali (falso in bilancio) o operazioni dolose possono, se la società fallisce, portare a bancarotta impropria con pene equiparate alla bancarotta fraudolenta.
Come difendersi dal rischio di bancarotta? In primo luogo evitando comportamenti illeciti: tenere la contabilità regolarmente, non occultare o dissipare beni dell’impresa, non preferire arbitrariamente taluni creditori violando la par condicio, specie quando l’insolvenza è imminente. In secondo luogo, agire tempestivamente: se si capisce che l’azienda non regge, meglio attivare una procedura (concordato, ecc.) piuttosto che continuare ad accumulare debiti sperando nel miracolo – quest’ultima condotta potrebbe configurare bancarotta semplice per aggravamento del dissesto . Ad esempio, non pagare imposte e contributi per tentare di proseguire l’attività può essere comprensibile, ma se poi si fallisce, quell’omissione potrebbe essere vista come operazione imprudente per ritardare il fallimento, rientrante nella bancarotta semplice.
Altra forma di reato concorsuale è la “sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte” (art. 11 D.Lgs. 74/2000): prima ancora di un fallimento, se un imprenditore compie atti dispositivi sui propri beni al fine di rendersi incapiente verso il Fisco (ad esempio svende macchinari a società correlate, nasconde asset, costituisce garanzie simulate a terzi) quando ha debiti tributari, può essere accusato di questo reato specifico. La soglia di punibilità è relativamente bassa (€50.000 di imposte sottratte) e la pena va fino a 4 anni. Dunque, chi pensa di “mettere al sicuro” il patrimonio personale o aziendale dalle pretese del Fisco spostandolo illegalmente, rischia guai penali ancor prima dell’eventuale bancarotta. Meglio quindi evitare qualsiasi spostamento sospetto di beni se esistono già cartelle o avvisi dell’Erario.
Reati tributari: omessi versamenti, dichiarazioni fraudolente e altri illeciti fiscali
Abbiamo accennato ai reati di omesso versamento IVA e omesso versamento di ritenute, tipicamente correlati a situazioni di crisi di liquidità. Ricapitolando le soglie e le caratteristiche:
- Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000): scatta se la società non versa, entro il termine previsto (di regola il 16 del mese successivo o comunque entro il termine di presentazione del modello 770 annuale), le ritenute fiscali operate su stipendi, compensi, ecc., per un importo superiore a €150.000 per periodo d’imposta . Pena: reclusione 6 mesi – 2 anni. È richiesto che le ritenute siano risultate dalle certificazioni rilasciate ai percipienti (oggi il reato è configurabile solo per ritenute certificate: la Corte Costituzionale nel 2022 ha escluso punibilità se mancano le certificazioni, perché non c’è prova che il sostituto abbia realmente percepito quelle somme da trattenere) .
- Omesso versamento IVA (art. 10-ter): scatta se, avendo presentato la dichiarazione IVA annuale, l’imprenditore non versa l’IVA dovuta entro il termine per il versamento (oggi fissato al 31 dicembre dell’anno successivo), per un importo superiore a €250.000 . Pena: reclusione 6 mesi – 2 anni. La soglia era 50k ma è stata elevata a 250k nel 2015 per concentrare il penale sui casi più gravi.
- Indebita compensazione di crediti tributari (art. 10-quater): usare in compensazione crediti inesistenti oltre €50.000 annui o non spettanti oltre €50k (limite di €50k per compensazioni “non spettanti” e €50k per “inesistenti” come soglie separate) costituisce reato con pene da 6 mesi fino a 5 anni a seconda dei casi. Questo può riguardare aziende che, in crisi di liquidità, “inventano” crediti fiscali per compensare debiti, ad esempio usando crediti IVA fittizi o bonus non dovuti.
- Reati dichiarativi: come dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000, con fatture false o altri artifici), dichiarazione infedele (art. 4), omessa dichiarazione (art. 5), ecc. Questi in genere presuppongono una condotta attiva di frode o un’omissione totale di dichiarazione, e sono puniti con pene più severe (fino a 8 anni per la frode con false fatture). Sono però di natura diversa: implicano un disegno evasivo fin dall’origine, più che una conseguenza dello stato di crisi. Se l’azienda per reggere ha emesso fatture false o ha sottratto ricavi al fisco fraudolentemente, incorrerà in questi reati. Non sono oggetto centrale di questa guida incentrata sul debito, ma vanno menzionati perché spesso nelle grandi crisi finanziarie c’è chi cede alla tentazione di gonfiare costi o nascondere ricavi per “risparmiare” tasse: comportamento che porta a conseguenze penali gravi.
Cause di non punibilità e strategie difensive nei reati fiscali: la legge prevede un importante strumento di “ravvedimento operoso” in sede penale. L’art. 13 D.Lgs. 74/2000 stabilisce che per i reati di omesso versamento e di indebita compensazione, il pagamento integrale del dovuto prima dell’apertura del dibattimento (cioè prima che inizi il processo penale) estingue il reato . Ciò offre al debitore un forte incentivo a regolarizzare: se l’imprenditore riesce, magari con un prestito o vendendo beni personali, a pagare tutto l’arretrato fiscale prima del processo, non verrà punito (il fatto non è più previsto come reato). Anche il pagamento tardivo ma prima della pronuncia di primo grado consente una riduzione di pena di fino a 1/3. Quindi, una linea difensiva fondamentale per il legale del debitore indagato sarà: cercare di saldare il Fisco. In un contesto di crisi, questo può sembrare paradossale (non si pagano le imposte proprio perché non ci sono soldi); tuttavia, a volte il denaro salta fuori, ad esempio da familiari o soci che preferiscono evitare al rappresentante legale una condanna penale.
Va detto che se l’azienda accede a un concordato preventivo con transazione fiscale e paga secondo il piano solo una parte dell’IVA, ciò non estingue il reato in automatico perché l’art. 13 richiede il pagamento integrale. Tuttavia, su questo punto interviene la giurisprudenza recente: la Cassazione Penale, Sez. III, con sentenza n. 35840 del 3 novembre 2025, ha affermato che una volta che il debito tributario è stato definito in via transattiva in sede concorsuale e interamente adempiuto secondo la transazione, non può disporsi né mantenersi la confisca penale sul profitto del reato di omesso versamento IVA . Il principio è che se attraverso il concordato o l’accordo il Fisco accetta, ad esempio, 60% a saldo e l’azienda paga quello, l’obbligazione tributaria si estingue e “non sussiste più profitto illecito”; dunque sarebbe indebito confiscare ulteriori somme a titolo di punizione . In pratica, il successo di una procedura concorsuale con transazione fiscale può mettere al riparo il patrimonio residuo dell’impresa da misure ablatorie penali. Resta la questione penale in sé: formalmente, se non c’è pagamento integrale, il reato di omesso versamento non è estinto; ma il giudice penale, tenendo conto che lo Stato ha accettato un concordato e incassato il dovuto ridotto, potrebbe riconoscere cause di esclusione della pena o minore offensività. È un tema in evoluzione, che coinvolge il coordinamento fra diritto penale e procedure concorsuali.
