Hai ricevuto un avviso di accertamento, una cartella esattoriale o una richiesta di pagamento dall’Agenzia delle Entrate e pensi che sia ingiusta o sbagliata? Non sei obbligato ad accettarla: puoi presentare ricorso e far valere le tue ragioni davanti alla Corte di Giustizia Tributaria.
Ogni anno, migliaia di contribuenti vincono contro il Fisco perché gli atti dell’Agenzia risultano illegittimi, prescritti o privi di motivazione sufficiente.
Con l’assistenza di un avvocato tributarista esperto in contenzioso fiscale, puoi impugnare l’atto, bloccare la riscossione e ottenere l’annullamento totale o parziale delle somme richieste.
Quando puoi fare ricorso contro l’Agenzia delle Entrate
Puoi presentare ricorso ogni volta che ricevi un atto con cui l’Agenzia ti chiede il pagamento di imposte, contributi o sanzioni che ritieni infondati.
Gli atti più comuni contro cui è possibile ricorrere sono:
- avviso di accertamento fiscale (IRPEF, IVA, IRES, IRAP);
- avviso di liquidazione o di rettifica;
- cartella esattoriale notificata dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione;
- diniego di rimborso o agevolazione fiscale;
- atto di contestazione di sanzioni tributarie;
- provvedimenti di fermo, ipoteca o pignoramento;
- diniego di rateizzazione o rottamazione.
Il ricorso serve per chiedere al giudice tributario di verificare se l’atto è legittimo, motivato e conforme alla legge.
I motivi più frequenti per cui si può vincere un ricorso
Un ricorso ben impostato può portare all’annullamento totale dell’atto. Ecco i casi più frequenti di illegittimità:
- mancanza di motivazione (l’Agenzia non spiega come ha calcolato le somme o da dove derivano i dati);
- violazione del contraddittorio preventivo (l’Agenzia non ti ha dato la possibilità di difenderti prima di emettere l’avviso);
- errori di calcolo o applicazione delle aliquote;
- notifica irregolare o fuori dai termini di decadenza (oltre 5 o 7 anni a seconda dei casi);
- debiti prescritti o già pagati;
- utilizzo di dati non aggiornati o presuntivi;
- violazione dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000).
In tutti questi casi, il giudice può dichiarare l’atto nullo o parzialmente illegittimo, con conseguente riduzione o cancellazione delle somme.
Come funziona il ricorso contro l’Agenzia delle Entrate
- Analisi dell’atto ricevuto.
L’avvocato controlla le motivazioni, i termini e la regolarità formale dell’avviso o della cartella. - Redazione del ricorso.
Il ricorso deve indicare in modo chiaro i motivi di illegittimità e le prove a sostegno. - Deposito presso la Corte di Giustizia Tributaria.
Il ricorso si presenta entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (in alcuni casi 150 se c’è reclamo e mediazione). - Richiesta di sospensione cautelare.
È possibile chiedere la sospensione immediata della riscossione, per evitare pagamenti, fermi o pignoramenti. - Udienza e decisione.
Il giudice valuta le prove e può annullare totalmente o parzialmente l’atto, o confermarlo se legittimo.
Cosa serve per presentare un ricorso efficace
Per vincere un ricorso tributario servono:
- una motivazione giuridica solida e chiara;
- documenti contabili e fiscali che provino la correttezza delle tue dichiarazioni;
- un avvocato tributarista con esperienza in contenziosi contro l’Agenzia delle Entrate;
- la presentazione tempestiva entro i termini previsti dalla legge.
Come un avvocato può aiutarti a vincere contro l’Agenzia delle Entrate
Un avvocato tributarista esperto può:
- analizzare l’avviso o la cartella e individuare i vizi di forma o di sostanza;
- verificare la prescrizione o la decadenza dell’atto;
- contestare la mancanza di contraddittorio o di motivazione;
- presentare un ricorso completo e documentato;
- ottenere la sospensione della riscossione;
- rappresentarti davanti alla Corte di Giustizia Tributaria fino alla decisione.
In molti casi, una semplice contestazione legale può portare l’Agenzia ad annullare l’atto o a ridurre notevolmente l’importo richiesto.
Le strategie vincenti più efficaci
- Dimostrare che l’Agenzia ha agito senza prove concrete o basandosi su presunzioni.
- Contestare errori di notifica o di calcolo.
- Dimostrare che l’atto è fuori termine o non motivato.
- Chiedere la sospensione immediata per evitare la riscossione durante la causa.
- Presentare documentazione fiscale aggiornata e coerente.
- Invocare la giurisprudenza favorevole della Cassazione o della Corte di Giustizia UE.
Quanto tempo dura un ricorso e cosa puoi ottenere
Un ricorso contro l’Agenzia delle Entrate dura in media dai 6 ai 18 mesi, ma la sospensione cautelare può essere ottenuta già nei primi 30–60 giorni.
Se il giudice ti dà ragione, puoi ottenere:
- l’annullamento totale o parziale del debito;
- la cancellazione delle sanzioni e degli interessi;
- il rimborso delle somme già versate indebitamente;
- in alcuni casi, anche il risarcimento delle spese legali sostenute.
Cosa succede se non fai ricorso
Se non presenti ricorso entro 60 giorni:
- l’atto diventa definitivo e incontestabile;
- l’Agenzia può iscrivere le somme a ruolo e avviare la riscossione forzata;
- potresti subire pignoramenti, ipoteche e fermi amministrativi;
- perderesti ogni possibilità di difesa.
Agire subito è quindi fondamentale per bloccare la riscossione e far valere i tuoi diritti.
Quando rivolgersi a un avvocato
Contatta un avvocato se:
- hai ricevuto un avviso di accertamento, una cartella o un atto di recupero fiscale;
- sospetti che ci siano errori, prescrizione o vizi procedurali;
- vuoi chiedere la sospensione della riscossione;
- desideri impugnare l’atto e ottenere l’annullamento o la riduzione delle somme.
Un avvocato esperto può:
- analizzare la tua situazione fiscale e i documenti ricevuti;
- redigere e presentare il ricorso in modo completo e tempestivo;
- difenderti davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
- ottenere la sospensione o la cancellazione del debito.
⚠️ Attenzione: moltissimi atti dell’Agenzia delle Entrate risultano viziati, prescritti o non motivati, e possono essere annullati. Non aspettare che il debito diventi definitivo: con un avvocato esperto puoi vincere il ricorso, bloccare la riscossione e ridurre drasticamente le somme richieste.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario, contenzioso fiscale e difesa contro l’Agenzia delle Entrate spiega come presentare ricorso, quando puoi vincere e come tutelarti legalmente per difendere il tuo patrimonio e i tuoi diritti fiscali.
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Introduzione
Presentare un ricorso contro l’Agenzia delle Entrate è l’arma principale con cui un contribuente – che sia cittadino privato, imprenditore o professionista – può contestare un atto fiscale ritenuto illegittimo o infondato. Questa guida avanzata, aggiornata a ottobre 2025, fornisce un quadro completo su come impugnare con successo gli atti dell’Amministrazione finanziaria, con un focus sul punto di vista del debitore (il contribuente) e su quando è necessario o consigliabile ricorrere all’avvocato specializzato in diritto tributario.
Cosa troverai in questa guida: un percorso passo-passo attraverso il contenzioso tributario, partendo dagli strumenti pre-contenziosi (come l’autotutela o l’accertamento con adesione) fino al ricorso vero e proprio davanti alla ridenominata Corte di Giustizia Tributaria (nuovo nome delle Commissioni Tributarie dal 2023). Verranno esaminati i principali atti impugnabili (avvisi di accertamento, cartelle di pagamento, dinieghi di rimborso, iscrizioni ipotecarie, fermi amministrativi, ecc.), i termini e le procedure da rispettare, le strategie difensive più efficaci per vincere e le novità normative più recenti. Il taglio sarà giuridico ma divulgativo: spiegheremo concetti complessi in modo chiaro, con linguaggio comprensibile sia per professionisti (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) sia per contribuenti non esperti, senza però semplificare eccessivamente. Troverai inoltre tabelle riepilogative (ad esempio sui termini di impugnazione e sugli importi del contributo unificato), domande e risposte (FAQ) su dubbi frequenti, e simulazioni pratiche di casi reali italiani con le possibili soluzioni.
Perché impugnare un atto fiscale? Perché altrimenti quell’atto diventa definitivo, con conseguenti importi da pagare (imposte, sanzioni, interessi) e potenziali azioni esecutive (pignoramenti, ipoteche, fermi, ecc.). Il processo tributario è lo strumento attraverso cui il contribuente fa valere i propri diritti contro errori o abusi dell’Amministrazione finanziaria (che comprende l’Agenzia delle Entrate, l’Agenzia Entrate Riscossione – ex Equitalia – e gli enti locali per i tributi di loro competenza). Prima di arrivare al giudice, tuttavia, esistono i cosiddetti strumenti deflattivi del contenzioso – come l’istanza di autotutela, l’accertamento con adesione o (fino al 2023) il reclamo/mediazione – che permettono di tentare una soluzione senza giudizio . Quando questi strumenti non funzionano o non sono applicabili, il ricorso diventa necessario per ottenere l’annullamento (totale o parziale) dell’atto impugnato e fermare le pretese del Fisco.
Nei prossimi capitoli vedremo quando e come presentare un ricorso, quali atti si possono impugnare, chi può proporlo e con quali requisiti (ad esempio il ruolo dell’avvocato), come si svolge il giudizio davanti alle Corti di Giustizia Tributaria, quali sono i possibili esiti e i successivi gradi di giudizio (appello, Cassazione), senza dimenticare i profili penali legati al Fisco (quando un’evasione diventa reato e cosa comporta). Tutto sarà corredato da riferimenti alla normativa italiana vigente e alle più recenti sentenze rilevanti (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale, Corte di Giustizia UE), che troverai elencate nella sezione Fonti normative e giurisprudenziali al termine della guida.
Nota sul metodo: Questa guida è originale e verificata contro le fonti ufficiali, per garantire l’assenza di contenuti plagiati e la massima affidabilità. Ogni concetto chiave è accompagnato da riferimenti normativi o giurisprudenziali aggiornati al 2025. Preparati dunque a un’analisi approfondita: il percorso per vincere contro l’Agenzia delle Entrate richiede conoscenza, tempestività e strategia – elementi che andremo ad esplorare in dettaglio.
Il contenzioso tributario in sintesi: organi competenti e ambito
Prima di entrare nel merito del “ricorso” vero e proprio, è utile capire dove e come si svolge la contestazione contro l’Agenzia delle Entrate. In Italia le controversie tributarie sono decise da organi giurisdizionali specializzati, ora denominati Corti di Giustizia Tributaria. Vediamone la struttura, le competenze e cosa rientra (o non rientra) nella loro giurisdizione.
Struttura delle Corti di Giustizia Tributaria: Dal 2023, a seguito della riforma introdotta con la Legge 31 agosto 2022, n. 130, le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali hanno cambiato nome e assetto . Oggi il sistema è così articolato:
- Corte di Giustizia Tributaria di primo grado: presente in ogni provincia (o accorpata a livello interprovinciale in qualche caso), è competente per le cause tributarie relative a atti emessi nell’ambito territoriale di quella provincia. Fino al 2022 si chiamava Commissione Tributaria Provinciale (CTP) .
- Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado: una per ogni regione (incluse le Province autonome), decide sugli appelli contro le sentenze di primo grado. In passato era la Commissione Tributaria Regionale (CTR) .
Entrambi i gradi sono giudici specializzati, indipendenti dall’Amministrazione finanziaria. I giudici tributari applicano le leggi tributarie e valutano le prove in modo imparziale, garantendo al contribuente un processo equo . La riforma del 2022-2023 ha anche avviato la professionalizzazione della magistratura tributaria: gradualmente entrano in servizio giudici tributari a tempo pieno reclutati per concorso, in sostituzione dei precedenti giudici onorari (spesso professionisti quali avvocati o commercialisti nominati part-time) .
Giudice monocratico per le liti minori: una novità importante introdotta dalla riforma è che le controversie di piccolo valore possono essere decise da un singolo giudice (anziché da un collegio di tre giudici). Inizialmente il limite era fissato a 3.000 € di valore della lite , ma dal 1° luglio 2023 la soglia è stata elevata a 5.000 € . Ciò significa che se l’importo contestato non supera 5.000 €, la Corte di primo grado giudica con un solo magistrato (salvo alcuni casi particolari di valore indeterminabile che richiedono comunque il collegio). L’introduzione del giudice unico mira a snellire e velocizzare le liti minori. Un esempio: se impugni una cartella da 4.000 €, la causa sarà decisa da un giudice monocratico, con potenziali benefici in termini di rapidità decisionale .
Tipologie di controversie trattate: le Corti di Giustizia Tributaria hanno competenza esclusiva in materia tributaria. Questo include praticamente tutte le dispute relative a imposte, tasse e tributi, ad esempio :
- Imposte statali: IRPEF (redditi persone fisiche), IRES (redditi società), IVA, IRAP, imposta di registro, imposta di successione e donazione, bollo auto, ecc.
- Tributi locali: es. IMU (imposta municipale sugli immobili), TARI (tassa rifiuti), addizionali regionali e comunali, canone patrimoniale unico su occupazione suolo e pubblicità, ecc. (in generale, tributi di Comuni, Province e Regioni rientrano se qualificati come tali dalla legge).
- Altri atti fiscali vari: le cause contro cartelle di pagamento dell’Agente della Riscossione per imposte non pagate, contro ingiunzioni fiscali, avvisi di irrogazione sanzioni tributarie, dinieghi di rimborsi tributari, ecc., rientrano anch’esse nella giustizia tributaria .
Cosa non rientra nella giurisdizione tributaria: le Corti tributarie giudicano solo su materia di tributi in senso stretto . Restano escluse, ad esempio: – Le sanzioni amministrative non tributarie (come le multe stradali, sanzioni per violazioni amministrative diverse da quelle fiscali) che sono invece di competenza del giudice ordinario o amministrativo a seconda dei casi.
– I contributi previdenziali (INPS, casse professionali): per questi le controversie vanno al giudice del lavoro (tribunale ordinario) e non al giudice tributario.
– Alcune controversie doganali o accise particolari, che possono avere giurisdizioni diverse (es. Commissioni doganali o giudici ordinari, a seconda delle norme).
In caso di dubbio, è fondamentale verificare se la materia è qualificata come “tributo” da una legge: solo in tal caso il ricorso andrà al giudice tributario; altrimenti occorrerà rivolgersi ad altro giudice competente . Ad esempio, una cartella per sanzioni amministrative del Codice della Strada non va impugnata in Commissione/Corte Tributaria (perché la multa stradale non è tributo), mentre una cartella per IRPEF o IVA sì.
Atti impugnabili: la legge (art. 19 del D.Lgs. 546/1992) elenca espressamente quali atti possono essere oggetto di ricorso tributario. I principali atti impugnabili davanti alla Corte sono :
- Avviso di accertamento del tributo: l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate (o un ente locale impositore) rettifica la dichiarazione del contribuente o contesta maggiori imposte, irrogando contestualmente sanzioni e interessi. È tipicamente l’atto emanato a seguito di un controllo fiscale, che ridefinisce il reddito o il valore imponibile dichiarato e quantifica ciò che secondo il Fisco è dovuto in più.
- Avviso di liquidazione: atto con cui si liquidano imposte dovute in base a dichiarazioni o ad atti, ad esempio in materia d’imposta di registro, imposta sulle successioni e donazioni, ecc. (Qui l’ufficio non rettifica un imponibile, ma ricalcola e liquida un tributo dovuto, spesso dopo un controllo formale).
- Provvedimento di irrogazione di sanzioni: atto con cui vengono comminate sanzioni amministrative tributarie (ad es. per omessa o tardiva dichiarazione, errori formali, ecc.). È impugnabile autonomamente anche se non contestualmente a un avviso d’imposta .
- Cartella di pagamento (o ruolo): atto emesso dall’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione, ex Equitalia) per riscuotere coattivamente somme risultanti da ruoli esecutivi. La cartella può essere impugnata per vizi propri (es. notifica irregolare, errore sull’intestazione, prescrizione del credito, ecc.) oppure anche per contestare nel merito la pretesa d’imposta se non è mai stato notificato l’atto presupposto. In altre parole, se ti viene recapitata una cartella ma tu non hai mai ricevuto l’avviso di accertamento originario, puoi impugnare la cartella eccependo la mancata notifica dell’atto precedente e contestando quindi anche il merito della richiesta fiscale .
- Rifiuto (espresso o tacito) di rimborso: se il contribuente ha presentato un’istanza di rimborso per un’imposta versata e l’ufficio risponde con un diniego espresso (un provvedimento formale di rifiuto) oppure non risponde affatto entro il termine di legge, quel rifiuto (espresso o formatosi per silenzio) è impugnabile. È il caso tipico, ad esempio, di un credito IVA chiesto a rimborso e negato, o di imposte pagate indebitamente che l’Agenzia si rifiuta di restituire.
- Altri atti relativi a tributi: la categoria è ampia. Ad esempio, sono impugnabili anche le iscrizioni di ipoteca eseguite dal concessionario della riscossione su beni del contribuente per garantire crediti tributari non pagati, oppure il fermo amministrativo di beni mobili (come il fermo auto) per morosità su tributi . Sono inoltre impugnabili: i dinieghi o revoche di agevolazioni fiscali (es. la revoca di un’agevolazione “prima casa” con richiesta di imposte e sanzioni), le intimazioni di pagamento (ossia gli atti con cui l’Agente della Riscossione intima il pagamento entro 5 giorni a seguito di cartelle scadute), i solleciti o avvisi di mora successivi, e in alcuni casi anche gli estratti di ruolo (documenti interni che riepilogano le cartelle a carico del contribuente – su questi la giurisprudenza ha avuto orientamenti oscillanti, ma le Sezioni Unite della Cassazione hanno ammesso l’impugnazione se l’estratto rivela l’esistenza di una cartella mai notificata) . In generale, qualsiasi atto dei soggetti impositori o riscossori che incida su un’obbligazione tributaria può essere impugnato, salvo sia meramente informativo.
Novità 2024 – Autotutela impugnabile: un recentissimo ampliamento degli atti impugnabili riguarda l’autotutela. Con la riforma fiscale attuata a fine 2023 (decreti legislativi nn. 219 e 220/2023), l’Amministrazione finanziaria ha l’obbligo di annullare d’ufficio – anche senza istanza del contribuente – alcuni atti manifestamente illegittimi (casi tassativi, ad es. errore di persona, errore di calcolo, pagamento già effettuato ma non considerato, ecc., come dettagliato più avanti) . Se il contribuente presenta un’istanza di autotutela in questi casi obbligatori e l’ufficio la respinge oppure non risponde entro 90 giorni, tale diniego (espresso o tacito) è divenuto impugnabile autonomamente davanti alla Corte tributaria . Ciò significa che dal 2024 puoi fare ricorso non solo contro l’atto fiscale originario, ma anche contro il comportamento dell’ufficio che abbia rifiutato di correggere un errore evidente in autotutela. Questa novità offre una tutela giurisdizionale aggiuntiva contro inerzie o rifiuti nel correggere in via amministrativa atti manifestamente sbagliati. (Al contrario, per le ipotesi di autotutela facoltativa – cioè in situazioni non rientranti nei casi obbligatori – il silenzio dell’ufficio non è impugnabile; vedremo dettagli nella sezione sull’autotutela.)
Riassumendo, se hai ricevuto uno qualsiasi degli atti sopra elencati (accertamento, cartella, diniego di rimborso, ipoteca, ecc.), hai in genere 60 giorni di tempo per valutare il da farsi e, se del caso, predisporre un ricorso. Prima di analizzare tempi e modalità, però, vediamo chi può proporre ricorso e con quali requisiti di rappresentanza o assistenza tecnica.
Chi può proporre il ricorso e quando serve l’avvocato
Legittimazione a ricorrere: chi è il “contribuente” interessato
Il ricorso tributario può essere proposto solo da chi è direttamente colpito dall’atto impugnato, ovvero il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria o chi ne ha la legale disponibilità. In pratica, rientrano tra i legittimati a ricorrere :
- La persona fisica destinataria dell’atto fiscale: ad esempio Mario Rossi cui è notificato un avviso di accertamento IRPEF o una cartella.
- La persona giuridica o ditta individuale cui l’atto si riferisce, normalmente rappresentata dal legale rappresentante (es. il ricorso di una S.r.l. deve essere proposto dall’amministratore o da un procuratore per conto della società).
- Gli eredi del contribuente, se quest’ultimo è deceduto dopo aver ricevuto l’atto o se l’atto viene notificato agli eredi per tributi del de cuius. Gli eredi subentrano nelle posizioni debitorie e creditorie del defunto, quindi possono impugnare avvisi intestati al loro dante causa (nel ricorso dovranno indicare la loro qualità di eredi).
