Riviste Locali (Periodici) Con Debiti: Cosa Fare E Come Difendersi

Gestisci una rivista locale o un periodico indipendente e ti trovi in difficoltà economica per via di debiti con il Fisco, l’INPS, i fornitori o le banche? È una condizione che interessa molte testate locali e piccole realtà editoriali. La crisi del settore, l’aumento dei costi di stampa, la riduzione dei contributi pubblici e il calo della pubblicità hanno reso difficile mantenere l’equilibrio economico. Quando iniziano ad accumularsi cartelle esattoriali, rate non pagate o contributi arretrati, la continuità della testata rischia di essere compromessa. La buona notizia è che la legge offre strumenti concreti per difendersi, rateizzare o cancellare i debiti, tutelando l’attività editoriale e il patrimonio personale.

Perché molte riviste locali si indebitano

Le cause dell’indebitamento nel settore editoriale sono note: la trasformazione digitale ha ridotto drasticamente la vendita delle copie cartacee, i ricavi pubblicitari si sono spostati online e i contributi statali o regionali al pluralismo dell’informazione vengono spesso erogati in ritardo. Le spese per la stampa, la distribuzione, i collaboratori e la sede rimangono alte, mentre gli introiti si riducono. Anche i piccoli editori che hanno cercato di innovarsi digitalmente hanno dovuto affrontare investimenti in tecnologia e marketing che, in assenza di ritorni immediati, hanno aggravato la situazione finanziaria. Molti direttori o titolari, per mantenere viva la testata, posticipano i pagamenti fiscali e contributivi, accumulando debiti difficili da smaltire.

Cosa succede se non paghi tasse o contributi

Quando i debiti fiscali o previdenziali non vengono saldati, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione e gli enti previdenziali possono attivare azioni di recupero immediate. Le più frequenti sono la notifica di cartelle esattoriali, i pignoramenti dei conti correnti o dei crediti pubblicitari, i fermi amministrativi sui veicoli aziendali, le ipoteche sugli immobili o i sequestri dei crediti verso enti, sponsor o inserzionisti. Gli importi aumentano nel tempo per effetto di sanzioni e interessi. Se la rivista è gestita come ditta individuale o società di persone, l’editore risponde personalmente dei debiti, rischiando anche i beni privati.

Cosa fare subito se la tua rivista ha debiti

Il primo passo è ottenere una visione precisa della situazione. Richiedi all’Agenzia delle Entrate-Riscossione l’estratto di ruolo aggiornato per conoscere importi, annualità e creditori. Poi verifica la validità delle cartelle: molti atti contengono errori di notifica o somme prescritte che un avvocato può contestare. Se il debito è corretto, puoi chiedere la rateizzazione fino a 120 rate mensili, sospendendo nel frattempo le azioni di riscossione. È utile anche verificare se è disponibile una definizione agevolata (rottamazione), che consente di pagare solo il capitale eliminando sanzioni e interessi. In presenza di pignoramenti o ipoteche, puoi ottenere la sospensione immediata presentando un ricorso o un’istanza di autotutela.

Le soluzioni legali per chi non riesce più a pagare

Se i debiti sono troppo elevati o la liquidità non consente più di far fronte alle scadenze, puoi accedere alla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, prevista dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019). È una procedura legale dedicata a piccole imprese, associazioni e lavoratori autonomi che consente di bloccare pignoramenti e azioni dei creditori e ottenere la cancellazione parziale o totale dei debiti residui (esdebitazione). È uno strumento riconosciuto dai tribunali italiani e rappresenta la via più sicura per salvare la tua testata o chiuderla in modo ordinato, senza trascinarsi dietro pendenze fiscali o bancarie.

Come difendersi da banche, finanziarie e fornitori

Molte riviste locali hanno debiti con tipografie, distributori, piattaforme online o istituti di credito. In questi casi puoi chiedere la rinegoziazione dei finanziamenti, la sospensione temporanea delle rate o proporre un saldo e stralcio per chiudere la posizione a un importo ridotto. È possibile anche verificare la presenza di clausole abusive o tassi usurari nei contratti e impugnare decreti ingiuntivi o pignoramenti entro i termini di legge. Un avvocato esperto può assisterti nelle trattative con i creditori, evitando il blocco dell’attività e difendendo i beni aziendali indispensabili per la produzione editoriale.

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace

Con una strategia legale tempestiva puoi sospendere pignoramenti e azioni di recupero, ottenere la rateizzazione o la cancellazione dei debiti, proteggere la sede, le attrezzature e i beni personali, e garantire la continuità della pubblicazione. In molti casi è possibile rilanciare la testata, mantenendo rapporti regolari con i fornitori e salvaguardando la credibilità editoriale.

Quando rivolgersi a un avvocato esperto

Devi rivolgerti a un avvocato se hai ricevuto cartelle o intimazioni di pagamento, se i debiti con il Fisco, l’INPS o le banche sono diventati insostenibili o se rischi pignoramenti o la chiusura dell’attività. Un avvocato esperto in diritto tributario e crisi d’impresa può verificare la legittimità degli atti, bloccare la riscossione e guidarti nella procedura di esdebitazione fino alla cancellazione definitiva dei debiti. Agire in tempo è essenziale per salvare la tua rivista e il tuo lavoro.

⚠️ Attenzione: ignorare le cartelle o gli avvisi di pagamento può portare rapidamente a pignoramenti, blocchi dei conti e sospensione della pubblicazione. Intervenire subito è l’unico modo per proteggere la tua testata e garantire la continuità dell’attività editoriale.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario, riscossione e tutela delle imprese editoriali – spiega cosa fare se gestisci una rivista locale o un periodico con debiti, come bloccare la riscossione e come cancellare legalmente le somme dovute grazie agli strumenti previsti dalla legge.

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Introduzione

Le riviste locali – piccoli periodici a diffusione territoriale – possono trovarsi ad affrontare situazioni di sovraindebitamento per varie cause: calo di introiti pubblicitari, crisi di vendita, spese di stampa e distribuzione elevate o una gestione finanziaria inefficiente. Quando una testata locale accumula troppi debiti verso fornitori, banche, Fisco o enti previdenziali, è fondamentale che l’editore (o l’amministratore) conosca gli strumenti giuridici per difendersi dai creditori e tentare di risanare la situazione. Negli ultimi anni il quadro normativo italiano è profondamente mutato: la tradizionale procedura di fallimento è stata sostituita dalla liquidazione giudiziale (nel nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, D.Lgs. 14/2019), e sono stati introdotti nuovi strumenti di ristrutturazione del debito per evitare la chiusura dell’attività ove possibile . Questa guida – aggiornata a settembre 2025 – esamina in dettaglio cosa può fare un debitore (la società editoriale indebitata o l’editore individuale) per proteggersi dalle azioni dei creditori, negoziare soluzioni sostenibili o, nei casi estremi, gestire un’uscita ordinata dal mercato limitando i danni.

Approccio e struttura: adopereremo un linguaggio adatto sia a professionisti del diritto sia a imprenditori e privati coinvolti nella crisi di una rivista locale. Il punto di vista è quello del debitore, evidenziando le strategie difensive e le opzioni legali per chi deve far fronte ai debiti della propria testata. Analizzeremo dapprima le diverse tipologie di debito che può avere una piccola impresa editoriale (debiti fiscali, contributivi, bancari, commerciali, ecc.) e i relativi rischi. Illustreremo poi i segnali di allarme finanziari e gli obblighi di reazione che gravano sugli amministratori, alla luce della normativa vigente (inclusi i meccanismi di allerta introdotti dal Codice della crisi) . Successivamente esamineremo gli strumenti per affrontare la crisi, dai più informali (piani di rientro, accordi transattivi “saldo e stralcio”) ai più strutturati (composizione negoziata, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo o “concordato minore” per piccole imprese, piani del consumatore, liquidazione giudiziale o controllata) . Verranno trattati anche gli istituti di tutela del patrimonio personale dell’imprenditore (ad esempio fondi patrimoniali, trust, assicurazioni) e le possibili responsabilità civili e penali in caso di gestione scorretta (come i reati di bancarotta e gli illeciti tributari) . Lungo il percorso troverete tabelle riepilogative per un confronto immediato tra le varie soluzioni, una sezione di Domande & Risposte frequenti e alcuni esempi pratici riferiti al contesto italiano. Tutte le fonti normative e le sentenze più aggiornate utilizzate (Corte di Cassazione, Corti di merito, leggi e decreti vigenti) sono riportate in fondo alla guida per eventuali approfondimenti.

Importante: ogni situazione di crisi è diversa. Questa guida fornisce un quadro avanzato e aggiornato degli strumenti di difesa del debitore, ma l’applicazione concreta richiede una valutazione professionale caso per caso. In un panorama normativo in continua evoluzione (si pensi alle modifiche del 2024-2025 che hanno introdotto maggior flessibilità nei piani di ristrutturazione e moratorie più ampie per i debitori ), essere aggiornati e muoversi per tempo fa spesso la differenza tra salvare la testata – magari ristrutturando i debiti e proseguendo l’attività – oppure subire passivamente azioni esecutive e procedure concorsuali distruttive. Conoscere diritti, doveri e opzioni legali è il primo passo per difendersi efficacemente.

Tipologie di debiti di una rivista locale e relativi rischi

Una rivista locale può accumulare debiti di natura diversa, ciascuno con caratteristiche giuridiche proprie e differenti conseguenze in caso di inadempimento. Prima di scegliere la strategia di difesa, è utile distinguere tra le varie categorie di creditori e comprendere i rischi specifici associati a ciascun tipo di debito. Di seguito esaminiamo i principali debiti che gravano su una piccola impresa editoriale:

Debiti fiscali (verso il Fisco)

I debiti fiscali includono le imposte non versate all’Erario: ad esempio IVA sulle vendite di spazi pubblicitari, ritenute fiscali operate su compensi di collaboratori, imposte sui redditi (IRES o IRPEF) non pagate, eventuale IMU su immobili, ecc. Questi crediti del Fisco godono spesso di uno status privilegiato. In caso di insolvenza, lo Stato vanta cause di prelazione sul ricavato dei beni del debitore, specie per alcune imposte: ad esempio IVA e ritenute fiscali vantano privilegio generale sui mobili ai sensi dell’art. 2752 c.c. . Ciò significa che, se la rivista viene liquidata, il Fisco verrà soddisfatto con precedenza rispetto ai creditori chirografari (non privilegiati) sui beni mobili (attrezzature, arredi, crediti, ecc.), fino a concorrenza del suo credito per imposte. Anche su eventuali beni immobili di proprietà, l’Agenzia delle Entrate può tutelarsi iscrivendo ipoteca legale (ad esempio su un immobile dato in garanzia per debiti IVA superiori a €5.000, come consentito dal DPR 602/1973).

Sul piano dell’esecuzione forzata, i debiti fiscali sono riscossi dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione (AdER), l’ente deputato alla riscossione coattiva dei crediti erariali. In concreto, la procedura è la seguente: dopo l’accertamento del debito (ad es. una liquidazione d’imposta o un avviso di accertamento divenuto definitivo), l’AdER notifica una cartella esattoriale (oggi chiamata “cartella di pagamento”) o un avviso di intimazione. Se il debitore non paga entro 60 giorni, la cartella diventa titolo esecutivo e l’Agente della Riscossione può avviare misure esecutive e cautelari senza bisogno di autorizzazioni giudiziali . Le azioni tipiche includono: fermo amministrativo di automezzi (blocco della possibilità di circolare e vendere un veicolo intestato alla società debitrice), ipoteca sugli immobili, pignoramenti di crediti (ad es. pignoramento del conto corrente bancario, dei crediti commerciali vantati dalla rivista verso i clienti inserzionisti, ecc.) e di beni mobili registrati. Il tutto può avvenire con una certa celerità, poiché la cartella e gli avvisi di addebito INPS (di cui diremo più avanti) sono atti già esecutivi : trascorso il termine di legge, l’AdER non deve rivolgersi al giudice ma può direttamente iscrivere ipoteca o avviare un pignoramento.

Dilazioni e definizioni agevolate: per i debiti fiscali esistono fortunatamente strumenti amministrativi di sollievo. Rateizzazione: il contribuente può chiedere all’AdER di pagare a rate il debito tributario iscritto a ruolo. Le norme attuali (rafforzate di recente) prevedono che, per importi fino a €120.000, si possa ottenere una dilazione “automatica” fino a 84 rate mensili (7 anni) su semplice richiesta motivata dallo stato di temporanea difficoltà . Questo tetto è stato innalzato rispetto al passato (prima erano 72 rate) per il biennio 2025-2026, al fine di dare più respiro ai debitori. Per importi oltre €120.000, o per estendere il piano fino al massimo di 120 rate (10 anni), è necessario documentare la situazione di crisi finanziaria allegando i dati contabili . L’AdER valuta l’istanza e, se sussistono i requisiti, concede piani fino a 10 anni anche per debiti molto elevati. È importante ricordare che il mancato pagamento di 5 rate (anche non consecutive) fa decadere la dilazione, riattivando immediatamente le azioni esecutive.

Oltre alle rateazioni ordinarie, negli ultimi anni si sono susseguite varie definizioni agevolate delle cartelle, le cosiddette rottamazioni. Si tratta di provvedimenti legislativi straordinari che consentono di estinguere i debiti iscritti a ruolo versando solo l’imposta dovuta, con stralcio (cancellazione) di sanzioni e interessi di mora. Ad esempio, la “rottamazione-quater 2023” (prevista dalla L. 197/2022, legge di Bilancio 2023) ha permesso ai debitori di definire i carichi affidati all’AdER fino al 30 giugno 2022 pagando solo le somme dovute a titolo di tributo e gli interessi legali, senza sanzioni né interessi di mora . I pagamenti potevano essere rateizzati in 18 rate fino al 2027. Un altro provvedimento, lo “stralcio dei mini-debiti”, ha disposto l’annullamento automatico dei ruoli fino a €1.000 affidati dal 2000 al 2015. Dato che queste opportunità vengono offerte periodicamente, il debitore farebbe bene a monitorare le novità normative: la partecipazione a una rottamazione può ridurre sensibilmente l’esposizione debitoria fiscale e bloccare sul nascere azioni esecutive del Fisco.

Transazione fiscale e trattamento nelle procedure concorsuali: se la rivista locale arriva ad attivare una procedura concorsuale per risolvere la crisi (ad es. un concordato preventivo), i debiti tributari seguono regole speciali. Da un lato, le imposte con privilegio non possono essere liberamente falcidiate (tagliate) senza condizioni: la legge prevede che i crediti IVA e le ritenute non versate siano soddisfatti in misura almeno pari a quanto otterrebbero in caso di liquidazione (c.d. best interest test, sostitutivo delle vecchie soglie percentuali fisse). Dall’altro lato, il Codice della crisi consente al debitore di proporre una transazione fiscale, ossia un accordo inserito nel piano di concordato o in un accordo di ristrutturazione, in cui l’Agenzia delle Entrate accetta un pagamento parziale e/o dilazionato del proprio credito tributario . In pratica, il debitore offre al Fisco una certa percentuale del debito (o la dilazione su più anni) dimostrando che tale offerta è almeno uguale o migliore di quanto il Fisco otterrebbe liquidando forzosamente il patrimonio del debitore. La transazione fiscale richiede l’assenso formale dell’Amministrazione finanziaria (che partecipa al voto nel concordato preventivo per la classe dei crediti tributari) . Oggi l’Erario può anche essere vincolato d’ufficio nel concordato: se la maggioranza dei crediti tributari vota a favore, il piano può essere omologato anche contro il dissenso dell’eventuale minoranza (cram-down). Inoltre, grazie alle modifiche introdotte nel 2024, il debitore può chiedere di posticipare di fino a 2 anni dall’omologazione il pagamento dei crediti fiscali privilegiati nel concordato, ottenendo di fatto una moratoria biennale su IVA, ritenute e simili . Questa possibilità – prevista dall’art. 86 CCII come modificato – offre un prezioso “respiro” al piano di risanamento. La Cassazione ha chiarito, peraltro, che anche dilazioni più lunghe dei due anni possono considerarsi ammissibili se c’è trasparenza e partecipazione dei creditori al piano . In ogni caso, l’adesione del Fisco a una transazione fiscale dipende dalla convenienza economica: l’Agenzia Entrate valuterà se la proposta è preferibile rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale. Una rivista locale indebitata dovrà quindi, per convincere il Fisco, predisporre piani che offrano allo Stato un recupero ragionevole, magari garantito da future entrate o da apporto di risorse esterne (ad es. nuovi soci o finanziatori disposti a coprire parte del debito fiscale).

Profili penali tributari: infine, va segnalato che alcuni debiti fiscali, se non pagati, possono esporre l’imprenditore a responsabilità penali. In particolare, il mancato versamento dell’IVA per un importo superiore a €250.000 annui costituisce reato (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000) punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni . Il termine per valutare l’omesso versamento è generalmente il 16 marzo dell’anno successivo (scadenza del saldo IVA): se entro tale data l’IVA dovuta non risulta pagata e la soglia è superata, il reato si perfeziona. È prevista però una causa di non punibilità se il contribuente paga integralmente il debito IVA prima dell’apertura del dibattimento penale . Un altro reato è l’omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000): se la rivista trattiene sulle fatture dei collaboratori o dipendenti le ritenute IRPEF ma non le versa al Fisco per un importo annuo superiore a €150.000, gli amministratori rischiano la reclusione fino a 3 anni e una multa . Anche qui il pagamento entro la scadenza della dichiarazione annuale successiva evita la punibilità . Questi profili penali rendono evidente l’importanza di non trascurare i debiti fiscali: se la rivista locale vive difficoltà di liquidità, la tentazione di “saltare” il versamento dell’IVA o delle ritenute è forte, ma oltre a generare sanzioni e interessi, può portare a denunce penali. È consigliabile attivarsi subito per soluzioni (rateazioni, concordati con transazione fiscale, ecc.) che regolarizzino almeno parzialmente la posizione tributaria, così da evitare soglie di rilevanza penale. In caso di procedure concorsuali, inoltre, una tempestiva attivazione di strumenti di crisi può dimostrare la buona fede dell’imprenditore, utile anche per escludere i profili dolosi richiesti da taluni reati tributari.

Debiti contributivi e previdenziali (INPS, INAIL)

I debiti contributivi riguardano gli omessi versamenti dovuti agli enti previdenziali. Tipicamente, una rivista locale può avere debiti verso l’INPS (contributi previdenziali per eventuali dipendenti, collaboratori iscritti a gestione separata, e contributi personali se l’editore è un lavoratore autonomo o imprenditore individuale) e verso l’INAIL (premi assicurativi obbligatori contro gli infortuni sul lavoro, se vi sono dipendenti o giornalisti assicurati). Analogamente ai debiti fiscali, anche i crediti contributivi godono di privilegi nelle procedure concorsuali: ad esempio i contributi INPS non versati per i dipendenti hanno privilegio generale ex art. 2753 c.c. , collocandosi anch’essi in posizione preferenziale nel concorso con altri crediti chirografari. In pratica, in caso di fallimento o liquidazione giudiziale della società editrice, l’INPS potrà essere soddisfatta con precedenza rispetto ai fornitori su gran parte dell’attivo mobiliare. Inoltre, per i contributi previdenziali esistono anche privilegi speciali su alcuni beni dell’azienda (ad es. sui beni strumentali, in forza dell’art. 2764 c.c. per i contributi dovuti a consorzi, e norme speciali per i contributi agricoli, anche se probabilmente non rilevanti per una rivista).

Dal lato della riscossione coattiva, l’INPS ha facoltà di iscrivere a ruolo i contributi non pagati ed emettere le relative cartelle esattoriali tramite l’AdER, analogamente al Fisco . In più, dal 2011 l’INPS può procedere con uno strumento proprio, l’avviso di addebito INPS, che ha valore di titolo esecutivo immediato e viene notificato al debitore in caso di mancato versamento dei contributi entro le scadenze. Trascorsi 60 giorni dalla notifica senza pagamento, l’INPS trasmette l’avviso all’Agente della Riscossione, il quale può attivare direttamente pignoramenti, fermi e ipoteche . In sostanza l’avviso di addebito ha sostituito la cartella per i crediti INPS: se la rivista non paga entro 60 giorni, si passa subito all’esecuzione forzata (conto corrente, immobili, ecc.), con aggravio di sanzioni e interessi. Non ignorare tali avvisi è fondamentale: vanno verificati con attenzione (spesso possono contenere importi prescritti o non dovuti da contestare) e, se il debito è effettivo, conviene chiedere una rateizzazione o attivarsi con strumenti di composizione della crisi, anziché lasciar partire i pignoramenti .

