Showroom Di Design Con Debiti: Cosa Fare E Come Difendersi

Hai uno showroom di design con debiti fiscali o sotto accertamento dell’Agenzia delle Entrate?
Il settore dell’arredamento e del design è tra i più esposti a crisi di liquidità, controlli fiscali e calo dei margini di guadagno, a causa dell’aumento dei costi di gestione, delle fluttuazioni del mercato e dei ritardi nei pagamenti da parte dei clienti.
Molti showroom e aziende di interior design si trovano oggi a gestire debiti con il Fisco, l’INPS o i fornitori, dovuti a ritardi nei versamenti, accertamenti IVA e IRES o difficoltà di incasso, con il rischio di cartelle esattoriali, pignoramenti o blocchi dei conti correnti.
Con una difesa legale e fiscale ben impostata, è possibile bloccare la riscossione, rateizzare i debiti e contestare accertamenti infondati, salvaguardando la continuità dell’impresa e il prestigio del brand.

Quando uno showroom di design entra in difficoltà fiscale
Le cause più comuni che portano a debiti o accertamenti nel settore dell’arredamento e della progettazione d’interni sono:

  • Cartelle esattoriali o intimazioni di pagamento per IVA, IRES, IRAP o contributi non versati;
  • Accertamenti fiscali per ricavi non dichiarati, errori di fatturazione o vendite online non correttamente registrate;
  • Pignoramenti o ipoteche su conti, magazzini o beni aziendali;
  • Sanzioni e interessi che fanno aumentare rapidamente l’importo del debito;
  • Ritardi nei pagamenti da parte di clienti privati o studi di architettura;
  • Errori contabili o dichiarativi nella gestione amministrativa e nel regime fiscale.

Cosa fare se il tuo showroom ha debiti o è sotto accertamento fiscale

  1. Agisci tempestivamente: ogni cartella o accertamento ha termini precisi – di solito 60 giorni dalla notifica – per essere impugnato o rateizzato.
  2. Verifica la legittimità degli atti ricevuti: molti accertamenti contengono vizi di notifica, errori di calcolo o motivazioni generiche, che consentono di chiederne l’annullamento.
  3. Controlla l’importo reale del debito: spesso la cifra include sanzioni e interessi eccessivi, che possono essere ridotti con una definizione agevolata.
  4. Richiedi una rateizzazione: puoi ottenere fino a 120 rate mensili, sospendendo temporaneamente la riscossione.
  5. Valuta la definizione agevolata (rottamazione): se attiva, consente di pagare solo le imposte dovute, eliminando sanzioni e interessi.
  6. Impugna accertamenti infondati: con un ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria, puoi bloccare la riscossione e difendere la tua azienda.

Come difendersi legalmente e fiscalmente
Un avvocato tributarista esperto nella difesa delle imprese commerciali e creative può analizzare la situazione della tua azienda e predisporre una strategia personalizzata per ridurre o eliminare i debiti.
Le azioni più efficaci comprendono:

  • contestare errori di notifica, motivazione o calcolo negli accertamenti e nelle cartelle;
  • chiedere la sospensione delle azioni di riscossione (pignoramenti, fermi, ipoteche);
  • presentare ricorso contro accertamenti IVA o IRES basati su presunzioni non dimostrabili;
  • negoziare rateizzazioni o transazioni fiscali con l’Agenzia delle Entrate-Riscossione;
  • proteggere showroom, beni e arredi aziendali da sequestri o blocchi;
  • pianificare una ristrutturazione fiscale e contabile per evitare nuovi debiti.

Il ruolo dell’avvocato nella difesa dello showroom di design

  • Analizza la legittimità degli accertamenti e delle cartelle fiscali.
  • Predispone ricorsi e istanze di sospensione per fermare la riscossione.
  • Negozia rateizzazioni e definizioni agevolate con l’Agenzia delle Entrate.
  • Difende l’impresa nel contraddittorio con l’Ufficio e nei giudizi tributari.
  • Protegge gli spazi espositivi, i beni di design e il magazzino da azioni esecutive.
  • Tutela la continuità aziendale e la reputazione commerciale del marchio.

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace

  • La sospensione immediata delle procedure di riscossione.
  • L’annullamento totale o parziale dei debiti illegittimi.
  • La rateizzazione o definizione agevolata delle somme dovute.
  • La protezione del patrimonio aziendale e familiare.
  • Il risanamento fiscale e la stabilità economica dello showroom.

⚠️ Attenzione: ignorare cartelle o accertamenti fiscali può portare a pignoramenti, blocchi dei conti correnti o sequestro dei beni, paralizzando l’attività e danneggiando l’immagine del brand.
Molte situazioni, tuttavia, possono essere risolte o ridotte, se affrontate tempestivamente con una difesa legale e fiscale esperta.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario, difesa fiscale e risanamento delle imprese del settore design e arredamento – spiega cosa fare se il tuo showroom di design ha debiti fiscali o è sotto accertamento, come bloccare la riscossione e come riportare equilibrio economico alla tua azienda.

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Introduzione

Gestire un showroom di design può comportare costi elevati e investimenti importanti in locali, arredi di pregio ed esposizioni. In tempi di mercato difficile (domanda in calo, crisi post-pandemica, rincari energetici), molti showroom hanno accumulato debiti verso fornitori, banche, fisco o proprietari dei locali. Quando i debiti diventano ingovernabili, l’attività stessa e il patrimonio personale dell’imprenditore sono a rischio. Cosa può fare un titolare di showroom di design sommerso dai debiti? Come difendersi legalmente dalle azioni dei creditori e cercare di salvare l’azienda o almeno limitare i danni? Questa guida offre un’analisi approfondita – aggiornata a settembre 2025 – degli strumenti giuridici italiani per affrontare una crisi debitoria, con particolare attenzione al punto di vista del debitore (imprenditore o privato).

Affronteremo le principali tipologie di debiti di un showroom (fiscali, bancari, verso fornitori, leasing, etc.) e i relativi rischi, quindi illustreremo il quadro normativo italiano attuale in materia di crisi d’impresa e sovraindebitamento. Esamineremo le soluzioni praticabili: dagli accordi stragiudiziali volontari ai piani attestati di risanamento, dagli strumenti concorsuali ordinari (accordi di ristrutturazione, concordato preventivo, liquidazione giudiziale – il “vecchio fallimento”) alle procedure dedicate a piccoli imprenditori e privati (piano del consumatore, concordato minore, liquidazione controllata). Illustreremo anche le novità più recenti, come la composizione negoziata assistita da un esperto e le semplificazioni introdotte dalle riforme del 2022–2025 .

Lo stile sarà giuridico ma divulgativo: spiegheremo i termini tecnici e citeremo norme e sentenze aggiornate, in modo che sia utile sia all’avvocato che deve consigliare un cliente, sia all’imprenditore o privato indebitato che cerca di orientarsi nelle possibili soluzioni. Troverete anche tabelle riepilogative, domande e risposte frequenti e alcune simulazioni pratiche (casi di esempio) riferite alla realtà italiana. L’obiettivo è fornire una guida completa dal punto di vista del debitore, per capire cosa fare e come difendersi di fronte a una grave situazione debitoria in un’attività di showroom di design.

(Nota: In fondo alla guida è presente una sezione con tutte le fonti normative citate e le sentenze più recenti menzionate, per eventuali approfondimenti.)*

Tipologie di debiti di un showroom di design e relativi rischi

Un showroom di arredamento/design può accumulare diverse tipologie di debiti, ciascuna con caratteristiche e conseguenze specifiche. È importante riconoscere la natura di ogni debito, perché da essa dipendono le azioni che il creditore può intraprendere e le strategie difensive disponibili al debitore. Di seguito le principali categorie di debiti che tipicamente gravano su un’attività di showroom:

  • Debiti fiscali e tributari: imposte non pagate (IVA, imposte sui redditi, IRAP), contributi previdenziali (INPS) e tributi locali. Questi debiti tendono a crescere rapidamente per via di sanzioni e interessi di mora . L’Agenzia delle Entrate-Riscossione (ex Equitalia) può iscrivere ipoteche sugli immobili, fermo amministrativo su veicoli e avviare pignoramenti senza passare dal tribunale (procedura amministrativa). Tuttavia, la legge impone alcuni limiti a tutela del debitore: ad esempio, per il pignoramento immobiliare del fisco servono almeno €120.000 di debito e un’ipoteca iscritta da 6 mesi; inoltre la prima casa (unico immobile non di lusso dove il debitore risiede) non è pignorabile dall’Erario . Anche su stipendi e pensioni il pignoramento fiscale è parziale (da 1/10 a 1/5, a seconda dell’importo dello stipendio) . Queste tutele, però, valgono solo verso il fisco: un creditore privato può pignorare la prima casa (sebbene debba passare per il tribunale e la procedura sia complessa) e può trattenere fino a un quinto dello stipendio.
  • Debiti bancari e finanziari: mutui contratti per acquistare il locale o ristrutturarlo, finanziamenti per l’acquisto di arredi e collezioni di design, scoperti di conto corrente, ecc. Le banche spesso vantano garanzie reali (es. ipoteca sull’immobile dello showroom o pegno su arredi finanziati) o personali (fideiussioni dei titolari). In caso di insolvenza, la banca può revocare gli affidamenti (es. chiudere fidi bancari) e avviare l’esecuzione forzata sui beni dati in garanzia (es. espropriazione dell’immobile ipotecato) mediante procedura giudiziale accelerata se il credito è munito di titolo esecutivo. Il rischio maggiore per l’imprenditore è la escussione delle garanzie personali: se ha firmato fideiussioni, anche il patrimonio personale (es. casa di abitazione, salvo ipoteche già presenti o casi particolari) può essere aggredito dalla banca. Inoltre, va ricordato che alcune omissioni di pagamento verso banche possono avere anche rilievi legali: ad esempio, assegni scoperti non pagati comportano sanzioni e protesti; un utilizzo abusivo di fidi può configurare reati se fatto in malafede (es. distrazione di finanziamenti).
  • Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali: riguardano il mancato pagamento di mobili, oggetti di design e servizi forniti allo showroom, oppure bollette di utenze, onorari di professionisti, ecc. I fornitori insoddisfatti possono agire rapidamente con un decreto ingiuntivo per ottenere un titolo esecutivo e procedere a pignoramenti (ad esempio, bloccando i conti correnti aziendali o pignorando merci in magazzino). Alcuni fornitori tutelano contrattualmente il proprio credito con clausole di riserva di proprietà (patto di riservato dominio) sulle forniture: ciò significa che i beni consegnati restano di proprietà del fornitore finché non sono pagati, e in caso di insolvenza questi beni possono essere rivendicati dal fornitore (ad esempio pezzi di arredamento in conto vendita non pagati). In assenza di tali clausole, i fornitori sono creditori chirografari (senza garanzie) e in caso di concorso con altri debitori rischiano di essere soddisfatti solo in minima parte. Tuttavia, a differenza del fisco, i creditori privati non hanno privilegi su beni essenziali del debitore salvo che ottengano misure cautelari (come sequestro conservativo) in caso di atti fraudolenti del debitore.
  • Debiti da leasing e noleggi: spesso gli showroom arredano i locali con mobili, impianti di illuminazione o attrezzature in leasing finanziario. Il leasing è un contratto in cui l’azienda utilizzatrice paga canoni periodici per un bene (es. arredi, veicoli) con opzione finale di acquisto. Se lo showroom non paga i canoni, la società di leasing può risolvere il contratto, restituirsi il bene (che è di sua proprietà) e chiedere il risarcimento del danno (tipicamente la differenza tra il valore residuo e quanto incassato). In pratica l’oggetto in leasing viene ripreso e rivenduto, e l’eventuale insufficienza a coprire il debito residuo rimane a carico del debitore come credito chirografario. Nelle procedure concorsuali, il leasing viene considerato un contratto in corso: il curatore o il debitore in concordato può decidere se subentrare nel contratto (continuando a pagare i canoni) oppure scioglierlo. Se lo scioglie, la società di leasing ha diritto a restituirsi il bene e insinuare il credito per i canoni non pagati e un’eventuale penale, ma solo come chirografo (senza privilegio specifico, salvo garanzie contrattuali). Dunque i beni in leasing non sono aggredibili dagli altri creditori finché il contratto è in corso (perché non di proprietà del debitore), ma rappresentano un costo fisso che, se non sostenibile, può aggravare la crisi.
  • Debiti verso il locatore (affitto commerciale): il locale dove ha sede lo showroom è spesso in affitto. In Italia, se l’inquilino ritarda o omette il pagamento del canone, il proprietario può attivare la procedura di sfratto per morosità. Dopo almeno 20 giorni di ritardo nel pagamento di una mensilità (o per ritardi ripetuti), il locatore può intimare lo sfratto davanti al tribunale. Il giudice convalida lo sfratto se l’inquilino non paga nel frattempo. Per i contratti commerciali, la legge consente al giudice di concedere una grazia (una dilazione) fino a massimo 90 giorni solo in alcuni casi, ma è discrezionale. In pratica, se lo showroom non ha liquidità per saldare gli arretrati, rischia di perdere rapidamente l’uso del locale. Difendersi dallo sfratto è possibile solo pagando il dovuto (magari trovando un accordo per dilazionare l’arretrato prima dell’udienza) oppure evidenziando errori formali nella procedura. Nelle procedure concorsuali, i canoni scaduti rientrano tra i debiti chirografari; il contratto di locazione può essere continuato (col consenso del giudice) se utile al piano di risanamento, ma in tal caso occorre pagare puntualmente i canoni correnti. Se invece l’attività cessa, il contratto si scioglie e il locatore ha diritto a insinuare il credito per i canoni non pagati e un’eventuale indennità di mancato preavviso.
  • Debiti verso il personale e altri obblighi di legge: uno showroom con dipendenti potrebbe trovarsi nell’impossibilità di pagare stipendi o TFR (trattamento di fine rapporto). I debiti verso i lavoratori dipendenti sono considerati privilegiati (hanno priorità di pagamento su molti altri crediti) per le ultime mensilità e il TFR. Inoltre, i dipendenti non pagati possono agire in giudizio rapidamente (ingiunzione di pagamento) e persino chiedere il fallimento dell’azienda se l’insolvenza è grave. Tuttavia, esistono forme di tutela per i lavoratori in caso di insolvenza del datore: ad esempio, il Fondo di Garanzia INPS interviene a pagare il TFR e alcuni stipendi non corrisposti, se viene aperta una procedura concorsuale (fallimento o liquidazione controllata) o se l’azienda cessa e risulta incapiente. Quindi, dal punto di vista del titolare, l’incapacità di pagare i dipendenti è un segnale di allarme massimo di insolvenza e espone a iniziative legali immediate.

Come si vede, le azioni dei creditori variano: il fisco e gli enti pubblici hanno poteri esecutivi speciali ma anche limiti legali a tutela del debitore; i creditori privati devono passare dal giudice, però non hanno le stesse restrizioni (possono aggredire anche beni che il fisco non potrebbe, come la prima casa, se non protetti da altre norme). In ogni caso, quando un’impresa è in crisi (cioè non riesce più a far fronte regolarmente alle obbligazioni), si attiva una spirale pericolosa: interessi e sanzioni aumentano il debito, i fornitori ritirano fiducia (ad es. chiedendo pagamenti anticipati o interrompendo forniture), le banche possono revocare gli affidamenti e chiedere rientri immediati, i beni essenziali (merce, attrezzature, immobili) rischiano di essere pignorati. Ignorare la situazione è la scelta peggiore: in assenza di iniziative, si rischiano esecuzioni disordinate, il fallimento d’ufficio (su istanza di creditori o Procura) per le imprese più grandi, e la perdita sia dell’attività sia del patrimonio personale. Fortunatamente, il nostro ordinamento oggi offre molteplici strumenti legali per gestire la crisi, permettendo al debitore onesto di congelare le azioni esecutive e trattare con i creditori in modo organizzato, cercando soluzioni che compongano la crisi invece di subire passivamente gli eventi .

Nel seguito, dopo aver delineato il quadro normativo vigente, analizzeremo queste soluzioni una per una, evidenziandone i requisiti, i vantaggi e i possibili inconvenienti, sempre dal punto di vista di chi – titolare di uno showroom di design – vuole difendersi dai debiti e ripartire.