- I coobbligati in solido, nei casi in cui la legge prevede obbligazioni tributarie solidali. Ad esempio, in certe materie (imposta di registro su un contratto, alcune imposte comunali) più soggetti possono essere obbligati in solido: ciascuno di essi ha titolo per ricorrere.
- In alcune situazioni particolari, anche figure come il sostituto d’imposta o il responsabile d’imposta possono impugnare atti indirizzati a loro (ad es. un datore di lavoro destinatario di un avviso per ritenute IRPEF non operate può ricorrere contro tale atto) .
Il ricorso va rivolto contro l’ente che ha emesso l’atto (che sarà il convenuto in giudizio). Ad esempio, se impugni un avviso di accertamento IRPEF sarà convenuta l’Agenzia delle Entrate; se impugni un avviso di accertamento IMU sarà convenuto il Comune che lo ha emesso; se impugni una cartella di pagamento sarà convenuta l’Agenzia Entrate Riscossione (con eventuale coinvolgimento anche dell’ente impositore per la parte del tributo) . Il ricorso va notificato a tale ente, rispettando le regole di notifica (di cui parleremo), ad esempio via PEC all’indirizzo istituzionale dell’ufficio.
Assistenza tecnica: “quando con l’avvocato” e altri difensori abilitati
Una domanda cruciale è: posso fare da solo il ricorso o ho bisogno di un avvocato (o altro difensore tecnico)? La risposta dipende dal valore della controversia. La regola generale (art. 12 D.Lgs. 546/1992) stabilisce un principio di assistenza tecnica obbligatoria oltre una certa soglia, con una piccola eccezione per le liti minori :
- Se la controversia ha valore fino a 3.000 €, è ammessa l’autodifesa: il contribuente può sottoscrivere e presentare personalmente il ricorso, senza l’obbligo di farsi assistere da un difensore abilitato . Questa eccezione, prevista dal comma 5 dell’art. 12 D.Lgs. 546/92, serve a facilitare l’accesso alla giustizia tributaria per le liti di modesto importo, dove il costo di un legale potrebbe essere sproporzionato. In pratica, se ricevi ad esempio una piccola cartella da 1.000 € o una multa fiscale di 500 €, puoi redigere il ricorso e presentarlo da solo, firmandolo tu stesso.
- Se la controversia ha valore superiore a 3.000 €, vige l’obbligo di assistenza tecnica: il contribuente deve farsi rappresentare o assistere da un difensore abilitato . Chi sono i difensori abilitati nel processo tributario? L’art. 12 del D.Lgs. 546/92 include: avvocati iscritti all’albo; dottori commercialisti ed esperti contabili; consulenti del lavoro (limitatamente a materie di loro competenza, ad es. contributi); soggetti delle cosiddette “categorie equipollenti” (ad es. ex funzionari dell’Amministrazione finanziaria con particolari requisiti di servizio) e, per le liti riguardanti tributi locali, anche i funzionari dell’ente locale in questione. L’avvocato tributarista è la figura più comune, ma anche un commercialista esperto di contenzioso tributario può patrocinare la causa.
In altre parole, sopra i 3.000 € di valore dovrai con ogni probabilità incaricare un professionista abilitato (tipicamente un avvocato) che rediga e sottoscriva il ricorso per tuo conto . Sotto tale soglia, hai la facoltà di agire da solo. Ciò non toglie che, anche nelle liti sotto 3.000 €, nulla vieta di farsi comunque assistere da un difensore se lo desideri (anzi, può essere consigliabile se la materia è complessa, benché piccola come importo). Ad esempio, se impugni una sanzione da 2.500 € e non ti senti sicuro, puoi comunque rivolgerti a un professionista.
Calcolo del valore della lite: attenzione, la soglia di 3.000 € va calcolata secondo la legge. Si considera, di regola, solo l’importo del tributo contestato, al netto di interessi e sanzioni . Se impugni solo una sanzione (atto autonomo), il valore è la sanzione stessa. Se con un unico ricorso contesti più atti o più annualità, il valore è dato dalla somma dei tributi contestati in tutti gli atti impugnati. Nel ricorso introduttivo deve essere indicato il valore della lite nelle conclusioni: se ometti di indicarlo, sarai comunque tenuto a pagare il contributo unificato nella misura massima prevista (come se il valore fosse sopra la soglia più alta) . Dunque è importante calcolarlo e dichiararlo correttamente. Ad esempio, se ricorri contro un avviso IRPEF che chiede 5.000 € di imposta più 2.000 di sanzioni, il valore è 5.000 €. Se ricorri contro una cartella che cumula IVA di vari anni per 10.000 € + interessi, il valore è 10.000 (gli interessi non contano).
Conseguenze se presenti da solo un ricorso > 3.000 €: in passato un ricorso senza difensore ove obbligatorio era dichiarato inammissibile in modo immediato. La giurisprudenza più recente, però, ha mitigato questo rigorismo. Le Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 29919/2017) hanno stabilito che il giudice deve invitare la parte a munirsi di difensore, assegnando un termine per sanare la situazione, e solo se il contribuente non vi provvede allora dichiarerà l’inammissibilità . Quindi, se per errore un contribuente presenta da solo un ricorso che in realtà richiedeva la firma tecnica di un difensore (perché sopra soglia), la Corte tributaria normalmente emette un’ordinanza presidenziale che gli ordina di nominare un difensore entro un certo termine e depositare la relativa procura. Se il contribuente ottempera, il vizio è sanato e il ricorso va avanti; se non ottempera, il ricorso verrà dichiarato inammissibile. In ogni caso, è sempre fortemente consigliato rispettare sin dall’inizio l’obbligo di assistenza tecnica, per evitare rischi procedurali.
Chi sceglie il difensore e chi firma: il ricorso, se ci si avvale di assistenza tecnica, viene sottoscritto dal difensore (avvocato, commercialista, etc.), munito di apposita procura speciale conferita dal contribuente. La procura va di norma apposta in calce o a margine al ricorso, oppure su foglio separato da allegare, e deve essere sottoscritta dal contribuente. Sarà poi il difensore a notificare e depositare il ricorso.
E se volessi fare da solo anche oltre soglia? Teoricamente potresti provare a presentare il ricorso e poi nominare un difensore solo se il giudice te lo chiede: ma è un azzardo inutile. Inoltre, in sede di discussione in aula o di scrittura di memorie tecniche, la mancanza di competenze può pregiudicare il caso. Il consiglio è chiaro: per liti significative (importi alti o questioni complesse), affidati a un avvocato tributarista esperto. Questa guida ti aiuterà a comprendere il procedimento e le strategie, ma il supporto di un professionista può fare la differenza tra vincere o perdere una causa fiscale.
Esempio pratico: Luigi riceve un accertamento IRPEF da 10.000 € di maggiore imposta. Valore della lite: 10.000 € (sopra 3.000). Luigi dovrà necessariamente incaricare un difensore abilitato (sceglie un avvocato tributarista). L’avvocato prepara il ricorso, Luigi firma la procura e l’avvocato firma e notifica l’atto. Se Luigi avesse erroneamente presentato da solo il ricorso, la Corte gli avrebbe chiesto di regolarizzare con un difensore entro un termine. Sotto i 3.000 € invece, Luigi avrebbe potuto agire da solo (anche se nulla gli vieta di farsi assistere comunque).
Ruolo dell’avvocato nel contenzioso tributario
Visti gli aspetti formali, spendiamo due parole sul valore aggiunto che un avvocato (o altro difensore) può portare nel ricorso contro l’Agenzia delle Entrate. Il processo tributario è tecnico: richiede conoscenza delle leggi fiscali sostanziali, delle procedure e della giurisprudenza. Un professionista esperto può:
- Valutare la fondatezza del tuo caso: non ogni contestazione ha chance di vittoria; un buon avvocato tributarista sa distinguere i motivi validi da quelli deboli, consigliandoti se ricorrere o magari accedere a una soluzione transattiva.
- Individuare i vizi dell’atto impugnato: la normativa fiscale e il diritto tributario processuale offrono molte possibili eccezioni (vizi di notifica, difetto di motivazione, decadenza termini, vizio di firma, illegittimità costituzionali, contrasto col diritto UE, etc.). Un occhio esperto individua quei dettagli che possono annullare l’atto.
- Costruire la strategia difensiva: decidere quali motivi di ricorso articolare, quali documenti produrre, se chiedere consulenze tecniche o testimoni (oggi possibile in forma scritta), come condurre l’eventuale fase di conciliazione, ecc.
- Gestire la procedura telematica: ormai il processo è telematico, con piattaforme online (SIGIT) e regole informatiche. Il difensore abituale conosce questi strumenti e riduce il rischio di errori formali (come file non firmati digitalmente, notifiche PEC non corrette, ecc.).
- Rappresentarti in udienza: se c’è un’udienza di discussione, il difensore sa argomentare oralmente, rispondere alle osservazioni del giudice o della controparte, insistere su punti cruciali.
- Curare gli aspetti successivi: ad esempio chiedere la sospensione dell’esecuzione, proporre eventuale appello o ricorso per Cassazione se la sentenza di primo grado è sfavorevole, oppure seguire la fase di ottemperanza se vinci (cioè assicurarsi che l’ente dia seguito alla decisione, rimborsi, annulli l’atto, ecc.).
In sintesi, “quando con l’avvocato”? Sempre consigliabile quando la posta in gioco è rilevante o la questione complicata; obbligatorio per legge oltre 3.000 €. Il contribuente informato può certamente collaborare col difensore (fornendo documenti, spiegando i fatti, suggerendo spunti), e questa guida ti permetterà di dialogare alla pari col tuo legale. Ma nel processo è fondamentale rispettare regole e tempi, dove l’avvocato tributarista è lo specialista.
Nei prossimi capitoli entreremo nel vivo del percorso del ricorso: dagli strumenti per evitare il giudizio (se convengono) alla predisposizione del ricorso, i termini da non perdere e lo svolgimento del processo. Successivamente, affronteremo i motivi di ricorso più efficaci e i profili penali.
Prima tappa: cosa fare prima di presentare ricorso? Analizziamo gli strumenti “deflativi” a disposizione del contribuente.
Prima del ricorso: strumenti deflativi (autotutela, adesione, conciliazione, ecc.)
Affrontare un contenzioso tributario è impegnativo. Spesso esistono soluzioni alternative che possono risolvere (o attenuare) la controversia prima di arrivare davanti al giudice. Sono detti strumenti deflativi perché mirano a “sgonfiare” il contenzioso. Conoscerli è fondamentale: in certi casi possono farti evitare un ricorso lungo e costoso, o mettere il contribuente in posizione più favorevole in seguito. Ecco i principali:
Autotutela – Far correggere all’ufficio gli errori evidenti
Cos’è l’autotutela: È il potere-dovere dell’amministrazione di annullare o rettificare da sé i propri atti quando riconosce che sono illegittimi o errati. In ambito tributario, l’autotutela storicamente era discrezionale: il contribuente poteva presentare un’istanza all’ufficio chiedendo la correzione di un atto viziato (es: evidente errore di calcolo, doppia imposizione, scambio di persona, ecc.), ma l’ufficio non era obbligato ad accettare e l’eventuale rifiuto non era impugnabile, costringendo il contribuente a fare ricorso.
Le novità dal 2024 – autotutela “obbligatoria” vs “facoltativa”: La riforma fiscale (D.Lgs. n. 219/2023) ha introdotto una distinzione netta:
- Autotutela obbligatoria (art. 10-quater, L. 212/2000): l’Amministrazione deve procedere all’annullamento (totale o parziale) di un atto impositivo, o rinunciare alla pretesa, senza necessità di istanza di parte, anche se l’atto è definitivo o pende giudizio, in presenza di casi di “manifesta illegittimità” tassativamente elencati dalla legge. I casi previsti sono: a) errore di persona; b) errore di calcolo; c) errore sull’individuazione del tributo; d) errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile; e) errore sul presupposto d’imposta; f) mancata considerazione di pagamenti d’imposta regolarmente eseguiti; g) mancanza di documentazione successivamente sanata (entro i termini previsti a pena di decadenza). In situazioni del genere l’ufficio è tenuto a intervenire d’ufficio e annullare/ridurre l’atto viziato. L’obbligo però non opera se l’atto, ancorché viziato, è già stato confermato da una sentenza passata in giudicato favorevole al fisco, né se è trascorso oltre un anno** da quando l’atto è divenuto definitivo per mancata impugnazione . Ciò per evitare di riaprire vicende troppo vecchie o già giudicate.
- Autotutela facoltativa (art. 10-quinquies, L. 212/2000): in tutti gli altri casi di illegittimità o infondatezza dell’atto che non rientrano nelle ipotesi sopra, l’amministrazione può comunque annullare o modificare l’atto di sua iniziativa (sempre senza istanza di parte, volendo), ma si tratta di una facoltà e non di un obbligo . In pratica, le istanze di autotutela che non evidenziano un errore macroscopico rientrano qui: l’ufficio valuterà discrezionalmente se accogliere.
Cosa significa per il contribuente: Se ritieni che l’atto ricevuto presenti uno dei vizi palesi a-b-c-…-g, potrai presentare un’istanza di autotutela obbligatoria citando l’art. 10-quater e spiegando l’errore manifesto. L’ufficio a quel punto dovrebbe annullare/ridurre l’atto senza indugio. Se invece l’errore non rientra nei casi obbligatori (situazione più “opinabile”), la tua istanza sarà valutata come autotutela facoltativa.
Impugnabilità del diniego: Cruciale novità: se l’ufficio nega l’autotutela o non risponde, l’esito dipende dal tipo di autotutela: – Nel caso di autotutela obbligatoria, il diniego espresso può essere impugnato in giudizio (così come il silenzio protratto oltre 90 giorni si considera silenzio-rifiuto e può essere impugnato) . Dunque hai un rimedio giurisdizionale se l’ufficio rifiuta di correggere un errore palese. Il silenzio dell’ufficio diventa impugnabile trascorsi 90 giorni dalla presentazione dell’istanza di autotutela obbligatoria . Il ricorso in tal caso va proposto entro i termini di prescrizione (la legge non fissa un termine breve di 60 giorni dal silenzio, per analogia conviene comunque attivarsi non molto oltre).
– Nel caso di autotutela facoltativa, invece, se l’ufficio ignora la tua richiesta (silenzio) non potrai impugnarlo . Il diniego espresso invece è impugnabile anche per la facoltativa (la legge consente il ricorso contro il “diniego espresso” in entrambi i casi, obbligatoria e facoltativa ). Ma il silenzio no, in quanto il legislatore ha voluto evitare che ogni rigetto tacito di istanza basata su motivi opinabili generi una causa: in tali casi, se hai un motivo valido devi direttamente impugnare l’atto originario entro 60 giorni, senza attendere l’esito dell’autotutela facoltativa.
Come presentare l’istanza di autotutela: L’Agenzia delle Entrate ha fornito istruzioni operative con la Circolare 21/E del 7-11-2024. Puoi presentare l’istanza: tramite PEC all’ufficio competente, tramite la tua area riservata sul sito dell’Agenzia (c’è un servizio dedicato), oppure a mano presso l’ufficio territoriale competente . È importante indirizzarla all’ufficio che ha emesso l’atto (se sbagli destinatario, la tua istanza dovrebbe essere inoltrata internamente all’ufficio giusto, ma meglio evitare errori) . Nell’istanza indica tutti i dati del contribuente, dell’atto impugnato, e motiva dettagliatamente le ragioni per cui l’atto è sbagliato, allegando documenti di prova. Più l’errore risulta chiaro e documentato, più chances hai che l’ufficio accolga.
Esempio di casi per autotutela obbligatoria: – L’Agenzia ti manda un avviso intestato a te ma riferito a redditi di un altro contribuente (palese errore di persona): alleghi i documenti che provano che quel C.F. non è tuo, e chiedi l’annullamento.
– Oppure, un avviso di liquidazione richiede il pagamento doppio di un’imposta già pagata (pagamento non considerato): alleghi la quietanza e chiedi l’annullamento.
– Ancora, un avviso ti nega un’agevolazione perché non hai presentato una certa dichiarazione, ma tu in realtà l’avevi presentata anche se l’ufficio non l’aveva vista (documentazione mancante poi sanata): lo fai presente.
L’ufficio in questi casi dovrebbe ammettere l’errore e annullare in autotutela. Se non lo fa, potrai impugnare il rifiuto.
Autotutela e termini di ricorso: Attenzione: la presentazione di un’istanza di autotutela non sospende automaticamente i termini per ricorrere. Nel vecchio regime del reclamo/mediazione (fino al 2023) il ricorso stava “pendente” per 90 giorni in attesa di esito, ma ora l’autotutela è separata. Quindi, se temi che l’ufficio possa ignorare la tua istanza e i 60 giorni per ricorrere scorrano inutilmente, valuta di presentare comunque ricorso entro i termini, eventualmente facendolo presente al giudice. In alternativa, nelle ipotesi obbligatorie, la legge prevede di attendere 90 giorni per il silenzio-rifiuto e poi impugnare direttamente quello. Ma è un meccanismo nuovo e prudenza vuole di non far decadere il termine del ricorso sull’atto principale, salvo indicazioni chiare. In molti casi, una soluzione è: presentare ricorso e contestualmente continuare a sollecitare l’autotutela (le due cose non si escludono, l’ufficio può annullare l’atto anche dopo che hai impugnato, facendo cessare la materia del contendere).
Riassumendo: l’autotutela è uno strumento da tentare quando l’errore è palese e documentabile. Dal 2024 è diventata più efficace grazie all’obbligatorietà in certi casi e alla possibilità di ricorrere contro il rifiuto. Non costa nulla (a parte impegno nel preparare l’istanza) e può farti ottenere giustizia rapidamente. Tuttavia, non sempre l’ufficio ammetterà l’errore; inoltre, se il problema è interpretativo o di merito (non un errore oggettivo), difficilmente l’ente rinuncerà alla propria pretesa in autotutela facoltativa. In quei casi, occorrerà andare avanti col ricorso.
Accertamento con adesione – Trattativa per ridurre le pretese
Cos’è l’accertamento con adesione: Previsto dal D.Lgs. 218/1997, è una procedura di negoziazione fra contribuente e ufficio, attivabile dopo un avviso di accertamento (o un verbale di constatazione) e prima di fare ricorso, per cercare un accordo sull’imponibile e sulle imposte dovute. In pratica, il contribuente presenta un’istanza di adesione all’ufficio che ha emesso l’accertamento; ciò sospende per 90 giorni i termini del ricorso . L’ufficio ti convocherà per un contraddittorio orale, durante il quale potrete discutere e magari l’ufficio si mostrerà disponibile a ridurre parzialmente la pretesa (ad esempio riconoscendo qualche costo in più, abbassando redditi presunti, ecc.). Se si raggiunge un accordo, viene redatto un atto di adesione con le nuove somme concordate; il contribuente dovrà pagarle (anche ratealmente) e beneficerà di sanzioni ridotte a 1/3 del minimo di legge. L’adesione definisce in via definitiva l’accertamento, che non sarà più impugnabile (diventa “concordato”). Se la trattativa fallisce, il contribuente può comunque proporre ricorso (il termine dei 60 gg riprende a decorrere dopo la sospensione di 90 giorni dovuta all’adesione).
Quando conviene l’adesione: Quando riconosci che parte della pretesa fiscale è fondata o temi che in giudizio potresti perdere, ma c’è margine per ottenere uno sconto. Ad esempio se l’Agenzia ti contesta 100 di reddito non dichiarato, ma tu hai elementi per far abbassare la cifra a 60, in adesione potresti spuntare questo risultato ed evitare il ricorso, pagando su 60 con sanzioni 1/3 (in giudizio avresti rischiato di pagare su 100 con sanzioni intere se perdevi). L’adesione è volontaria: l’ufficio non è obbligato a fare sconti, ma spesso è disponibile a ridurre la pretesa per chiudere subito incassando almeno in parte. Il vantaggio per il contribuente è evitare il contenzioso e avere sanzioni ridotte (1/3). Lo svantaggio è che comunque paghi qualcosa, rinunciando a far valere fino in fondo le tue ragioni in giudizio.
Aspetti procedurali: L’istanza di adesione va presentata entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso (o 30 se hai ricevuto un PVC della Guardia di Finanza e vuoi anticipare l’accertamento prima che esca). La presentazione dell’istanza proroga automaticamente il termine per ricorrere: i 60 giorni si sospendono per 90 giorni dall’istanza . Durante questi 90 gg, l’ufficio dovrebbe invitarti per un incontro. Se non lo fa, semplicemente allo scadere potrai comunque ricorrere (ti resta il residuo del termine). Se fate l’incontro ma non c’è accordo, l’ufficio redige esito negativo e di nuovo potrai ricorrere con termine prolungato. Se c’è accordo, firmate l’atto di adesione e si perfeziona col pagamento della prima rata o unica soluzione entro 20 giorni. Da notare: una volta firmato e pagato, non puoi tornare indietro (è acquiescenza su quei punti).
