Se la tua azienda produce, importa o distribuisce collanti industriali, adesivi strutturali, colle poliuretaniche, epossidiche, acriliche, sigillanti, primer e prodotti tecnici per edilizia, falegnameria, packaging, automotive e industria, e oggi si trova con debiti verso Fisco, Agenzia delle Entrate Riscossione, INPS, banche o fornitori, è essenziale agire subito per proteggere la continuità operativa.
Nel settore dei collanti industriali, ritardi nelle forniture possono bloccare intere linee produttive, fermare cantieri, generare penali e compromettere rapporti commerciali consolidati.
Perché le aziende di collanti industriali accumulano debiti
- aumento dei costi di resine, solventi, catalizzatori e materie prime chimiche
- rincari nei trasporti e nelle importazioni
- pagamenti lenti da parte di clienti industriali, falegnamerie e imprese edili
- ritardi nei versamenti di IVA, imposte e contributi
- magazzini complessi con formulazioni diverse, lotti e scadenze
- difficoltà nell’ottenere fidi bancari adeguati ai cicli di approvvigionamento
Cosa fare subito
- far analizzare da un professionista l’intera situazione debitoria
- individuare quali debiti possono essere ridotti, contestati o rateizzati
- evitare piani di rientro che soffocano la liquidità aziendale
- richiedere immediatamente la sospensione di eventuali pignoramenti
- proteggere rapporti con fornitori strategici e materiali chimici critici
- usare strumenti legali per ristrutturare o rinegoziare i debiti
I rischi se non intervieni tempestivamente
- pignoramento del conto corrente aziendale
- blocco delle forniture di resine, solventi e componenti essenziali
- impossibilità di evadere ordini verso industrie e cantieri
- perdita di clienti storici e rivenditori tecnici
- rischio concreto di chiusura dell’attività
Come può aiutarti l’Avvocato Monardo
Detto questo, l’avvocato Monardo, cassazionista, coordina un team nazionale di avvocati e commercialisti specializzati in diritto bancario e tributario.
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- professionista fiduciario presso un OCC – Organismo di Composizione della Crisi
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
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Introduzione
Le aziende in difficoltà finanziaria – come nel caso di una società operante nel settore dei collanti industriali gravata da debiti – si trovano ad affrontare una serie di problemi complessi. Nel comparto delle colle e adesivi industriali, i costi delle materie prime chimiche sono elevati, occorrono attrezzature specialistiche e i clienti (es. imprese manifatturiere) spesso pagano con ritardo. Basta un calo di liquidità o un aumento imprevisto dei costi delle resine per generare debiti fiscali, insoluti verso fornitori e banche, contributi previdenziali non versati e, in prospettiva, il rischio concreto di fallimento (oggi tecnicamente denominato liquidazione giudiziale). In questo contesto, è fondamentale che l’imprenditore comprenda come difendersi dai creditori e quali strumenti giuridici abbia a disposizione per evitare la fine dell’attività. Occorre un approccio tempestivo e strategico, sfruttando le opportunità offerte dalla normativa italiana più aggiornata (fino a ottobre 2025) e tenendo conto delle più recenti pronunce giurisprudenziali.
Dal punto di vista del debitore, questa guida fornisce un quadro avanzato ma dal taglio divulgativo su come gestire una situazione di crisi d’impresa. Verranno analizzate le principali tipologie di debiti aziendali (fiscali, verso fornitori, bancari, previdenziali), evidenziandone le conseguenze legali. Si esamineranno poi le strategie per evitare il fallimento/liquidazione, incluse le soluzioni di ristrutturazione del debito previste dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII, D.Lgs. 14/2019 e successive modifiche). In particolare, discuteremo strumenti come la composizione negoziata, il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti e il concordato preventivo, senza tralasciare le innovazioni introdotte di recente (ad esempio, le varianti agevolate o ad efficacia estesa degli accordi, il cram down fiscale e il concordato semplificato). Inoltre, verranno illustrati i metodi per difendersi dalle azioni esecutive dei creditori (pignoramenti, decreti ingiuntivi, istanze di fallimento), comprese le possibilità di opposizione e le misure protettive ottenibili. Infine, affronteremo gli eventuali profili di responsabilità di cui il debitore e gli amministratori dell’azienda devono essere consapevoli – come i reati fallimentari, tributari e societari connessi alla situazione debitoria – al fine di evitarli con una condotta conforme alla legge.
La guida è strutturata in modo da risultare utile sia a professionisti legali (avvocati, consulenti) sia a imprenditori e privati, con un linguaggio giuridico accurato ma spiegato in termini comprensibili. Troverete, oltre alle sezioni teoriche, anche tabelle riepilogative che confrontano i diversi strumenti e sintetizzano le caratteristiche dei debiti, esempi pratici che simulano casi reali, e una sezione di Domande e Risposte frequenti. Tutte le informazioni sono aggiornate alla normativa vigente nell’ottobre 2025 e supportate da fonti autorevoli e sentenze recenti, elencate in fondo alla guida per approfondimento . L’obiettivo è fornire un vademecum avanzato per il debitore d’impresa indebitato, indicando cosa fare per difendersi legalmente, come procedere in concreto e quali errori evitare per non aggravare la propria posizione.
Nota sul termine “fallimento”: per facilità espositiva useremo talvolta il termine tradizionale “fallimento”, intendendo tuttavia la procedura oggi denominata liquidazione giudiziale nel Codice della crisi d’impresa. Parimenti, parleremo di azienda di collanti industriali come esempio concreto di PMI in crisi, ma le indicazioni fornite valgono in generale per qualsiasi impresa commerciale che si trovi in condizioni di insolvenza o pre-insolvenza.
Segnali di crisi e obblighi degli amministratori
Una crisi d’impresa raramente esplode all’improvviso: di solito vi sono segnali premonitori che gli amministratori di una società dovrebbero cogliere per tempo. Nel settore dei collanti industriali, alcuni campanelli d’allarme comuni includono: ritardi sistematici nei pagamenti di imposte (IVA, IRES, IRAP) e contributi previdenziali (INPS); cartelle esattoriali non pagate o avvisi di accertamento fiscale; insoluti verso fornitori di materie prime chimiche; richieste di rientro immediato da parte delle banche per esposizioni finanziarie; nonché atti di pignoramento di conti correnti, macchinari o immobili aziendali. Altri indizi di difficoltà sono la mancanza di liquidità per pagare puntualmente stipendi e forniture, la perdita di credibilità commerciale (es. fornitori strategici che iniziano a pretendere pagamenti anticipati), e persino segnalazioni esterne di allerta da creditori pubblici (Agenzia Entrate, INPS) o banche.
Di fronte a tali indicatori, la legge impone agli amministratori di attivarsi tempestivamente per adottare misure idonee a tutelare la continuità aziendale e i creditori. Il Codice Civile, come riformato nel 2019, impone all’organo amministrativo di dotare la società di “assetti organizzativi adeguati” per rilevare precocemente lo stato di crisi e attuare interventi correttivi (art. 2086, comma 2 c.c. modificato dal D.Lgs. 14/2019) . In altre parole, gli amministratori hanno un dovere di vigilanza attiva sulla salute finanziaria dell’impresa e, se emergono segnali di crisi, devono reagire senza indugio predisponendo un piano di risanamento o attivando le procedure previste dal nuovo Codice della Crisi . Ignorare la crisi o procrastinare gli interventi, oltre ad aggravare l’esposizione debitoria, espone gli amministratori a responsabilità personali, sia di natura patrimoniale che – nei casi più gravi – penale .
Sul piano civilistico, la violazione del dovere di corretta gestione in caso di perdita del capitale sociale o insolvenza può dare luogo ad azioni di responsabilità da parte dei creditori o del curatore fallimentare. L’art. 2486 c.c., novellato dall’art. 378 del CCII, ha introdotto una presunzione sul danno risarcibile a carico degli amministratori inerti: quando essi non assumono tempestivamente le iniziative dovute al verificarsi di una causa di scioglimento (es. perdite rilevanti che azzerano il capitale sociale), il danno può essere quantificato in via presuntiva nella differenza tra il patrimonio netto alla data in cui avrebbero dovuto attivarsi e quello alla data di apertura della procedura concorsuale (detratti eventuali apporti nel frattempo) . In pratica, se gli amministratori di una S.r.l. continuano ad operare malgrado la società sia di fatto insolvente o con capitale azzerato, e ciò sfocia poi in un fallimento, potranno essere chiamati a risarcire l’aggravamento del dissesto: la legge presume che tale danno corrisponda almeno al deterioramento del patrimonio societario nel periodo in cui hanno tardato ad attivarsi.
Oltre alla responsabilità civile, vi sono possibili riflessi penali. Amministratori che aggravano scientemente il dissesto potrebbero incorrere nei reati di bancarotta semplice o preferenziale (ad esempio, pagando alcuni creditori a scapito di altri in prossimità del fallimento) e, nei casi di condotte dolose, bancarotta fraudolenta (ad esempio distrazione di beni aziendali o falsificazione dei bilanci). Anche il mancato versamento di imposte dovute oltre soglie di punibilità – si pensi all’IVA non versata per importi superiori a 250.000 € annui – costituisce reato tributario (omesso versamento IVA, art. 10-ter D.Lgs. 74/2000) e analogamente l’omissione nel versare le ritenute previdenziali dei dipendenti oltre 10.000 € annui configura reato (art. 2, co.1-bis D.L. 463/1983) . In sintesi, ignorare lo stato di crisi non è un’opzione praticabile: oltre a peggiorare la situazione dell’azienda, si rischiano azioni legali personali. Una recente ordinanza della Cassazione (Cass. civ. Sez. I, 27 agosto 2025 n. 23963) ha ribadito che l’amministratore può essere chiamato a rispondere dei pagamenti in conflitto di interessi o preferenziali effettuati in periodo di crisi, anche se la società non era ancora formalmente insolvente: basta la violazione dei doveri di diligenza e lealtà per far scattare l’obbligo di risarcimento del danno verso la società . In altre parole, atti compiuti quando l’impresa è già in difficoltà (es. favorire una società collegata o pagare solo alcuni creditori strategici) possono rivoltarsi contro l’amministratore in seguito, venendo censurati come inadempimento dei suoi doveri.
Il Codice della Crisi ha enfatizzato la necessità di intervento tempestivo: durante una procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza (diversa dalla composizione negoziata) gli amministratori devono gestire il patrimonio nell’interesse prioritario dei creditori, evitando atti che pregiudichino ulteriormente la sostenibilità finanziaria dell’impresa . In altre parole, quando l’impresa è in stato di crisi o di insolvenza “reversibile” (cioè con speranza di risanamento), gli amministratori devono attivarsi per conservare il patrimonio e non peggiorare la posizione dei creditori; se invece l’insolvenza è conclamata e senza prospettive, dovrebbero fermare l’attività e avviare prontamente una procedura liquidatoria, per non dissipare oltre il patrimonio a danno dei creditori . Una tardiva richiesta di fallimento (o il prolungare l’attività in perdita) può costituire bancarotta semplice sul piano penale .
Un’importante novità introdotta dal CCII è che la decisione di accedere a una procedura di regolazione della crisi (concordato, accordo di ristrutturazione, ecc.) spetta esclusivamente agli amministratori e non richiede il voto dell’assemblea dei soci (art. 120-bis CCII) . Ciò mira a evitare che i soci, magari timorosi di perdere il controllo o di immettere risorse, possano bloccare iniziative necessarie al risanamento. Dal momento in cui gli amministratori decidono di proporre un concordato o altro strumento concorsuale, i soci non possono revocarli se non per giusta causa, e la scelta stessa di accedere a una procedura di crisi non costituisce giusta causa di revoca (art. 120-ter CCII) . In sostanza, si sospende temporaneamente il potere dei soci di sfiduciare gli amministratori in pendenza di una procedura di crisi, proprio per evitare interferenze distruttive. I soci mantengono solo il diritto di essere informati sull’andamento della procedura, ma non possono ostacolarla indebitamente .
In conclusione, per un imprenditore-debitore è fondamentale sapere che non agire è la scelta peggiore. Al contrario, la legge premia chi affronta la crisi con trasparenza e sollecitudine: sono previsti anche benefici premiali (riduzione di sanzioni fiscali, attenuanti penali) per chi tempestivamente imbocca percorsi di risanamento come la composizione negoziata . Viceversa, persistere in gestioni improprie sperando in un miracolo può portare a esiti catastrofici: perdita di ogni controllo, fallimento d’ufficio richiesto dai creditori e possibili azioni di responsabilità o condanne. Il mantra per l’amministratore onesto deve essere: monitorare, prevenire e – se necessario – intervenire subito, scegliendo con l’ausilio di professionisti lo strumento migliore per salvaguardare l’azienda e al contempo tutelare gli interessi dei creditori.
Tipologie di debiti aziendali e relative conseguenze
Un primo passo per elaborare una strategia difensiva è capire la natura dei debiti che gravano sull’azienda e le specifiche conseguenze legali di ciascuna tipologia di esposizione. In Italia, le passività di un’impresa insolvente possono generalmente ricondursi a diverse categorie: debiti fiscali, debiti verso fornitori, debiti bancari/finanziari, debiti previdenziali (verso enti come l’INPS) ed eventualmente debiti verso i dipendenti (stipendi e TFR non pagati). Ciascuna categoria di credito è regolata da norme differenti in tema di privilegi, modalità di riscossione e poteri del creditore. Di seguito analizziamo ogni tipologia nel dettaglio, dal punto di vista del debitore.
Debiti fiscali (Erario)
I debiti fiscali comprendono imposte non pagate (es. IVA, IRES, IRAP), ritenute fiscali non versate e altre tasse dovute all’Erario. Questi debiti sono particolarmente insidiosi perché l’ordinamento attribuisce allo Stato strumenti di riscossione coercitiva privilegiati. Dopo l’accertamento del debito e la notifica degli atti (avvisi di accertamento o cartelle esattoriali emesse dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione), il Fisco può procedere a misure esecutive in via amministrativa, talora senza bisogno di un giudizio ordinario . Ad esempio, possono essere iscritti fermi amministrativi su veicoli o ipoteche sui beni immobili aziendali, e si può arrivare al pignoramento diretto di conti correnti o beni, il tutto tramite la procedura di riscossione a mezzo ruolo. In pratica l’Agente della Riscossione (ex Equitalia) ha poteri di esecuzione accelerati: una volta decorsi i termini di legge dalla notifica della cartella, può attivare il recupero coattivo senza dover ottenere un decreto ingiuntivo dal giudice.
I crediti tributari godono spesso di privilegi nel caso di concorso con altri creditori. In particolare, l’IVA e le ritenute non versate sono crediti privilegiati ex lege sul patrimonio del debitore, il che significa che in caso di fallimento/liquidazione giudiziale verranno soddisfatti con precedenza rispetto ai crediti chirografari (non garantiti) . Anche nell’ambito di procedure concorsuali come il concordato preventivo, la legge impone vincoli stringenti per la loro gestione: ad esempio, il debito IVA non può essere falcidiato (cioè ridotto) a meno di utilizzare lo strumento della transazione fiscale e rispettarne le condizioni (vedremo oltre).
Va evidenziato che fino a tempi recenti l’Erario deteneva una sorta di “potere di veto” nei piani di risanamento: sotto la vecchia Legge Fallimentare, un voto contrario del Fisco in sede di concordato bastava a bloccare l’omologazione del piano. Questa rigidità è stata però superata dalla riforma e dalla giurisprudenza più recente. Oggi il tribunale può omologare un concordato preventivo anche senza il voto favorevole dei creditori pubblici, a condizione che il piano garantisca ad essi una soddisfazione non inferiore a quella ottenibile nella liquidazione . In altre parole, se il piano proposto dall’azienda consente al Fisco (e agli enti previdenziali) di recuperare almeno quanto ricaverebbero dal fallimento, il loro dissenso non è più insuperabile. Questa importante svolta – nota come cram down fiscale – è stata sancita dalla Corte di Cassazione (sent. n. 27782/2024) e recepita dal legislatore col secondo decreto correttivo 2023-2024 al Codice della Crisi . Per il debitore, ciò significa maggiori possibilità di ristrutturare i debiti tributari: non basta più il “no” del Fisco a far naufragare un buon piano se esso è conveniente in ottica comparativa.
Oltre alle azioni esecutive rapide e al ruolo spesso determinante nelle procedure concorsuali, i debiti fiscali comportano altri rischi. Uno di questi è il blocco dell’accesso a benefici e certificazioni: ad esempio, un’impresa con cartelle esattoriali scadute potrebbe non ottenere il DURC fiscale (Documento Unico di Regolarità Contributiva per i debiti tributari) e quindi incontrare preclusioni nella partecipazione ad appalti pubblici o nell’accesso a finanziamenti agevolati . Tuttavia, esistono strumenti di alleggerimento del carico tributario: il legislatore periodicamente introduce misure di definizione agevolata (le cosiddette “rottamazioni” delle cartelle) che permettono di pagare il dovuto scontando sanzioni e interessi . In tempi recenti (2023-2024) sono state varate rottamazioni con pagamenti dilazionati e ridotti per molte tipologie di cartelle; aderire a tali misure sospende le azioni esecutive dell’Agente della Riscossione per i debiti inclusi nel piano di definizione . Inoltre, fuori dalle sanatorie straordinarie, è sempre possibile chiedere una rateizzazione ordinaria delle cartelle all’Agenzia Entrate-Riscossione (di norma fino a 72 rate mensili, estensibili a 120 in casi di grave difficoltà): ottenere un piano di dilazione implica la sospensione di nuovi pignoramenti finché i pagamenti rateali sono regolari .
In caso di crisi conclamata, i debiti fiscali possono essere inclusi in un accordo di ristrutturazione o in un concordato preventivo attraverso la procedura della transazione fiscale (art. 63 CCII, già art. 182-ter l.fall.). Attraverso la transazione fiscale, l’azienda propone il pagamento parziale e/o dilazionato delle somme dovute al Fisco, con eventuale stralcio di sanzioni e interessi. È normalmente richiesta l’adesione dell’Agenzia delle Entrate; ma, come detto, oggi è possibile l’omologazione anche senza tale adesione se il piano è più vantaggioso della liquidazione . La transazione fiscale richiede comunque il rispetto di soglie minime di soddisfacimento: la legge impone che il pagamento offerto al Fisco non sia inferiore a quanto l’Erario otterrebbe dai beni su cui ha privilegio o garanzia. Ad esempio, l’IVA è credito privilegiato (privilegio generale mobiliare) e va quindi soddisfatta almeno nei limiti del valore di realizzo dei beni mobili coperti da tale privilegio, pena la non confermabilità del piano.
In sintesi, i debiti tributari presentano profili di particolare pericolosità per l’azienda debitrice: il Fisco può agire in via prioritaria e può anche promuovere l’istanza di fallimento (basta un credito erariale rilevante e una situazione di insolvenza conclamata perché Agenzia Entrate-Riscossione chieda al tribunale la liquidazione giudiziale dell’impresa debitrice) . D’altro canto, esistono oggi margini maggiori per includere il Fisco in piani di risanamento, grazie a meccanismi come il cram down sopra descritto. In ogni caso, trascurare i debiti fiscali è estremamente rischioso anche per gli amministratori personalmente: il mancato versamento di IVA oltre soglia o di ritenute può condurre a processi penali a loro carico, salvo che dimostrino una causa di forza maggiore sopravvenuta . Al contempo, attivarsi subito per trovare soluzioni (rateizzazioni, accordi o concordati) può attenuare significativamente queste conseguenze: ad esempio, la legge prevede l’estinzione del reato o la riduzione di pena se il debito tributario viene integralmente pagato (anche a rate) prima della sentenza .
(Si noti: i debiti verso l’Agenzia delle Dogane per dazi ed accise seguono regole simili ai debiti tributari; anche essi sono privilegiati ed esigibili con procedure speciali di riscossione.)