L’ordinamento prevede la possibilità di dilazione dei debiti contributivi direttamente con l’INPS: in genere l’Istituto concede piani fino a 24 rate mensili (due anni) su richiesta motivata dall’azienda in difficoltà . In situazioni eccezionali (grave crisi, piani concordati con il Ministero) si possono ottenere anche piani più lunghi. Inoltre, le sanatorie legislative spesso includono anche i contributi previdenziali: ad esempio, alcune rottamazioni delle cartelle hanno compreso i contributi affidati all’AdER, consentendo di pagarli senza sanzioni civili (le sanzioni civili INPS sono somme aggiuntive per ritardato pagamento, equiparabili a interessi). Dunque è sempre opportuno valutare con consulenti del lavoro e legali se vi siano margini per presentare istanze di rateazione all’INPS o aderire a definizioni agevolate, per evitare che il debito contributivo sfugga di mano. Si noti che, a differenza delle imposte, i contributi non pagati incidono anche sul DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva): un’impresa con contributi arretrati non ottiene il DURC e ciò le preclude, ad esempio, la possibilità di accedere a bandi pubblici, contributi statali per l’editoria locale e perfino alcuni contratti con committenti privati che richiedano la regolarità contributiva . Per una testata locale, vedersi negare il DURC può significare non poter partecipare a bandi regionali per fondi all’editoria o perdere inserzionisti istituzionali, aggravando la crisi di liquidità. Anche solo in via difensiva, quindi, conviene regolarizzare (o dilazionare) i contributi per riottenere il DURC ed evitare sanzioni ulteriori.

Profili penali previdenziali: il legislatore sanziona penalmente l’omissione nei versamenti contributivi quando supera una certa entità. In particolare, l’omesso versamento di ritenute previdenziali (i contributi trattenuti dalle retribuzioni dei dipendenti) è punito dall’art. 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983 (conv. in L. 638/1983) se l’importo omesso supera circa €10.000 annui . Si tratta delle ritenute che il datore trattiene in busta paga al lavoratore per la sua quota di contributi: se non vengono versate all’INPS e la somma è rilevante, scatta un reato punibile con la reclusione fino a 3 anni o con la multa fino a €1.032. Tuttavia è prevista la causa di non punibilità qualora il datore di lavoro versi le ritenute dovute entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale (Modello Unico) dell’anno successivo . In pratica, se la rivista entro il 30 giugno (termine per presentare il modello Redditi) regolarizza i contributi dell’anno prima, evita il penale. È evidente che superare la soglia di €10.000 di contributi dipendenti non versati espone gli amministratori a seri rischi: da un lato l’INPS pretenderà il dovuto con sanzioni (che maturano giorno per giorno), dall’altro si può venire denunciati alla Procura. Oltre a ciò, va ricordato che non versare contributi per lungo tempo può configurare, in caso di fallimento, il concorso in reati di bancarotta (ad esempio bancarotta semplice per negligenza grave). Dunque, il debito contributivo è un campanello d’allarme da affrontare con decisione – non solo per evitare pignoramenti da parte dell’INPS, ma anche per non incorrere in censure legali per mancata reazione alla crisi . Una possibile strategia, se la rivista vuole accedere a una procedura concorsuale, è includere nel piano anche il debito contributivo tramite una transazione contributiva (analoga a quella fiscale) : oggi il CCII consente di trattare i contributi INPS in modo simile ai tributi erariali, proponendo all’ente una dilazione o parziale falcidia all’interno di concordati o accordi, soggetta ad approvazione. L’INPS, in sede di concordato, valuterà se accettare in base alla convenienza (anche l’INPS è un “creditore votante” nel concordato per la sua classe di credito). Spesso, per ottenere l’ok, si offre il pagamento integrale dei contributi privilegiati ma in forma dilazionata, abbattendo solo sanzioni e interessi: ad esempio, pagare il 100% dei contributi dovuti ma in 5 anni, invece di subito . Tali proposte possono essere vantaggiose per l’ente, specialmente se alternative sarebbero un fallimento con recuperi parziali e tardivi.

Meccanismo di allerta INPS: segnaliamo infine che il Codice della crisi d’impresa prevede un sistema di “allerta esterna” tramite il quale alcuni creditori pubblici – tra cui l’INPS – devono segnalare tempestivamente all’impresa (e ai suoi organi di controllo) il superamento di certe soglie di debito . Per l’INPS, la soglia è €15.000 di contributi non versati . In pratica, se la rivista accumula oltre 15mila euro di contributi arretrati, l’INPS (trascorsi 60 giorni) invia una PEC di segnalazione all’azienda e, se presente, al collegio sindacale . La comunicazione invita formalmente l’imprenditore ad attivare la composizione negoziata o comunque a prendere provvedimenti per sanare la situazione . Pur non aprendo di per sé una procedura concorsuale, questa lettera ha l’effetto di “suonare l’allarme” in modo ufficiale: da quel momento gli amministratori non possono più ignorare lo stato di crisi. Se poi la situazione degenera in un fallimento, il curatore o i creditori potrebbero agire contro gli amministratori per mala gestio, e la lettera INPS sarà la prova che essi erano consapevoli del grave indebitamento e non hanno reagito. La Cassazione ha evidenziato che l’inerzia degli amministratori dopo aver ricevuto simili segnalazioni può costituire colpa grave e rilevare nelle azioni di responsabilità . Quindi, se l’INPS invia una PEC di allerta per contributi non pagati, non va mai ignorata: al contrario, occorre interpretarla come un ultimatum e attivarsi immediatamente (rateizzazioni, consulenza di un OCC per composizione negoziata, taglio di costi, ecc.), sia per tentare di salvare l’impresa sia per proteggersi da future accuse di aver aggravato il dissesto.

Debiti verso i dipendenti (retribuzioni e TFR)

Molte riviste locali operano con strutture ridotte, ma possono comunque avere dipendenti o collaboratori fissi (giornalisti, amministrativi, tecnici di stampa/distribuzione). I debiti verso i dipendenti consistono principalmente in retribuzioni non pagate, tredicesime, straordinari e Trattamento di Fine Rapporto (TFR) maturato e non versato. Da un punto di vista giuridico, tali crediti di lavoro godono di tutele fortissime. In particolare, i salari e stipendi arretrati (nonché le indennità di fine rapporto) sono garantiti da privilegio generale sui mobili ex art. 2751-bis n.1 c.c., che li colloca ai primi posti nel concorso dei crediti . Nella graduatoria prevista dall’art. 2777 c.c., i crediti di lavoro sono secondi solo alle spese di giustizia: significa che, in caso di fallimento, le somme ricavate dall’attivo dovranno prima pagare i dipendenti (fino ai limiti del privilegio) e solo dopo gli altri creditori privilegiati generali (come il Fisco o gli istituti) potranno soddisfarsi . Questo riflette la rilevanza costituzionale della retribuzione come mezzo di sostentamento del lavoratore . Inoltre, per i salari degli ultimi 3 mesi di lavoro e per il TFR, la legge fallimentare (ora Codice della crisi) prevede un “superprivilegio” che li rende preferiti persino rispetto ad alcune garanzie reali sui beni mobili e immobili (in sostanza, i dipendenti hanno una prelazione speciale sui beni dell’impresa, che primeggia anche su pegni e ipoteche fino a certi importi). Pertanto, se la rivista entra in procedura concorsuale, i dipendenti spesso recuperano per primi parte dei loro crediti. Ove l’attivo dell’impresa non bastasse, interviene il Fondo di Garanzia INPS, che nel fallimento o liquidazione paga al posto del datore di lavoro sia il TFR maturato sia le ultime mensilità di retribuzione (fino a un tetto) , surrogandosi poi come creditore.

Ma al di là dell’ipotesi fallimentare, lavorare senza retribuzione non è ovviamente sostenibile e i dipendenti agiranno ben prima. Se la rivista ritarda nei pagamenti degli stipendi, i lavoratori possono presentare ingiunzioni di pagamento in tribunale (decreto ingiuntivo per paghe dovute) e chiederne l’esecuzione forzata sui beni aziendali. Possono inoltre, in casi di inadempimento grave e protratto, dimettersi per giusta causa e pretendere l’intero TFR come se fossero stati licenziati, aggravando il debito. Non esistono (salvo situazioni penalmente rilevanti come sfruttamento intenzionale) reati specifici per il mancato pagamento di stipendi, ma l’azienda inadempiente si espone a sanzioni amministrative e, soprattutto, perde la fiducia e l’operatività del proprio team. Un sciopero o un esodo dei redattori e stampatori, ad esempio, può paralizzare la pubblicazione.

Dal punto di vista strategico, se la rivista è in crisi e non può pagare tutti, prioritizzare i dipendenti è cruciale: mantenere il personale essenziale è condizione per qualunque speranza di continuare l’attività. Si possono negoziare con loro soluzioni temporanee (es. piani di rientro degli arretrati in più tranche, magari con contestuale riduzione dell’orario di lavoro per contenere il costo corrente; oppure accordi di cassa integrazione guadagni se applicabile al settore editoriale locale, per avere un sostegno pubblico alle retribuzioni). Inoltre, se si prospetta una procedura concorsuale, informare i dipendenti e coinvolgerli nel piano può aiutare: essi sono creditori privilegiati e solitamente saranno soddisfatti comunque, ma un loro supporto (anche solo morale, evitando conflittualità) può agevolare la gestione della fase di crisi. Ricordiamo infine che, in caso di cessazione dell’attività, l’INPS interverrà per i loro crediti (TFR e ultime mensilità) attraverso il Fondo di Garanzia, ma l’accesso a tale Fondo richiede una procedura concorsuale formale o un verbale di pignoramento negativo, quindi i dipendenti potrebbero loro stessi auspicare un fallimento pilotato pur di ottenere rapidamente il TFR dal Fondo. Anche questo evidenzia perché i debiti verso lavoratori vanno gestiti con massima sensibilità: una rivista locale radicata sul territorio vive anche della sua reputazione sociale, e non pagare i propri giornalisti o dipendenti rischia di alienare la comunità e segnare il punto di non ritorno della crisi.

Debiti bancari e finanziari

Come ogni attività imprenditoriale, anche una rivista locale può essersi finanziata ricorrendo al credito bancario o ad altri intermediari finanziari. I debiti verso banche di solito derivano da: mutui (es. se la società editrice ha acceso un mutuo per acquistare un immobile o macchinari di stampa), affidamenti di conto corrente o fidi per anticipare le spese correnti, finanziamenti chirografari per liquidità, leasing finanziari (che tratteremo a parte) ed eventualmente utilizzo di carte di credito aziendali. Questi debiti presentano alcune specificità rispetto a quelli commerciali:

  • Garanzie reali o personali: i crediti bancari sono spesso assistiti da garanzie. Ad esempio, un mutuo ipotecario sullo stabile che ospita la redazione o la tipografia sarà garantito da ipoteca; un fido bancario può essere garantito da un pegno su titoli o da una fideiussione personale prestata dall’editore o da terzi. Ciò implica che, se la rivista locale è inadempiente, la banca può escutere la garanzia: in caso di ipoteca, potrà iniziare un’esecuzione immobiliare sull’immobile ipotecato; in caso di fideiussione, la banca potrà aggredire direttamente il patrimonio personale del garante (ad esempio la casa privata dell’editore, i suoi conti personali, stipendio, ecc.) . Questo coinvolgimento del patrimonio personale è particolarmente delicato per un piccolo imprenditore: spesso l’editore locale ha messo in gioco beni familiari come garanzia per ottenere credito bancario, e quindi il default della rivista può trascinare con sé la rovina personale se non ci si tutela per tempo (vedremo oltre le possibili difese come trust, fondo patrimoniale, ecc.).
  • Clausole di decadenza dal termine: i contratti di finanziamento bancario prevedono di solito che, al mancato pagamento anche di una sola rata o allo sconfinamento del fido, la banca possa considerare scaduto l’intero debito e pretenderne il pagamento immediato (clausola risolutiva espressa o decadenza dal beneficio del termine) . Ciò significa che basta saltare una rata di mutuo o un canone leasing perché la banca revochi l’agevolazione temporale e chieda subito tutto il residuo. Questo può precipitare la crisi di liquidità: la rivista che magari era in difficoltà su una piccola rata si trova esposta a un debito enorme tutto insieme. Inoltre, la banca segnalerà l’esposizione come “sofferenza” alla Centrale Rischi di Bankitalia, la grande banca dati creditizia: ciò compromette la reputazione creditizia dell’impresa e la taglia fuori da ulteriori finanziamenti . Una volta segnalati “a sofferenza”, difficilmente altre banche concederanno prestiti alla società (né all’editore personalmente se figura come garante in sofferenza). Questa spirale negativa – revoca dei fidi, accelerazione dei debiti e blocco dell’accesso al credito – è tipica nelle crisi d’impresa: occorre esserne consapevoli per giocare d’anticipo, negoziando con le banche prima che scatti la segnalazione.
  • Esecuzioni rapide: le banche dispongono spesso di titoli esecutivi immediati che permettono loro di agire più velocemente di un normale fornitore. Ad esempio, il mutuo fondiario è per legge munito di titolo esecutivo: la banca, una volta notificato un atto di precetto, può subito iniziare il pignoramento immobiliare (non serve un decreto ingiuntivo) . Molti contratti bancari (mutui, leasing) sono stipulati per atto notarile “in forma esecutiva” ex art. 474 c.p.c., il che significa che contengono la formula esecutiva e sono immediatamente eseguibili. Persino senza garanzie reali, la banca potrebbe avere firmato con l’azienda cambiali o ricevute bancarie: una cambiale non pagata è titolo esecutivo e consente un pignoramento rapido dei beni del debitore. In sintesi, il creditore bancario è spesso nella posizione di poter reagire con maggiore celerità rispetto ad un creditore commerciale qualsiasi . Ciò non va sottovalutato: se la rivista locale entra in crisi di liquidità, è probabile che la prima aggressione venga dalla banca (ad esempio revoca del fido e pignoramento del conto) piuttosto che dal tipografo fornitore.

Nonostante queste prerogative, i debiti bancari si prestano talvolta a negoziazioni e ristrutturazioni più agevoli rispetto ad altri debiti. Questo perché anche la banca ha interesse a evitare il default totale del debitore: un fallimento della rivista potrebbe significare per la banca recuperare molto meno (specie sulla parte chirografaria del credito) e dopo anni. Dunque, se l’impresa editoriale ha prospettive credibili di ripresa, la banca potrebbe preferire ridefinire le condizioni del prestito invece di procedere legalmente. Le strade negoziali includono: moratorie (sospensione per alcuni mesi del pagamento delle quote capitale dei mutui, come quelle promosse dall’ABI in certi periodi di crisi), rinegoziazione dei tassi o allungamento delle scadenze del mutuo per ridurre l’esborso periodico, consolidamento del debito (convertire esposizioni a breve in un prestito a medio termine magari assistito da garanzie statali, es. Fondo PMI), o anche accordi di saldo e stralcio (la banca accetta di chiudere la posizione a saldo con un pagamento inferiore al dovuto, tipicamente se ritiene che il debitore altrimenti finirebbe per non pagare nulla) . Quest’ultimo caso – il saldo e stralcio bancario – è più frequente per crediti chirografari o sofferenze vendute a società di recupero: ad esempio, se la rivista ha un prestito personale dell’editore non garantito, in forte ritardo, la banca (o la finanziaria cessionaria del credito) potrebbe accettare il 50% immediatamente a chiusura definitiva . Per crediti ipotecari invece lo stralcio è meno comune (la banca preferisce rivalersi sul bene). Un altro strumento da menzionare è il “piano attestato di risanamento” (art. 56 CCII, ex art. 67 L.Fall.): l’impresa, con l’aiuto di un professionista attestatore, predispone un piano di rientro concordato privatamente con le banche e gli altri creditori, che viene asseverato e pubblicato, ottenendo così protezione da revocatorie fallimentari e una certa credibilità nel suo rispetto . Le banche sono spesso disponibili a questo tipo di accordo extragiudiziale, specialmente se l’azienda offre nuove garanzie o l’ingresso di investitori. Nel contesto di una rivista locale, ad esempio, l’editore potrebbe offrire un’ipoteca aggiuntiva su un immobile di famiglia in cambio di una ristrutturazione del debito bancario e liberazione di precedenti fideiussioni personali . Ogni trattativa va però condotta in modo professionale e trasparente, come approfondiremo più avanti.

Attenzione ai profili penali e reputazionali: le banche, in caso di default, non esitano a intraprendere anche azioni giudiziarie accessorie: ad esempio, se emergono irregolarità bancarie (come usura nei tassi o anatocismo sugli interessi), potrebbe essere la società debitrice a sollevare contestazioni in causa, ma in genere l’onere probatorio è a carico del debitore e richiede perizie tecniche. Al contrario, se la rivista ha fornito documenti falsi per ottenere fidi, gli amministratori potrebbero incorrere in denunce per truffa o falso in bilancio. Inoltre, la segnalazione a sofferenza alla Centrale Rischi può essere contestata se fatta in modo abusivo, ma solo in caso di evidente assenza di stato di insolvenza (cosa rara se effettivamente non si paga). In sostanza, il miglior approccio con le banche è di negoziare tempestivamente, mostrando i numeri reali e un piano credibile, piuttosto che attendere la revoca dei fidi e lo scontro giudiziario.

Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali

Le forniture tipiche di una rivista locale includono: materie prime (carta, inchiostri, materiali tipografici), servizi (tipografia/stampa, distribuzione, elettricità, affitto dei locali, servizi informatici) e collaborazioni esterne (fotografi, grafici, corrieri). I debiti verso fornitori nascono dunque nel ciclo commerciale ordinario. In genere questi crediti sono chirografari (non hanno garanzie né privilegi), a meno che il fornitore non abbia previsto particolari tutele contrattuali. Ad esempio, un fornitore di beni potrebbe aver pattuito una clausola di riserva di proprietà (art. 1523 c.c.): la merce fornita resta di proprietà del venditore fino al pagamento integrale . Se la rivista non paga, il fornitore con riserva di proprietà può rivendicare la restituzione dei beni forniti – ad esempio macchinari di stampa consegnati o scorte di carta non ancora utilizzate. Ciò può dare un colpo all’operatività della testata, perché perdere un macchinario o la carta significa bloccare la produzione del periodico. Un altro esempio: molti stampatori richiedono il pagamento tramite Ri.Ba. (ricevuta bancaria) o pagherò cambiari; ebbene, una Ri.Ba. insoluta permette rapidamente al fornitore di ottenere un decreto ingiuntivo (se il credito è ben documentato), e una cambiale non pagata è un titolo esecutivo immediato . Quindi anche i fornitori, pur chirografari, possono dotarsi di strumenti per accelerare il recupero del credito.

Il rischio principale con i debiti verso fornitori è il blocco del ciclo produttivo: se l’azienda non paga, il fornitore smetterà di fornire. Una tipografia in crisi di liquidità rischia di non poter più stampare la rivista perché il service di stampa o il grossista di carta sospendono le consegne. Ciò aggrava ulteriormente la crisi, perché senza prodotto da distribuire la rivista non genera vendite né pubblicità, peggiorando gli incassi. Pertanto, la gestione dei fornitori in crisi dev’essere accorta: occorre individuare quali fornitori sono strategici (quelli senza i quali non si può operare, es. l’unica tipografia locale, o l’unico fornitore di un software indispensabile) e garantire a questi una priorità nei pagamenti, magari parziale, per mantenerne la collaborazione . Con fornitori secondari o sostituibili, si può tentare una negoziazione individuale più aggressiva, ad esempio proponendo un saldo e stralcio (pagamento di una percentuale subito a chiusura del debito) o un piano di rientro dilazionato lungo. Molti fornitori, soprattutto se la relazione commerciale è di lunga data o se vedono potenzialità di ripresa del cliente, preferiscono accettare un concordato stragiudiziale piuttosto che perdere tutto col fallimento. Ad esempio, un tipografo potrebbe accettare di ricevere il 50% del suo credito subito e il restante 50% in 6-12 mesi, pur di evitare di mandare in default la rivista cliente (che poi non avrebbe più ordini futuri da fargli) . L’importante è comunicare tempestivamente con i fornitori: spiegare la situazione di difficoltà, presentare un abbozzo di piano di risanamento e fare una proposta seria. Ignorare i fornitori, viceversa, porta quasi certamente a azioni legali: il fornitore insoddisfatto si rivolgerà a un avvocato, che notificherà un decreto ingiuntivo e arriverà a pignorare merci, conti o crediti della rivista . Oltre al danno materiale, ciò deteriora irreparabilmente i rapporti: una volta intrapresa la via giudiziaria, è difficile recuperare la fiducia commerciale.