Differenza con la conciliazione giudiziale: L’adesione avviene prima del ricorso, in sede amministrativa. La conciliazione (vedi più avanti) invece avviene dopo che hai presentato ricorso, in sede giudiziale. Entrambi portano a un “compromesso”, ma in fasi diverse.
Esempio: Maria riceve un avviso con vari rilievi, per imposte e sanzioni totali di 50.000 €. Alcuni rilievi secondo lei sono palesemente infondati, altri magari in parte corretti. Decide di provare l’adesione: la sua istanza sospende il termine di ricorso. Si confronta con l’ufficio e riescono a trovare un accordo su un imponibile inferiore: l’ufficio riduce la richiesta a 30.000 €, Maria accetta e firma. Le sanzioni, che sul nuovo importo sarebbero ipoteticamente 10.000 €, vengono abbattute a ~3.333 € (un terzo). Maria paga il tutto rateizzando in 8 rate trimestrali. In questo modo chiude la vicenda in pochi mesi senza andare in Commissione. Se invece l’ufficio fosse rimasto inflessibile, Maria avrebbe usato i 90 gg di sospensione per preparare bene il ricorso e lo avrebbe presentato.
Acquiescenza – Pagare con sanzioni ridotte e rinunciare al ricorso
Cos’è l’acquiescenza: È la “resa” bonaria del contribuente. Consiste nel pagare integralmente quanto richiesto da un avviso di accertamento (o atto di irrogazione sanzioni) entro 60 giorni, beneficiando però di sanzioni ridotte ad 1/3 rispetto al minimo edittale (in alcuni casi 1/18 se l’atto lo prevede espressamente). L’acquiescenza è regolata dall’art. 15 del D.Lgs. 218/1997. In pratica: se riconosci che l’accertamento è fondato o non vuoi contestarlo, pagando entro il termine ottieni lo sconto sulle sanzioni e la chiusura della pendenza. Ovviamente, facendo acquiescenza rinunci al ricorso: l’atto non potrà più essere impugnato, diviene definitivo e cristallizzato.
Quando conviene: se l’ufficio ha ragione e il ricorso sarebbe solo un aggravio di costi, tanto vale pagare subito col beneficio. Oppure se l’ufficio ha torto ma non hai prove o hai paura di aggravare la posizione (ad esempio, per evitare un procedimento penale: in certi casi pagare subito estingue il reato tributario, vedi sezione penale). Lo sconto sanzioni può essere allettante: sanzione ordinaria 100% dell’imposta -> con acquiescenza paghi ~30%.
Esempio: ricevi un avviso per €10.000 di imposta evasa con sanzione 100% (€10.000). Se paghi subito, versi 10k di imposta + 3.333 di sanzione + interessi. Risparmi 6.667€ di sanzione. Se andassi in giudizio e perdessi, avresti pagato tutti i 10k di sanzione più spese.
Attenzione: l’acquiescenza è irreversibile . Una volta pagato con sanzioni ridotte, non puoi più ricorrere e neppure chiedere indietro i soldi, salvo rare ipotesi di riliquidazione a seguito di errori materiali dell’ufficio. Quindi va scelta solo se sei davvero convinto di non voler o poter contestare.
Procedura: Se decidi l’acquiescenza, devi pagare entro il 60° giorno dalla notifica dell’atto (o prima se indicato). Puoi pagare in unica soluzione o chiedere rateizzazione (fino a 8 rate se >€5.000, ma la prima rata va entro 60 gg comunque). La notifica di un ricorso, anche se poi lo ritiri, fa decadere l’opzione di acquiescenza. Quindi la scelta va fatta prima di ricorrere.
Consiglio: valuta l’acquiescenza solo dopo aver fatto due conti: se l’atto è ragionevolmente fondato e hai liquidità per pagare, lo sconto sanzioni è conveniente. Se hai anche solo un buon 30% di possibilità di vittoria in giudizio, spesso conviene tentare il ricorso o l’adesione.
Reclamo e mediazione (aboliti dal 2024)
Per completezza storica, menzioniamo l’istituto del reclamo/mediazione, in vigore dal 2012 al 2023, ma abolito dal 2024. Fino al 2023 le controversie di valore fino a una certa soglia (20.000 €, poi 50.000 €) dovevano obbligatoriamente passare, prima del giudizio, per una fase di reclamo-mediazione: si presentava il ricorso all’ente impositore e per 90 giorni veniva trattato come reclamo (l’ufficio poteva riesaminare l’atto e proporre eventualmente una mediazione con sanzioni ridotte al 35%). Solo dopo 90 giorni, se non c’era accordo, il ricorso veniva iscritto a ruolo in Commissione . Dal 4 gennaio 2024 tale procedura è stata eliminata: ora tutti i ricorsi partono subito come tali davanti alla Corte, senza passaggi amministrativi intermedi . Questo rende più snello il percorso: se devi impugnare, notifichi il ricorso e lo depositi, punto. La mediazione obbligatoria appartiene al passato (restano pendenti solo i reclami iniziati entro fine 2023, ma col 2025 sono casi residui) .
Di conseguenza, non devi più confondere il “ricorso” con il precedente “reclamo”. Fino al 2023 c’era la stranezza che presentavi il ricorso ma dovevi aspettare 90 giorni; oggi non più. Oggi si parte immediatamente col ricorso giurisdizionale. Questo però rende ancora più importante valutare gli strumenti deflativi prima di notificare il ricorso, perché una volta notificato, entri nel vivo del processo (anche se, come vedremo, la conciliazione è sempre possibile in corso di causa).
Conciliazione giudiziale – Accordo transattivo in corso di causa
Cos’è la conciliazione: È la possibilità di chiudere bonariamente la lite tributaria dopo che il ricorso è già stato presentato, trovando un accordo tra contribuente ed ente in sede processuale. Nel processo tributario la conciliazione può essere fuori udienza (le parti si scambiano una proposta e se concordano la formalizzano) o in udienza davanti al giudice. Se si concilia, la Corte emette un decreto che recepisce l’accordo e chiude il giudizio . L’ente impositore accetta di ridurre la pretesa a un certo importo; il contribuente paga quell’importo concordato. Le sanzioni vengono ulteriormente ridotte: 40% del minimo in caso di conciliazione in primo grado, 50% in caso di conciliazione in secondo grado . (Nota: questi sono incentivi simili a quelli del reclamo; dal 2024 estesi anche alla Cassazione in certi casi).
Novità: Dal 2024 la conciliazione è stata resa possibile anche nel giudizio di Cassazione (per i ricorsi per Cassazione introdotti da gennaio 2024) . Questo fa sì che in ogni fase – primo grado, appello e perfino Cassazione – le parti possano transigere la controversia . L’obiettivo è deflazionare ulteriormente il contenzioso, dando sempre una chance di accordo.
Quando conviene: Se, a processo avviato, emergono elementi nuovi o si ridimensionano le pretese, può convenire trovare un accordo invece di attendere la sentenza dall’esito incerto. La conciliazione è spesso utilizzata quando entrambe le parti percepiscono incertezza sul giudizio e preferiscono un compromesso: il contribuente chiude la lite pagando meno di quanto originariamente richiesto (e con sanzioni ridotte), l’ente incassa subito ed evita il rischio di perdere tutto in giudizio. Ad esempio, se a metà causa il giudice in udienza fa capire che c’è un difetto formale nell’avviso, l’ufficio potrebbe offrire di annullare metà della pretesa e chiudere lì. Oppure, al contrario, se emergono nuove prove contro il contribuente, quest’ultimo potrebbe cercare un accordo per pagare qualcosa ma evitare conseguenze peggiori (magari evitare il penale se paga).
Procedura: Può essere attivata da entrambe le parti. Spesso il contribuente (tramite il suo avvocato) fa una proposta di conciliazione scritta all’ente (Agenzia) indicando: “accetto di pagare tot imposta, tot sanzione, rinunciando al resto”. L’Agenzia valuta e, se concorda, sottoscrivete un accordo e lo sottoponete al giudice. In udienza, se si concilia, si verbalizza l’accordo. Se la conciliazione avviene fuori udienza, dovete depositare l’accordo prima che il giudice decida. Una volta recepito dal decreto, devi pagare l’importo concordato entro 20 giorni (rateizzabile in 8 rate se grosso). Se paghi, fine della lite. Se non paghi, l’accordo decade e il processo può essere riassunto.
Importante: se la conciliazione non va a buon fine (ad esempio proponi ma l’Agenzia rifiuta), il processo prosegue normalmente e le dichiarazioni fatte in sede di trattativa non possono essere usate in giudizio (c’è riservatezza).
Differenze con adesione: L’adesione era prima del ricorso, col dialogo informale all’ufficio; la conciliazione è dopo il ricorso, col coinvolgimento del giudice (anche se il giudice non impone l’accordo, ma può suggerirlo). Le riduzioni sanzioni differiscono leggermente (adesione 1/3, conciliazione 40% o 50%). In conciliazione spesso l’ente è rappresentato in giudizio da un funzionario che deve attenersi a linee guida: generalmente l’Agenzia accetta di conciliare se il contribuente paga almeno l’imposta e una quota di sanzione (non aspettatevi sconti drastici oltre alle sanzioni già agevolate).
Esempio: in primo grado Luigi sta litigando per 20.000 € di imposte e 10.000 € di sanzioni. In udienza, dal dibattito emerge che Luigi ha buone possibilità su alcuni punti ma non su altri. Il suo avvocato propone all’ufficio: “chiudiamo a 10.000 € imposte e 2.000 € sanzioni” (2k sanzioni sarebbe il 40% del minimo su 10k imposta, se il minimo era 5k ad esempio). L’ufficio accetta 12.000 totali. Il giudice emette decreto di conciliazione per quell’importo. Luigi paga e la lite finisce, con un bel risparmio rispetto a 30k e con la sicurezza di aver chiuso.
Strumenti deflativi e strategie: In generale, conviene valutare tutti questi strumenti prima e durante il ricorso: – Usa l’adesione se ci sono margini per ridurre la pretesa evitando il ricorso. – Presenta istanza di autotutela se c’è un errore evidente: ora è anche obbligatoria in certi casi, quindi tentare non costa nulla. – Se l’errore è palese, l’autotutela potrebbe risolverti il problema prima ancora di ricorrere; se l’ufficio non la concede, avrai comunque evidenziato la questione che riproporrai al giudice. – Scegli l’acquiescenza solo se sei certo di voler chiudere senza lotta e puoi accettare il dovuto con lo sconto. – Una volta in causa, tieni sempre aperta la porta alla conciliazione se intravedi uno spiraglio di accordo conveniente. – Se invece ritieni l’atto totalmente infondato e vuoi far valere integralmente le tue ragioni, prepara il ricorso e prosegui con determinazione: in quel caso, meglio puntare all’annullamento completo in giudizio.
Nei prossimi paragrafi entriamo dunque nel vivo del ricorso: come e quando presentarlo, la procedura da seguire e i termini da rispettare.
Presentare il ricorso: termini, forma e procedura
Affrontiamo ora la fase cruciale: hai deciso di fare ricorso contro un atto dell’Agenzia delle Entrate (o altro ente impositore). Questa sezione spiega quando presentarlo (rispetto ai termini di legge) e come redigerlo, notificarlo e depositarlo correttamente, tenendo conto delle regole aggiornate al 2025 (ormai quasi tutto è telematico).
Termini per presentare il ricorso e decadenze
Termine base di 60 giorni: La regola generale è che il ricorso va proposto entro 60 giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato . Il conteggio parte dal giorno successivo a quello in cui hai ricevuto l’atto (via PEC, raccomandata o mani dell’ufficiale giudiziario). Ad esempio, se un avviso di accertamento ti viene notificato il 10 marzo 2025, il termine di 60 giorni inizia l’11 marzo e scade il 10 maggio 2025 . Se il 60° giorno cade di sabato, domenica o festivo, è prorogato al primo giorno lavorativo successivo . Questo termine di 60 giorni è decadenziale: significa che se lo lasci passare senza proporre ricorso, perdi il diritto di impugnare e l’atto diventa definitivo. Un ricorso tardivo è inammissibile (il giudice nemmeno entra nel merito). Dunque, attenzione massima alle scadenze.
Di seguito, riassumiamo in tabella i termini principali (considerando anche eccezioni):
Tabella 1 – Termini di impugnazione nel processo tributario
| Situazione | Termine per ricorrere | Note |
|---|---|---|
| Atto fiscale ordinario (accertamento, cartella, ecc.) notificato | 60 giorni dalla data di notifica | Termine prorogato al lunedì se scade di sabato/domenica . |
| Diniego tacito di rimborso | Non prima di 90 giorni dall’istanza di rimborso; poi si considera impugnabile il silenzio. | Occorre attendere 90 gg. Trascorso tale periodo senza risposta, si forma il silenzio-rifiuto impugnabile . Consigliabile proporre ricorso entro ~60 gg dallo scadere dei 90 gg, per analogia con altri atti. |
| Diniego espresso di rimborso | 60 giorni dalla notifica del provvedimento di diniego | – |
| Silenzio-rifiuto su autotutela obbligatoria (novità 2024) | Dopo 90 giorni dall’istanza di autotutela obbligatoria; poi 60 giorni per impugnare il silenzio | Il contribuente deve attendere 90 gg. Trascorso il silenzio, può proporre ricorso contro il silenzio-rifiuto entro 60 gg . (Se l’ufficio risponde con diniego espresso prima, 60 gg da quella notifica). |
| Atti delle Agenzie Dogane/Monopoli | 40 giorni dalla notifica | Termine speciale (diritti doganali, accise) . |
| Altri casi particolari (es: atti di riscossione) | 60 giorni di regola, salvo diversa previsione giurisprudenziale | In passato ci sono stati dibattiti se atti come l’ipoteca fiscale avessero termini diversi, ma l’orientamento è applicare i 60 gg come regola generale . Meglio non rischiare: considerare sempre 60 gg salvo eccezione chiara. |
Come si vede, per la maggior parte delle situazioni il riferimento è 60 giorni. Le eccezioni principali sono legate ai silenzi (rimborso, autotutela) dove prima devi aspettare un tot di giorni per far “maturare” il rifiuto tacito, e alle materie doganali con termine ridotto a 40 gg.
Interruzioni e sospensioni dei termini: Ci sono circostanze che possono sospendere o prorogare il termine di ricorso: – Periodi di sospensione legale: ad esempio, se intervengono calamità naturali o emergenze in una certa zona, il Governo spesso emette decreti che sospendono i termini processuali (è accaduto in passato per terremoti, alluvioni, ecc.). Oppure durante il periodo di emergenza Covid alcuni termini sono stati congelati. Sono situazioni eccezionali, da verificare caso per caso.
– Sospensione feriale: Dal 1° al 31 agosto i termini processuali sono sospesi (questa è una regola generale applicabile anche al tributario). Dunque se il tuo termine di 60 gg cade dentro agosto, si “ferma” in agosto e riprende a settembre. (Esempio: atto notificato il 10 luglio => 60 gg scadrebbero il 8 settembre, perché agosto non conta).
– Istanza di adesione: come detto sopra, se presenti un accertamento con adesione, i 60 giorni si sospendono per 90 giorni aggiuntivi . In pratica si ottiene una proroga. Esempio dell’estratto: atto notificato 1° marzo, adesione il 20 marzo (dentro i 60gg): il termine per ricorrere che sarebbe scaduto il 30 aprile si ferma e riprende a decorrere per i giorni residui dopo il 90° giorno dall’istanza, quindi riparte dal 18 giugno con i giorni rimanenti .
– Procedura di mediazione/reclamo (fino al 2023): se avevi presentato un reclamo, c’era la sospensione di 90gg. Ma dal 2024 questo non si applica più perché non c’è reclamo. Per i reclami ancora pendenti di fine 2023, continuano a seguire la vecchia norma transitoriamente . Nel 2025 praticamente irrilevante.
Conseguenze della decadenza: Ribadiamo: se perdi il termine di impugnazione, l’atto diviene definitivo e non ci sono rimedi ordinari. Esistono solo rimedi straordinari: ad esempio, la rimessione in termini (difficilissima da ottenere, solo se provi che cause di forza maggiore ti hanno impedito di ricorrere), oppure l’eventuale ricorso per revocazione o opposizione di terzo se emergono elementi come dolo o errore di fatto o conflitto di giudicati (ma sono strumenti che presuppongono comunque una sentenza). In pratica, dopo 60 giorni sei “fuori gioco”, salvo casi eccezionali. Quindi monitora sempre la data di notifica (far annotare dall’ufficiale o verificare la data PEC di consegna) e calcola il termine.
Redazione del ricorso: forma e contenuto
Il ricorso tributario è un atto scritto introduttivo che deve rispettare certi requisiti formali (art. 18 D.Lgs. 546/92). In generale, è simile ad un atto di citazione o ricorso di altri procedimenti, ma adattato al rito tributario. Ecco cosa deve contenere:
- Intestazione alla Corte competente: all’inizio si indica la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente (tipicamente quella della provincia in cui ha sede l’ufficio che ha emanato l’atto, salvo eccezioni di competenza per materia). Esempio: “Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano”.
- Dati del ricorrente: nome, cognome, codice fiscale, domicilio fiscale, eventuale domicilio eletto (se diverso), e dati del difensore con relativo codice fiscale e indirizzo PEC. Se il contribuente sta in giudizio personalmente (lite < 3000), metterà solo i suoi dati e PEC.
- Dati del convenuto (resistente): l’ente che ha emesso l’atto (Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di …, Agenzia Entrate Riscossione – Area …, Comune di …, ecc.).
- Atto impugnato: indicare con precisione di che atto si tratta (es. “Avviso di accertamento n. XYZ/2025 notificato il … relativo a IRPEF 2020”) e possibilmente allegarlo in copia.
- Oggetto del contendere: una breve indicazione del tributo e importo in contestazione (es: “impugnazione di avviso di accertamento IRPEF per € 50.000 di maggiore imponibile, imposte € 15.000, sanzioni € 7.500”). Conviene enunciare il valore della lite qui o nelle conclusioni, in modo chiaro . Ad esempio: “Valore della controversia: € 20.000,00” . Questo serve sia per determinare la competenza (giudice monocratico per liti fino 5k) sia per calcolare il contributo unificato dovuto.
- Fatto e svolgimento: una parte in cui esponi i fatti in maniera chiara e sintetica: quando e come hai ricevuto l’atto, di cosa tratta, qual è la tua situazione (ad es. descrizione della tua attività economica, eventuali vicende pregresse come verifiche o istanze), e perché ritieni l’atto sbagliato. È utile essere ordinati: magari suddividere il fatto in paragrafi, se la vicenda è complessa. Ad esempio: “In data X la Ditta Alfa riceveva PVC … in data Y notificato avviso …”.
- Motivi di ricorso (parte in diritto): è il cuore. Qui articoli i motivi di impugnazione, ossia tutti i profili di illegittimità e infondatezza che contesti. Meglio numerarli (MOTIVO 1, MOTIVO 2, ecc.) e intitolarli sinteticamente (ad es. “1. Nullità dell’atto per difetto di motivazione” – “2. Illegittimità nel merito – insussistenza dei presupposti imponibili” e così via). Ogni motivo va argomentato richiamando norme (articoli di leggi) e, se possibile, giurisprudenza favorevole . Ad esempio potresti scrivere: “L’avviso è privo di motivazione adeguata, avendo l’ufficio omesso di spiegare le ragioni della ripresa a tassazione, in violazione dell’art. 7, co.1, L. 212/2000. Come affermato dalla Cassazione, la motivazione “per relationem” è illegittima se gli elementi richiamati non sono allegati (Cass. n. XXXX/…) …”. Dopo aver citato norma e magari sentenze, applichi al tuo caso concreto: “Nel caso di specie l’Agenzia si è limitata a menzionare un PVC senza allegarlo né estrarne i passi salienti, rendendo impossibile al contribuente comprendere la pretesa; ciò vizia l’atto gravemente.”. Procedi così per ogni motivo (procedurali prima, sostanziali poi, tipicamente). È importante spiegare anche cosa chiedi su ciascun motivo (annullamento totale, o almeno parziale; se sul merito puoi anche ammettere qualcosa e contestare il resto).
- Conclusioni: al termine esponi le richieste specifiche al giudice. Esempio: “Tutto ciò premesso, la società ricorrente chiede che la Corte adita voglia: in primis dichiarare l’annullamento integrale dell’avviso di accertamento impugnato, per i motivi di legittimità esposti; in subordine, ridurre l’imponibile accertato e le imposte di conseguenza, nella misura ritenuta di giustizia, con correzione delle sanzioni; in ogni caso, con vittoria di spese del giudizio a carico dell’ente resistente.”. Inoltre, va indicato il valore della lite (come detto) e la presenza di eventuali allegati. Ad esempio: “Valore della lite: € 50.000 (imposte accertate). Documenti allegati: 1. Copia dell’avviso impugnato; 2. Ricevute PEC di notifica del ricorso; 3. Procura alle liti; 4. Ricevuta pagamento contributo unificato; 5. Documenti di prova da 5.1 a 5.10 (elenchiamo separatamente); 6. Copia istanza di accertamento con adesione presentata il …” . Questa è la struttura tipica degli allegati elencati.