Il quadro normativo italiano aggiornato al 2025

Per affrontare legalmente una situazione di sovraindebitamento aziendale o personale, occorre inquadrare la propria posizione nelle normative esistenti. Negli ultimi anni in Italia c’è stata una profonda riforma del diritto fallimentare e delle procedure di gestione della crisi. Ecco i punti fondamentali da conoscere (tutti aggiornati al 2025):

  • Abrogazione della Legge Fallimentare e nuovo Codice della Crisi: la storica Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n.267) è stata abrogata e sostituita integralmente dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con D.Lgs. 12 gennaio 2019 n.14 . Dopo vari rinvii, il Codice è entrato in vigore definitivamente il 15 luglio 2022 . Esso rappresenta la “nuova cornice” legale in materia: introduce terminologie e procedure nuove, con un approccio più orientato al risanamento rispetto al passato . Ad esempio, il termine “fallimento” è stato sostituito da “liquidazione giudiziale”, con l’intento di ridurre lo stigma e sottolineare la funzione liquidatoria controllata dalla magistratura più che l’aspetto punitivo. Allo stesso modo, sono state introdotte procedure di allerta precoce e composizione assistita della crisi (come vedremo, sebbene gli strumenti di allerta obbligatoria siano stati ridimensionati, si punta molto sulla composizione negoziata volontaria).
  • Legge sul Sovraindebitamento integrata nel Codice: accanto al sistema fallimentare tradizionale per le imprese, in Italia dal 2012 esisteva una legge speciale per i debitori non fallibili, la Legge 27 gennaio 2012 n.3 (detta “salva suicidi”), che disciplinava le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento. Questa legge consentiva anche a privati, piccoli imprenditori, professionisti e altri soggetti esclusi dal fallimento di ottenere l’esdebitazione (la liberazione dai debiti) tramite procedure ad hoc. La L.3/2012 è stata abrogata con l’entrata in vigore del Codice della Crisi, che però ne ha incorporato gli istituti con alcune modifiche . Oggi, dunque, all’interno del Codice della Crisi troviamo una parte dedicata alle procedure da sovraindebitamento (Titolo IV CCII), aggiornata e coordinata con le altre norme. Ciò significa che la disciplina per un imprenditore sotto-soglia (piccolo) o un privato consumatore in difficoltà finanziaria è organicamente inserita nello stesso testo normativo che regola il concordato preventivo e il fallimento delle imprese maggiori, pur mantenendo proprie peculiarità.
  • Definizioni di crisi e insolvenza: il Codice ha definito in modo esplicito cosa si intende per stato di crisi e per stato di insolvenza. L’art. 2 CCII definisce la crisi come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura” – ad esempio tensioni di liquidità che fanno prevedere che l’azienda non reggerà le obbligazioni nei successivi 12 mesi . L’insolvenza, invece, è lo “stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori” indicativi dell’incapacità attuale di soddisfare regolarmente le obbligazioni . In parole semplici: la crisi è una situazione di pre-insolvenza (squilibrio che fa temere di non poter pagare in futuro), mentre l’insolvenza è il conclamato default, quando i debiti sono scaduti e non pagati. Questa distinzione è importante perché le soluzioni di allerta e composizione assistita mirano a intervenire già nella fase di crisi, prima che si arrivi all’insolvenza irreversibile. Ad esempio, la composizione negoziata (di cui diremo più avanti) si attiva in caso di crisi o insolvenza reversibile, per evitare il tracollo.
  • Chi è soggetto a fallimento (liquidazione giudiziale): non tutte le imprese possono essere dichiarate fallite (oggi “in liquidazione giudiziale”). Restano escluse le categorie tradizionali: l’imprenditore agricolo e alcuni enti particolari (es. enti pubblici). Inoltre, storicamente la legge fallimentare esonerava i piccoli imprenditori commerciali (c.d. sotto soglia) se non superavano determinati parametri dimensionali. Anche il nuovo Codice conferma che i “piccoli” imprenditori non sono assoggettati alla liquidazione giudiziale, e quindi rientrano nelle procedure di sovraindebitamento. I parametri attualmente vigenti (rimasti invariati rispetto alla L.F. art. 1) sono: attivo patrimoniale annuo ≤ €300.000, ricavi lordi annui ≤ €200.000, debiti totali ≤ €500.000 (nei tre esercizi precedenti) . Se un’impresa individuale o società non supera congiuntamente questi limiti, è definita “imprenditore minore” e non può essere soggetta a fallimento/liq. giudiziale. Di conseguenza, un piccolo showroom di design con fatturato modesto potrebbe rientrare in questa categoria ed evitare il fallimento: dovrà eventualmente utilizzare le procedure di sovraindebitamento (piano del consumatore, concordato minore, ecc.). Al contrario, uno showroom strutturato con ricavi e debiti sopra soglia (es. un’azienda con €1 milione di debiti bancari) è soggetto alle procedure concorsuali ordinarie: un creditore potrebbe chiederne la liquidazione giudiziale in caso d’insolvenza. Nota: la verifica delle soglie va fatta caso per caso, considerando la media degli ultimi 3 anni di attività. Ad esempio, se un’impresa ha debiti per €600.000, supera la soglia dei €500.000 e dunque tecnicamente è fallibile; se invece i debiti sono €400.000 ma i ricavi sono stati €250.000 annui, supera la soglia ricavi e anch’essa diverrebbe fallibile. La distinzione è cruciale perché determina quali strumenti sono accessibili: sovraindebitamento per i non fallibili, concordato/accordi preventivi per i fallibili, ferma restando la possibilità per talune imprese minori di optare per procedure maggiori su base volontaria (il Correttivo 2024 ha previsto, ad esempio, che anche una start-up innovativa che superi i limiti possa accedere a concordato preventivo su scelta del debitore) .
  • Norme penali e responsabilità personali: il Codice della Crisi ha anche rivisto alcuni aspetti penali e di responsabilità degli organi. Sono confermate le fattispecie di bancarotta fraudolenta e semplice per chi provoca o aggrava il dissesto con dolo o colpa grave, così come le sanzioni per la mancata tenuta delle scritture contabili. Gli amministratori di società hanno ora un obbligo esplicito di dotare l’azienda di assetti adeguati a rilevare tempestivamente la crisi (art. 3 CCII) e attivarsi senza indugio per affrontarla. La mancata attivazione tempestiva di fronte a segnali di crisi può costituire inosservanza dei doveri e comportare responsabilità per aggravamento del dissesto. Ciò significa che il titolare di uno showroom organizzato in forma societaria (es. S.r.l.) deve monitorare gli indici di crisi e muoversi prontamente (ad esempio consultando un OCC o avviando una negoziazione) per evitare che la situazione peggiori – altrimenti rischia azioni di responsabilità da parte di creditori o curatore per aver procrastinato. Sul fronte penale tributario, restano in vigore i reati di omesso versamento IVA o ritenute (D.Lgs. 74/2000) se si superano certe soglie: essere in crisi non esime dall’eventuale punibilità penale se, ad esempio, non si sono versate IVA oltre €250.000 per anno. Tuttavia, l’utilizzo degli strumenti di composizione della crisi può mitigare questi rischi: se si riesce a pagare almeno il dovuto al fisco prima della sentenza (magari tramite un accordo o un piano omologato), si possono evitare le condanne (il ravvedimento operoso o il pagamento integrale del debito IVA prima del dibattimento estingue il reato). In generale, il sistema attuale mira a premiare il debitore onesto e collaborativo: chi si attiva per tempo e utilizza gli strumenti di legge per risolvere la crisi è protetto da molte conseguenze negative (ad es. esonero da revocatorie e da accuse di bancarotta preferenziale se opera in un piano attestato ), mentre chi persevera nell’inadempimento selettivo o distrae risorse può perdere i benefici (come l’esdebitazione) e incorrere in sanzioni. Emblematica in tal senso una recente osservazione giurisprudenziale: pagare tutti i creditori privati ma omettere volontariamente di versare le imposte rivela una volontà sistematica di sottrarsi ai doveri tributari, comportamento incompatibile con la buona fede richiesta per le procedure di composizione . In altre parole, puntare solo a “scaricare” i debiti fiscali mantenendo indenni gli altri creditori può portare il giudice a negare l’accesso o l’omologa di un piano, considerandolo un abuso.
  • Evoluzione normativa 2020-2025: il Codice della Crisi del 2019 non è rimasto statico; è stato subito oggetto di vari correttivi e modifiche per migliorarlo e attuare direttive UE. Ci sono stati: un primo correttivo (D.Lgs. 147/2020), un secondo correttivo nel 2022 (D.Lgs. 83/2022, che ha recepito la direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva) , e un terzo correttivo nel 2024 (D.Lgs. 136/2024, detto “Correttivo Ter”). Inoltre, misure urgenti sono state introdotte col D.L. 118/2021 (convertito in L. 147/2021) istitutivo della composizione negoziata. Più di recente, a inizio 2025, il Governo ha emanato un ulteriore decreto (D.Lgs. 13/2025, denominato “Decreto Crisi e Rilancio” una volta convertito in L. 27/2025) che ha portato ulteriori novità, specie a favore dei debitori meritevoli. Tra le novità del 2025 segnaliamo: (a) l’introduzione dell’esdebitazione immediata “una tantum” per il debitore persona fisica privo di beni (art. 283-bis CCII) – in pratica chi è completamente incapiente e “insolvente senza colpa” può chiedere di essere liberato dai debiti subito, senza dover prima liquidare un patrimonio inesistente; (b) il rafforzamento della transazione fiscale e delle dilazioni nelle procedure: ora è possibile ottenere piani fino a 144 mesi (12 anni) per pagare i debiti fiscali e previdenziali all’interno di un accordo o piano omologato , e persino trattare a saldo e stralcio debiti fiscali sotto €100.000 (prima l’Agenzia Entrate era restia a concedere stralci su importi modesti, ora la legge lo consente espressamente); (c) la creazione di un “percorso unico” semplificato per professionisti e imprese familiari presso la Camera di Commercio, uno sportello crisi digitale nazionale dove l’imprenditore in difficoltà può ottenere un’analisi della situazione, avviare la negoziazione con i creditori e, se necessario, accedere ad una procedura concorsuale in modo coordinato . Questo per evitare frammentazioni e ritardi: l’idea è che tramite un unico portale l’imprenditore possa valutare tutti gli strumenti disponibili e scegliere quello più adatto con l’ausilio di esperti.

In sintesi, oggi il quadro normativo offre una gamma molto ampia e flessibile di strumenti per affrontare i debiti, con soluzioni calibrate a seconda della natura del debitore (grande impresa, piccola impresa, consumatore) e dell’obiettivo (risanare e continuare l’attività, oppure liquidare tutto e chiudere, assicurandosi però l’esdebitazione) . Nelle sezioni seguenti vedremo nel dettaglio ciascuna di queste soluzioni, suddividendole in due macro-aree: le soluzioni stragiudiziali (accordi volontari, piani attestati) e le procedure concorsuali giudiziali, distinguendo ulteriormente tra quelle per imprese “fallibili” (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, ecc.) e quelle per sovraindebitamento destinate a privati e piccole imprese (piano del consumatore, concordato minore, liquidazione controllata, ecc.).

Soluzioni stragiudiziali: negoziazione privata e piani attestati

Quando un’impresa come uno showroom di design si trova in difficoltà, la prima via da tentare è spesso quella extragiudiziale, cioè senza coinvolgere subito il tribunale. Le soluzioni stragiudiziali hanno il vantaggio di evitare la pubblicità negativa e la formalità delle procedure concorsuali, cercando un accordo volontario con i creditori. Tuttavia, funzionano solo se c’è cooperazione sufficiente da parte dei creditori e fiducia nella fattibilità del risanamento. Vediamo gli strumenti principali in questo ambito:

Negoziazione privata e accordi “di fatto” con i creditori

Il metodo più semplice (almeno in teoria) per risolvere i debiti è negoziare direttamente con ciascun creditore una ristrutturazione del debito. Ciò può prendere la forma di un piano di rientro (rateizzare l’arretrato su un periodo più lungo), di un saldo e stralcio (pagare una percentuale ridotta a fronte della cancellazione del residuo debito) o di una moratoria (sospensione temporanea dei pagamenti). Ad esempio, il titolare di uno showroom può contattare fornitori chiave e proporre: “vi pago il 50% del dovuto entro 6 mesi, e il restante 50% lo consideriamo annullato”. Oppure può chiedere alla banca di posticipare le rate del mutuo per un anno e allungare la durata del prestito (questa è una rinegoziazione del mutuo).

Vantaggi: Non vi sono costi di procedura o interventi esterni, si evita il clamore di un fallimento o concordato, e si mantiene il controllo totale sulla trattativa. Inoltre, l’accordo può essere personalizzato e flessibile per ciascun creditore.

Criticità: È necessario convincere tutti i principali creditori ad aderire. Basta un creditore importante dissenziente perché l’intera strategia fallisca (ad es. se la banca non accetta di rinegoziare e agisce per prima, potrebbe pignorare i beni togliendo risorse per gli altri). Inoltre, tali accordi privati non offrono protezione legale: finché si negozia informalmente, ogni creditore resta libero di attaccare (non c’è uno stay delle azioni esecutive). Vi è quindi un rischio di corse alle armi: un creditore paziente potrebbe ritrovarsi svantaggiato se un altro più aggressivo pignora per primo i conti o i beni disponibili. Ancora, anche se tutti accettano e il piano privato funziona, resta un rischio “a posteriori”: se l’azienda dovesse comunque fallire entro i successivi 2 anni, i pagamenti preferenziali fatti ad alcuni creditori potrebbero essere soggetti a azione revocatoria fallimentare dal curatore, venendo annullati . Ad esempio, se ho pagato un fornitore al 100% mentre gli altri prendono zero in fallimento, quel pagamento può essere revocato (il fornitore deve restituire le somme alla massa fallimentare) – a meno che non fosse parte di certe procedure protette, come vedremo. Questo rende i creditori diffidenti ad accettare accordi bilaterali se vedono un concreto rischio di fallimento futuro.

In pratica, la negoziazione privata “atomizzata” funziona soprattutto quando i debiti non sono troppo estesi e l’impresa è ancora fondamentalmente sana (crisi temporanea di liquidità): in tal caso i creditori hanno convenienza ad aiutare l’azienda a riprendersi per non perderla come cliente. Se invece la situazione è grave e con insolvenza conclamata, i creditori tendono a tutelarsi singolarmente. Per migliorare le chance di successo di accordi privati, l’imprenditore può farsi affiancare da un advisor finanziario o legale che presenti un convincente piano di risanamento e ne coordini l’esecuzione. Ma se ciò non basta, occorre passare a strumenti più strutturati.

Il Piano Attestato di Risanamento

Un gradino sopra la pura negoziazione volontaria vi è il Piano attestato di risanamento, disciplinato dall’art. 56 CCII (riprendendo l’art. 67, co.3, lett. d) della vecchia legge fallimentare) . Si tratta ancora di uno strumento stragiudiziale (fuori dalle procedure concorsuali), ma con alcune formalità atte a conferirgli efficacia e protezione giuridica. In sostanza, il piano attestato è un piano di risanamento dell’azienda redatto dall’imprenditore, con l’ausilio di professionisti, e “attestato” da un esperto indipendente circa la sua ragionevolezza e fattibilità. Sulla base di questo piano, il debitore conclude accordi con i creditori per ristrutturare i debiti in coerenza con le previsioni del piano stesso.