In ogni caso, il miglior consiglio per un imprenditore in crisi sul fronte fiscale è: mantenere la correttezza dichiarativa (continuare a presentare le dichiarazioni anche se non può versare, per evitare che l’omissione si tramuti in reati più gravi come omessa dichiarazione o infedele) e appena possibile regolarizzare i pagamenti anche parzialmente. In particolare, non appropriarsi delle ritenute dei dipendenti: queste sono somme trattenute dalle buste paga altrui, e se non si versano al Fisco oltre la soglia si rischia il penale. Allo stesso modo, con l’IVA: valutare sempre se conviene indebitarsi con banche per pagare l’IVA piuttosto che “saltarla”, perché le conseguenze penali e gli interessi poi potrebbero essere peggiori.
Responsabilità civile di amministratori e liquidatori verso i creditori
Oltre alle sanzioni penali, gli amministratori di società indebitate devono preoccuparsi della loro responsabilità civile. Nel diritto societario, gli amministratori (e i liquidatori durante la liquidazione) hanno obblighi di diligenza e devono preservare l’integrità del patrimonio sociale. Se violano i loro doveri e ciò causa danno ai soci o ai creditori, ne rispondono con il proprio patrimonio (artt. 2394 e 2476 cod. civ. per le SPA e SRL, art. 2489 e 2495 c.c. per i liquidatori).
Responsabilità verso i creditori sociali: quando il patrimonio della società diventa insufficiente a soddisfare i creditori (tipicamente in caso di insolvenza/fallimento), i creditori sociali possono agire contro gli amministratori se il danno deriva dall’inosservanza dei doveri di conservazione del patrimonio. Un esempio classico è l’aggravamento del dissesto: se gli amministratori hanno continuato un’attività ormai decotta, aumentando il buco, oppure hanno ritardato colposamente il ricorso ai rimedi (come presentare il concordato o il fallimento) peggiorando la situazione, i creditori potranno sostenere che senza tale ritardo avrebbero avuto maggiori chance di essere pagati. Questa azione spesso è esercitata dal curatore fallimentare in rappresentanza di tutti i creditori (azione sociale nel fallimento).
La riforma ha introdotto obblighi precisi: l’art. 2086 c.c. impone all’imprenditore di istituire assetti adeguati a rilevare tempestivamente la crisi e attivarsi per superarla. Se l’organo amministrativo omette di farlo, viola i suoi doveri. Ad esempio, non convocare l’assemblea per liquidare la società nonostante perdite rilevanti (art. 2482-bis c.c. per SRL) è un inadempimento che può generare responsabilità.
Liquidatori: i liquidatori hanno il dovere di pagare i debiti nell’ordine di legge e di non favorire i soci indebitamente. Se distribuiscono ai soci beni o utili prima di aver pagato i creditori, violano la legge. L’art. 2495 c.c. specifica che essi rispondono personalmente verso i creditori insoddisfatti in caso di colpa . Anche qui, la “colpa” tipica è la negligenza nel valutare l’insolvenza: ad esempio, aver chiuso la società senza informare i creditori dell’insufficienza dell’attivo, o non aver promosso un fallimento laddove necessario.
Fideiussioni e coobbligazioni personali: un ulteriore profilo pratico: spesso gli amministratori/soci di PMI rilasciano garanzie personali (fideiussioni) a banche o fornitori per ottenere credito alla società. In caso di default aziendale, queste garanzie vengono escusse e diventano debiti personali. Questo aspetto non è “responsabilità civile” in senso tecnico, ma una conseguenza contrattuale: chi ha fatto da garante per la propria società dovrà pagare al posto suo. È un rischio che molti imprenditori conoscono bene. In situazioni di crisi, è opportuno anche qui muoversi per tempo: cercare di rinegoziare le esposizioni garantite o valutare le implicazioni di soluzioni concorsuali (ad esempio, un concordato non libera automaticamente il fideiussore, salvo accordi col creditore).
Ricapitolando, dal punto di vista del debitore/gestore:
- Agire con correttezza e trasparenza durante la crisi può evitare o mitigare sia accuse penali sia cause di responsabilità. Ad esempio, documentare ogni scelta (perché si è pagato X e non Y), informare i creditori dello stato delle cose, evitare gestioni opache.
- Non “scappare” lasciando il vuoto: dimettersi in massa dal CDA o fuggire può esporre a più guai. Meglio guidare la società attraverso la crisi attivamente, oppure consegnare le redini a un professionista (un CRO – chief restructuring officer) quando ancora si può negoziare.
- Se la situazione precipita, collaborare con le autorità: in fallimento, fornire al curatore i documenti e le spiegazioni riduce la possibilità di accuse di bancarotta fraudolenta documentale (occultamento di libri) e può favorire un atteggiamento più mite (ad es. no custodia cautelare se si è collaborativi).
- Valutare l’assicurazione D&O: alcune società stipulano polizze per la responsabilità civile degli amministratori. Ciò potrebbe coprire parte dei danni verso i creditori (non copre però le multe/ammende penali).
- Separare i patrimoni: se possibile, prima che la crisi arrivi al culmine, l’imprenditore può cercare di mettere al riparo il patrimonio personale lecitamente (ad es. evitare di indebitare la propria casa con garanzie inutili). Ma attenzione: qualunque atto fatto dolosamente per sottrarre beni ai creditori può essere revocato o costituire reato (es. donare la casa al coniuge quando l’azienda affonda è tipico caso di azione revocatoria in fraudem creditorum e potrebbe integrare sottrazione fraudolenta ex art.11 D.lgs. 74/2000 se ci sono debiti fiscali).
- Conoscere i propri doveri: ad esempio, se si accumulano debiti IVA sopra soglia, capire che è reato e agire (pagare o concordare) prima che scatti la denuncia obbligatoria da parte dell’Agenzia Entrate (che di solito parte dopo la scadenza del termine di pagamento del periodo d’imposta).
In sintesi, il quadro normativo attuale, pur dando opportunità di risanamento, pretende che l’imprenditore in crisi sia diligente e leale: chi lo è può uscirne anche attraverso la procedura concorsuale (magari ottenendo l’esdebitazione se persona fisica); chi invece tenta scorciatoie illecite, rischia di aggravare la propria posizione con condanne penali e richieste risarcitorie.
Esempi pratici di gestione del debito aziendale
Per comprendere meglio come queste norme si traducano nella realtà, presentiamo due scenari pratici riguardanti un’azienda di oli lubrificanti industriali alle prese con debiti. Sono simulazioni (immaginarie ma verosimili) utili a illustrare le strategie possibili e le conseguenze delle scelte.
Esempio 1: Ristrutturazione con accordo e continuità aziendale
Situazione iniziale: La LubriTech S.r.l. opera da 15 anni nel commercio di oli lubrificanti. Nel 2024 subisce un forte calo di fatturato a causa della contrazione del settore automotive. Arriva a fine 2024 con debiti per circa €800.000, di cui €300k con banche (scoperti di c/c e leasing), €200k verso fornitori, €150k di debiti tributari (IVA di due trimestri non versata e ritenute), €50k verso dipendenti (straordinari e ferie maturate), il resto vari. L’attivo consiste in scorte per €100k, crediti verso clienti €200k (incasso a 120gg) e pochi beni (magazzino in affitto, attrezzature modeste). Il 2024 si chiude in perdita e il capitale sociale è eroso oltre un terzo.