- Luogo, data e firme: infine, il ricorso si chiude con l’indicazione del luogo e data di redazione e la firma del difensore (o del contribuente se in proprio) . La firma deve essere autografa se cartaceo, o firma digitale se depositi telematicamente.
Nota bene: se sei il difensore, allega la procura alle liti. Se operi su carta (casi residui) la procura si appone in calce o su foglio unito; se sei in telematico, la fai firmare al cliente, la scansioni e la alleghi dichiarando la conformità. Una mancanza di procura può essere sanata successivamente, ma evita problemi.
Forma telematica: Ormai la regola è che il ricorso va notificato e depositato telematicamente. Quindi il tuo atto sarà un file .pdf firmato digitalmente (PAdES) se sei un professionista. Se sei un privato senza PEC, in teoria potresti ancora depositare cartaceo presso la segreteria, ma è raro e sconsigliato. L’uso di PEC per la notifica e del Portale SIGIT per il deposito è lo standard (vedi oltre).
Errori da evitare nella redazione: – Non dilungarti inutilmente: scrivi in modo chiaro e conciso. Un papiro confuso irrita il giudice. Meglio 10 pagine mirate che 30 di giri di parole.
– Non omettere i requisiti formali: soprattutto, indica bene l’atto impugnato e i motivi. Un ricorso privo di motivi specifici rischia di essere inammissibile. Es: scrivere solo “faccio ricorso perché l’atto è ingiusto” non basta. Devi argomentare.
– Non dimenticare gli allegati fondamentali: almeno l’atto impugnato e la prova della notifica di ricorso (ad es. ricevute PEC) e il pagamento del contributo unificato. Se mancano, la segreteria o il giudice te li chiederanno.
– Attenzione a nomi e codici: verifica di aver scritto giusto il nome del ricorrente, codice fiscale, ecc., e dell’ente resistente. Un errore qui può creare disguidi (es: PEC inviata a indirizzo sbagliato se ente denominato male). – Non superare i limiti di motivi aggiuntivi: nel processo tributario non esiste possibilità di nuovi motivi dopo il deposito (diversamente dal processo amministrativo). Quindi metti subito tutti i motivi che hai. Potrai solo, eventualmente, ampliare difese con memorie, ma non inserire nuovi motivi di impugnazione oltre i 60 giorni (salvo che emerga un fatto nuovo rilevante).
A chi e come notificare il ricorso
Il ricorso, una volta redatto, va notificato all’ente convenuto entro il termine dei 60 giorni. In ambito tributario, da anni la notifica avviene principalmente via PEC (Posta Elettronica Certificata) per i soggetti abilitati. Ecco i passaggi:
- Individua l’indirizzo PEC del destinatario: L’Agenzia delle Entrate e gli enti pubblici hanno indirizzi PEC pubblici per il contenzioso. Spesso l’indirizzo è indicato sull’atto impugnato (molti avvisi riportano “per il ricorso tributario, notificare a …@pce.agenziaentrate.it”). In mancanza, lo trovi sull’IPA (Indice Pubbliche Amministrazioni), disponibile online . Ad esempio, per Agenzia Entrate Direzione Provinciale di Roma 1, cerchi su IPA quell’ufficio e trovi la PEC valida. Per Agenzia Entrate Riscossione, c’è un elenco di PEC per area territoriale sul loro sito. Per un Comune, idem, cerchi la PEC dell’ufficio tributi o del Comune indicata per i contenziosi.
- Invia il ricorso via PEC: Tu (o il tuo difensore) dal proprio indirizzo PEC invii un messaggio alla PEC dell’ente con oggetto: “Notificazione ai sensi del DL 179/2012” e alleghi il ricorso firmato digitalmente (file .pdf.p7m) e gli allegati (atto impugnato, procura scansionata firmata, documenti, ecc.). In pratica componi una PEC con testo “Si notifica il ricorso avverso… in allegato” e inserisci i file. L’invio PEC genera due ricevute: accettazione e consegna. Queste dovrai conservarle: costituiscono la prova che la notifica è avvenuta .
- Notifica tramite ufficiale giudiziario o posta: È residuale. Se la PEC fallisce (destinatario non ha PEC, o casella piena, ecc.) puoi optare per una notifica tradizionale: tramite ufficiale giudiziario (che può notificare a mezzo posta all’ente) oppure a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento direttamente se sei autorizzato. Ma oramai tutti gli enti hanno PEC, quindi questa eventualità è rara. In ogni caso, se usi mezzo diverso da PEC, attieniti alle regole dell’art. 16 D.Lgs. 546/92 e L. 53/1994 (se notifica in proprio).
Termine per notifica: L’importante è che entro il 60° giorno dalla notifica dell’atto tu abbia inviato la PEC (o eseguito la notifica). Fa fede la ricevuta di accettazione PEC con la data. Se notifica cartacea, la data di invio della raccomandata o di consegna all’ufficiale.
Prova della notifica: Le ricevute PEC (accettazione e consegna) con i relativi hash dei file allegati costituiranno la prova di avvenuta notifica . Dovrai poi allegarle al momento del deposito del ricorso. Se notificato a mezzo posta, alleghi la cartolina AR firmata dall’ente. Se tramite UNEP, fai allegare la relata e poi ne produci copia conforme.
Notifica a più enti: A volte potresti dover notificare a due soggetti. Ad esempio, se impugni una cartella per contestare sia vizi della cartella (Agenzia Riscossione) sia il merito del tributo sottostante (Agenzia Entrate), per prudenza si notifica sia all’Agente della Riscossione sia all’ente creditore. L’art. 14 D.Lgs. 546/92 prevede il litisconsorzio in alcuni casi: es. contesti un tributo locale riscosso da AE Riscossione, notifichi a entrambi. Oppure ricorso contro un atto intestato a società di persone: notifica a società e tutti i soci (litisconsorzio necessario in quel caso, vedi Cass. SS.UU. n. 17931/2016) . Quindi valuta se coinvolgere più parti, e notifica a tutte.
Dopo la notifica: Una volta notificato il ricorso, il passaggio successivo sarà costituirti in giudizio depositando il ricorso presso la segreteria della Corte tributaria competente. Non basta notificare: devi anche depositare (telematicamente o di persona) entro un termine per formalizzare il ricorso in tribunale. Questo è detto iscrizione a ruolo del ricorso.
Costituzione in giudizio: deposito del ricorso e contributo unificato
Dopo aver notificato il ricorso all’ente, il contribuente (o il suo difensore) deve costituirsi in giudizio presso la Corte adita, depositando copia del ricorso e dei documenti. Il termine per la costituzione è 30 giorni dalla data di notificazione del ricorso . Attenzione: non 30 giorni dalla scadenza dei 60, ma 30 dal momento in cui hai notificato. In pratica, se hai notificato il ricorso il 1° settembre, hai tempo fino al 1° ottobre (30 giorni) per depositarlo in segreteria (termine prorogabile se cade festivo). Se non ti costituisci nei 30 giorni, il ricorso – pur notificato validamente – non verrà iscritto a ruolo e resterà inesitato (inammissibile di fatto) .
Come costituirsi (deposito telematico): Oggi la costituzione avviene telematicamente salvo rarissime eccezioni. Ci sono due modalità: – Tramite il Portale SIGIT (Sistema Informativo della Giustizia Tributaria) del Ministero delle Finanze . È una piattaforma online (accessibile con SPID/CIE o credenziali) dove avvocati e difensori possono caricare gli atti. Vai sulla tua area personale, sezione “Deposito ricorsi”, compili i campi (dati parti, valore lite, giudice competente, ecc.), alleghi i file (ricorso, procura, atto impugnato, documenti, ricevute PEC, ricevuta contributo unificato) e invii. Il sistema rilascia una ricevuta con numero di protocollo. Questo perfeziona il deposito .
– In alternativa, tramite invio PEC alla PEC della Corte tributaria competente (c.d. deposito via PEC). Questa modalità era prevista inizialmente in via transitoria ed è ancora utilizzabile: consiste nell’inviare tutti gli atti a una PEC istituzionale della Commissione/Corte (reperibile sul sito giustizia tributaria) rispettando certe regole di oggetto e formato. Tuttavia l’uso del Portale è preferibile e ormai standard.
Cosa depositare: Nel deposito dovrai includere: – Il file del ricorso notificato. Se hai redatto in digitale e notificato via PEC, hai già il PDF firmato digitalmente. Quello è il tuo “originale”. Dovrai allegare anche l’attestazione di conformità delle notifiche, se il deposito è eseguito con copia informatica dell’atto notificato. In pratica, se hai notificato via PEC, hai inviato un PDF firmato digitalmente: il deposito dovrebbe contenere lo stesso PDF firmato (quindi hai l’originale informatico). Le ricevute PEC (file .eml o .msg) andranno allegate come prova di notifica . Spesso si prepara un unico PDF che contiene il ricorso e in fondo le ricevute di accettazione e consegna come “relata di notifica”.
– La procura alle liti: scansione del documento firmato dal cliente, su cui il difensore appone la dichiarazione di conformità all’originale.
– La copia dell’atto impugnato: scansione dell’avviso/cartella ecc., anch’essa dichiarata conforme all’originale ricevuto.
– La ricevuta di pagamento del contributo unificato (vedi tra poco) .
– Gli altri documenti di prova che vuoi produrre (contratti, comunicazioni, estratti conto, perizie, normative, e così via). Conviene numerarli e magari predisporre un indice degli allegati. Il tutto preferibilmente in PDF.
– Una nota di iscrizione a ruolo (nei depositi telematici moderni non è più obbligatoria come un tempo, perché i dati li metti nel form del portale; ma alcuni preferiscono allegare una sorta di “distinta” con l’elenco atti).
Contributo unificato tributario (CUT): È la tassa di iscrizione a ruolo che il ricorrente deve pagare quando deposita un ricorso. L’importo dipende dal valore della lite. I codici tributo (da versare tramite F23 o F24 ELIDE, oppure online su pagoPA a seconda delle implementazioni locali) sono dedicati. Nel processo tributario primo e secondo grado hanno la stessa tariffa, mentre in Cassazione si applica quella del processo civile (che in alcune fasce è il doppio) . Ecco gli importi attualmente vigenti per primo/secondo grado (Tabella allegata al D.Lgs. 546/92, da ultimo aggiornata con D.L. 98/2011):
Tabella 2 – Contributo Unificato Tributario (primo e secondo grado)
| Valore della lite | Contributo unificato |
|---|---|
| Fino a € 2.582,28 | € 30,00 |
| da € 2.582,29 fino a € 5.000,00 | € 60,00 |
| da € 5.000,01 fino a € 25.000,00 | € 120,00 |
| da € 25.000,01 fino a € 75.000,00 | € 250,00 |
| da € 75.000,01 fino a € 200.000,00 | € 500,00 |
| oltre € 200.000,00 | € 1.500,00 |
(Ad esempio, per una lite di € 10.000 paghi € 120; se fai appello, pagherai di nuovo € 120; in Cassazione l’importo è circa il doppio, quindi € 240 in questo caso) .
Il contributo unificato va versato una volta per ogni grado di giudizio, all’atto della costituzione. Se sbagli a calcolare il valore e versi meno del dovuto, la segreteria te ne chiederà l’integrazione (se non integri, rischi iscrizione a ruolo coattiva della differenza, e in casi estremi il ricorso potrebbe essere dichiarato improcedibile) . Se non indichi il valore della lite nel ricorso, per legge devi pagare il contributo massimo (€ 1.500) , e anche il giudice potrebbe ordinarti di integrare l’importo. Quindi mai omettere il valore in atto.
Come pagare il contributo: Tramite modello F23 (codice tributo 941T) o talvolta F24, oppure alcune Commissioni consentono pagoPA online. L’importante è avere la ricevuta di pagamento da allegare. Notare: se il ricorso è proposto da più soggetti con atti distinti riuniti, o contro più atti, il contributo si paga in base al valore complessivo, non cumulativamente (ci sono circolari sul punto, ma in genere un ricorso = un contributo).
Deposito cartaceo (eccezione): Se per assurdo presenti cartaceo (ad esempio contribuente senza PEC in causa <3k, può depositare il cartaceo in segreteria in doppio originale), dovrai portare almeno due copie del ricorso (una resta agli atti, una per la controparte) , tutte firmate, con marca da bollo, ecc. Ma come detto, ormai è residuale.
Una volta depositato: la segreteria assegnerà un numero di RG (registro generale) al ricorso e lo “metterà a ruolo”. A quel punto la causa è ufficialmente pendente. La Corte invierà comunicazione all’ente resistente perché si costituisca se vuole (in realtà l’ente ne è già a conoscenza dalla tua notifica).
Mancata costituzione del ricorrente nei 30 gg: se hai notificato il ricorso ma dimentichi di costituirti in tempo, il ricorso resta non perfezionato. In teoria, un ricorso notificato e non depositato non ha seguito. La legge consente ancora la costituzione tardiva oltre 30 gg ma prima dell’udienza: se ti costituisci tardivamente, il ricorso è irricevibile salvo che l’ente resistente si sia costituito nei termini (cosa rara che l’Agenzia depositi se tu non l’hai fatto) e tu chieda di essere rimesso in termini. Insomma, se manchi i 30gg sei quasi certamente fuori. Nel dubbio, c’è chi consiglia di notificare il ricorso e costituirsi immediatamente il giorno dopo, così non ci si pensa più. Non c’è infatti motivo di aspettare l’ultimo giorno per depositare, una volta notificato.
Abbiamo ora il ricorso formalmente avviato. Passiamo a descrivere come si svolge il processo dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria: dalla difesa dell’ente, alle memorie, all’udienza e alla sentenza, fino all’eventuale appello e Cassazione.
Il processo davanti alla Corte di Giustizia Tributaria
Una volta iscritto a ruolo il ricorso, si apre la fase processuale vera e propria. Vediamo cosa succede dopo la presentazione del ricorso: come l’ente resistente si costituisce in giudizio, come vengono scambiate le memorie e documenti, se e come si tiene un’udienza, come il giudice assume le prove e infine come viene emessa la sentenza.
Costituzione e difesa dell’ente resistente
Dopo aver ricevuto la notifica del ricorso, l’ente impositore (Agenzia delle Entrate, Comune, AdER ecc., a seconda del caso) ha facoltà di costituirsi in giudizio per resistere al ricorso. In realtà, per l’ente non è un obbligo cogente costituirsi: potrebbe anche decidere di non farlo e lasciare che il giudice decida sulla base del ricorso e degli atti (in tale ipotesi, il giudice valuterà comunque la legittimità dell’atto impugnato, e se riscontra vizi o se il ricorrente ha ragione, potrebbe annullare l’atto anche in assenza di difesa dell’ufficio). Spesso però l’Agenzia si costituisce quasi sistematicamente, specialmente per importi rilevanti.
Termine per la costituzione dell’ente: La norma (art. 23 D.Lgs. 546/92) prevedeva che l’ufficio depositasse le proprie controdeduzioni entro 60 giorni dalla notifica del ricorso. In pratica, preparava un “memoria difensiva” chiamata spesso controdeduzioni o memoria di costituzione, in cui controbatte ai motivi di ricorso. L’ufficio deve allegare copia dell’atto impugnato (ma già ce l’hai tu), eventuali documenti e provare la notifica dell’atto (ad esempio allegando la ricevuta di ritorno della raccomandata con cui ti notificò l’avviso, per dimostrare che è stato notificato regolarmente). L’ente di solito deposita telematicamente come fai tu (ormai anche per loro c’è il portale SIAT). Una particolarità: se l’ente non si costituisce, la legge prevede comunque che il processo vada avanti in sua assenza, senza particolari pregiudizi. A differenza del processo civile, dove la contumacia del convenuto produce preclusioni probatorie, qui l’ufficio potrà magari comparire anche solo in udienza. Spesso ad esempio i Comuni piccoli, per importi modesti, non si costituiscono affatto (forse confidando che il giudice legga da sé le carte). L’Agenzia Entrate invece si costituisce quasi sempre sopra certe soglie, con memorie standard e citando normative e circolari a supporto della legittimità dell’atto.
Difensori dell’ente: L’Agenzia delle Entrate e gli altri enti possono stare in giudizio tramite propri funzionari delegati (non devono per forza avere un avvocato esterno, anche se a volte si avvalgono dell’Avvocatura dello Stato o di avvocati del libero foro, specialmente in Cassazione). In primo e secondo grado di solito la difesa è interna: un funzionario (di solito appartenente all’ufficio legale o contenzioso dell’Agenzia) redige e firma le controdeduzioni. Egli ha una “delega alla difesa” rilasciata dal Direttore dell’Ufficio. Per Agenzia Entrate Riscossione, spesso la difesa è affidata a società di avvocati convenzionati o a funzionari interni, a seconda del luogo.
Contenuto delle controdeduzioni: L’ente in questo atto replica punto per punto ai tuoi motivi di ricorso. Ad esempio dirà: “si contesta la nullità per difetto di motivazione poiché in realtà la motivazione è adeguata avendo richiamato il PVC e messo a disposizione del contribuente i documenti…”. Spesso l’ufficio porterà giurisprudenza a suo favore, cercherà di smontare le tue eccezioni procedurali (dicendo che la notifica era regolare, etc.) e difenderà nel merito la propria ricostruzione. In aggiunta, può capitare che l’ente sollevi eccezioni processuali contro di te: ad esempio eccepisce che il tuo ricorso è tardivo (se secondo loro l’hai notificato oltre i 60 gg), oppure che il ricorso è inammissibile per difetto di firma (se ti sei dimenticato la firma del difensore), o per carenza di legittimazione (se a ricorrere è un soggetto non titolato). Queste eccezioni il giudice le valuterà come pregiudiziali. L’ente potrebbe anche fare ricorso incidentale (ma nel tributario è raro: succede se ad esempio tu impugni solo una parte e loro vogliono contestare un’altra parte).
Scambio di memorie e fase istruttoria
Una volta che entrambe le parti si sono costituite, la causa entra nella fase preparatoria in attesa della decisione. Vediamo cosa accade in questo lasso di tempo:
Scadenze per memorie: La recente riforma ha introdotto una scansione temporale per il deposito di memorie e repliche prima dell’udienza, simile al rito civile (art. 32 D.Lgs. 546/92 novellato). Tipicamente: – Si possono depositare memorie illustrative da parte del ricorrente e del resistente fino a tot giorni prima dell’udienza (ad esempio 30 giorni prima per memorie principali, 15 giorni prima per repliche). Questi termini sono finalizzati a garantire un contraddittorio scritto completo. Il ricorrente spesso usa una memoria successiva per ribattere alle controdeduzioni dell’ufficio o per segnalare nuova giurisprudenza uscita nel frattempo. L’ufficio può controreplicare. È importante rispettare tali termini se si vuole che il giudice legga le memorie. – Nel processo tributario ante riforma, era ammesso che il ricorrente depositasse anche documenti nuovi fino a 20 giorni prima dell’udienza e memorie fino a 10 giorni prima. Con la riforma 2022/2023 pare sia stato introdotto un divieto di nuovi documenti in appello per rendere quel grado più simile al giudizio di revisione sulla base del materiale raccolto in primo (anche se su questo la norma è stata dibattuta, sembrerebbe che in appello ora non possano più depositarsi nuovi documenti salvo casi eccezionali) . In primo grado invece i documenti possono essere prodotti sino a 20 gg prima dell’udienza (così era, non certo se modificato, ma presumibilmente mantenuto). Comunque è buona prassi allegare tutto subito col ricorso iniziale, per evitare rischi.
Udienza di trattazione: Una volta chiusi gli scambi di memorie, la causa viene posta in decisione. Spesso viene fissata un’udienza pubblica di trattazione, soprattutto se il ricorrente l’ha chiesta espressamente. Tuttavia, su accordo delle parti, la causa può essere decisa anche in camera di consiglio senza pubblica udienza (solo sulla base degli scritti) – modalità molto usata nel 2020-21 per via del Covid. Se c’è udienza, di regola il collegio (o il giudice monocratico, se lite <5k) ascolta una breve discussione delle parti. In realtà, in molte Commissioni la discussione è estremamente sintetica (5-10 minuti a caso): i giudici spesso hanno già letto le carte e fanno una o due domande. Talvolta l’udienza è solo “formale” e finisce subito, specie se non ci sono parti presenti (nel tributario non c’è l’obbligo di comparire; se nessuno compare, la Corte decide lo stesso sulla base degli atti).
Trattazione in videoconferenza: Dal 2020 è possibile e ancora previsto (normativa emergenziale poi stabilizzata) che le udienze possano tenersi in modalità da remoto (videoconferenza su piattaforma predisposta). Questo ha reso il processo tributario più snello in molti casi, evitando spostamenti fisici.