Nelle procedure concorsuali, i fornitori (creditori chirografari) sono in genere la classe più colpita dalle riduzioni (falcidie) dei crediti. In un concordato preventivo liquidatorio, ad esempio, spesso il piano prevede che ai chirografari venga pagata solo una percentuale minima (in passato la legge fallimentare imponeva almeno il 20%, ora il CCII richiede il rispetto del best interest test in luogo di soglie fisse) . Ciò significa che, se dal realizzo dei beni risulterebbe un pagamento del 10%, il piano non può offrire di meno. Nei concordati in continuità aziendale, di solito si offre ai fornitori un trattamento migliore (es. 40-60%) dilazionato negli anni, confidando che l’azienda prosegua l’attività e generi utili per pagarli . Inoltre, nel concordato preventivo i fornitori votano come creditori chirografari e la loro adesione è spesso decisiva: occorre dunque convincerne la maggioranza che la proposta concordataria è più conveniente della liquidazione fallimentare . In altre parole, bisogna far capire ai fornitori che accettare, ad esempio, il 40% in concordato subito è meglio che rischiare un fallimento dove forse otterrebbero il 20% dopo anni. Un fornitore con un credito consistente può però ragionare diversamente: se vede che la rivista non paga ed accumula debiti, potrebbe preferire spingerla in una procedura concorsuale per evitare un aggravamento ulteriore. Va ricordato che anche un singolo creditore può presentare istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) se sussistono i presupposti di insolvenza, purché l’esposizione scaduta sia sopra una soglia di legge . Oggi non si può aprire una liquidazione giudiziale per debiti scaduti complessivi inferiori a €30.000 , soglia introdotta per evitare fallimenti per importi irrisori. Ma una piccola tipografia creditrice di €50.000, vedendo l’azienda in dissesto, potrebbe presentare istanza per tutelarsi, sperando che il patrimonio residuo non si deteriori ulteriormente. Il debitore deve esserne consapevole: trascurare un fornitore chiave con un credito rilevante può portarlo – come “extrema ratio” – a chiedere il fallimento dell’azienda per bloccare la gestione dissennata (dal suo punto di vista) .

In conclusione, per i debiti commerciali la parola chiave è negoziazione tempestiva. È consigliabile che l’imprenditore rediga un elenco dei fornitori classificandoli per criticità: quali sono essenziali e insostituibili e quali invece possono essere sostituiti se interrompono la fornitura . Sui fornitori critici occorre cercare di onorare i pagamenti correnti (magari concordando il pagamento anticipato delle nuove forniture, ma dilazionando il pregresso), mentre con i meno strategici si può proporre uno stralcio o una dilazione lunga . In parallelo, bisogna monitorare costantemente le azioni dei creditori: se arriva un atto di precetto o un decreto ingiuntivo, potrebbe convenire contattare subito l’avvocato del fornitore e trovare un accordo prima che si arrivi al pignoramento (magari offrendo una garanzia, un piano di rientro concordato in tribunale con rinuncia agli atti da parte del creditore, ecc.). Evitando di far irrigidire i creditori commerciali, la rivista ha più chance di guadagnare tempo per attuare un piano di rilancio o formalizzare una procedura concorsuale di ampio respiro.

Debiti da leasing e altre forme di finanziamento specifico

Una rivista locale potrebbe aver acquisito beni (macchinari di stampa, automezzi per consegne, attrezzature informatiche) tramite contratti di leasing finanziario. Nel leasing, l’azienda utilizzatrice (debitrice) paga un canone periodico alla società di leasing (locatrice) per l’uso del bene e in genere ha la facoltà di acquistarlo a fine contratto pagando un prezzo di riscatto. I debiti da leasing hanno una disciplina particolare: tipicamente il contratto prevede che il mancato pagamento di un certo numero di canoni – di solito due mensilità consecutive – comporta la risoluzione automatica del contratto ai sensi dell’art. 4 D.Lgs. 72/2016 . In tal caso, la società di leasing può esigere la restituzione immediata del bene. Ciò significa che se la rivista smette di pagare il leasing della stampante tipografica, rischia di vedersela portare via dal lessor, interrompendo la produzione. Una volta riavuto il bene, la società di leasing lo venderà o riallocherà e poi pretenderà dal debitore la differenza tra l’importo ricavato e il credito residuo, come da clausole penali del contratto . Tale differenza diventa un debito chirografario verso la società di leasing (spesso consistente, perché i beni usati venduti in fretta spuntano un prezzo basso e rimane un grosso residuo a carico dell’ex utilizzatore).

Nelle procedure concorsuali, al leasing si applicano norme specifiche. In caso di liquidazione giudiziale (fallimento), il curatore può decidere se subentrare nel contratto di leasing pagando i canoni residui (ad es. se il bene è utile per un esercizio provvisorio dell’impresa) oppure sciogliersi dal contratto . Se il curatore sceglie di sciogliersi, la società di leasing riprende il bene e insinua al passivo il proprio credito: i canoni scaduti fino alla risoluzione e il danno da mancato incasso dei canoni futuri. Questo credito è assistito da privilegio nella parte corrispondente ai canoni scaduti per l’uso già goduto, e da privilegio speciale (ex art. 2762 c.c.) per alcune mensilità, mentre il resto è chirografario (art. 177 CCII) . In caso di concordato preventivo, il debitore può proporre varie soluzioni: continuare il leasing (pagando i canoni correnti e inserendo nel piano il pagamento degli arretrati magari dilazionato), restituire il bene e concordare con la società di leasing il trattamento del suo credito (magari riconoscendole una percentuale del danno da risoluzione), oppure ancora prevedere il riscatto anticipato del bene con uno sconto. Le società di leasing tendono a negoziare pragmaticamente nelle procedure: sanno che se collaborano possono recuperare di più e prima. Dal punto di vista del debitore, è importante valutare se il bene in leasing è essenziale all’attività: se sì, va fatto uno sforzo per mantenere il contratto in essere (magari chiedendo una moratoria temporanea sui canoni); se invece il bene è diventato superfluo o inefficiente, può convenire restituirlo subito per non accumulare ulteriori debiti.

Altre forme di finanziamento specifico: la rivista locale potrebbe aver ricevuto contributi pubblici (ad esempio fondi per l’editoria locale o regionale). Tali contributi, se indebitamente percepiti o non rendicontati correttamente, potrebbero generare un debito di restituzione verso lo Stato o la Regione. In caso di crisi, generalmente i contributi pubblici indebitamente ricevuti vengono insinuati come crediti erariali (chirografari se non vi sono garanzie). Va prestata attenzione a non violare i vincoli di destinazione di eventuali contributi, perché ciò potrebbe esporre l’editore anche a responsabilità erariali (Corte dei Conti) o penali (malversazione).

Un’ulteriore forma di debito può essere verso soggetti privati finanziatori: ad esempio, se l’editore ha ricevuto prestiti da amici o conoscenti (finanziamenti soci o di terzi). Tali crediti in caso di insolvenza sono postergati se fatti da soci (art. 2467 c.c. per srl), oppure chirografari comuni se da terzi. È bene formalizzare questi prestiti con chiarezza, per evitare contestazioni e conflitti di interessi (un socio creditore in concordato ha diritto di voto ma il suo credito potrebbe essere postergato se si dimostra che fu un finanziamento anomalo in situazione di sottocapitalizzazione).

Ricapitolando: i debiti finanziari e specifici vanno anch’essi affrontati strategicamente. Molte volte la soluzione negoziale con il creditore finanziario è la più efficace: ad esempio, convertire un debito da fornitura in una quota di partecipazione societaria (fornitore che diventa piccolo azionista), oppure ottenere dalla banca la rinuncia a fare azioni sul patrimonio personale in cambio di nuove garanzie o di un concordato accettabile . Quando i debiti sono sparsi su più fronti, può essere utile procedere con una composizione negoziata assistita (come vedremo nel prossimo capitolo) dove un esperto terzo aiuta a mettere tutti i creditori attorno a un tavolo per trovare un accordo complessivo.

Segnali di allarme della crisi e obblighi degli amministratori

Una crisi finanziaria raramente esplode all’improvviso: di solito è preceduta da segnali di allarme che, se colti in tempo, possono permettere di intervenire. Gli amministratori di una società (o l’imprenditore individuale) hanno oggi precisi doveri legali di monitoraggio e intervento di fronte ai sintomi della crisi. Ignorare questi segnali non solo aggrava il dissesto, ma può comportare responsabilità per mala gestio e perfino conseguenze penali.

Indicatori di crisi da monitorare: il Codice della crisi e l’esperienza professionale indicano vari indici e dati che devono mettere in allarme l’imprenditore. I più importanti includono:

  • Indici di liquidità e solvibilità: ad esempio il current ratio (attività a breve / passività a breve). Se tale indice scende sotto 1, significa che l’azienda non ha liquidità sufficiente a coprire i debiti a breve termine – chiaro segnale di tensione finanziaria. Altri indici utili: indice di indebitamento (mezzi di terzi su mezzi propri), DSCR (Debt Service Coverage Ratio) che se inferiore a 1 indica incapacità di far fronte alle rate del debito in scadenza con i flussi di cassa previsti. Il Codice della crisi prevedeva che il superamento di certi indici allertasse gli organi di controllo, ma anche senza obblighi di legge, un imprenditore accorto deve periodicamente calcolare questi parametri con l’aiuto del commercialista.
  • Andamento di fatturato e margini: cali significativi e prolungati dei ricavi o dell’utile operativo preannunciano difficoltà. Se la rivista locale vede dimezzarsi le entrate pubblicitarie per vari trimestri di fila, o finisce in perdita operativa per più esercizi, la crisi di redditività a lungo andare si tramuta in crisi di liquidità (mancanza di cassa). Monitorare mese per mese il rapporto tra costi fissi e ricavi, e l’EBITDA, aiuta a capire se il modello di business è sostenibile o se serve una correzione di rotta (tagli costi, nuove entrate).
  • Debiti scaduti verso banche, fornitori o Erario: il semplice accumulo di arretrati è di per sé un indice. Se la rivista inizia a pagare i fornitori con 60-90 giorni di ritardo rispetto al concordato, oppure se non riesce a pagare l’IVA trimestrale, è un segnale di flusso di cassa insufficiente. Anche i protesti (assegni o cambiali non pagati) e le segnalazioni in Centrale Rischi per sconfinamenti sono spie rosse. Il decreto ministeriale 28/09/2021 (attuativo del Codice crisi) ha fissato parametri di allerta interna come: patrimonio netto negativo, DSCR < 1, oneri finanziari e debiti tributari e previdenziali fuori controllo. Ma al di là delle formule, l’imprenditore dovrebbe percepire la crisi quando “non riesce a pagare puntualmente” le sue obbligazioni. Spesso, per ottimismo o vergogna, si tende a fare piccoli ritardi sperando in tempi migliori: attenzione però che i ritardi con l’Erario e l’INPS hanno soglie precise (come visto: oltre €5.000 di IVA non versata scatta segnalazione, oltre €15.000 di contributi anche) . Quindi il protrarsi degli arretrati porta anche all’allerta esterna pubblica.
  • Utilizzo eccessivo del credito di fornitura: se i fornitori cominciano a spedire solleciti o addirittura pretendono pagamenti anticipati, significa che la piazza percepisce la difficoltà della rivista. Anche i dipendenti che lamentano continui ritardi negli stipendi, o i collaboratori freelance che chiedono pagamenti immediati per consegnare i pezzi, sono un segnale qualitativo che la fiducia sta venendo meno.

In sintesi, non aspettare che siano i creditori a farsi vivi: se il titolare sa di avere debiti e vede peggiorare la situazione mese dopo mese, deve muoversi per primo. Questo approccio proattivo è doppiamente utile: può salvare l’azienda (intervenendo quando ancora c’è margine) e tutela l’imprenditore stesso in caso di successivi giudizi. Infatti, se la crisi degenera e finisce in tribunale, si valuterà attentamente quando l’imprenditore ha preso coscienza della crisi e che cosa ha fatto in quel momento. Ogni ritardo ingiustificato nell’adottare misure di contenimento del dissesto può essere contestato come aggravamento doloso o colposo dello stesso.

Obblighi di reazione e responsabilità degli amministratori: a questo proposito, la legge (art. 2086 c.c. come riformato) impone all’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva di istituire assetti organizzativi adeguati per rilevare tempestivamente la crisi e attivarsi per farvi fronte. Ciò significa che gli amministratori di una società editoriale (es. s.r.l.) hanno il dovere di sorvegliare la situazione economico-finanziaria e, al presentarsi di segnali di crisi, di adottare senza indugio le soluzioni possibili: rinegoziare i debiti, reperire nuova finanza, ridurre i costi, o avviare una procedura di regolazione (es. composizione negoziata, concordato preventivo). Se non lo fanno e la società poi fallisce, potranno essere chiamati a rispondere dei danni causati ai creditori per aver aggravato il passivo. Ad esempio, se la società era insolvente già nel 2024 ma gli amministratori hanno continuato l’attività accumulando altri debiti nel 2025 senza avviare procedure, il curatore fallimentare potrà citarli in giudizio ex art. 2486 c.c. chiedendo il risarcimento dell’incremento del dissesto . Inoltre, in presenza di colpe gravi o atti di mala fede, scatteranno i reati di bancarotta (fraudolenta o semplice, v. oltre).

Allerta esterna dei creditori pubblici: come anticipato nella parte sui debiti fiscali e contributivi, dal 2022 è in vigore un meccanismo per cui Agenzia Entrate, INPS e AdER inviano segnalazioni obbligatorie quando i debiti scaduti superano certe soglie (5k IVA, 15k contributi, 100k/200k/500k ruoli a seconda della dimensione impresa) . Ricevuta la lettera di allerta (PEC), l’azienda ha formalmente conoscenza di essere in crisi. Da quel momento, se non si attiva, gli amministratori rischiano moltissimo in termini di responsabilità: “non potevano non sapere”. Come sottolineato, la PEC di allerta toglie ogni alibi agli amministratori e la loro inerzia successiva è presunzione di colpa grave . Se invece si attivano (ad esempio avviando la composizione negoziata entro 90 giorni), potranno in futuro dimostrare di aver agito diligentemente e in buona fede , il che è importante anche per ottenere benefici come l’esdebitazione o per evitare azioni di responsabilità.

Sistema di allerta interna (OCRI) sospeso: inizialmente il Codice della crisi aveva previsto l’istituzione degli OCRI (Organismi di Composizione della Crisi) e obblighi di sindaci e revisori di segnalare direttamente a questi organi il rilevamento di indizi di crisi. Tuttavia, tale sistema è stato di fatto sospeso e non è entrato in funzione; il legislatore, con le modifiche post-Covid, ha preferito un approccio più soft: l’allerta avviene tramite le lettere dei creditori pubblici e la soluzione è lasciata all’iniziativa volontaria dell’imprenditore (composizione negoziata). Non c’è dunque oggi un obbligo di legge di denunciare la crisi al tribunale appena emergono squilibri, ma resta il dovere fiduciario degli organi sociali di agire correttamente. I sindaci o revisori, se presenti, in presenza di segnali di allarme devono sollecitare gli amministratori ad attivarsi e possono autonomamente informare il tribunale in casi estremi (ex art. 2409 c.c. per gravi irregolarità). Il Decreto correttivo 2024 ha precisato che anche i revisori unici hanno gli stessi obblighi di vigilanza dei collegi sindacali in tema di allerta . Dunque c’è un effetto a cascata: chiunque, all’interno dell’organizzazione societaria, rilevi la crisi, deve battere un colpo. In caso contrario, anch’egli potrà essere chiamato in causa (si pensi ai sindaci negligenti che non hanno fatto nulla: potranno essere corresponsabili coi gestori).

In sintesi, quando emergono segnali di crisi conclamata (perdita di capitale, insoluti, lettere dei creditori pubblici, ecc.), l’imprenditore o gli amministratori della rivista hanno l’obbligo morale e legale di reagire. Le possibili mosse variano: può essere opportuno rivolgersi tempestivamente a professionisti (un advisor finanziario, un avvocato d’impresa) per predisporre un piano, valutare se ci sono le condizioni per la composizione negoziata della crisi (strumento introdotto nel 2021), oppure – se la situazione è già compromessa – preparare un’ordinata istanza di concordato preventivo (anche con riserva) o di liquidazione giudiziale anticipata, prima che i creditori escano fuori controllo. Agire proattivamente può salvare l’azienda, o quantomeno ridurre i danni e garantire un trattamento più benevolo all’imprenditore in termini di responsabilità postume. Al contrario, attendere inerti sperando in un miracolo finanziario quasi mai paga: il rischio è subire un fallimento caotico su istanza altrui, magari nel mezzo di azioni esecutive disordinate, perdendo ogni margine di manovra.

Strumenti per gestire e risolvere la crisi debitoria

Quando la rivista locale si trova schiacciata dai debiti, quali opzioni concrete ha a disposizione il debitore per venirne fuori o quantomeno limitare i danni? Il panorama attuale offre un ventaglio di strumenti, che vanno dalle soluzioni stragiudiziali informali (accordi privati, piani di rientro) fino alle procedure concorsuali formali previste dalla legge (accordi omologati, concordati preventivi o “minori”, liquidazione giudiziale, sovraindebitamento). In mezzo, si collocano meccanismi ibridi come la composizione negoziata (procedura assistita ma volontaria) introdotta di recente. Di seguito esaminiamo i principali strumenti di difesa e ristrutturazione del debito dal punto di vista del debitore, evidenziando per ciascuno quando è opportuno usarli, i vantaggi e i limiti. (Una sintesi comparativa è anche riportata nelle tabelle riepilogative finali).

Approcci stragiudiziali informali

Prima di coinvolgere tribunali o esperti esterni, un imprenditore indebitato può tentare la strada di accordi privati con i propri creditori. Questa categoria comprende tutte le iniziative volontarie e negoziali che il debitore può intraprendere autonomamente per risolvere la crisi, senza attivare alcuna procedura pubblica. Ne sono esempi:

  • Piani di rientro bilaterali: il debitore concorda con ciascun creditore una dilazione del debito. Ad esempio, promette al fornitore di pagare €1.000 al mese finché l’arretrato di €12.000 sarà estinto in un anno. Tali accordi possono essere formalizzati per iscritto (magari con l’intervento di un legale) e spesso prevedono che, se il debitore rispetta il piano, il creditore rinuncia a interessi di mora o azioni legali. È importante che il piano sia realistico: meglio promettere meno e rispettare, che fare il passo più lungo e saltare di nuovo la scadenza.
  • Accordi di saldo e stralcio: come già accennato, il creditore accetta un pagamento ridotto a chiusura totale del debito. Questo richiede che il creditore sia convinto che, senza stralcio, rischia di non vedere nulla (ad esempio percepisce che il debitore potrebbe fallire). Per la rivista, è un’ottima soluzione quando riesce a reperire liquidità limitata (es. un finanziamento da un parente) da offrire in transazione tombale. Fondamentale mettere tutto per iscritto: il creditore di solito firma una quietanza dove dichiara di ricevere €X a saldo di €Y dovuti, e di non aver più nulla a pretendere. Così il debitore si libera definitivamente di quella pendenza.
  • Consolidamento del debito: se i creditori sono pochi e ben identificati, il debitore può provare a riunirli attorno a un tavolo e proporre un accordo collettivo. Non è una procedura formale, ma un patto plurilaterale. Ad esempio, la rivista può dire: “Cari 5 creditori (tipografo, banca, fornitore carta, ecc.), ecco la mia situazione; propongo di pagare tutti voi al 40% in 24 mesi, e in cambio tutti rinunciate al restante 60% e a fare azioni esecutive”. Se tutti accettano, si redige un accordo transattivo firmato da tutti. Questo è impegnativo – serve unanimità o comunque accordo individuale con ciascuno – ma quando ci si riesce, evita procedure costose e risolve in blocco la crisi. La difficoltà sta nel coordinare gli interessi diversi: ciascun creditore potrebbe avere preferenze differenti (es. la banca vuole più garanzie, il fornitore vuole percentuale maggiore, ecc.). Spesso serve un mediatore (un advisor finanziario) per costruire la proposta.
  • Ristrutturazione del debito bancario assistita: a livello stragiudiziale, esiste la figura del piano attestato di risanamento (ex art. 67 L.F., ora art. 56 CCII). È un documento redatto dall’azienda con un esperto indipendente che attesta la fattibilità del piano. Non è omologato in tribunale ma se pubblicato al Registro Imprese offre protezione da azioni revocatorie (i pagamenti effettuati secondo piano non verranno revocati in caso di successivo fallimento) . Questo strumento è utile se la rivista ha soprattutto debiti finanziari con banche, poiché spesso le banche aderiscono a piani attestati che garantiscano loro una ristrutturazione sostenibile (ad es. allungamento delle scadenze e nuovi covenants). Il piano attestato è però complesso da redigere e richiede la collaborazione di un professionista attestatore e la trasparenza totale sui dati aziendali.
  • Negoziazione assistita o mediazione civile: in alcuni casi, per evitare cause, ci si può avvalere di procedure ADR. Ad esempio, proporre una mediazione civile in Camera di Commercio con i creditori per trovare un accordo, oppure avviare trattative tramite scambio di proposte con l’assistenza di avvocati. Questi percorsi non aggiungono nulla di specifico rispetto a un accordo privato, se non la presenza di un terzo neutrale (il mediatore) che può facilitare il dialogo.