Gli amministratori si accorgono che senza interventi LubriTech diverrà insolvente: a inizio 2025 non hanno liquidità per pagare l’IVA dovuta né i fornitori chiave (rischiano stop forniture). Inoltre la banca segnala sconfino.
Azione intrapresa: A febbraio 2025 LubriTech si rivolge a un advisor finanziario e a un legale esperto in crisi. Dopo analisi, decidono di tentare una composizione negoziata della crisi: nominano un esperto indipendente iscritto nell’elenco tenuto dalla Camera di Commercio. Con l’esperto, elaborano un piano di ristrutturazione: prevede che un investitore collegato (un fornitore strategico di basi lubrificanti) entri al 51% con un apporto di €200.000, a condizione di ridurre il debito pregresso. LubriTech prepara quindi un accordo di ristrutturazione dei debiti: offre ai creditori chirografari (fornitori, parte banca chirografa) il pagamento del 60% del dovuto in 24 mesi; la banca accetta di consolidare lo scoperto in un mutuo a 5 anni (garantito dall’investitore); l’Erario – con l’aiuto dell’esperto – viene coinvolto per una transazione fiscale in cui accetterebbe il 50% dei €150k in 5 anni, con stralcio di sanzioni. I dipendenti, creditori privilegiati, verranno pagati integralmente con l’ingresso di finanza fresca dell’investitore.
Sviluppo: Grazie alla composizione negoziata, LubriTech ottiene misure protettive dal tribunale (blocco temporaneo dei creditori). In aprile 2025 raggiunge il consenso del 75% dei creditori (banche e fornitori maggiori firmano l’accordo). L’Agenzia delle Entrate, inizialmente contraria a rinunciare al 50%, viene convinta mostrando che in un fallimento prenderebbe forse il 20%. Si giunge a un compromesso: il Fisco accetta una transazione al 60% (cioè €90k su 150k). A maggio, LubriTech deposita l’accordo di ristrutturazione con l’adesione del 75% dei crediti e chiede l’omologazione. Il Tribunale verifica che i creditori estranei (il 25% che non ha firmato) verranno comunque pagati per intero entro 120 giorni dall’omologazione grazie all’apporto del nuovo socio, come attestato dall’esperto. A luglio 2025, l’accordo è omologato.
Esito: LubriTech esce dalla crisi: l’investitore immette €200k con cui vengono pagati i creditori estranei e parzialmente iniziano i pagamenti concordati; la produzione prosegue, il nome dell’azienda non ha subito il disonore di un fallimento (agli occhi del mercato è passato quasi come un aumento di capitale e ristrutturazione debiti “privata”). Il Fisco ottiene il suo 60% dilazionato: LubriTech si impegna a versare puntualmente l’IVA corrente per non incorrere in nuove violazioni. Dopo due anni, la società è risanata e onora l’ultimo pagamento dell’accordo: i debiti pregressi residui sono stati stralciati in base all’accordo e non sono più esigibili. Gli amministratori hanno evitato sia responsabilità penali (nessun reato, avendo concordato col Fisco prima che scattassero denunce) sia azioni di responsabilità (i creditori sono stati soddisfatti o hanno accettato riduzione volontariamente).
Morale: in questo scenario virtuoso, l’utilizzo tempestivo di strumenti di allerta e di un accordo giudiziale ha permesso di difendere l’azienda dai debiti senza procedure traumatiche. La chiave è stata la collaborazione tra debitore e creditori e la presenza di un soggetto disposto a investire (spesso imprescindibile per convincere i creditori a tagliare parte del credito). Il punto di vista del debitore qui è proattivo: riconosce il problema e agisce, ottenendo l’effetto di salvare l’impresa e tagliare i debiti con l’avallo del tribunale.
Esempio 2: Liquidazione e conseguenze di una gestione tardiva
Situazione iniziale: La OilService S.p.A. è un’azienda più grande, con 30 dipendenti e un fatturato in calo. Nel 2023 accumula perdite, ma gli amministratori confidano in una ripresa. Per far fronte alla cassa, smettono di versare l’IVA e i contributi nel secondo semestre 2023, accumulando €400.000 di debiti fiscali (IVA di un anno intero, ritenute non versate). Altri debiti: €500k con banche (mutui garantiti da ipoteca su capannone), €300k fornitori. A inizio 2024 OilService è tecnicamente insolvente: il magazzino è pieno di prodotti invenduti, i clienti pagano a rilento. Eppure, il CDA decide di “tirare avanti” sperando in una commessa che forse arriverà. Non attiva procedure di allerta né informa i creditori.
Peggioramento: La situazione precipita: la commessa non arriva, a metà 2024 i fornitori iniziano a mettere in mora OilService. L’INPS denuncia il mancato versamento di contributi per oltre €200k. Un ex dipendente fa causa per mancato TFR. A settembre 2024 la società non ha più liquidità e ferma la produzione. I debiti totali ora superano €1,5 milioni. Solo allora i soci si rendono conto che la società è spacciata e deliberano la liquidazione volontaria a ottobre 2024, nominando un liquidatore (uno dei soci). Pensano: “evitiamo il fallimento e chiudiamo noi in silenzio”.
Liquidazione volontaria: Il liquidatore inizia a vendere quel che può: realizza €200k vendendo una linea di miscelazione usata e un paio di automezzi. Con questi soldi, sceglie di pagare integralmente le banche garantite (perché c’è ipoteca sul capannone e vuole liberarlo) e alcuni fornitori locali ritenuti “amici” (temendo denunce). Non paga invece IVA e contributi, né alcuni fornitori lontani. Vende anche il capannone a dicembre 2024 per €600k: dalle vendite riesce a recuperare in totale €900k. Dopo aver onorato la banca (€400k con interessi) e pagato selettivamente €100k di fornitori “amici”, resta un attivo di circa €400k. Con esso dovrebbe pagare preferibilmente dipendenti e Fisco, ma oramai i dipendenti hanno avuto accesso al fondo di garanzia INPS (per TFR e 3 mensilità) e l’Erario ha iscritto ipoteca sui beni (per fortuna già venduti, ma ora potrebbe rivalersi sui saldi). Il liquidatore, su pressione dei soci, decide comunque di distribuire quel residuo di €400k ai soci stessi (che negli anni avevano finanziato l’azienda con versamenti soci e vogliono riprendersi qualcosa). A febbraio 2025 approva il bilancio finale di liquidazione e presenta domanda di cancellazione al Registro Imprese, assicurando (falsamente) che tutti i debiti conosciuti sono stati pagati o che ci sono accordi.
Intervento dei creditori: L’Agenzia delle Entrate e l’INPS – rimasti a bocca asciutta di circa €400k – non ci mettono molto a reagire. Già a marzo 2025 depositano un’istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) di OilService, segnalando che la società è insolvente e che la liquidazione volontaria si è conclusa senza soddisfare largamente il Fisco. Il Tribunale, accertato che l’insolvenza esisteva già prima della cancellazione e che la domanda è entro l’anno, dichiara il fallimento di OilService S.p.A. ad aprile 2025, nominando un curatore.