Possibilità di conciliazione in udienza: In udienza, come detto, le parti possono dichiarare di aver conciliato o il giudice stesso può proporre una conciliazione. Se viene fuori, l’udienza diventa conciliante: si redige verbale di conciliazione e la causa si chiude lì.
Assunzione delle prove: Aspetto peculiare del processo tributario è sempre stato il limitatissimo spazio alla prova testimoniale. Fino al 2022 non era ammessa la testimonianza né giuramento . Con la riforma (L. 130/2022) è stata introdotta una forma di testimonianza per iscritto: il giudice può, se lo ritiene necessario, ammettere la prova testimoniale ma solo in forma scritta, secondo la procedura dell’art. 257-bis c.p.c., e comunque senza giuramento e non sulle circostanze già documentate da atti pubblici . In pratica, il giudice tributario può inviare un questionario scritto a un testimone, che dovrà restituirlo con le risposte sottoscritte. È una novità epocale (prima era categoricamente vietata qualunque testimonianza). Tuttavia, è prevista come mezzo residuale e a discrezione del giudice – non un diritto automatico delle parti. Pertanto, se hai bisogno di una testimonianza (es. un terzo che confermi una certa operazione) puoi chiedere al giudice di ammetterla in forma scritta. Sarà lui a valutare se la considera “necessaria ai fini della decisione”. Le prime applicazioni mostrano che i giudici tributari sono piuttosto cauti nel concederla. Ad ogni modo, la ratio è adeguare il processo tributario al giusto processo assicurando un mezzo per accertare fatti controversi non documentati, come richiesto anche dalla Corte EDU .
A parte i testimoni, il giudice può sempre disporre consulenza tecnica (CTU) se la ritiene utile (ad esempio in valutazioni complesse, calcoli tecnici, perizie contabili). Oppure può ordinare all’ufficio di esibire documenti che non siano stati prodotti (ad es. ordine di esibizione di un originale, ecc.). Questi poteri esistevano anche prima (art. 7 D.Lgs. 546/92) ma raramente usati.
Decisione della Corte: sentenza e provvedimenti
Dopo l’istruttoria, la Corte si riunisce per decidere. Nel caso di collegio, i tre giudici deliberano a porte chiuse (camera di consiglio) subito dopo l’udienza oppure in altra data riservata. Nel caso di giudice monocratico, decide da solo.
La sentenza tributaria: deve contenere i requisiti classici: intestazione Repubblica Italiana, indicazione di giudici (o giudice) che l’ha pronunciata, le parti in causa, il dispositivo (chi vince/perde e perché), e la motivazione. Viene poi depositata in segreteria e da lì notificata/deliberata alle parti. Spesso la segreteria invia via PEC alle parti costituite la comunicazione di deposito con la copia della sentenza.
Tempi di decisione: Non illudiamoci, il processo tributario non è velocissimo: dal deposito del ricorso alla sentenza di primo grado possono passare diversi mesi o un paio d’anni, a seconda del carico di lavoro della Corte locale. Alcune sedi sono più rapide, altre hanno arretrati. La riforma mira ad accelerare, ma i risultati li vedremo nel tempo. In ogni caso, se la causa rimane troppo ferma, c’è uno strumento (poco usato) chiamato sollecito di fissazione o istanza di prelievo, ma raramente serve. Semplicemente attendi la convocazione.
Contenuto della decisione: Il giudice può: – Accogliere il ricorso (in toto o in parte). Se lo accoglie totalmente, l’atto impugnato viene annullato integralmente. Se accoglie parzialmente, la sentenza di solito ridetermina l’imposta dovuta o rinvia all’ufficio per la riliquidazione secondo criteri indicati. Ad esempio: “accoglie parzialmente il ricorso e per l’effetto ridetermina il maggior reddito in € X anziché € Y; imposta accertata € 5.000 (invece di € 10.000), sanzioni ridotte di conseguenza.”.
– Respinge il ricorso: conferma la legittimità dell’atto impugnato. In tal caso il contribuente perde e dovrà pagare quanto richiesto (salvo appello).
– Dichiara il ricorso inammissibile/improcedibile: se c’è un vizio formale nel ricorso (es. tardività) o mancata costituzione.
– Cessata materia del contendere: se nel frattempo l’atto è stato annullato in autotutela o avete conciliato, il giudice ne prende atto e chiude senza decidere nel merito.
– Compensazione parziale: alcune volte, se i motivi del contribuente sono fondati solo in parte, la sentenza potrà ritoccare l’atto (riducendo imponibili, ecc.). Va detto che il giudice tributario non può andare oltre la domanda: non può aumentare l’imposta oltre quanto nell’atto (non c’è reformatio in peius in primo grado). Al massimo può ridurla o annullare.
Le spese di giudizio: La sentenza si pronuncia anche sulle spese legali. In teoria, vige il principio di soccombenza: chi perde paga le spese dell’altro (compenso al difensore secondo parametri, spese vive, contributo unificato). In pratica, nelle liti fiscali i giudici tributari spesso compensano le spese (cioè ogni parte le tiene a proprio carico), specialmente se la questione era complessa o se c’è accoglimento parziale. La riforma ha introdotto un incentivo: se durante il reclamo/mediazione (quando c’era) una parte rifiutava una proposta ragionevole e poi in giudizio ottiene meno, poteva essere condannata a pagare le spese +50% . Questo è per scoraggiare gli enti da rifiutare accordi sensati. In mancanza del reclamo obbligatorio ora, la norma sulle spese c’è per la conciliazione non accettata immotivatamente . In ogni caso, se vinci pienamente, chiedi sempre al giudice la rifusione delle spese: magari le liquida in tuo favore. Nota: se perdi in toto e il giudice ti ritiene colpevolmente litigioso, può condannarti alle spese e ad un ulteriore importo pari al contributo unificato versato dall’ente (c.d. “doppio contributo” ex art. 13 co.1-quater DPR 115/2002) . Quindi nelle cause temerarie potresti pagare il doppio contributo. Questo succede ad esempio se fai appello e lo perdi completamente – scenario tipico dove scatta il doppio contributo in appello/Cassazione.
Pubblicazione della sentenza: una volta depositata, la sentenza è pubblica. Le parti la ricevono via PEC. Da quel momento decorrono i termini per l’eventuale appello (se di primo grado).
Effetti della sentenza: Se la sentenza annulla l’atto, il contribuente (se aveva pagato in pendenza di giudizio qualcosa) ha diritto al rimborso di quanto pagato in eccedenza rispetto a quanto eventualmente stabilito dal giudice . Se invece la sentenza conferma l’atto, l’ente potrà procedere a riscuotere le somme dovute (vedi riquadro su riscossione frazionata più avanti). C’è una particolarità: la sentenza tributaria è esecutiva. Tuttavia, in caso il contribuente appelli, può chiedere ancora una volta sospensione dell’esecutività della sentenza al giudice d’appello. Idem per Cassazione. Quindi, la battaglia può continuare nei gradi successivi.
Esecuzione provvisoria e riscossione frazionata: Merita un accenno come funziona il pagamento durante i vari gradi: – In pendenza del primo grado, di regola l’atto è sospeso parzialmente per legge: l’Agenzia Entrate Riscossione non può riscuotere le imposte accertate finché il primo grado non termina, a meno che non chieda ipoteca/fermo (che comunque puoi sospendere in via cautelare). Tuttavia, per legge l’ente può riscuotere una quota provvisoria pari a 1/3 delle imposte dovute, dopo i 60 gg dalla notifica dell’avviso, anche se hai fatto ricorso . Ciò si traduce che spesso gli avvisi di accertamento “esecutivi” (quelli emessi dopo il 2011) prevedono che, trascorsi 60 gg, diventa esigibile 1/3 del tributo. Se vuoi evitare anche quel 1/3, dovevi chiedere al giudice sospensione dell’atto. – Dopo la sentenza di primo grado: se il contribuente perde, deve versare ancora qualcosa in attesa dell’appello. La legge prevede che dopo la sentenza di primo grado, l’ente possa riscuotere fino a 2/3 delle imposte determinate dal giudice. Se il primo grado ha confermato l’intero importo, devi arrivare a pagare il 2/3 (tenendo conto di eventuale 1/3 già pagato prima). – Dopo la sentenza d’appello: se il secondo grado (Corte di Giustizia di secondo grado) conferma, l’ente può riscuotere il saldo integrale. A quel punto, anche se fai ricorso in Cassazione, di regola devi pagare tutto (la Cassazione non sospende la riscossione, salvo rarissime sospensive in sede cautelare esterna). – Se invece il contribuente vince in primo grado (annullamento atto), tipicamente non paga nulla (o gli restituiscono quel 1/3 se l’aveva pagato). Ma l’ente spesso propone appello e può chiedere all’appello di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado per poter riscuotere comunque nel frattempo.
Questa è la cosiddetta riscossione frazionata disciplinata dall’art. 68 D.Lgs. 546/92 . Per i tributi locali una volta c’era una disparità (alcuni dicevano che non valesse il frazionamento), ma ora dovrebbe applicarsi a tutti i tributi erariali. In pratica, se fai ricorso e non ottieni sospensione giudiziale, mettiti nell’ordine di idee che potresti dover versare gradualmente una parte, pur in attesa del giudizio definitivo.
Giudizio di appello (secondo grado)
Se una delle parti è insoddisfatta della sentenza di primo grado, può presentare appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex CTR). Vediamo gli aspetti essenziali:
Termine per l’appello: è di 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado da parte di una delle parti, oppure di 6 mesi se la sentenza non viene notificata. Cioè, se tu perdi e l’ente ti notifica la sentenza il 1° marzo, hai 60 gg da quella notifica per appellare. Se invece nessuno notifica formalmente la sentenza, hai tempo lungo: 6 mesi dalla pubblicazione per impugnare (termine cosiddetto “lungo”). Molti contribuenti lasciano decorrere il lungo per valutare con calma. Occhio però: l’ente potrebbe notificare la sentenza l’ultimo giorno utile per ridurti i tempi.
Procedura: L’appello va redatto come un ricorso, ma conterrà i motivi di appello (dove contesti gli errori della sentenza di primo grado). Si notifica alle controparti e si deposita presso la Corte di secondo grado, pagando un nuovo contributo unificato (stesso importo del primo grado) . La soglia di €3.000 per difesa tecnica vale anche in appello (quindi se per ipotesi in primo grado eri da solo per 2k, in appello puoi ancora far da solo se resta sotto 3k, ma rarissimo scenario). In appello non c’è reclamo/mediazione.
Limiti dell’appello: L’appellante (sia contribuente che ente) non può ampliare il tema oltre quanto discusso in primo grado. Può sollevare nuovi motivi di impugnazione? Tendenzialmente no, deve basarsi sui motivi già emersi. Non può far valere questioni nuove di merito che poteva proporre prima e non l’ha fatto (pena inammissibilità). Può però ovviamente segnalare nullità gravi rilevabili d’ufficio (quelle il giudice d’appello le considera anche se nuove, es. difetti di notifica della sentenza stessa). Riguardo ai documenti nuovi, come detto, la legge attuale (post riforma) li vieta in appello salvo che il collegio li ritenga indispensabili e che la parte dimostri di non averli potuti produrre prima . Insomma, in appello l’idea è di non ricominciare da zero ma di correggere eventuali errori del primo grado sui fatti già noti.
Svolgimento: L’appello ricalca la struttura del primo grado: ci sarà la controparte che risponde con controdeduzioni, eventualmente memorie, poi udienza (o decisione in camera di consiglio) e infine sentenza d’appello. Questa sentenza sostituisce la prima e può: – Confermare la decisione impugnata. – Riformarla (ribaltarla in tutto o in parte). – Annullarla e rinviare al primo grado (se ravvisa vizi procedurali gravi, può annullare la sentenza e disporre un “rinvio” a altra sezione di primo grado; succede ad esempio se mancava un litisconsorte necessario e la sentenza di primo grado è nulla, allora l’appello annulla e rimanda per nuovo giudizio coinvolgendo tutti). – Dichiarare inammissibile l’appello se tardivo o privo di motivi specifici.
Spese in appello: Anche qui decide il giudice d’appello. Se uno fa appello e lo perde del tutto, di solito paga le spese e anche il doppio contributo unificato (in appello scatta se l’appello è respinto integralmente o dichiarato inammissibile, art. 13 co.1-quater DPR 115/2002) .
Esecuzione della sentenza d’appello: La sentenza di secondo grado, se non viene impugnata per Cassazione, diventa definitiva (passata in giudicato) e l’atto si chiude come da decisione. Se invece si va in Cassazione, la sentenza di appello è comunque esecutiva salvo sospensione (che in Cassazione è rarissima, ma prevista – vedi art. 62 D.Lgs. 546/92 per sospensione di sentenza impugnata in Cassazione, praticamente mai concessa). Quindi di norma, dopo appello, l’Agenzia riscuote tutto se ha vinto.
Ricorso per Cassazione
L’ultimo grado di giudizio possibile è la Cassazione, che però è limitata a questioni di legittimità (errori di diritto). Ecco gli elementi fondamentali:
Termine: 60 giorni dalla notifica della sentenza di appello, oppure 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata (stesso meccanismo dell’appello).
Chi lo propone: Serve un avvocato iscritto nell’albo speciale Cassazionisti (qui non bastano commercialisti o avvocati generici; occorre abilitazione specifica). Il contribuente non può mai stare da solo in Cassazione, neanche per liti minime: l’assistenza tecnica qui è obbligatoria senza eccezioni.
Motivi di ricorso per Cassazione: Devono riguardare violazioni di legge (tributaria o processuale) commesse dai giudici di merito, oppure vizi di motivazione della sentenza di appello (ma dopo la riforma del 2012 il vizio motivazionale è valutato solo se la motivazione manca del tutto o è incomprensibile, non se semplicemente è illogica). Non si possono rimettere in discussione i fatti accertati: la Cassazione non rivede prove, non sente testimoni, non ricalcola imponibili. Ci si limita a eccepire errori di diritto: es. “violazione dell’art. 360 c.p.c. e dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su un motivo” oppure “violazione dell’art. 2697 c.c. sull’onere della prova” ecc. Un tipico motivo in tributario: “la CTR ha sbagliato a ritenere valida la notifica via PEC senza attestazione di conformità, in violazione dell’art. X…”. Insomma, questioni interpretative o procedurali.
Procedimento in Cassazione: Si presenta il ricorso per Cassazione (atto complesso con motivi numerati) alla controparte. Il ricorso è rivolto alla Corte Suprema di Cassazione, ma va notificato all’Agenzia (che sarà controricorrente). L’Agenzia può depositare un controricorso entro 60 gg dalla notifica del ricorso, per replicare. Poi la Cassazione fisserà l’udienza (o camera di consiglio se ritiene la causa da trattare così). In Cassazione normalmente non c’è udienza pubblica col dibattito a meno di casi di particolare importanza: di solito decidono in camera di consiglio con eventuale presenza di avvocati solo a sentire (o nemmeno, a volte senza contraddittorio orale). Il processo è quasi tutto scritto e spesso finisce con un’ordinanza se il caso è ritenuto semplice (c’è un filtro per inammissibilità e manifesta infondatezza).
Decisione della Cassazione: Può emettere: – Ordinanza di inammissibilità se il ricorso non supera i requisiti di legge (motivi generici, vizi formali, tardività, etc.).
– Sentenza di rigetto se ritiene infondati tutti i motivi: in tal caso la sentenza d’appello diventa definitiva. Condanna di regola il ricorrente alle spese e al contributo unificato bis .
– Sentenza di accoglimento (totale o parziale): se accoglie uno o più motivi, la Cassazione cassa (annulla) la sentenza impugnata. Se la questione è risolvibile senza bisogno di ulteriori accertamenti di fatto, può decidere nel merito (evento raro in tributario); altrimenti rinvia la causa per un nuovo esame alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado (o di primo grado, a seconda) in diversa composizione. Il giudice di rinvio si adeguerà ai principi stabiliti dalla Cassazione e riesaminerà il merito su quei punti.
Esempio: Cassazione accoglie motivo su vizio di notifica dell’accertamento e cassa la sentenza d’appello che era favorevole al fisco. Rinvia alla CTR: la CTR di rinvio dovrà dichiarare nullo l’atto per notifica nulla, coerentemente con la Cassazione, e così il contribuente vincerà.
Contributo unificato in Cassazione: Come detto, costa di più in alcune fasce (il doppio rispetto al primo grado per valori medio-alti) . Ad esempio, per liti oltre 200k in Cassazione il contributo è € 3.000 (il doppio di 1.500). E se perdi in Cassazione, scatta di nuovo il “doppio contributo” come sanzione (cioè altri 3.000 nel caso, a favore dello Stato) .
Profili penali in Cassazione: A volte la Cassazione tributaria può trovarsi a valutare questioni intrecciate col penale (ad es. contestazioni su reati tributari). Tieni presente che se c’è stato un processo penale collegato, il suo esito non vincola la Cassazione civile se non nei limiti del giudicato su fatti coincidenti. Ma su questo torniamo nella sezione penale.
Giudizio di ottemperanza: Un accenno finale sul post-sentenza: se vinci in via definitiva e l’ente non esegue la decisione (es: non ti rimborsa le somme dovute, o non annulla l’atto), puoi attivare il giudizio di ottemperanza davanti alla stessa Corte tributaria che ha deciso (o altra competente) per costringere l’amministrazione a dare attuazione alla sentenza. Questo è un procedimento particolare (simile all’esecuzione forzata) che però entra in gioco solo dopo la fine di tutti i gradi di giudizio, quando la sentenza è definitiva. Non dilunghiamo troppo: sappi che esiste questo rimedio nel caso di vittoria “sulla carta” non seguita da effetti pratici.
Abbiamo così coperto l’iter del ricorso e del successivo processo fino al giudizio finale. A questo punto, è utile passare in rassegna quali sono i motivi più frequenti e efficaci per impugnare gli atti dell’Agenzia delle Entrate, ovvero le basi su cui costruire una difesa vincente, supportandole magari con qualche riferimento giurisprudenziale.
Motivi di ricorso frequenti e strategie difensive
Ogni ricorso è una storia a sé, ma esistono alcuni “motivi” tipici che ricorrono spesso nei contenziosi tributari. Conoscerli aiuta a valutare su quali fronti attaccare l’atto dell’Agenzia delle Entrate. Possiamo distinguere motivi di legittimità (vizi formali/procedurali dell’atto) e motivi di merito (contestazione del contenuto sostanziale, importi, materia imponibile, ecc.).
Vediamo i principali motivi di ricorso che negli anni hanno portato successi ai contribuenti, supportati ove possibile da pronunce di legittimità significative:
Vizi di notifica dell’atto
Se l’atto impugnato non è stato notificato regolarmente, può essere annullato. La notifica è il procedimento con cui l’atto viene portato a conoscenza del contribuente, e deve rispettare le regole (DPR 600/1973 art. 60 per atti imposta dirette, DPR 602/1973 per cartelle, codice proc. civile art. 137 ss per analogia, ecc.). Alcuni vizi comuni: – Notifica a indirizzo errato: es. l’atto viene inviato a una vecchia residenza pur sapendo il nuovo indirizzo, o al domicilio fiscale sbagliato. Se non hai mai ricevuto quell’atto perché spedito male, puoi eccepire la nullità. Cassazione ha chiarito che la notifica a indirizzo diverso dalla residenza/domicilio fiscale noto è nulla salvo tu l’abbia comunque saputa (per compiuta giacenza ecc., scenario complesso). – Mancato invio di raccomandata informativa nel caso di irreperibilità relativa: se il messo notifica e non ti trova, deve lasciare avviso e spedire raccomandata informativa. Se non l’ha fatto, vizio di notifica. – Notifica via PEC non conforme: ormai molti atti (dal 2017 in poi) vengono notificati via PEC. Se l’indirizzo PEC è errato, o se il file allegato non è in formato PDF immodificabile o PAdES come richiesto, potresti contestarne la validità. Ad esempio Cass. SU 2020 ha discusso sulla necessità dell’attestazione di conformità quando la notifica è con allegato copia informatica. – Notifica a soggetto non legittimato: es. l’atto consegnato a portiere senza spedizione raccomandata al destinatario (portiere è legittimo consegnatario, ma serve raccomandata di avviso). Oppure consegnato al coniuge separato non convivente, non va bene. – Difetto della relata di notifica: se manca la relata o è priva di firma.
Se la notifica è nulla, cosa chiedere? In genere la nullità di notifica di un accertamento comporta che l’atto non è mai divenuto definitivo e quindi la pretesa non può essere riscossa. Attenzione: la nullità di notifica può essere “sanata” dalla tempestiva proposizione del ricorso (principio di raggiungimento dello scopo, art. 156 c.p.c.): significa che se tu hai comunque ricevuto l’atto (anche se irregolarmente) e hai fatto ricorso, in giudizio quella notifica nulla potrebbe considerarsi sanata, tranne casi di inesistenza. La Cassazione distingue tra nullità (sanabile) e inesistenza (non sanabile). Ad esempio, notifica a indirizzo completamente sbagliato a persona omonima che nulla c’entra è inesistente; notifica senza raccomandata di avviso è nullità sanabile.