Debiti verso fornitori e altri creditori chirografari
I debiti commerciali verso fornitori di materie prime, servizi e altri partner contrattuali dell’azienda rappresentano spesso una porzione significativa dell’indebitamento di un’azienda in crisi. Questi creditori, non avendo garanzie reali né titoli preferenziali, sono normalmente classificati come chirografari (chirografari semplici) e non godono di poteri speciali di riscossione: devono rivolgersi al giudice per ottenere soddisfazione coattiva. In pratica, un fornitore non pagato potrà intimare il pagamento e, in difetto, agire in giudizio per ottenere un decreto ingiuntivo o una sentenza di condanna, per poi procedere con i pignoramenti sui beni aziendali. Questo iter richiede tempo e costi, ma non va sottovalutato: una volta munito di titolo esecutivo, un fornitore potrebbe pignorare conti correnti aziendali, macchinari, merci in magazzino o crediti verso clienti . In un’azienda di collanti industriali, ciò può tradursi nel blocco di materie prime essenziali o dei solventi in giacenza, con ulteriore danno alla produzione.
Sebbene i crediti commerciali siano subordinati rispetto ad altre categorie (ad es. fisco, dipendenti, banche con ipoteca), non vanno ignorati: se i fornitori perdono fiducia, possono interrompere le forniture (impedendo all’impresa di portare avanti le commesse) oppure coalizzarsi e presentare essi stessi istanza di fallimento. Infatti, qualsiasi creditore (anche non privilegiato) può chiedere la liquidazione giudiziale dell’impresa se vanta un credito scaduto e insoluto superiore alle soglie di legge (attualmente circa 30.000 €) e l’impresa versa in stato di insolvenza conclamata . Dunque anche piccoli fornitori, se numerosi o perseveranti, possono spingere l’azienda verso la procedura concorsuale.
In caso di fallimento, i fornitori chirografari sono destinatari residuali: spesso recuperano solo una percentuale ridotta del loro credito (talora poche decine di centesimi per euro, o nulla). Questa prospettiva può essere sfruttata dal debitore in sede di negoziazione: far comprendere al fornitore che conviene anche a lui accettare una transazione sul debito (ad esempio un pagamento parziale subito, oppure un pagamento integrale ma dilazionato) piuttosto che spingere l’azienda al fallimento dove il suo realizzo sarebbe minore o nullo. Molte ristrutturazioni aziendali includono accordi individuali con i fornitori principali per ottenere dilazioni o stralci del debito: tali accordi, se fatti correttamente e magari inseriti in un piano attestato, possono agevolare enormemente il risanamento.
Dal lato del fornitore singolo, l’arma principale è – come detto – il ricorso al tribunale: ottenuto un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, il creditore può avviare pignoramenti di conti bancari, crediti verso terzi, beni mobili o immobili intestati alla società debitrice. In caso di beni mobili presenti in sede, può anche tentare un pignoramento mobiliare nell’azienda (inventariando attrezzature, materiali, ecc. da vendere poi all’asta) oppure richiedere un pignoramento presso terzi (ad es. bloccare i crediti vantati dall’azienda nei confronti di clienti o banche). Queste azioni esecutive, se coordinate, possono mettere rapidamente in ginocchio l’attività: basti pensare al pignoramento del conto corrente aziendale, che di fatto congela la liquidità e impedisce pagamenti correnti, o al pignoramento dei crediti verso il cliente principale, che sottrae risorse in arrivo. Il debitore, per difendersi, può agire su più fronti: proporre opposizione al decreto ingiuntivo (se vi sono contestazioni sul credito) per prendere tempo ; chiedere eventualmente la sospensione dell’efficacia esecutiva; oppure, in fase di pignoramento, tentare una conversione del pignoramento (versando una somma a garanzia per evitare la vendita forzata) o opporsi per vizi formali. Tuttavia, se il debito è certo e scaduto, si tratta spesso solo di tattiche dilatorie: la vera soluzione sta nel negoziare con i fornitori chiave o includerli in un piano di ristrutturazione più ampio.
In termini di privilegi, i crediti commerciali ordinari non ne hanno, salvo casi particolari (ad es. alcuni crediti professionali possono avere privilegio generale, o il venditore di un macchinario con riserva di proprietà mantiene una garanzia sul bene venduto). I fornitori rientrano quindi di regola tra i creditori chirografari puri e, in caso di concordato preventivo, potrebbero vedersi offrire solo una soddisfazione parziale (purché non inferiore al 20% se il concordato è liquidatorio, ex art. 84 CCII). In un concordato in continuità invece possono ottenere percentuali variabili legate alle risorse generate dalla prosecuzione aziendale.
Dal punto di vista penale, non esiste un reato specifico per il semplice mancato pagamento dei fornitori. Tuttavia, se l’imprenditore continua ad accumulare ordini sapendo di non poter pagare (contrazione dolosa di debiti), potrebbe profilarsi il reato di insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.) oppure, in sede fallimentare, una bancarotta fraudolenta per frode ai creditori. Inoltre, pagamenti preferenziali a taluni fornitori a ridosso del fallimento possono integrare la bancarotta preferenziale. Ma questi sono scenari estremi. In generale, il rischio principale con i fornitori è economico: perdita di forniture e azioni giudiziarie aggressive.
(A latere, rientrano tra i creditori chirografari anche altri debiti “ordinari” dell’azienda, come ad esempio canoni di affitto non pagati, parcelle di professionisti, fatture di utenze e così via. Questi creditori hanno modalità di azione analoghe ai fornitori: decreto ingiuntivo per l’affitto con possibile sfratto dell’immobile; decreto ingiuntivo per le utenze, ecc. Alcuni di essi, come il locatore di immobili, godono di privilegi speciali sui beni presenti nell’immobile affittato, ma di portata limitata. Ai fini generali, si possono assimilare ai fornitori.)
Debiti bancari e finanziari
I debiti verso banche e altri finanziatori (leasing, società di factoring, ecc.) costituiscono un’altra categoria cruciale. Tipicamente, un’azienda manifatturiera si finanzia con affidamenti di conto corrente (fidi bancari per anticipare incassi o pagare fornitori), mutui ipotecari su capannoni, leasing su macchinari o veicoli, finanziamenti a medio termine garantiti dal Mediocredito o da confidi, ecc. Quando la società non riesce a rispettare le scadenze bancarie, gli istituti di credito hanno contrattualmente poteri di reazione rapidi. In caso di ritardo nel pagamento di rate di mutuo o leasing, o di sconfini oltre il fido, la banca può dichiarare la decadenza dal beneficio del termine e la revoca degli affidamenti: in altre parole, l’intero debito residuo diviene immediatamente esigibile e il fido di conto viene azzerato, con richiesta di rientro immediato . Questa accelerazione può aggravare improvvisamente la crisi di liquidità dell’impresa debitrice.
Spesso i finanziamenti bancari sono assistiti da garanzie. Molto comune è la presenza di fideiussioni personali dei soci o degli amministratori: la banca, in caso di inadempimento della società, può escutere direttamente il patrimonio personale dei garanti . Per l’imprenditore, ciò significa che un conto è lasciare che risponda solo la S.r.l. (con patrimonio limitato magari), altro conto è vedersi pignorare la casa di abitazione o i risparmi personali a causa dei debiti aziendali. Questa è una ragione per cui i debiti bancari sono particolarmente delicati: le banche generalmente si tutelano chiedendo garanzie extra-societarie, cosicché il default aziendale coinvolge immediatamente anche la sfera privata del debitore (vanificando il beneficio della responsabilità limitata). Oltre alle fideiussioni, le banche possono avere garanzie reali sul patrimonio aziendale: ad esempio ipoteche sugli immobili (i mutui su capannoni sono quasi sempre ipotecari) o pegni su beni mobili (es. pegno su titoli, su crediti, su polizze assicurative). Dunque, in caso di insolvenza, la banca attiverà le procedure esecutive sui beni vincolati: es. un pignoramento immobiliare per far vendere all’asta il capannone ipotecato e soddisfarsi con prelazione sul ricavato, oppure l’escussione di un pegno (vendita forzata del bene dato in pegno, spesso senza nemmeno passare dal tribunale se il contratto lo prevede). Tali azioni di garanzia sono particolarmente insidiose perché difficilmente bloccabili: se il debitore non trova un accordo con la banca, questa può far valere i suoi diritti di prelazione con efficacia, potendo contare sul titolo esecutivo costituito dal contratto di mutuo o sull’ipoteca iscritta.
Un’ulteriore conseguenza del deterioramento dei rapporti bancari è la segnalazione in Centrale Rischi (CR) di Bankitalia o nelle banche dati creditizie private (es. CRIF). Il mancato rimborso di finanziamenti porta la banca a classificare la posizione come “in sofferenza” o “inadempienza”, comunicandolo alla Centrale Rischi. Una società segnalata come cattivo pagatore vedrà precluso l’accesso a nuovi affidamenti e anche i fornitori (che spesso consultano l’affidabilità creditizia delle imprese) potrebbero irrigidire le loro condizioni di pagamento . Per l’imprenditore, inoltre, se ha garantito personalmente, la segnalazione negativa impatta anche sul suo rating personale.
Dal punto di vista giuridico, l’inadempimento verso banche è una violazione contrattuale come le altre, senza implicazioni penali dirette. Non esiste reato per il semplice mancato rimborso di un prestito bancario. Tuttavia, vanno evitati comportamenti scorretti che potrebbero configurare altri reati: ad esempio, se si forniscono false informazioni alla banca per ottenere credito (truffa o falso in bilancio se strumentale al credito), oppure se, una volta insolvente, si continuano a chiedere affidamenti sapendo di non poterli restituire (potenziale insolvenza fraudolenta). Inoltre, se l’impresa fallisce, pagamenti effettuati nell’ultimo periodo in favore di banche (ad esempio estinzioni anticipate “strategiche”) potrebbero essere revocati come atti preferenziali, a meno che non rientrino nelle esenzioni di legge (pagamenti a termini d’uso bancario, o effettuati nell’ambito di un piano concordatario, ecc.).
Per il debitore, i margini di manovra con le banche consistono nel rinegoziare il debito o nel coinvolgerle in un piano di ristrutturazione più ampio. Spesso le banche sono disposte a trattare, specialmente se l’alternativa è perdere quasi tutto in un fallimento. Si possono ottenere moratorie sulle rate, rimodulazione dei piani di ammortamento, consolidamento di esposizioni di breve periodo in finanziamenti a lungo termine, riduzione dei tassi o conversione di parte del credito in capitale (se la banca partecipa al rischio imprenditoriale). Inoltre, in sede di procedure concorsuali o accordi di ristrutturazione, le banche sono tipicamente tra i creditori determinanti: è difficile salvare un’azienda indebitata senza la cooperazione degli istituti finanziatori principali. Da notare che se vi sono fideiussori, un eventuale concordato o accordo omologato non libera automaticamente i garanti personali (salvo patto contrario) . Questo significa che l’imprenditore che ha dato garanzia rimane esposto verso la banca anche se la società riduce il suo debito in concordato, a meno che la banca accetti esplicitamente di liberare il fideiussore (cosa non scontata). È quindi interesse del debitore negoziare anche la posizione dei garanti nelle trattative.
Riassumendo, i debiti bancari presentano: (a) rischio immediato di azioni esecutive grazie alle garanzie (pignoramenti di beni ipotecati/peni); (b) coinvolgimento del patrimonio personale tramite fideiussioni; (c) impatto su reputazione e credito futuro (segnalazioni in CR). Per difendersi, servono approcci multipli: dialogo e trasparenza con le banche (possibilmente presentando un piano credibile di rientro), utilizzo di strumenti come la composizione negoziata o l’accordo di ristrutturazione per ottenere la maggioranza delle banche e legare le dissenzienti, oppure – in ultima istanza – ricorso al concordato preventivo per congelare le azioni e imporre un trattamento a tutti i finanziatori. Anche qui, agire tempestivamente è essenziale: se si attende la revoca dei fidi e il pignoramento del capannone, recuperare la situazione diventa molto più difficile.
Debiti previdenziali (INPS, INAIL) e verso i dipendenti
Un’azienda con dipendenti ha obblighi di versamento dei contributi previdenziali e assicurativi (INPS, INAIL). I debiti previdenziali comprendono i contributi obbligatori non versati (ad esempio i contributi pensionistici e assistenziali a carico del datore di lavoro e le quote trattenute ai lavoratori) e premi assicurativi INAIL non pagati. Dal punto di vista del recupero, questi debiti sono assimilati ai debiti tributari: gli enti previdenziali si avvalgono dell’Agenzia Entrate-Riscossione per la riscossione coattiva, con emissione di avvisi di addebito e poteri esecutivi analoghi a quelli delle imposte (fermi, ipoteche, pignoramenti) . Inoltre, i crediti per contributi godono di privilegio generale sui mobili del debitore (come i crediti erariali) e di privilegio speciale immobiliare per alcuni contributi agricoli, il che li rende creditori prelatizi in concorso.
Dal 2021 i crediti contributivi e i crediti fiscali sono stati equiparati in molti aspetti: ad esempio, nel concordato preventivo vige ora la regola che il dissenso dell’INPS o Agenzia Entrate non preclude l’omologa se il trattamento offerto è migliore di quello fallimentare (applicazione del cram down pubblico visto sopra) . Questo era un nodo assai discusso in passato, superato dalla riforma e dalle sentenze del 2024. Significa che anche per i contributi vale la possibilità di falcidia e dilazione nell’ambito di piani concordatari, purché si rispettino le condizioni della transazione previdenziale (speculare a quella fiscale) e si garantisca all’ente una soddisfazione almeno pari alla liquidazione.
Un aspetto delicato dei debiti INPS è che essi possono comportare responsabilità personali e persino penali per gli amministratori. In particolare, l’omesso versamento delle ritenute previdenziali trattenute ai lavoratori dipendenti, se supera €10.000 annui, costituisce reato (art. 2 D.L. 463/1983 conv. in L. 638/1983) . Sotto tale soglia è prevista solo una sanzione amministrativa, ma sopra scatta la pena (oggi convertita di regola in una multa/ammenda). La Cassazione ha chiarito che lo stato di crisi di liquidità dell’azienda di per sé non scusa il datore di lavoro: se questi ha comunque pagato altre voci (fornitori, banche) preferendole ai contributi, l’elemento di colpevolezza permane . Solo una situazione di assoluta mancanza di risorse, non imputabile a scelte imprudenti, potrebbe escludere il dolo del reato (è ammessa come difesa la prova di una “causa di forza maggiore” che abbia impedito i pagamenti) . Per completezza, anche l’omesso versamento di premi INAIL oltre soglie è sanzionato, ma rientra nelle stesse fattispecie contributive.
Dal lato dei dipendenti creditori (stipendi non pagati, TFR, ecc.), questi hanno alcuni vantaggi: possono ottenere un decreto ingiuntivo immediato per le retribuzioni dovute, data la natura di credito di lavoro (spesso provvisoriamente esecutivo) e addirittura chiedere il fallimento dell’azienda se vi sono mensilità arretrate rilevanti (la legge li equipara ad altri creditori agli effetti dell’istanza di fallimento). Inoltre, in caso di insolvenza conclamata, i dipendenti godono di tutele speciali: esiste il Fondo di Garanzia INPS che interviene a pagare il TFR e le ultime tre mensilità di stipendio non corrisposte in caso di fallimento (o concordato liquidatorio) dell’azienda . Ciò significa che, paradossalmente, il dipendente potrebbe non avere interesse a sostenere un concordato in continuità (dove il pagamento degli arretrati dipende dalle sorti aziendali), mentre se l’azienda fallisce è certo di ricevere dal Fondo almeno le ultime retribuzioni e il TFR maturato. Questa dinamica va tenuta presente nel gestire le relazioni con il personale in crisi d’impresa.
In sintesi, Fisco e previdenza sono creditori privilegiati e muniti di armi affilate: trascurarli può portare rapidamente sia a azioni esecutive (pignoramenti, ipoteche) sia a conseguenze personali (cause di responsabilità e procedimenti penali) per gli amministratori. Un azienda di collanti industriali, ad esempio, che non versi l’IVA o i contributi, rischia non solo il fermo dei macchinari o il pignoramento dei crediti, ma anche che il titolare venga indagato per reati tributari. Per difendersi, occorre attivare subito le leve previste: chiedere rateizzazioni all’Agente Riscossione (portandosi sotto soglia penale se possibile) , valutare la rottamazione delle cartelle se aperta, oppure includere il debito erariale/previdenziale in un piano di ristrutturazione (accordo o concordato) cercando l’adesione dell’ente o confidando nell’omologazione giudiziale forzata. L’importante è non accumulare passivamente arretrati: l’inerzia è spesso interpretata come mala gestio dolosa (lo evidenzia una recente sentenza penale che ha considerato operazione dolosa ai fini della bancarotta fraudolenta proprio il sistematico inadempimento di imposte e contributi protratto nel tempo e causa del dissesto ).
(Nota: nel caso di piccole imprese artigiane individuali o società molto piccole non fallibili, i debiti fiscali e contributivi possono essere trattati nelle procedure di sovraindebitamento – v. infra – come il concordato minore o la ristrutturazione dei debiti del consumatore. Gli importi dovuti all’Erario e INPS restano però soggetti a regole speciali anche in quelle sedi, analoghe alla transazione fiscale/previdenziale.)
Crisi d’impresa, insolvenza e obblighi degli amministratori
(Abbiamo già trattato degli obblighi di attivazione tempestiva degli amministratori nella sezione “Segnali di crisi e obblighi”, che includeva il dovere ex art. 2086 c.c. e le responsabilità da inattività. Riprendiamo di seguito tali concetti per inquadrarli formalmente nei termini del Codice della Crisi.)
Con l’introduzione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), entrato a regime dal 15 luglio 2022, è stato definito con precisione cosa si intende per stato di crisi e per stato di insolvenza, e sono stati rafforzati i doveri degli organi societari nella gestione delle situazioni di difficoltà economico-finanziaria . Il CCII definisce la crisi come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore” (art. 2 lett. a) CCII), mentre l’insolvenza è lo stato in cui il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (cessazione dei pagamenti, art. 2 lett. b) CCII) . In pratica, la crisi è una fase di tensione che precede e preannuncia l’insolvenza conclamata. Già allo stadio di crisi (quindi prima del default totale) la legge richiede agli amministratori di attivarsi. Come visto, l’art. 2086 c.c. obbliga a dotarsi di assetti adeguati proprio per intercettare gli indizi di crisi e attuare le misure necessarie a farvi fronte .
Una volta che emergono segnali di crisi o – peggio – indizi di insolvenza probabile, gli amministratori hanno il dovere di intervenire senza indugio per individuare lo strumento più idoneo a superare la difficoltà . La scelta può spaziare tra soluzioni privatistiche in una fase iniziale (accordi stragiudiziali, ricerca di nuovi soci o finanziatori) e l’accesso agli strumenti regolati dal CCII se la crisi è più grave . In uno stadio di pre-crisi, ad esempio, l’organo amministrativo potrebbe tentare misure interne di riequilibrio (taglio dei costi, dismissione di asset non strategici, rinegoziazione di debiti) oppure attivare subito la composizione negoziata per farsi assistere da un esperto indipendente nelle trattative con i creditori . Se invece la situazione evolve in vera insolvenza, gli amministratori dovranno orientarsi verso strumenti concorsuali veri e propri (concordato preventivo, accordo di ristrutturazione omologato, ecc.), tenendo comunque presente che la composizione negoziata rimane un’opzione se vi sono ragionevoli prospettive di risanamento .