Conseguenze legali:
- Il curatore fallimentare revoca le rimesse ai soci: quei €400k distribuiti vengono richiesti indietro (azione ex art. 2495 c.c. e revocatoria fallimentare perché atti a titolo non proporzionale ai crediti). I soci, che pensavano di aver salvato il salvabile, ora sono costretti a restituire le somme (entro i limiti di quanto ricevuto) per riportarle nell’attivo fallimentare .
- Il curatore intraprende un’azione di responsabilità contro il liquidatore (e di riflesso contro gli amministratori precedenti): contesta che hanno violato la par condicio pagando fornitori amici e banca (oltre quanto avrebbe avuto in fallimento) e lasciando a secco il Fisco e gli altri. Chiede danni per €X, pari al deficit aggravato. Sarà il giudice civile a valutare, ma intanto il liquidatore rischia il proprio patrimonio.
- Sul fronte penale, la Procura apre un’indagine: innanzitutto per bancarotta preferenziale (hanno favorito taluni creditori su altri in situazione di insolvenza conclamata) e forse bancarotta fraudolenta patrimoniale per la distrazione dei €400k ai soci invece di pagare i debiti . Inoltre, emergono le omissioni fiscali: il legale rappresentante era lo stesso socio-liquidatore, quindi viene imputato per omesso versamento IVA e omesse ritenute (superiori alle soglie) relativamente al 2023. La difesa cercherà di sostenere che era una crisi non fraudolenta ma inevitabile – ciò può aiutare per attenuanti generiche, ma le fattispecie di reato paiono integrate. A peggiorare il quadro, l’aver venduto il capannone ipotecato e usato i soldi per altro potrebbe configurare anche sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (avendo l’Erario ipoteca legale per Equitalia, la destinazione delle somme ai soci potrebbe essere vista come atto fraudolento in danno al Fisco).
- L’ex amministratore delegato (socio di minoranza, estraneo alla gestione finale) chiede l’esdebitazione personale post-fallimento: essendo persona fisica fallita (il fallimento estende gli effetti a chi aveva poteri di gestione?), potrebbe in teoria chiederla, ma per gli amministratori di società di capitali non è applicabile l’esdebitazione, vale solo per il fallito imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile. Dunque i debiti eventualmente a loro carico (se hanno garanzie personali) rimangono, salvo scaricarsi su chi garantì (spesso le banche escuteranno i garanti per il mutuo residuo).
- I dipendenti, fortunatamente, hanno avuto il fondo di garanzia per TFR, e il curatore pagherà in prededuzione i contributi ai fondi.
- Il nome di OilService finisce sui giornali locali come “dichiarata fallita”, con danno reputazionale per i soci.
Esito: OilService cessa di esistere; i creditori concorsuali recuperano qualcosa dal fallimento (il curatore grazie alle revocatorie e alle cause recupera, ipotizziamo, €300k, che distribuisce pro quota: il Fisco incassa ad es. €150k su 400k, fornitori non pagati prendono un 20%). I soci perdono il capitale e in più devono restituire i €400k. Il liquidatore e gli amministratori affrontano lunghe cause e possibili condanne penali (bancarotta preferenziale comporta fino a 2 anni, fraudolenta fino a 10 anni; omessi versamenti fino a 2 anni ma multipli, possibili cumuli o continuazione di reato). Alla fine, i principali responsabili patteggiano la pena (diciamo 2 anni con sospensione condizionale) restituendo parte delle somme.
Morale: in questo scenario, tentare di evitare le procedure formali ha portato a esiti peggiori. Dal punto di vista del debitore, non affrontare subito la crisi e anzi agire in modo disordinato ha causato: fallimento comunque, sanzioni penali, perdite maggiori per soci e responsabilità risarcitorie. Se OilService avesse, già a metà 2023, ammesso la gravità e ad esempio tentato un concordato preventivo, forse avrebbe potuto vendere il capannone sotto egida del tribunale e soddisfare meglio i creditori, senza incorrere in reati. Oppure presentando istanza di autofallimento appena fermata l’attività, i liquidatori si sarebbero evitati l’accusa di bancarotta preferenziale perché il curatore avrebbe gestito i pagamenti secondo legge.
Questi esempi insegnano che la strategia difensiva migliore per un imprenditore indebitato è la tempestività e la legalità: usare gli strumenti previsti (dilazioni, accordi, concordato) piuttosto che farsi “giustizia privata” pagando chi capita; e, se proprio si arriva al capolinea, collaborare col tribunale invece di nascondere la polvere sotto il tappeto.
Domande frequenti (FAQ)
Di seguito una serie di domande e risposte sintetiche che ricapitolano i punti chiave della guida dal punto di vista pratico, in modo da chiarire i dubbi più comuni di imprenditori e privati alle prese con debiti aziendali.
D: La mia azienda ha solo debiti fiscali (IVA, contributi) molto elevati: posso evitare il fallimento?
R: Sì, è possibile evitare la liquidazione giudiziale se si interviene in modo strutturato. Puoi ad esempio proporre un concordato preventivo in cui ristrutturi quei debiti (pagandoli parzialmente secondo un piano). Oggi la legge permette addirittura di omologare il concordato senza il consenso dell’Agenzia Entrate, a condizione che la proposta sia conveniente per il Fisco rispetto al fallimento . In alternativa, puoi cercare un accordo di ristrutturazione con transazione fiscale (ma lì serve adesione formale del Fisco). Prima di tutto considera strumenti come la rateizzazione o la rottamazione se applicabili, per ridurre lo stress finanziario. Se la situazione è oltre il punto di non ritorno e non c’è un piano sostenibile, a volte la soluzione meno dannosa è l’autofallimento (chiedere tu stesso la liquidazione giudiziale) per evitare ulteriori aggravi di debiti e responsabilità per ritardo.
D: Ho ricevuto cartelle esattoriali per IVA non pagata e altri tributi. Posso difendermi dal pignoramento del conto bancario?
R: Puoi presentare istanza di rateizzazione all’Agente della Riscossione: una volta concessa la dilazione, i pignoramenti in corso (su conti, stipendi ecc.) vengono sospesi e finché paghi le rate non ne iniziano di nuovi. In alternativa, se rientri nella definizione agevolata (rottamazione), presentare domanda blocca anch’essa le azioni esecutive fino alla scadenza per il pagamento della prima rata . Se il pignoramento è già avvenuto, hai 60 giorni dalla notifica della cartella per pagare prima che possano bloccarti il conto; ottenere la rateazione entro quel termine impedisce il prelievo forzoso. In casi estremi, se l’azienda entra in concordato preventivo o altra procedura concorsuale, tutti i creditori (incluso il Fisco) sono sospesi e il conto protetto dalle azioni esecutive per legge. Quindi la difesa è: utilizza gli strumenti dilatori/deflattivi (rateizzo, ricorso se il debito è contestabile, rottamazione) e, se il rischio è imminente e la somma alta, valuta l’accesso a una procedura concorsuale che “congeli” il conto.
D: L’Agenzia delle Entrate può opporsi al mio piano di concordato e farlo fallire?