I vantaggi degli approcci stragiudiziali: rapidità, riservatezza, flessibilità. Non c’è pubblicità (nessuno saprà ufficialmente della crisi, salvando la reputazione, almeno fintanto che i creditori collaborano), si evitano costi di procedura e il controllo giudiziario, e soprattutto si mantiene il controllo totale della situazione. Inoltre, nel caso del piano attestato, si ottiene un beneficio legale (protezione da revocatoria) senza dover coinvolgere tutti i creditori – basta convincere i principali. D’altro canto, i limiti di questo approccio sono evidenti: basta un solo creditore importante che non aderisce, e l’intera strategia salta. Non vi è modo di obbligare i dissenzienti a rispettare l’accordo (come invece accade con un concordato omologato). Inoltre, non c’è un meccanismo automatico di stop alle azioni esecutive: se sto trattando amichevolmente ma uno decide di pignorare, devo gestirlo con urgenza (salvo accordarsi per una moratoria volontaria). Insomma, l’accordo privato funziona bene in crisi moderate, con pochi creditori informati e ragionevoli, e magari quando la crisi è ancora all’inizio e si può ragionare senza il fiato sul collo di aste giudiziarie o similari. Se invece la crisi è avanzata, o i creditori sono tanti e litigiosi, occorre uno strumento più strutturato.

Composizione negoziata della crisi d’impresa

Cos’è: la composizione negoziata è uno strumento introdotto nel 2021 (D.L. 118/2021 convertito in L. 147/2021, ora confluito negli artt. 17-25 CCII) per favorire la ristrutturazione precoce delle imprese in difficoltà, evitando di arrivare al fallimento . Si tratta di una procedura volontaria e riservata: l’imprenditore in crisi chiede la nomina di un esperto indipendente che lo assista nel tentativo di raggiungere un accordo con i creditori. La composizione negoziata non è una procedura concorsuale formale: non c’è spossessamento dei beni né intervento diretto del tribunale sull’amministrazione ordinaria, e l’azienda continua ad operare sotto la guida dell’imprenditore. L’esperto (di solito un commercialista o avvocato con specifica formazione) ha il compito di facilitare le trattative tra debitore e creditori, aiutando le parti a individuare una soluzione che scongiuri l’insolvenza definitiva.

Quando attivarla: la composizione negoziata è adatta alle situazioni in cui l’impresa è in crisi incipiente o reversibile, cioè esistono problemi di liquidità o squilibri patrimoniali ma si ritiene che, con opportune misure, l’azienda sia salvabile. Ad esempio, la rivista locale che ha accumulato debiti perché ha perso un grande inserzionista ma sta sviluppando nuovi ricavi digitali: c’è un gap temporaneo da gestire, ma prospettive di recupero. Se i creditori sono non troppo ostili e si fidano ancora del debitore, la composizione negoziata può offrire quel contesto protetto per rinegoziare esposizioni e magari reperire finanza fresca. Importante: l’azienda non dev’essere già irrimediabilmente insolvente; se mancano totalmente prospettive di risanamento, meglio andare direttamente al concordato o liquidazione. La composizione negoziata si può attivare anche prima che la crisi diventi conclamata (anzi, sarebbe l’ideale – in approccio “preventivo”).

Come funziona: l’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma online nazionale (su sito Camere di Commercio). Dev’essere allegata una relazione sulla propria situazione economico-finanziaria e le cause della crisi, oltre ad alcuni documenti contabili. Entro pochi giorni, la Commissione nomina un esperto e fissa un primo incontro. Da quel momento parte un periodo di negoziazione (massimo 6 mesi, prorogabile a 12) durante il quale l’esperto convoca debitore e creditori per esplorare possibili accordi. Tutto avviene in maniera confidenziale: gli incontri non sono pubblici e non c’è iscrizione immediata al Registro Imprese (salvo si chiedano misure protettive, v. infra). L’esperto redige verbali e cerca un punto di equilibrio tra le parti, ma non può imporre nulla – non ha poteri autoritativi, solo di mediazione.

Strumenti di supporto: durante la composizione negoziata, il debitore può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive (art. 20 CCII) ossia uno standstill: in pratica un decreto che sospende o vieta l’inizio di azioni esecutive da parte dei creditori e blocca eventuali istanze di fallimento . Questa è una differenza chiave rispetto all’accordo puramente informale: se accordato, il provvedimento del tribunale protegge il patrimonio durante le trattative (di norma per 120 giorni rinnovabili). Il debitore può anche ottenere autorizzazioni urgenti, ad esempio di contrarre finanziamenti prededucibili (che verranno cioè rimborsati con priorità) per sostenere l’attività nel frattempo. Inoltre, se vi sono contratti pendenti essenziali (es. fornitura di energia, locazione), può chiedere misure per mantenerli nonostante i debiti pregressi (evitando disdette).

Esito: la composizione negoziata può concludersi in vari modi. Idealmante con un accordo stragiudiziale tra debitore e creditori che risolve la crisi (ad esempio, un accordo transattivo plurilaterale con riduzione dei debiti, oppure singoli accordi bilaterali raggiunti grazie all’esperto). In alternativa, se le trattative riescono solo parzialmente, il debitore potrebbe optare per una “procedura concorsuale semplificata”: il nuovo Codice infatti consente, se la composizione negoziata fallisce ma l’esperto attesta che esistono prospettive di miglior soddisfacimento dei creditori, di accedere entro 60 giorni a un concordato semplificato per la liquidazione (art. 25-sexies CCII) senza passare dal voto dei creditori. Oppure, può presentare un concordato preventivo ordinario o un accordo di ristrutturazione formale da omologare (sfruttando magari le informazioni raccolte durante le trattative). Se invece nulla di positivo emerge, la procedura semplicemente si chiude senza esito: l’esperto scrive una relazione finale constatando l’insuccesso. La chiusura viene pubblicata al Registro Imprese, e a quel punto i creditori possono di nuovo agire liberamente (anzi, l’esperto se rileva insolvenza deve segnalarlo al tribunale).

Vantaggi della composizione negoziata: consente di guadagnare tempo e di esplorare soluzioni flessibili senza la rigidità di una procedura concorsuale. È riservata, quindi la reputazione dell’azienda subisce meno danni (nessun allarme pubblico finché non si chiedono misure al tribunale, e anche in quel caso si tratta di atti tecnici). Permette di ottenere moratorie legali (stop ai pignoramenti) senza dover subito portare i libri in tribunale: questo è prezioso quando c’è bisogno di un “time-out” per contrattare. Inoltre, attivare la composizione negoziata è visto come indice di buona fede: se poi l’azienda fallisce comunque, il fatto di aver tentato questa via potrà essere valutato positivamente (non a caso l’art. 4 D.Lgs. 14/2019 prevede esimenti di responsabilità per chi ha agito per tempo). Non c’è l’obbligo di concludere un accordo: il debitore può interrompere se vede che non si cava un ragno dal buco, e adottare altre strategie . Durante la procedura, i dati comunicati restano confidenziali (i creditori non possono usarli in seguito contro il debitore) . Insomma, è un tentativo a rischio contenuto: male che vada, si torna al punto di partenza, ma con maggiore consapevolezza e avendo eventualmente rallentato i creditori per qualche mese.

Limiti della composizione negoziata: l’esito utile non è garantito – dipende dalla volontà dei creditori. Se alcuni sono intransigenti o se la fiducia nel debitore è compromessa, l’esperto potrà far poco. La durata è limitata (6 mesi prorogabili a 12): se non si risolve in quell’arco, occorre passare ad altro. Inoltre, non produce effetti vincolanti verso chi non vuole aderire: un creditore che rifiuti ogni proposta resterà estraneo e potrà alla fine agire. La composizione negoziata è quindi indicata quando si intravede fattibilità di un accordo e la maggioranza dei creditori è ragionevole. Non è la panacea universale: è uno spazio di mediazione istituzionalizzato. Se la rivista locale ha principalmente debiti verso il Fisco e l’INPS, ad esempio, potrebbe essere complicato concludere qualcosa in sede di composizione negoziata, perché tali enti tendono a preferire soluzioni formali (concordato con transazione fiscale). Invece, se i debiti sono verso fornitori, banche e pochi soggetti, la composizione negoziata può davvero portare a un piano di ristrutturazione concordata senza passare dal tribunale.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (omologati in tribunale)

Accanto al concordato preventivo (di cui si dirà sotto), la legge prevede la possibilità per l’imprenditore di concludere un accordo di ristrutturazione con una parte dei creditori e di chiederne l’omologazione al tribunale (artt. 57-64 CCII, che riprendono l’art. 182-bis l.fall.). Questo strumento ha natura mista: l’accordo nasce come contratto privato tra debitore e creditori, ma acquistando efficacia legale erga omnes a seguito dell’omologazione.

Requisiti principali: il debitore deve aver raggiunto un consenso con creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali . La percentuale è calcolata sul valore dei crediti e comprende solo quelli aderenti. I creditori estranei, invece, restano fuori e devono essere pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologa (se già scaduti) o dalle rispettive scadenze . Questo è un vincolo importante: non posso omologare un accordo se prevedo di non pagare al 100% un creditore estraneo. L’accordo, insieme a tutti i documenti contabili e a una relazione di un professionista indipendente che attesta veridicità dei dati e fattibilità del piano, viene depositato in tribunale . Il tribunale, valutate le carte e le eventuali opposizioni di creditori dissenzienti, emette il decreto di omologazione che rende l’accordo vincolante per le parti e non impugnabile (salvo reclamo in Corte d’Appello).

Effetti dell’omologazione: l’accordo omologato vincola solo i creditori aderenti (quelli che hanno firmato) . I creditori non aderenti, come detto, devono comunque essere soddisfatti per intero entro breve termine. L’utilità dell’omologa sta nel fatto che, una volta omologato, l’accordo non può essere attaccato dai creditori estranei: costoro non potranno, ad esempio, chiedere il fallimento del debitore sulla base di crediti rientranti nell’accordo, se l’accordo prevede il loro pagamento integrale nei termini di legge. Inoltre gli atti esecutivi compiuti in esecuzione dell’accordo sono esenti da revocatoria fallimentare e non costituiscono reato di bancarotta preferenziale o altro . In pratica l’ordinamento “benedice” quell’accordo e tutela i pagamenti fatti secondo esso.

Differenze rispetto al concordato: l’accordo di ristrutturazione è molto più snello: coinvolge solo i creditori che il debitore è riuscito a convincere (minimo 60%). Non c’è un voto formale in classi come nel concordato; è più simile a una transazione collettiva, verificata dal tribunale quanto a regolarità e convenienza per estranei. È confidenziale (anche se la domanda di omologa è pubblica) e spesso più rapido nell’iter. L’accordo può essere raggiunto anche solo con alcuni creditori (es. solo le banche che hanno il 60% del debito): gli altri vanno pagati cash ma almeno non partecipano alle trattative. Per la rivista locale, potrebbe ad esempio essere un’opzione se qualche grande banca e fornitore strategico (sommando almeno 60%) accettano un piano di ristrutturazione, e i restanti piccoli creditori vengono soddisfatti integralmente (magari con l’aiuto di finanziamenti derivanti proprio dall’accordo con i principali). Inoltre, esistono varianti: l’accordo di ristrutturazione agevolato (introdotto nel 2022) consente di omologare con percentuali minori per alcune categorie di creditori finanziari, e l’accordo ad efficacia estesa può estendere gli effetti a creditori dissenzienti della stessa categoria se certi requisiti sono soddisfatti (utile per coinvolgere tutte le banche anche se qualcuna dissente, ad es. se il 75% aderisce si può chiedere al giudice di estendere alle restanti, art. 61 CCII) .

Quando utilizzarlo: l’accordo di ristrutturazione conviene quando l’azienda è fondamentalmente vitale e ha l’appoggio della maggior parte dei creditori principali, ma magari vuole evitare la complessità del concordato preventivo (che richiede coinvolgere tutti i creditori e soglie di voto differenti). Se la rivista ha uno o due grossi creditori (es. due banche detengono insieme il 70% dei debiti) e molti creditori minori, potrebbe preferire un accordo con quelle due banche – convincendole a ridurre o allungare il debito – e reperire la liquidità per pagare tutti gli altri al 100%. Così salva la continuità senza dover passare per un lungo concordato con votazioni.

Vantaggi: flessibilità – si disegna su misura con i creditori chiave; rapidità – l’omologa può arrivare in pochi mesi se non ci sono molte opposizioni; limitato impatto reputazionale – anche se pubblicato, è percepito come un accordo volontario più che una procedura concorsuale (meno stigma); e come detto, protezione legale per atti esecutivi e rispetto dei termini per estranei (niente revoche, niente azioni individuali durante l’omologa in corso, etc.) .

Svantaggi/limiti: bisogna raggiungere il 60% di consensi, altrimenti non si parte nemmeno. Inoltre, i creditori estranei restano da pagare integralmente – se la rivista ha tanti piccoli creditori e non ha soldi per pagarli subito, l’accordo non regge (diversamente, nel concordato si potrebbero falcidiare anche loro previa voto). Ancora, durante l’omologazione (dalla pubblicazione al Registro imprese alla decisione) c’è un periodo in cui i creditori possono fare opposizione e il giudice deve valutare: c’è quindi un po’ di incertezza e tempo. Non è uno strumento per situazioni disperate: serve comunque liquidità sufficiente a garantire i creditori fuori accordo. In caso di esito negativo (mancata omologa per opposizione accolta o revoca su ricorso), l’imprenditore si troverebbe esposto di nuovo alle azioni (anche se in tal caso può ripiegare su un concordato).

In sintesi, l’accordo di ristrutturazione è un’opzione di soluzione negoziale “forte” che, per imprese con un numero gestibile di creditori e un supporto già acquisito da parte loro, consente di evitare la procedura concorsuale completa. È un’alternativa “light” al concordato quando c’è sufficiente accordo fuori dal tribunale. Una rivista locale lo utilizzerebbe probabilmente in uno scenario in cui un gruppo ristretto di creditori (es. banche e fornitori principali) è disposto a sostenere un piano di risanamento dell’azienda, mentre per gli altri debiti minori c’è la possibilità di pagamento cash (magari grazie a nuove risorse portate dall’editore o da investitori).

Concordato preventivo (e “concordato minore”)

Il concordato preventivo è la più nota procedura concorsuale di regolazione della crisi alternativa al fallimento. Consiste in un piano proposto dal debitore e sottoposto all’approvazione dei creditori e all’omologazione del tribunale, volto a soddisfare i crediti in modo concordato, evitando la liquidazione giudiziale. Con l’entrata in vigore del CCII, esistono due varianti principali: il concordato preventivo per le imprese soggette a fallimento (ossia quelle non piccole) e il concordato minore (artt. 74-83 CCII) destinato ai debitori non soggetti a liquidazione giudiziale e ai piccoli imprenditori “sotto soglia” . Per la nostra rivista locale, che potrebbe essere una piccola s.r.l. o ditta individuale, il concordato minore è la controparte del vecchio “accordo di composizione della crisi” della legge sul sovraindebitamento . Le regole base però sono simili: il debitore propone un certo trattamento per i creditori (ad esempio una percentuale di soddisfo, eventualmente diversa per classi di creditori) e, se la maggioranza dei creditori approva e il tribunale verifica la fattibilità e legalità, il piano viene omologato ed eseguito sotto controllo.

Concordato in continuità aziendale: se la rivista intende proseguire l’attività, magari ridimensionata ma non liquidarla, può presentare un concordato in continuità. Ciò presuppone che esista un piano industriale credibile: ad esempio, ristrutturare la testata, ridurre costi, trovare nuovi soci, e utilizzare i profitti futuri per pagare i creditori in percentuale. I vantaggi di questa soluzione: l’impresa sopravvive, salvando l’avviamento, i posti di lavoro e il valore “editoriale” della testata (che altrimenti in caso di chiusura si disperderebbe). Dal lato dei creditori, è spesso vantaggioso se l’azienda può generare flussi: accettano un taglio del credito (es. 40%) pur di consentire all’azienda di restare viva e poterli pagare nel tempo il concordato. Il CCII ha introdotto maggiore flessibilità su questo fronte: oggi è possibile proporre la moratoria fino a 2 anni per i creditori privilegiati nel concordato in continuità ; inoltre sono ammessi (entro limiti) anche pagamenti parziali ai privilegiati se il piano li giustifica e ne dimostra la convenienza (non c’è più la soglia fissa del 20% ai chirografari come un tempo, ma il rispetto del best interest test). Importante: in un concordato in continuità, il debitore può anche ottenere autorizzazione a finanziamenti prededucibili e a contratti ponte per gestire l’azienda durante la procedura, evitando l’interruzione dell’attività. Questo è stato cruciale nel 2020-2021, ad esempio, quando molte imprese in concordato usavano la continuità per traghettare oltre la crisi pandemica.

Concordato liquidatorio: viceversa, se non ci sono possibilità concrete di risanamento dell’impresa, si può optare per un concordato avente ad oggetto la mera liquidazione dei beni. In pratica, il debitore propone di vendere tutto il patrimonio (o asset specifici) e ripartire il ricavato fra i creditori secondo una certa percentuale, offrendo magari qualche beneficio in più rispetto al fallimento (tempi più rapidi, costi minori, ecc.). Un concordato liquidatorio tradizionale richiede, di regola, di garantire almeno il 20% ai chirografari (salva sempre la regola del best interest test) . Se tale soglia non è raggiungibile, il tribunale non omologa. Oggi, grazie all’implementazione della Direttiva Insolvency, il criterio principale resta dimostrare che i creditori non riceverebbero di meno di quanto otterrebbero in caso di liquidazione fallimentare. La particolarità introdotta dal D.L. 118/2021 è il concordato semplificato per la liquidazione: se una composizione negoziata è fallita, l’imprenditore può chiedere al tribunale di omologare un concordato liquidatorio senza votazione dei creditori . In questo caso, i creditori possono solo fare osservazioni/opposizioni ma non votano: decide il tribunale se omologare, valutando l’interesse dei creditori. È una via straordinaria pensata per evitare il fallimento quando comunque si è tentata la negoziazione e c’è un attivo da liquidare in modo concordato. Nel concordato semplificato, l’esito è meno prevedibile (il giudice deve bilanciare varie cose e i creditori possono opporsi), ma può essere utile se i creditori sono troppi e non coordinabili per un voto, ma l’operazione proposta è chiaramente vantaggiosa rispetto al fallimento.

Procedura e votazione: il concordato (preventivo o minore) si avvia con un ricorso in tribunale. Il debitore può anche depositare un ricorso “in bianco” (concordato con riserva) per bloccare subito le azioni e poi presentare il piano entro 60-120 giorni. Una volta ammesso, il tribunale nomina un commissario giudiziale e si forma la lista dei creditori. Il piano viene comunicato ai creditori, che votano (per classi se previste) in adunanza o per corrispondenza. Serve la maggioranza dei crediti ammessi al voto (in valore) per l’approvazione. Se ci sono classi e qualcuna vota contro, è possibile omologa lo stesso col cram-down se il concordato è in continuità o se rispetta certe condizioni di meritevolezza e convenienza per i dissenzienti (il CCII ha introdotto regole di cram-down di classe anche senza il voto di tutte le classi, per evitare blocchi) . Ad esempio, dal 2024 è possibile imporre il concordato in continuità anche a classi dissenzienti se il giudice ritiene che non sarebbero soddisfatte meglio altrove (best interest). Nel concordato minore le regole di voto sono simili ma adattate: se il debitore è un non fallibile, il concordato minore richiede comunque il voto dei creditori (tranne i casi di esdebitazione del consumatore di cui diremo).

Effetti per il debitore: con l’omologazione del concordato, il debitore (persona giuridica) esegue il piano e, una volta eseguito, ottiene l’esonero dai debiti residui verso i creditori anteriori (discharge). In altre parole, ciò che non è pagato per effetto del piano viene cancellato. Per le società, ciò comporta poi la chiusura se era liquidatorio, o la prosecuzione dell’attività ripulita dai debiti se era in continuità. Per l’imprenditore individuale, l’omologa e l’esecuzione del concordato danno luogo a esdebitazione allo stesso modo (lo vedremo meglio dopo). Durante la procedura, il debitore è sotto vigilanza del commissario e deve rispettare le autorizzazioni del tribunale per atti straordinari; ma in continuità, può conservare le redini dell’azienda (sia pure affiancato dal commissario). I creditori anteriori non possono agire individualmente (divieto di azioni esecutive) e i contratti pendenti proseguono secondo le regole date (il debitore può chiedere la sospensione o lo scioglimento di contratti e locazioni se utile, con autorizzazione).