Abbiamo già evidenziato che la inerzia o il ritardo colposo nell’affrontare la crisi può far scattare serie responsabilità a carico degli amministratori, sia civili (azione di responsabilità per aggravamento del dissesto) che penali (bancarotta semplice per tardiva richiesta di fallimento, bancarotta fraudolenta se si occultano le perdite, reati tributari per omessi versamenti, ecc.) . Valgono qui le considerazioni già svolte: la legge oggi incentiva l’emersione anticipata della crisi anche tramite un sistema di segnalazioni d’allerta (obblighi di segnalazione posti a carico, ad esempio, dell’INPS o dell’Agenzia Entrate se l’azienda accumula debiti oltre certe soglie, artt. 25- ter e octies CCII). Anche se l’entrata in vigore effettiva delle “segnalazioni esterne” è stata più volte differita, la filosofia è chiara: chi prima agisce, più strumenti ha e meno rischi personali corre. Sono previsti anche istituti come l’esdebitazione dell’imprenditore individuale insolvente (la “fresh start”, art. 278 CCII) per dare una seconda chance a chi ha agito onestamente ma è incappato in un fallimento .
Un elemento importante: la liquidazione giudiziale (fallimento) è davvero l’ultima risorsa quando la crisi è irreversibile e nessun concordato o accordo è stato attivato in tempo . Dal punto di vista del debitore, è quasi sempre preferibile cercare soluzioni concordate prima che i creditori arrivino a chiedere il fallimento. Spesso la minaccia di fallimento è usata dai creditori come leva negoziale: ad esempio, sapere che il tribunale di norma non apre procedure fallimentari per importi esigui (<30.000 €) può dare un minimo margine a piccole imprese per trattare senza subire ricatti . Ma superati certi limiti, il rischio di liquidazione coatta diventa concreto e rapido.
Va anche menzionato, per completezza, che se l’azienda è sotto le soglie di fallibilità (ad esempio un’impresa individuale o società di persone molto piccola che non supera i limiti dell’art. 2 CCII), allora non si applicherà la liquidazione giudiziale classica ma le procedure di sovraindebitamento: in particolare la liquidazione controllata del sovraindebitato, simile al fallimento ma riservata ai non fallibili, gestita da un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) . Nella pratica, però, la maggior parte delle società di capitali (S.r.l., S.p.A.) anche piccole supera quei limiti, quindi è fallibile.
In definitiva, l’amministratore di un’azienda indebitata deve valutare per tempo quale strada intraprendere per difendersi e salvare l’impresa. Attivare un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione prima che i creditori perdano fiducia consente spesso di salvare l’azienda, mentre arrivare al fallimento significa perdere tutto (il controllo dell’azienda e i margini di negoziazione) ritrovandosi invece a rispondere di eventuali proprie colpe. Il Codice della Crisi incoraggia la soluzione anticipata: ad esempio offrendo l’esdebitazione post-fallimentare all’imprenditore persona fisica onesto ma sfortunato, oppure introducendo la composizione negoziata per intervenire prima che l’insolvenza diventi irreversibile .
In conclusione su questa parte, chi amministra una società in crisi farebbe bene a: monitorare costantemente gli indici di crisi (ad es. l’indebitamento crescente, indici di bilancio come DSCR, ecc.), evitare di accumulare arretrati fiscali e contributivi (che innescano poi segnalazioni e reati), e se vede che non può pagare tutti, studiare un piano e proporlo ai creditori chiave prima che questi agiscano in massa . Nei paragrafi seguenti vedremo quali sono gli strumenti concreti a disposizione per attuare tali piani.
Strumenti di risanamento e ristrutturazione del debito
Affrontare una grave situazione debitoria richiede spesso di ricorrere a strumenti giuridici specifici per ristrutturare il debito, evitare l’erosione totale del patrimonio e possibilmente garantire la prosecuzione dell’attività aziendale. L’ordinamento italiano, specialmente dopo la riforma introdotta dal Codice della Crisi, offre un ampio ventaglio di soluzioni per regolare la crisi o l’insolvenza di un’impresa, in aggiunta alla classica liquidazione fallimentare (che rimane l’extrema ratio). Tali strumenti vanno dalle opzioni totalmente stragiudiziali (lasciate all’autonomia privata, seppur previste dalla legge) fino a procedure concorsuali giudiziali vere e proprie (che coinvolgono il tribunale e producono effetti nei confronti di tutti i creditori). La scelta dello strumento più adatto dipende dalla gravità della crisi, dalla composizione del debito (numero di creditori, tipologie, importi) e dalle prospettive di risanamento (se vi sono possibilità di salvare l’azienda come going concern oppure se si va verso la cessazione dell’attività).
Esamineremo qui i principali strumenti di risanamento previsti dalla normativa attuale a livello avanzato: la composizione negoziata della crisi, il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti (con le loro varianti), e il concordato preventivo (nelle forme liquidatorie e in continuità). Accenneremo inoltre ad alcuni istituti innovativi come il concordato semplificato e il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) introdotti in attuazione della direttiva UE 2019/1023. Tutti questi strumenti hanno lo scopo comune di evitare la liquidazione giudiziale non controllata (ex fallimento) e massimizzare la soddisfazione dei creditori in un’ottica di composizione della crisi.
Composizione negoziata della crisi d’impresa
La composizione negoziata è uno strumento relativamente nuovo (introdotto con D.L. 118/2021, confluito nel CCII) che consente all’imprenditore in difficoltà di tentare un risanamento attraverso trattative assistite da un esperto indipendente, in un contesto riservato e stragiudiziale . Si tratta di un percorso volontario: l’imprenditore vi può accedere quando si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile la crisi o l’insolvenza, ma ritiene che esistano concrete prospettive di recupero . Importante, la composizione negoziata è aperta a tutte le imprese, di qualsiasi dimensione e settore, incluse quelle “sotto soglia” (cioè che non superano i limiti prima previsti per la fallibilità) . Ciò la distingue dai vecchi “procedimenti di allerta” (mai entrati in vigore) che avrebbero escluso le piccole: qui anche una piccola azienda artigiana o commerciale può avvalersene.
Come funziona? L’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio), allegando una serie di documenti: dati contabili aggiornati, un profilo sulla situazione patrimoniale ed economica, le cause della crisi e le prospettive di risanamento, ecc. Se l’istanza è completa, viene nominato in tempi brevi un Esperto indipendente scelto da un apposito elenco (professionisti con specifica formazione). L’Esperto esamina la situazione aziendale e convoca l’imprenditore per un primo incontro in cui si valuta se esistono ragionevoli prospettive di risanamento. Se sì, l’Esperto guiderà le trattative tra l’imprenditore e i creditori che sarà opportuno coinvolgere. Va sottolineato che la composizione negoziata è inizialmente riservata e priva di effetti automatici sui creditori non coinvolti: non c’è pubblicità iniziale, né l’apertura di una procedura concorsuale formale, proprio per favorire una gestione serena delle negoziazioni . L’azienda continua ad essere gestita dall’imprenditore, che mantiene i poteri ordinari, con l’“affiancamento” dell’Esperto, il quale formula osservazioni e cerca di facilitare accordi equilibrati.
Durante lo svolgimento della composizione negoziata, l’imprenditore può richiedere al tribunale alcune misure protettive. In particolare, può chiedere che vengano sospese o bloccate le azioni esecutive individuali dei creditori durante le trattative (art. 18 CCII) . Tali misure protettive – una sorta di “ombrello” temporaneo – mirano a evitare che, mentre l’impresa tratta una possibile ristrutturazione, uno o più creditori facciano saltare il banco con pignoramenti o iniziative aggressive . La richiesta di misure protettive viene pubblicata nel registro delle imprese (rendendo nota l’adesione alla composizione), e da quel momento nessun creditore può iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore senza autorizzazione del giudice. Le misure protettive normalmente durano 120 giorni, prorogabili di altri 120 al massimo. Il tribunale, nel concederle, valuta sommariamente che vi sia effettiva utilità nelle trattative in corso e che il debitore non stia abusando dello strumento. Una novità del 2022 è la possibilità di richiedere misure protettive selettive: l’impresa può chiedere di bloccare solo alcune specifiche azioni esecutive che ritiene pregiudizievoli (ad esempio il pignoramento di un macchinario chiave), senza estendere il blocco a tutto il fronte dei creditori . Questa flessibilità è stata introdotta per evitare congelamenti inutilmente ampi e incentivare l’uso mirato della composizione.
Durante il periodo protetto, l’impresa non può pagare i creditori per debiti antecedenti (salvo autorizzazione per atti urgenti di ordinaria amministrazione), e i creditori non possono acquisire nuove cause di prelazione (pegni, ipoteche) che non saranno opponibili in eventuali procedure concorsuali successive . L’Esperto redige relazioni periodiche sull’andamento delle trattative e, alla fine, deve tirare le somme: se si raggiunge un accordo di sistemazione della crisi, il percorso di composizione negoziata termina con esito positivo; se non si raggiunge, l’Esperto ne dà atto e chiude la procedura. Gli esiti possibili della composizione negoziata sono diversi (art. 23 CCII), ad esempio: – un contratto con i creditori (accordo stragiudiziale privato, che può restare riservato oppure essere pubblicato per ottenere esenzioni da revocatoria); – un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o un concordato preventivo (la composizione può fungere da preludio a questi procedimenti se durante le trattative si confeziona un piano da sottoporre poi all’omologazione) ; – altre soluzioni come piani attestati o aumenti di capitale. Spesso l’Esperto, se vede che non tutti i creditori aderiranno spontaneamente, può consigliare di “convertire” le intese raggiunte in uno strumento concorsuale (accordo omologato o concordato) in modo da superare le resistenze residue.
In sostanza, la composizione negoziata offre un quadro flessibile per negoziare il risanamento sotto l’egida di un terzo imparziale, senza lo stigma di una procedura concorsuale pubblica e senza gli effetti dirompenti del fallimento. È particolarmente adatta quando l’impresa ha possibilità concrete di recupero ma ha bisogno di tempo e di un coordinamento con i creditori. Dà accesso a professionalità dedicate (l’Esperto) e a protezioni temporanee per lavorare al salvataggio. Di contro, non impone accordi ai creditori: se questi non vogliono cooperare, la composizione da sola non basta (occorre poi passare a uno strumento più incisivo). Inoltre ha un costo relativamente contenuto (il compenso dell’Esperto è fissato per legge in base a tariffe e spesso in parte a carico della CCIAA). Importante per l’imprenditore: l’avvio della composizione negoziata non costituisce di per sé default finanziario (è pensata per evitare allarmismi prematuri), e la nuova normativa ha confermato che la pendenza di una composizione negoziata non impedisce all’azienda di ottenere il DURC (Documento di regolarità contributiva) in certi casi, né di partecipare a gare d’appalto se in continuità (vedremo più avanti FAQ specifica al riguardo).
(Per le imprese agricole: la composizione negoziata è accessibile anche a loro, mentre altre procedure concorsuali tradizionali come il fallimento non lo erano. Questo colma un vuoto storico.)
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII)
Il piano attestato di risanamento è uno strumento “classico” del diritto concorsuale italiano (già previsto dall’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall.) che il nuovo Codice della crisi ha sostanzialmente confermato. Esso consiste in un piano di risanamento dell’impresa, predisposto dall’imprenditore in modo unilaterale (eventualmente integrato da accordi con alcuni creditori), accompagnato dalla relazione di un professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. La caratteristica del piano attestato è la possibilità di essere pubblicato nel Registro delle Imprese: gli atti compiuti in esecuzione di un piano attestato pubblicato sono esentati da revocatoria fallimentare e da responsabilità penale concorsuale in caso di successivo fallimento . In altre parole, se l’imprenditore – confidando nel piano di risanamento – effettua pagamenti o cessioni di beni per attuarlo, e poi malauguratamente l’azienda fallisce lo stesso, tali atti non potranno essergli contestati come distrazioni fraudolente né potranno essere revocati dal curatore ai terzi che li hanno ricevuti. Questa protezione legale serve a incentivare sia il debitore sia i terzi a partecipare al risanamento, senza il timore che, col senno di poi, tutto venga annullato.
Il piano attestato è totalmente stragiudiziale: non richiede omologazione da parte di un tribunale, né il coinvolgimento di tutti i creditori. È uno strumento privatistico al 100% che vive dell’efficacia dell’attestazione professionale e dell’eventuale pubblicità nel Registro Imprese. Proprio per questo, la legge richiede requisiti rigorosi perché il piano sia “valevole” come esimente da revocatoria. In particolare, il piano deve: (a) essere idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa; (b) avere data certa anteriore all’eventuale fallimento (es. mediante atto notarile o PEC con marca temporale); (c) essere corredato di tutti i documenti informativi richiesti dall’art. 39 CCII (dati contabili, elenco creditori, cause della crisi, strategie di intervento, piano industriale e finanziario); (d) contenere la relazione di un attestatore indipendente che confermi che i numeri sono corretti e le ipotesi plausibili . Inoltre, è buona pratica (e il CCII lo prevede) che il piano individui chiaramente quali creditori sono coinvolti e in che misura, e quali invece restano estranei ma saranno soddisfatti integralmente . Questo perché, se il piano prevede di non pagare integralmente alcuni creditori (accordandosi con loro per uno stralcio), quegli accordi specifici configurano di fatto un accordo di ristrutturazione parziale e richiedono trasparenza e veridicità.
Un aspetto distintivo: il piano attestato presuppone la continuità aziendale. È concepito per imprese che possano essere risanate e proseguire l’attività. Non avrebbe senso un piano attestato finalizzato a liquidare l’impresa: se l’obiettivo è liquidatorio, si usano altri strumenti (accordo o concordato). Dunque il piano attestato di risanamento sarà tipicamente sostenuto da un business plan di rilancio, spesso con interventi come nuovi finanziamenti, dismissione di rami d’azienda non profittevoli, riduzione dell’organico, conversione di crediti dei fornitori in capitale sociale, etc., e con un orizzonte temporale di 2-5 anni per tornare in equilibrio .
Il ruolo dei creditori nel piano attestato è informale: non c’è una votazione collettiva né un coinvolgimento di tutti. Alcuni creditori chiave possono aderire volontariamente al piano stipulando con l’impresa accordi bilaterali (es. proroga delle scadenze, riduzione del credito, conversione di parte del credito in strumenti partecipativi). Tali accordi, se conclusi “in esecuzione del piano”, beneficiano anch’essi dell’esenzione da revocatoria. I creditori che non aderiscono restano estranei e conservano i loro diritti per intero; l’imprenditore deve quindi essere in grado di soddisfarli regolarmente secondo i termini originari, altrimenti il piano non sarebbe fattibile . Ne consegue che il limite pratico del piano attestato è che funziona solo se l’impresa ha un numero limitato di creditori da ristrutturare e risorse sufficienti a pagare tutti gli altri integralmente. Se, ad esempio, ho 100 fornitori e posso convincerne solo 10 a darmi dilazioni o riduzioni, ma non ho soldi per pagare gli altri 90, il piano attestato non reggerà.
Per il debitore, il piano attestato offre uno strumento snello e poco costoso (nessun intervento del tribunale, solo il costo dell’attestatore e dei consulenti) per gestire la crisi. Può essere la soluzione ideale quando la crisi è ancora affrontabile con misure gestionali e con la collaborazione di qualche partner finanziario (es. banche disposte a rinegoziare). Inoltre, l’esenzione da revocatoria è un forte incentivo per eventuali finanziatori esterni: chi apporta nuova finanza nell’ambito di un piano attestato – ad esempio una banca che concede liquidità per sostenere il risanamento – sa che quel finanziamento avrà privilegio generale (ex art. 99 CCII) e prededuzione in caso di fallimento successivo, e che le garanzie che riceve non saranno revocabili . Ciò aumenta la “bancabilità” di un piano attestato rispetto a un piano fai-da-te puramente interno.
Va comunque ribadito: il piano attestato non vincola i creditori dissenzienti. Se un creditore non coinvolto vede che l’impresa sta vendendo beni o pagando altri, potrebbe comunque agire esecutivamente per conto proprio. Non c’è uno stay automatico come nel concordato. L’imprenditore deve ponderare bene, prima di puntare tutto su un piano attestato, se dispone del tempo e della stabilità necessaria per portarlo a compimento senza subire aggressioni esterne. A volte, è utile combinare gli strumenti: ad esempio, l’imprenditore potrebbe iniziare una composizione negoziata per ottenere misure protettive e, in quel periodo protetto, strutturare un piano attestato che poi eseguirà . In altri casi, un piano attestato riuscito può evitare del tutto l’entrata in procedura concorsuale.
In conclusione, il piano attestato di risanamento è un’arma fondamentale nella cassetta degli attrezzi dell’azienda indebitata, specialmente in situazioni di pre-crisi o crisi iniziale con possibilità di inversione di rotta. Esso consente di formalizzare un percorso di salvataggio con la “benedizione” di un esperto indipendente, rassicurando così creditori e terzi sulla bontà delle misure, e offrendo scudi giuridici contro eventuali recriminazioni future. Tuttavia, richiede disciplina e realismo: il piano deve essere concreto e sostenibile, non un libro dei sogni, altrimenti l’attestatore indipendente non potrà che negare la propria relazione positiva (e senza attestazione il piano perde gran parte della sua efficacia protettiva).
Accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD)
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti rappresentano il primo degli strumenti concorsuali in senso lato, pur mantenendo una natura fortemente negoziale. Introdotti già nel 2005, questi accordi sono stati in gran parte confermati dal CCII, arricchiti però da alcune varianti innovative nel 2022. In sostanza, un accordo di ristrutturazione consiste in un accordo giuridicamente vincolante tra il debitore e una parte qualificata dei suoi creditori circa la ristrutturazione delle esposizioni, accordo che viene poi omologato dal tribunale e pubblicato, acquistando efficacia anche verso terzi (pur con alcuni limiti) .
I requisiti per un accordo di ristrutturazione standard (art. 57 CCII, ex art. 182-bis l.fall.) sono: – il consenso di almeno il 60% dei crediti totali dell’azienda . Si calcola in base all’ammontare dei crediti: occorre ottenere la firma di creditori rappresentanti almeno il 60% del debito complessivo (sono esclusi dal computo eventuali crediti impignorabili o di natura non soggetta a ristrutturazione, ma in genere si considera il totale passivo). – La documentazione completa allegata, simile a quella richiesta per un concordato: ultime tre dichiarazioni fiscali, bilanci degli ultimi esercizi, elenco dettagliato dei creditori, indicazione di eventuali atti di straordinaria amministrazione compiuti, una relazione sulla situazione economico-patrimoniale aggiornata, ecc., come elencato nell’art. 39 CCII . – La relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano sottostante l’accordo, nonché l’idoneità dell’accordo ad assicurare il pagamento regolare dei creditori non aderenti . Quest’ultimo punto è cruciale: i creditori estranei (che non hanno firmato l’accordo) vanno comunque pagati regolarmente, altrimenti l’accordo non è omologabile. L’attestatore deve confermare che tali creditori rimasti fuori riceveranno soddisfazione integrale entro 120 giorni dall’omologazione (se i loro crediti erano già scaduti) o entro 120 giorni dalla scadenza originaria (se non ancora scaduti) . In pratica, non si può fare un accordo vincolante per la maggioranza e “dimenticarsi” della minoranza: questa deve essere tutelata. – Deposito e omologazione in tribunale: una volta raccolte le adesioni richieste e predisposta la documentazione, il debitore deposita ricorso al tribunale per ottenere l’omologazione dell’accordo. Da quel momento, l’accordo (insieme al piano e all’attestazione) viene pubblicato nel Registro delle Imprese, avvisando tutti. I creditori e terzi estranei hanno 30 giorni per proporre eventuali opposizioni (contestando, ad esempio, che non sarebbero pagati regolarmente, o che l’accordo li pregiudica) . Trascorso questo termine, il tribunale fissa un’udienza e poi decide se omologare l’accordo, verificandone la legalità e valutando le opposizioni. Se tutto è in regola e non ci sono opposizioni fondate, il giudice omologa con sentenza (non più decreto) l’accordo . La sentenza di omologa viene pubblicata e da quel momento l’accordo diventa efficace erga omnes: vincola il debitore e i creditori aderenti secondo i termini pattuiti, e produce taluni effetti protettivi.