Comunque, eccepire la notifica irregolare può portare il giudice a dichiarare l’atto annullato, oppure a dichiarare che il termine decorre dalla data in cui l’hai effettivamente saputo (utile se l’Agenzia pretende tardività del ricorso, tu puoi dire notifica nulla e ricorso tempestivo dal momento in cui ne hai avuto conoscenza effettiva).
Riferimenti: Cass. SS.UU. 19854/2004 definisce i casi di notifica inesistente vs nulla; Cass. 11708/2011 e 12083/2019 su PEC e conformità; Cass. SS.UU. 18184/2013 (citata prima) ha stabilito che la cartella di pagamento è impugnabile quando il contribuente ne sia venuto a conoscenza, pure se tardivamente, proprio per contestare la notifica.
Difetto di motivazione dell’atto
La motivazione è l’esposizione delle ragioni di fatto e diritto che giustificano la pretesa fiscale. È un requisito essenziale (art. 7 L. 212/2000, art. 3 L. 241/90, art. 42 DPR 600/73 per avvisi accertamento) . Se l’avviso di accertamento non spiega adeguatamente perché ti chiede più imposte, puoi eccepire la nullità per difetto di motivazione . Alcuni casi: – Motivazione mancante o meramente apparente: ad esempio un atto che dice solo “redditi maggiori € 100k ai sensi dell’art 39 DPR 600/73” senza spiegare altro, è illegittimo perché non comprensibile. – Motivazione per relationem non corretta: molto frequente. L’ufficio spesso motiva “rimandando” ad altri documenti (es. al processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, o ad altro atto). Ciò è lecito purché tali documenti siano allegati o già conosciuti dal contribuente. Se l’avviso dice “come da PVC n.123” ma non ti allega copia del PVC e tu non l’avevi, è viziato . Cassazione ha più volte annullato avvisi motivati per relationem senza allegare l’atto richiamato (vedi Cass. 28060/2009 e succ.). – Mancata indicazione dei presupposti: ad esempio, per iscrivere ipoteca o fare un fermo, l’Agente deve motivare che c’è un credito, che ha inviato sollecito etc. Se sull’ipoteca non c’è scritto quali cartelle la giustificano, è nulla per difetto di motivazione. – Motivazione contraddittoria o illogica: se l’atto contiene affermazioni incoerenti, es. calcoli che non tornano, potrebbe essere contestabile (questo borderline tra vizio di motivazione e di merito).
Se il giudice riconosce il difetto di motivazione, annulla l’atto senza entrare nel merito (vittoria piena per vizio formale). Ad esempio Cass. SU 26635/2009 affermò il principio della nullità dell’accertamento motivato per relationem senza allegazione dell’atto richiamato .
Vizi di sottoscrizione e competenza
Gli avvisi di accertamento devono essere sottoscritti dal capo ufficio o da funzionario delegato (art. 42 DPR 600/73 per imposte dirette, analoghe per IVA e altri). Se manca la firma o se a firmare è un funzionario non legittimato, l’atto è nullo. Ad esempio, anni fa cause su avvisi firmati da funzionari privi di delega valida hanno portato annullamenti. Oggi l’Agenzia difficilmente sbaglia su ciò, ma può capitare in rari casi (o in enti locali).
Analogo: atti firmati digitalmente – ormai molti avvisi inviati via PEC hanno firma digitale. La firma digitale è valida a tutti gli effetti come firma autografa, purché il file riporti i dati del certificato. Se manca proprio la firma (documento informatico non firmato) puoi eccepire nullità.
Competenza dell’ufficio: se un ufficio emette atto fuori dalla sua competenza territoriale o materiale, può essere un motivo (ad esempio, accertamento emesso da Direzione Regionale invece che dall’ufficio locale senza delega opportuna). Non comunissimo, ma da valutare.
Violazione del contraddittorio endoprocedimentale
In alcune tipologie di accertamento, è obbligatorio per l’ufficio instaurare un contraddittorio col contribuente prima di emettere l’atto. Ad esempio: – Per accertamenti da studi di settore (ora ISA): obbligo di invito a comparire e discutere con il contribuente. Se l’ufficio non ti ha convocato prima di emettere l’accertamento da studi di settore, quell’atto è nullo perché viola il DPR 600/73 art. 10-bis (ora abrogato e assorbito dalla nuova disciplina ISA). Cass. SU 18184/2013 lo confermò . – Per accertamenti conseguenti a verifiche in loco (accessi, ispezioni) su tributi armonizzati (IVA): c’è un principio UE (derivante dalla Corte di Giustizia) e recepito anche dalla L. 212/2000 art. 12, co.7, che impone di far precedere l’avviso da un processo verbale conclusivo e garantire 60 gg di tempo per controdedurre prima di emettere l’atto (salvo casi di particolare urgenza). Se l’ufficio emette l’avviso prima dei 60 giorni dalla consegna del PVC, senza urgenza motivata, l’atto è nullo. Ci sono state molte cause su questo (Cass. 701/2015 SS.UU. confermò nullità in materia di tributi armonizzati). – In generale, lo Statuto contribuenti prevede che il contribuente ha diritto a chiarire la sua posizione prima che l’atto sia emanato (principio di cooperazione). Non è universalmente obbligatorio in ogni caso, ma in varie situazioni normative lo impongono. Se l’ufficio ti emette un avviso “a sorpresa” senza averti mai chiesto spiegazioni, e la norma lo prevedeva, puoi far valere questa violazione.
Errori sul termine di decadenza dell’accertamento
Gli avvisi di accertamento devono essere notificati entro certi termini di decadenza (oltre i quali l’amministrazione perde il potere di accertare). Ad esempio, per imposte dirette e IVA: – Se hai presentato la dichiarazione, il termine di decadenza ordinario è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione (quindi il 2019 dovevi riceverlo entro 31/12/2024). – Se omessa dichiarazione, sono 7 anni. Questi termini sono stati modificati da varie proroghe (durante Covid per esempio c’è stata la sospensione dei termini 2020, con meccanismi di slittamento).
Se ricevi un accertamento fuori termine, è un motivo vincente: l’atto è nullo perché decaduto il potere. Ad esempio un accertamento per l’anno 2015 notificato dopo il 31/12/2020 sarebbe tardivo (salvo proroghe di legge specifiche, es. procedura penale pendente, ecc.). Dovresti eccepire: “decadenza dell’azione accertatrice ai sensi dell’art.43 DPR 600/73” e il giudice se conferma, annulla l’atto integralmente.
Analogamente per le cartelle di pagamento: se contestano omessi versamenti (ruoli), c’è un termine di notifica delle cartelle (per es. cartella per imposta dichiarata e non pagata va notificata entro il 31/12 del secondo anno successivo). O per sanzioni del CdS, 5 anni, etc. Anche le cartelle hanno termini, stabiliti da legge. Eccepire la tardività della cartella porta all’annullamento del debito perché prescrittosi.
Prescrizione dei crediti iscritti a ruolo
Se il ricorso verte su cartelle o atti della riscossione, un tema cruciale è la prescrizione del credito tributario. Ad esempio, magari l’accertamento era definitivo ma l’Agente non ha riscosso entro i termini di legge (i crediti fiscali a volte hanno prescrizione 10 anni se tributo erariale, o 5 anni se sanzioni amministrative tributario?). La giurisprudenza è variegata: l’IRPEF darebbero 10 anni (prescrizione ordinaria), alcune entrate locali 5 (se assimilabili a contributi periodici). Se la cartella risale a più di 5 anni e l’Agente non ha mai fatto atti interruttivi, si può eccepire la prescrizione e far annullare la cartella perché il debito non è più esigibile.
Cass. SS.UU. 23397/2016 fece chiarezza: i tributi erariali seguono prescrizione decennale dopo la notifica della cartella, mentre le sanzioni amministrative tributarie seguono 5 anni (trattandosi di sanzioni). Comunque, è un argomento spesso decisivo per cartelle “vecchie”.
Errata applicazione della legge sostanziale (motivi di merito)
Passando al merito dell’accertamento: qui entriamo nel campo in cui occorre contrastare la pretesa fiscale sui fatti: – Insussistenza del presupposto d’imposta: ad esempio l’ufficio contesta un ricavo non dichiarato, ma tu provi che non era un ricavo bensì un finanziamento soci (quindi non tassabile). Oppure contesta un’operazione come evasiva ma in realtà era coperta da esenzione per legge, ecc. Devi argomentare, magari portando documenti e normative, che l’ufficio ha interpretato male i fatti o la legge. – Errori di calcolo: se l’ufficio ha sbagliato i conti (sommato male imponibili, applicato aliquota errata), evidenzialo. Spesso il giudice su errori aritmetici ti dà ragione facilmente (motivo di legittimità). – Doppia imposizione: se lo stesso reddito è già stato tassato altrove (es. due uffici diversi ti tassano la stessa base o due Stati), segnalarlo: il sistema tributario cerca di evitarlo salvo casi particolari. – Vizi nell’iter di accertamento induttivo: es. per ricostruire i ricavi, l’ufficio deve rispettare certi parametri di gravità, precisione, concordanza per presunzioni (art. 39 DPR 600/73). Puoi contestare che le sue presunzioni non erano sufficientemente solide o sono state confutate da te e l’ufficio non ne ha tenuto conto. Cass. 18081/2017 (principio di non contestazione: se il fisco non contesta certe prove del contribuente, non può ignorarle) . – Disapplicazione di sanzioni per cause di non punibilità: ad esempio se c’era incertezza normativa oggettiva, le sanzioni andavano non irrogate (Statuto contribuente art. 10 comma 3). Oppure errori scusabili, forze maggiori – argomenti equitativi che il giudice può recepire per annullare o ridurre sanzioni. – Violazione di norme comunitarie: in alcuni casi puoi far leva su direttive UE o sentenze della Corte di Giustizia UE se la normativa interna contrasta e ti ha danneggiato. Ad esempio, contestazioni IVA spesso chiamano in causa la giurisprudenza europea (detrazione IVA negata magari in contrasto con principio di neutralità). Se opportuno, si può anche sollevare questione di legittimità costituzionale, ma è raro che il giudice tributario la accolga.
In generale, nei motivi di merito è fondamentale supportare le tue affermazioni con prove: documenti contabili, contratti, perizie tecniche, testimonianze (ora possibili scritte). Ad esempio se l’Agenzia ti contesta costi come indebiti, porta contratti e fatture a dimostrare che quei costi erano inerenti e reali. Se ti contesta ricavi in nero in base ai movimenti bancari, produci estratti conto evidenziando quali entrate erano trasferimenti interni o prestiti e non ricavi (onere sul contribuente spiegare i movimenti bancari ai sensi del DL 262/2006). Su questo, la giurisprudenza fornisce criteri: Cass. sez. unite 23232/2019 sull’onere di provare la correlazione movimenti conto e reddito.
Litisconsorzio necessario: Un motivo peculiare, di natura processuale: in certe situazioni, il giudizio deve coinvolgere tutti i soggetti interessati, altrimenti è nullo. Ad esempio, accertamenti a società di persone e soci: se ricorre solo uno e non si integrano gli altri, la sentenza è nulla (Cass. SS.UU. 14815/2008, 17931/2016) . Questo di solito è eccepito dal resistente in Cassazione per far annullare tutto se il contribuente non aveva coinvolto gli altri. Ma può essere usato anche dal contribuente, ad esempio in appello, per dire che il giudizio di primo grado era nullo perché non furono chiamati tutti i soggetti. È un po’ tecnico, ma ha portato varie nullità, a scapito però di rifare il giudizio (non di annullare l’atto in sé).
Abbiamo coperto numerosi motivi possibili. Nella pratica, un ricorso ben fatto li combina: – Prima attacca su ogni vizio formale/procedurale possibile (perché se uno di questi passa, vinci subito). – Poi contesta il merito su ogni punto (nel caso i vizi formali non vengano accolti, c’è sempre la chance di convincere sul merito).
È saggio presentare motivi articolati e sostenuti da giurisprudenza (magari allegando le sentenze chiave). Giova mostrare al giudice precedenti dove casi simili al tuo sono stati risolti pro-contribuente .
Ad esempio, se contesti la nullità della cartella perché l’atto presupposto non notificato, puoi citare Cass. SS.UU. 19704/2015 che l’ha affermata. Se contesti una sanzione per infedele dichiarazione perché c’era obiettiva incertezza, puoi citare Cass. 2875/2020 che ha escluso colpevolezza in casi di incertezza.
In chiusura su questa sezione, sottolineiamo: ogni controversia fiscale va preparata come se potesse arrivare fino in Cassazione. Quindi impostare da subito motivi giuridicamente solidi, basarsi su leggi e sentenze, rendere chiaro il perché hai ragione non solo in equità ma in diritto. Ciò detto, passiamo ora a trattare un ambito particolare ma rilevante: i profili penali legati al fisco, ossia quando l’evasione fiscale diventa reato e come si interseca con il contenzioso tributario.
Profili penali tributari: quando scatta il reato e cosa comporta
L’evasione fiscale, oltre a sanzioni amministrative (multe) e al recupero delle imposte non pagate, in certi casi può configurare veri e propri reati tributari puniti con sanzioni penali (reclusione). In questa sezione esamineremo in sintesi quali sono i reati tributari principali previsti dall’ordinamento italiano (D.Lgs. 74/2000 e successive modifiche, aggiornato al 2025), quando scattano (soglie di punibilità, condotte richieste) e come si collegano – o si distinguono – rispetto al contenzioso tributario. Parleremo anche delle novità normative recenti in materia penale-tributaria (riforma sanzioni 2024) e di aspetti procedurali (doppio binario amministrativo-penale, ne bis in idem).
Distinzione tra illecito amministrativo e reato tributario
Non ogni violazione fiscale è reato: la maggior parte sono illeciti amministrativi, puniti con sanzioni pecuniarie irrogate dall’ente (es. omessa dichiarazione dei redditi entro 90 giorni è sanzione amministrativa; omesso versamento di 1000 € di IVA è sanzione amm.). I reati tributari scattano solo per condotte più gravi, dolose, e superata una certa soglia di imposta evasa. Sono disciplinati dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (come modificato da varie leggi, da ultimo dal D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87 nella riforma fiscale attuativa L. 111/2023).
In generale, i reati tributari riguardano dichiarazioni fraudolente o infedeli, omissione di dichiarazioni, emissione di fatture false, occultamento di documenti contabili, omesso versamento di imposte dovute, indebite compensazioni di crediti, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Tutti richiedono l’elemento soggettivo del dolo (intenzione di evadere) e quasi tutti richiedono che l’ammontare dell’imposta evasa o falsificata superi una soglia di rilevanza penale.
Vediamoli nel dettaglio con una tabella:
Tabella 3 – Principali reati tributari (D.Lgs. 74/2000 e succ. mod.)
| Reato (art. D.Lgs. 74/2000) | Condotta | Soglia di punibilità | Pena prevista (reclusione) |
|---|---|---|---|
| Dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti falsi (art. 2) | Presentare dichiarazione annuale utilizzando fatture o altri documenti falsi (per operazioni inesistenti) per evadere. | Nessuna soglia minima (reato di pericolo presunto, basta l’uso di false fatture). | 4 a 8 anni di reclusione (aumentata con L.157/2019) . Fino al 2019 era 1.5-6 anni se importi < €100k, ma quella soglia è stata eliminata, ora qualsiasi importo con false fatture è penalmente rilevante. |
| Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) | Dichiarazione annuale fraudolenta ottenuta con altri artifici (es: contabilizzazioni fittizie, artifizi non costituiti da false fatture). | Imposta evasa > € 30.000 e elementi attivi sottratti all’imposizione > 5% del totale o > € 1,5 milioni, oppure crediti fittizi > 5% o > € 1,5 mln. | 3 a 8 anni (aumentata da 3-8 con L.157/2019, prima era 1.5-6). |
| Dichiarazione infedele (art. 4) | Dichiarare redditi o IVA inferiori al dovuto (o crediti superiori) senza frodi documentali, ma occultando elementi. | Imposta evasa > € 100.000 e elementi attivi non dichiarati > 10% del totale o > € 2 milioni. (Dati pre-riforma 2024; potrebbe essere leggermente modificata). | 2 a 4 anni e 6 mesi (era 1-3 anni, elevata a max 4.5 con L.157/2019). Nuove disposizioni 2024 puntano a mitigare pene standard e introdurre non punibilità per incertezza tecnica . |
| Omessa dichiarazione (art. 5) | Non presentare affatto la dichiarazione annuale (pur avendone l’obbligo) al fine di evadere. | Imposta evasa > € 50.000 (per ogni imposta). | 2 a 6 anni (aumentata da 1.5-4.5 con L.157/2019). Possibile non punibilità se il contribuente paga integralmente il dovuto prima del dibattimento (art. 13, vedi oltre). |
| Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8) | Emettere o rilasciare fatture false (es. cartiere) per consentire a terzi di evadere. | Nessuna soglia minima. (Anche una fattura falsa configura reato). | 4 a 8 anni se importo imponibile totale dei documenti > € 100.000; 1 a 6 anni se ≤ € 100.000. (Questa differenziazione fu introdotta nel 2015 ma poi la L.157/2019 ha eliminato la soglia, portando tutto a 4-8 anni; tuttavia potrebbe essere stata reintrodotta clemenza per importi modesti dalla riforma 2024? Controllo normative aggiornate). |
| Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10) | Sottrarre o distruggere scritture contabili che si dovevano conservare, impedendo la ricostruzione dei redditi. | – (Reato di pericolo, basta la condotta se c’è obbligo di tenuta scritture). | 3 a 7 anni (era 1.5-6, elevata con L.157/2019). |
| Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis) | Non versare entro il termine le ritenute fiscali (es. ritenute da sostituto d’imposta) risultanti dalle certificazioni consegnate ai percipienti. | Importo omesso > € 150.000 per periodo d’imposta. | 6 mesi a 2 anni (pena rimasta invariata). Nota: la riforma 2024 introduce cause di non punibilità se l’omissione è dovuta a crisi di liquidità per forza maggiore e il debito è rateizzato . |
| Omesso versamento di IVA (art. 10-ter) | Non versare l’IVA dovuta annualmente, risultante dalla dichiarazione IVA, entro il termine (di solito 27 dicembre dell’anno successivo). | IVA non versata > € 250.000 per periodo d’imposta. | 6 mesi a 2 anni. Anche qui la riforma 2024 prevede non punibilità in caso di crisi di liquidità non imputabile (cause forza maggiore) e presenza di rateazione). |
| Indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti (art. 10-quater) | Utilizzare in compensazione (mod. F24) crediti d’imposta a cui non si ha diritto, riducendo pagamenti. | – Comma 1 (crediti non spettanti): utilizzo indebito > € 50.000 annui.<br> – Comma 2 (crediti inesistenti): utilizzo > € 50.000 annui. | – Crediti non spettanti: 1 a 5 anni.<br> – Crediti inesistenti: 1.5 a 6 anni. La differenza è che i “non spettanti” sono crediti reali ma non dovuti, gli “inesistenti” sono fittizi/fraudolenti. Norme rafforzate con definizioni introdotte nel 2024. |
| Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11) | Compiere atti simulati o fraudolenti (es. intestare beni a terzi, distraendoli) per rendersi insolvibile verso il Fisco, al fine di evitare il pagamento di imposte dovute. | Imposte evitate > € 50.000. (S’intende l’ammontare del debito fiscale). | 1 a 6 anni. (Se il debito > € 200.000, aggravante pena aumentabile fino a 7 anni e 6 mesi). |
(Nota: i valori e pene indicati tengono conto delle modifiche apportate fino al 2024; le soglie specificate sono quelle attualmente vigenti. La riforma del sistema sanzionatorio del 2024 non ha innalzato le soglie di punibilità dei reati, ma ha introdotto cause di non punibilità per omessi versamenti in caso di forza maggiore, e ha ridotto alcune sanzioni amministrative. Sul fronte penale, ha mantenuto pene più severe per i comportamenti fraudolenti e introdotto margini di clemenza per chi è in regola con piani di rateazione e per le condotte non fraudolente in contesti incerti.)
Come si vede, i reati tributari si concentrano su evasioni consistenti: se evadi poche migliaia di euro, resti nell’illecito amministrativo (multa). Diventi penalmente rilevante quando le cifre superano decine di migliaia di euro (50k, 100k, ecc.) oppure se metti in atto frode documentale (false fatture) indipendentemente dall’ammontare.
Procedimento penale e rapporto col contenzioso tributario
Quando l’Agenzia delle Entrate (o Guardia di Finanza) riscontra una violazione che integra gli estremi di un reato, scatta l’obbligo di denuncia alla Procura della Repubblica. Ad esempio, se in un accertamento trovano IVA evasa di 300k, faranno un processo verbale e lo manderanno anche in Procura per “omesso versamento IVA” penale. Così si apre un procedimento penale a carico del contribuente (indagine, eventualmente sequestro preventivo di beni a garanzia fino a concorrenza del profitto del reato, etc.).