Caratteristiche chiave del piano attestato:

  • Natura contrattuale: è un’iniziativa unilaterale del debitore rivolta ai creditori. Non c’è un’approvazione collettiva: ogni creditore decide se aderire o meno alle modifiche proposte (allungamento scadenze, riduzione importi, conversione di crediti in quote di partecipazione, etc.). Non serve l’intervento preventivo del tribunale né il voto dei creditori come nel concordato . È dunque uno strumento flessibile, che non vincola i dissenzienti (chi non accetta resta con i suoi diritti intatti). Per questo funziona se si riesce a ottenere il consenso della maggior parte dei creditori importanti tramite accordi bilaterali.
  • Contenuto e attestazione: il piano deve essere un documento dettagliato, con data certa (di solito si ottiene con atto notarile o PEC) e contenere almeno: analisi della situazione aziendale, cause della crisi, strategia di rilancio, misure da adottare (es. ricapitalizzazione, dismissione di asset, riduzione costi) e proiezioni finanziarie che mostrino la sostenibilità futura . Un professionista indipendente (tipicamente un commercialista o revisore esperto in crisi aziendali) viene incaricato come attestatore per validare il piano. L’attestatore verifica la veridicità dei dati di partenza e la fattibilità del piano, rilasciando una relazione finale in cui dichiara che, a suo giudizio, il piano è idoneo a risanare l’impresa e permetterà il regolare pagamento dei debiti ristrutturati . Questa “attestazione” è fondamentale per dare credibilità al piano verso i creditori e per gli effetti legali di protezione.
  • Effetti legali e pubblicità: il piano attestato in sé non attiva una procedura concorsuale e non comporta, ad esempio, automatico blocco delle azioni esecutive. Tuttavia, la legge gli riconosce alcuni benefici cruciali se viene pubblicato nel registro delle imprese (depositandolo presso la Camera di Commercio). La pubblicazione non è obbligatoria, ma serve per attivare tali tutele . I due vantaggi principali sono: (1) Protezione dagli atti revocatori: gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano attestato non sono soggetti a revocatoria fallimentare . Ciò significa che, se anche l’azienda dovesse fallire successivamente, i pagamenti fatti e le garanzie concesse ai creditori in attuazione del piano non potranno essere annullati dal curatore (purché coerenti col piano) . Ad esempio, se lo showroom nel piano paga un fornitore strategico con uno sconto del 40% e questo pagamento avviene regolarmente, poi un eventuale fallimento l’anno dopo non potrà chiedere al fornitore di restituire i soldi ricevuti. Questo scudo legale serve a incoraggiare i creditori ad aderire, senza il timore che tutto venga azzerato in caso di insolvenza successiva. (2) Esenzione da alcuni reati fallimentari: sempre limitatamente agli atti compiuti in esecuzione del piano, la legge esclude la punibilità per alcune ipotesi di bancarotta, in particolare la bancarotta preferenziale rispetto a quei pagamenti . Esempio: pagare anticipatamente un fornitore a scapito di altri, in caso di fallimento, sarebbe di norma bancarotta preferenziale (aver favorito un creditore); ma se quel pagamento era previsto dal piano attestato, la norma esclude il reato. Ciò mette al riparo l’imprenditore e gli amministratori che attuano il piano, purché rispettino la buona fede e le condizioni del piano stesso.
  • Ruolo del tribunale: il piano attestato non viene omologato da un giudice. Il tribunale può intervenire solo ex post, se ad esempio un creditore contesta la validità del piano o chiede il fallimento dell’impresa: in quel caso il giudice valuterà se il piano era idoneo e se la crisi poteva essere superata, per decidere sulla richiesta di fallimento (c’è una giurisprudenza che indica che l’apertura di un fallimento in pendenza di un piano attestato va ponderata considerando la possibilità di risanamento). In ogni caso, non c’è un controllo preventivo giudiziario. Questo rende il piano attestato più rapido e riservato. Attenzione: proprio per l’assenza di un ombrello giudiziario, durante l’attuazione del piano attestato l’azienda non è protetta da eventuali azioni individuali dei creditori non aderenti o nuovi creditori. È un punto debole: ad esempio, se ho convinto banche e fornitori principali a rispettare il piano, ma un piccolo creditore non coinvolto decide di pignorare, potrebbe creare disturbo. Per questo, in alcuni casi, mentre si esegue il piano attestato, l’azienda potrebbe comunque aver bisogno di misure di tutela (ad esempio ottenere accordi moratori generali, o se la situazione degenera, passare a un concordato preventivo per bloccare tutti).

In sintesi, il piano attestato di risanamento è ideale per imprese che hanno buone prospettive di rilancio ma sono appesantite da debiti insostenibili: consente di ristrutturare il debito in modo contrattuale, con l’avallo di un esperto che rassicura i creditori sulla serietà del piano. Uno showroom di design con debiti potrebbe, ad esempio, elaborare con un advisor un piano industriale: chiudere una filiale poco redditizia, vendere qualche cespite (un furgone, ecc.) per fare cassa, introdurre una nuova linea di prodotti più accessibile per aumentare il fatturato, ecc., e al contempo proporre ai creditori di allungare i pagamenti. L’attestatore certificherà che, se tali misure vengono adottate, l’azienda potrà tornare solvibile. I creditori, vedendo l’attestazione, saranno più propensi ad aderire (perché intravedono la possibilità di essere pagati almeno in parte, più di quanto otterrebbero da un fallimento). In più, sapranno che i pagamenti ricevuti sono “sicuri” da revocatoria.

Va notato che nel 2022, con l’attuazione della direttiva UE, sono stati potenziati anche i cosiddetti “piani attestati soggetti a pubblicazione”: pubblicando il piano in Registro Imprese, come detto, si ottengono protezioni legali (revocatoria, ecc.) e alcune agevolazioni fiscali (ad es. le sopravvenienze attive da riduzione di debito non sono tassate, secondo la legge di Bilancio 2023), incentivando il debitore a formalizzare il piano.

Quando il piano attestato non basta? Se manca l’accordo di qualche creditore cruciale o il debito è troppo grande per essere risolto solo con accordi volontari, si deve passare a strumenti che coinvolgono l’autorità giudiziaria per imporre una soluzione anche ai dissenzienti. Questi strumenti sono gli accordi di ristrutturazione omologati e i concordati preventivi, che vediamo qui di seguito.

Accordi di ristrutturazione dei debiti omologati dal tribunale

L’accordo di ristrutturazione dei debiti è uno strumento “ibrido”: consiste in un accordo tra debitore e una parte consistente dei suoi creditori, che però viene poi omologato da un tribunale per acquistare efficacia anche verso i creditori che non hanno aderito. È disciplinato dagli artt. 57-64 del Codice della Crisi (riprende e aggiorna l’istituto ex art. 182-bis L.F.). Questo strumento è pensato per situazioni in cui il debitore riesce a ottenere il consenso della maggioranza qualificata dei crediti, ma non l’unanimità, e vuole quindi rendere l’accordo vincolante erga omnes tramite l’intervento del giudice.

Elementi principali:

  • Soglia di adesione necessaria: per chiedere l’omologazione, il debitore deve aver concluso un accordo con creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti totali (in valore) . Questa è la regola generale. Le riforme recenti hanno introdotto varianti per facilitare l’accordo in certi casi: ad esempio, esistono gli “accordi di ristrutturazione agevolati” dove la soglia può scendere al 30% se i creditori coinvolti sono solo banche e finanziarie (quindi nessun fornitore o fisco), e gli “accordi ad efficacia estesa” che permettono, in presenza di determinate maggioranze in una categoria omogenea (es. tutti gli istituti bancari), di estendere l’accordo anche ai pochi dissenzienti di quella categoria. Queste varianti sono frutto dell’attuazione della direttiva UE nel 2022 e mirano a superare il blocco di minoranze ostative. In generale, però, possiamo semplificare dicendo che serve una larga maggioranza di consensi affinché un accordo possa essere omologato.
  • Contenuto dell’accordo: è libero, come un contratto. Tipicamente, il debitore propone di pagare una percentuale dei crediti (es: 60%) entro un certo termine, oppure di pagare alcuni creditori integralmente e altri parzialmente, o ancora altre forme (conversione di debiti in capitale sociale, cessione di asset ai creditori, ecc.). Può includere anche una transazione fiscale per i debiti tributari e previdenziali: dal 2021 la legge consente di inserire nel pacchetto anche il fisco (che spesso è uno dei creditori maggiori) e l’INPS, negoziando il pagamento parziale di imposte e contributi, purché l’adesione dell’Erario rispetti certe condizioni di convenienza rispetto alla liquidazione. Con le modifiche del 2022-2023, se il Fisco rifiuta senza motivo una proposta vantaggiosa (che gli darebbe più di quanto otterrebbe dal fallimento), il tribunale può procedere all’omologazione anche senza il voto favorevole dell’Erario (cram-down fiscale). Questo è un enorme passo avanti perché storicamente la rigidità del fisco bloccava molti accordi.
  • Procedura di omologazione: il debitore deposita in tribunale il testo dell’accordo e un piano attestato sulla sua eseguibilità, accompagnati da documentazione contabile e dalla relazione di un professionista indipendente (attestatore) che certifica che i creditori estranei all’accordo non riceveranno meno di quanto avrebbero diritto di ottenere in un’alternativa liquidatoria. Il tribunale, dopo aver verificato che la maggioranza richiesta è raggiunta e che l’accordo è fattibile e conveniente per tutti, omologa l’accordo con decreto. Da quel momento l’accordo diventa vincolante per tutti i creditori aderenti e non aderenti (questi ultimi restano estranei ma vengono integralmente pagati secondo il loro diritto, oppure – se si tratta di creditori minori chirografari – possono essere pagati alle medesime condizioni offerte agli aderenti, a seconda dei casi). In pratica i creditori che non hanno firmato non partecipano alle riduzioni: se l’accordo non li tocca (li si paga integralmente), proseguiranno così; se l’accordo prevede il cram-down su di essi, è il giudice che lo impone assicurando però che non prendano meno del valore di liquidazione.
  • Misure protettive: appena presentata la domanda di omologazione, il debitore può chiedere al tribunale di sospendere o vietare azioni esecutive individuali dei creditori per il tempo necessario alla chiusura del procedimento. Questa protezione è simile a quella del concordato (vedi oltre) e serve a dare respiro e stabilità: ad esempio blocca pignoramenti, sequestri, ecc., impedendo che qualcuno comprometta l’accordo in itinere. In più, l’accordo di ristrutturazione può essere depositato anche in fase di trattativa: esiste la procedura di accordo in pendenza di omologazione (il cosiddetto “182-bis con riserva”, simile al concordato con riserva) in cui il debitore deposita la domanda e poi ha fino a 60-120 giorni per raccogliere le firme necessarie. Durante questo periodo gode dello stay dai creditori. Ciò risulta utile proprio per convincere gli ultimi creditori ad aderire, sapendo che nel frattempo non possono agire individualmente.
  • Effetti sull’attività: a differenza del fallimento, qui l’imprenditore rimane in carica e continua a gestire l’azienda. Non c’è un curatore o perdita di potere, anche se spesso viene nominato un Commissario Giudiziale per vigilare durante il periodo tra il deposito e l’omologa. L’accordo di ristrutturazione di per sé è spesso usato da aziende che vogliono evitare il concordato preventivo, mantenendo la trattativa riservata e coinvolgendo solo una parte dei creditori (magari quelli principali).

Esempio pratico: supponiamo che uno showroom di design abbia debiti totali per 1 milione €. L’imprenditore riesce a convincere la banca (che ha 400k di credito garantito da ipoteca) e i principali fornitori (altri 300k) a firmare un accordo in cui: la banca estende il mutuo e rinuncia a interessi di mora, i fornitori accettano il 70% del loro credito pagato in 2 anni, e il fisco (200k di cartelle) accetta di stralciare sanzioni e interessi e dilazionare l’imposta in 5 anni (transazione fiscale). Questi consensi coprono il 90% dei crediti. Rimane un 10% di piccoli creditori (es. qualche consulente non pagato) non interpellati. L’azienda deposita l’accordo in tribunale: i piccoli creditori, grazie all’omologa, saranno comunque pagati magari integralmente o secondo le previsioni (spesso i piccoli chirografari ≤5% del totale possono anche essere lasciati fuori e pagati integralmente fuori accordo, la legge lo consente per semplificare). Il tribunale omologa rilevando che nessun creditore è leso. A quel punto l’accordo produce gli effetti: se qualche piccolo creditore tentasse di agire, non potrebbe, perché l’accordo omologato fa stato. Tutti dovranno rispettare la dilazione/decurtazione stabilita. L’azienda così evita il fallimento e si risana gradualmente.

Vantaggi e limiti: rispetto al semplice piano attestato, l’accordo omologato offre maggiore sicurezza giuridica – è un provvedimento giudiziario a tutti gli effetti, con esecutorietà e opponibilità ai terzi. Inoltre consente di coinvolgere il fisco e di obbligare anche i creditori dissenzienti se la maggioranza è raggiunta. Di contro, la procedura è pubblica (l’iscrizione nel Registro Imprese avvisa tutti che c’è un accordo in corso) e richiede tempi e costi (ci si rivolge al tribunale, servono avvocati, attestatori, possibili opposizioni all’omologa da discutere). È meno invasiva di un concordato preventivo ma comunque impegnativa. La soglia del 60% (salvo i casi agevolati) può essere difficile da raggiungere in contesti con molti creditori frammentati. Per uno showroom di dimensioni medio-piccole, di solito l’accordo di ristrutturazione viene valutato se c’è un numero ristretto di creditori principali (es. 2 banche e pochi fornitori grossi) con cui è possibile intendersi, e magari qualche decina di creditori minori che verranno pagati per intero per semplicità. Se invece c’è una moltitudine di creditori eterogenei e nessuna larga maggioranza disposta a collaborare, occorrerà passare al concordato preventivo.

Concordato preventivo (in continuità o liquidatorio) e concordato “semplificato”

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale per eccellenza, storicamente l’alternativa al fallimento per le imprese in crisi. Anche sotto il nuovo Codice conserva la sua centralità: è regolato dagli artt. 84-120 CCII. Il concordato preventivo è un procedimento giudiziale in cui il debitore propone ai creditori un piano per soddisfarli (in parte o in tutto, a seconda della fattibilità) e ottenere l’esdebitazione, mantenendo però l’iniziativa e spesso la gestione, a differenza della liquidazione giudiziale dove subentra un curatore.

Tipologie di concordato: il Codice distingue principalmente tra:

  • Concordato in continuità aziendale: quando il piano prevede che l’attività d’impresa prosegua, in tutto o in parte. Può essere continuità diretta (la stessa azienda continua l’esercizio) oppure indiretta (ad esempio cessione/affitto dell’azienda a un terzo che prosegue l’attività). Lo scopo è salvare i valori aziendali, i posti di lavoro e la capacità produttiva, ristrutturando i debiti a fronte della prospettiva di una continuità. In tal caso la legge richiede che il piano assicuri un soddisfacimento dei creditori non inferiore a quello ottenibile dalla liquidazione e che eventuali crediti privilegiati indispensabili per la continuità (es. fornitori critici) vengano pagati regolarmente. Il concordato in continuità tipicamente offre percentuali ai chirografari basate su flussi di cassa futuri dell’impresa risanata.
  • Concordato liquidatorio: quando invece il piano prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio, però in forma ordinata e vantaggiosa rispetto al fallimento. In questo caso l’azienda vende i beni (magari tutti insieme a un unico acquirente, o sul mercato sotto supervisione) e distribuisce il ricavato ai creditori secondo le regole stabilite dal piano (rispettando comunque le priorità legali di privilegio). Per evitare abusi, la legge richiede che il concordato puramente liquidatorio offra ai creditori chirografari almeno il 20% di soddisfacimento (a meno che vengano apportate risorse esterne che incrementino il valore: ad esempio se un terzo mette soldi aggiuntivi, si può offrire meno del 20 perché è come se ci fosse un contributo esterno). Il 20% è una soglia introdotta per evitare concordati liquidatori “al ribasso” troppo penalizzanti rispetto al fallimento.
  • Concordato misto: piani che combinano elementi di continuità e liquidazione (esempio: l’azienda prosegue ma al contempo vende alcuni cespiti non strategici).

Procedura e votazione: quando un debitore presenta domanda di concordato, vi è dapprima una fase di ammissione. Se la proposta è completa e meritevole, il tribunale ammette il debitore alla procedura e nomina un Commissario Giudiziale (un professionista che vigila e assiste i creditori). Da quel momento scattano le misure protettive automatiche: tutti i creditori anteriori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali né acquisire prelazioni sul patrimonio del debitore. È il cosiddetto automatic stay, simile a un congelamento: i pignoramenti in corso si sospendono, i beni restano sotto la procedura. Questo dà respiro all’impresa che può tentare di attuare il piano.

Si procede quindi alla votazione: i creditori vengono informati del piano e raggruppati eventualmente in classi (facoltative, tranne quando ci sono creditori con interessi giuridici differenti). Hanno diritto di voto i creditori chirografari e i privilegiati per la parte non coperta dal privilegio (poiché quella coperta devono comunque prenderla per intero o per la percentuale minima di legge se rinunciano in parte). Servirà il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto (almeno 50% + 1) per l’approvazione. Se ci sono classi, serve la maggioranza in ogni classe o, in difetto, meccanismi di cram-down: il tribunale può comunque omologare se il piano è approvato dalla maggioranza delle classi e ritiene che i dissenzienti non siano pregiudicati (il CCII ha regole dettagliate per questo, in linea con la direttiva UE).