Gli effetti principali di un ARD omologato sono: i creditori non aderenti, come detto, non sono vincolati in termini di falcidia o dilazione (devono essere pagati integralmente fuori accordo), ma di fatto subiscono una moratoria legale durante l’esecuzione dell’accordo. Infatti, l’imprenditore ottiene con l’omologa due benefici notevoli: (i) gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo sono esenti da revocatoria e da responsabilità penale per bancarotta preferenziale ; (ii) può richiedere fin dal deposito del ricorso delle misure protettive temporanee (analoghe a quelle del concordato) per congelare eventuali azioni esecutive dei creditori sino all’omologazione . Inoltre l’accordo omologato può estendere alcuni effetti ai coobbligati e fideiussori dell’imprenditore, se il piano lo prevede: ad esempio, i soci illimitatamente responsabili di una SNC possono beneficiare della liberazione pro-quota se i creditori sociali lo hanno accettato, mentre i fideiussori (es. i garanti personali) di norma non sono liberati salvo patto espresso (la fideiussione non si estingue automaticamente a meno che l’accordo non lo preveda) . Questo dettaglio evidenzia che chi ha garantito l’azienda rimane obbligato verso i creditori nonostante l’accordo, se non negozia una liberatoria.
Gli accordi di ristrutturazione presentano delle varianti importanti introdotte dal CCII:
- Accordi di ristrutturazione agevolati (art. 60 CCII): permettono al debitore di ottenere l’omologazione con un quorum ridotto al 30% dei crediti totali, purché non richieda la moratoria dei creditori estranei né misure protettive . In pratica, è un accordo pensato per i casi in cui la parte di creditori dissenzienti viene comunque pagata regolarmente alle scadenze originarie e non c’è necessità di congelare le loro azioni. Se il debitore è in grado di pagare i non aderenti senza dilazioni, la legge gli consente di omologare anche con consensi pari solo al 30%. Questa variante serve a facilitare ristrutturazioni in cui magari pochi creditori finanziari (banche) sostengono il piano e il resto dei creditori verrà pagato normalmente. Consente maggiore rapidità e minor sforzo nel raccogliere consensi, ma ha il limite di non poter concedere respiro sui pagamenti ai non aderenti (nessuna moratoria post-omologa per loro).
- Accordi ad efficacia estesa (art. 61 CCII): qui l’idea è di forzare taluni creditori dissenzienti ad accettare l’accordo se appartengono a categorie omogenee in cui la maggioranza è favorevole. In particolare, la legge prevede che se i creditori finanziari (banche, intermediari finanziari, obbligazionisti) rappresentanti almeno il 75% dei crediti di quella categoria aderiscono, l’accordo omologato si estende anche ai creditori finanziari dissenzienti della stessa categoria . Un meccanismo analogo vale per i fornitori strategici con cui l’impresa ha rapporti essenziali per la continuità aziendale: se il 75% (per valore) di questi fornitori aderisce, l’accordo può imporre la medesima dilazione o trattazione anche al 25% dissenziente . Queste forme di cram-down parziale colmano una storica lacuna: prima bastava una banca su quattro contraria per far saltare un accordo, ora quella banca di minoranza può essere vincolata lo stesso se l’accordo è omologato col favore degli altri principali istituti (resta fermo però che i creditori non finanziari estranei devono essere pagati integralmente). Naturalmente, l’accordo ad efficacia estesa richiede un vaglio attento del giudice e consente opposizione ai dissenzienti, che vorranno verificare di non essere trattati in modo deteriore. In sintesi, l’ARD “esteso” permette, in certe condizioni, un cram-down settoriale sui creditori finanziari o strategici non aderenti, superando in parte il limite della unanimità.
- Accordi di ristrutturazione per i gruppi di imprese: il CCII disciplina anche la possibilità che un accordo riguardi più società di un gruppo in crisi, con coordinamento tra le varie procedure (artt. 61- bis e ss. CCII). Questo aspetto esula dall’ambito della presente trattazione focalizzata sulla singola azienda.
Quali sono i vantaggi di un accordo di ristrutturazione dal punto di vista del debitore? Anzitutto, rispetto al concordato preventivo, l’ARD è più snello e riservato: non c’è una fase pubblica di voto dei creditori in udienza; si negozia privatamente e poi si porta il “patto” già fatto al giudice per sigillarlo . Questo significa meno pubblicità negativa e maggior controllo sui termini (non c’è rischio di sorprese in assemblea dei creditori, perché le adesioni sono raccolte prima una ad una). Inoltre, nell’ARD classico i creditori estranei devono essere pagati subito e per intero: ciò potrebbe sembrare uno svantaggio, ma se l’impresa è in grado di farlo, consente di tenere fuori dall’accordo molti creditori minori, concentrandosi solo su quelli principali necessari a raggiungere il 60%. Un altro vantaggio è l’esenzione dalle revocatorie (art. 59 CCII) e la possibilità di ottenere finanziamenti prededucibili collegati all’accordo. In pratica, un accordo omologato offre quasi gli stessi benefici protettivi di un concordato ma con meno ingerenza giudiziaria e senza necessità di coinvolgere tutti i creditori.
Gli svantaggi o limiti: ottenere il 60% (o anche solo il 30% nella versione agevolata) di consensi non è banale se la platea dei creditori è frammentata; inoltre resta il rischio che qualche creditore non aderente, specie se rilevante o se non viene pagato regolarmente, presenti opposizione e convinca il tribunale a non omologare l’accordo dimostrando che ne risulterebbe pregiudicato. In tal caso il tribunale rigetta l’omologa e può contestualmente aprire la liquidazione giudiziale se c’è insolvenza conclamata e qualche istanza pendente . Quindi c’è un effetto “o la va o la spacca”: o l’accordo viene omologato e salva il debitore, oppure, se fallisce, si può precipitare subito nel fallimento. Per questo motivo, spesso l’accordo è uno strumento indicato quando c’è già un consenso abbastanza solido e non troppi creditori esterni critici. Se il quadro è più conflittuale, si opta direttamente per un concordato dove decide la maggioranza senza bisogno di raccogliere firme individuali.
In pratica, un accordo di ristrutturazione è adatto se l’azienda ha, ad esempio, poche banche esposte e alcuni fornitori principali, e riesce ad assicurarsi il loro supporto su un piano di dilazione/falcidia del debito, disponendo però delle risorse per pagare cash i piccoli creditori che non aderiscono (magari con l’aiuto delle stesse banche che forniscono nuova finanza in prededuzione per liquidare gli estranei) . L’accordo può anche essere uno sbocco ex post di una composizione negoziata: l’Esperto conduce le trattative e alla fine formalizza le adesioni in un ARD da portare in tribunale .
Infine, c’è da menzionare uno strumento ibrido innovativo: il Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO), introdotto nel 2022 (art. 64- bis CCII). Questo consente al debitore di chiedere al tribunale l’omologazione di un piano di ristrutturazione anche senza aver ottenuto preventivamente le adesioni richieste per un ARD, con effetti vincolanti per tutti i creditori di determinate classi . Si tratta sostanzialmente del recepimento della Direttiva UE 2019/1023 sul quadro di ristrutturazione preventiva: un meccanismo di cram-down giudiziale di un piano che magari ha il supporto di certe classi di creditori ma non di altre. Nel PRO il tribunale può omologare un piano anche senza il 60% di tutte le passività, se ad esempio almeno una classe di creditori interessati ha votato a favore e sono rispettate varie condizioni (tra cui il rispetto della absolute priority rule in forma temperata) . Il PRO è molto complesso e, data la novità (introdotto col D.Lgs. 83/2022), ancora poco sperimentato; lo citiamo per completezza, essendo un ulteriore strumento di “ristrutturazione giudiziale flessibile” per evitare la liquidazione . Tuttavia, la sua applicazione pratica esula dagli scopi immediati di questa guida, rivolta a scenari più comuni di PMI.
(In sintesi: il PRO è un concordato senza voto aperto anche a imprese teoricamente fallibili, dove decide tutto il tribunale. Può essere visto come un “concordato forzoso” richiesto dal debitore. Vista la complessità, di solito si tenta prima un ARD tradizionale.)
Concordato preventivo (artt. 84-120 CCII)
Il concordato preventivo è la procedura concorsuale per eccellenza finalizzata al risanamento o, se ciò non è possibile, alla liquidazione controllata dell’impresa in crisi. È uno strumento giurisdizionalizzato, che coinvolge tutti i creditori, i quali votano su un piano proposto dal debitore, il tutto sotto la supervisione del tribunale. Si parla di “preventivo” perché mira ad evitare la soluzione più grave della liquidazione giudiziale (fallimento), attraverso un accordo collettivo con i creditori omologato dal giudice.
Il concordato può assumere forme diverse, principalmente: – Concordato in continuità aziendale: quando prevede che l’impresa prosegua, in tutto o in parte, l’attività (direttamente oppure indirettamente tramite un terzo) . L’obiettivo è salvare l’azienda come going concern, mantenere i posti di lavoro e generare utilità future da destinare ai creditori. La continuità può essere diretta (l’azienda continua la propria attività durante e dopo il concordato) o indiretta (si prevede la cessione o conferimento dell’azienda a un altro soggetto che la proseguirà, e il ricavato va ai creditori). – Concordato liquidatorio: quando invece prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio aziendale in modo ordinato e sotto controllo del debitore e del tribunale, anziché tramite fallimento. Questo tipo di concordato, per legge, è ammesso solo se assicura ai creditori chirografari un pagamento di almeno il 20% del loro credito (salvo che vengano apportate risorse esterne aggiuntive) . – Concordati misti: situazioni in cui è presente sia una componente di continuità sia una di liquidazione (es. l’azienda vende alcuni asset non strategici ma continua l’attività principale con il resto).
Il procedimento di concordato preventivo, in sintesi, si svolge così:
1. Domanda di concordato: il debitore deposita un ricorso in tribunale contenente la proposta di concordato rivolta ai creditori e un piano dettagliato (redatto secondo i requisiti dell’art. 87 CCII). Il piano deve indicare lo stato dell’azienda, le cause della crisi, le categorie di creditori (se si intende suddividerli in classi omogenee), le modalità con cui si intende soddisfarli (percentuali, tempistiche, eventuali garanzie) e le prospettive di continuità se previste. Alla domanda va allegata una relazione di un professionista indipendente (attestatore) che certifichi la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, nonché attesti che i creditori riceveranno una soddisfazione non inferiore a quella ricavabile da una liquidazione giudiziale . Questa attestazione di convenienza è fondamentale: per legge il piano di concordato deve garantire ai creditori una soddisfazione almeno pari a quella che avrebbero in caso di fallimento (principio di convenienza economica) . Se l’azienda ha necessità di protezione immediata ma non ha ancora predisposto un piano dettagliato, è possibile presentare una domanda di concordato “in bianco” (con riserva) ex art. 44 CCII (già art. 161 co. 6 l.fall.) . In tal caso il tribunale concede un termine (da 60 a 120 giorni, prorogabile) per depositare il piano definitivo. Nelle more, l’impresa ottiene comunque le protezioni del concordato (lo stay dei creditori) ma deve astenersi da atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice .
2. Apertura della procedura: il tribunale, verificati i requisiti di ammissibilità (completezza documenti, fattibilità del piano almeno sul piano logico, rispetto del minimo 20% se liquidatorio, ecc.), ammette il debitore al concordato con decreto. Viene nominato un Giudice Delegato e un Commissario Giudiziale (solitamente un commercialista) che vigilerà sulla gestione. Da questo momento scatta in pieno l’automatic stay: i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali né acquisire nuove garanzie sul patrimonio del debitore . Eventuali pignoramenti in corso sono sospesi per legge (art. 54 CCII). L’azienda continua ad essere gestita dal debitore (non c’è spossessamento come nel fallimento), però sotto la vigilanza del Commissario e con necessità di autorizzazione del giudice per gli atti di straordinaria amministrazione più rilevanti .
3. Adunanza dei creditori e voto: il Commissario Giudiziale, raccolte le domande di ammissione al passivo dei creditori, predispone l’elenco dei creditori aventi diritto di voto e una relazione sulla proposta concordataria. Viene convocata l’adunanza dei creditori (oggi spesso svolta per iscritto senza riunione fisica). In tale sede il debitore illustra il piano, i creditori possono fare domande, quindi esprimono il voto entro il termine fissato . I creditori possono essere suddivisi in classi secondo posizione giuridica e interessi omogenei; in tal caso il voto avviene per classi. La proposta di concordato è approvata se ottiene il voto favorevole di creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Precisamente, la regola base è la maggioranza per valore (oltre il 50% dei crediti votanti) . Se ci sono classi, occorre la maggioranza delle classi e, in ciascuna classe, il voto favorevole della maggioranza in valore dei crediti di quella classe . Nel calcolo si considerano solo i crediti di chi ha votato (esclusi gli astenuti). I creditori privilegiati o garantiti votano solo se il piano propone loro una qualche rinuncia (es. un taglio del credito o una dilazione ultra legem); altrimenti, se sono soddisfatti integralmente, non votano (perché non sono “pregiudicati” dalla proposta). Se la proposta non ottiene le maggioranze richieste, il concordato viene dichiarato inammissibile e il tribunale può, su istanza di qualcuno o d’ufficio, dichiarare la liquidazione giudiziale (specialmente se c’era già un’istanza di fallimento pendente o l’insolvenza è ormai conclamata) .
4. Omologazione: se i creditori approvano la proposta, si passa alla fase di omologazione giudiziale. Il tribunale verifica nuovamente la legittimità del procedimento e il rispetto di tutte le norme (es. che eventuali classi dissenzienti siano trattate correttamente secondo le regole di priorità e convenienza, ecc.). I creditori contrari possono proporre opposizione all’omologa lamentando violazioni di legge o vizi del piano. Il giudice decide all’udienza e omologa con sentenza. Da notare una novità importante: con la riforma oggi il tribunale può omologare il concordato anche in presenza del voto contrario dell’Erario o di altri creditori pubblici, purché la proposta assicuri a costoro una soddisfazione superiore rispetto alla liquidazione . Questo è il già citato cram down fiscale, storica innovazione confermata nel 2024 . Inoltre, è previsto un cram down interclassi: se c’è almeno una classe di creditori favorevole e altre contrarie, il tribunale può comunque omologare forzosamente il concordato a certe condizioni (rispetto rigoroso delle cause di prelazione, nessuna alterazione dell’ordine delle priorità salvo consenso nelle classi, ecc.) . Si è così introdotta la possibilità di confermare un concordato anche senza unanimità di classi, se è globalmente equo e conveniente. La sentenza di omologa rende il concordato efficace verso tutti i creditori anteriori (anche dissenzienti e non votanti), i quali dovranno accontentarsi di quanto previsto dal piano, e vincola il debitore all’esecuzione .
5. Esecuzione del concordato: il debitore, spesso sotto il controllo di un Comitato dei creditori e con l’assistenza del Commissario (che, se è previsto nel piano, può assumere funzioni di Liquidatore per la cessione dei beni), dà attuazione al piano: effettua i pagamenti promessi, cede eventuali cespiti, prosegue l’attività se in continuità, ecc. Al termine, se tutto è stato adempiuto regolarmente, il tribunale dichiara l’azienda uscita dal concordato per avvenuta esecuzione, e l’impresa risanata torna alla normale operatività.
Per il debitore, il concordato preventivo è spesso l’ultima spiaggia per evitare il fallimento quando non è stato possibile un accordo stragiudiziale. I vantaggi del concordato: – Consente di imporsi anche ai creditori dissenzienti, grazie alla forza del voto di maggioranza e all’omologa successiva: diversamente dal piano attestato o dall’accordo di ristrutturazione, qui se la maggioranza è con me, posso includere tutti nel cram down concorsuale . – Offre un respiro immediato: dalla presentazione della domanda (anche con riserva) scattano le protezioni automatiche che congelano il fronte dei creditori, evitando l’aggressione disordinata del patrimonio e dando tempo per attuare il piano . – Permette soluzioni creative e di ampio respiro: ad es. la suddivisione dei creditori in classi con trattamenti differenziati (ad esempio, nel concordato si possono pagare integralmente i piccoli creditori chirografari – sotto un certo importo – per ragioni di opportunità, e falcidiare maggiormente i creditori grandi; questo in un accordo fuori dal concorso sarebbe problematico per violazione par condicio, mentre nel concordato è possibile purché si rispettino le classi e le maggioranze). – Inoltre, in continuità, consente di mantenere in vita l’impresa e quindi di preservare valore (goodwill, avviamento, contratti in essere) a beneficio anche dei creditori, cosa che una liquidazione distruggerebbe.
Gli svantaggi del concordato: – È una procedura pubblica, complessa e costosa. Richiede di solito l’assistenza di advisor finanziari e legali per redigere un piano completo, l’intervento di un attestatore, il pagamento delle spese di procedura (commissario, eventuali coadiutori) e le spese di giustizia. Un concordato può durare diversi mesi (in media 6-12 mesi dal deposito all’omologa se tutto fila liscio) e necessita di una gestione rigorosa nel frattempo. – Impone limitazioni alla gestione: dal momento dell’ammissione, l’imprenditore perde libertà in operazioni straordinarie e deve sottostare alle autorizzazioni del tribunale. – Non è garantito il successo: come visto, serve comunque l’approvazione delle maggioranze di creditori; se questa manca o se il tribunale rileva violazioni di legge, si rischia di finire comunque in liquidazione. – Gli effetti sugli affidamenti e contratti in corso possono essere delicati: la legge (art. 94 CCII e art. 14 D.Lgs. 118/2021) prevede che i contratti pendenti non possano essere risolti solo perché è presentata domanda di concordato, ma nella prassi molti fornitori diventano diffidenti e richiedono pagamento anticipato per continuare a fornire.
Una domanda frequente riguarda la possibilità per un’azienda in concordato di partecipare a gare pubbliche o mantenere appalti in corso. La normativa attuale (art. 94 D.Lgs. 36/2023, nuovo Codice Appalti) distingue: l’ammissione a concordato con continuità aziendale non è causa automatica di esclusione dalle gare pubbliche, purché l’impresa sia in grado di dimostrare che eseguirà correttamente il contratto . Se invece si tratta di un concordato puramente liquidatorio (cessazione attività), allora è causa di esclusione dagli appalti pubblici . Quindi un’azienda di collanti in concordato può ancora lavorare con la Pubblica Amministrazione se c’è continuità e il tribunale autorizza, mentre se sta liquidando tutto no (perché non avrebbe senso affidarle lavori). In ogni caso, è spesso richiesta una dichiarazione all’ente appaltante e un nulla osta del tribunale per proseguire i contratti pubblici.
Un istituto peculiare previsto dal CCII è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25- sexies CCII), introdotto in via definitiva dopo la sperimentazione del D.L. 118/2021. Esso consente, in caso di esito negativo della composizione negoziata, che l’imprenditore insolvente proponga direttamente al tribunale un piano di liquidazione dei beni senza bisogno di voto dei creditori. In pratica, se la composizione fallisce e non c’è tempo o modo di convocare i creditori, il debitore può chiedere al giudice di omologare un concordato liquidatorio senza votazione, distribuendo il ricavato ai creditori in misura non inferiore a quanto otterrebbero nel fallimento . Questo strumento è pensato per evitare fallimenti disordinati quando ormai l’insolvenza è conclamata ma si è perso il consenso. Viene nominato un commissario liquidatore e, se il tribunale ritiene il piano vantaggioso per i creditori, lo omologa. Dopo la liquidazione dell’attivo, il debitore persona fisica può accedere all’esdebitazione e i creditori non soddisfatti non possono aggredire oltre. Si tratta di una soluzione extrema ratio, come vedremo in un caso pratico oltre (Caso 2), utilizzata per chiudere rapidamente situazioni compromesse. Non è una “scorciatoia” facile: serve aver tentato la composizione negoziata, e il controllo del tribunale è stretto. Ma ha il pregio di tagliare i tempi in assenza di alternative.
Riassumendo le opzioni concorsuali:
- Il concordato preventivo è lo strumento più ampio e completo: coinvolge tutti i creditori, può salvare l’impresa (in continuità) oppure liquidarla in modo ordinato, ma richiede maggioranze di voto e l’intervento attivo del tribunale in tutte le fasi. Adatto a crisi complesse con tanti creditori o con necessità di imporre sacrifici ad una parte consistente di essi.