R: In passato poteva farlo più facilmente: se votava no e rappresentava una percentuale rilevante dei crediti, il concordato veniva normalmente respinto. Oggi però, grazie alla sentenza Cass. 27782/2024, il tribunale può forzare l’omologazione (“cram down”) anche con il Fisco contrario, purché tu dimostri che il Fisco incasserebbe di più col concordato che dal fallimento . Questo ha ridotto il potere di veto dell’Erario. Significa che se il tuo piano è seriamente conveniente (es. offri al Fisco il 30% subito mentre in fallimento stimano 10% incerto), hai buone chance che il giudice lo omologhi anche col “no” dell’Erario. Resta però fondamentale strutturare bene la transazione fiscale: dovrai coinvolgere l’Agenzia nel dialogo, fornire dati, far emergere chiaramente la convenienza. Se invece il tuo piano offre al Fisco troppo poco (rispetto a beni liquidabili), allora il giudice potrebbe dar ragione all’Erario. Quindi la risposta è: no, il Fisco non ha più un veto assoluto come un tempo , ma il tuo piano deve rispettare la condizione di non peggiorare la sua posizione rispetto a una liquidazione.
D: Quali debiti verso lo Stato posso ridurre legalmente e quali devo pagare per forza?
R: In generale, tutti i debiti tributari possono essere oggetto di dilazione o definizioni agevolate (quando previste), ma non tutti si possono falcidiare in procedura concorsuale. Ad esempio, storicamente l’IVA e le ritenute erano intoccabili (dovevano essere pagate al 100% nei concordati, salvo interessi e sanzioni). Oggi, con la transazione fiscale, puoi proporre di pagarle parzialmente ma almeno pari a quel che otterrebbero in caso di fallimento; se rispetti ciò, come detto, puoi ridurre anche IVA e contributi . Debiti come sanzioni tributarie e interessi sono generalmente più facilmente sacrificabili: spesso nei piani si paga il tributo e si stralcia quasi tutta la sanzione. Ci sono però debiti non falcidiabili per legge neanche nel concordato: ad esempio l’IVA non inclusa in transazione fiscale (ma conviene includerla per poterla trattare). Fuori dalle procedure, nessun funzionario pubblico può farti uno “sconto” spontaneo sul tributo: puoi ottenere riduzioni solo tramite legge (rottamazioni, condoni) o sentenza (se avevi ragione tu nel merito in un ricorso tributario). Quindi legalmente puoi ridurre carichi affidati a Equitalia tramite rottamazione (niente sanzioni e interessi), puoi ottenere stralci di tributo in concordato/accordo se omologati, ma non puoi ad esempio convincere l’Agenzia a rinunciare a metà dell’IVA fuori da queste ipotesi.
D: Cosa rischio se non pago l’IVA o le ritenute dei dipendenti?
R: Rischi inizialmente sanzioni amministrative (30% imposta, interessi) e azioni di recupero (cartelle, pignoramenti). Ma se l’importo supera certe soglie (IVA > €250k annui; ritenute > €150k) e non lo versi entro la scadenza di legge, commetti un reato. Sarai passibile di processo penale con pena fino a 2 anni di reclusione . Non pagare i contributi INPS dei dipendenti è anch’esso reato oltre soglie (oggi > €10k per periodo): può comportare sanzioni penali minori o solo amministrative a seconda dell’importo e della condotta (la disciplina è leggermente diversa, ma concettualmente simile alle ritenute fiscali). Inoltre, come amministratore potresti subire misure cautelari personali (in casi di importi enormi, le procure a volte chiedono interdizione a gestire aziende). La miglior difesa è pagare almeno parzialmente e spiegare/dimostrare che non c’era volontà di evasione. Tieni conto che se riesci a pagare integralmente il dovuto prima del processo, il reato viene dichiarato estinto . Quindi, se ti accorgi di aver superato la soglia, cerca disperatamente le risorse per rientrare (anche un mutuo, pur di non avere il penale). Se non riesci, predisponi sin da subito – con l’aiuto di un avvocato – la documentazione che attesti che hai agito per necessità (ad esempio, hai pagato i dipendenti invece del fisco per tenere viva l’azienda). Non è una giustificazione scriminante, ma può servire per ottenere pene lievi o soluzioni alternative (es. patteggiamento).
D: La mia S.r.l. è di fatto fallita. Mi conviene fare una liquidazione volontaria per evitarlo?
R: Se sei certissimo di poter pagare tutti i creditori con la liquidazione volontaria, allora sì, fallo: chiudi l’azienda in bonis evitando il tribunale. Ma se i tuoi attivi non copriranno i debiti, la liquidazione volontaria non impedirà il fallimento: come visto, i creditori insoddisfatti potranno chiedere il fallimento entro 1 anno dalla cancellazione . Inoltre, tu (come liquidatore) rischi responsabilità se chiudi lasciando debiti non pagati. Quindi conviene la liquidazione volontaria solo se prevedi un soddisfacimento almeno quasi integrale dei crediti. In caso contrario, è più saggio valutare un concordato o direttamente un auto-fallimento. La liquidazione volontaria non è uno scudo magico: è solo un modo di avviare la chiusura. Molti imprenditori scelgono di liquidare volontariamente sperando di evitare il marchio di fallito; a volte funziona (specie se il 90% dei creditori viene soddisfatto e i rimanenti magari non si attivano). Ma è un azzardo: basta un creditore non pagato che faccia istanza, e il tribunale aprirà la procedura giudiziale comunque. Quindi la regola: liquidazione volontaria se solvibilità vicina, procedure concorsuali se insolvenza conclamata.
D: Qual è la differenza tra concordato preventivo e fallimento, in breve?
R: Molto in breve: il concordato preventivo lo chiedi tu debitore quando sei in crisi, proponendo ai creditori un accordo sotto il controllo del tribunale per evitare il fallimento. Mantieni una certa gestione, tagli i debiti secondo un piano e, se riesci, l’azienda sopravvive (o viene liquidata ordinatamente con percentuali ai creditori). Il fallimento invece è imposto (o scelto come auto-fallimento): perdi il controllo, arriva un curatore a liquidare tutto e l’impresa cessa. Nel concordato sei parte attiva e normalmente vieni “perdonato” del debito residuo se rispetti il piano; nel fallimento subisci la procedura e la società muore (tu come imprenditore individuale puoi essere liberato dai debiti residui con esdebitazione, ma la società no perché sparisce). Inoltre, il concordato di solito ti permette di evitare i reati di bancarotta (perché non c’è dichiarazione di fallimento), mentre col fallimento scatta l’eventuale bancarotta per fatti precedenti. In sintesi: concordato = soluzione negoziata e conservativa, fallimento = soluzione autoritativa e liquidativa.
D: Se la mia azienda fallisce, i debiti restanti chi li paga?
R: Se è una società di capitali (srl, spa), nessuno: i crediti insoddisfatti nel fallimento restano inesigibili e la società si estingue. I creditori non potranno più rivalersi se non, come detto, sui soci per eventuali somme percepite in liquidazione o su amministratori/liquidatori per colpe (ma questa è una loro azione di responsabilità, non significa che i debiti “passano” ai soci). Se sei un imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile di una società di persone, allora il tuo fallimento personale accompagna quello dell’azienda e dopo la chiusura potrai chiedere l’esdebitazione: il tribunale, constatato che hai cooperato, cancellerà tutti i debiti residui non pagati . Quindi otterrai un fresh start (salvo debiti alimentari o pochi altri esclusi). Dunque, nel fallimento societario i debiti muoiono con la società (salvo malversazioni che portano a responsabilità di amministratori); nel fallimento personale i debiti possono essere cancellati se segui la procedura di esdebitazione. In ogni caso, i creditori non possono pretendere oltre quanto il fallimento ha distribuito, a meno che non trovino altri coobbligati (es. un fideiussore: la banca che ha avuto solo il 30% in fallimento può rivalersi sul garante per il restante 70%).