Vantaggi del concordato: è uno strumento potentissimo di risanamento o liquidazione ordinata. Permette di tagliare i debiti (anche verso Fisco e INPS, grazie alla transazione fiscale/contributiva ), di cristallizzare la situazione (nessuno può fare azioni esecutive), di eventualmente reperire finanza interinale protetta, e di cancellare i debiti residui una volta completato. Inoltre, l’omologazione vincola tutti i creditori anteriori, anche se dissenzienti, garantendo quindi una soluzione collettiva e definitiva. Per l’imprenditore onesto, il concordato è la via per evitare le macerie del fallimento e ripartire pulito. Dal punto di vista occupazionale e sociale, salvare una rivista locale significa preservare un servizio informativo alla comunità e posti di lavoro: il concordato in continuità consente ciò, ed è incentivato dalla legge stessa. Ad esempio, nel concordato in continuità non è richiesto un soddisfo minimo del 20% ai chirografari, a differenza del liquidatorio (basta dimostrare che il piano è conveniente). Lo scopo è incoraggiare soluzioni che preservino il valore aziendale. Ulteriore vantaggio: con l’omologa, gli amministratori sono tendenzialmente esonerati da azioni di responsabilità dei creditori per fatti precedenti (a meno di malafede), poiché il concordato è un settlement generale. Infine, l’aver seguito la strada concordataria in modo diligente aiuta moltissimo ad evitare conseguenze penali: ad esempio, se emergono elementi di bancarotta semplice, aver tempestivamente chiesto il concordato può evitare l’accusa di ritardo nel fallimento.

Svantaggi: il concordato è una procedura complessa, costosa e di dominio pubblico . Bisogna predisporre una montagna di documenti (relazione attestatore, elenchi creditori, inventari), pagare spese di giustizia e compensi a commissari e attestatori; l’iter dura vari mesi (a volte anni per completare i pagamenti); l’azienda subisce inevitabilmente una perdita di reputazione (si viene a sapere in città che la rivista è “in concordato”, con quel che ne consegue sulla fiducia di fornitori e clienti). Inoltre, l’imprenditore perde parte dell’autonomia gestionale: ogni atto di un certo rilievo va autorizzato dal giudice delegato, e c’è un commissario che vigila e riferisce. In continuità, serve comunque finanza aggiuntiva per sostenere l’attività durante la procedura (che spesso dura 1-2 anni prima di omologa). Se l’azienda è priva di cassa, può essere un problema. Infine, c’è l’incognita del voto dei creditori: convincere la maggioranza non è scontato. Se la proposta non è valida o i creditori sono male organizzati, può venire bocciata, portando al fallimento. Con il CCII alcuni meccanismi sono più favorevoli al debitore (ad esempio, possibili cram-down su classi dissenzienti, voto silente considerato favorevole in certe condizioni, ecc.), ma resta il fatto che è una procedura collettiva e democratica – il destino del debitore è in mano ai creditori.

Il “concordato minore”: per completezza, va menzionato che i piccoli imprenditori sotto-soglia e i soggetti non fallibili (es. professionisti, enti non commerciali indebitati) non possono accedere al concordato preventivo standard, ma possono proporre un concordato minore . Esso è sostanzialmente l’equivalente dell’accordo di composizione delle crisi ex L.3/2012: serve la maggioranza dei crediti che aderisca e, se omologato, vincola tutti. I creditori votano (non i privilegiati se il piano non li tocca). Se il debitore è un consumatore, però, non può accedere al concordato minore – per lui c’è un istituto specifico (piano del consumatore) che vedremo. La differenza è che nel concordato minore vi è un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) nominato che assiste e sorveglia la procedura e fa relazione, come avveniva per la vecchia legge 3/2012 . I vantaggi e limiti sono analoghi al concordato preventivo, con l’unica eccezione che nel minore non si applicano le soglie di fallibilità e l’esdebitazione a fine procedura è direttamente connessa. Uno scenario tipico: ditta individuale editrice di un periodico, indebitata con banche e fornitori per 200k euro, propone ai creditori un concordato minore pagando il 30% grazie alla vendita di un macchinario e a qualche utilità futura, e mantiene l’attività in forma ridotta. Se i creditori approvano e il tribunale omologa, la ditta prosegue ed il titolare è esdebitato del residuo una volta eseguiti i pagamenti concordati.

Strumenti per i debitori non fallibili: sovraindebitamento, piano del consumatore e liquidazione controllata

Accanto al concordato minore, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) prevede altre procedure “minori” dedicate ai debitori civili, ai consumatori e a tutte le situazioni dove il debitore non è assoggettabile a liquidazione giudiziale (fallimento). Queste procedure derivano dalla vecchia Legge 3/2012 sul sovraindebitamento, integrata nel nuovo Codice. In breve, abbiamo:

  • Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (artt. 67-73 CCII): riservato ai consumatori, cioè persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale. È l’evoluzione del vecchio “piano del consumatore”. Consente al consumatore sovraindebitato di proporre un piano di pagamento parziale dei debiti, senza bisogno di consenso dei creditori – decide solo il giudice sull’omologazione, valutando la meritevolezza del debitore (che non deve aver assunto debiti con colpa grave o frode) . I creditori quindi non votano (possono solo fare osservazioni). Questo strumento è utilissimo per, ad esempio, l’editore persona fisica che abbia debiti privati (mutuo casa, finanziamenti personali) o anche debiti di impresa cessata che però lo hanno travolto come persona (garanzie escusse, ecc.), purché i debiti siano prevalentemente di natura personale. Se l’editore può qualificarsi consumatore (es. ha chiuso la partita IVA e i debiti residui sono in gran parte personali), può accedere a questo piano. Novità recente: la Cassazione (ord. n. 9549/2025) ha chiarito definitivamente che nel piano del consumatore il giudice può omologare anche se il piano prevede moratorie oltre un anno o tagli su crediti privilegiati, senza bisogno di voto dei creditori – confermando la natura giurisdizionale e non negoziale di tale procedura . Ciò tutela il diritto del debitore meritevole alla seconda chance, affidando al tribunale il bilanciamento tra creditori e dignità del debitore, senza dare potere di veto ai singoli creditori . Quindi, un consumatore potrà anche proporre di pagare solo il 10% ai chirografari e nulla agli eventuali crediti privilegiati se è incapiente, e se il giudice ritiene la proposta equa e il debitore meritevole, la omologherà comunque (casi estremi, ma possibili specialmente con la nuova esdebitazione di cui sotto).
  • Concordato minore (già trattato): destinato ai debitori non fallibili diversi dal consumatore – quindi piccoli imprenditori, start-up innovative non fallibili, enti non profit, ecc. . Serve il voto dei creditori (maggioranza del 50% dei crediti), a differenza del piano del consumatore. Ottenuta l’omologa, produce gli effetti esdebitatori come un concordato.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 CCII): è l’equivalente del vecchio procedimento di “liquidazione del patrimonio” ex L.3/2012. In pratica, il debitore sovraindebitato (consumatore o piccolo imprenditore, o anche società non fallibile) può chiedere al tribunale la liquidazione di tutti i suoi beni (tranne quelli impignorabili per legge) per soddisfare i creditori sotto la guida di un liquidatore nominato. Questa procedura è simile a un fallimento, ma con costi e formalità ridotte e tarata su realtà minori. Al termine della liquidazione, se il debitore è persona fisica, può ottenere l’esdebitazione dei debiti rimasti non pagati (come avviene nel fallimento). La liquidazione controllata può essere richiesta anche d’ufficio quando un piano o un concordato minore falliscono o vengono revocati.
  • Esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII): questo è un istituto particolare introdotto di recente (prima nella L.3/2012 art. 14-quaterdecies con il “Decreto Ristori” del 2020, poi confermato nel CCII) . Consente al debitore persona fisica meritevole e privo di qualunque bene o reddito di ottenere la cancellazione di tutti i debiti residuali senza nessuna contropartita ai creditori . È la cosiddetta “esdebitazione a zero”, concessa una tantum. Il debitore incapiente deve dimostrare di non poter offrire ai creditori alcuna utilità nemmeno futura, e che la sua situazione di insolvenza non dipende da dolo o colpa grave. Se il tribunale accoglie l’istanza, emette un decreto che libera il debitore da tutti i debiti chirografari. È previsto che, nei 3 anni successivi, se il debitore beneficia di sopravvenienze attive rilevanti (es. eredità, vincite) debba destinarne almeno il 10% ai creditori, pena revoca dell’esdebitazione . In assenza di ciò, dopo 3 anni la fresh start diventa definitiva. Questo strumento è pensato per situazioni gravissime (il cosiddetto poor unlucky, ad esempio chi ha garantito debiti altrui e si trova nullatenente con valanghe di debiti). Nel contesto di una rivista locale, potrebbe applicarsi, ad esempio, all’editore che, escusso di tutte le garanzie e persi i beni, rimane con debiti personali ma senza redditi né patrimonio: può chiedere l’esdebitazione incapiente per ripartire da zero nella vita.

Importante distinguere il consumatore dall’imprenditore sotto-soglia: un soggetto è consumatore solo se i suoi debiti sono estranei ad attività d’impresa. Un editore individuale probabilmente non è consumatore rispetto ai debiti della rivista (sono debiti d’impresa), ma potrebbe esserlo per debiti personali (es. prestito per la casa). In linea generale, per i debiti d’impresa non fallibile si userà il concordato minore o la liquidazione controllata; per i debiti personali si userà il piano del consumatore o, se nulla da offrire, l’esdebitazione incapiente. La Cassazione del 2025 ha ribadito che un debitore sovraindebitato o è consumatore o non lo è – non esistono figure miste (nel dubbio, se ha anche un’attività, andrà nel concordato minore, salvo stralciare la parte consumeristica) .

Esempio pratico: supponiamo che l’editore Mario Rossi, persona fisica, abbia chiuso la sua ditta editoriale (non soggetta a fallimento) ma gli restino debiti per €200.000 (€50k con fornitori, €50k con banca per fido garantito da lui, €50k con Agenzia Entrate per IVA, €50k personali per mutuo casa e carta credito). Mario non ha immobili (casa in affitto) e ha solo un’auto vecchia e nessun risparmio. In questo scenario, Mario potrebbe chiedere la liquidazione controllata: tutti i suoi beni (auto) vengono liquidati e dopo procedura Mario ottiene l’esdebitazione integrale dei residui. Oppure, se Mario è nullatenente totale, potrebbe tentare direttamente l’esdebitazione ex art. 283 CCII, saltando la liquidazione (ottenendo la cancellazione dei debiti a zero). Se invece Mario ha qualche reddito (magari ha trovato lavoro come impiegato altrove), potrebbe proporre un piano del consumatore offrendo il suo stipendio per 4-5 anni ai creditori, tenendo per sé il minimo vitale, ottenendo l’omologa anche senza consenso dei creditori – a patto di essere meritevole. Notare che nel suo debito c’è IVA (€50k): questo in un piano del consumatore può essere falcidiata, e l’omologa non richiede transazione fiscale (i creditori fiscali non votano, decide il giudice considerando l’apporto possibile). Se però Mario avesse ancora l’attività attiva o volesse salvarla, dovrebbe ricorrere a un concordato minore: ad esempio, se la rivista potesse ancora generare qualcosa, Mario potrebbe proporre ai creditori d’impresa (fornitori, banca, Fisco) un concordato minore pagando il 30% con future entrate, e per i debiti personali (mutuo) potrebbe inserirli nel piano (se legati però all’attività non consumer, altrimenti li tiene fuori e tratta con la banca privatamente). Come si vede, la gamma di combinazioni è ampia, e qui l’OCC (Organismo Composizione Crisi) territoriale può aiutare a orientare il debitore verso lo strumento giusto.

Beneficio comune: l’esdebitazione – Tutte queste procedure di sovraindebitamento hanno come fine ultimo la liberazione del debitore onesto dai debiti che non è riuscito a pagare. È l’applicazione del principio del fresh start. Già con le norme attuali, dopo la chiusura di una liquidazione giudiziale (fallimento), se il debitore persona fisica ha cooperato e non ci sono irregolarità, il tribunale lo esdebita d’ufficio dopo 3 anni . Con il nuovo CCII questa esdebitazione di diritto è diventata la regola (salvo casi di frode). Nel sovraindebitamento vale lo stesso: a fine liquidazione controllata, l’esdebitazione è accordata. Nel concordato preventivo e minore, l’esdebitazione è conseguenza dell’omologa e dell’esecuzione del piano (i crediti falcidiati si intendono cancellati) . Infine l’esdebitazione dell’incapiente è uno strumento ancor più immediato. Si tenga presente che l’esdebitazione non copre alcuni debiti: in particolare, obblighi di mantenimento o risarcimenti per danni da illecito, e (in certi casi) le sanzioni penali o amministrative pecuniarie non vengono cancellate . Tuttavia, per la grande maggioranza dei debiti d’impresa (fornitori, banche, fisco, ecc.), l’esdebitazione è concessa. Ad esempio, un ex editore fallito, passati 3 anni dal fallimento, vede cancellati tutti i debiti residui non soddisfatti . Da quel momento i creditori non possono più avanzare pretese (a meno di scoprire che ha mentito sulla sua condotta, nel qual caso potrebbero chiedere la revoca dell’esdebitazione per dolo). Questa è una conquista del diritto recente: una volta, il fallito rimaneva debitore a vita per le somme non pagate, oggi non più (salvo eccezioni). Nel contesto di una rivista locale, ciò significa che l’imprenditore può davvero ripartire da zero dopo aver affrontato la crisi nella maniera corretta, senza rimanere per sempre con il peso di debiti irraggiungibili.

Strumenti di tutela del patrimonio personale del debitore

Un aspetto delicato, quando si ha una piccola impresa come una rivista locale, è la tendenza dei confini tra patrimonio aziendale e personale a sfumare. Molti editori hanno fornito garanzie personali (fideiussioni) alle banche o ai fornitori, oppure operano in forma di ditta individuale in cui non c’è separazione patrimoniale. Questo espone la casa di abitazione, i risparmi familiari e altri beni personali all’azione dei creditori dell’impresa. Esistono però alcuni strumenti legali per proteggere il patrimonio personale dagli effetti di debiti aziendali – con importanti avvertenze.

1. Separazione patrimoniale lecita: se l’attività è svolta in forma di società di capitali (es. s.r.l.), per definizione i soci non rispondono con il patrimonio personale delle obbligazioni sociali. Tuttavia, questa “barriera” salta nel momento in cui si prestano fideiussioni personali o si ipoteca un bene personale a garanzia di un debito sociale. Pertanto, uno step logico è: limitare il rilascio di garanzie personali. Se possibile, meglio far assumere i rischi alla società e non coinvolgere immobili di famiglia. Spesso però ciò non è possibile – le banche le richiedono come condizione.

2. Patti liberatori in sede di ristrutturazione: se ormai le garanzie personali sono state date, durante la ristrutturazione del debito è opportuno inserire clausole di liberazione del garante. Ad esempio, se la banca accetta un concordato con la società, chiedere che liberino la fideiussione dell’editore dopo che la società ha pagato una certa quota del dovuto . L’art. 48 CCII prevede proprio che l’omologazione del concordato libera i coobbligati (salvo patto contrario): sfruttare questa norma, concordando magari che al pagamento del 30% da parte della società, la banca rinunci a escutere il restante 70% al fideiussore. Questo spesso richiede di dare qualcosa in più ai creditori a fronte della liberazione, ma conviene farlo perché il garante si trova così sollevato (un esempio: offrire il 33% ai creditori chirografari invece che 30%, a condizione che liberino le garanzie personali – se accettano e il piano passa, il garante poi non deve più nulla) .

3. Trasferimenti a scopo protettivo: tecniche come il fondo patrimoniale o il trust familiare possono segregare alcuni beni rendendoli (in teoria) non aggredibili dai creditori aziendali. Ad esempio, l’editore può costituire un fondo patrimoniale su un immobile di proprietà destinandolo ai bisogni della famiglia: per legge, i creditori per debiti estranei ai bisogni familiari non possono pignorare i beni del fondo, salvo dimostrare la malafede . Tuttavia, va prestata molta attenzione: tali atti devono essere fatti tempestivamente (in bonis), ossia quando ancora non c’è uno stato di insolvenza conclamato, altrimenti i creditori potranno chiederne la revoca in quanto atto in frode. La giurisprudenza è severa: costituire un fondo patrimoniale quando i debiti erano già noti e scaduti può integrare addirittura reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte se il fine era evitare il Fisco , o comunque revocatoria civile da parte di qualsiasi creditore. Quindi, sì a strumenti di segregazione programmati con largo anticipo e motivazioni legittime (es. tutela del coniuge e figli), no a mosse dell’ultimo minuto “per mettere in salvo la barca” – in tal caso i giudici le annulleranno facilmente. Idem per il trust: un trust familiare può mettere al riparo certi beni destinandoli a scopi specifici, ma se fatto a ridosso del default aziendale verrà considerato trust in frode ai creditori e bersagliato (si pensi che l’art. 11 D.Lgs. 74/2000 punisce con reclusione 6 mesi-4 anni chi pone in essere atti simulati o fraudolenti sui propri beni per sottrarsi al pagamento di imposte >50k, con esempi tipici di costituzione di fondi patrimoniali o trust fittizi) .

4. Regime patrimoniale coniugale: talvolta si cerca riparo nella comunione dei beni o nel passaggio a proprietà del coniuge. Ad esempio, intestare la casa solo al coniuge non debitore. Questo può offrire scudo se i debiti sono solo dell’altro coniuge e l’acquisto del bene da parte del coniuge avviene in tempi non sospetti. Ma attenzione: se la casa era del debitore e la trasferisce al coniuge per eludere creditori, è palesemente revocabile. La comunione legale per legge esclude i beni ricevuti per successione o donazione e quelli di uso strettamente personale; inoltre i creditori del singolo coniuge possono aggredire i beni comuni limitatamente alla quota del coniuge debitore, ma la procedura è complicata e spesso li disincentiva. Quindi, sposarsi in comunione dei beni prima di contrarre debiti può complicare la vita ai creditori (perché mezzo bene è dell’altro coniuge). Anche qui però si naviga su confini etici/legali labili. Diciamo che non è una panacea, ma in qualche caso ha protetto consorti non debitori.

5. Impignorabilità di taluni beni: la legge rende impignorabili, ad esempio, le polizze vita non ancora scadute e i fondi pensione individuali. Spostare liquidità eccedente in una polizza vita o in un piano pensionistico potrebbe sottrarla ai creditori (entro certi limiti e se fatto in tempi non sospetti) . Ci sono però norme antifrode anche qui: se versi 100k in una polizza quando sei già insolvente, un curatore potrà farli recuperare. Ma accumulare risparmi in strumenti previdenziali durante gli anni “sani” mette una porzione di patrimonio al sicuro per davvero (nessuno potrà mai pignorare la pensione integrativa prima che venga erogata, e anche dopo, la pensione godrà delle stesse protezioni parziali dello stipendio).

6. Ipotecare beni a favore di creditori meno pericolosi: una strategia talvolta usata è costituire garanzie a favore di creditori “amici” su beni personali, cosicché i creditori “ostili” vengano scalzati. Esempio: l’imprenditore fa iscrivere ipoteca volontaria a favore di un parente su un suo immobile, in modo che la banca (chirografaria) non possa poi pignorarlo perché c’è un creditore ipotecario preminente (il parente). Questo genere di manovre è però a forte rischio revocatoria se fatte a ridosso della crisi (una ipoteca concessa per debito preesistente è revocabile entro 1 anno se il debito è chirografario originariamente). Diverso è se, come parte di una ristrutturazione concordata, la banca stessa accetta di sostituire la garanzia personale con altra garanzia reale su un bene (anche di terzi). Ad esempio: la moglie dell’editore che non era garante mette un’ipoteca su un immobile di sua proprietà in cambio della liberazione della fideiussione del marito . Questa “permuta” di garanzie può a volte convincere la banca a non aggredire altri beni e ridurre il debito residuo garantito del marito.

7. Costituzione di una newco e cessione dell’azienda: un’altra ipotesi di difesa del patrimonio (dell’impresa, più che personale) è trasferire l’attività buona ad una nuova società, lasciando i debiti nella vecchia destinata a fallire. Questa pratica è rischiosa: se fatta senza una procedura concorsuale, integra bancarotta fraudolenta (distrazione di beni) quando la vecchia società fallisce . Se invece si usa uno strumento legale (ad esempio un concordato con transazione in cui un terzo acquista l’azienda pagando un corrispettivo destinato ai creditori), allora può funzionare, ma serve trasparenza. Spesso nelle crisi editoriali si è visto fare un “spezzatino”: la testata e i beni vengono venduti a un soggetto nuovo, e i debiti restano in concordato/liquidazione nella vecchia società. È percorribile se la vendita avviene a valore di mercato e nell’ambito di una procedura approvata dai creditori (così non è fraudolenta). L’imprenditore magari continua con la newco come dipendente o consulente, salvando l’azienda e il suo lavoro, ma i creditori partecipano al ricavato della cessione.