Dopo il voto dei creditori (espresso per iscritto o in adunanza), il tribunale tiene l’udienza di omologazione: verifica gli esiti del voto e la legittimità del piano. In questa sede i creditori dissenzienti possono fare opposizione se credono che il piano violi la legge o sia iniquo. Il giudice decide sulle opposizioni e, se tutto è regolare, emette decreto di omologa del concordato. Da quel momento il piano diventa vincolante per tutti i creditori anteriori, anche quelli che hanno votato contro o non hanno partecipato.

Gestione dell’azienda durante il concordato: in linea di principio il debitore rimane “in possesso” (debtor in possession), quindi continua a gestire la sua impresa sotto la sorveglianza del Commissario. In un concordato in continuità ciò è essenziale, perché l’attività deve proseguire: il debitore però non può compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice delegato (per evitare fughe di valore). Nel concordato liquidatorio spesso l’imprenditore di fatto cessa l’attività e si limita a collaborare con gli organi della procedura per liquidare i beni.

Effetti per i creditori: i creditori restano congelati e possono soddisfarsi solo nei modi e tempi previsti dal piano. Ad esempio, il piano può prevedere che i chirografari riceveranno un pagamento del 30% in 4 rate annuali, mentre i privilegiati magari vengono pagati al 100% ma in 12 mesi. Una volta omologato, il concordato impedisce ai creditori di agire al di fuori di esso. Se un creditore aveva un’ipoteca, ha diritto almeno al valore di realizzo del bene ipotecato (non può essere privato del suo diritto di prelazione se il bene vale abbastanza), salvo consenso.

Concordato “semplificato” per la liquidazione: nel 2021 il legislatore, con il D.L. 118/2021, ha introdotto un tipo particolare di concordato, detto concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies del D.L. 118/21, ora integrato nel CCII). È un istituto pensato per i casi in cui la composizione negoziata (procedura di cui parleremo più avanti) non abbia portato a un accordo con i creditori, ma l’imprenditore voglia comunque evitare il fallimento offrendo una soluzione liquidatoria. Il concordato semplificato ha due peculiarità notevoli: (1) non prevede voto dei creditori, ossia il debitore può chiedere al tribunale di omologare direttamente un piano di liquidazione anche senza il consenso dei creditori; (2) può essere attivato solo come esito della composizione negoziata fallita (non è liberamente accessibile a tutti – bisogna prima aver tentato la negoziazione assistita con un esperto). In pratica, se lo showroom avvia la composizione negoziata e non trova un accordo con i creditori, può comunque presentare un piano per vendere i suoi beni e distribuire il ricavato, chiedendo al giudice di omologarlo anche contro la volontà dei creditori. Ovviamente il tribunale esaminerà con rigore la proposta: deve essere comunque garantito ai creditori un trattamento non inferiore a quello che otterrebbero con la liquidazione giudiziale. Inoltre, la giurisprudenza ha chiarito che il giudice deve verificare la buona fede del debitore nelle trattative precedenti e la convenienza effettiva del concordato semplificato rispetto al fallimento . Ad esempio, una decisione del Tribunale di Parma (decreto 12 luglio 2023) ha ammesso un concordato semplificato solo dopo aver accertato che l’imprenditore aveva negoziato lealmente e che il piano di liquidazione proposto offriva ai creditori un recupero migliore di quello atteso da un fallimento . Dunque, il concordato semplificato è un’opportunità di chiusura rapida (senza voto, meno formalità) ma non un regalo: bisogna dimostrare che lo si usa correttamente. Per uno showroom, potrebbe essere utilizzato se la negoziazione non va a buon fine e l’unica soluzione è vendere l’attività o gli asset: ad esempio vendere lo stock di mobili in esposizione e gli arredi del negozio, liquidare cassa e crediti, e ripartire il ricavato. In questo modo si eviterebbe la procedura fallimentare lunga, riducendo i costi.

Esdebitazione nel concordato: se il concordato viene eseguito regolarmente (il debitore fa tutto ciò che ha promesso nel piano, pagando le percentuali concordate), l’esdebitazione – cioè la cancellazione di ogni debito residuo – è automatica ex lege. L’imprenditore è liberato dai debiti anteriori non soddisfatti, anche se ne ha pagato solo una parte secondo il piano. Questo è il grande incentivo per il debitore: chiudere la crisi e ripartire pulito (a meno che non siano emersi comportamenti fraudolenti, nel qual caso potrebbe essergli negata).

Confronto con l’accordo di ristrutturazione: in situazioni complesse, perché scegliere il concordato rispetto all’accordo? Il concordato ha alcune armi in più: può imporre tagli e dilazioni anche a minoranze significative, può suddividere i creditori in classi trattandole in modo differenziato (cosa non possibile nell’accordo se non con categorie omogenee), e consente anche a un debitore che non ottenga il 60% di consensi di avere comunque uno strumento (basta il 50% per l’approvazione, e in mancanza di quello, c’è il percorso di cram-down con classi e omologa giudiziale). Inoltre nel concordato si possono scaricare anche i contratti in essere onerosi (es. il contratto di affitto troppo caro può essere sciolto con autorizzazione del giudice, e il locatore avrà un credito da indennizzo). Insomma, il concordato è più incisivo e adatto quando serve ristrutturare in profondità e non c’è sufficiente consenso informale. D’altro canto, è più lungo e costoso: coinvolge tutti i creditori, richiede formalità, nomina del commissario, udienze. Spesso le imprese lo vedono come l’ultima risorsa prima del fallimento, anche se il Codice oggi vorrebbe che fosse considerato un’opportunità di risanamento.

Per un showroom di design, un concordato preventivo in continuità potrebbe essere la scelta se l’attività ha ancora mercato e si vuole evitare di chiudere: ad esempio, si propone ai creditori di accettare il 40% dei loro crediti pagato in 5 anni, continuando l’attività e generando utili con cui pagare quella percentuale. Durante il concordato, l’azienda resta aperta e protetta dai creditori (nessuno può portarle via la merce o pignorare incassi). Al termine, se tutto va bene, l’azienda prosegue alleggerita dai debiti residui (cancellati). Invece, un concordato liquidatorio avrebbe senso se l’imprenditore vuole chiudere ma evitando il fallimento: ad esempio, vendere il negozio e le scorte a un concorrente interessato, incassare e distribuire (magari offrendo ai chirografari il 25%). Se i creditori approvano, l’attività si chiude, l’imprenditore viene esdebitato e potrà magari aprire una nuova attività più in là, senza le pendenze passate.

Da notare infine che la Cassazione e le corti negli ultimi tempi hanno fornito chiarimenti tecnici: ad esempio Cass. civ. Sez. I 24 dicembre 2024 n. 34372 ha chiarito alcuni aspetti sul diritto di voto nel concordato preventivo secondo la vecchia legge (utile per interpretare continuità col nuovo sistema) . Inoltre la Cassazione (sent. 15862/2024) ha affrontato il tema del cosiddetto fallimento omisso medio: ossia la possibilità di dichiarare la liquidazione giudiziale di un debitore nonostante avesse un concordato omologato non ancora formalmente risolto, se sono trascorsi anni e c’è nuova insolvenza – in pratica la Cassazione ha ammesso che i creditori, anche senza una risoluzione formale del concordato, possano chiederne il fallimento successivo se il debitore è nuovamente insolvente . Questo indica che avere ottenuto un concordato non mette al riparo da un eventuale fallimento futuro se non si rispettano gli impegni: e infatti in tali casi i creditori nel fallimento potranno insinuarsi per l’intero importo originario dei loro crediti (salvo detrarre quanto eventualmente incassato durante il concordato) , perché l’effetto esdebitatorio del concordato potrebbe venire meno se interviene un fallimento omisso medio . Questo scenario ovviamente è da evitare: meglio eseguire correttamente il piano oppure, se si vede che non si riuscirà a rispettarlo, attivarsi subito (ad esempio chiedendo una modifica del piano, o passando a composizione negoziata) prima che i creditori perdano fiducia del tutto.

Liquidazione giudiziale (ex fallimento)

Se né gli accordi stragiudiziali né le soluzioni concordate hanno successo o sono praticabili, l’epilogo per un’impresa insolvente è la liquidazione giudiziale, cioè la procedura che dal 2022 ha preso il posto del fallimento. La liquidazione giudiziale viene aperta dal tribunale quando l’impresa è insolvente e non ci sono alternative di risanamento: può avvenire su ricorso dei creditori, su iniziativa della Procura (ad es. in caso di abbandono dell’azienda, o di insolvenza evidente) o anche su richiesta dello stesso imprenditore (autofallimento, se questi ritiene inevitabile la liquidazione). Per un showroom di design, la liquidazione giudiziale comporta tipicamente la chiusura dell’attività e la vendita di tutti i beni (mobili espositivi, arredi, eventuale magazzino, ecc.) da parte di un curatore nominato dal tribunale, con distribuzione del ricavato ai creditori secondo la graduatoria dei privilegi.

Caratteristiche principali della liquidazione giudiziale:

  • Spossessamento: dall’apertura della procedura, l’imprenditore perde l’amministrazione e la disponibilità dei suoi beni. Viene nominato un Curatore (figura analoga a un liquidatore fallimentare) il quale rappresenta l’impresa e gestisce la liquidazione attiva e passiva. L’imprenditore (o gli amministratori, se società) devono collaborare e fornire documenti, ma non hanno più potere decisionale.
  • Interruzione attività: di regola l’esercizio dell’impresa cessa, a meno che il tribunale autorizzi il curatore a proseguirlo provvisoriamente per evitare un danno (ad es. per vendere l’azienda come affittata in esercizio a un terzo, ottenendo un prezzo migliore). Ma in un settore come il retail di design, spesso la prosecuzione in fallimento è rara (avviene di più nel manifatturiero in cui l’azienda ha commesse da completare). Dunque lo showroom fallito in genere chiude i battenti al pubblico; il curatore penserà a vendere gli articoli presenti, magari con un’asta o con trattativa a stock.
  • Cristallizzazione dei debiti: i creditori devono presentare domanda di insinuazione al passivo al giudice delegato. Vengono formate le graduatorie: prima i crediti prededucibili (costi della procedura, dipendenti per ultime mensilità), poi i privilegiati (es. ipoteca della banca, stipendi arretrati, fisco per IVA ritenute e altri privilegi speciali e generali), infine i chirografari. Dopo la verifica e l’eventuale contenzioso (insinuazioni respinte ecc.), il curatore procede con il realizzo dell’attivo.
  • Liquidazione dell’attivo: il curatore vende i beni mobili (attrezzature, mobili, eventuali veicoli) tramite asta o trattativa autorizzata; vende gli immobili ipotecati (solitamente tramite procedure competitive); riscuote crediti verso clienti; può fare cause per recuperare attivi (es. azioni revocatorie per atti pregiudizievoli fatti dall’imprenditore prima del fallimento, come pagamenti preferenziali o atti di frode). Il tutto sotto la sorveglianza del Giudice Delegato e del Comitato dei Creditori.
  • Durata e chiusura: la liquidazione giudiziale può durare parecchi anni, specie se ci sono cause legali in corso. Quando è terminata (o quando comunque non ci sono più attivi da gestire), si redige il piano di riparto finale e la procedura viene chiusa. I creditori ricevono le percentuali ricavate: spesso i chirografari ricevono poco o nulla (dipende dall’attivo; in fallimenti di attività commerciali senza immobili, di solito solo banche ipotecarie e privilegiati ottengono qualcosa, i fornitori restano insoddisfatti o con percentuali basse).
  • Effetti per l’imprenditore: per le società di capitali (es. S.r.l.), la liquidazione giudiziale comporta la cessazione dell’ente una volta chiuso il fallimento (se l’attivo è capiente, potrebbe esserci rimborso ai soci residuale, ma di solito no). I soci non rispondono dei debiti sociali (salvo abbiano garanzie personali). Per le società di persone (S.n.c., S.a.s.) invece la dichiarazione di liquidazione giudiziale si estende di diritto ai soci illimitatamente responsabili: dunque anche il patrimonio personale dei soci viene incluso nella procedura, e i soci stessi vanno incontro a fallimento personale. Per l’imprenditore individuale, fallisce tanto l’azienda quanto l’imprenditore medesimo con tutti i suoi beni. Dunque un titolare di showroom come ditta individuale subirebbe il fallimento personale: la casa (se non prima casa ipotecata e protetta dal fisco, ma per i privati con creditori privati non c’è protezione “prima casa”) potrebbe essere pignorata e venduta dal curatore per soddisfare i creditori, ad esempio. Questo scenario è ovviamente molto duro sul piano personale.
  • Disposizioni penali: l’apertura della liquidazione giudiziale può comportare l’attivazione del procedimento penale concorsuale: il tribunale trasmette gli atti in Procura e se emergono indizi di reati (distrazioni di beni, documenti falsi, etc.) viene aperto un fascicolo per bancarotta. L’imprenditore può incorrere in sanzioni penali se riscontrate condotte fraudolente pre-fallimento. Questo è un ulteriore motivo per privilegiare soluzioni alternative se si è in tempo: esse consentono di gestire la crisi senza lo stigma penale (salvo casi di reati fiscali pregressi, come detto).

Storicamente, il fallimento era visto come una punizione e portava anche all’incapacità civile temporanea (interdizione dall’esercizio di impresa, perdita del diritto di elettorato attivo e passivo finché dura la procedura, ecc.). La riforma del Codice ha attenuato questo stigma: non si parla più di “dichiarare fallito” ma di “aprire la liquidazione giudiziale”, e alcune incapacità (tipo il divieto di ricoprire cariche societarie) sono per lo più limitate alla durata della procedura. È rimasto invece l’obbligo per il fallito persona fisica di depositare i bilanci e di essere interrogato (esame del fallito) per spiegare le cause dell’insolvenza.

Esdebitazione dopo la liquidazione giudiziale: una consolazione importante per il debitore onesto è che, conclusa la procedura, può chiedere di essere esdebitato, ossia liberato dai debiti residui non soddisfatti . L’esdebitazione post-fallimentare (introdotta per la prima volta nel 2006 in Italia) è ora di diritto: se il fallito ha cooperato e non ha commesso irregolarità gravi, il tribunale dichiara “inesigibili” i debiti rimasti insoddisfatti al termine della liquidazione, e il debitore è libero. Nel Codice attuale questa istanza può essere presentata immediatamente dopo il decreto di chiusura del fallimento, e viene concessa salvo casi di frode o inadempimento alla procedura. Ad esempio, un titolare di showroom fallito i cui creditori hanno recuperato solo il 10% dei loro crediti, ottenuta l’esdebitazione non dovrà più i restanti 90%: i creditori non potranno perseguirlo su futuri redditi. L’esdebitazione è negata in casi di malafede, e c’è un limite: non copre debiti per sanzioni penali, né obblighi di mantenimento, né debiti da risarcimento danni da illecito extracontrattuale (questi restano). Ma copre tutti i debiti verso fornitori, banche, fisco, ecc.

In sostanza, la liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale coattiva che avviene quando non c’è un piano concordato. Dal punto di vista del debitore, è la situazione da evitare se possibile, perché comporta la perdita del controllo e, nel caso di persone fisiche, la quasi totalità del patrimonio (salvo beni impignorabili). Tuttavia, grazie all’esdebitazione e alla chiusura, anche il fallimento non è più la “fine civile” di un imprenditore: dopo, se ha agito correttamente, può ottenere un fresh start (si è visto in Italia il caso di imprenditori falliti che dopo qualche anno hanno avviato nuove attività di successo, sfruttando l’esperienza maturata, una volta liberati dai vecchi debiti). Certamente però la procedura è lunga e dolorosa, e spesso comporta uno spreco di valore (marchi, avviamento commerciale, relazioni con clienti, vanno persi). Ecco perché le norme attuali privilegiano l’utilizzo di strumenti alternativi alla liquidazione giudiziale, quando c’è margine.