È importante capire che il processo penale e quello tributario seguono binari separati (“doppio binario”): – Il giudizio tributario va avanti indipendentemente dal penale. Il giudice tributario può decidere sull’imposta dovuta anche se pende il processo penale e viceversa. Non c’è regola di sospensione automatica di uno per l’altro (a parte alcune sospensioni in passato per frodi IVA transnazionali in attesa di definizioni in penale, ma di base, sono autonomi). – Le prove raccolte in sede penale possono essere usate in quello tributario (es. se nel penale emergono documenti, puoi produrli in Commissione) e viceversa. Tuttavia le valutazioni possono divergere: un fatto può essere ritenuto non provato oltre ogni ragionevole dubbio in penale (quindi assoluzione) ma magari è considerato provato per presunzioni in sede tributaria (dove vige regola della preponderanza). C’è stato un acceso dibattito su questo, perché punire due volte per lo stesso fatto può porsi il problema del ne bis in idem (vedi oltre). – L’esito del processo penale può influire sul tributario? Formalmente no, il giudice tributario non è vincolato dalla sentenza penale, salvo se questa afferma l’inesistenza del fatto. Ad esempio, se in penale vieni assolto perché “il fatto non sussiste” (cioè non c’era quell’evasione), quella pronuncia dovrebbe convincere il giudice tributario che forse la pretesa è infondata. In pratica spesso l’assoluzione penale (soprattutto se con formula piena) viene usata dal contribuente in Commissione per chiedere l’annullamento dell’accertamento. Non c’è vincolo giuridico, ma un peso lo ha. Viceversa, una condanna penale per evasione fa capire al giudice tributario che i fatti erano reali, ma anche qui formalmente non è vincolato (tuttavia sarà difficile far credere a un giudice tributario che sei innocente fiscalmente se sei colpevole penalmente per gli stessi fatti, ovviamente). – L’ente impositore spesso attende l’esito almeno di primo grado del tributario prima di decidere come muoversi in penale, ma la Procura non attende: se c’è prova, si va a processo penale a prescindere che tu abbia fatto ricorso tributario o meno.
Ne bis in idem (divieto di doppia sanzione): La CEDU (Corte Europea Diritti Umani) e la CGUE (Corte di Giustizia UE) hanno affrontato se sia lecito punire due volte (multa + penale) la stessa condotta. Hanno stabilito alcuni paletti: il doppio binario è ammissibile solo se le due sanzioni perseguono scopi diversi e sono proporzionate complessivamente. L’Italia ha “salvato” il doppio binario con alcuni accorgimenti: – Ad esempio, prevedendo che in caso di definizione agevolata amministrativa e pagamento integrale del dovuto, il penale si estingue per taluni reati (vedi cause di non punibilità art. 13 D.Lgs. 74/2000). – Oppure modulando le sanzioni amministrative quando c’è anche il penale (di fatto però spesso si sommano).
Cause di non punibilità e attenuanti: Esistono meccanismi premiali: – L’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede che per alcuni reati “riscossivi” (omesso versamento, indebita compensazione) se paghi integralmente il debito tributario, comprese sanzioni e interessi, prima dell’apertura del dibattimento in primo grado, il reato è estinto (non sei punibile). Questa è un forte incentivo a pagare. Ad esempio, se avevi omesso di versare IVA 300k, se prima del processo paghi i 300k + interessi e sanzioni, non vieni punito penalmente. La riforma 2019 ha leggermente irrigidito tempi e modi, ma il principio resta. – Per i reati di dichiarazione fraudolenta o infedele, il pagamento integrale entro il termine del giudizio di primo grado comporta un’attenuante speciale (riduzione di pena fino alla metà e niente pene accessorie). – La riforma 2024, come anticipato, ha introdotto una causa di non punibilità per i soli reati di omesso versamento (ritenute e IVA) se il contribuente dimostra che non ha potuto pagare per una crisi di liquidità non transitoria dovuta a forza maggiore, e che ha comunque chiesto una rateazione del debito . Questo è mirato a casi di imprenditori in crisi che non sono semplici “furbetti” ma impossibilitati (ad esempio fallimenti), per escludere punibilità in tali casi estremi. – Inoltre, sempre dal 2024, è stata ribadita la non punibilità quando c’è obiettiva incertezza normativa sulla portata della norma tributaria, recependo orientamenti giurisprudenziali . Già prima, la Cassazione escludeva il dolo se la norma era davvero dubbia.
Sanzioni penali e vita aziendale: Per gli imprenditori, una condanna per reati tributari può significare pene detentive (talora convertibili in misure alternative per entità ridotte, ma se si sommano più reati non è trascurabile) e sanzioni accessorie come l’interdizione dagli uffici direttivi di imprese o di professioni per un certo periodo. Inoltre, per reati gravi (ad esempio dichiarazione fraudolenta) è possibile la confisca dei beni per equivalente all’imposta evasa: spesso la Procura chiede e ottiene sequestri di conti e immobili sino a concorrenza del “profitto del reato” (l’imposta evasa). Ciò può mettere in ginocchio l’azienda, indipendentemente dal processo tributario.
Coordinamento con il ricorso tributario: Dal punto di vista del contribuente-difensore, se c’è parallelamente un procedimento penale, è essenziale coordinare la difesa: – Occorre estrema coerenza: non puoi nel processo tributario ammettere un fatto per ottenere un piccolo sconto e nel penale negarlo per evitare condanna, pena contraddirti. Bisogna scegliere la linea e mantenerla. – Spesso è prioritario evitare il penale: quindi magari conviene pagare il dovuto (se possibile) per spegnere la parte penale, e poi al limite litigarsi sul resto amministrativo. Ad esempio, in un omesso versamento IVA, pagare prima del dibattimento risolve il penale (niente condanna) anche se magari contenzioso amministrativo non c’era perché era auto-dichiarazione. – Se la questione penale dipende dall’esito tributario (es: reato di infedele dichiarazione, il fatto se c’è evasione > soglia lo sta decidendo la Commissione), a volte la difesa in penale può chiedere di attendere l’esito tributario, ma i giudici non sono tenuti a farlo. Tuttavia, un’assoluzione tributaria (es: atto annullato perché il reddito non era imponibile) fornisce un argomento fortissimo al penale per il proscioglimento (manca il fatto illecito). – Viceversa, se perdi in tributario, nel penale la condanna è quasi scontata (non fosse che c’è quell’unico standard di prova più alto, ma se la prova era documentale, non cambia).
Esempio pratico scenario penale: La società Alfa è accusata di aver emesso fatture false per €1 milione (reato art. 8) e la società Beta di averle utilizzate (reato art. 2). Sul piano tributario, l’Agenzia recupera IVA e imposte a Beta, che fa ricorso sostenendo che le operazioni erano reali. Sul piano penale, Beta e Alfa rischiano fino a 8 anni. Se in sede tributaria Beta riesce a dimostrare che le operazioni avevano sostanza economica, magari il giudice tributario annulla l’accertamento (riconoscendo la validità dei costi) – ciò creerebbe un contrasto con l’impianto accusatorio penale (che presume fossero operazioni inesistenti). In teoria i giudici penali decidono indipendentemente, ma nella pratica se i giudici tributari hanno fatto un’istruttoria approfondita e concluso per la realtà delle operazioni, la difesa penale lo userà a proprio vantaggio. Non è automatico, ma conta. Idealmente, i due procedimenti dovrebbero convergere su conclusioni simili se la giustizia funziona.
Costi legali e ruolo dell’avvocato: In caso di doppi procedimenti, il contribuente dovrà affrontare sia il difensore tributario sia il difensore penalista (spesso il tributarista coordina con un penalista fiscalista). Ciò ovviamente incrementa i costi di difesa, ma è necessario per coprire entrambi i fronti. L’avvocato penalista cercherà di ridurre danni (anche valutando patteggiamenti se opportuno: es. patteggiare riduce 1/3 pena e chiude, evitando lungaggini, magari scegliendo di patteggiare dopo aver pagato il debito per accedere a pena sospesa). Il tributarista intanto può tentare accordi con l’ufficio (spesso in presenza di penale, l’ufficio è poco incline a conciliare perché c’è anche la Procura di mezzo).
Conclusione su penale-fiscale: Il debitore-contribuente deve essere consapevole che non pagare imposte per cifre importanti può portare non solo cartelle, ma anche manette (in casi estremi di frodi). La soglia di punibilità oggi non è altissima (es. 250k IVA può capitare a medie aziende in crisi di liquidità in un annus horribilis). Pertanto, se si prospetta un’inadempienza con rilievo penale, meglio attivarsi per tempo: chiedere rateizzazioni (dimostrano volontà di pagare), evitare condotte fraudolente (mai creare documenti falsi o distruggere conti: oltre che eticamente sbagliato, penalmente aggrava di molto la situazione).
Abbiamo così esaminato anche il capitolo penale. A questo punto, concludiamo la guida con una sezione di domande frequenti che riassume e chiarisce dubbi comuni su “ricorso contro Agenzia Entrate” e relative situazioni.
Domande frequenti (FAQ)
D1: Quando è consigliabile presentare ricorso contro un atto dell’Agenzia delle Entrate?
R: Quando si ritiene che l’atto sia errato nel merito o viziato nella forma. Se l’importo in gioco è elevato o il principio è importante, conviene difendersi. Prima di ricorrere valuta se puoi risolvere con strumenti come autotutela o adesione (specie per ridurre sanzioni). Ma se l’ufficio non corregge l’errore e sei convinto delle tue ragioni, il ricorso è l’unica via per ottenere giustizia e non pagare somme non dovute. Ricorda che hai 60 giorni per decidere e agire .
D2: Devo pagare le somme richieste dall’Agenzia anche se faccio ricorso?
R: In genere, presentando ricorso l’atto non diventa definitivo, quindi temporaneamente non devi pagare tutto. Tuttavia, per gli accertamenti “esecutivi” l’Agenzia può chiedere un pagamento provvisorio parziale (normalmente il 1/3 dell’imposta) anche se ricorri . Inoltre, se non chiedi (o non ottieni) la sospensione dal giudice, l’Agenzia Entrate Riscossione può iniziare procedure cautelari (ipoteca, fermo) o eventualmente esecutive per quella parte. Se vuoi evitare anche quel pagamento parziale durante il giudizio, puoi presentare un’istanza di sospensione al giudice tributario (meglio contestualmente al ricorso) motivando il grave danno che avresti dal pagamento immediato e la fondatezza delle tue ragioni. Il giudice può sospendere completamente la riscossione fino alla sentenza . In caso di cartelle esattoriali, durante il ricorso la riscossione di solito è già avviata; anche lì puoi chiedere sospensione sia all’Agente della Riscossione (in autotutela) sia alla Corte tributaria. Insomma, non pagare subito e ricorrere è possibile, ma attento a chiedere le sospensive opportune. Se poi perdi il ricorso, dovrai pagare il dovuto (con eventuali interessi di mora) – o in appello se prosegui.
D3: Quanto dura un processo tributario?
R: Il tempo medio per il primo grado varia molto a seconda della regione e del carico di lavoro. Può essere rapido (6-12 mesi) in alcune Commissioni poco intasate, o più lungo (2-3 anni) in altre più affollate. La riforma della giustizia tributaria mira a ridurre i tempi, anche introducendo giudici dedicati e monocratici per le liti minori. L’appello può richiedere anch’esso 1-2 anni e la Cassazione mediamente 2-3 anni. In totale, un contenzioso che arriva fino in Cassazione potrebbe durare anche 5-7 anni (in alcuni casi estremi di più). È un investimento di tempo notevole. Tuttavia, se l’importo è alto, ne vale la pena; inoltre, spesso durante questo periodo il contribuente gode di liquidità che altrimenti avrebbe versato (anche se poi paga interessi se perde). Se hai fretta di chiudere, valuta la conciliazione o altre soluzioni transattive.
D4: Il mio ricorso è stato respinto in primo grado: che posso fare?
R: Puoi valutare di presentare appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado entro 60 giorni dalla notifica (o 6 mesi se la sentenza non ti viene notificata) . Nell’appello dovrai individuare gli errori commessi dal primo giudice (es. non ha considerato una prova, ha interpretato male la legge, ecc.). L’appello riesamina sia fatti che diritto, purché rientrino nei motivi che proponi. Assicurati di rivolgerti a un difensore esperto, specie se il primo grado l’avevi affrontato da solo, perché in appello è ancora più cruciale argomentare giuridicamente in modo corretto. Tieni presente che se anche l’appello va male, resta la Cassazione (solo per motivi di legittimità). Se l’importo non è enorme, valuta se è conveniente economicamente proseguire o trovare un accordo (talvolta persino dopo la sentenza di primo grado l’ufficio può essere disponibile a una conciliazione in appello, con sanzioni al 50%). Infine, attenzione ai costi: in appello paghi di nuovo il contributo unificato, e se perdi definitivamente potresti essere gravato di spese di entrambi i gradi.
D5: Ho vinto in primo grado contro l’Agenzia: posso stare tranquillo?
R: Complimenti, ma non del tutto tranquillo finché non è definitiva. L’Agenzia delle Entrate spesso fa appello contro le sentenze sfavorevoli, soprattutto se l’importo è elevato o se c’è un principio per loro importante. Quindi la tua vittoria di primo grado potrebbe essere sospesa finché non si pronuncia il secondo grado. Puoi comunque esigere dall’ufficio l’eventuale rimborso di somme pagate in eccedenza, ma l’ufficio in genere aspetta l’esito finale o in appello chiede la sospensione della sentenza di primo grado. Se la controparte non appella entro 6 mesi, allora la sentenza passa in giudicato e diventa definitiva: a quel punto sì, sei tranquillo. Fino ad allora, mantieni le carte in ordine perché la “partita” potrebbe non essere finita.
D6: Posso impugnare un avviso bonario o una comunicazione di irregolarità?
R: In generale no, gli “avvisi bonari” (o comunicazioni ex art. 36-bis, 36-ter DPR 600/73) non sono atti impugnabili perché non sono provvedimenti impositivi definitivi, ma semplici comunicazioni che ti invitano a pagare o a fornire chiarimenti. Se ricevi un avviso bonario, la strada è: rispondere eventualmente con documenti integrativi o spiegazioni entro i termini indicati, oppure pagare con sanzione ridotta al 10%. Se non fai nulla, dopo un po’ l’Agenzia emetterà la cartella di pagamento o un avviso di accertamento esecutivo (a seconda dei casi) e quello sarà impugnabile. Eccezione: se per caso hai pagato quanto richiesto nell’avviso bonario e poi ti accorgi che era errato, non puoi più fare ricorso perché pagando hai definito la pendenza (salvo chiedere rimborso, e in caso di diniego impugnare il diniego). In sintesi, l’avviso bonario è una chance data al contribuente di sistemare errori: se non sei d’accordo, devi attendere il formale atto successivo (cartella o accertamento) per ricorrere. Nel frattempo però puoi far correggere l’errore presentando documenti all’ufficio (spesso le comunicazioni contengono invito a fornire chiarimenti): se dimostri l’errore, l’Agenzia annulla l’avviso bonario ed è finita lì.
D7: Per importi piccoli (es. una cartella da €500) conviene fare ricorso?
R: Considera che, sebbene tu possa difenderti da solo sotto i €3.000, presentare un ricorso ha comunque dei costi: c’è il contributo unificato (€30 per importi fino a €2.582; €60 fino a €5.000) , c’è il tempo da impiegare, eventuali spese postali/PEC, ecc. E se perdi, potresti essere condannato a pagare un’altra €30-60 di spese all’ente (più eventuali parcella legale, anche se in liti piccole spesso compensano le spese). Quindi per €500 di cartella, il gioco potrebbe non valere la candela a meno che tu abbia un motivo chiarissimo di annullamento (es. hai già pagato quella somma, quindi sei certo di vincere e farti annullare il duplicato). In generale sotto qualche centinaio di euro, molti preferiscono pagare per chiudere la faccenda, a meno di questioni di principio. Tieni anche presente che liti minori possono essere risolte in autotutela più facilmente: spesso l’ente per importi modesti e ragioni evidenti preferisce annullare in autotutela piuttosto che impegnare risorse in un contenzioso.
D8: Che differenza c’è tra la Commissione Tributaria e la Corte di Giustizia Tributaria?
R: Nessuna differenza nelle funzioni, solo cambio di nome e alcune innovazioni introdotte dalla riforma (Legge 130/2022). Dal 2023 le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali si chiamano rispettivamente Corti di Giustizia Tributaria di primo grado e di secondo grado . La riforma ha anche previsto l’inserimento graduale di giudici professionali e altre modifiche come il giudice monocratico per liti fino 5.000 € , la prova testimoniale scritta , l’abolizione del reclamo , ecc. Ma sostanzialmente, per l’utente, il “processo tributario” rimane simile, gestito da questi organi specializzati. Puoi pensare alla Corte di Giustizia Tributaria come il “nuovo nome” della Commissione, con qualche marcia in più in termini di professionalità e strumenti processuali.
D9: In caso di accertamenti sulle società di persone, chi deve fare ricorso?
R: Negli accertamenti che riguardano redditi di società di persone (s.n.c., s.a.s.) o associazioni professionali, il risultato fiscale è trasparente e attribuito ai soci. Se l’Agenzia rettifica il reddito della società, automaticamente rettifica i redditi di ciascun socio in base alla quota. Questa situazione implica un litisconsorzio necessario: società e soci sono tutti coinvolti. La legge prevede che il ricorso contro l’accertamento della società valga anche per i soci, ma nella pratica va presentato da tutti i soggetti interessati. È opportuno fare un ricorso unitario, con società (che sta in giudizio tramite rappresentante) e tutti i soci come ricorrenti insieme, contro i rispettivi avvisi. Se per errore ricorre solo la società e non i soci (o viceversa), la giurisprudenza ha stabilito che la sentenza emessa senza coinvolgere tutti è nulla . Quindi attenzione: in questi casi, l’avvocato tributarista generalmente riunisce in un unico ricorso società + soci, oppure presenta ricorsi separati ma chiede poi la riunione. Lo stesso vale per accertamenti IRPEF contro socio unico di Srl trasparente o casi simili. Regola pratica: coinvolgere sempre tutti i coobbligati necessari fin dall’inizio del giudizio.
D10: Se perdo definitivamente, posso andare alla Corte Europea o fare qualcosa?
R: Una volta esauriti i tre gradi di giudizio interni (Commissione/Corte primo grado, secondo grado, Cassazione), il caso è chiuso a livello nazionale. Puoi rivolgerti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo solo se ritieni ci sia stata una violazione di un tuo diritto convenzionale (es. processo iniquo, durata irragionevole, violazione diritto di difesa). Ma la Corte EDU non è un “quarto grado sul merito fiscale”: difficilmente riesamini un accertamento lì. Più realisticamente, potresti fare ricorso alla Corte di Giustizia UE se c’è un tema di diritto comunitario (ad es. un’imposta in contrasto con normativa UE). Tuttavia la via corretta sarebbe stata sollevare la questione durante il processo nazionale, chiedendo al giudice di rinviare alla CGUE. Farlo dopo, da privato, non è possibile (non esiste appello alla CGUE per i cittadini se non tramite giudici nazionali). Quindi, in pratica, dopo la Cassazione l’unica speranza è un estremo ricorso per revocazione (se emergono fatti decisivi nuovi, o conflitto di giudicati, ecc., art. 64 D.Lgs. 546/92) ma parliamo di casi rarissimi. Nella stragrande maggioranza dei casi, la partita finisce con la Cassazione: se hai perso, dovrai rassegnarti e pagare. Per fortuna, il sistema tributario offre ormai molte garanzie e tre gradi di giudizio, dunque se hai perso sempre, probabilmente la pretesa del Fisco era fondata o non sei riuscito a dimostrare il contrario.
D11: Posso rateizzare l’importo durante la pendenza del ricorso?
R: Sì, ma bisogna distinguere: la rateizzazione amministrativa (chiedere all’Agente della Riscossione di pagare a rate) è possibile solo su somme già iscritte a ruolo e non sospese. Se presenti ricorso e l’atto è sospeso, in teoria non devi pagare nulla finché pende la decisione (quindi non c’è da rateizzare). Se invece l’atto non è sospeso e sei tenuto a pagare la parte provvisoria (ad es. 1/3 dell’accertamento), puoi chiedere la rateazione di quella parte come di qualunque cartella. Attenzione però: chiedere rateazione su un atto significa implicitamente riconoscere il debito, e alcuni tribunali ritengono che questo configuri acquiescenza. In realtà, la Cassazione ha detto che la rateazione di per sé non equivale a rinuncia al ricorso, ma il pagamento integrale sì. Quindi puoi rateizzare con cautela solo se ti è necessario per evitare misure cautelari, ma meglio se hai prima presentato ricorso e magari chiesto sospensione. Ad esempio, se hai un accertamento di €30k, ricorri, ma intanto per evitare ipoteca paghi a rate il terzo dovuto (10k) – questo non dovrebbe pregiudicare il ricorso sul restante, e se vinci avrai diritto al rimborso di quel pagato. Diverso sarebbe rateizzare tutto l’importo definendo la lite – in quel caso firmi piani che di fatto valgono come acquiescenza. In sintesi: sì alla rateazione delle somme provvisoriamente esigibili, no alla rateazione come surrogato del contenzioso (in quel caso tanto vale conciliare o aderire).