In conclusione, la miglior tutela del patrimonio personale si attua prima della crisi, con una struttura societaria adeguata e evitando commistioni eccessive. Se la crisi è in atto, ci si può muovere ma con estrema cautela: ogni atto dispositivo rischia di essere impugnato dai creditori o dal curatore se peggiora la loro posizione. Un imprenditore disperato potrebbe essere tentato di fare “sparire” beni per salvarli: oltre a essere eticamente discutibile, è legalmente pericolosissimo (porta a bancarotta fraudolenta o al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento imposte, come già detto, punito dall’art. 11 D.Lgs. 74/2000) . Anche intestare i beni a terzi all’ultimo minuto è una pessima idea: i creditori possono agire con revocatoria entro 5 anni dagli atti a titolo gratuito o di trust/fondo, e in sede penale c’è pure l’arco di 5 anni prima del fallimento per valutare atti distrattivi . Quindi, la via maestra rimane quella “onesta”: usare le procedure concorsuali e le trattative per ottenere esdebitazione e liberazione di garanzie, piuttosto che sotterfugi illeciti.

Conseguenze giuridiche in caso di gestione scorretta: responsabilità e reati

Abbiamo più volte accennato alle responsabilità civili e penali che possono gravare sull’imprenditore (o sugli amministratori, se la rivista è gestita da società) qualora la crisi non venga affrontata correttamente. In quest’ultima sezione riepiloghiamo i principali profili:

Responsabilità civile verso i creditori: se gli amministratori di una società con autonomia patrimoniale hanno violato i doveri di conservazione dell’integrità patrimoniale, i creditori sociali possono agire contro di loro ex art. 2394 c.c. (per le spa) o 2476 c.c. (per srl) chiedendo il risarcimento del pregiudizio arrecato dal patrimonio insufficiente. Ciò tipicamente avviene a seguito di un fallimento: il curatore (che per legge esercita anche i diritti dei creditori danneggiati) promuove un’azione di responsabilità contro gli amministratori per aver aggravato il dissesto. Esempio: continuare ad operare e fare debiti quando ormai la società era decotta – violazione dell’art. 2486 c.c. che impone, in caso di perdita del capitale, di limitare l’attività solo a atti di ordinaria amministrazione. Il danno viene quantificato come la differenza tra patrimonio netto al momento in cui si sarebbe dovuto cessare e quello al fallimento, oppure l’incremento dei debiti in quel periodo. Queste cause sono frequenti e possono portare a condanne personali molto elevate. L’imprenditore individuale, dal canto suo, non ha lo schermo societario ma neppure amministratori terzi da chiamare in causa: risponde sempre con i suoi beni, però se è inadempiente resta l’esecuzione sui suoi beni (non c’è bisogno di un’azione di responsabilità separata).

Sanzioni per gli organi di controllo: se esiste un collegio sindacale o un revisore che non ha vigilato (ad esempio ha lasciato che gli amministratori tardassero il fallimento), anch’esso può essere chiamato in causa dal curatore per omessa vigilanza. Inoltre, come detto, i sindaci che non attivano strumenti di allerta o non intervengono su irregolarità gravi rischiano essi stessi di risponderne.

Interdizioni e altre conseguenze post-fallimentari: la dichiarazione di fallimento (liquidazione giudiziale) comporta per il fallito (persona fisica) alcune incapacità personali temporanee: ad esempio, la perdita del diritto di amministrare patrimoni altrui, di esercitare uffici direttivi in società, etc., per la durata della procedura. Dopo la chiusura, se ottiene l’esdebitazione, queste restrizioni cessano. Se invece non la ottiene (perché, ad esempio, gli viene revocata per frode), alcune incapacità civili potrebbero perdurare.

Reati fallimentari e tributari: li abbiamo in parte visti. Qui li riassumiamo in una tabella (Tabella B) con definizione, momento di consumazione e pene previste. In particolare, i reati tipici di un imprenditore in crisi sono:

  • Bancarotta fraudolenta patrimoniale: quando, prima o durante il fallimento, l’imprenditore distrugge, occulta, distrae o dissipa beni allo scopo di frodare i creditori . Ad esempio sparire la cassa, vendere macchinari sottocosto a un prestanome, pagare anticipatamente debiti verso persone vicine a scapito degli altri. Si consuma con la dichiarazione di fallimento (momento in cui si valuta il danno). È un reato doloso grave, punito con la reclusione da 3 a 10 anni (art. 322 CCII) . Eventuali attenuanti se l’ammanco è di particolare tenuità. Spesso, quando un fallimento rivela buchi inventariali o vendite anomale prefallimentari, la bancarotta fraudolenta è contestata.
  • Bancarotta fraudolenta documentale: l’imprenditore tiene i libri e le scritture contabili in modo da non rendere ricostruibile il patrimonio o li falsifica/sottrae . Esempi: doppia contabilità, libri spariti o distrutti, registrazioni fasulle. Anche qui si realizza con il fallimento (non è reato se non c’è fallimento). Pena 3 a 8 anni (art. 322 co.2 CCII) . Bastano irregolarità gravi nei conti a configurarla, anche senza ulteriore dolo specifico.
  • Bancarotta preferenziale: qui l’atto incriminato è aver eseguito pagamenti o dato garanzie a taluni creditori in stato di insolvenza, con volontà di favorirli rispetto agli altri . Ad esempio, pagare “di nascosto” un fornitore amico pochi giorni prima di fallire, lasciando gli altri a bocca asciutta. Si consuma con il fallimento ed è punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni (art. 323 CCII) . Se fatta con modalità fraudolente (es. simulazioni), diventa bancarotta fraudolenta a tutti gli effetti con pene maggiori. Questo reato è insidioso: un imprenditore in crisi che paga solo alcuni creditori (magari sotto pressione) potrebbe incorrerci anche senza voler “frodare”, essendo sufficiente il dolo generico di favorire uno rispetto ad altri. Quindi bisogna stare attenti: meglio far eventuali pagamenti in piano concordato che unilateralmente discriminatori.
  • Bancarotta semplice: ipotesi meno grave, a carattere colposo o di mala gestio senza frode. Include fatti come aver aggravato il dissesto con spese eccessive, aver ritardato la richiesta di fallimento per grave imprudenza, oppure non aver tenuto i libri in ordine (ma senza volontà di occultare) . Richiede almeno colpa grave. È procedibile d’ufficio con il fallimento ed è punita con pene più miti: reclusione fino a 2 anni (art. 324 CCII) . Ad esempio, l’editore che, pur in grosse perdite, ha continuato a investire in progetti faraonici aggravando il buco potrebbe risponderne come bancarotta semplice.
  • Reati tributari (omesso versamento IVA, ritenute): ne abbiamo parlato sopra. L’omesso versamento IVA > €250k per periodo d’imposta comporta reclusione 6 mesi-2 anni ; l’omesso versamento ritenute > €150k reclusione fino a 3 anni e multa . Entrambi evitabili con pagamento tardivo. Procedono a prescindere da fallimento.
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: art. 11 D.Lgs. 74/2000, punisce chi compie atti dispositivi sui propri beni al fine di evitare il pagamento di imposte (oltre €50k) . È quello che dicevamo: il classico caso di chi intesta tutto ai parenti o mette in fondo patrimoniale la villa quando ha debiti fiscali rilevanti. La pena è reclusione 6 mesi-4 anni. Non c’entra il fallimento, è un reato tributario che può essere contestato indipendentemente (e i creditori privati possono ottenere revocatorie civili analoghe). Nell’esempio della rivista locale, se l’editore appena riceve cartelle per 100k euro regala la seconda casa al figlio, potrebbe incorrere in questo reato.

Collaborazione con la giustizia e attenuanti: la legge prevede cause di non punibilità per alcuni reati se il debitore poi paga il dovuto (l’abbiamo visto per i reati di omesso versamento). Inoltre, se il fallito collabora col curatore consegnando documenti e informazioni, e il deficit è modesto, la bancarotta può essere ritenuta di particolare tenuità (attenuante). D’altro canto, circostanze aggravanti scattano se la bancarotta coinvolge somme ingenti o se commessa a danno di enti pubblici.

In conclusione, affrontare la crisi con trasparenza e legalità è fondamentale anche per evitare di incorrere in guai peggiori dei debiti stessi. Molti imprenditori si sono trovati, oltre alla perdita economica, anche a subire condanne penali e dover rispondere con quel poco che era rimasto a richieste risarcitorie. Pianificare per tempo (ad esempio attivando un concordato prima di compiere atti disperati) può salvare l’imprenditore dai reati: un concordato preventivo ben condotto evita che pagamenti preferenziali siano considerati reato, perché vengono fatti sotto autorizzazione e par conditio; consegnare subito i libri in caso di insolvenza evita l’accusa di tardivo fallimento e riduce i margini per contestare condotte distrattive (se i beni stanno tutti lì). In poche parole, comportarsi con correttezza, buona fede e rispetto delle regole è la miglior difesa: i creditori possono arrabbiarsi per aver perso soldi, ma se il debitore ha agito lealmente e ha utilizzato gli strumenti legali a disposizione, potrà almeno voltare pagina senza pendenze giudiziarie personali dopo la crisi.

Di seguito, per praticità, presentiamo alcune domande frequenti che un editore indebitato potrebbe porsi, con risposte sintetiche, e poi due tabelle riassuntive finali sugli strumenti di gestione crisi (Tabella A) e sui reati connessi (Tabella B).

Domande frequenti (FAQ)

Domanda: “La mia piccola S.r.l. editoriale è molto indebitata, ma è veramente piccola (fatturato sotto 200k). Posso essere dichiarato fallito (liquidazione giudiziale) per qualsiasi importo di debito?”
Risposta: No. La legge esclude la liquidazione giudiziale per imprese sotto certe soglie dimensionali (le cosiddette imprese minori) e con debiti modesti. In particolare, se nei tre esercizi precedenti la tua società non ha superato congiuntamente €300.000 di attivo, €200.000 di ricavi lordi annui e ha debiti inferiori a €500.000, è classificata come impresa minore dal Codice della crisi . Un’impresa minore non è soggetta a liquidazione giudiziale: i creditori non possono chiederne il fallimento ordinario. Resta però soggetta alle procedure di sovraindebitamento (concordato minore, liquidazione controllata). Inoltre, per qualunque impresa (anche non minore) vale la regola che non si fa luogo a fallimento se i debiti scaduti e non pagati sono meno di €30.000 . Questa soglia (introdotta dall’art. 15 LF, confermata nel CCII) significa che se devi in totale, poniamo, €20.000, nessun tribunale aprirà una liquidazione giudiziale – il creditore dovrà semmai usare l’esecuzione individuale. In sintesi: se la tua rivista è piccolissima e/o i debiti sotto 30k, la liquidazione giudiziale non è applicabile. Al più potresti essere soggetto a liquidazione controllata (più leggera) se ricorri tu o un creditore lo chiede. Conviene comunque affrontare i debiti con strumenti di composizione perché, pur non potendo fallire formalmente, resti esposto a pignoramenti e iniziative individuali.

Domanda: “Ho debiti con fornitori, banche e Fisco. È meglio tentare un accordo stragiudiziale con loro o avviare subito una procedura di concordato preventivo?”
Risposta: Dipende dalla gravità della situazione e dal rapporto con i creditori. In generale, conviene provare prima un accordo stragiudiziale se pensi di poter ottenere il consenso dei principali creditori in tempi rapidi . L’accordo privato (es. un piano di rientro o saldo e stralcio) ha il vantaggio di essere più veloce, riservato e meno costoso. Tuttavia, richiede che tutti i creditori fondamentali collaborino. Se ne hai pochi e sono disponibili (magari perché credono nella continuità della rivista o preferiscono evitare lungaggini), tenta la via negoziale privata. Al contrario, se i creditori sono molti o litigiosi, o se i debiti sono ingestibili senza un taglio significativo che alcuni potrebbero non accettare, allora un concordato preventivo (o concordato minore) offre un quadro legale che impone la soluzione a tutti una volta approvata a maggioranza . Inoltre, valuta il tempo a disposizione: se hai già decreti ingiuntivi o pignoramenti in arrivo, l’accordo stragiudiziale potrebbe non fare in tempo a fermarli (salvo ottenere accordi moratori volontari). Il concordato invece, con il deposito del ricorso, attiva lo stay automatico delle azioni esecutive. Diciamo che: se la situazione è ancora sotto controllo e vuoi evitare lo stigma del tribunale, prova con lettere e incontri con i creditori (magari assistito da un advisor); se invece sei a un passo dal baratro o temi che qualcuno agisca comunque (l’AdE, ad esempio, di rado aderisce a piani stragiudiziali), allora proteggiti subito depositando una domanda di concordato (anche in bianco) per congelare il quadro e poi negoziare dentro quella cornice. Spesso si segue proprio questa sequenza: tenti una composizione negoziata o trattative private; se funzionano, bene, altrimenti fai click e passi a concordato. Da notare: puoi anche depositare un ricorso di concordato con riserva per bloccare i creditori e poi, in quei 2-3 mesi di tempo, provare un accordo stragiudiziale; se riesce, revoci il concordato, se non riesce, prosegui con il concordato formale. Ovviamente questa è una strategia da valutare con l’avvocato, perché comporta costi extra, ma indica che le due vie non sono mutuamente esclusive. L’importante è non perdere tempo: se vedi che l’accordo privato non decolla e intanto la cassa peggiora, non aspettare l’ultimo giorno per ricorrere al tribunale, farlo tardi può pregiudicare anche il concordato.

Domanda: “Sono amministratore unico di una S.r.l. che pubblica una rivista locale ed è insolvente: rischio qualcosa personalmente se la società fallisce?”
Risposta: Potresti rischiare sia sul piano civile che su quello penale, ma ciò dipende dal tuo comportamento nella gestione. Civilmente, potresti essere chiamato a rispondere dei danni verso i creditori sociali se hai aggravato il dissesto con colpa grave o dolo. Ad esempio, se hai continuato l’attività accumulando debiti quando era chiaro che l’attivo non bastava (violando l’obbligo di conservare il patrimonio sociale), il curatore fallimentare potrebbe intentare un’azione di responsabilità contro di te per l’aggravamento dei debiti . Se invece hai gestito con normalità, senza colpi di testa e la crisi è dovuta a cause di mercato, in genere non ci sono basi per colpe gravi (la crisi in sé non è reato né illecito civile). Penalmente, i rischi maggiori sono legati ai reati fallimentari: se hai compiuto atti di distrazione di beni (es. ti sei intascato soldi della società, hai fatto sparire cespiti) oppure hai tenuto male le scritture contabili impedendo la ricostruzione, allora in caso di fallimento verrai probabilmente indagato per bancarotta fraudolenta . Se hai solo commesso imprudenze (es. tardato a chiedere il fallimento), potresti incorrere nella bancarotta semplice . Inoltre, come visto, se non hai versato IVA o ritenute sopra le soglie, c’è il rischio di procedimenti per omesso versamento . Tuttavia, se agisci correttamente ora, puoi ridurre questi rischi: attiva subito gli strumenti di composizione della crisi (concordato, ecc.), collabora pienamente con eventuali organi nominati (commissario giudiziale o curatore). Ad esempio, se porti i libri in tribunale spontaneamente e non hai toccato nulla, eviterai l’accusa di sottrazione di documenti. Se nel periodo antecedente hai privilegiato qualche creditore pagando solo lui, potrebbero contestarti la bancarotta preferenziale, ma se lo fai ora all’interno di un concordato autorizzato, non sarà reato. In sintesi: il mero fatto di essere amministratore di una società fallita non ti rende automaticamente punibile; la gran parte dei rischi derivano da atti illeciti (distrazioni, frodi) o da negligenza grave. Se hai dubbi su passate operazioni, preparati a giustificarle o rimedia (es. ricostruisci se possibile le scritture contabili). Un ultimo punto: se la società ha debiti verso l’Erario per IVA/ritenute non versate, il fallimento non ti esonera dalle eventuali sanzioni penali (quello è personale). Idem per reati come false comunicazioni sociali (se avessi falsificato bilanci, ecc.). Ma questi sono scenari specifici. In generale, attivati ora in modo trasparente – ad esempio con un concordato preventivo – e potrai dire di aver fatto il possibile per salvare il salvabile senza pregiudicare i creditori: questo atteggiamento spesso ti tiene lontano dalle condanne, o quantomeno attenua le posizioni.

Domanda: “Ho dato fideiussioni personali su mutui e fidi bancari della società: posso proteggere qualche bene personale se le cose vanno male?”
Risposta: Purtroppo le fideiussioni espongono direttamente il tuo patrimonio personale: se la società non paga, la banca potrà agire subito contro di te (pignorando stipendio, casa, conti privati, ecc.) . Ci sono però alcune mosse per limitare i danni:
Patti di liberazione nel piano: se negozi un accordo di ristrutturazione o un concordato per la società, inserisci la clausola che la banca libererà (o ridurrà) la tua fideiussione al verificarsi di certe condizioni . Ad esempio, proponi: “la società paga il 50% del debito, e contestualmente la banca rinuncia ad escutere il restante 50% ai garanti”. Se la banca accetta e si omologa l’accordo, sei a posto per quella quota. Nel concordato preventivo, puoi offrire qualcosa in più ai creditori in cambio della liberazione delle garanzie personali: è ammesso dalla legge, e se i creditori votano a favore, l’omologa li vincola . Quindi sfrutta il potere contrattuale che hai finché la banca vuole salvare almeno parte del credito, per farti liberare personalmente.
Strumenti protettivi anticipati: se ancora non ci sono debiti e vedi che la società inizia a indebitarsi, puoi mettere al riparo i beni personali importanti prima che sia troppo tardi. Ad esempio, la tua casa in un fondo patrimoniale (se hai una famiglia e giustifichi come tutela dei bisogni familiari) o in un trust. Oppure passare a comunione dei beni col coniuge se eri in separazione . Attenzione però: queste mosse devono avvenire quando ancora non ci sono debiti rilevanti con la banca, altrimenti possono essere revocate (o addirittura configurare reati, come la sottrazione fraudolenta ai creditori) . Se fatte con anni di anticipo e per motivi legittimi, i beni segregati potrebbero non essere aggredibili per debiti aziendali futuri (specialmente nel caso del fondo patrimoniale, se il credito è estraneo ai bisogni familiari; però sappi che le banche spesso contestano che il credito serve indirettamente anche alla famiglia – per cui l’efficacia del fondo non è assoluta).
Assicurazioni e previdenza impignorabili: considera di allocare parte dei risparmi in strumenti impignorabili come polizze vita o fondi pensione individuali . La legge li tutela dai creditori (entro limiti di congruità). Non è protezione totale, ma se un domani fallisci, la tua polizza vita rimane intoccabile (fino al riscatto). Non spostare tutto lì di colpo a ridosso della crisi, sennò è revocabile; ma se già hai delle polizze, mantienile.
Nuove garanzie per liberare le vecchie: se hai qualche bene libero (o un parente disposto ad aiutarti), potresti offrire alla banca una garanzia alternativa in cambio della liberazione della tua fideiussione . Ad esempio: “metto ipoteca su questo immobile di mia moglie, e la banca rinuncia alla fideiussione personale residua”. È una trattativa non standard ma a volte praticata: la banca ottiene un pegno reale e tu esci come garante. Serve collaborazione familiare e consenso della banca, però.
Esdebitazione personale: ricordati che se tutto precipita e la banca ti escute facendoti magari fallire come persona fisica, dopo la procedura potrai chiedere l’esdebitazione e ottenere un fresh start . Non è una protezione ex ante, ma un paracadute finale: non resterai debitore a vita. Insomma, nella peggiore delle ipotesi, dopo la tormenta legale, ti verranno cancellati i debiti residui.
Purtroppo, quando hai firmato fideiussioni, proteggere il tuo patrimonio è molto complicato se i debiti aziendali diventano insostenibili. L’ideale è negoziare con le banche subito un’uscita ordinata: ad esempio vendere volontariamente qualche bene per ridurre il debito garantito (così la fideiussione scende) e ristrutturare il resto con un accordo come sopra. Evita assolutamente di fare mosse tipo intestare a terzi beni all’ultimo minuto: la banca potrebbe agire con revocatoria o addirittura denuncia per frode ai creditori . Meglio giocare a carte scoperte con l’istituto e cercare un compromesso ragionevole.