- L’accordo di ristrutturazione omologato è più mirato: serve quando si ha già il sì di gran parte dei creditori rilevanti e si vuole una procedura più rapida e riservata. Non c’è voto collettivo, ma solo raccolta firme e poi omologa. Non vincola i non aderenti (se non nelle varianti particolari) ma protegge il debitore durante l’esecuzione. Adatto a crisi dove i creditori sono pochi e negoziabili in privato.
- Il piano attestato è totalmente fuori dal tribunale: ottimo se la crisi è affrontabile con accordi ristretti e l’azienda è in continuità. Massima riservatezza, ma nessun effetto protettivo verso terzi: utile solo se si riesce a evitare che i creditori estranei scatenino azioni esecutive.
- La composizione negoziata è una sorta di “pre-concordato” assistito: aiuta a imbastire accordi o piani (anche uno dei precedenti) con l’aiuto di un esperto e offre protezione temporanea. Molto utile se usata per tempo quando la crisi è affrontabile, meno quando la situazione è già degenerata.
- Il concordato semplificato è un rimedio finale, attivabile solo dopo un tentativo di composizione, per chiudere la partita liquidando i beni senza far votare i creditori (che magari sarebbero troppo disorganizzati o ostili). Serve a evitare fallimenti quando c’è comunque un piano da seguire.
(Da notare: per i soggetti non fallibili – piccoli imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli, privati consumatori – il CCII prevede procedure analoghe sotto il cappello del sovraindebitamento. Ci sono: il concordato minore (simile al concordato preventivo ma semplificato, senza percentuale minima 20%), la ristrutturazione dei debiti del consumatore (per persone fisiche non imprenditori) e la liquidazione controllata (simile al fallimento). Non tratteremo in dettaglio, ma è importante sapere che anche i non fallibili oggi hanno accesso a meccanismi di esdebitazione e composizione, per cui nessuno è davvero “senza via d’uscita” normativamente.)
Domande frequenti (FAQ) su debiti aziendali e soluzioni di crisi
D1: La mia azienda ha molti debiti verso il Fisco e l’INPS. Cosa rischio concretamente se non riesco a pagarli?
R: I rischi sono sia patrimoniali che personali. In primo luogo, Fisco e INPS possono attivare rapidamente il recupero forzoso: l’Agenzia delle Entrate-Riscossione può iscrivere ipoteche sugli immobili aziendali, fermare i macchinari o i veicoli (fermo amministrativo) e pignorare conti correnti o crediti, anche senza passare dal giudice . Inoltre, se il debito supera certi importi ed è scaduto, potrebbero anche presentare istanza di fallimento presso il tribunale . Dal lato personale, gli amministratori rischiano azioni di responsabilità (per aver aggravato la situazione non pagando tributi e contributi dovuti) e addirittura procedimenti penali: ad esempio, omettere il versamento dell’IVA oltre 250.000 € annui o delle ritenute oltre 150.000 € annui è reato tributario ; analogamente, non versare i contributi previdenziali trattenuti ai lavoratori oltre 10.000 € annui è reato . In più, finché ci sono cartelle esattoriali non saldate, l’azienda potrebbe non ottenere il DURC e quindi essere esclusa da appalti pubblici o incentivi . Insomma: se non paghi Fisco/INPS, questi creditori pubblici tendono ad essere i più rapidi e aggressivi (anche perché tutelano interessi erariali e sociali). La cosa migliore da fare è non restare passivi: si possono chiedere rateizzazioni per congelare i pignoramenti , approfittare di eventuali rottamazioni delle cartelle , o includere questi debiti in un piano di ristrutturazione più ampio (accordo di ristrutturazione o concordato preventivo con transazione fiscale/previdenziale) così da gestirli in modo sostenibile. Trascurare questi debiti, invece, porta quasi sicuramente a conseguenze gravissime (fallimento richiesto d’ufficio e denunce penali).
D2: Come posso evitare il fallimento della mia società?
R: L’ordinamento offre vari strumenti per evitare la liquidazione giudiziale, ma tutti richiedono un’azione tempestiva e pianificata. In linea generale, hai due approcci: soluzioni stragiudiziali oppure concorsuali. In una fase iniziale puoi tentare di negoziare direttamente con i creditori: ad esempio, piani di rientro privati con fornitori e banche (ottenere dilazioni di pagamento, riduzioni parziali del debito in cambio di pagamenti immediati, conversione di debiti in quote societarie, ecc.). Questo approccio “fai-da-te” funziona se i creditori sono pochi e collaborativi, e se l’azienda ha prospettive di recupero di redditività. Spesso però serve di più. Lo strumento stragiudiziale più evoluto è il piano attestato di risanamento: in pratica predisponi un piano industriale di rilancio, fai attestare da un esperto la sua fattibilità e veridicità, e se alcuni creditori ti supportano, esegui il piano (magari pubblicandolo per proteggere le transazioni da future revocatorie) . In alternativa, se la situazione è più compromessa, puoi accedere a strumenti concorsuali prima del fallimento: i principali sono l’accordo di ristrutturazione dei debiti (ti serve l’adesione di almeno il 60% dei creditori, poi il tribunale omologa e vincola anche gli eventuali dissenzienti finanziari) oppure il concordato preventivo (presenti un piano a tutti i creditori, se approvato a maggioranza ed omologato dal giudice eviti il fallimento offrendo un pagamento parziale secondo le possibilità) . C’è anche la nuova composizione negoziata: qui non c’è omologa, ma un esperto indipendente ti aiuta a trovare un accordo bonario con i creditori, e nel frattempo puoi ottenere dallo stesso tribunale misure protettive (lo stay temporaneo) . Insomma, per evitare il fallimento devi prendere in mano la situazione: analizzare le cause della crisi, redigere un progetto di risanamento credibile e attivare uno degli strumenti prima che i creditori ti precedano con azioni esecutive o istanze di fallimento. Una volta che il tribunale dichiara la liquidazione giudiziale, hai perso il controllo dell’impresa: conviene quindi muoversi prima con un piano di salvataggio negoziato o giudiziale.
D3: Che differenza c’è tra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione dei debiti?
R: Entrambi mirano a gestire la crisi evitando il fallimento, ma differiscono molto. In breve: – Il concordato preventivo coinvolge tutti i creditori; è una procedura concorsuale vera e propria in cui il piano viene sottoposto al voto di tutti i creditori e poi omologato dal tribunale . Ha fasi scandite (ammissione, nomina commissario, voto, omologa) e richiede maggioranze di voto (oltre il 50% dei crediti votanti, o maggioranza per classi). Consente di imporre la soluzione anche ai creditori contrari (purché si raggiungano le maggioranze richieste e il tribunale confermi) e offre uno stay automatico delle azioni esecutive fin dall’ammissione . – L’accordo di ristrutturazione (ARD) invece è più negoziale: coinvolge solo i creditori che aderiscono (deve aderire almeno il 60% del debito) e gli altri rimangono estranei, da pagare integralmente . Non c’è un voto collettivo, l’imprenditore raccoglie privatamente le firme necessarie e poi chiede al tribunale la semplice omologa dell’accordo già firmato . È quindi più rapido e riservato (meno pubblicità rispetto al concordato). Però non vincola i creditori che non hanno firmato: questi non subiscono riduzioni del credito (devono essere pagati fuori accordo) anche se, una volta omologato, l’accordo congela un po’ la situazione (perché il debitore ottiene protezione da azioni esecutive per eseguire l’accordo) . In sostanza, il concordato è uno strumento collettivo e autoritativo (maggioranza decide per tutti), mentre l’accordo è volontario e contrattuale (solo chi firma è dentro, salvo alcune eccezioni introdotte di recente – es. accordo ad efficacia estesa per banche dissenzienti, ma comunque serve il loro 75% di categoria) . Un altro elemento: i costi e la complessità. Il concordato comporta i costi di una procedura (commissario, spese legali più alte, possibili perizie), l’accordo di ristrutturazione è più leggero (nessun commissario di solito, solo attestatore e legali) . In definitiva, se hai pochi creditori chiave e riesci a farli concordare privatamente, l’accordo è preferibile (meno oneroso e meno traumatico); se invece hai tanti creditori e conflittualità diffusa, bisogna andare in concordato così la maggioranza può decidere per tutti. Va detto che oggi il confine si è assottigliato: con le varianti agevolate (quorum 30%) e estese (cram-down sui finanziari dissenzienti) l’accordo di ristrutturazione è diventato più potente e simile a un concordato “mirato” per certi creditori . Viceversa, il concordato con suddivisione in classi e cram-down interclassi appare più flessibile di un tempo. La scelta va fatta caso per caso valutando numero e tipologia dei creditori, urgenza dello stay, e reputazione (il concordato è pubblico e può portare stigma, l’accordo magari meno). Da notare: in un concordato tutti i vecchi debiti rimasti insoddisfatti vengono cancellati all’esecuzione del piano, mentre in un accordo ARD se c’è qualche creditore non aderente che non sei riuscito a pagare integralmente, teoricamente resta creditore per quella parte (anche se di solito non succede perché se ne occupa il piano).
D4: Cos’è la composizione negoziata e in cosa differisce dalle vecchie “procedure di allerta”?
R: La composizione negoziata della crisi è una procedura introdotta nel 2021, volontaria e riservata, che mette l’imprenditore in crisi assistito da un esperto indipendente al tavolo con i creditori per trovare un accordo. Si attiva su istanza dell’imprenditore tramite piattaforma online camerale, ed è aperta anche alle piccole imprese ed alle società agricole (mentre le vecchie allerta le escludevano) . Le vecchie “procedure di allerta” previste nella prima versione del Codice (mai entrate in vigore per la pandemia) prevedevano meccanismi di segnalazione obbligatoria e di composizione presso organismi pubblici, con possibili sanzioni per l’imprenditore che non reagiva. La composizione negoziata non è punitiva: è un percorso facoltativo, confidenziale, dove l’obiettivo è aiutare l’impresa a risanarsi con il consenso dei creditori, senza dichiarazioni di insolvenza né pubblicità iniziale. Non c’è un “organo di composizione” collegiale come nelle vecchie allerta, ma un singolo Esperto indipendente che facilita le trattative. L’idea è passare da una logica coercitiva (allerta: “ti segnalo e ti obbligo a venire a patti”) a una logica collaborativa (“ti offro un esperto e delle tutele se vuoi cercare un accordo”). La composizione negoziata offre inoltre la possibilità di ottenere misure protettive mirate (blocco temporaneo dei pignoramenti) , cosa che le vecchie allerta non avevano (lì c’era semmai la minaccia del ricorso d’ufficio al tribunale se non si trovava accordo). Quindi possiamo dire: la composizione negoziata è la versione moderna e “soft” delle allerta, centrata sul consenso volontario e su incentivi (es. se concludi accordi, quegli atti non sono revocabili; se intraprendi la composizione, hai esenzioni sanzionatorie). Altra differenza: la composizione non ha soglie d’accesso (anche micro-imprese possono chiedere aiuto), mentre le vecchie allerta escludevano i piccoli. In sostanza, la composizione negoziata è oggi lo strumento principe per la gestione precoce delle crisi: un incubatore di possibili soluzioni concordate (piani attestati, accordi o concordati), al riparo dall’aggressione dei creditori. Le “allerta” come tali sono state abrogate, e rimane giusto qualche obbligo di segnalazione esterna per Fisco e INPS (ancora sospeso fino a fine 2023) per stimolare l’uso della composizione stessa.
D5: La banca ha iniziato un pignoramento immobiliare sulla sede dell’azienda per un mutuo scaduto. Possiamo fare qualcosa per fermarla?
R: Sì, ci sono alcune possibili azioni difensive, ma l’efficacia dipende dallo stadio in cui ci si muove e dalla disponibilità della banca. Ecco alcune opzioni: – Trattativa con la banca: la prima cosa è parlare con l’istituto. Se riuscite a proporre una soluzione (es. vendita concordata dell’immobile per rientrare, o pagamento delle rate arretrate con un piano credibile), la banca potrebbe sospendere l’esecuzione. Spesso, se la banca intravede la prospettiva di recuperare meglio fuori dall’asta, è disposta a pattuire una moratoria o rinegoziare. Ad esempio, potreste offrire di pagare subito gli arretrati e riprendere i pagamenti correnti chiedendo contestualmente di diluire l’extratime il residuo del mutuo. – Procedura concorsuale o accordo in extremis: se la trattativa privata non va, l’unico modo per obbligare la banca a fermarsi è ottenere uno stay dal tribunale. Presentando una domanda di concordato preventivo (anche con riserva) o un ricorso per omologa di un accordo di ristrutturazione, scatta il blocco automatico o disposto dal giudice delle azioni esecutive, compreso il pignoramento in corso . Bisogna però avere un piano sostanzioso da offrire anche alla banca, sennò si prende solo tempo. Anche la composizione negoziata può proteggervi: se la iniziate e chiedete misure protettive, il tribunale può sospendere specificamente quel pignoramento . Questa sospensione dura inizialmente 4 mesi (prorogabili). – Conversione del pignoramento: un’opzione tecnica, se avete liquidità, è depositare in tribunale una somma pari a quanto dovuto (capitale, interessi e spese) o anche un importo minore offerto come garanzia (art. 495 c.p.c.). In tal caso chiedete la conversione del pignoramento: il giudice sospende l’esecuzione a fronte del deposito e concede un termine per pagare a rate quella somma. È un modo per “comprare tempo” e impedire la vendita all’asta, ma occorre avere almeno una parte dei fondi disponibili da bloccare in deposito. – Opposizione all’esecuzione o agli atti: se nel pignoramento ci fossero vizi (es. notifica errata, importi contestabili), si può fare opposizione in tribunale. Questo però non ferma automaticamente l’asta, serve chiedere al giudice la sospensione che viene data solo per vizi seri. Diciamo che questa via è utile solo se c’è davvero un vizio formale. In sintesi, la strada principale è tentare un accordo con la banca presentando magari un piano di ristrutturazione (magari coinvolgendo altri creditori in un ARD o concordato): se la banca vede che c’è una strategia credibile, potrebbe aderire o quantomeno attendere l’esito. Se invece l’asta è imminente e la banca intransigente, dovete considerare di far partire subito un concordato preventivo “di emergenza” per congelare tutto e poi giocarvi la partita in procedura (trovando eventualmente un investitore per rilevare l’immobile, ecc.). Ricordate però che abusare del concordato solo per bloccare l’asta senza un vero piano può portarvi a un fallimento diretto se la procedura viene dichiarata inammissibile o viene poi revocata l’ammissione. Quindi usatelo solo se c’è una sostanza di risanamento. Ultimo consiglio: se l’immobile non è indispensabile per l’attività (es. è un magazzino facilmente sostituibile), a volte conviene lasciarlo andare all’asta e concentrare le risorse per salvare il resto dell’azienda. Valutate con un esperto cosa è più conveniente nel lungo periodo.
D6: Ho sentito parlare di “cram down fiscale” nel concordato. Cosa significa in pratica?
R: Il cram down fiscale è la possibilità per il tribunale di omologare un concordato preventivo anche senza il voto favorevole dell’Erario (Agenzia Entrate o altri enti pubblici creditori), a condizione che il piano offra a questi creditori una soddisfazione non inferiore a quella che otterrebbero in caso di liquidazione fallimentare . In pratica, prima se il Fisco votava “no” il concordato saltava, oggi non più: se un perito (attestatore) dimostra che pagando, ad esempio, il 30% di IVA in 5 anni il Fisco incassa più di quanto incasserebbe dal fallimento (dove magari otterrebbe solo il 10% e dopo la vendita), allora il giudice può omologare il concordato nonostante il voto contrario dell’Agenzia delle Entrate . È un cambiamento epocale introdotto nel 2022-2023 per recepire la direttiva UE sull’insolvency e confermato dalla Cassazione nel 2024 . Significa che i creditori pubblici non hanno più un veto assoluto: conta la convenienza economica. Per l’imprenditore, ciò apre possibilità di concordati in cui i debiti fiscali e contributivi vengono falcidiati (ridotti) o dilazionati senza dover per forza avere il loro OK, se riesce a convincere il tribunale che comunque li sta trattando al meglio delle possibilità. Questo cram down è importantissimo, perché in passato molti concordati saltavano a causa del no del Fisco (che spesso chiedeva il 100% di pagamento e immediatamente, rendendo impossibili i piani). Adesso invece, ferma restando la regola che almeno l’IVA “privilegiata” va pagata nel valore di realizzo del magazzino e beni mobili , si può prevedere ad esempio: pagamento parziale di IVA e contributi, spalmato su 4-5 anni, e se ciò è più del ricavato in caso di fallimento, il giudice può imporsi sul loro dissenso . Quindi “cram down fiscale” in pratica significa: non serve più convincere per forza il Fisco, basta trattarlo bene quanto la legge richiede. Da notare però: bisogna rispettare le priorità (non è che puoi pagare meno il Fisco di un chirografario qualunque, devi comunque soddisfare i privilegi nei limiti del valore delle garanzie/privilegi). È una procedura da maneggiare con cura e con adeguate relazioni di stima a supporto. Un esempio concreto: la mia azienda ha 500.000 € di debito IVA privilegiata; in fallimento, stima che il magazzino e i beni mobili generino 200.000 € (quindi il Fisco prendrebbe 200.000, 40%). Nel concordato propongo di pagare 250.000 € al Fisco (50%) in 4 anni e taglio il resto. L’Agenzia vota no, perché vorrebbe il 100%. Ma il giudice, su istanza nostra e con i calcoli prodotti, omologa lo stesso perché vede che 50% > 40% (è meglio che in fallimento). Ecco fatto il cram down fiscale.
D7: La mia società è molto piccola (fatturato e attivo sotto le soglie di fallibilità) ma ha debiti che non riesce a pagare. Possiamo accedere anche noi a queste procedure?
R: Sì. Con l’entrata in vigore del Codice della crisi, anche le piccole imprese non fallibili hanno a disposizione procedure analoghe. In particolare esistono le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (L.3/2012 come integrata nel CCII, artt. 270 e seguenti). Ci sono tre strumenti principali: il concordato minore, molto simile al concordato preventivo ma calibrato su realtà minori (ad esempio, non serve raggiungere il 20% minimo ai chirografari e le formalità sono ridotte); il piano del consumatore/ristrutturazione debiti del consumatore (per i debitori persone fisiche non fallibili che hanno debiti privati o da piccola impresa cessata, consente di omologare un piano senza voto dei creditori, basato solo sulla valutazione di meritevolezza e sostenibilità); e la liquidazione controllata (che rimpiazza il vecchio fallimento civile, è una liquidazione del patrimonio gestita da un OCC). Nel tuo caso, se la società è talmente piccola da non poter essere dichiarata fallita, potresti utilizzare ad esempio il concordato minore: presenti un piano ai creditori (anche qui serve un attestatore e l’omologazione del tribunale) ma le regole di voto sono più semplici e i termini più brevi. Oppure, se vuoi chiudere la società liberandoti dei debiti, la liquidazione controllata consente di liquidare i beni residui sotto supervisione OCC e poi ottenere l’esdebitazione (cancellazione dei debiti) residuale per la società o i soci illimitatamente responsabili . In ogni caso, va sottolineato che la composizione negoziata è aperta a tutte le imprese, anche microscopiche , quindi potete comunque iniziare da lì per cercare un accordo stragiudiziale assistito. Se poi siete formalmente non fallibili, la composizione potrà sfociare in un concordato minore o in un accordo di ristrutturazione soggetto a omologazione anche se i creditori sono pochi (tecnicamente potete fare un accordo ex art. 57 CCII pure se non sareste fallibili, la legge non lo vieta). In sintesi: nessuno rimane senza strumenti. Anzi, il nuovo sistema vuole che anche l’imprenditore artigiano, il coltivatore diretto, il piccolo commerciante possano ristrutturare i debiti o liquidare ordinatamente l’attività ed essere esdebitati. Quindi nel tuo caso informati sulle procedure da sovraindebitamento: hanno nomi leggermente diversi ma lo scopo è lo stesso (evitare la chiusura disordinata). Un esempio: un artigiano con 200.000 € di debiti potrebbe proporre un concordato minore offrendo il 30% in 4 anni; i creditori votano, serve la maggioranza come nel concordato normale; se approvano, il tribunale omologa e poi l’artigiano paga il 30% e si libera dal resto. Questo anche se un tempo, essendo piccolo, non sarebbe fallito ma avrebbe portato i debiti a vita: ora c’è la soluzione anche per lui.