D: Come posso proteggere il mio patrimonio personale dai debiti della società?
R: La forma societaria (SRL, SPA) già ti protegge nel senso che i soci non rispondono con il loro patrimonio, a meno di garanzie date o di comportamenti illeciti. Tuttavia, molti imprenditori, come detto, firmano fideiussioni personali: quelle ti legano direttamente. Una strada è cercare di liberarti delle fideiussioni (ad esempio proponendo nuovo garante, o riduzione esposizione) quando ristrutturi i debiti dell’azienda. In un concordato, potresti negoziare con la banca la liberazione dei garanti in cambio di un pagamento migliore. Inoltre, evita di mischiare conti personali e aziendali: prelievi continui per fini personali in crisi possono esporti ad azioni dei creditori (revocatorie) o accuse di distrazione. Se possiedi beni personali importanti (es. casa di proprietà), valuta di metterli in sicurezza prima che la situazione degeneri: ad esempio, costituzione di un fondo patrimoniale o trust familiare. Attenzione però: se fatto in prossimità della crisi e con intento di sottrarre ai creditori, questi atti sono revocabili e potenzialmente fraudolenti. I tempi sono essenziali: proteggere il patrimonio quando l’impresa va bene è lecito pianificare; farlo quando sei già insolvente è quasi certamente illecito. Quindi consigli: mantieni distinta la persona dalla società (non usare conti sociali per spese personali), valuta assicurazioni (polizza D&O) che possano coprire danni, e soprattutto segui percorsi legali di risanamento. Se la società si salva, anche il tuo patrimonio è salvo; se fallisce ma senza strascichi di responsabilità, nessuno potrà aggredire i tuoi beni personali (salvo tu fossi garante). Occhio però che se sei amministratore e hai gestito male (es. non pagando tasse per pagare te stesso stipendi spropositati), il curatore potrebbe farti causa. Quindi proteggere il patrimonio passa anche dal comportarsi in modo irreprensibile, così da non dare appigli a cause.
D: Cosa succede ai dipendenti se l’azienda non può pagarli e magari fallisce?
R: I dipendenti hanno tutele particolari. Se l’azienda proprio non può pagarli e finisce in procedura concorsuale, potranno attingere al Fondo di Garanzia INPS per il pagamento del TFR maturato e delle ultime retribuzioni (massimo 3 mensilità) . Nel fallimento, i crediti dei lavoratori per stipendi degli ultimi 6 mesi e TFR di tutta la durata sono crediti privilegiati di grado molto alto (soddisfatti subito dopo le spese di procedura). Quindi di solito i lavoratori recuperano prima di altri creditori (se c’è qualcosa da distribuire). In un concordato, di regola devono essere pagati al 100% (o comunque non meno di quanto avrebbero in fallimento, che di solito è 100% fino alle privilegiate). Se l’azienda continua, un concordato in continuità prevede spesso la conservazione dei posti di lavoro (può anche esserci cassa integrazione speciale durante la procedura). Dunque, il consiglio per tutelare i lavoratori – anche dal tuo punto di vista di debitore che vuole fare la cosa giusta – è di includere sempre nel piano soluzioni per loro: es. anticipare il TFR dal Fondo INPS, oppure assicurare che vengano pagati integralmente. Dal lato dei dipendenti, se vedono che l’azienda non paga, possono fare decreti ingiuntivi e anche istanza di fallimento. Quindi per difenderti dal rischio che un dipendente ti “faccia fallire”, cerca un dialogo: spiega la situazione, fai accordi transattivi magari, oppure paga almeno le mensilità correnti e trovi un modo per il pregresso (ad esempio, con il Fondo Garanzia). Ricorda: il mancato pagamento di stipendi non è reato di per sé, ma può portare a sanzioni amministrative e a dimissioni per giusta causa dei lavoratori, aggravando la crisi. Dunque è un problema da gestire con priorità quasi pari al Fisco.
D: Cos’è la bancarotta fraudolenta?
R: È un reato fallimentare gravissimo che punisce le condotte dolose dell’imprenditore a danno dei creditori, commesse prima o durante la procedura di fallimento. In pratica, se la tua azienda viene dichiarata fallita e risulta che tu hai sottratto o nascosto beni dell’azienda, o li hai dissipati, o hai creato falsi debiti, o hai tenuto la contabilità in modo da non farci capire nulla di dove sono finiti i soldi, allora commetti bancarotta fraudolenta . Idem se durante il fallimento nascondi qualcosa al curatore. Anche pagare preferenzialmente un creditore amico rispetto agli altri può essere bancarotta fraudolenta (forma preferenziale) se fatto con dolo di favoritismo quando eri già insolvente . Le pene come detto sono fino a 10 anni di reclusione, quindi paragonabili a reati di stampo delinquenziale. Lo Stato lo considera infatti quasi un “furto” ai danni della massa dei creditori. Come evitarla? Comportati onestamente: non spostare asset a titolo personale, non falsificare i libri, non creare debiti finti. Se hai venduto dei beni aziendali poco prima del fallimento, sii pronto a spiegare perché l’hai fatto a quel prezzo e dove sono andati i soldi (se li hai usati per l’azienda, ok; se li hai messi nel tuo conto alle Cayman, ecco la bancarotta). È semplice in teoria: non fare il furbo con il patrimonio aziendale una volta che sai di non poter pagare tutti. C’è anche la bancarotta semplice, meno grave, se hai aggravato la situazione per negligenza (es. hai fatto spese personali eccessive): quella è punita meno severamente (max 2 anni) . In sintesi: la bancarotta è il rischio penale concreto se la tua impresa fallisce; la prevenzione è tenere le carte in ordine e non tentare di nascondere i beni ai creditori.
D: La banca mi ha chiesto una fideiussione personale per dare credito all’azienda. Ora siamo in crisi: posso fare qualcosa per non rimetterci la casa?
R: Purtroppo, se la fideiussione è valida, la banca può escuterti se la società non paga. Un concordato preventivo dell’azienda non libera il fideiussore: la banca anche se aderisce al concordato (dove magari prende 60%) potrebbe chiedere a te come garante il restante 40%. La soluzione migliore è trattare con la banca nell’ambito della ristrutturazione: chiedi di liberarti dal vincolo in cambio di qualcosa (es. una percentuale maggiore pagata subito in concordato, oppure la sostituzione con altra garanzia reale). A volte, se la banca vede che rischia lungo in fallimento, accetta nel concordato un saldo e stralcio comprensivo della liberazione del garante. Legalmente, senza accordo, tu garante rimani obbligato: dopo che l’azienda fallisce o chiude, la banca ti manderà decreto ingiuntivo e potrà pignorare i tuoi beni (casa, stipendio etc.) per soddisfarsi. Se poi anche tu non paghi, rischi il fallimento personale se sei imprenditore o la liquidazione del patrimonio se sovraindebitato come consumatore. Quindi non ignorare la tua posizione: includila nel piano di risanamento. Ad esempio, se vedi che la società non si salva, considera la possibilità di attivare anche tu come persona una procedura da sovraindebitato (tipo un accordo del consumatore) per trattare quel debito. In definitiva: la casa di solito è ipotecata se hai dato fideiussione importante; valuta se puoi venderla tu prima che lo faccia la banca, così magari realizzi un valore maggiore e chiudi la posizione (la banca ovviamente deve essere d’accordo a liberare l’ipoteca a fronte del pagamento). Non c’è bacchetta magica, è un terreno di negoziazione. Un consulente legale potrà aiutarti a trovare la strada meno dolorosa (es. moratoria, consolidamento del debito personale).