Strumenti per il sovraindebitamento di imprenditori minori e privati

Finora abbiamo esaminato le procedure tipiche per imprese soggette a fallimento. Ma cosa accade se lo showroom di design è gestito da un soggetto non fallibile? Ad esempio, un imprenditore individuale sotto soglia o una società di persone piccola; oppure se i debiti sono intestati alla persona fisica magari che ha chiuso l’attività. In questi casi si rientra nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, pensate per consumatori, piccoli imprenditori e professionisti. Tali procedure, originariamente nella L.3/2012, oggi sono disciplinate nel Codice della Crisi (artt. 65-91 CCII per le procedure e artt. 268-277 CCII per la liquidazione controllata). Sono procedure più snelle e “personalizzate”, con l’assistenza obbligatoria di un organismo specializzato (l’OCC – Organismo di Composizione della Crisi). In questa sezione illustriamo i tre strumenti base – che in parte abbiamo già nominato – e alcune loro peculiarità, dal punto di vista del debitore:

Piano o ristrutturazione dei debiti del consumatore

Il piano del consumatore (oggi denominato “ristrutturazione dei debiti del consumatore”) è la procedura riservata esclusivamente ai debitori persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale . In altre parole, è pensata per il privato cittadino sovraindebitato – ad esempio per mutui, prestiti personali, bollette arretrate, fideiussioni pagate – e non per chi ha debiti d’impresa. Nel contesto di uno showroom, potrebbe applicarsi al titolare solo limitatamente ai debiti personali, se distinti da quelli aziendali (vedremo tra poco la questione dei debiti misti). Il grande vantaggio del piano del consumatore è che non richiede il consenso dei creditori per essere approvato .

Come funziona: il debitore consumatore, tramite l’ausilio di un OCC e di un legale, predispone un piano che prevede come e quanto intende pagare ciascuno dei suoi debiti, in proporzione alle proprie risorse economiche effettive. Può prevedere pagamenti parziali (falcidie) e dilazioni nel tempo, anche molto significative. Ad esempio, Tizio ha €100.000 di debiti tra carte di credito, bollette, finanziarie: potrebbe proporre di pagarne €30.000 in 5 anni (quindi il 30% in 60 rate) e chiedere l’esdebitazione sul resto. Il tutto deve essere calibrato sulle sue possibilità: quindi si farà un bilancio di quanto reddito gli rimane per pagare i creditori, tenuto conto delle spese di sostentamento.

Il piano viene depositato in tribunale insieme a una relazione particolareggiata dell’OCC che attesta la fattibilità e dichiara se il debitore merita l’accesso (cioè non ha colpe gravi nel sovraindebitamento). Il giudice valuta il piano e se lo ritiene conforme alla legge e plausibile, lo omologa anche senza il voto dei creditori . I creditori possono partecipare all’udienza di omologa per fare osservazioni, ma non hanno un veto: il loro dissenso non impedisce al piano di essere approvato, a differenza di concordati e accordi. Ciò rende il piano del consumatore uno strumento potentissimo per chi vi accede, perché consente di “imporre” un saldo e stralcio ai creditori con l’autorità del tribunale.

Requisiti: il consumatore deve essere “meritevole”, ossia non aver causato il sovraindebitamento con dolo o colpa grave, e non aver già usato la procedura nei passati 5 anni. La meritevolezza è un concetto chiave: significa che il giudice valuta il comportamento passato del debitore. Se ad esempio i debiti derivano da spese mediche impreviste, perdita del lavoro, o magari la firma di fideiussioni poi escusse, si tende a considerare il debitore meritevole (sfortunato ma onesto). Se invece il soggetto ha accumulato debiti per spese voluttuarie eccessive, gioco d’azzardo, o ha omesso di pagare il fisco pur potendolo fare perché dava priorità ad altro, allora potrebbe essere dichiarato non meritevole e il piano rifiutato dal giudice . Una recente sentenza di Cassazione (22900/2023) ha anche chiarito che eventuali mancanze documentali nel piano non possono essere fatte ricadere sul consumatore ma sono responsabilità di OCC e giudice verificarle, a tutela del debitore .

Effetti: dal momento del deposito della proposta, il consumatore può chiedere la sospensione di tutte le azioni esecutive in corso . Una volta omologato, il piano vincola tutti i creditori antecedenti: questi dovranno accontentarsi di quanto previsto (nei tempi previsti) e non potranno più pretendere altro. Pagato l’ultimo adempimento del piano, il giudice dichiara l’esdebitazione del consumatore, cancellando ogni debito residuo .

Importante: il piano del consumatore non è accessibile a chi ha debiti “professionali” o “d’impresa”. Il Correttivo 2024 ha esplicitato la definizione di consumatore nell’art. 2 lett. e) CCII, includendo anche casi particolari (es. un fideiussore di debiti altrui può essere consumatore se quel debito era altrui e lui lo ha garantito come persona privata) . Ha anche ribadito che se anche una sola parte del debito deriva da attività d’impresa, il soggetto non può usare il piano del consumatore per quella parte . In pratica, non si può spezzare la propria situazione e dire “questi sono personali li metto nel piano, questi sono d’impresa li ignoro”: bisogna considerare l’intera posizione. La Cassazione, con la citata ordinanza n. 22699/2023, ha confermato un orientamento restrittivo: in presenza di debiti “promiscui” (misti tra personale e imprenditoriale), non si può accedere al piano del consumatore . La soluzione, come vedremo, è il concordato minore, pensato appunto come “jolly” per i casi misti .

Per fare un esempio concreto: Mario ha uno showroom di design come ditta individuale che ha chiuso due anni fa, e ha debiti verso fornitori e banca per 150.000€. Ha anche debiti personali (carta di credito, bollette) per 20.000€. Mario non può fare un piano del consumatore includendo i 170.000€ totali, perché gran parte (150k) deriva dall’attività d’impresa. Dovrà allora ricorrere al concordato minore (in quanto ex imprenditore minore). Se invece Mario fosse un dipendente pubblico che ha debiti solo perché ha fatto spese personali e qualche investimento mal riuscito, allora sì: potrebbe proporre un piano del consumatore sui suoi debiti.

In sintesi, il piano del consumatore è lo strumento più favorevole al debitore privato, permettendogli di ridurre il debito senza l’assenso dei creditori. In un contesto di showroom, potrà essere utile solo per la porzione di debiti estranei all’attività imprenditoriale. Per quelli aziendali occorre passare al concordato minore, di cui ora parliamo.

Concordato minore per imprese minori e professionisti

Il concordato minore (artt. 74-83 CCII) è la nuova denominazione dell’“accordo di composizione della crisi” previsto dalla vecchia legge sul sovraindebitamento . È destinato ai debitore sovraindebitati NON consumatori: tipicamente imprenditori sotto-soglia, professionisti, start-up non fallibili, soci illimitatamente responsabili di società, e in generale chiunque abbia debiti di natura commerciale o professionale e non sia soggetto a fallimento ordinario . In pratica, è l’equivalente del concordato preventivo per la platea dei piccoli: consente di proporre ai creditori un piano di ristrutturazione con pagamento anche parziale dei debiti, sottoposto al voto dei creditori stessi e all’omologazione del tribunale.

Funzionamento: il debitore, con l’ausilio obbligatorio di un OCC, elabora una proposta di concordato minore. Può prevedere sia la continuazione dell’attività (con pagamento ai creditori tramite i flussi futuri) sia la cessazione e liquidazione dei beni (o una combinazione). A differenza del piano del consumatore, qui i creditori hanno voce in capitolo: la proposta deve essere approvata dai creditori che rappresentino almeno il 50% + 1 dei crediti chirografari ammessi al voto (la riforma ha abbassato la soglia dal 60% richiesto un tempo, per agevolare l’approvazione). È possibile anche classificare i creditori in classi omogenee e, in caso di classi dissenzienti, il tribunale può comunque omologare applicando un cram-down analogo a quello del concordato preventivo . Dunque, c’è una certa flessibilità: se ad esempio ho due classi di creditori e una approva e l’altra no, il giudice può decidere di omologare ugualmente se ritiene che la classe contraria non venga trattata peggio di come sarebbe in liquidazione (questa è la logica del cram-down). Il giudice interviene alla fine, in fase di omologa: verifica meritevolezza, corretto raggiungimento delle maggioranze e legalità del piano, e poi omologa rendendolo vincolante per tutti .

Procedure protettive: come nelle altre procedure, il debitore può chiedere misure protettive appena depositata la proposta (sospensione dei pignoramenti, ecc.). Inoltre, l’ammissione al concordato minore produce effetti simili al concordato preventivo: i creditori anteriori non possono procedere individualmente, i contratti pendenti possono essere sciolti con autorizzazione, ecc. Anche qui c’è un Commissario nominato (di solito l’OCC stesso, se idoneo) che vigila sul rispetto delle regole fino all’omologa.

Meritevolezza e controllo: se il debitore ha frodi o colpe gravi, il tribunale può rifiutare l’omologa. Ad esempio, se scopre che l’imprenditore ha distratto beni prima di avviare la procedura, o ha falsificato documenti, non concederà il concordato minore (lo dichiarerà inammissibile, aprendo se del caso la liquidazione controllata o segnalandolo per fallimento se fosse fallibile).

Peculiarità (debiti misti): il Correttivo Ter 2024 ha risolto un dubbio interpretativo confermando espressamente che il concordato minore può essere usato anche da debitori che abbiano in parte debiti personali e in parte debiti d’impresa . È un punto fondamentale: il concordato minore funge da “procedura jolly” per chi non rientra nella purezza richiesta dal piano del consumatore . Se, ad esempio, un ex imprenditore individuale ha sia debiti verso fornitori (d’impresa) sia debiti personali (mutuo casa), non può fare un piano del consumatore per tutti, ma può fare un concordato minore includendo tutto insieme. Il suo piano conterrà magari classi distinte (una per i creditori personali e una per quelli aziendali) e verrà sottoposto al voto. Così c’è una soluzione unitaria. Cass. 22699/2023 si era espressa proprio su un caso del genere: un soggetto con debiti promiscui deve passare per concordato minore, non per piano del consumatore .

Trattamento dei creditori e percentuali: non vi è una percentuale minima di legge come nel concordato preventivo liquidatorio (20%), perché qui si presuppone che si tratti di realtà di piccole dimensioni dove a volte il realizzo è scarso. In pratica, però, il giudice omologherà solo se la proposta dà ai creditori almeno quanto otterrebbero in una liquidazione controllata alternativa. Spesso nei concordati minori i creditori chirografari ottengono percentuali contenute, ma accettano perché il debitore può offrire qualcosa subito o in breve tempo, mentre la liquidazione magari darebbe zero dopo anni. Inoltre, il debitore (soprattutto se persona fisica) è motivato a offrire tutto il possibile per ottenere l’esdebitazione e non vedersi rifiutato il piano.

Esempio: un artigiano (sotto soglia) chiude la sua attività e presenta un concordato minore in cui propone: vendo il furgone e gli attrezzi, con ricavato €10.000, li distribuisco ai creditori che vantano €50.000 (quindi il 20% circa), inoltre metto a disposizione €300 al mese del mio stipendio attuale per 3 anni (altri €10.800) arrivando a pagare complessivamente ~40% di ogni credito. I creditori votano e approvano perché credono che in liquidazione prenderebbero forse il 10%. Il giudice omologa, e l’artigiano poi esegue tutto e ottiene l’esdebitazione sul residuo 60%.

Conclusione del concordato minore: se il debitore adempie regolarmente la proposta, alla fine viene liberato dai debiti residui (esdebitazione identica al piano del consumatore). Se invece non rispetta gli impegni, il concordato può essere risolto su istanza dei creditori. In tal caso, essendo un sovraindebitato, si potrebbe aprire la liquidazione controllata (l’equivalente del fallimento, di cui ora parliamo) e i creditori torneranno a vantare i crediti per intero decurtati di quanto eventualmente ricevuto in concordato.

Liquidazione controllata del sovraindebitato

La liquidazione controllata (artt. 268-277 CCII) è la procedura destinata a liquidare il patrimonio del debitore sovraindebitato quando non è possibile (o non si vuole) attuare un piano di ristrutturazione. Sostituisce la “liquidazione del patrimonio” della legge 3/2012 ed è in sostanza un fallimento in miniatura per i soggetti non fallibili . Si chiama “controllata” perché è volontaria o semivolontaria e adattata ai piccoli debitori, ma la struttura ricalca la liquidazione giudiziale: c’è un liquidatore (simile al curatore), si formano le graduatorie dei crediti, si vendono i beni e si paga il possibile ai creditori .

Chi e come si avvia: la liquidazione controllata può essere chiesta dal debitore stesso (a volte preferisce farlo per ottenere subito l’esdebitazione finale) oppure dai creditori o dal Pubblico Ministero in alcuni casi previsti . Ad esempio, se un piano del consumatore omologato viene revocato per inadempimento o annullato per dolo, i creditori possono chiedere che si apra la liquidazione controllata in sostituzione . Oppure, se un debitore scompare lasciando debiti, il PM può attivarla nell’interesse generale. Nel caso di imprese o società, possono essere i soci stessi a richiederla se la situazione è irrecuperabile, perché magari preferiscono far partire la liquidazione con i benefici del sovraindebitamento (che include l’esdebitazione).

Effetti: con l’apertura della liquidazione controllata, il debitore perde la disponibilità dei beni come nel fallimento . Viene nominato un Liquidatore che gestisce e vende i beni del debitore e distribuisce il ricavato ai creditori . I beni impignorabili (per legge) restano esclusi, e il giudice può lasciare al debitore anche una parte dei redditi necessari al sostentamento suo e della famiglia – c’è anzi l’obbligo di riservare una “somma per il mantenimento dignitoso”, che il giudice determina caso per caso. Il debitore deve collaborare, consegnare documenti, può essere esaminato come nel fallimento.

Durata e pagamenti: il Liquidatore liquida tutto il patrimonio rapidamente. La legge prevede che anche una parte dei redditi futuri (fino a 4 anni) possa essere assegnata alla procedura , se il debitore ha un reddito da lavoro eccedente il minimo vitale. Tuttavia, a differenza del concordato, qui non c’è “piano di pagamento”: semplicemente si realizza l’attivo e si ripartisce pro quota. La procedura dura il tempo necessario a vendere beni e incassare crediti, di solito un arco di circa 3 anni (anche perché la legge stabilisce che ai fini dell’esdebitazione, si considerano 3 anni massimi di cessione del reddito) .

Esdebitazione: al termine, il debitore persona fisica ottiene di diritto l’esdebitazione di tutti i debiti concorsuali rimasti non pagati , purché abbia cooperato e non ci siano stati comportamenti fraudolenti. Questo è un elemento fondamentale: la liquidazione controllata garantisce una sorta di “paracadute finale” al debitore onesto . Anche se non è riuscito a presentare un piano, comunque dopo aver messo a disposizione ciò che aveva e dopo 3 anni di eventuale cessione di quota di reddito, ottiene la liberazione dai debiti residui. Di qui la definizione di fresh start. La logica è: chi davvero non ce la fa a pagare nulla di significativo, non verrà tormentato a vita per quei debiti, ma ottiene una seconda chance dopo la liquidazione. Attenzione: se emergono atti in frode (es. il debitore ha nascosto beni, fatto spese folli quando era già indebitato o aggravato volontariamente la sua posizione), può essere escluso dall’esdebitazione (non gliela concederanno), come sanzione.

Confronto con il fallimento e concordato minore: la liquidazione controllata è simile a un fallimento semplificato: niente voto dei creditori, procedura principalmente liquidativa. Va considerata come l’ultima risorsa se non c’è fattibilità di ristrutturazione. Per esempio, uno showroom di design di piccole dimensioni che chiude con debiti e non ha prospettive di continuità né redditi futuri per un piano, può avviare la liquidazione controllata: cederà l’eventuale arredamento, incassi residui, e poi attenderà la fine per ripartire esdebitato.

I creditori nella liquidazione controllata: sono un po’ meno tutelati che nel fallimento, perché qui le azioni revocatorie sono più limitate (sul sovraindebitamento la legge è stata meno severa sulle revocatorie, per incentivare i creditori ad accordi; ad esempio, non sono revocabili i pagamenti ricevuti dai creditori privilegiati). E il piccolo attivo che si realizza spesso copre a malapena i privilegiati. Tuttavia, i creditori hanno potuto dire la loro prima: se c’era possibilità di concordato minore e non si è fatto perché i creditori non hanno accettato, poi subiscono la liquidazione dove magari prendono ancora meno. Questo per dire che, paradossalmente, conviene spesso ai creditori cooperare in un concordato minore, perché se costringono il debitore alla liquidazione controllata, rischiano di incassare percentuali inferiori (una volta venduti i beni e tolti i costi di procedura). E al debitore conviene provare un piano per salvare qualcosa, ma se va male, almeno la liquidazione controllata gli dà lo scudo finale dell’esdebitazione.

Esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) e “debitore incapiente”

Abbiamo accennato più volte all’esdebitazione: è l’atto finale che cancella i debiti non soddisfatti e restituisce al debitore la capacità di ripartire senza zavorre. Nelle varie procedure questo avviene con modalità leggermente diverse:

  • Nel piano del consumatore e concordato minore: l’esdebitazione sopravviene dopo l’esecuzione del piano. Il debitore paga quanto dovuto secondo il piano e, ottenuta la attestazione di completamento, il tribunale emette un decreto che lo libera da ogni obbligo ulteriore verso i creditori anteriori (tranne eventuali debiti esclusi per legge, come alimenti, risarcimenti da fatto illecito o debiti penali).
  • Nella liquidazione controllata e liquidazione giudiziale: l’esdebitazione è concessa alla chiusura della procedura, anche se i creditori non sono stati pagati integralmente. Nei fallimenti (liq. giudiz.) ordinari dev’essere richiesta dal debitore entro 1 anno dalla chiusura e viene concessa salvo opposizioni dei creditori (che però raramente riescono a bloccarla, a meno di frodi). Nel sovraindebitamento la legge la pone come “diritto” se il debitore ha soddisfatto le condizioni di buona fede.
  • Novità: esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII): questo è un istituto peculiare introdotto dapprima con L.176/2020 e ora consolidato. Riguarda il caso estremo del debitore persona fisica che non ha proprio nulla da offrire ai creditori, né beni né redditi. In tale situazione, la legge consente di ottenere un’esdebitazione immediata senza dover liquidare alcun patrimonio . È una specie di “esdebitazione a zero” motivata da ragioni umanitarie: se uno è totalmente nullatenente e sovraindebitato, non ha senso avviare neanche una liquidazione (che sarebbe infruttuosa). Allora, su istanza, il tribunale cancella i debiti subito. Questa possibilità però è concessa una sola volta e con condizioni: il debitore deve aver agito senza frode o colpa grave, non deve ragionevolmente poter pagare nulla, e nei 4 anni successivi all’esdebitazione c’è una “clausola di salvaguardia” per i creditori . Significa che, se per caso il debitore dovesse “miracolosamente” migliorare la sua condizione entro 4 anni (ad es. riceve un’eredità o inizia a guadagnare bene), e se tale miglioramento permetterebbe di soddisfare almeno il 10% dei debiti cancellati, allora una parte di quelle nuove disponibilità deve essere destinata ai vecchi creditori, riaprendo in un certo senso la partita . Ciò evita che uno faccia il furbo (ad esempio tenendo nascosto un bene e aspettando l’esdebitazione per poi ricomparire agiato). Questa esdebitazione “incapienti” era chiamata anche “esdebitazione di diritto del debitore meritevole incapiente” e rappresenta il culmine del favor debitoris: addirittura liberare dai debiti chi non può offrire nulla, per dargli un nuovo inizio. Col D.Lgs. 13/2025 si è ulteriormente facilitato l’accesso a questa misura .

In un contesto di showroom di design, questa esdebitazione “incapiente” potrebbe applicarsi, ad esempio, al titolare di ditta individuale che abbia perso tutto (negozio chiuso, beni venduti, casa affittata e non di proprietà, nessun reddito se non magari una pensione minima). Se i debiti restano ma lui è nullatenente, potrebbe chiedere l’esdebitazione incapiente subito, anziché passare per 3 anni di liquidazione inutile. Naturalmente, questa è una situazione limite e serve il parere favorevole del giudice (che valuterà se proprio non c’è nulla da liquidare).

Riassumendo le procedure di sovraindebitamento (soggetti non fallibili), presentiamo una tabella comparativa:

ProceduraSoggetti ammissibiliCaratteristica chiaveEsito finale
Ristrutturazione dei debiti del consumatore (piano del consumatore)Persona fisica consumatore (debiti personali, non da attività)Niente voto dei creditori; omologa giudiziale se piano equo e debitore meritevole .Esdebitazione (fresh start dopo adempimento del piano) .
Concordato minoreImprese minori, professionisti, soggetti non fallibili non consumatori (anche con debiti misti)Richiede voto dei creditori (>= 50% + 1) ; possibile cram-down giudiziale su classi dissenzienti .Esdebitazione a fine piano omologato (se eseguito completamente).
Liquidazione controllataQualsiasi debitore sovraindebitato (consumatore o no). Può essere richiesta anche dai creditori se debiti > €50.000 .Cessione e vendita di tutti i beni (salvi impignorabili) + quote di reddito per max 3 anni . Liquidatore nominato dal Tribunale.Esdebitazione di diritto al termine dei 3 anni (se debitore cooperativo) .
Esdebitazione “incapiente”Debitore persona fisica senza beni né redditi disponibili. Una tantum, richiede meritevolezza.Cancellazione immediata di tutti i debiti senza pagamento di nulla . Clausola: monitoraggio 4 anni per eventuali sopravvenienze >10%.Esdebitazione immediata (fresh start puro), salvo revoca se entrate rilevanti entro 4 anni .

(Come si nota, in ogni caso l’obiettivo finale è sempre l’esdebitazione, cioè la liberazione del debitore dai debiti residui. Ciò evidenzia il “filo conduttore” sociale di queste procedure: dare al debitore sovraindebitato la possibilità di tornare ad una vita economicamente attiva e dignitosa, evitando la sua “morte civile” sotto i debiti.)

La composizione negoziata della crisi d’impresa

Un elemento innovativo nel panorama italiano (introdotto nel 2021) è la composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa. Si tratta di una procedura stragiudiziale assistita da un esperto indipendente, volta ad aiutare l’imprenditore in difficoltà a trovare un accordo con i creditori, eventualmente evitando di ricorrere alle procedure concorsuali vere e proprie. È disciplinata dal D.L. 118/2021 (conv. L. 147/2021) e inserita poi nel Codice della Crisi. La composizione negoziata (CN) è accessibile a qualsiasi impresa commerciale, senza distinzione di dimensione (quindi anche imprese sopra soglia, in aggiunta agli strumenti tradizionali, ma anche imprese minori e agricole) . Non è invece pensata per il consumatore puro, ma solo per imprenditori.

Caratteristiche della composizione negoziata (CN):

  • Volontarietà e riservatezza: l’attivazione è volontaria da parte dell’imprenditore (non può essere imposta dai creditori). Ci si iscrive su una piattaforma telematica nazionale gestita dalle Camere di Commercio . La procedura è riservata (non viene subito resa pubblica): l’idea è consentire trattative protette dal riserbo, per evitare allarmismi in clienti/fornitori.
  • Nomina dell’esperto: un’apposita commissione nomina un esperto indipendente in materia di crisi (spesso un commercialista o un avvocato con esperienza). L’esperto esamina la situazione dell’impresa e convoca l’imprenditore per definire un piano di approccio ai creditori.
  • Analisi e piano di risanamento: insieme all’esperto, l’imprenditore elabora un elenco di possibili misure di risanamento (taglio costi, apporti nuovi capitali, rinegoziazione debiti, cessioni di asset, ecc.). L’esperto funge da mediatore neutrale con i creditori: organizza incontri, presenta la situazione contabile certificata e propone soluzioni. Lo scopo è raggiungere un accordo stragiudiziale: ad esempio, un accordo di ristrutturazione formalizzato o anche solo accordi individuali, o se l’azienda è in condizioni di farlo un piano attestato. La CN può quindi sfociare in uno degli strumenti giuridici visti sopra (piano attestato, accordo ex 182-bis, concordato) oppure in un accordo contrattuale privato.
  • Misure protettive durante la CN: l’imprenditore può chiedere al tribunale di concedere misure protettive temporanee (di norma per un periodo iniziale di 120 giorni, prorogabile fino a 240) . Tali misure consistono nel blocco delle azioni esecutive dei creditori e nella sospensione temporanea di alcuni obblighi (ad esempio, non si sciolgono per mancato pagamento contratti essenziali come forniture o locazioni, a certe condizioni). Il tribunale le concede se ritiene che la prosecuzione delle trattative non danneggi ingiustamente i creditori. Questo scudo permette all’imprenditore di negoziare senza l’assillo di pignoramenti imminenti.
  • Esito possibile 1: accordo stragiudiziale riuscito: se le trattative vanno a buon fine, l’imprenditore può concludere un contratto di ristrutturazione con alcuni o tutti i creditori. L’esperto redige una relazione finale e la procedura si chiude. Se serve, quell’accordo può essere portato in tribunale per omologa (diventando un accordo ex 182-bis, ad esempio, se raggiunge le percentuali). Oppure può restare privato (magari tutti hanno firmato, quindi non serve omologa).
  • Esito possibile 2: soluzione concorsuale semplificata: se non si raggiungono accordi con le percentuali richieste per un accordo omologato, l’imprenditore può optare per un concordato semplificato per la liquidazione (visto sopra). Questo consente comunque di concludere il percorso con una procedura concorsuale senza voto, come “piano B” qualora la negoziazione fallisca. Ovviamente, l’esperto deve attestare che la proposta di concordato semplificato è la migliore soluzione rimasta.
  • Esito possibile 3: insuccesso e uscita: se la negoziazione fallisce completamente (nessun accordo e il debitore non vuole o non può fare il concordato semplificato), l’esperto chiude la procedura con esito negativo. A quel punto i creditori potrebbero prendere iniziative (ricorso per fallimento, pignoramenti appena lo scudo decade, etc.). Tuttavia, l’esperto nella relazione finale spesso suggerisce se sussistono i presupposti per altre soluzioni (ad es. potrebbe dire: “l’impresa è insolvente e non recuperabile – andrebbe liquidata”). Quel rapporto può essere letto dai creditori e talvolta funge da preludio a una richiesta di liquidazione giudiziale.

Vantaggi per l’imprenditore: la composizione negoziata è uno strumento flessibile e relativamente snello, che cerca di anticipare le mosse in fase di “crisi” prima che sia troppo tardi. Permette all’imprenditore di mantenere il controllo (non c’è curatore né spossessamento) e di avere un professionista dedicato che aiuta a trovare soluzioni. In più, durante il negoziato l’azienda può continuare a operare e persino contrarre nuova finanza prededucibile (la legge prevede che eventuali nuovi finanziamenti accordati durante la CN, con il visto dell’esperto, siano prededucibili in caso di successivo fallimento: incentivo per banche o soci a immettere liquidità in sicurezza). In parole semplici: la CN offre un tavolo negoziale protetto dove l’imprenditore può ridiscutere i debiti, con l’aiuto di un esperto e sotto l’ombrello del tribunale per evitare atti ostili dei creditori nel frattempo.

Vantaggi per i creditori: partecipare alla CN consente di avere massima trasparenza sulla situazione dell’impresa (perché l’esperto richiede dati veritieri e li condivide) e di ottenere magari un accordo migliore di ciò che otterrebbero da un lungo fallimento. Inoltre, se il debitore fa proposte ragionevoli, un creditore che rifiuta rischia poi di trovarsele imposte in un concordato semplificato successivo. Quindi c’è un incentivo a collaborare. Non ultimo, in CN si possono trovare soluzioni creative: ad esempio, convertire parte dei crediti in quote di partecipazione dell’azienda (cosa che in un concordato giudiziale è meno immediata).

Attenzione alle condotte durante la CN: la legge prevede che durante la CN l’imprenditore non può aggravare la sua esposizione né favorire taluni creditori. Gli atti di straordinaria amministrazione hanno bisogno dell’assenso dell’esperto. Se l’imprenditore approfitta della negoziazione per fare il furbo (tipo vendere sottocosto un bene per farlo sparire dal possibile attivo), quell’atto sarebbe poi valutato negativamente e potenzialmente revocabile o fonte di responsabilità.

Esempio applicativo: immaginiamo che uno showroom di design (S.r.l.) veda all’orizzonte problemi: gli incassi sono calati, non riesce a pagare un fornitore importante, e ha rate di leasing in arretrato. Il titolare attiva la composizione negoziata. Viene nominato un esperto. Dopo analisi, si convoca la banca (che ha dato un prestito), la società di leasing, e i principali fornitori. Si mostra loro un piano: ridurre i costi (magari chiudere una filiale secondaria per risparmiare affitto), i soci sono disposti a mettere €50k freschi in cambio che i creditori accettino una moratoria di 6 mesi e poi la ripresa dei pagamenti diluiti. La banca accetta di allungare il mutuo di 2 anni, il leasing accetta di spostare le ultime rate in coda al contratto, i fornitori accettano di convertirne uno parte del credito in partecipazione (diventando socio minoritario) e un altro di ridurre del 30% se il resto viene pagato in 12 mesi garantito da un nuovo affidamento bancario. Si redige un accordo quadro e lo si formalizza privatamente (o con omologa se necessario per i dissenzienti). L’azienda esce dalla CN e continua l’attività, avendo evitato il fallimento e con rapporti rinegoziati. Se invece nessuno fosse stato d’accordo, il titolare avrebbe potuto decidere di presentare un concordato semplificato: in quel caso l’esperto avrebbe attestato il miglior soddisfacimento e il tribunale (senza voto creditori) avrebbe potuto omologare la liquidazione dell’azienda (vendendo magazzino e avviamento) a beneficio creditori.

Diffusione e aggiornamenti: la composizione negoziata è operativa dal 15 novembre 2021. Nel primo anno ha visto qualche centinaio di richieste (475 istanze nei primi 12 mesi secondo Unioncamere) . Non tutte sfociano in un accordo, ma molte hanno portato a soluzioni alternative (concordati preventivi, accordi). Le istituzioni (Camere di Commercio, associazioni di categoria) stanno promuovendo l’utilizzo di questo strumento, specie tra le PMI, come cultura di prevenzione. Ad agosto 2025 è stata segnalata la necessità di far conoscere meglio la CN presso artigiani e piccole imprese, che ancora vi ricorrono poco . Intanto, il Decreto Dirigenziale 28 settembre 2021 e successivi hanno istituito la piattaforma telematica “ComposizioneNegoziata.camcom.it” dove si svolge tutta la procedura (caricamento documenti, nomina esperto, scambio comunicazioni). Questo digital divide a volte può spaventare i piccoli imprenditori, ma è pensato per efficienza e per facilitare la supervisione.

In sintesi, la composizione negoziata è uno strumento di “allerta negoziale volontaria” che si affianca alle procedure giudiziali. È altamente consigliabile per un imprenditore (anche di showroom) che percepisca segnali di difficoltà e voglia giocare d’anticipo: consente di tentare un salvataggio con supporto professionale, mantenendo il controllo e limitando i danni. Non a caso, il Codice della Crisi nel 2022 ha abbandonato l’idea di “allerta obbligatoria” prefettizia in favore di questo approccio volontario più confacente alla collaborazione con i creditori.

Come difendersi dai creditori: misure protettive e tutela del patrimonio

Abbiamo visto i vari strumenti disponibili per gestire e risolvere la crisi debitoria di un’attività. Dal punto di vista pratico e del debitore, uno degli aspetti più importanti è capire come difendersi nell’immediato dalle azioni dei creditori, in attesa di implementare la soluzione scelta. In altre parole: cosa fare se i creditori stanno aggredendo il patrimonio, o minacciano pignoramenti, o chiedono fallimento?