D8: Se presento un concordato o un accordo, posso continuare a lavorare con la Pubblica Amministrazione o partecipare a bandi? O vengo escluso?
R: Dipende dalla situazione. In linea generale, l’ammissione a concordato preventivo in continuità aziendale non determina di per sé l’esclusione dagli appalti pubblici, grazie a una norma del nuovo Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 36/2023) . In pratica se stai facendo un concordato per risanarti (mantenendo l’attività), puoi ancora partecipare a gare o mantenere contratti con la PA, a condizione che tu possa garantire l’esecuzione del contratto (spesso viene chiesto un nulla osta del tribunale o un parere del Commissario che attesti che l’azienda è in grado di adempiere). Se però il concordato è liquidatorio (cioè stai cessando l’attività e vendendo i beni), allora è causa di esclusione automatica dalle nuove gare e di risoluzione dei contratti pubblici in essere . Quindi la PA fa una distinzione: concordato con continuità = ok con cautele, concordato liquidatorio = out. Per quanto riguarda gli accordi di ristrutturazione, la legge non li cita specificamente nel Codice Appalti; in genere però, essendo omologati dal tribunale, si ritiene che l’impresa in accordo non sia in stato di fallimento né di concordato, quindi in teoria non ci sarebbe causa di esclusione automatica. Tuttavia, spesso le stazioni appaltanti equiparano una situazione di accordo omologato a quella di concordato (essendo comunque indice di crisi). Diciamo che se l’accordo prevede la continuità dell’impresa, l’azienda potrebbe mantenere i contratti pubblici esistenti informando l’ente e presentando garanzie di regolare esecuzione. Alcuni bandi richiedono dichiarazioni tipo “non siamo in stato di concordato/fallimento né in procedure equivalenti”: un accordo di ristrutturazione omologato potrebbe rientrare nelle “procedure equivalenti” (dipende come è scritto il bando). In pratica, c’è ancora cautela da parte delle PA verso chi è in crisi, anche se la legge permetterebbe di non escluderlo se è in regola con pagamenti e ha prospettive di risanamento. Quindi il suggerimento è: se sei in concordato in continuità, cita l’art. 94 del Codice Appalti che ti consente di partecipare, allegando magari il decreto di ammissione che evidenzia la continuità e come garantirai il servizio. Se sei in accordo, spiega che non sei in fallimento né concordato ma hai un piano omologato che ti consente di proseguire l’attività regolarmente. E comunque interfacciati col RUP (responsabile unico del procedimento) dell’ente appaltante per trasparenza. Da esperienza, molte PA preferiscono evitare di affidare nuovi appalti a imprese in procedura concorsuale per prudenza gestionale, ma non è un divieto assoluto: se dimostri affidabilità e se la procedura è finalizzata alla continuità, puoi ancora lavorare. Ad esempio, ci sono casi di società in concordato con continuità che hanno eseguito appalti pubblici con successo, sotto monitoraggio. Ovviamente, se non paghi tributi e contributi, non avrai DURC e sarai escluso comunque: quindi assicurati di mantenere regolari i versamenti correnti o di essere in regola tramite rateizzazioni (il DURC viene rilasciato se hai un piano di rate concordato e lo rispetti). Insomma: concordato/accordo non significano morte civile coi contratti pubblici, ma devi gestire bene la comunicazione e avere l’ok del tribunale e del Commissario (nel concordato) per proseguire i lavori.
D9: Se la mia azienda viene dichiarata fallita (liquidazione giudiziale), che conseguenze penali devo temere?
R: Con l’apertura del fallimento scatta purtroppo il capitolo dei reati concorsuali, in primis la bancarotta. Il Curatore fallimentare infatti trasmette al Pubblico Ministero una relazione dettagliata e, se emergono irregolarità, gli amministratori e i dirigenti possono essere chiamati a risponderne penalmente. I reati tipici sono: – Bancarotta fraudolenta (art. 322 CCII, ex art. 216 l.fall.): riguarda condotte dolose come distrarre beni dell’azienda (es. portarsi via denaro o beni prima del fallimento per non farli trovare ai creditori), fare atti in frode (es. simulare vendite), oppure falsificare le scritture contabili o occultarle . È un delitto grave, con pene che possono arrivare fino a 6-10 anni di reclusione nei casi più seri. – Bancarotta semplice (art. 323 CCII, ex art. 217 l.fall.): scatta per condotte meno fraudolente ma comunque colpose, tipo aver aggravato il dissesto con spese personali eccessive, aver ritardato il fallimento, non aver tenuto le scritture contabili, ecc. . Le pene sono più basse (fino a 2 anni, spesso convertibili in misure alternative), ma restano condanne penali. – Bancarotta preferenziale (art. 322 co.2 n.1 CCII): se prima del fallimento hai favorito alcuni creditori a scapito di altri (pagando alcuni in modo preferenziale mentre eri già in dissesto), puoi essere accusato di aver dolosamente alterato la par condicio. Esempio: paghi integralmente un fornitore amico poco prima di fallire e lasci tutti gli altri a bocca asciutta; questo può essere visto come bancarotta preferenziale. – Altri reati: ricorso abusivo al credito (art. 325 CCII) se hai continuato a fare debiti pur sapendo di essere insolvente; bancarotta impropria da reato societario (art. 330 CCII) se hai falsificato i bilanci causando il dissesto . Inoltre, rimangono in piedi i reati tributari: se non hai pagato IVA o ritenute sopra soglia, verrai imputato per quelli a parte (il fallimento non cancella il penale, anzi lo evidenzia). Quindi, in caso di fallimento, l’amministratore deve attivare immediatamente una difesa penale preparandosi a giustificare la propria gestione. Non è detto che ogni fallimento generi condanne: se hai agito in buona fede e non hai fatto sparire nulla, potresti anche evitare incriminazioni gravi (magari al massimo la bancarotta semplice per tardiva richiesta). Ma bisogna dimostrare di non aver compiuto atti distrattivi. Ad esempio, una sentenza della Cassazione del 2024 ha qualificato come bancarotta fraudolenta per operazioni dolose il semplice fatto di aver sistematicamente evaso IVA e contributi causando poi il fallimento . Quindi anche la inerzia nel pagare le imposte è stata vista come condotta dolosa! Questo per dire che i giudici oggi sono piuttosto severi. La miglior difesa penale è aver agito per tempo: se tu porti l’azienda in concordato prima del fallimento e risani, non c’è bancarotta; se fallisci ma puoi dimostrare che hai fatto di tutto per evitarlo legalmente, eventuali omissioni magari saranno perdonate. Ovviamente se invece hai commesso irregolarità (es. prelevato soldi dal conto per usi personali, venduto beni sottocosto ai parenti, ecc.), allora sarà difficile evitare condanne. In breve: con la dichiarazione di fallimento, preparati a possibili guai penali. Se sai di avere qualche “scheletro nell’armadio”, informa subito il tuo avvocato. E sappi che eventuali pagamenti fatti in concordato preventivo con successo non costituiscono reato di bancarotta preferenziale (perché autorizzati) , quindi un motivo in più per preferire salvare l’azienda prima che fallisca: in concordato non c’è mai bancarotta (il concordato è una procedura che esclude le sanzioni penali fallimentari). Se ormai è fallita, l’unica cosa positiva è che se sei un piccolo imprenditore persona fisica, dopo la chiusura puoi chiedere l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) a certe condizioni . Ma le condanne penali, quelle purtroppo restano (anche se magari sospese con la condizionale se incensurato).
D10: In caso di concordato o accordo, devo pagare tutti i creditori allo stesso modo? Posso trattare meglio fornitori strategici o piccoli creditori?
R: Nel concordato preventivo vige il principio della parità di trattamento tra creditori di pari grado, salvo differenziazioni oggettive o basate sul consenso. Ciò significa che non puoi arbitrariamente discriminare tra creditori chirografari uguali: ad esempio, non puoi proporre di pagare Tizio al 100% e Caio al 10% solo perché Tizio ti sta simpatico. Tuttavia, la legge consente differenze se giustificate. Lo strumento tipico è la classazione: puoi suddividere i creditori in classi omogenee per posizione giuridica o interesse economico, e prevedere trattamenti differenziati per classi diverse (art. 85 CCII). Ad esempio, puoi mettere i fornitori “strategici” in una classe e offrire loro l’80%, e gli altri chirografari in un’altra classe con il 20%, motivando che i primi sono essenziali per la continuità e magari forniscono nuovo credito (questo rende la differenza oggettiva) . I piccoli creditori sotto una certa soglia (il CCII suggerisce sotto il 5% del passivo) possono essere soddisfatti integralmente per ragioni di convenienza (spesso si fa per evitare di avere troppi piccoli votanti) senza violare la par condicio, perché la legge lo consente purché sia indicato nel piano. Quindi sì, in concordato puoi trattare meglio alcuni, ma devi inserirlo nella logica delle classi e ottenere comunque le maggioranze e l’approvazione del giudice (che verificherà che non ci siano disparità ingiustificate). Nel accordo di ristrutturazione la questione è diversa: essendo un contratto, puoi in teoria offrire condizioni diverse a chi aderisce rispetto a chi non aderisce. Anzi, per definizione i non aderenti devono essere pagati al 100%. Quindi di fatto favorisci proprio chi non collabora (li paghi per intero) e chiedi il sacrificio solo a chi firma l’accordo (che accetta volontariamente un pagamento inferiore). Paradossale ma è così. Puoi certo pagare alcuni creditori chiave meglio di altri per convincerli a firmare: ad esempio, alla banca principale offri il 80%, ai fornitori secondari il 40%. Nel momento in cui firmano, quella è la loro scelta. L’importante è che nell’attestazione l’esperto dichiari che l’accordo non pregiudica indebitamente i non aderenti. In un piano attestato, essendo totalmente libero, puoi fare quello che vuoi: puoi accordarti individualmente con alcuni creditori per uno stralcio e pagarne altri per intero. Ovviamente devi stare attento: se paghi taluni fuori piano e altri no, chi resta fuori potrebbe agire in esecuzione (non c’è protezione) . Quindi spesso si cerca di dare almeno qualcosina a tutti per tenerli buoni. In sintesi: no, non devi pagare tutti uguale. Puoi modulare i trattamenti purché rispetti le regole. Nel concordato la regola è: all’interno di una classe tutti uguali, tra classi puoi differenziare (ma preparati a spiegare perché e occhio che se metti dissimili in una classe potresti far arrabbiare qualcuno). Nell’accordo puoi fare accordi ad hoc con ciascuno (contrattando liberamente sconti diversi). Tieni presente un vincolo legale: nei concordati liquidatori devi dare almeno il 20% ai chirografari, non puoi dare zero a uno e 30% a un altro, devi comunque superare il 20 per tutti quelli degradati. E se dai garanzie aggiuntive a qualcuno dentro il concordato, devi offrirle anche agli altri della classe, se no questi si oppongono. Ultima cosa: se alcuni soci o terzi vogliono favorire certi creditori, è possibile che fuori dal piano qualcuno venga soddisfatto per intero dal garante esterno (es. il socio paga di tasca sua un fornitore strategico prima del concordato). Questo non intacca la par condicio nel concordato (perché avviene con fondi esterni, e anzi è permesso perché riduce il passivo). Basta non usare risorse aziendali per far preferenze senza criterio immediatamente prima della procedura, perché quello sarebbe attaccabile come atto in frode.
D11: Se la mia società è ammessa al concordato e poi lo esegue correttamente, i debiti residui vengono cancellati? I garanti personali (fideiussori) sono liberati?
R: In caso di concordato preventivo omologato ed eseguito, la società-debitore è definitivamente liberata dai debiti anteriori non soddisfatti integralmente, ad eccezione di quelli che il piano concordatario eventualmente lasci “impagati” secondo legge (es. alcune sanzioni penali o amministrative non condonabili). In pratica, se il concordato va a buon fine, i creditori anteriori non possono più pretendere nulla oltre quanto ricevuto in concordato . Questo è uno degli scopi del concordato: l’esdebitazione dell’impresa a fronte dell’adempimento del piano. Per fare un esempio: avevi 1 milione di debiti, nel concordato ne paghi 300 mila (30%) e ottieni l’omologa; quando hai pagato quei 300 mila, la società esce pulita e i 700 mila restanti sono estinti ope legis. Attenzione però: questo vale per la società debitrice. I garanti personali e gli obbligati in solido non sono automaticamente liberati dal concordato della società (a meno che il concordato stesso non lo preveda espressamente e i creditori lo accettino). È un concetto importante: il concordato fa stato solo per il debitore ammesso. Ad esempio, se tu amministratore hai dato una fideiussione alla banca, e la società fa un concordato pagando il 50% al banco, la banca – salvo diverso accordo – può ancora chiedere a te come fideiussore il restante 50% (la fideiussione non è toccata dal concordato) . Lo stesso per un coobbligato: se due società avevano garantito insieme un debito e solo una fa concordato, l’altra ne risponde per intero. Nel caso di soci di SNC o SAS (illimitatamente responsabili), la legge prevede che nel concordato della società possano essere compresi gli effetti anche per i soci, ma è complesso e di solito si preferisce farli congiuntamente. Dunque, per rispondere: sì, la società uscita da concordato regolarmente eseguito ottiene un fresh start sui vecchi debiti; no, i fideiussori non sono liberati di default. Se vuoi liberarli, devi inserirlo nelle condizioni e ottenere l’accordo dei creditori in sede di voto (spesso i creditori non sono affatto disposti a rinunciare anche ai garanti, a meno che il piano non dia loro qualcosa in più in cambio). Va detto però che a volte succede di fatto che i creditori, incassato il concordato e magari essendo passato tempo, non vadano poi a rivalersi sui garanti. Ma giuridicamente potrebbero farlo. Diverso è il caso degli accordi di ristrutturazione: lì la legge prevede esplicitamente che si possano liberare i coobbligati se ciò è pattuito nell’accordo . Ad esempio, in un ARD puoi inserire una clausola che “la banca rinuncia ad escutere la fideiussione dell’amministratore” ed è valida se la banca firma l’accordo. Dunque negli accordi c’è più libertà contrattuale su questo. Nel concordato, non potendo intervenire direttamente sul terzo garante, l’unico modo è che il garante stesso aderisce come terzo datore d’opera e si negozi una liberatoria. Ma ripeto: raramente i creditori mollano la presa sui garanti senza ricevere integrale pagamento. In conclusione: il residuo dei debiti sociali dopo il concordato eseguito sparisce per la società, ma se ci sono fideiussori, essi restano vincolati per il residuo salvo patto contrario. Questo è un aspetto da considerare per l’imprenditore: se hai garantito personalmente molti debiti, fare un concordato dell’azienda potrebbe non metterti al riparo personalmente (ti salvi l’azienda ma ti ritrovi i creditori addosso come persona fisica). In questi casi, conviene provare a includere nel piano qualche soddisfazione maggiore ai creditori chiedendo in cambio la liberazione del garante. Oppure, extrema ratio, se i debiti sono insostenibili anche per te, valutare la procedura personale (in parallelo potresti fare un sovraindebitamento personale o se fallisci come socio illimitato, poi chiedere l’esdebitazione). Non c’è una bacchetta magica purtroppo, ma l’importante è sapere che il concordato non cancella le garanzie di terzi a meno che tu non lo negozi.
D12: Quali sono i tempi indicativi di un concordato preventivo? E i costi?
R: I tempi variano molto, ma indicativamente: – Preparazione del piano e dei documenti: può richiedere da qualche settimana a qualche mese, a seconda della complessità dell’azienda. Se la crisi è improvvisa e serve protezione subito, si può depositare un “concordato in bianco” che dà 2-4 mesi di tempo per completare il piano . – Fase di ammissione: dal deposito della domanda completa all’ammissione passa solitamente 1-2 mesi (il tribunale verifica i documenti e fissa un’udienza se necessario). Se documenti ok, ammissione in 30 giorni circa. – Intervallo prima dell’adunanza dei creditori: una volta ammesso, il Commissario raccoglie le dichiarazioni dei crediti e fa relazione: in media 60-90 giorni. L’adunanza dei creditori spesso viene fissata 90-120 giorni dopo l’ammissione . – Votazione e omologa: se il voto è favorevole, il tribunale fissa un’udienza di omologa entro 30-45 giorni dalla chiusura delle votazioni. Se ci sono opposizioni, possono volerci un paio di mesi ulteriori per la decisione. Quindi dall’adunanza all’omologa direi altri 2-4 mesi. Complessivamente, un concordato può durare 6 mesi (molto ottimistico) a 12-18 mesi per arrivare all’omologa definitiva. Ci sono concordati complessi che durano anche 2 anni prima dell’omologa, specie se opposizioni e rinvii. Questi tempi però sono quelli legali; l’esecuzione del piano poi può durare anni (es. se il piano prevede pagamenti in 5 anni, l’azienda per 5 anni sarà vincolata). Invece l’accordo di ristrutturazione può essere più rapido: se hai le firme già, il tribunale deve solo fare omologa (30-60 giorni oltre i 30 giorni di opposizioni) . Quindi un ARD si può chiudere in 2-4 mesi. La composizione negoziata ha tempi variabili: l’incarico dell’Esperto dura al massimo 180 giorni (prorogabili di 180), quindi entro 6-12 mesi devi concluderla. – I costi: per un concordato preventivo devi considerare: le spese legali e dei consulenti per predisporre il piano (dipende da chi incarichi, possono essere decine di migliaia di euro per aziende medie), il compenso dell’attestatore (anche qui, qualche decina di migliaia), il costo del Commissario Giudiziale nominato (liquidato dal tribunale a fine procedura di solito, in percentuale sul passivo e sull’attivo; per piccole imprese può essere qualche migliaio, per grosse si sale). Inoltre ci sono costi indiretti: ad esempio, devi accantonare liquidità per pagare certi creditori prioritari subito (spese di procedura, crediti prededucibili, ecc.). Un concordato può costare in totale anche un 5-10% dell’attivo, in casi complessi. L’accordo di ristrutturazione costa meno: niente commissario, solo attestatore e legali. La composizione negoziata ha costi ancora inferiori (l’Esperto è pagato secondo tariffe modeste da decreto dirigenziale). L’OCC nelle procedure minori prende poco rispetto a un curatore fallimentare. In generale, più la procedura è “court-intensive”, più costa. Ma attenzione: i costi di solito vengono inseriti nel piano finanziario e considerati nel fabbisogno. Una buona prassi è fare un budget dei costi di procedura e tenerli in cassa dedicati. Se il concordato va a buon fine, i costi di solito sono prededucibili (cioè vengono pagati prima degli altri creditori senza contestazioni). Perciò i creditori non se ne lamentano troppo, a patto che il piano resti conveniente per loro. Per un’azienda di piccole dimensioni, diciamo 2-3 milioni di debiti, un concordato può costare sui 50-100k € di spese professionali e procedurali. Un accordo magari la metà. Ovviamente ogni caso è a sé. In sintesi: tempi di un concordato dall’idea all’omologa possono essere 1 anno circa; costi significativi ma che vanno visti come “investimento” per salvare l’impresa, spesso finanziato in parte dalla procedura stessa (ad esempio con la liquidazione di qualche asset non strategico per pagare professionisti). L’importante è scegliere uno strumento adeguato anche in base alle risorse disponibili: non avrebbe senso intraprendere un concordato se non hai nemmeno i soldi per l’attestatore. In tal caso, meglio tentare la composizione negoziata dove l’Esperto costa poco e magari trovi un investitore. Ogni strumento ha un po’ il suo “ticket di ingresso”.