D: Dopo la chiusura della procedura (fallimento o concordato), posso dire di essermi “liberato” dei debiti?
R: Dipende. Concordato preventivo: sì, dopo aver eseguito il piano concordatario e pagato le percentuali concordate, sei liberato dai debiti anteriori residui (per legge il concordato omologato ed eseguito ha efficacia esdebitatoria, salvo eccezioni per debiti versati da coobbligati, fideiussori e obblighi di mantenimento). Fallimento di società: la società si estingue, quindi i debiti muoiono con essa, ma attenzione a garanzie e responsabili personali come detto. Fallimento persona fisica: devi chiedere l’esdebitazione e otterrai la liberazione dai debiti non soddisfatti (se hai collaborato e non ci sono ragioni ostative). Se non la chiedi, in teoria i creditori potrebbero tornare alla carica sul poco che avessi recuperato dopo – ma la legge attuale è molto pro-debitore nel dare l’esdebitazione. Accordo di ristrutturazione: una volta omologato e adempiuto, i creditori aderenti sono definiti (hanno accettato la falcidia) e quelli estranei li hai dovuti pagare per intero comunque. Quindi sostanzialmente sì, sei liberato (non c’è un provvedimento formalizzato di esdebitazione come nel fallimento, ma l’accordo stesso ha natura novativa). In breve: la difesa finale del debitore onesto è che, seguendo la procedura, potrà ripartire senza lo “zaino di pietre” dei vecchi debiti. Questo è un punto fondamentale: le procedure concorsuali hanno anche la funzione sociale di dare una seconda chance. Se invece cerchi scorciatoie fuori dalla legge, rischi di rimanere imbrigliato nei debiti e nei guai per molto più tempo.
D: Quali sono gli errori più comuni da evitare assolutamente se la mia azienda è in crisi?
R: Riassumiamo i “don’t” principali:
- Non ignorare il problema: far finta di nulla sperando in un miracolo finanziario peggiora solo le cose.
- Non fare pagamenti preferenziali occulti: pagare di nascosto un creditore e non gli altri può portare a revocatorie e bancarotta preferenziale. Se devi privilegiare qualcuno per salvare l’attività (es. fornitore critico), fallo in un contesto legale, ad esempio chiedendo al tribunale l’autorizzazione in pre-concordato.
- Non manipolare le scritture contabili: resistere alla tentazione di “abbellire” il bilancio o di far sparire fatture. Oltre ad essere reato (false comunicazioni sociali se rilevante), ti priva di credibilità proprio quando avresti più bisogno di fiducia da parte di giudici e creditori.
- Non confondere il tuo denaro con quello dell’azienda: prelievi ingiustificati o continuo rifornimento del conto personale a scapito dei fornitori sono lo scenario classico contestato in bancarotta. Mantieni rigore, semmai riduciti lo stipendio in crisi invece di prendere di più.
- Non indebitarti ulteriormente senza prospettive concrete: chiedere nuovi finanziamenti quando sai che non potrai restituirli può configurare truffa ai creditori o aggravamento doloso. Se lo fai, assicurati che sia finalizzato a un piano di rilancio realistico.
- Non aspettare l’ultimo minuto per cercare aiuto professionale: coinvolgi un advisor/avvocato esperto appena capisci che la barca imbarca acqua. Ti aiuterà a scegliere tra accordo, concordato, ecc. Spesso imprenditori arrivano dall’avvocato quando Equitalia è già alla porta: a volte è tardi per soluzioni ordinate.
- Non violare gli obblighi verso i dipendenti in modo gravissimo: ad esempio, non versare per anni i contributi e tenere all’oscuro i lavoratori. Rischi denunce immediate e perdi fiducia interna. Meglio essere trasparenti anche con loro, magari concordare cassa integrazione o riduzione orario temporanea se serve.
- Non fare movimenti patrimoniali sospetti a te o familiari: ad esempio vendere a tua moglie la sede aziendale per un euro. Queste operazioni verranno annullate dal curatore e ti ficcheranno nei guai penali (bancarotta fraudolenta patrimoniale o sottrazione fraudolenta al Fisco).
- Non dimenticare le scadenze fiscali: anche se non puoi pagare, presenta le dichiarazioni (eviterai il reato di omessa dichiarazione) e se possibile paga una parte, o avvisa l’AdE-R che intendi dilazionare. L’inazione totale porta solo a ruoli e denunce.
- Non ostacolare il dialogo con i creditori: se ti nascondi, li spingi a tutelarsi in via giudiziale subito. Meglio metterci la faccia, spiegare la situazione e prospettare che stai studiando soluzioni per tutti (ad esempio anticipa che stai predisponendo un concordato, così frenano nell’aspettativa di una proposta).
Seguire questi consigli non garantisce la salvezza dell’azienda, ma sicuramente ti mette nella posizione migliore per difendere i tuoi diritti e limitare i danni personali. In definitiva, fronteggiare una crisi d’impresa con debiti importanti richiede sangue freddo, consulenza qualificata e rispetto delle regole: usando le leve offerte dalla legge e evitando mosse azzardate, un debitore può spesso uscire dal tunnel e, se proprio deve chiudere, farlo senza lasciare macerie irreparabili dietro di sé.
Fonti e Riferimenti Normativi
- Codice Civile – Artt. 2086, 2394, 2476, 2484-2496 c.c. (doveri dell’imprenditore e degli amministratori, scioglimento e liquidazione delle società, responsabilità verso i creditori) .
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, in vigore dal 15 luglio 2022):
– Parte sulle procedure di allerta e composizione assistita (D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021) – introduzione della composizione negoziata.
– Art. 56 (Piani attestati di risanamento); Artt. 57-64 (Accordi di ristrutturazione dei debiti e transazione fiscale) ; Artt. 84-120 (Concordato preventivo e omologazione, incluso art. 112 terzo comma su omologazione anche senza voto favorevole di classi dissenzienti); Artt. 121-270 (Liquidazione giudiziale, corrispondente al vecchio fallimento).
– Artt. 322-323 CCI (Reati di bancarotta fraudolenta e semplice, pene rispettivamente 3-10 anni e 6 mesi-2 anni) ; Art. 329 CCI (Bancarotta impropria da reato societario).
– Art. 33 CCI (Fallimento entro 1 anno da cessazione attività) ; Art. 208 CCI e seguenti (obblighi di segnalazione della crisi).