Domanda: “Se attivo la composizione negoziata con un esperto, sono obbligato poi a concludere un accordo? Cosa succede se fallisco comunque dopo?”
Risposta: La composizione negoziata è volontaria e confidenziale. Non sei obbligato a concludere un accordo con i creditori: puoi interrompere le trattative se vedi che non portano a nulla, oppure se le condizioni offerte dai creditori sono inaccettabili . L’esperto al termine redigerà una relazione dove attesta l’esito (accordo riuscito, parziale o mancato). Se non si raggiunge un accordo, hai diverse opzioni:
– Puoi passare a una procedura concorsuale formale (es. presentare domanda di concordato preventivo, ordinario o il cosiddetto concordato semplificato per la liquidazione) .
– Oppure puoi lasciar decadere la procedura e valutare altre soluzioni (es. accordi bilaterali informali, o attendere eventuali iniziative dei creditori). Non c’è un obbligo legale di avviare il concordato dopo: la scelta è tua. Considera però che, se l’esperto conclude che l’impresa è insolvente e non si è trovato accordo, lo segnalerà nella relazione finale e questo documento potrebbe essere letto da un giudice in caso di successiva istanza di fallimento. Quindi, ignorare la situazione dopo un fallimento della negoziazione potrebbe peggiorare la tua posizione.
Durante la composizione negoziata, se hai ottenuto misure protettive (il blocco temporaneo delle azioni), queste cessano allo scadere del periodo autorizzato (massimo 6 mesi + eventuale proroga a 12) . Dovrai dunque a quel punto affrontare di nuovo eventuali pignoramenti dei creditori, a meno che nel frattempo tu non depositi un ricorso per un concordato o la liquidazione controllata che rinnovi la protezione. Se successivamente la tua azienda viene dichiarata fallita (liquidazione giudiziale), non subisci sanzioni per aver provato la composizione negoziata: anzi, averla attivata può giocare a tuo favore, dimostrando al tribunale fallimentare (e in eventuali giudizi di responsabilità) che hai tentato diligentemente un percorso di risanamento . In ogni caso, le informazioni emerse durante la procedura restano confidenziali: i creditori partecipanti non possono divulgare né usare come prova in giudizio ciò che si sono detti, salvo tuo consenso . Quindi non rischi che, se poi fallisci, i creditori tirino fuori proposte scartate o ammissioni fatte durante la negoziazione – tutto è coperto da riservatezza. In sintesi: la composizione negoziata è un tentativo assistito, non un impegno vincolante a concludere. Se non va a buon fine, sei libero di cambiare strategia (concordato, liquidazione controllata o altro) senza penalizzazioni dirette. Chiaro che se l’azienda è insolvente e non trova accordi, il fallimento potrà arrivare comunque; però, come detto, aver provato seriamente la negoziazione migliora la percezione di te come debitore cooperativo in buona fede. Quindi niente paura nel provare questa strada: male che vada, torni al punto di partenza ma avrai guadagnato tempo e credibilità di averci provato.

Domanda: “In un concordato preventivo, i creditori fiscali (Agenzia Entrate) e contributivi (INPS) possono subire un taglio? Come convincerli ad accettare?”
Risposta: Sì, oggi è possibile proporre un pagamento parziale anche a Erario e INPS, grazie alle norme sulle transazioni fiscali e contributive (artt. 63 e 64 CCII, ex art. 182-ter L.F.) . Fisco e INPS non sono più esclusi da falcidie come un tempo. In un concordato, puoi ad esempio proporre di pagare solo una parte dell’IVA o dei contributi, dilazionandoli, e di stralciare sanzioni e interessi . Devi però rispettare una condizione: offrire loro almeno quanto otterrebbero in un fallimento (principio del best interest). In pratica, devi dimostrare che se liquidassi i beni, il Fisco avrebbe magari 10, col concordato gliene offri 12 – quindi è conveniente. Dal 2020 l’Erario e gli enti previdenziali partecipano a pieno titolo al voto nel concordato (prima erano “silenti” se non c’era transazione) . Quindi per convincerli devi ottenere il loro voto favorevole nella rispettiva classe. L’esperienza insegna che l’Agenzia Entrate vota a favore se vede che: (a) la proposta rispetta le norme (percentuali e tempi secondo la convenienza minima), (b) il debitore offre massima trasparenza sui suoi beni, e magari (c) c’è un vantaggio nel concordato (ad es. un terzo che apporta finanza nuova destinata anche al Fisco) . L’INPS di solito si allinea all’AdE. Una mossa intelligente è anticipare il dialogo: già in composizione negoziata o prima del voto, confrontarsi con gli uffici competenti mostrando che la proposta concordataria è il miglior scenario per loro. Dato che spesso votano seguendo istruzioni centralizzate, allegare un parere professionale che confronti concordato vs fallimento per il Fisco può aiutare. Inoltre, grazie alle modifiche 2021-2022, nel concordato in continuità puoi chiedere di pagare i crediti fiscali privilegiati in 6 anni con 2 anni di pre-ammortamento , e ciò per il Fisco può andare bene se il piano regge. Quindi, sì, li puoi “tagliare” (falcidiare) e convincere mostrando che è comunque la migliore opzione per loro. Un esempio: se la rivista ha €100k di debiti IVA ma nell’attivo fallimentare l’Erario ricaverebbe solo €5k, potresti proporre €10k dilazionati – è il doppio di quanto ricaverebbero dal fallimento, quindi l’AdE dovrebbe accettare (e se non accetta, il giudice può anche omologare lo stesso se reputa la proposta conveniente). Infine, ricorda che per formalizzare la transazione fiscale/contributiva devi presentare documentazione e un attestatore deve certificare che la proposta al Fisco è conveniente e che, se la transazione non passasse, per loro sarebbe peggio. Spesso, convincere Fisco/INPS è una questione tecnica più che emotiva: rispettando i parametri di legge, di solito aderiscono (a meno che percepiscano comportamenti poco limpidi del debitore in passato, il che potrebbe irrigidirli).

Domanda: “Cos’è la ‘bancarotta preferenziale’ e posso essere incriminato se ho pagato alcuni fornitori e non altri prima del fallimento?”
Risposta: La bancarotta preferenziale è un reato fallimentare (art. 323 CCII) che si verifica quando un imprenditore, già in stato di insolvenza, compie atti che favoriscono un creditore a discapito degli altri . Tipicamente, pagare integralmente (o dare garanzie a) un creditore “amico” alla vigilia del fallimento, lasciando gli altri insoddisfatti. La ratio è che in insolvenza vige la par condicio: non puoi scegliere chi soddisfare, altrimenti danneggi gli altri. Se poi l’azienda fallisce, quel pagamento preferenziale diventa reato. Quindi , se prima del fallimento hai pagato alcuni fornitori e non altri deliberatamente, potresti essere incriminato per bancarotta preferenziale . La pena è fino a 3 anni di reclusione (o più se aggravata da frode). Ci sono però attenuanti e valutazioni caso per caso: ad esempio, se hai pagato un fornitore essenziale per tentare di evitare il fallimento (es. paghi l’energia elettrica sennò chiudi subito), potresti difenderti sostenendo che speravi di risanare e non c’era volontà di favoritismo ingiusto. Resta comunque un terreno scivoloso. In pratica, se sapevi di essere insolvente e hai scelto di pagare Tizio invece che Caio (magari perché Tizio era pressante o amico), tecnicamente il reato c’è. La via per evitare ciò è di gestire i pagamenti in crisi in modo trasparente e negoziato: ad esempio, in un accordo omologato dal tribunale o con moratorie concordate da tutti. Oppure, se hai fatto i pagamenti quando ancora non eri formalmente insolvente (cercando di evitare di diventarlo), potresti non incorrere in responsabilità penale, ma molto dipende dal timing. Nota: se il fallimento poi non avviene (perché magari fai un concordato riuscito), il reato di bancarotta preferenziale non si materializza affatto – esiste solo con la dichiarazione di fallimento. Quindi un altro modo per evitarlo è proprio non fallire: con un concordato preventivo, i pagamenti fatti prima (anche se preferenziali) non sono perseguibili penalmente (possono al più essere revocati civilmente se fuori dal piano). In sintesi: la bancarotta preferenziale punisce l’iniqua preferenza di creditori. La miglior condotta è astenersi dal fare differenze non giustificate in periodo di insolvenza. Se l’hai fatto per errore di valutazione, preparati a spiegare le tue ragioni; se l’hai fatto scientemente, sappi che il curatore lo segnalerà di sicuro. Meglio in futuro, in stato di crisi, non pagare nessuno al di fuori di un quadro concordato (o pagare tutti in proporzione), perché quei pagamenti spot “a qualcuno sì, altri no” sono tipicamente presi di mira in sede penale.

Domanda: “Dopo la chiusura del fallimento o del concordato, restano dei debiti verso fornitori non soddisfatti. Io come persona fisica dovrò comunque pagarli?”
Risposta: Dipende dal tipo di procedura e dal soggetto debitore. – Se il debitore era una società di capitali (S.r.l., S.p.A.): una volta chiuso il concordato o il fallimento, la società viene liquidata/cancellata e cessa di esistere; i suoi debiti insoddisfatti si estinguono con essa . I creditori chirografari non possono più pretendere nulla dalla società defunta, salvo il caso eccezionale di riapertura del fallimento per sopravvenienze attive. I soci non ne rispondono, a meno che avessero garanzie personali o casi particolari (p.es. soci di una Snc illimitatamente responsabili). Normalmente, in Srl/SpA i soci sono protetti: quindi i debiti residui muoiono con la società. Nel concordato preventivo omologato, i creditori anteriori non soddisfatti interamente restano obbligati solo per l’eventuale percentuale concordataria non pagata, mentre la parte falcidiata si intende esdebitata (cancellata) . Quindi i fornitori, dopo aver ricevuto la percentuale concordataria (es. 30%), non possono chiedere il resto: quel debito è legalmente estinto. – Se il debitore era una persona fisica (imprenditore individuale): nel concordato preventivo l’effetto esdebitatorio opera allo stesso modo – la parte non pagata è cancellata verso tutti i creditori chirografari . Nel fallimento (liquidazione giudiziale) tradizionale, in passato il fallito persona fisica rimaneva obbligato per i debiti non soddisfatti anche dopo la chiusura; tuttavia, egli può ottenere l’esdebitazione presentando apposita istanza. Oggi il CCII rende questo meccanismo quasi automatico: decorso il termine di 3 anni dalla chiusura della liquidazione giudiziale, se il fallito ha cooperato e non ha frodato, il tribunale dichiara cancellati i debiti residui . In certi casi, esiste persino l’esdebitazione “immediata” del debitore incapiente, come dicevamo, senza attendere tre anni . Quindi, se tu come imprenditore individuale fallisci, hai ottime chance di uscire pulito dai debiti residui, liberandoti dall’incubo di pretese future – ovviamente perdi ciò che è stato liquidato, ma nessuno potrà aggredirti per il restante. – Attenzione: l’esdebitazione non copre eventuali debiti particolari come sanzioni penali pecuniarie, multe e obblighi risarcitori per fatti illeciti non concorsuali; inoltre, c’è un aspetto cruciale per le garanzie: se tu eri garante di un debito della società, la tua esdebitazione personale post-fallimento non copre il debito principale della società (i creditori sociali possono rivalersi sui coobbligati non falliti, ad es. altri garanti) . In pratica, la liberazione riguarda i tuoi debiti, non quelli di altri soggetti. Dunque se hai firmato fideiussioni, devi valutare caso per caso (spesso comunque il tuo fallimento comporta che anche tu vieni liberato dal debito per te, ma la società resta debitrice verso il creditore, che però non potrà più prendere nulla da te esdebitato). A parte tali eccezioni (multe, danni e simili), la regola è: se la procedura concorsuale va a termine regolarmente, tu (persona fisica) puoi ottenere un colpo di spugna sui debiti rimasti . Se eri una società, i debiti muoiono con la società dissolta. Dunque, dopo aver affrontato la crisi col suo iter, hai la possibilità di ripartire senza strascichi di debiti (salvo rarissime eccezioni come sanzioni penali o debiti alimentari, ma fornitori e banche in genere si cancellano) . È fondamentale però aver tenuto un comportamento onesto: l’esdebitazione può essere negata a chi ha commesso atti di frode o non ha cooperato. Ma supponendo correttezza, la risposta è: no, non dovrai pagare di tasca tua i debiti residui non soddisfatti dalla procedura, perché sarai legalmente esdebitato e quei debiti saranno estinti.

Tabelle riepilogative finali

Per concludere questa guida, presentiamo due tabelle di sintesi che riassumono i concetti chiave discussi finora.

Tabella A – Strumenti per affrontare la crisi di una rivista locale indebitata

StrumentoQuando usarloVantaggiSvantaggi / Limiti
Composizione negoziata (procedura assistita con esperto)Crisi iniziale o potenzialmente reversibile; creditori non ancora ostili, impresa meritevole di risanamento. Utile per guadagnare tempo e cercare accordi prima di un’eventuale procedura formale.– Possibilità di ottenere misure protettive (blocco delle azioni esecutive) durante le trattative <br>– Ambiente riservato e flessibile per negoziare (si evita subito lo stigma del tribunale)<br>– Esperto indipendente facilita il dialogo e la ricerca di soluzioni equilibrate<br>– Si possono ottenere nuovi finanziamenti prededucibili o autorizzazioni urgenti per gestire la continuitàEsito non garantito: nessun accordo è imposto, dipende dalla volontà dei creditori<br>– Non vincola i dissenzienti: i creditori che non aderiscono restano liberi (nessun cram-down formale)<br>– Durata limitata (6 mesi + proroga fino a 12): se non risolvi in questo tempo, devi passare ad altro<br>– Costi professionali (esperto, consulenti) e impegno di risorse per seguire le trattative
Accordo stragiudiziale privato (piani di rientro, saldo e stralcio, piano attestato)Crisi moderata; pochi creditori chiave e con probabile unanime consenso. Debitore con ancora credibilità presso i creditori. Si usa in fase precoce o per evitare pubblicità.Rapidità e riservatezza: niente tribunale, accordo immediato se le parti sono d’accordo<br>– Flessibilità totale nelle condizioni (si può concordare qualsiasi piano di pagamento o stralcio bilaterale)<br>– Nessuna pubblicità negativa (l’accordo resta confidenziale, l’immagine dell’azienda soffre meno)<br>– Se formalizzato in un piano attestato, i pagamenti effettuati sono protetti da revocatoria (in caso di fallimento successivo)– Richiede il consenso di tutti i principali creditori: basta un rifiuto importante perché l’accordo salti o sia inefficace<br>– Nessun blocco automatico delle azioni esecutive: un creditore impaziente può agire comunque (a meno che tutti concordino uno standstill volontario)<br>– Manca la forza vincolante erga omnes: i creditori estranei o nuovi possono emergere dopo e aggredire il debitore<br>– Se la crisi peggiora, l’accordo privato potrebbe non reggere e dover essere convertito in uno formale (doppio sforzo)
Accordo di ristrutturazione omologato (≥ 60% dei crediti)Molti creditori, ma 60% circa disposti a sottoscrivere un accordo. Necessario dare efficacia giuridica all’accordo e bloccare iniziative di minoranze dissenzienti. Debitore con un nucleo di creditori “fiducianti” (es. banche principali).Vincolante dopo omologa per tutti i creditori aderenti (diventa esecutivo come fosse sentenza)<br>– Possibilità di ottenere dal tribunale misure protettive durante l’omologazione (similarmente al concordato) <br>– Efficacia estesa: si possono estendere effetti a creditori finanziari dissenzienti se condizioni di legge (cram-down settoriale per banche) <br>– Atti compiuti in esecuzione dell’accordo esenti da revocatoria e responsabilità penale (non costituiscono pagamenti preferenziali punibili) <br>– Procedura in tribunale relativamente snella e veloce rispetto a un concordato (meno formalità, niente voto generale)– I creditori non aderenti (“estranei”) vanno pagati integralmente entro 120 giorni : serve quindi liquidità per soddisfarli subito<br>– Richiede il 60% di consensi: se non raggiungi tale soglia di adesione, non puoi usarlo<br>– Procedimento giudiziale in camera di consiglio: benché più breve del concordato, comporta comunque alcuni mesi e rischio di opposizioni da creditori esclusi (il tribunale deve valutare eventuali opposizioni e la fattibilità) <br>– I creditori dissenzienti restano liberi una volta pagati: se qualcosa va storto e non li paghi come promesso, potranno agire (l’accordo omologato non li vincola, li devi soddisfare al 100%)
Concordato preventivo in continuità (ordinario)L’azienda è ancora viabile operativamente; c’è necessità di ridurre/dilazionare i debiti per proseguire l’attività. Si sceglie quando si vuole salvare la rivista come entità funzionante (mantenendo testata, personale, avviamento). Richiede prospettive di rilancio credibili.– Mantiene in vita l’impresa (tutela posti di lavoro, valore avviamento della testata) <br>– Possibile taglio e dilazione dei debiti significativi (anche di crediti privilegiati, purché rispettato best interest e offerte adeguate a Fisco/INPS) <br>– Cram-down su classi minoritarie dissenzienti dal 2022: il tribunale può omologare anche senza l’unanimità delle classi, se il piano è equo <br>– Una volta eseguito, il debitore (persona fisica) ottiene l’esdebitazione totale dei debiti pregressi (fresh start), la società viene liberata dai debiti falcidiati come da piano <br>– Possibilità di finanza interinale durante la procedura (prestiti in prededuzione) per sostenere la continuità operativa<br>– Gli amministratori possono restare alla guida (sorvegliati da un commissario), mantenendo un certo controllo sul destino dell’azienda– Procedura complessa, costosa e pubblica (atti al Registro Imprese): impatto reputazionale negativo, oneri di commissari, attestatore, legali, ecc. <br>– Richiede voto favorevole dei creditori (maggioranza di crediti): l’esito dipende dal consenso delle classi, non è unilaterale<br>– Necessita liquidità per gestire l’attività corrente durante la procedura (6-12+ mesi) e per attuare il piano: serve spesso un investitore o risorse fresche<br>– Sottoposto a controllo del tribunale e del commissario: perdita di autonomia gestionale su atti di straordinaria amministrazione, maggiore rigidità nelle scelte
Concordato preventivo liquidatorio (ordinario, o “semplificato” post-negoziazione)L’azienda non è più salvabile come attività continuativa; obiettivo è evitare il fallimento tramite una liquidazione concordata e più efficiente dei beni. Si usa per massimizzare il ricavato in tempi brevi e chiudere dignitosamente la vicenda debitoria. Variante semplificata se la composizione negoziata è fallita e si vuole liquidare senza voto creditori.– Permette di realizzare attivo e pagare i creditori in modo più rapido e certo rispetto al fallimento (il piano concordato di liquidazione può prevedere vendite dirette a prezzo migliore, ecc.) <br>– Il debitore può proporre egli stesso come liquidare i beni, scegliendo modalità più efficienti (ad es. vendita in blocco dell’azienda, ecc.) sotto controllo del tribunale <br>– Nella forma semplificata non richiede il voto dei creditori: utile se un accordo è impossibile, decide il giudice su proposta del debitore <br>– Consente comunque ai creditori chirografari di ottenere qualcosa (anche se non integrale) in tempi più rapidi di un fallimento ordinario<br>– Chiusura più “ordinata”: meno contenziosi post-chiusura, debitore persona fisica comunque esdebitato come nel fallimento (ma in meno tempo, 3 anni)– L’attività d’impresa cessa: si perde l’avviamento, marchio, presenza sul mercato (fine dell’editoria locale di quella testata) e i dipendenti perdono il lavoro (salvo qualcuno riassorbito da acquirenti di beni)<br>– Deve garantire il rispetto di soglie di soddisfazione minima ai chirografari (20% salvo deroga se best interest test – per ottenere omologa) <br>– Nel concordato semplificato (senza voto) l’esito è incerto perché tutto è in mano al tribunale: i creditori possono opporsi in sede di omologa, e il giudice valuta la convenienza caso per caso<br>– I creditori privilegiati non consensienti vanno comunque soddisfatti per il loro rango (non li puoi forzare a prender meno senza voto, a meno di dimostrare che otterrebbero meno nel fallimento)<br>– L’imprenditore esce dall’attività (salvo ripartire altrove da zero), c’è uno stigma personale notevole
Liquidazione giudiziale (fallimento)Insolvenza irreversibile, nessuna soluzione tentabile o praticabile. Viene aperta su istanza di creditori o dello stesso debitore quando non è possibile altra via. Procedura di chiusura dell’impresa con nomina di curatore e riparto ai creditori secondo legge.– Procedura gestita da un curatore professionista: garantisce ordine e parità di trattamento (i creditori di pari grado concorrono proporzionalmente) <br>– Possibilità di azioni di responsabilità e revocatorie per recuperare attivo a favore dei creditori (es. il curatore può far revocare pagamenti preferenziali o atti di frode compiuti pre-fallimento) <br>– Dopo 3 anni dalla chiusura, il debitore persona fisica può ottenere l’esdebitazione di diritto (fresh start) , se ha cooperato e non ci sono condotte fraudolente (anche immediata a fine procedura su richiesta, in assenza di opposizioni) <br>– Per i creditori: almeno c’è una procedura ordinata e imparziale, con un giudice che sorveglia<br>– Per la collettività: punizione degli eventuali abusi (si attiva in automatico la segnalazione in Procura per possibili reati) e “ripulitura” del mercato da imprese decotte– L’impresa chiude definitivamente; cessazione dell’attività ed eliminazione della testata dal mercato<br>– Tempi spesso lunghi per i creditori: le procedure fallimentari durano anni, i riparti tardivi e spesso parzialissimi<br>– Realizzo basso: i beni venduti all’asta forzatamente tendono a spuntare prezzi bassi, e le spese procedurali erodono l’attivo. I creditori chirografari a volte non prendono nulla<br>– Stigma sociale e conseguenze per l’imprenditore: interdizioni (non può amministrare altre imprese per alcuni anni), iscrizione nei registri dei protesti/falliti, impatto reputazionale grave<br>– Alto rischio di azioni penali: di prassi, il tribunale invia gli atti in Procura e viene aperto un fascicolo per bancarotta; anche in assenza di dolo, l’imprenditore subirà indagini e possibili rinvii a giudizio, con tutto lo stress e i costi connessi

Legenda: prededuzione = debito da pagare con priorità perché contratti durante la procedura (o autorizzati) – incentiva finanziatori a dare credito all’impresa in crisi; best interest test = criterio di convenienza per i creditori dissenzienti: devono ricevere almeno quanto otterrebbero nella liquidazione fallimentare; OCC = Organismo di Composizione della Crisi, ente che gestisce le procedure di sovraindebitamento.