Casi pratici di gestione della crisi
Vediamo ora alcuni casi simulati ispirati a situazioni reali, per capire come funzionano in concreto i diversi approcci alla crisi d’impresa. Presentiamo tre scenari tipici: (1) un’azienda che riesce a risanarsi coinvolgendo un investitore e utilizzando composizione negoziata e concordato in continuità; (2) un piccolo imprenditore individuale che purtroppo arriva tardi e deve liquidare l’attività con un concordato semplificato, subendo anche conseguenze penali per comportamenti scorretti; (3) un’azienda di medie dimensioni che ristruttura il debito con un accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa riuscendo a evitare il concordato e mantenendo il controllo ai soci.
Caso 1: Risanamento attraverso composizione negoziata e concordato in continuità
Gamma S.r.l. – Produzione di collanti industriali speciali per il settore automotive e aerospaziale. 20 dipendenti. Negli ultimi anni accumula debiti: €300.000 verso fornitori (chimica e imballaggi), €200.000 di arretrati bancari (uno scoperto di conto e un leasing non pagato), €150.000 di debiti fiscali (IVA non versata) e €80.000 verso l’INPS (contributi dipendenti non versati). Le vendite sono calate del 20% per la contrazione del mercato auto, ma l’azienda ha ancora un portafoglio ordini interessante su nuovi collanti innovativi (dunque ha prospettive, ma è soffocata dai debiti pregressi). Il patrimonio aziendale consiste in un capannone di proprietà (valore €400.000 su cui grava mutuo ipotecario residuo €150.000), macchinari per €200.000 (liberi da vincoli) e un magazzino di materie prime e prodotti finiti. L’amministratore si rende conto che, con i debiti attuali, non riesce ad ottenere credito per acquistare le resine e i polimeri necessari ai nuovi ordini e non può pagare gli arretrati; alcuni fornitori iniziano a minacciare azioni legali.
- Azioni intraprese: Nel febbraio 2025 Gamma S.r.l. attiva la composizione negoziata. Viene nominato un Esperto. L’azienda, con l’aiuto dell’Esperto, chiede ed ottiene dal tribunale misure protettive per 4 mesi: i fornitori e la banca sospendono le azioni legali (di fatto, due decreti ingiuntivi già ottenuti da fornitori vengono congelati dal tribunale) . Durante la negoziazione, l’Esperto verifica che esiste una prospettiva di risanamento: l’azienda ha prodotti validi e ordini in potenziale, ma serve liquidità fresca per ripartire. Viene coinvolta una società concorrente interessata a investire: emerge una proposta in cui Beta S.p.A., un competitor più grande, sarebbe disposta a entrare nel capitale di Gamma con nuovi fondi, a patto che i debiti pregressi vengano ristrutturati e che l’azienda mantenga la continuità produttiva . Dopo 3 mesi di trattative, Gamma S.r.l. capisce che non tutti i fornitori aderiranno a uno stralcio informale: alcuni pretendono pagamento integrale. Tuttavia, ottenuto l’appoggio di Beta S.p.A. (che promette €300.000 di equity nuova), l’Esperto consiglia di formalizzare il tutto in un concordato preventivo in continuità. A giugno 2025 l’azienda deposita domanda di concordato, allegando un piano: l’attività prosegue, Beta versa €300.000 per avere il 60% delle quote di Gamma post-concordato, il capannone non si vende (servirà alla produzione), i macchinari restano in uso. I creditori vengono suddivisi in classi: fornitori chirografari in una classe (proposta: 50% di soddisfo in 2 anni, attingendo ai nuovi fondi di Beta), banca ipotecaria in altra classe (proposta: pagamento integrale del mutuo residuo €150.000 ma dilazionato in 5 anni con interesse legale), Fisco e INPS nella classe dei privilegiati (proposta: pagamento 100% dei contributi e IVA privilegiata, stralcio totale di sanzioni e interessi tramite transazione fiscale, pagamento in 4 anni) . Non ci sono dipendenti con arretrati significativi (stipendi correnti), quindi il loro trattamento non è un problema. Il piano prevede che con i soldi apportati da Beta e i flussi di cassa della continuità (Beta porta anche nuovi clienti e know-how), tutti i creditori riceveranno più di quanto avrebbero ricavato in caso di fallimento (attestato dall’esperto indipendente). Ad esempio, l’Erario nel caso di fallimento avrebbe preso forse il 20%, qui nel piano prende il 40% in valore attuale, più la possibilità di continuare a incassare imposte future grazie alla continuità aziendale .
- Esito: Il concordato viene approvato dai creditori a settembre 2025: la classe fornitori (chirografari) vota all’80% a favore (molti preferiscono il 50% subito piuttosto che rischiare il 10% in fallimento), la banca ipotecaria acconsente (era garantita dal capannone e in effetti viene soddisfatta al 100% sul lungo termine, quindi formalmente non avrebbe neppure diritto di voto), lo Stato vota contro (Agenzia Entrate esprime parere negativo a causa del taglio di interessi e sanzioni). Tuttavia, grazie al cram down fiscale, il tribunale omologa lo stesso il concordato, visto che l’IVA e i contributi vengono pagati in misura superiore al ricavabile da una liquidazione . L’omologa arriva a dicembre 2025. Beta S.p.A. esegue l’aumento di capitale e immette i fondi; Gamma S.r.l. paga le prime rate ai fornitori secondo piano. Negli anni 2026-27 Gamma torna in utile grazie anche alle sinergie con Beta (acquisti più convenienti, apertura di mercati esteri per i collanti). Tutti i debiti concordatari vengono pagati come da piano entro metà 2027: i creditori chirografari ottengono il 50% pattuito (contro circa il 10% stimato in caso di fallimento). L’azienda esce dal concordato, salva i posti di lavoro e prosegue l’attività con la nuova compagine sociale. Il precedente amministratore, avendo agito tempestivamente e in modo trasparente sotto il controllo del tribunale, non subisce azioni di responsabilità né penali: non emergono elementi di bancarotta, perché la crisi è stata risolta prima dell’insolvenza irreversibile e anzi i creditori sono stati soddisfatti in misura significativa . Il rating di Gamma gradualmente risale e nel 2028 può accedere di nuovo a credito bancario normalmente.
Lezioni dal caso 1: qui la chiave del successo è stata la combinazione composizione negoziata + investitore esterno + concordato in continuità. L’azienda aveva ancora valore industriale ma era soffocata dai debiti: portando a bordo un partner (Beta) disposto a mettere soldi in cambio di quote, si è potuto strutturare un piano dove tutti hanno avuto un convenienza. Senza Beta, probabilmente Gamma non avrebbe avuto liquidità per offrire il 50% ai fornitori. L’Esperto negoziatore è servito per congelare le azioni aggressive e confezionare il deal. Il concordato è stato necessario per vincolare anche i fornitori ostili e per aggirare il veto del Fisco. Così Gamma ha evitato il fallimento e ha addirittura rilanciato l’attività. Questo scenario dimostra che, se c’è tempestività e collaborazione (dell’imprenditore e di almeno alcuni stakeholder come Beta), anche un’azienda indebitata può salvarsi e riprendersi.
Caso 2: Liquidazione per eccesso di debiti con concordato semplificato (e implicazioni penali)
Ditta individuale Alfa – Installazione di impianti di incollaggio industriale (piccola impresa artigiana). Titolare: Mario, 60 anni, coadiuvato dal figlio. Negli anni scorsi Alfa assume troppi lavori a margini bassi e finisce per accumulare €100.000 di debiti verso fornitori, €50.000 di debiti con l’esattoria (IVA non versata e alcune multe non pagate) e €30.000 di affitti arretrati del capannone. Mario prova a rifinanziarsi chiedendo prestiti personali in banca e immettendoli nell’attività, ma aumenta solo l’indebitamento senza risolvere il problema di fondo (attività poco redditizia). Non ci sono dipendenti (solo Mario e il figlio collaboratore). Il patrimonio è costituito dalla casa di abitazione di Mario (in comunione con la moglie) e da qualche attrezzatura di lavoro (valore modesto, forse €20.000 in totale). Nel 2024 i creditori iniziano a farsi aggressivi: Mario riceve decreti ingiuntivi da fornitori e cartelle esattoriali per l’IVA. Lui però li ignora e continua a sperare in futuri contratti risolutivi che non arrivano. Nel giugno 2025 l’Agenzia delle Entrate-Riscossione gli pignora il conto corrente e l’auto per le cartelle; due fornitori presentano istanza di liquidazione giudiziale (fallimento) in tribunale, anche se formalmente la ditta è sotto soglia (sperano comunque di convincere il giudice data l’entità complessiva dei debiti) .
- Azioni intraprese: Mario si rivolge a un avvocato solo quando gli arriva la convocazione in tribunale sull’istanza di fallimento presentata dai fornitori. Il tempo è quasi scaduto. Si valuta la possibilità di un concordato minore, ma non c’è patrimonio sufficiente per offrire molto: la casa è a metà con la moglie e serve alla famiglia (difficile toccarla), le attrezzature sono obsolete. All’udienza pre-fallimentare, l’avvocato chiede un breve rinvio, manifestando l’intenzione di presentare un piano di liquidazione controllata attraverso un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) . Il tribunale, vedendo questa volontà, rinvia di 60 giorni (anche perché la legge consente al debitore sovraindebitato di depositare un piano di regolazione prima di aprire la liquidazione d’ufficio). Mario allora, con l’aiuto di un OCC, prepara un concordato minore offrendo: la liquidazione di tutte le attrezzature e del magazzino (stimati €20.000), e aggiunge €30.000 che un parente è disposto a mettere a disposizione per aiutarlo a chiudere. Totale €50.000 da distribuire, pari a circa il 33% dei debiti chirografari. Propone di pagare in tal modo sia l’Agenzia delle Entrate che i fornitori, in proporzione. Il piano prevede la chiusura dell’attività (Mario a 60 anni preferisce cessare e andare in pensione) . Si sondano informalmente i creditori: alcuni piccoli fornitori neanche rispondono alle comunicazioni, altri sono dubbiosi. Per prudenza, l’OCC suggerisce di convertire la procedura in un concordato semplificato per liquidazione: cioè, visto che non c’è la sicurezza di ottenere le maggioranze di voto (e neppure di contattare tutti i creditori in tempo), Mario decide di avvalersi dell’art. 25-sexies CCII. In sostanza, chiude la composizione negoziata (di fatto attivata in extremis con l’OCC) e presenta un ricorso al tribunale chiedendo l’omologazione del piano senza voto dei creditori, attestando che quel 33% offerto è comunque meglio di quanto i creditori otterrebbero nel fallimento forzato (stimato intorno al 10%) .
- Esito: Il tribunale, verificato il parere del commissario nominato ad hoc, omologa il concordato semplificato entro fine 2025 . I creditori non possono fare molto: subiscono la decisione del giudice che conferma essere la soluzione meno dannosa per loro. I beni di Alfa vengono liquidati dall’OCC (le attrezzature vendute, il magazzino smaltito) e a metà 2026 i creditori incassano quel ~33% ciascuno, chiudendo la vicenda. La procedura termina con l’esdebitazione di Mario per il residuo dei debiti (quindi Mario, perso tutto, almeno riparte pulito) . Tuttavia, emergono conseguenze penali: durante la procedura, l’Agenzia Entrate aveva segnalato in Procura che Mario non pagava l’IVA da 3 anni per un totale di €60.000 (oltre la soglia di punibilità). Mario viene rinviato a giudizio per omesso versamento IVA (per 3 annualità, contestato come reato continuato) . Inoltre, un fornitore aveva denunciato che poco prima dell’istanza di fallimento Mario aveva venduto a suo cognato un furgone e un costoso macchinario (un oscilloscopio industriale) a prezzo irrisorio: il PM ipotizza la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) sostenendo che quell’oscilloscopio poteva essere pignorato dal Fisco e Mario l’ha di fatto sottratto, simulando la vendita al parente . Mario si difende dicendo che sperava di ripartire e riacquistare i beni dopo, ma le prove (pagamento fittizio, parentela stretta) sono contro di lui. Nel 2027 Mario viene condannato a 1 anno di reclusione (pena sospesa) per l’art. 11 e a una multa per l’omesso IVA, anche se beneficia di attenuanti poiché ha poi cooperato e in parte pagato tramite il concordato . In pratica ha evitato il carcere, ma rimane la macchia penale. Dal lato economico, ironicamente, Mario è riuscito a “ripulirsi”: grazie all’esdebitazione post-concordato, ha chiuso l’attività senza più debiti. La moglie avvia un piccolo negozio e Mario l’aiuta lì, senza più i fardelli del passato (ma con qualche rimorso per le ingenuità commesse) .
Lezioni dal caso 2: qui vediamo cosa succede quando si interviene tardi e magari con qualche furbizia di troppo. Mario ha dovuto liquidare tutto e in più ha avuto guai penali per i suoi tentativi maldestri di salvare qualcosa (quei trasferimenti al cognato). Se si fosse mosso prima – ad esempio l’anno prima quando i debiti erano minori – magari avrebbe potuto fare un accordo di ristrutturazione con banche e fornitori o un piccolo concordato minore senza reati. Invece, aspettando l’istanza di fallimento, è stato costretto a un concordato semplificato (comunque meglio del fallimento, perché gli ha dato esdebitazione) ma ha pagato le conseguenze delle scorciatoie illegali tentate. La morale: non aspettare l’ultimo minuto e non fare mosse opache. Se sei in crisi, meglio affrontarla a viso aperto con gli strumenti legali, anche se significano ammettere la perdita di qualcosa. Mario ha anche illustrato l’utilità del concordato semplificato: uno strumento nuovo che gli ha evitato di passare per il voto di creditori frammentati e di perdere altro tempo. Ha potuto chiudere dignitosamente e ottenere l’esdebitazione, ma certo ha dovuto cessare l’attività e subire condanne. Questo caso mostra anche che a volte l’esdebitazione post-liquidatoria funziona: Mario, pur fallendo, è ripartito come persona senza debiti (il figlio magari farà tesoro dell’esperienza). Purtroppo però quell’anno di incubi giudiziari per IVA e patrimonio sottratto glielo si poteva risparmiare con una gestione più corretta.
Caso 3: Ristrutturazione finanziaria con accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa
Delta S.p.A. – Azienda manifatturiera meccanica (media dimensione, 80 dipendenti) che produce macchinari per l’industria del packaging. Entra in crisi nel 2024 a causa di un investimento sbagliato in una nuova linea produttiva e di un calo di ordini dal settore alimentare. Debiti totali: circa €5 milioni, di cui €3M verso banche (diversi mutui e finanziamenti a medio termine), €1M verso fornitori, €0,5M di leasing su macchinari e automezzi, €0,5M altri (debiti minori vari, incluse imposte correnti). La società è ancora potenzialmente redditizia (ha un portafoglio clienti, ma è strangolata dalle rate dei finanziamenti e dai canoni di leasing): soffre di tensione finanziaria perché le banche hanno “girato a incaglio” le esposizioni e minacciano la revoca degli affidamenti a breve. Il patrimonio di Delta consiste in capannoni e terreni (gravati da ipoteche bancarie per €2M), macchinari in leasing (non proprietà finché non riscatta), e un magazzino consistente di pezzi di ricambio. I soci (una famiglia) non vogliono perdere il controllo e preferirebbero evitare il concordato preventivo che li diluirebbe o costringerebbe a interventi di terzi.
- Azioni intraprese: Delta assume un advisor finanziario e punta a un accordo di ristrutturazione dei debiti. Dall’analisi emerge che, con una rischedulazione del debito bancario e un apporto modesto di nuova finanza (da parte dei soci stessi e da un fondo di investimento interessato a sottoscrivere obbligazioni), l’azienda può rimettersi in sesto. Avvia negoziati con le 5 banche principali (che detengono €2,5M su 3M del debito finanziario). Con 4 di queste trova un’intesa di massima: conversione di metà dei loro crediti in un finanziamento subordinato a lungo termine con tassi ridotti, più concessione di una nuova linea di credito da €200k; in cambio, i soci mettono €300k freschi e un fondo di turnaround fornisce €500k attraverso un’emissione di bond, destinati a pagare i fornitori e i debiti minori. Una banca però (creditrice per €500k) rifiuta di aderire: è un istituto non locale, più rigido, e preferirebbe portare Delta a escutere le garanzie. Delta decide di procedere comunque sfruttando la nuova normativa: formalizza un accordo di ristrutturazione agevolato ed “esteso” ai sensi degli artt. 60-61 CCII. In pratica, ottiene adesioni per circa il 70% dell’esposizione totale (banche 60% + società di leasing 5% + fornitori 5% = 70%) . Questo è sufficiente per superare la soglia ridotta del 30% prevista per l’accordo agevolato (infatti Delta prevede di pagare regolarmente i creditori estranei, quindi le basta il 30%, che è ampiamente superato). Inoltre, nel settore bancario Delta ha l’83% di adesione (4 banche su 5, rappresentanti €2M su €2,5M, ossia l’80%) – ben oltre il 75% richiesto per estendere l’accordo anche alla banca dissenziente finanziaria . Dunque il piano depositato prevede di pagare cash i creditori estranei (che sono per lo più il Fisco per €0,2M di IVA e un paio di fornitori minori: li pagheranno subito con i fondi nuovi, quindi nessun estraneo resta insoddisfatto) , e di ristrutturare i debiti bancari secondo l’intesa: taglio del 50% e riscadenzamento decennale per tutte le banche. Delta chiede al tribunale contestualmente di estendere l’accordo alla banca dissenziente in virtù dell’ampia maggioranza nella categoria finanziaria, e di confermare le misure protettive per tenerla a bada nel frattempo (questa banca minacciava di iscrivere ipoteca giudiziale, il giudice glielo inibisce temporaneamente) .
- Esito: Il tribunale concede subito la protezione (non c’erano esecuzioni pendenti, ma ha bloccato sul nascere possibili azioni della banca non aderente). Nessun creditore presenta opposizione all’omologa, tranne la banca dissenziente che ovviamente contesta di essere trascinata suo malgrado. Nel dicembre 2025 il tribunale omologa l’accordo rilevando che sono soddisfatte le condizioni per il cram-down bancario: la banca dissenziente non è trattata in modo deteriore rispetto alle altre finanziarie (subisce lo stesso haircut del 50% e lo stesso piano di rientro) e avrebbe avuto certamente meno in caso di fallimento . Con l’omologa, l’accordo diventa vincolante anche per la banca contraria. Delta esegue l’accordo: con gli €800k raccolti (300k soci + 500k fondo) paga tutti i fornitori in toto e l’erario (nessun estraneo rimane insoddisfatto, infatti) . Formalizza i nuovi contratti di finanziamento con le banche aderenti (compresa quella contraria, che però ormai è costretta ad accettare le nuove condizioni di rimborso imposte dall’omologa) . Nel 2026 Delta ha ridotto l’indebitamento a €2M effettivi (dopo gli stralci) con scadenze più lunghe e oneri finanziari dimezzati: torna liquida e riguadagna fiducia dai fornitori, che tornano a dare dilazioni standard. Tre anni dopo, le banche hanno ripreso a finanziarla su basi sane. I soci hanno mantenuto la proprietà (non è stato necessario un concordato che li diluisse né un intervento di equity invasivo oltre al fondo obbligazionario). Questo scenario dimostra come un ARD possa risolvere la crisi in modo “chirurgico” quando vi è accordo della maggioranza qualificata dei finanziatori: uno strumento meno costoso e più rapido (qui l’omologa è arrivata in ~4 mesi dalla presentazione) rispetto a un concordato. Sul piano penale, da notare che Delta nel frattempo aveva trascurato qualche versamento IVA, ma avendo evitato il fallimento e pagato l’Erario integralmente come da accordo, non subirà probabilmente azioni penali: per i circa 200k di IVA non versata, nessun reato scatterà perché l’hanno saldata prima della sentenza di omologa, e comunque nessun fallimento è intervenuto (quindi non c’è bancarotta) . I suoi amministratori hanno agito in tempo e non incorrono in sanzioni (anzi, i creditori soddisfatti non avrebbero interesse a perseguitli).