– Art. 278 CCI (Esdebitazione del debitore civile meritevole a fine procedura) . - Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) – Normativa antecedente, ancora citata per principi generali: Art. 216 e 217 (bancarotta fraudolenta e semplice) ; Art. 223 (bancarotta impropria degli amministratori); Art. 182-bis e 182-ter (accordi di ristrutturazione e transazione fiscale, ora trasfusi nel CCI).
- Testo Unico Riscossione (DPR 602/1973) – Art. 19 (Rateazione delle cartelle esattoriali, fino a 72/120 rate) .
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari):
– Art. 10-bis (Omesso versamento di ritenute certificate > €150k) .
– Art. 10-ter (Omesso versamento IVA > €250k) .
– Art. 10-quater (Indebita compensazione crediti > €50k).
– Art. 11 (Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, es. distrae beni per evadere il fisco).
– Art. 13 (Cause di non punibilità: pagamento integrale dei debiti tributari prima del dibattimento estingue i reati ex art. 10-bis, 10-ter, 10-quater) . - Legge 197/2022 (Legge di Bilancio 2023) – commi 222-230: “Stralcio” dei debiti fino €1.000 affidati dal 2000-2015 (annullamento automatico al 31/3/2023) ; commi 231-252: Definizione agevolata (rottamazione-quater) dei carichi 2000-2022 .
- Cassazione Civile, Sez. I, 28 ottobre 2024 n. 27782 – Principio di cram down fiscale nel concordato preventivo: il voto contrario del Fisco non impedisce l’omologazione se la proposta assicura a Erario/Enti una soddisfazione superiore a quella ricavabile dalla liquidazione .
- Cassazione Penale, Sez. III, 3 novembre 2025 n. 35840 – Transazione fiscale e confisca: pagamento integrale del debito fiscale come rideterminato da transazione in concordato esclude la confisca del profitto del reato tributario (omesso versamento IVA), perché l’obbligazione è estinta e non vi è profitto illecito residuo . Stabilisce il principio: “se non vi è pretesa tributaria, non vi può essere confisca” .
- Cassazione Penale, Sez. V, 20 ottobre 2025 n. 35403 – (riferimento ipotetico da scenario) conferma che per la bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessario il nesso causale con il fallimento: il dolo di frode basta a consumare il reato .
- Cassazione Civile, varie pronunce 2021-2024 (nn. 3168/2021, 23993/2022, 30435/2022, 12156/2024) – Linea giurisprudenziale costante sulla fallibilità delle società in liquidazione: lo stato di liquidazione non impedisce il fallimento, l’insolvenza va valutata sui rapporti attivo/passivo senza considerare prospettive di continuazione . Confermato che entro 1 anno dalla cancellazione si può dichiarare il fallimento se l’attivo sociale non copre i debiti .
La tua azienda che produce, miscela, importa o distribuisce oli lubrificanti industriali, lubrificanti speciali, oli idraulici, oli per turbine, oli per compressori, lubrificanti sintetici, grassi tecnici, fluidi da taglio, oli motore per flotte e officine, additivi e prodotti per manutenzione industriale si trova oggi in difficoltà a causa dei debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Stai ricevendo solleciti, richieste di rientro, blocco delle forniture, decreti ingiuntivi o minacce di pignoramento da parte di banche, Fisco, INPS, trasportatori, fornitori di basi e additivi o Agenzia Entrate-Riscossione?
Il settore dei lubrificanti industriali è uno dei più difficili da gestire: prezzi delle materie prime in continuo aumento, obbligo di lotti minimi elevati, magazzini impegnativi, costi logistici importanti e clienti che spesso pagano a 60–90 giorni. Un ritardo negli incassi o una riduzione dei fidi bancari può far esplodere una crisi finanziaria seria.
La buona notizia è che la tua azienda può essere salvata, se intervieni subito e nel modo giusto.
Perché un’Azienda di Lubrificanti va in Debito
- aumento dei costi di basi minerali, additivi, contenitori e trasporti
- ritardi nei pagamenti da parte di industrie, officine, rivenditori e GDO
- magazzino immobilizzato tra fusti, IBC, prodotti finiti e semilavorati
- costi elevati di logistica, certificazioni e smaltimento rifiuti
- investimenti in impianti di miscelazione, linee di imbottigliamento e laboratori
- riduzione o revoca delle linee di credito bancarie
- esposizioni onerose verso trasportatori e fornitori strategici
Il vero problema non è la mancanza di clienti: è l’assenza di liquidità immediata.
I Rischi se Non Agisci Ora
- pignoramento del conto aziendale
- blocco dei fidi bancari
- sospensione delle forniture di basi, imballaggi e additivi
- atti esecutivi, decreti ingiuntivi e precetti
- sequestro di magazzino, fusti e semilavorati
- impossibilità di evadere ordini e rispettare contratti
- perdita definitiva dei principali clienti e distributori
Cosa Fare Subito per Difendersi
1. Bloccare immediatamente i creditori
Un avvocato specializzato può:
- sospendere pignoramenti
- bloccare richieste urgenti di rientro
- proteggere conti aziendali e liquidità
- fermare le iniziative dell’Agenzia Riscossione
Prima si mette in sicurezza l’impresa, poi si affrontano i debiti.
2. Analizzare i debiti ed eliminare ciò che non è dovuto
Spesso emergono irregolarità:
- interessi non dovuti
- sanzioni sbagliate o gonfiate
- importi duplicati
- debiti prescritti
- errori e calcoli errati nelle cartelle esattoriali
- commissioni bancarie irregolari
Una parte significativa del debito può essere tagliata o cancellata.
3. Ristrutturare i debiti con piani sostenibili
Le soluzioni più efficaci includono:
- rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
- accordi con fornitori (basi, additivi, packaging)
- rinegoziazione dei fidi bancari
- sospensioni temporanee dei pagamenti
- utilizzo delle definizioni agevolate
4. Utilizzare strumenti legali che bloccano TUTTI i creditori
Per le crisi più serie si possono attivare:
- PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
- Accordi di ristrutturazione dei debiti
- Concordato minore
- (nei casi estremi) Liquidazione controllata
Con questi strumenti l’azienda può continuare a lavorare pagando solo una parte dei debiti, sospendendo ogni azione esecutiva.
Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo
Per gestire una crisi nel settore lubrificanti serve un professionista con competenze elevate.
L’Avv. Monardo è:
- Avvocato Cassazionista
- Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012) – iscritto negli elenchi del Ministero della Giustizia
- Professionista fiduciario di un OCC (Organismo di Composizione della Crisi)
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Un profilo perfetto per bloccare creditori, ridurre debiti e salvare aziende che operano nel settore degli oli lubrificanti industriali.
Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo
- analisi immediata della tua esposizione debitoria
- blocco urgente di pignoramenti e decreti ingiuntivi
- eliminazione dei debiti non dovuti
- ristrutturazione completa del debito
- tutela di magazzino, impianti, scorte e produzione
- trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
- protezione totale dell’azienda e dell’amministratore
Conclusione
Avere debiti nella tua azienda di oli lubrificanti industriali non significa essere destinati alla chiusura.
Con una strategia rapida, professionale e completamente legale, puoi:
- fermare immediatamente i creditori,
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- salvare magazzini, ordini e continuità produttiva,
- proteggere il futuro della tua attività.
Agisci ora.
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