Ecco alcune considerazioni e “armi” difensive che l’ordinamento mette a disposizione del debitore, da utilizzare tempestivamente:

  • Richiesta di misure protettive (stay) tramite procedure concorsuali: come emerso, non appena si imbocca la strada di una procedura formale (accordo ex 182-bis, concordato preventivo, concordato minore, piano consumatore, composizione negoziata, ecc.), è possibile ottenere dal tribunale un decreto che sospende tutte le azioni esecutive dei creditori verso il debitore. Questo blocco può essere generale o circoscritto, ma in genere impedisce ai creditori di iniziare o proseguire pignoramenti, sfratti per morosità e altre esecuzioni sul patrimonio del debitore durante la pendenza della procedura . Ad esempio: se un fornitore ha già pignorato il conto corrente, la procedura di assegnazione del denaro può essere sospesa; se il proprietario ha avviato lo sfratto, può essere temporaneamente congelato (anche se sullo sfratto c’è un dibattito: l’orientamento prevalente è che rientri tra le azioni esecutive sospese, ma il locatore può chiedere al tribunale concorsuale di non prorogare l’affitto se non pagato). Pertanto, appena si decide di attivare un piano o un concordato, occorre contestualmente chiedere al giudice la protezione. Questo mette un “muro” temporaneo contro i creditori aggressivi, dando tempo al debitore di strutturare la soluzione. Ovviamente, la protezione non è definitiva: dura fino a che la procedura è in corso e il debitore rispetta le condizioni (ad esempio nel concordato con riserva la protezione può decadere se il debitore non deposita la proposta nei termini). Ma è cruciale per difendersi: molti imprenditori hanno evitato fallimenti imminenti depositando un ricorso per concordato preventivo in bianco il giorno prima dell’udienza prefallimentare – ciò fa scattare l’automatic stay e frena i creditori.
  • Sospensione dei procedimenti esecutivi individuali in presenza di trattative serie: oltre al caso formale di cui sopra, anche in composizione negoziata come detto si può ottenere uno stay con decreto del tribunale . L’importante è dimostrare che c’è un percorso concreto di risanamento in atto. Un debitore che semplicemente chiede ai creditori “aspettatemi” senza offrire nulla in mano, non ha protezione. Ma se dimostra di aver attivato un OCC o di aver depositato un piano in tribunale, allora la legge lo tutela temporaneamente.
  • Opposizione alle richieste di fallimento (liquidazione giudiziale): se un creditore (o un gruppo) deposita un’istanza di fallimento contro l’azienda, il debitore ha il diritto di costituirsi e opporsi in giudizio. In quell’ambito può far valere, ad esempio, che non sussiste l’insolvenza, oppure che l’azienda è sotto soglia e quindi non fallibile (questione di giurisdizione), oppure può chiedere un termine per presentare un concordato. Spesso, infatti, di fronte a un’istanza di fallimento, i debitori depositano un ricorso di concordato preventivo (“concordato in extremis”), sfruttando la norma dell’art. 44 CCII che consente al debitore di chiedere al tribunale fallimentare un termine (fino a 60-120 giorni) per presentare una proposta concordataria. Se il tribunale valuta che c’è concretezza, rinvierà la decisione e darà modo al debitore di formalizzare il concordato. Difendersi da una richiesta di fallimento significa dunque avere un piano B pronto: non basta dire “non voglio fallire”, bisogna presentare ai giudici un’alternativa concreta (accordi in corso, piani di pagamento, ecc.). Le statistiche mostrano che i tribunali sono disponibili a evitare la liquidazione giudiziale se il debitore propone immediatamente una soluzione credibile.
  • Tutela dell’abitazione principale del debitore: se il titolare dell’azienda è una persona fisica e possiede una casa in cui vive, va ricordato che l’Agente di Riscossione non può pignorarla se è l’unica, non di lusso e vi risiede . Questo è un scudo importante contro i debiti fiscali. Invece i creditori privati (banche, fornitori) possono ipotecare e pignorare la prima casa, ma spesso sono restii a farlo se l’immobile ha già ipoteche o se il valore non coprirebbe i costi (e in ogni caso, in procedure concorsuali, la casa del fallito verrà venduta solo se ha mercato; se la moglie ad esempio ha metà proprietà, le cose si complicano e magari rinunciano). In sede di piano del consumatore o concordato minore, il debitore-proprietario di prima casa può cercare soluzioni per salvarla: ad esempio, la norma nuova (art. 75 co.2-bis CCII) consente, se il debitore era in regola con le rate del mutuo prima del concordato, di continuare a pagare il mutuo sulla casa principale alle scadenze originarie, mantenendo l’abitazione e non liquidandola . L’OCC deve attestare che ciò non danneggia i creditori (cioè che vendere la casa e distribuire il ricavato non darebbe di più ai creditori chirografari). Questa è una novità importante introdotta nel 2024 proprio per conciliare la tutela dell’abitazione con le procedure di sovraindebitamento: in pratica, il debitore persona fisica in concordato minore può chiedere di tenersi la casa continuando a pagare il mutuo normalmente, se ciò non pregiudica i creditori . Un grande sollievo per chi rischiava di perdere casa in procedure dove la casa garantiva solo la banca (che magari comunque l’avrebbe presa tutta lei).
  • Limiti alle azioni esecutive su stipendio e pensione: se il titolare dello showroom o i garanti percepiscono stipendi, sanno che per legge è impignorabile il minimo vitale e poi c’è un tetto alle trattenute (massimo 1/5 in genere, e per il fisco percentuali anche inferiori a seconda dell’importo ). Questo significa che anche fuori dalle procedure concorsuali, un creditore che ottiene un pignoramento presso terzi dello stipendio potrà prendere al massimo il 20% mensile; il debitore sopravvive col restante 80%. Quindi, un imprenditore potrebbe decidere: “lascio fallire la mia ditta, torno dipendente presso un’altra azienda, i creditori mi pignoreranno un quinto dello stipendio e buonanotte”. Non è illegale, è la salvaguardia minima prevista dalla legge. Certo, così i debiti rimangono e continueranno per anni, con quell’onere sul reddito (a meno di fare poi esdebitazione). Meglio allora sfruttare la procedura per pulirli del tutto. Comunque, sapere questi limiti aiuta a non farsi intimidire da minacce eccessive: ad esempio, l’Agenzia Entrate Riscossione non può portare via tutta la pensione del debitore anziano, ma solo una parte e se supera certe soglie .
  • Protezione di beni essenziali e impignorabili: la legge elenca beni impignorabili (es. arredi di casa, abbigliamento, cose sacre, animali di affezione, strumenti di lavoro fino a certo valore). Un showroom di design in quanto attività non gode di impignorabilità su beni strumentali (quella si applica solo a strumenti di lavoro del professionista, non a scorte di magazzino). Però, se il titolare lavora come designer con i suoi strumenti, tali beni (computer, software) potrebbero essere parzialmente protetti. Inoltre, i beni di proprietà di terzi nello showroom (ad esempio merce in conto vendita, o in leasing) non possono essere pignorati dai creditori del titolare, perché non suoi. Quindi un imprenditore a volte gioca su questo: tenere poca merce di proprietà e molta in conto deposito – così i creditori non possono aggredirla. Attenzione però: se è un sotterfugio (fittiziamente intestare beni ad altri), può configurare reato di sottrazione di beni ai creditori.
  • Patrimoni separati e strumenti di protezione (trust, fondo patrimoniale): alcuni imprenditori, prima o durante la crisi, pensano di proteggere i propri beni personali (tipicamente la casa o altri immobili) trasferendoli in un trust o vincolandoli in un fondo patrimoniale. Bisogna però sapere che tali atti, se fatti quando c’è già insolvenza o per finalità elusive, possono essere dichiarati inefficaci verso i creditori (azione revocatoria ordinaria entro 5 anni, e in fallimento anche oltre se configurabili come atti gratuiti). Ad esempio, se un mese prima di fallire trasferisco la villa ai figli con un trust familiare, è probabile che il curatore faccia revocare l’atto come in frode ai creditori. Il fondo patrimoniale (che vincola i beni al soddisfacimento dei bisogni familiari) offre una protezione parziale: i creditori possono attaccare i beni in fondo solo se il debito è stato contratto per scopi estranei ai bisogni familiari. Nel contesto debiti d’impresa, spesso considerano quei debiti estranei e quindi li fanno valere anche su beni in fondo. Insomma, contare su trust e fondi all’ultimo momento non è una difesa efficace, anzi rischia di peggiorare la posizione del debitore (denotando malafede e facendogli perdere benefici nelle procedure).
  • Assicurazione legale e consulenza tempestiva: difendersi dai creditori richiede spesso l’aiuto di un avvocato esperto in crisi. Un titolare di showroom dovrebbe farsi assistere non appena la situazione degenera. Il legale potrà, ad esempio, trovare vizi nelle azioni esecutive (magari un pignoramento non notifica correttamente un atto, e si può bloccare per irregolarità), negoziare con il creditore una standstill (breve tregua) in cambio di qualche garanzia provvisoria, o coordinare i passi (ad esempio consigliare di vendere subito certe merci per fare cassa e pagare dipendenti, che altrimenti farebbero ingiunzioni). In alcuni casi, se il creditore principale è una banca, l’avvocato può contestare la pretesa su questioni tecniche (anatocismo, usura, calcolo interessi non regolare): aprire un contenzioso bancario può ritardare l’azione esecutiva in attesa di esito. Attenzione però a non usare strumentalmente cause infondate solo per prendere tempo: anche questo può ritorcersi contro e far perdere la fiducia del tribunale quando si chiede tutela.

In definitiva, dal lato del debitore c’è un principio generale: agire per primo. Se l’imprenditore proattivamente avvia una procedura concorsuale (o la composizione negoziata) e la notifica ai creditori, prende l’iniziativa e ottiene la protezione legale del caso, ribaltando la situazione (non subisce più l’azione scoordinata dei creditori, ma gestisce in modo unitario il dare-avere). Al contrario, se resta passivo, i creditori più veloci prenderanno quello che c’è (pignorando conti, ecc.), lasciando il resto insoddisfatto ma a quel punto l’impresa è già dissestata e con meno risorse per un eventuale concordato.

Un ultimo aspetto di difesa: gli accordi transattivi durante il fallimento. Se ormai l’azienda è fallita, il debitore può ancora “difendersi” cercando di chiudere la procedura a suo vantaggio tramite un concordato fallimentare (oggi “concordato nella liquidazione giudiziale”). È una proposta che possono fare debitore o terzi per pagare qualcosa ai creditori e chiudere prima la procedura. Se l’imprenditore trova un investitore disposto a offrire, ad esempio, il 30% cash a tutti i creditori in cambio della cessazione del fallimento e magari rilevare l’azienda residua, il tribunale può approvare. Questo strumento però esula dal nostro contesto (riguarda la fase fallimentare post-apertura), ma è bene menzionarlo: anche a fallimento iniziato, non tutto è perduto, c’è spazio per concordati fallimentari, accordi con il curatore, etc..

Strategie pratiche e simulazioni: come agire in casi concreti

Dopo aver esaminato la teoria e gli strumenti disponibili, proviamo a calare nella pratica questi concetti, simulando alcuni scenari tipici che potrebbe affrontare un titolare di showroom di design indebitato. Ogni caso evidenzierà scelte possibili e strategie di difesa, tenendo conto delle normative illustrate.

Caso pratico 1: Ditta individuale con debiti fiscali e bancari

Scenario: Mario è un designer che gestisce come ditta individuale uno showroom di arredamento. A causa di un calo delle vendite e di alcuni investimenti sbagliati, Mario ha accumulato circa €80.000 di debiti: €30.000 con l’Agenzia delle Entrate-Riscossione (IVA non versata e IRPEF arretrata), €20.000 con una banca locale (uno scoperto di conto non rientrato e rate di mutuo aziendale arretrate) e €30.000 con vari fornitori di mobili. Non ha dipendenti. Il suo showroom non va più bene e pensa di chiudere l’attività, ma è molto preoccupato perché ha anche una casa di proprietà (dove vive con la famiglia) su cui grava un mutuo residuo di €100.000. Teme che i creditori possano portargliela via. Inoltre ha un’auto del valore di €10.000 e circa €5.000 di mobili ed elettronica nel negozio.

Problemi: Mario, essendo ditta individuale, risponde dei debiti con tutto il suo patrimonio personale. Quindi i creditori possono aggredire casa e auto. L’Agenzia Entrate-Riscossione ha già iscritto ipoteca sulla casa per il debito fiscale e minaccia un pignoramento immobiliare (ha superato €120k di soglia? No, il debito fiscale è €30k quindi sotto soglia per pignorare la casa, ma può aver comunque iscritto ipoteca a scopo cautelativo; tuttavia non può eseguirla perché: è unica casa? sì e non di lusso, quindi AER non può venderla , buon per Mario). La banca sta sollecitando rientro dello scoperto e minaccia decreto ingiuntivo. I fornitori pressano per essere pagati o minacciano cause. Mario ha capito che non potrà mai pagarli integralmente.

Obiettivo di Mario: chiudere la partita IVA, liberarsi dai debiti senza perdere la casa, e magari poter continuare a lavorare come dipendente o free-lance designer altrove, ricominciando da capo.

Soluzione valutata: Mario si rivolge a un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) nella sua città, chiedendo accesso alle procedure di sovraindebitamento. Dopo analisi, risulta che Mario è un imprenditore sotto-soglia (ricavi modesti, debiti €80k < €500k). Non è un “consumatore puro” perché i debiti derivano dalla sua attività professionale. Dunque non può fare il piano del consumatore per tutto; però potrebbe usare il concordato minore o la liquidazione controllata.

  • Scelta A: Concordato minore in continuità indiretta: Mario potrebbe proporre ai creditori un concordato minore con cessione parziale dei beni e un impegno di pagamento futuro. Ad esempio, mette sul piatto l’autovettura (che venduta vale €10k) e i beni dello showroom (€5k), e propone inoltre di versare €300 al mese per 3 anni attingendo da futuri redditi (magari troverà un lavoro come dipendente) – ciò darebbe altri ~€10.800. Complessivamente il piano offrirebbe circa €25.000 da distribuire su €80.000 di debiti (circa il 30%). Mario suggerisce di usare questi €25k per pagare integralmente il Fisco (€30k di cui una parte sanzioni, forse si può limare qualcosa con transazione, ma supponiamo vada €25k per Fisco e poco per altri) e dare un piccolo acconto a fornitori e banca. Non raggiungendo 50%, per far votare favorevolmente forse deve alzare un po’ l’offerta. Magari i familiari possono aiutarlo con altri €5k, portando il monte a €30k (37%). Egli forma due classi: (1) Fisco e banca (creditori privilegiati, ipotecari), (2) Fornitori chirografari. Promette a Fisco e banca il pagamento del 100% del capitale (ma non tutti gli interessi) utilizzando la maggior parte dei €30k, e ai fornitori ciò che resta (che sarà magari 10-15% del loro credito). Dovrà negoziare col Fisco tramite transazione fiscale: essendo il debito fiscale modesto (€30k), con le novità 2025 può includere anche questo importo in transazione . L’OCC attesta che il piano è fattibile (Mario prevede di lavorare come dipendente quindi avrà stipendio per pagare €300/mese) e conveniente per i creditori (se si liquidasse la casa il Fisco con ipoteca prenderebbe sì forse tutto il ricavato, ma la casa è protetta; e comunque in liquidazione la casa non sarebbe vendibile da AER, e vendendo auto e beni si ricaverebbero €15k – quindi il piano da €30k è meglio del fallimento che darebbe €15k). I creditori votano: il Fisco di solito vota no se non paga 100%, ma qui gliene diamo quasi tutti (potrebbe votare sì con l’accettazione transazione); la banca vede che recupera buona parte dello scoperto (diciamo €15k su €20k) e vota sì; i fornitori vedono una piccola percentuale ma sanno che se Mario fallisce formalmente e ha casa impignorabile, recupererebbero nulla; con il piano prendono magari 10% subito, meglio di zero, e votano a maggioranza sì. Raggiunta la maggioranza (banca+fornitori a favore superano 50% crediti), il tribunale omologa nonostante Fisco eventualmente contrario (potrebbe omologare con cram-down fiscale se ritiene l’offerta equa). Mario quindi vende l’auto, chiude lo showroom e vende l’arredo, raccoglie i fondi anche di famiglia, versa tutto secondo il piano. Dopo 3 anni di pagamenti, ottiene l’esdebitazione del residuo. Risultato: Mario ha perso l’auto e i risparmi, ma ha salvato la casa (il mutuo su casa continua a pagarlo regolarmente, restando nella sua disponibilità grazie alla norma art. 75 co.2-bis CCII che ha permesso di escluderla liquidando la banca diversamente) . I creditori sono stati soddisfatti parzialmente ma hanno accettato in quanto vantaggioso rispetto alle alternative. Mario ora è libero dai debiti residui e può dedicare il suo stipendio futuro solo alla sua famiglia e al mutuo.
  • Scelta B: Liquidazione controllata + esdebitazione incapiente: in alternativa, Mario potrebbe optare per la liquidazione controllata. In tal caso, metterebbe a disposizione tutti i suoi beni eccetto quelli impignorabili: l’auto e i beni del negozio sarebbero venduti dal liquidatore, e anche la casa potrebbe teoricamente essere inclusa – ma attenzione: trattandosi di prima casa non di lusso e unico immobile, l’Agenzia Entrate non può farla vendere; tuttavia altri creditori (banca?) potrebbero farlo, a meno che la banca preferisca soddisfarsi ipotecariamente nel concordato. Se Mario va in liquidazione controllata, la casa rischia: perché in sovraindebitamento la regola della “prima casa impignorabile” vale solo verso fisco, ma i creditori chirografari potrebbero comunque chiederne la vendita se c’è convenienza (anche se casa gravata da mutuo di €100k e valore magari €150k: vendendola banca prende 100, restano 50 per altri). Un liquidatore probabilmente venderebbe casa per pagare banca e parte fornitori. Mario però può opporsi se dimostra che è residenza e di modesto valore? Non c’è protezione legale specifica nel codice se non per fisco. Potrebbe argomentare che la casa è già ipotecata e di scarso equity, magari liquidatore la lascia stare se non conviene. Ad ogni modo, dopo la liquidazione Mario otterrebbe esdebitazione, ma rischia di perdere la casa. Se la casa fosse salva (mettiamo ipotesi che il liquidatore non la vende perché la famiglia di Mario trova i soldi per rilevarla o la banca la rilega?), Mario comunque per 3 anni cederebbe ogni reddito salvo il minimo. Nel nostro scenario, scelta B appare meno attraente: concordato minore consente di pilotare il processo e salvaguardare gli asset cruciali (casa), mentre la liquidazione è incerta sull’esito patrimoniale. Solo se Mario fosse incapiente totale, la scelta B avrebbe senso (esdebitazione incapiente). Ma Mario qualcosa ha. Dunque meglio scelta A.