Tabella B – Principali reati connessi alla crisi d’impresa (fallimentari e tributari)

ReatoDescrizioneQuando si verificaSanzione prevista
Bancarotta fraudolenta patrimoniale (art. 322 CCII)Distrazione, occultamento, dissimulazione o dissipazione di beni del debitore in danno ai creditori. Esempi: prelievo ingiustificato di cassa da parte dell’amministratore; cessione sottocosto di asset aziendali a terzi compiacenti; rimborso anticipato di finanziamenti ai soci quando l’impresa è già in dissesto (considerato atto distrattivo) . Comprende anche la sottrazione o il falso grossolano nelle scritture con intento fraudolento. Richiede il dolo specifico di recare pregiudizio alla massa creditoria.Si concretizza dopo la dichiarazione di fallimento (o liquidazione giudiziale). Include atti compiuti nei 5 anni prima del fallimento o anche dopo l’apertura ma prima della sentenza di bancarotta. L’elemento scatenante è la sentenza dichiarativa: prima è condotta preparatoria ma non punibile autonomamente come bancarotta. Il curatore o il PM segnalano gli atti sospetti e si apre il procedimento penale.Reclusione da 3 a 10 anni . (Circostanze attenuanti se il fatto è di particolare tenuità; aggravanti se ingente danno, ecc.). Nel caso di società, la pena si applica agli amministratori che hanno compiuto o concorso negli atti, e potenzialmente a eventuali complici (es. il terzo beneficiario).
Bancarotta fraudolenta documentale (art. 322 co.2 CCII)Falsificazione o sottrazione delle scritture contabili, oppure tenuta dei libri in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari . Esempi: distruggere o nascondere i libri sociali; tenere una doppia contabilità segreta; non annotare per nulla intere fette di operazioni; scritture talmente caotiche e incomplete da risultare inutili. A differenza della bancarotta patrimoniale, qui basta l’evento oggettivo (contabilità irricostruibile) e il dolo generico di occultare le informazioni ai creditori – non occorre aver causato un danno economico diretto, ma il danno è l’opacità.Connessa al fallimento: si manifesta quando, aperta la procedura, il curatore constata l’assenza o l’inintellegibilità delle scritture. Non serve un comportamento successivo: basta che al momento del fallimento i libri non ci siano o siano inutilizzabili. Anche qui la condotta può essersi svolta negli anni precedenti (tenuta irregolare) o contestualmente al dissesto (distruzione prima di fallire).Reclusione da 3 a 8 anni . Non è raro il cumulo con la bancarotta patrimoniale: es. amministratore che distrae beni e contestualmente falsifica i libri per coprire il buco risponde di entrambe. Pena accessoria: interdizione dai pubblici uffici e dall’esercizio d’impresa per 10 anni.
Bancarotta preferenziale (art. 323 CCII)Pagamento o concessione di garanzie a favore di un creditore quando l’impresa è già insolvente, con volontà di favorirlo sugli altri . Esempio: pagare integralmente un fornitore “amico” alla vigilia del fallimento, lasciando gli altri a bocca asciutta; concedere un’ipoteca volontaria a un creditore chirografario poco prima della procedura concorsuale (collocandolo in posizione di vantaggio). Non è necessario che il fallito guadagni qualcosa: è sufficiente l’intento di preferenza. Si consuma solo se poi c’è fallimento che certifica il danno alla par condicio (se l’impresa risana e non fallisce, il pagamento preferenziale non è reato, sebbene revocabile civilmente).In periodo pre-fallimentare: la condotta avviene durante lo stato di insolvenza (anche se non ancora dichiarato). Il reato si perfeziona con la sentenza di fallimento, che sancisce la lesione alla parità tra creditori. La prova spesso viene dalla revocatoria fallimentare: se un pagamento è revocabile perché preferenziale, quasi certamente c’è anche rilevanza penale (salvo sia avvenuto oltre i termini di rilevanza: comunque la preferenza è penalmente rilevante se avvenuta entro 1 anno per pagamenti a creditori chirografari, 6 mesi per garantiti).Reclusione da 6 mesi a 3 anni . Se commessa con frode (p.es. simulazione di un titolo di credito per pagare solo quel creditore, o falsità per giustificarlo) viene equiparata alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, con pene più alte (3-10 anni). Ad esempio, la giurisprudenza parla di bancarotta preferenziale aggravata se l’imprenditore compie atti di frode per occultare la preferenza.
Bancarotta semplice (art. 324 CCII)Fatti meno gravi dovuti a colpa dell’imprenditore: aver aggravato il dissesto con spese o operazioni imprudenti; non aver tenuto i libri o il bilancio con diligenza (ma senza intento fraudolento); aver ritardato la richiesta di fallimento per negligenza, provocando un aumento del passivo; aver fatto investimenti azzardati in fase di crisi sperando di risollevarsi (azzardo morale, p.es. giocare in borsa con i soldi aziendali per tentare il colpo di fortuna). Richiede almeno colpa grave, non serve il dolo di nuocere ai creditori. È una fattispecie residuale, usata quando non emergono elementi di frode ma la condotta è stata comunque censurabile e ha leso i creditori.Sempre connessa al fallimento, come tutte le bancarotte. Viene contestata a seguito di esso, di solito in alternativa alla fraudolenta quando manca la prova del dolo specifico. Ad esempio, l’amministratore ha tenuto male i conti ma più per incuria che per nascondere qualcosa: bancarotta semplice documentale. Oppure ha tardato anni a fallire sperando in un miracolo economico: bancarotta semplice per aggravamento. Si verifica formalmente al momento della dichiarazione di fallimento, condotte prima rilevano se integrate nel biennio/quinquennio antecedente a seconda dei casi.Reclusione fino a 2 anni . Procedibile d’ufficio con la dichiarazione di fallimento. In genere, la pena viene spesso condonata o sospesa per chi non ha altri carichi, specie se è l’unica imputazione e l’ammanco non è enorme. Ma c’è comunque la macchia della condanna. Nota: se la bancarotta semplice è commessa da società in liquidazione che ha tardato a chiedere il fallimento, il liquidatore ne risponde.
Omesso versamento IVA (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000)Mancato versamento dell’IVA dovuta annualmente, per importo superiore a soglia (attualmente €250.000 per periodo d’imposta) . In pratica: presentazione della dichiarazione annuale IVA con un debito IVA oltre 250k e mancato versamento di tale debito entro il termine di pagamento (di norma 16 marzo anno successivo). Non importa il perché (crisi di liquidità di solito): il reato scatta oggettivamente. Il dolo richiesto è generico (consapevolezza di non pagare).Indipendente dal fallimento. Si perfeziona allo scadere del termine di versamento del saldo IVA (di regola 16 marzo dell’anno successivo al periodo di imposta), se la soglia è superata e il debito non è stato saldato entro tale termine. Ad esempio, IVA 2024 non pagata entro 16/3/2025 per 300k: reato commesso il 16/3/2025. Può cumularsi con la bancarotta se poi c’è fallimento, ma è un procedimento a sé di natura tributaria.Reclusione da 6 mesi a 2 anni . È prevista una causa di non punibilità: se paghi integralmente il debito IVA (più sanzioni) prima dell’apertura del dibattimento nel processo penale, il reato è estinto . Spesso si cerca di rateizzare con AdE e saldare per evitare condanna. Se fallisci, il curatore può pagare (ma di solito non ci sono soldi per farlo).
Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000)Mancato versamento di ritenute fiscali dovute (ad es. ritenute IRPEF operate sulle retribuzioni dei dipendenti o sui compensi dei collaboratori) per un ammontare superiore a €150.000 annui . Si riferisce alle ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate (CU). Quindi è penalmente rilevante se, ad esempio, nel 2024 hai trattenuto €160k totali di IRPEF dalle buste paga e non li hai versati all’Erario. Anche qui il dolo è nel non pagamento consapevole.Alla scadenza del termine di versamento dell’anno di imposta di riferimento. In concreto, coincide col termine di presentazione della dichiarazione annuale (modello 770) dell’anno successivo. Quindi se non versi le ritenute 2024 per 160k entro il 30 novembre 2025 (termine invio 770, coincidente col termine versamento saldo ritenute), il reato si perfeziona. Procede indipendentemente da procedure concorsuali.Reclusione fino a 3 anni e multa fino a €1.032 . Anche qui c’è causa di non punibilità: se paghi tutto entro la scadenza della dichiarazione annuale dell’anno successivo (entro 30/11 anno successivo), il reato non sorge affatto. E persino pagando dopo, se lo fai prima del dibattimento, potresti ottenere esito favorevole (in questo reato in verità la causa di non punibilità codificata è il pagamento entro la scadenza della dichiarazione successiva – quindi c’è una sorta di “periodo di grazia” fino a 11-12 mesi dopo l’anno di riferimento).
Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000)Comportamenti fraudolenti mirati a rendere inefficace la riscossione coattiva di imposte, per un debito fiscale sopra €50.000. Tipici esempi: alienare simulatamente o a prezzo irrisorio beni di proprietà; creare vincoli fittizi su di essi (costituzione di fondo patrimoniale o trust con dolo di sottrarre beni al Fisco); intestare beni a terzi prestanome; movimentare capitali all’estero per non farsi trovare nulla aggredibile . Insomma, qualsiasi manovra volta a “svuotare” il patrimonio o schermarlo per non pagare imposte. È necessario il dolo specifico di evadere la riscossione. Non rileva se l’imposta in sé è stata accertata definitivamente o no: rileva che ci siano debiti iscritti a ruolo o dovuti e il soggetto compia atti in malafede per sottrarsi.Anche questo reato è svincolato dal fallimento, può avvenire in qualunque momento in cui il contribuente, avendo debiti tributari, compie atti dispositivi pregiudizievoli ai creditori fiscali. Spesso però viene contestato in correlazione temporale con l’avvio di accertamenti o di procedure di riscossione. Esempio: arriva una verifica fiscale grossa, il titolare inizia a vendere immobili ai parenti – scatterà l’art. 11. La dichiarazione di fallimento non è necessaria, ma talvolta gli stessi atti possono essere presi come bancarotta fraudolenta se poi c’è fallimento (es. mettere beni in trust = distrazione). Il confine è che l’art. 11 tutela il Fisco prima e a prescindere dal concorso formale di creditori.Reclusione da 6 mesi a 4 anni . Esempio pratico: l’imprenditore che, sapendo di avere cartelle esattoriali per 100k, trasferisce la proprietà della casa al figlio mantenendone di fatto l’uso, commette questo reato. La pena non è altissima ma il disvalore sociale è notevole (truffa allo Stato). Inoltre, se poi la sua società fallisce, quell’atto sarà anche bancarotta fraudolenta: rischia il cumulo di pene (anche se in sede giudiziale a volte unificano come continuazione).

(Nota: CCII = Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, D.Lgs. 14/2019. Le pene indicate sono quelle ordinarie; possibili circostanze attenuanti o aggravanti possono modularle caso per caso. I reati fallimentari richiedono la pronuncia di liquidazione giudiziale, mentre i reati tributari sopra descritti operano indipendentemente.)

Gestisci una rivista locale, un periodico indipendente o un giornale territoriale cartaceo o online, ma ti ritrovi con debiti verso fornitori, tipografie, collaboratori o Agenzia delle Entrate? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Gestisci una rivista locale, un periodico indipendente o un giornale territoriale cartaceo o online, ma ti ritrovi con debiti verso fornitori, tipografie, collaboratori o Agenzia delle Entrate?
Hai cartelle esattoriali, IVA non versata, contributi arretrati o mutui editoriali in sofferenza, e temi pignoramenti, revoche di fidi o la chiusura della tua testata?
👉 Non tutto è perduto: anche le piccole realtà editoriali possono difendersi legalmente, bloccare i creditori, ridurre o cancellare i debiti, e salvare la propria attività giornalistica o chiuderla in modo protetto, grazie agli strumenti del Codice della Crisi d’Impresa (D.Lgs. 14/2019).

In questa guida scoprirai perché le riviste locali finiscono in crisi economica, quali soluzioni legali puoi adottare, e come ripartire in modo regolare e sostenibile.


📰 Perché le riviste locali si indebitano

Le difficoltà per i periodici e i giornali indipendenti sono ormai strutturali. Le cause principali dell’indebitamento sono:

  • Calo degli abbonamenti e delle vendite;
  • Riduzione delle entrate pubblicitarie e concorrenza delle piattaforme online;
  • Aumento dei costi di stampa, distribuzione ed energia;
  • Ritardi nei contributi statali o regionali per l’editoria;
  • Errori contabili o fiscali, con accertamenti e sanzioni dell’Agenzia delle Entrate;
  • Gestione familiare o microstrutturata, senza margini per fronteggiare i debiti.

📌 Il risultato è che molte testate locali si trovano soffocate da cartelle, mutui e fornitori da pagare, rischiando la chiusura o la perdita della credibilità editoriale.


🧾 I debiti più frequenti nelle riviste locali

Debiti fiscali e contributivi

  • IVA, IRPEF, INPS, INAIL, TARI, cartelle esattoriali, multe e accertamenti.

Debiti bancari e finanziari

  • Mutui o leasing per tipografie, redazioni o attrezzature grafiche.
  • Scoperti di conto e linee di credito.

Debiti commerciali

  • Fatture non pagate a tipografie, grafici, fotografi, giornalisti freelance e distributori.

Debiti verso dipendenti o collaboratori

  • Stipendi arretrati, compensi o contributi previdenziali non versati.

Debiti personali o garanzie fideiussorie

  • Fideiussioni o garanzie personali dei soci o direttori editoriali per mutui e forniture.

⚠️ Cosa rischia una rivista locale indebitata

Se non agisci tempestivamente, i creditori possono:

  • pignorare conti correnti o attrezzature redazionali;
  • bloccare i contratti pubblicitari e le entrate da abbonamenti;
  • revocare i fidi o i contributi bancari;
  • avviare azioni legali o sequestri;
  • compromettere la reputazione editoriale della testata.

👉 Tuttavia, oggi puoi bloccare tutto immediatamente, ristrutturare i debiti, e continuare a pubblicare in modo legale e sereno, evitando la chiusura forzata.


🧩 Le soluzioni legali per riviste locali con debiti

💠 1. Rinegoziazione dei debiti con banche e fornitori

Con l’assistenza legale, è possibile ottenere:

  • riduzione delle somme dovute (saldo e stralcio);
  • rateizzazioni lunghe e sostenibili;
  • sospensione temporanea dei pagamenti durante la crisi.

👉 È la soluzione ideale per chi vuole continuare la pubblicazione e salvaguardare i rapporti con i fornitori e la stampa.


💠 2. Concordato minore (per SRL, cooperative editoriali o associazioni)

È la procedura legale del Codice della Crisi d’Impresa che consente di:

  • bloccare pignoramenti, decreti e cartelle esattoriali;
  • ridurre legalmente i debiti con l’approvazione del Tribunale;
  • preservare la licenza editoriale e la continuità delle pubblicazioni.

📌 È perfetta per cooperative giornalistiche e società editoriali che vogliono evitare il fallimento.


💠 3. Procedura di sovraindebitamento (per piccole ditte o editori individuali)

Riservata a microimprese e giornali gestiti in forma individuale.
Consente di:

  • sospendere tutte le azioni dei creditori;
  • proporre un piano di rientro parziale proporzionato ai ricavi effettivi;
  • ottenere la cancellazione definitiva dei debiti residui (esdebitazione).

👉 È lo strumento più adatto per piccoli editori o testate locali indipendenti.


💠 4. Liquidazione controllata dei beni (ex fallimento personale)

Se l’attività non è più sostenibile, puoi chiudere in modo legale e protetto, mettendo a disposizione solo i beni non essenziali.
Alla fine della procedura, il Tribunale cancella tutti i debiti residui, consentendoti di ripartire senza pendenze fiscali o bancarie.


💠 5. Verifica e contestazione di cartelle e accertamenti fiscali

Molte cartelle e accertamenti contengono errori, vizi formali o importi prescritti.
Un avvocato può:

  • controllare la prescrizione (5 o 10 anni);
  • eccepire irregolarità di notifica o duplicazioni;
  • chiedere la sospensione o l’annullamento parziale o totale del debito.

🗞️ Cosa fare subito

✅ 1. Raccogli tutte le informazioni sui debiti

Prepara un elenco con cartelle, mutui, leasing, fornitori e collaboratori.

✅ 2. Blocca subito i creditori con una procedura legale

Con il deposito di un ricorso per sovraindebitamento o concordato, tutti i creditori devono sospendere le azioni di recupero.

✅ 3. Evita accordi improvvisati o nuovi debiti

Non firmare rateizzazioni non sostenibili o nuovi prestiti: serve una strategia legale complessiva e approvata dal Tribunale.


📋 Documenti utili per la difesa

  • Documento d’identità e codice fiscale del direttore o rappresentante legale.
  • Visura camerale o atto costitutivo dell’ente editore.
  • Dichiarazioni fiscali e bilanci societari.
  • Cartelle esattoriali e accertamenti fiscali.
  • Elenco di collaboratori, fornitori e contratti pubblicitari.
  • Estratti conto bancari e contratti di mutuo o leasing.

⏱️ Tempi e risultati possibili

  • Analisi e strategia legale: 1–3 settimane.
  • Deposito della procedura: 1–2 mesi.
  • Blocco dei creditori: immediato con il deposito in Tribunale.
  • Durata del piano di rientro: da 1 a 5 anni.

🎯 Risultati concreti:

  • Stop a pignoramenti, sequestri e cartelle.
  • Riduzione o cancellazione legale dei debiti.
  • Tutela della testata e continuità della pubblicazione.
  • Ripartenza economica e reputazionale dell’attività.

⚖️ I vantaggi principali

✅ Blocco immediato di ogni azione dei creditori.
✅ Riduzione legale dei debiti fino all’80%.
✅ Mantenimento della licenza editoriale e dei contratti pubblicitari.
✅ Possibilità di continuare o chiudere l’attività in modo ordinato.
✅ Ripartenza economica e reputazionale pulita.


🚫 Errori da evitare

  • Ignorare cartelle, notifiche o diffide.
  • Accumulare nuovi debiti per coprire i vecchi.
  • Pagare solo alcuni creditori peggiorando la posizione.
  • Rivolgerti a “consulenti del debito” non abilitati o non avvocati.
  • Rimandare troppo a lungo: ogni mese aumenta il rischio di azioni legali.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

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📌 Ti guida nella scelta tra rinegoziazione, sovraindebitamento, concordato o liquidazione controllata.
✍️ Redige e deposita il piano legale in Tribunale per bloccare immediatamente i creditori.
⚖️ Ti rappresenta nei rapporti con Agenzia delle Entrate, banche, fornitori e collaboratori.
🔁 Ti accompagna fino alla cancellazione definitiva dei debiti o alla ristrutturazione completa della tua attività editoriale.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto tributario, commerciale e crisi d’impresa.
✔️ Specializzato nella difesa di editori, cooperative giornalistiche e riviste indipendenti con debiti fiscali o bancari.
✔️ Gestore della crisi da sovraindebitamento iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Essere una rivista locale o periodico con debiti non significa dover chiudere.
Con una difesa legale mirata e tempestiva, puoi bloccare i creditori, ridurre o cancellare i debiti fiscali e finanziari e continuare a pubblicare in modo sostenibile e regolare.
La legge oggi tutela anche le piccole realtà editoriali locali che vogliono ripartire con trasparenza e determinazione.

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  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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