D12: Se commetto un reato tributario, il processo penale influisce sul ricorso tributario?
R: Come spiegato nella sezione penale, il processo penale e quello tributario sono in principio separati (“doppio binario”). Il giudice tributario decide sull’atto prescindendo dal procedimento penale; il giudice penale giudica il reato indipendentemente dal fatto che tu abbia impugnato o meno l’atto fiscale. Tuttavia, nella pratica, gli elementi di prova raccolti in sede penale possono essere usati nel tributario e viceversa. Ad esempio, se in sede penale emergono documenti a tuo favore, potrai produrli nel ricorso tributario. O se la Commissione Tributaria annulla l’accertamento affermando che il fatto non sussiste, potrai esibire la sentenza nel penale a tuo discarico. Non c’è però un automatismo: potresti essere assolto in penale ma perdere nel tributario, o viceversa, per via delle diverse soglie di prova e normative. Negli ultimi anni, per evitare di punire due volte lo stesso fatto, il legislatore ha introdotto meccanismi di coordinamento: ad esempio, se paghi tutte le imposte evase e relativi interessi e sanzioni prima del processo, alcuni reati si estinguono (quindi niente penale) . Ciò indirettamente risolve anche il contenzioso, perché se paghi tutto, di solito non hai più ragione di litigare sulle imposte. Quindi c’è un incentivo a chiudere le pendenze fiscali per evitare guai penali. In conclusione, il contenzioso tributario e il penale viaggiano su binari paralleli: se sei coinvolto in entrambi, dovrai difenderti su entrambi i fronti, coordinando le strategie con un legale tributarista e uno penalista.
Conclusione
Presentare ricorso contro l’Agenzia delle Entrate è un percorso impegnativo ma spesso indispensabile per far valere i propri diritti di contribuente. “Vincere” contro il Fisco richiede una combinazione di tempestività (rispettare i termini), competenza tecnica (individuare i motivi validi), strategia (valutare soluzioni alternative come adesione o conciliazione) e perseveranza (affrontare eventualmente più gradi di giudizio). Dal punto di vista del debitore, può sembrare di lottare contro un gigante, ma le garanzie dell’ordinamento esistono e i giudici tributari, ora più professionalizzati, sono lì proprio per controllare l’operato del Fisco e correggerne gli errori.
Quando con l’avvocato? Sempre quando la questione non è banale: un avvocato tributarista esperto saprà muoversi tra norme e sentenze, costruendo il caso al meglio. Ma anche il contribuente deve fare la sua parte: fornire documenti, spiegare i fatti in modo chiaro, rispettare le procedure. Questa guida avanzata vi ha fornito gli strumenti concettuali per capire come impostare una difesa vincente. Dall’identificare un vizio formale (che magari annulla l’atto subito) al contestare nel merito cifre e pretese, fino a gestire eventuali implicazioni penali, avete ora un quadro completo del da farsi aggiornato al 2025.
Il consiglio finale è di non improvvisare: il diritto tributario è complesso e in evoluzione (si pensi alle novità sulla giustizia tributaria e sull’autotutela, o alla riforma delle sanzioni penali). Occorre documentarsi – come avete fatto leggendo fin qui – e farsi assistere se necessario. Un ricorso ben fondato può farvi risparmiare cifre notevoli o salvare la vostra attività da richieste indebite; al contrario, un ricorso mal gestito può farvi perdere opportunità (o, se infondato, farvi condannare a pagare anche le spese).
In Italia vige il principio costituzionale che tutti devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (art. 53 Cost.), ma altrettanto vero è che il Fisco non è infallibile e il contribuente ha diritto a difendersi da errori o eccessi. Il contenzioso tributario è lo strumento di equilibrio in questo rapporto: usatelo con cognizione di causa, e ricordate che – per quanto complesso possa sembrare – la legge fornisce gli appigli per ottenere ragione quando (e solo quando) si è nel giusto.
Buon lavoro e in bocca al lupo per il vostro eventuale ricorso!
Fonti normative e giurisprudenziali (aggiornate al 2025)
Di seguito elenchiamo le principali fonti citate o richiamate nella guida, suddivise per tipologia, per consentire approfondimenti e verifiche:
Normativa (leggi e decreti):
- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546: “Disposizioni sul processo tributario”. (Art. 2 – organi di giustizia tributaria; Art. 12 – assistenza tecnica ; Art. 19 – atti impugnabili ; Art. 21 – termini per ricorso ; Art. 42 – valore della lite; Art. 44 – litisconsorzio; Art. 52 e segg. – notifiche; Art. 57 – appello; Art. 68 – pagamento frazionato in pendenza di giudizio ; etc.). (Norme come modificate dalla L. 130/2022 e D.Lgs. 149/2022).
- Legge 27 luglio 2000, n. 212: Statuto dei diritti del contribuente. (Art. 6, c.2 – diritto al contraddittorio; Art. 7 – obbligo di motivazione degli atti tributari ; Art. 10 – buona fede e cooperative compliance, c.2 e 3 su sanzioni e incertezze; Art. 12 – diritti del contribuente verificato, c.7 – intervallo di 60 gg prima dell’accertamento).
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600: Disposizioni su accertamento imposte dirette. (Art. 42 – obbligo di motivazione e sottoscrizione degli avvisi ; Art. 43 – termini di decadenza accertamenti; Art. 32 – poteri dell’ufficio e onere del contribuente su conti bancari; Art. 38 – accertamento sintetico; Art. 39 – accertamento induttivo; Art. 41-bis – avvisi bonari).
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633: IVA – (Art. 52 – accessi e verifiche; Art. 54 – accertamento; Art. 56 – termini decadenza IVA).
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602: Riscossione imposte. (Art. 25 – notifica cartella entro termini; Art. 49 – rateazione; Art. 50 – intimazione di pagamento; Art. 77 – iscrizione ipoteca; Art. 86 – fermo amministrativo).
- D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218: Definizione accertamenti (adesione, acquiescenza, conciliazione). (Art. 6 – accertamento con adesione; Art. 7 – perfezionamento adesione e effetti; Art. 15 – acquiescenza con sanzioni ridotte ).
- D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472: Sanzioni amministrative tributarie. (Principi generali sulle sanzioni; possibilità di cumulo giuridico; ravvedimento operoso ecc. Modificato dal D.Lgs. 87/2024, che ha ridotto alcune sanzioni base).
- D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158: (Riforma del sistema sanzionatorio 2015, rilevante per modifiche alle soglie penali e sanzioni amministrative).
- Legge 31 agosto 2022, n. 130: Riforma della giustizia e processo tributario . (Ha introdotto: nuova denominazione Corti Giustizia Trib., giudice monocratico fino 3.000 € poi elevato a 5.000 € , ammessa prova testimoniale scritta , giudici tributari di carriera, abolizione reclamo/mediazione , ecc.).
- D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 156: (Delega di funzioni MEF su Giustizia tributaria telematica).
- Legge 9 agosto 2023, n. 111: Delega al Governo per la riforma fiscale 2023. (Art. 20 – criteri per revisione sanzioni tributarie ).
- D.Lgs. 7 ottobre 2023, n. 156 e n. 157: (Attuazione delega fiscale su semplificazioni – possibili riflessi su procedure, non dettaglio qui).
- D.Lgs. 14 novembre 2023, n. 189 e n. 190: (Attuazione delega fiscale su riscossione e altre materie, es. D.Lgs. 190/2023 su enti locali).
- D.Lgs. 14 giugno 2024, n. 87: Revisione del sistema sanzionatorio tributario . (Ha modificato D.Lgs. 74/2000 e D.Lgs. 471/97/472/97 – introducendo definizioni di crediti “non spettanti” e “inesistenti” ; nuove cause non punibilità per omessi versamenti ; attenuazione sanzioni amm.ve; proporzionalità per evitare bis in idem ).
- D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74: Reati tributari. (Art. 2 – dich. fraudolenta con fatture ; Art. 3 – dich. fraudolenta altri artifici; Art. 4 – dich. infedele ; Art. 5 – omessa dichiarazione; Art. 8 – emissione fatture false; Art. 10 – occultamento scritture; Art. 10-bis – omesso versamento ritenute; Art. 10-ter – omesso versamento IVA; Art. 10-quater – indebita compensazione; Art. 11 – sottrazione fraudolenta; Art. 12 – pene accessorie; Art. 13 – cause di non punibilità (pagamento integrale) e circostanze attenuanti; Art. 13-bis – particolare tenuità; norme modificate da DL 124/2019 conv. L.157/2019 e da D.Lgs. 87/2024).
- D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 (conv. L. 157/2019): “Decreto Fiscale 2020” – ha inasprito alcune pene (es. art.2 e 8 D.Lgs.74 da max 6 a 8 anni) e abbassato talune soglie (es. reato di dichiarazione fraudolenta art.3).
- Circolare Agenzia Entrate n. 21/E del 7 novembre 2024: “Istruzioni operative in materia di autotutela tributaria” – chiarisce la distinzione tra autotutela obbligatoria e facoltativa, modalità istanze, e impugnabilità dinieghi .
Giurisprudenza (sentenze) – Corte di Cassazione Sezioni Unite:
- Cass., Sez. Unite, 13 dicembre 2017, n. 29919: sulla assistenza tecnica obbligatoria – il giudice deve invitare a nominare difensore se il ricorso sopra soglia è stato proposto senza .
- Cass., Sez. Unite, 29 luglio 2013, n. 18184: su impugnabilità delle cartelle non precedute dalla notifica dell’atto presupposto – ha statuito la sussistenza di litisconsorzio necessario tra società di persone e soci e che la notifica dell’accertamento a società vale per i soci (principio del “unicità accertamento”); nonché che la cartella può essere impugnata per vizi propri e per mancata notifica del presupposto .
- Cass., Sez. Unite, 25 luglio 2007, n. 16154: su valore della lite e spese – chiarisce che il valore si calcola sull’imposta al netto degli interessi e sanzioni (salvo sanzioni impugnate per proprio conto) .
- Cass., Sez. Unite, 8 settembre 2016, n. 17931: su litisconsorzio necessario – in materia di società di persone, tutti i soci e la società devono essere parte; la mancata integrità del contraddittorio rende nulla la sentenza .
- Cass., Sez. Unite, 4 giugno 2008, n. 14815: su annullabilità dell’intero accertamento se manca la notifica a un litisconsorte necessario (es. socio); trattava anche di rimedi e invalidità derivata .
- Cass., Sez. Unite, 18 dicembre 2009, n. 26635: sulla motivazione per relationem – afferma che se l’atto rinvia ad un PVC o altro atto non allegato, è nullo .
- Cass., Sez. Unite, 18 settembre 2014, n. 19667: (non citata sopra, ma rilevante su rapporto penale-tributario: afferma autonomia dei due giudizi e limiti del ne bis in idem).
- Cass., Sez. Unite, 30 settembre 2020, n. 23902: su estratto di ruolo – ha risolto contrasto affermando che l’estratto di ruolo (elenco delle cartelle) non è atto impugnabile, ma se il contribuente non ha mai ricevuto la cartella può impugnare quella, e l’estratto gli serve come prova di conoscenza (non citata prima, ma utile menzione).
Giurisprudenza – Cassazione Sezioni semplici:
- Cass., Sez. V, 18 aprile 2018, n. 9510: sul principio di non contestazione nel processo tributario e sull’ammissibilità di nuovi documenti in appello (ante riforma). Rileva che se il contribuente fornisce prove non contestate dall’ente, il giudice deve tenerne conto .
- Cass., Sez. V, 17 maggio 2018, n. 12065: ribadisce il limite alla produzione di nuovi documenti in appello (già allora richiamava art. 58 c.2 D.Lgs.546 restrittivamente) .
- Cass., Sez. V, 16 novembre 2020, n. 25718: in tema di prova testimoniale, anticipa apertura verso testimonianza scritta recependo indicazioni CEDU .
- Cass., Sez. V, 8 novembre 2022, n. 32741: conferma impugnabilità del diniego tacito di autotutela obbligatoria (novità) e forse anche su estratti di ruolo (la find result indicava inizio frase) .
- Cass., Sez. III Penale, 28 aprile 2021, n. 15449: (es. in materia di reati omesso versamento – applicazione cause di non punibilità, interessante per riferimenti al Covid come forza maggiore).
- Cass., Sez. V Penale, 15 luglio 2015, n. 29924: (sui criteri di valutazione delle operazioni soggettivamente inesistenti, prove penali vs tributarie).
- Corte Costituzionale 25 luglio 2019, n. 222: (sul ne bis in idem: ha dichiarato illegittimo l’art. 4 D.Lgs.74/2000 – dichiarazione infedele – nella parte in cui non esclude doppia punibilità se già sanzionato amministrativamente su stesso fatto con sanzione grave – pronuncia importante per coordinamento sanzioni).
Altre fonti:
- Corte di Giustizia UE: sentenza 9 luglio 2015, cause C-129/14 e C-130/14 (cause “Taricco” – su cumulo penale/amm.vo IVA e prescrizione; e seguito con Corte Cost. n.115/2018); Sentenza 20 marzo 2018, Menci (C-524/15) – su ne bis in idem tributario: ammissibile doppio binario se coordinato, principi A e B vs Norvegia.
- ECHR (Corte Europea dir. uomo): Grande Stevens vs Italia (2014) – su ne bis in idem (in materia di market abuse, ma applicato analogicamente al tributario); A. e B. vs Norvegia (2016, Corte EDU Grande Camera) – ha fissato criteri “bis in idem” (sufficiently linked proceedings).
- Circolari e prassi: Circ. AE 19/E 2012 (sul reclamo/mediazione); Circ. AE 17/E 2018 (sulla definizione liti pendenti); Circ. AE 25/E 2020 (sul processo tributario telematico obbligatorio); Circ. AE 2/E 2021 (adesione e conciliazione).
- Linee guida MEF 2022-2023: sulla conciliazione in Cassazione introdotta dalla L.130/22; note del Massimario Cassazione tributaria su testimonianza scritta.
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Hai ricevuto un avviso di accertamento, una cartella esattoriale o un atto di contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate?
👉 Non farti spaventare: puoi presentare ricorso e vincere, ma serve agire subito e nel modo giusto.
In questa guida ti spiego quando si può fare ricorso contro l’Agenzia delle Entrate, quali errori commette spesso il Fisco, e come ottenere l’annullamento dell’atto o la riduzione del debito con l’aiuto di un avvocato esperto in diritto tributario.
💥 Quando si può Fare Ricorso contro l’Agenzia delle Entrate
Puoi impugnare qualsiasi atto dell’Agenzia delle Entrate che comporti una richiesta di pagamento o una contestazione fiscale.
I casi più comuni sono:
- Avvisi di accertamento per IRPEF, IVA, IRES, IRAP, IMU, TARI, ecc.;
- Cartelle esattoriali e intimazioni di pagamento;
- Avvisi bonari e comunicazioni di irregolarità (36-bis o 36-ter);
- Dinieghi di rimborso o rigetti di istanze;
- Atti di contestazione e sanzioni tributarie.
📌 Il ricorso si presenta alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto.
Superato questo termine, l’atto diventa definitivo e non più impugnabile.
⚖️ Quando l’Agenzia delle Entrate Sbaglia
Molti atti fiscali contengono errori o vizi di forma che li rendono annullabili.
Un buon avvocato sa individuarli e usarli per vincere il ricorso.
Gli errori più frequenti dell’Agenzia sono:
- ❌ Difetto di motivazione (mancanza di spiegazione dei calcoli o delle ragioni);
- ❌ Notifica irregolare o tardiva;
- ❌ Violazione del contraddittorio (atto emesso senza ascoltare il contribuente);
- ❌ Calcoli errati o duplicazioni di imposte;
- ❌ Applicazione di sanzioni non dovute o sproporzionate;
- ❌ Prescrizione o decadenza (atto emesso oltre i termini di legge).
📌 La Cassazione ha stabilito che un atto privo di motivazione o notificato in modo irregolare è nullo e può essere annullato anche in via cautelare.
💠 Come si Vince un Ricorso contro l’Agenzia delle Entrate
1️⃣ Analizzare l’atto ricevuto
L’avvocato esamina l’avviso o la cartella per individuare:
- la presenza di vizi formali o sostanziali;
- eventuali errori di notifica o di calcolo;
- mancanza di prove o motivazioni insufficienti.
📌 Spesso bastano uno o due errori formali per ottenere l’annullamento totale del debito.
2️⃣ Presentare il ricorso entro i termini
Il ricorso va depositato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto.
L’avvocato può chiedere anche la sospensione cautelare, che blocca immediatamente la riscossione.
📌 Il giudice può sospendere l’esecuzione in 48 ore se l’atto appare illegittimo o il danno per il contribuente è grave.
3️⃣ Fornire prove e documentazione
Nel ricorso, il contribuente deve dimostrare la fondatezza delle proprie ragioni.
Servono:
- documenti contabili e fiscali;
- contratti, fatture, dichiarazioni e bonifici;
- eventuali comunicazioni o verbali dell’Agenzia.
📌 Una difesa ben documentata può ribaltare completamente l’esito del giudizio.
4️⃣ Partecipare al contraddittorio e all’udienza
Durante il processo tributario, l’avvocato difensore:
- espone le ragioni del contribuente;
- contesta i calcoli e le presunzioni dell’Agenzia;
- chiede la cancellazione o riduzione delle imposte.
📌 In molti casi, l’Agenzia rinuncia o riduce le proprie pretese già in udienza per evitare la condanna alle spese.
⚠️ I Tempi del Ricorso
- Deposito del ricorso: entro 60 giorni dalla notifica;
- Sospensione cautelare: decisione in 48 ore – 30 giorni;
- Udienza di merito: 6–12 mesi;
- Appello o Cassazione: solo per errori di diritto o questioni formali.
📌 Durante la sospensione, l’Agenzia delle Entrate non può riscuotere né pignorare beni o conti correnti.
🧾 I Documenti da Consegnare all’Avvocato
- Copia dell’avviso di accertamento o cartella esattoriale;
- Ricevute di notifica o PEC ricevute;
- Dichiarazioni fiscali, bilanci, contratti e documenti contabili;
- Eventuali comunicazioni o verbali dell’Agenzia delle Entrate;
- Prove di pagamenti già effettuati o importi errati.
📌 Con questi documenti, l’avvocato può verificare la legittimità dell’atto e impostare la difesa più efficace.
⚖️ I Vantaggi di un Ricorso Ben Gestito
✅ Annullamento totale o parziale delle somme richieste.
✅ Blocco immediato di pignoramenti e cartelle.
✅ Riduzione delle imposte e delle sanzioni.
✅ Recupero delle somme indebitamente versate.
✅ Condanna dell’Agenzia alle spese di giudizio.
📌 In oltre la metà dei casi, i giudici tributari danno ragione ai contribuenti ben difesi.
🚫 Errori da Evitare
❌ Ignorare l’avviso o la cartella sperando che “si risolva da sola”.
❌ Pagare senza aver verificato la legittimità dell’atto.
❌ Presentare ricorso fuori termine (oltre 60 giorni).
❌ Rivolgersi a professionisti non specializzati in diritto tributario.
📌 Un singolo errore procedurale può rendere definitivo un atto che poteva essere annullato facilmente.
🛡️ Come Può Aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza l’atto ricevuto e verifica la presenza di vizi formali o sostanziali.
📌 Ti assiste nella redazione e nel deposito del ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria.
✍️ Chiede la sospensione immediata della riscossione.
⚖️ Ti rappresenta in udienza e nella trattativa con l’Agenzia delle Entrate.
🔁 Ti segue fino alla sentenza definitiva e al rimborso delle somme indebitamente richieste.
🎓 Le Qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato cassazionista esperto in diritto tributario e contenzioso fiscale.
✔️ Specializzato nella difesa di privati, professionisti e imprese contro l’Agenzia delle Entrate.
✔️ Gestore della crisi da sovraindebitamento, iscritto presso il Ministero della Giustizia.
✔️ Esperienza pluriennale in ricorsi tributari, accertamenti e riscossione fiscale.
Conclusione
Un ricorso contro l’Agenzia delle Entrate può essere vinto se viene presentato con le prove giuste e nei tempi corretti.
Con una difesa legale esperta puoi bloccare la riscossione, annullare l’atto e ottenere la cancellazione o riduzione delle imposte richieste.
⏱️ Hai 60 giorni di tempo dalla notifica per agire: ogni giorno è prezioso.
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