Lezioni dal caso 3: qui vediamo la potenza della nuova normativa sugli accordi: Delta ha evitato il concordato utilizzando la soglia ridotta del 30% e il cram-down sui finanziari. In passato, quella banca contraria l’avrebbe costretta a fare un concordato (con più costi e pubblicità negativa). Invece così i soci hanno potuto risolvere la crisi con un accordo mirato e riservato in pochi mesi, mantenendo il controllo. La chiave è stata avere una maggioranza schiacciante di creditori allineati: ciò ha convinto il tribunale e isolato il creditore ostinato. Il caso dimostra che quando c’è accordo fra i principali finanziatori, l’ARD è spesso preferibile al concordato: meno intrusivo, più veloce e comunque dotato di protezioni simili (stay e esenzioni). Dal punto di vista della gestione aziendale, Delta ha imparato la lezione e, alleggerita dai debiti, ha potuto rifocalizzarsi sul core business e tornare competitiva. Notiamo anche l’effetto virtuoso: pagando per intero fornitori ed Erario, Delta ha evitato contenziosi e reati, e chiuso la crisi quasi “in sordina”, senza perdere reputazione verso clienti (molti nemmeno avranno saputo dell’accordo, visto che è meno pubblicizzato del concordato). Questo scenario è quello che ogni imprenditore preferirebbe: risolvere in silenzio con gli accordi giusti. Però richiede di muoversi con anticipo (Delta l’ha fatto prima di insolvenza conclamata, la continuità non si era interrotta) e di avere assettare persuasi i creditori principali.
In sintesi, dai tre esempi ricaviamo alcune lezioni trasversali:
– Muoversi per tempo aumenta le opzioni e riduce le conseguenze negative. Gamma e Delta mostrano interventi tempestivi con esiti positivi, mentre Alfa/Mario paga il prezzo del ritardo.
– Adeguare lo strumento al caso concreto: continuità vs liquidazione, dimensioni dell’impresa, composizione del debito – vanno valutati attentamente per scegliere concordato, accordo o altri istituti. Non c’è “one size fits all”.
– Collaborazione dei creditori: dove c’è stata trasparenza e convenienza (Gamma, Delta), i creditori hanno in gran parte sostenuto il piano. La fiducia è cruciale: fornire ai creditori informazioni corrette (piani attestati solidi, proiezioni realistiche) aiuta a convincerli che la proposta è seria.
– Attenzione agli aspetti penali e di responsabilità: chi in crisi cerca scorciatoie illegali (Mario/Alfa) peggiora la propria posizione. Chi invece segue la via ordinata della legge (Gamma, Delta) si protegge anche personalmente (evita bancarotte e reati tributari pagando il dovuto o concordando con l’AG).
– Importanza di professionisti competenti: in tutti i casi, il ruolo di advisor, avvocati e attestatori è stato determinante per confezionare piani credibili e navigare la procedura. Improvvisare è pericoloso: meglio spendere qualcosa in consulenza che perdere tutto per errori evitabili.
Ogni crisi ha la sua storia: questi scenari non coprono tutte le possibilità, ma offrono una guida di come applicare in concreto i concetti teorici. In definitiva, la difesa di un’azienda indebitata passa per una combinazione di strategia legale, finanziaria e negoziale, cucita sulle specifiche caratteristiche dell’impresa e del suo debito.
Conclusioni
Affrontare debiti aziendali ingenti può sembrare un compito schiacciante, ma l’ordinamento giuridico fornisce una “cassetta degli attrezzi” completa per gestire la crisi in modo strutturato. Dal punto di vista del debitore, “difendersi” non significa erigere muri o sottrarsi illegalmente alle pretese, bensì utilizzare gli strumenti legali a disposizione per tutelare il valore aziendale residuo e negoziare soluzioni eque con i creditori. L’esperienza insegna che agire per tempo è il fattore decisivo: chi riconosce i segnali di crisi e interviene proattivamente (magari con l’ausilio di un professionista) ha molte più probabilità di salvare l’impresa o almeno di limitare i danni, rispetto a chi subisce passivamente l’escalation delle azioni esecutive.
L’evoluzione normativa recente – con il Codice della Crisi d’Impresa e le riforme del 2022-25 – ha messo a disposizione dei debitori strumenti flessibili ed efficaci: dalla composizione negoziata che offre un “ombrello” provvisorio per trattare fuori dalle aule di giustizia, ai piani attestati e accordi di ristrutturazione che consentono soluzioni concordate su misura, fino al concordato preventivo che rimane la via maestra quando serve un intervento collettivo e autoritativo. Senza dimenticare che anche l’eventuale liquidazione può essere gestita in modo meno traumatico oggi (si pensi al concordato semplificato o all’esdebitazione post-liquidazione che dà all’imprenditore onesto un’opportunità di ricominciare) .
In conclusione, un’azienda di collanti industriali (o di qualunque altro settore) schiacciata dai debiti può trovare la via d’uscita combinando disciplina gestionale e strumenti giuridici adeguati. Difendersi non vuol dire sfuggire alle proprie responsabilità, ma anzi affrontarle con gli strumenti del diritto: significa congelare per quanto possibile le iniziative distruttive dei creditori individuali, negoziare soluzioni di ristrutturazione sostenibili, e se necessario passare attraverso un tribunale per attuare quelle soluzioni in modo vincolante per tutti. Il punto di vista del debitore, specie dopo le riforme, è tenuto in considerazione: la legge prevede incentivi per chi coopera (riduzioni di sanzioni, attenuanti penali, protezioni del patrimonio in caso di accordi) e punisce invece chi dissipa o ritarda colposamente. Dunque, la strategia ottimale per un imprenditore indebitato è: conoscere bene i propri diritti e doveri, farsi assistere da esperti, e agire con trasparenza per trovare una soluzione legalmente sostenibile. Spesso la scelta giusta può fare la differenza tra la sopravvivenza e la perdita dell’impresa.
Fonti normative e giurisprudenziali (aggiornate a ottobre 2025)
- Codice Civile (R.D. 16/03/1942 n. 262) – art. 2086 c.c. (dovere di assetti organizzativi adeguati e gestione orientata alla continuità aziendale in caso di crisi) ; art. 2392 c.c. (responsabilità degli amministratori verso la società per gestione negligente); art. 2486 c.c. (obbligo di gestione conservativa dopo causa di scioglimento, con presunzione di danno per aggravamento dissesto) ; artt. 2621-2622 c.c. (false comunicazioni sociali – reati di falso in bilancio); art. 2634 c.c. (infedeltà patrimoniale).
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, e successive modifiche) – Principali riferimenti:
- Definizioni generali e Composizione negoziata: art. 2 CCII (definizioni di crisi e insolvenza) ; artt. 12-25 CCII (procedura di composizione negoziata: nomina esperto, condizioni di accesso, misure protettive etc.) .
- Piani attestati e Accordi di ristrutturazione: art. 56 CCII (piano attestato di risanamento) ; art. 57 CCII (accordo di ristrutturazione standard, ex art. 182-bis l.f.) ; art. 60 CCII (ARD agevolato al 30%) ; art. 61 CCII (ARD ad efficacia estesa al 75% per banche/fornitori strategici) ; art. 64-bis CCII (Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione – PRO).
- Concordato preventivo: artt. 84-120 CCII (requisiti di ammissibilità, contenuto del piano; concordato in continuità vs liquidatorio; classi di creditori e voto; omologazione anche in caso di dissenso dell’Erario, introdotta da D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 193/2023) ; art. 25-sexies CCII (concordato semplificato per liquidazione su proposta del debitore post-composizione negoziata).
- Effetti delle procedure concorsuali: art. 54 CCII (automatic stay – sospensione azioni esecutive dalla data di ammissione al concordato) ; artt. 94-96 CCII (tutela dei contratti pendenti e divieto di clausole di scioglimento per concordato; rapporto con contratti pubblici come da Codice Appalti 2023).
- Transazione fiscale e contributiva: art. 63 CCII (possibilità di falcidiare i crediti tributari e previdenziali privilegiati in concordato o accordo, purché soddisfatti almeno quanto in liquidazione) ; art. 48 co.5 CCII (voto contrario del Fisco non preclude omologa se rispettato il best interest test).
- Doveri e poteri degli organi sociali in crisi: art. 120-bis CCII (scelta degli amministratori di accedere a procedure non necessita approvazione soci; sospensione potere di revoca senza giusta causa) ; art. 120-ter CCII (non costituisce giusta causa di revoca l’aver proposto concordato/accordo).
- Procedure di sovraindebitamento (per soggetti non fallibili): artt. 270-277 CCII (concordato minore, ristrutturazione dei debiti del consumatore, liquidazione controllata); art. 278 CCII (esdebitazione del debitore sovraindebitato o del fallito meritevole – cancellazione dei debiti residui a certe condizioni) .
- Reati concorsuali (Titolo IX CCII, artt. 322-341): art. 322 CCII (bancarotta fraudolenta, ex art. 216 l.fall.) ; art. 323 CCII (bancarotta semplice, ex art. 217 l.fall.) ; art. 324 CCII (circostanze attenuanti per danno patrimoniale di speciale tenuità, collaborazione); art. 325 CCII (ricorso abusivo al credito); art. 330 CCII (bancarotta impropria da reato societario, es. falso in bilancio causa dissesto) .
- Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267) – Formalmente abrogata dal CCII dal 15/07/2022, ma utile per riferimenti storici: art. 216 l.fall. (bancarotta fraudolenta) e art. 217 l.fall. (bancarotta semplice) ; art. 223 l.fall. (estensione reati fallimentari ad amministratori di società); art. 182-bis, 182-ter, 182-quater l.fall. (vecchia disciplina accordi di ristrutturazione e transazione fiscale, sostituite dalle analoghe disposizioni nel CCII); art. 160-186 l.fall. (vecchia disciplina concordato preventivo, citata nel testo in riferimento al previgente “veto erariale” poi superato) .
- Norme tributarie e contributive speciali:
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari) – art. 10-bis (omesso versamento di ritenute dovute > €150k) ; art. 10-ter (omesso versamento IVA > €250k) ; art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, soglia > €50k) ; art. 13 (causa di non punibilità per pagamento integrale del debito tributario prima del dibattimento; attenuanti per pagamento prima della sentenza) .
- D.L. 463/1983 conv. L. 638/1983 – art. 2, co. 1-bis (omesso versamento contributi previdenziali trattenuti > €10.000 annui = reato) ; co. 1-ter (omesso contributi sotto €10k = illecito amministrativo).
- Codice Penale: art. 640 c.p. (truffa, rilevante ad es. per chi contrae forniture senza voler pagare – insolvenza fraudolenta art. 641 c.p.); art. 646 c.p. (appropriazione indebita, applicabile a prelevamenti ingiustificati di beni sociali poi falliti).
- Codice dei Contratti Pubblici (D.Lgs. 36/2023) – art. 94 (cause di esclusione da appalti pubblici: concordato preventivo con continuità non è più causa di esclusione automatica ; il concordato liquidatorio resta causa di esclusione; necessità di dimostrare idoneità all’esecuzione del contratto). Art. 95 CCII richiamato (durante il concordato in continuità l’impresa può continuare ad eseguire contratti pubblici con autorizzazione).
- Giurisprudenza (Corte di Cassazione):
- Cass. civ. Sez. I, 28 ottobre 2024 n. 27782: confermata la possibilità di omologazione forzata del concordato preventivo nonostante il voto contrario dell’Erario, purché il piano assicuri al Fisco una soddisfazione non inferiore a quella fallimentare (riconosciuta così la legittimità del cram-down fiscale) .
- Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 2025 n. 10307: esclusa la prededuzione “funzionale” per debiti fiscali maturati durante l’esecuzione di un concordato in continuità poi risolto in fallimento – es. IVA e ritenute maturate in concordato non godono di prededuzione nel successivo fallimento (importante per i creditori pubblici post concordato).
- Cass. pen. Sez. V, 2 ottobre 2024 n. 36574: in tema di bancarotta fraudolenta per operazioni dolose, la Corte ha ritenuto dolosa e fraudolenta la condotta di omesso versamento sistematico di imposte e contributi protratta per lungo tempo e divenuta causa principale del dissesto . Quindi anche l’inerzia fiscale può integrare bancarotta fraudolenta (operazione dolosa).
- Cass. pen. Sez. III, 17 dicembre 2024 n. 45803: in tema di omesso versamento contributi previdenziali, la Cassazione ha ribadito che lo stato di crisi di liquidità non esclude il dolo del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali (art. 2 L.638/83): scegliere consapevolmente di non pagare i contributi configura il reato indipendentemente dalle difficoltà economiche generali .
- Cass. pen. Sez. Unite, 30 gennaio 2025 n. 348: in materia di concordato preventivo in continuità, le Sezioni Unite hanno confermato la necessità di rispettare rigorosamente le regole di priorità nel trattamento dei creditori privilegiati: ad es. le utilità derivanti dalla continuità aziendale devono essere destinate prima di tutto ai creditori pre-deducibili e privilegiati prima che ai chirografari, salvo consenso di questi ultimi ad eccezioni (principio di absolute priority rule temperato) .
- Cass. pen. Sez. V, 18 gennaio 2025 n. 631: confermato che un falso in bilancio che abbia cagionato o aggravato il dissesto poi sfociato in fallimento integra bancarotta fraudolenta impropria (art. 330 CCII) – il reato societario concorre come causa del dissesto .
- Cass. pen. Sez. V, 3 febbraio 2025 n. 4329: sulla responsabilità dell’amministratore di diritto prestanome, è stato affermato che anche l’amministratore fittizio di una società può concorrere nei reati fallimentari se, pur essendo una “testa di legno”, era consapevole degli atti illeciti commessi e non li ha impediti (richiamo all’art. 40 cpv. c.p., posizione di garanzia dell’amministratore) .
- Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2025 n. 30416: in materia di prededucibilità dei crediti sorti durante una composizione negoziata, si è stabilito (con richiamo a Trib. Milano) che tali crediti non sono prededucibili qualora la composizione negoziata non sfoci in una procedura concorsuale, poiché la composizione negoziata in sé non è procedura concorsuale (es: se contraggo un debito durante la composizione ma poi fallisco, quel debito non ha prededuzione di per sé) .
- Cass. civ. Sez. I, 8 gennaio 2025 n. 348: confermata l’ammissibilità di un concordato preventivo in continuità parziale (concordato “misto”), in cui parte dell’azienda prosegue e parte viene liquidata, purché il piano rispetti tutte le condizioni di legge (inclusa la soglia del 20% sulle parti liquidatorie e la convenienza globale) .
- Corte d’Appello di Genova, sent. n. 48/2025: richiamato un limite al cram-down sui creditori pubblici: in un concordato minore, la Corte ha ritenuto che non si possa spingere il cram-down fino a configurare un condono eccessivo per Erario/INPS – se il piano tratta troppo male i crediti pubblici (es. taglio irrisorio non giustificato), il tribunale può negare l’omologa per violazione delle norme imperative di tutela minima . In altre parole, il cram-down fiscale non autorizza piani abusivi che sacrificano oltremodo lo Stato.
La tua azienda che produce, miscela, importa o distribuisce collanti industriali, adesivi tecnici, sigillanti, epossidici, collanti per legno, collanti per packaging, adesivi poliuretanici, cianoacrilati, hot-melt, resine bicomponenti, primer, attivatori e prodotti per industria, edilizia, automotive, manifattura e falegnameria si trova oggi schiacciata dai debiti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Ricevi solleciti, richieste di rientro, sospensioni delle forniture, decreti ingiuntivi o minacce di pignoramento da parte di banche, Fisco, INPS, fornitori chimici, trasportatori o Agenzia Entrate-Riscossione?
Il settore dei collanti industriali è delicato e dispendioso: materie prime volatili nel prezzo, lotti minimi importanti, norme severe sul trasporto e sullo stoccaggio, investimenti costosi in qualità, laboratori e certificazioni. Basta un calo dei fidi o un ritardo nei pagamenti dei clienti per far esplodere una crisi finanziaria.
La buona notizia è che la tua azienda può essere salvata, se agisci subito e in modo strategico.
Perché un’Azienda di Collanti Industriali va in Debito
- aumento dei costi di resine, solventi, isocianati, additivi e imballaggi
- ritardi nei pagamenti da parte di industrie, cantieri e produttori
- magazzino immobilizzato tra fusti, cartucce, bottiglie, semilavorati e chimici costosi
- costi elevati di certificazioni, laboratori, test e normative
- logistica complessa e costosa per merci pericolose
- riduzione o revoca delle linee di credito bancarie
Il vero problema non è la mancanza di clienti, ma la mancanza di liquidità immediata.
I Rischi se Non Intervieni Subito
- pignoramento del conto aziendale
- blocco dei fidi bancari
- sospensione delle forniture di chimici, resine e imballaggi
- atti esecutivi, decreti ingiuntivi e precetti
- sequestro di magazzino, fusti, semilavorati e attrezzature
- impossibilità di evadere ordini e garantire la continuità ai clienti
- perdita di clienti strategici e partnership industriali
Cosa Fare Subito per Difendersi
1. Bloccare immediatamente i creditori
Un avvocato esperto può:
- sospendere pignoramenti
- fermare richieste di rientro immediate
- proteggere conti correnti e liquidità
- bloccare azioni dell’Agenzia Riscossione
Prima si salva l’azienda, poi si ristrutturano i debiti.
2. Analizzare i debiti ed eliminare ciò che non è dovuto
Molto spesso emergono anomalie come:
- interessi non dovuti
- sanzioni errate
- importi duplicati
- debiti prescritti
- errori della Riscossione
- commissioni bancarie anomale
Una parte consistente dei debiti può essere tagliata o cancellata.
3. Ristrutturare i debiti con piani sostenibili
Strumenti disponibili:
- rateizzazioni fiscali fino a 120 rate
- accordi con fornitori strategici (chimici, resine, packaging)
- rinegoziazione dei fidi
- sospensioni temporanee dei pagamenti
- accesso alle definizioni agevolate
4. Usare strumenti legali potenti che bloccano TUTTI i creditori
Nei casi più gravi si può ricorrere a:
- PRO – Piano di Ristrutturazione dei Debiti
- Accordi di ristrutturazione
- Concordato minore
- (nei casi estremi) Liquidazione controllata
Permettono all’azienda di continuare a operare pagando solo una parte dei debiti, con protezione legale totale.
Le Specializzazioni dell’Avv. Giuseppe Monardo
Per salvare un’azienda nel settore chimico servono competenze elevate.
L’Avv. Monardo è:
- Avvocato Cassazionista
- Coordinatore nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario e tributario
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento (L. 3/2012) – negli elenchi del Ministero della Giustizia
- Professionista fiduciario di un OCC
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
Un profilo ideale per bloccare i creditori, ristrutturare i debiti e salvare aziende che operano con collanti e chimici, dove gli errori possono costare carissimo.
Come Può Aiutarti l’Avv. Monardo
- analisi immediata dell’esposizione debitoria
- stop urgente a pignoramenti e decreti ingiuntivi
- ristrutturazione dei debiti su misura
- protezione di magazzino, fusti, resine e componenti critici
- trattative con banche, fornitori e Agenzia Riscossione
- tutela totale dell’azienda e dell’amministratore
Conclusione
Avere debiti nella tua azienda di collanti industriali non significa essere destinato alla chiusura.
Con una strategia precisa, rapida e completamente legale, puoi:
- bloccare subito i creditori,
- ridurre realmente i debiti,
- salvare produzione, magazzino e rapporti commerciali,
- proteggere il futuro della tua attività.
Agisci ora.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata:
il tuo percorso di salvataggio può iniziare oggi stesso.