Esito del caso: Mario, consigliato dall’OCC, segue la Scelta A: presenta un concordato minore. La procedura va a buon fine. In 3 anni chiude con fatica ma salva la casa e riparte con i debiti cancellati. Se non avesse fatto nulla, probabilmente la banca avrebbe pignorato la casa (pur ipotecata, avrebbe venduto all’asta, magari soddisfacendo se stessa e lasciando Mario senza casa e con debiti residui verso fornitori e fisco, poi esdebitato dopo?), o i fornitori avrebbero forzato un fallimento. Anticipando lui la mossa, ha governato la crisi a proprio vantaggio.

Caso pratico 2: Società di persone con debiti verso fornitori e locatore

Scenario: La Design S.n.c. è una società di persone (due soci) che gestisce uno showroom di illuminazione di design in affitto in centro. A causa di lavori di riqualificazione urbana che hanno ridotto l’accesso al negozio per molti mesi, le vendite sono crollate. La società ha accumulato debiti per €150.000: principalmente verso fornitori (alcune aziende di lampade e mobili non pagate per €100k complessivi) e verso il proprietario del locale (6 mesi di affitto arretrato, €30k) e alcuni piccoli debiti vari. Non ci sono debiti bancari significativi, né fisco (hanno pagato l’IVA sacrificando altro, anche perché una soc. di persone teme la responsabilità personale dei soci per imposte). I due soci hanno però garantito personalmente alcuni acquisti. L’attività ormai non è più profittevole, pensano di chiudere il negozio e liquidare la società, ma quei debiti restano. Il locatore ha avviato un procedimento di sfratto per morosità e i fornitori minacciano decreti ingiuntivi. I soci posseggono ciascuno una casa di abitazione (con mutui quasi estinti) e temono che i creditori della società possano attaccarle.

Problemi: Essendo S.n.c., la società risponde con il suo patrimonio e i soci illimitatamente con il loro. Una eventuale liquidazione giudiziale della S.n.c. si estenderebbe automaticamente ai soci, colpendo le loro case. Devono quindi evitare il fallimento. La società è “sotto soglia” (fatturato < €200k, debiti €150k < €500k), quindi forse non fallibile, ma attenzione: le soglie si applicano all’imprenditore commerciale, e la S.n.c. è imprenditore commerciale. Sì è sotto soglia, quindi non fallibile (in base ai dati, se rispettano parametri). Questo è cruciale: i creditori non possono chiederne il fallimento se dimostrano che è sotto parametri. Tuttavia possono aggredire i soci su base contrattuale diretta (soci illimitatamente responsabili). Quindi i soci, anche se l’azienda come soggetto non fallisce, rischiano comunque pignoramenti sul loro patrimonio per i debiti sociali.

Obiettivo: Chiudere la società, liberare i soci dai debiti, e possibilmente non perdere gli immobili personali.

Soluzione: Essendo la S.n.c. e i soci non fallibili (imprese minori), il percorso è nel sovraindebitamento. Devono includere tutti in un’unica procedura perché i debiti sono promiscui: alcuni contratti li hanno firmati i soci come garanti. Fortunatamente il concordato minore può essere utilizzato anche per gruppi familiari e coobbligati. Art. 66 CCII prevede anche procedure familiari congiunte , quindi i due soci possono presentare un’unica procedura di concordato minore includendo la società e loro stessi. L’OCC nominato gestirà la crisi dell’intero nucleo. Proporranno di vendere tutto l’attivo della società (che in realtà è poca cosa: qualche mobile in showroom, valore €10k), chiudere il negozio liberandolo (magari trovano un accordo col locatore: ad esempio, trovano un nuovo conduttore a cui subentrerà così il locatore non perde troppi canoni futuri) e immettere un po’ di soldi personali per pagare i creditori in percentuale. I soci preferiscono mettere soldi loro (magari facendo un piccolo mutuo ipotecario di seconda grado sulle loro case) invece di rischiare di perdere le case all’asta. Dicono: siamo disposti a offrire €60.000 in totale su €150.000 di debiti (40%). Creano classi: (1) locatore (creditore privilegiato perché i canoni di affitto in procedure concorsuali hanno privilegio sui mobili presenti? Non esattamente, il locatore ha privilegio per due anni canoni su mobili del conduttore, ma se mobili valgono €10k, comunque limitato); (2) fornitori chirografari. Offrono al locatore €30k (cioè saldano 100% degli affitti arretrati – magari coperto in parte col nuovo conduttore entrante che paga key money), e ai fornitori i restanti €30k su €100k (30%). L’alternativa per i fornitori sarebbe cercare di pignorare le case dei soci: possibile, ma i soci potrebbero fare resistenza (fondo patrimoniale se erano destinati a famiglia? Forse alcuni beni in comunione con coniugi? Ci sarebbero lungaggini). Inoltre, i soci minaccerebbero in tal caso di fare liquidazione controllata separata e allora i fornitori forse prenderebbero anche meno. I creditori quindi hanno un incentivo ad accettare. Si vota: devono raggiungere 50%. Il locatore magari vota sì se riceve 100%. I fornitori, se frammentati, alcuni voteranno no volendo più, ma anche se uno grande no, può essere superato se altri sì superano la metà dei crediti. L’OCC spiega loro che se rifiutano, i soci faranno liquidazione e i fornitori rischiano di recuperare il 10%. Dunque si forma la maggioranza e il concordato minore viene omologato. I soci ipotecano un po’ le case per finanziare i €60k (oppure un parente presta soldi), pagano il locatore e chiudono il contratto d’affitto senza ulteriori cause (lo sfratto viene assorbito dall’accordo), pagano i fornitori al 30%. Dopo ciò la società viene sciolta e cancellata, e i soci ottengono l’esdebitazione per eventuali residui.

Focus difensivo: Con questa mossa, i soci hanno evitato pignoramenti immobiliari: invece di farsi pignorare le case, hanno capitalizzato un importo gestibile e chiuso in bonis col concordato minore. L’esdebitazione li rende liberi. I creditori hanno preferito un uovo oggi (30-40%) che la gallina domani incerta in cause lunghe contro persone fisiche.

Nota: se i soci non avessero fatto nulla, probabilmente il locatore avrebbe ottenuto lo sfratto e anche un decreto ingiuntivo per i €30k di affitti, iscrivendo ipoteca giudiziale sui loro immobili; i fornitori anche con decreti ingiuntivi e pignoramenti. Una residenza poteva andare all’asta per un debito tutto sommato contenuto. Con la procedura concorsuale minore, i soci hanno preso il controllo della situazione e convinto tutti a una soluzione.

Caso pratico 3: Società di capitali (S.r.l.) in crisi finanziaria

Scenario: “ModernDesign S.r.l.” è una società a responsabilità limitata che gestisce un ampio showroom di design contemporaneo. Ha 5 dipendenti e diversi fornitori internazionali. Negli ultimi due anni ha subito perdite, accumulando debiti per €800.000: in primis un mutuo bancario residuo di €300k (garantito da ipoteca sul locale commerciale di proprietà della società), debiti fiscali per €100k (IVA e contributi non pagati, già iscritti a ruolo), debiti verso fornitori per €250k, e altri debiti vari (leasing di veicoli €50k, utenze €20k, ecc.). Il totale supera i parametri: la società è soggetta a fallimento. I soci non vorrebbero perdere l’azienda, credono che con un ridimensionamento potrebbero tornare profittevoli (il mercato sta riprendendo, e hanno un e-commerce avviato). Vorrebbero evitare la liquidazione e se possibile continuare l’attività, ma hanno bisogno di ridurre il debito perché €800k è ingestibile sui margini attuali. I fornitori maggiori hanno iniziato a mettere in mora la S.r.l., una banca ha revocato uno scoperto e minaccia di iscrivere ipoteca giudiziale aggiuntiva su un magazzino, l’Agenzia Entrate Riscossione ha bloccato il conto per i €100k (fatto fermo amministrativo su un furgone).

Problemi: La S.r.l. è insolvente di fatto: non paga più regolarmente. Rischia istanze di fallimento a breve. I soci però hanno responsabilità limitata: il loro patrimonio personale per ora è al sicuro (salvo garanzie, qui non menzionate quindi presumo nessuna garanzia personale). Tuttavia, se fallisce la società, i soci perderanno l’investimento e se hanno fatto atti di mala gestio potrebbero essere chiamati a risponderne. L’obiettivo è salvare l’azienda con i suoi posti di lavoro, ristrutturando il debito.

Soluzione tentata: La direzione, su consiglio di un advisor, opta per avviare la composizione negoziata. Presentano istanza sulla piattaforma, nominano un esperto. Durante la CN elaborano un piano di risanamento: prevedono di vendere il locale di proprietà (valore stimato €400k) e spostare l’attività in affitto in un luogo più piccolo (per risparmiare costi), ridurre il personale di 2 unità (con accordo, usando CIGS o mobilità), e concentrare le vendite sull’online riducendo l’esposizione di magazzino. Il ricavato della vendita dell’immobile consentirebbe di pagare interamente la banca (ipotecaria €300k) e avere €100k residui per altri creditori. Inoltre i soci si impegnano ad apportare €50k nuovi capitali. In totale possono mettere sul piatto €150k per creditori chirografari su €500k di crediti chirografari (30%). L’esperto convoca i creditori principali: la banca (che è tranquilla perché ipotecaria verrà soddisfatta col ricavato immobile), l’Agenzia delle Entrate (che con la nuova legge potrebbe accettare di stralciare sanzioni su €100k e prendere, ad esempio, €70k in 5 anni – parte di quei €150k andrebbe a loro), e fornitori maggiori (€200k su €250k tot. in mano a 5 fornitori esteri e nazionali). Propone loro un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis: la banca prende 100%, il fisco accetta 70% dilazionato (transazione fiscale), i fornitori accettano 30%. I fornitori all’inizio sono scettici, ma l’esperto mostra i numeri: se non accettano, la S.r.l. fallisce e i loro crediti in fallimento vedrebbero forse il 20% (perché immobile venduto per banca e fisco, e briciole per chirografi) e comunque dopo anni; se accettano, prendono 30% di cash entro un anno dalla vendita immobile. Dicono di sì a maggioranza. L’accordo viene formalizzato con le firme, raggiungendo l’adesione di oltre 60% dei crediti. Si deposita in tribunale per omologazione come accordo di ristrutturazione dei debiti. Il tribunale concede omologa e cram-down sui fornitori rimasti dissenzienti (che tanto rappresentano poco). Durante tutto questo, la società aveva ottenuto misure protettive: nessuno ha potuto agire esecutivamente. La vendita dell’immobile si fa pacificamente con l’accordo di tutti (in un concorso sarebbe stata forzata e con meno ricavato forse). I dipendenti licenziati ricevono TFR dal Fondo di Garanzia INPS e magari vengono riassorbiti altrove. La società, liberata da gran parte dei debiti (banca out, fisco ridotto e rateizzato, fornitori stralciati) e con costi ridotti, torna in bonis e prosegue l’attività su scala minore, ma profittevole. I soci hanno mantenuto la proprietà della S.r.l. (se fosse andata in fallimento, chissà). Nessun fallimento, nessuna perdita di controllo, reputazione salvata con clienti (verso l’esterno forse manco s’è saputo: l’accordo è pubblico in registro imprese però, qualcuno potrebbe vederlo ma non è reclamizzato).

Variante: se le trattative non avessero funzionato (supponiamo qualche fornitore chiave rifiutasse, impedendo di raggiungere 60%), la società avrebbe potuto optare per un concordato preventivo: a quel punto, avendo comunque un piano di vendere l’immobile e continuare, avrebbe presentato un concordato in continuità. Probabilmente i creditori avrebbero approvato in classi, oppure, se ancora contrasti, essendo offerto loro il massimo ricavabile, il tribunale avrebbe potuto omologare con cram-down su eventuali classi di fornitori dissenzienti. In più, se proprio la trattativa fosse crollata completamente, avrebbero usato il concordato semplificato liquidatorio: vendere l’immobile e chiudere la baracca, distribuendo il ricavato a creditori e stoppando lì la storia. Ma il preferito ovviamente era salvare l’impresa, e con la CN sono riusciti.

Punti di difesa utilizzati: misure protettive per bloccare aggressioni, utilizzo di transazione fiscale per convincere l’Erario (specie con le novità normative 2025, A.E. più flessibile su sanzioni e tempi) , convincimento dei fornitori presentando uno scenario trasparente certificato dall’esperto (questo dà loro fiducia che i numeri sono corretti, non promessa campata in aria dall’imprenditore). Inoltre, molto importante: hanno agito tempestivamente, prima che la banca portasse la S.r.l. in tribunale o il fisco iniziasse pignoramenti. Così hanno potuto vendere il cespite principale (immobile) in modo ordinato e non in asta giudiziaria (dove avrebbe potuto svalutarsi).

Outcome: La S.r.l. continua a operare, ridimensionata ma viva, con debiti ridotti e sostenibili. I creditori hanno incassato subito discrete percentuali e non hanno dovuto inseguire un fallimento dagli esiti incerti. I soci hanno evitato la perdita totale e anche possibili guai di responsabilità. Certo, l’operazione ha richiesto sacrifici (cedere l’immobile, ridurre personale, diluire partner), ma è una ripartenza.

Queste simulazioni mostrano come, a seconda della forma giuridica dell’impresa e della natura dei debiti, si possano mettere in campo strategie differenti. In tutti i casi, però, emergono alcuni principi comuni:

  • Non aspettare la catastrofe: muoversi prima che i creditori prendano il sopravvento, usando gli strumenti offerti dalla legge per guadagnare tempo e margine di manovra.
  • Coinvolgere i creditori in soluzioni negoziali: un creditore spesso preferisce recuperare qualcosa in modo concordato che ingaggiare lunghe cause dall’esito incerto. Bisogna offrire loro trasparenza e convenienza rispetto allo scenario di liquidazione forzata.
  • Proteggere gli asset essenziali: come visto, case di abitazione, strumenti di lavoro, avviamento aziendale: cercare soluzioni (normative o creative) per non sacrificarli se non come ultima risorsa, perché sono quelli che permettono al debitore di avere un futuro.
  • Affidarsi a professionisti specializzati: le procedure di crisi sono tecniche; OCC, avvocati fallimentaristi e commercialisti esperti possono fare la differenza nel convincere creditori e tribunali, oltre che evitare errori formali.
  • Valutare l’impatto fiscale e penale: nei piani va sempre considerato anche se ci sono implicazioni fiscali (ad esempio l’IVA falcidiata richiede transazione fiscale ad hoc) o penali (es. debiti IVA > soglia: se li stralcio, che succede col reato? Di solito il reato è estinto solo se pago il dovuto integrale, quindi magari conviene nei piani prevedere pagamento integrale dell’IVA anche se stralcio sanzioni e interessi, così da non avere strascichi penali). Un professionista saprà calibrare l’offerta anche tenendo conto di questo (esempio: includo che pago tutto l’IVA per evitare incriminazioni, mentre stralcio altre parti).
  • Comunicazione e buona fede: un debitore che si mostra cooperativo, trasparente e dispiaciuto (ma proattivo nel risolvere) avrà vita più facile con giudici e creditori. Mostrare buona fede è essenziale per ottenere l’accesso alle procedure e la fiducia necessaria a concluderle.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito riportiamo una serie di domande comuni che debitori titolari di showroom indebitati potrebbero porsi, con relative risposte sintetiche, a mo’ di riepilogo pratico:

  • D: Un creditore può costringermi al fallimento se ho un piccolo showroom indebitato?
    R: Dipende dalla dimensione della tua attività. Se sei un imprenditore sotto soglia (attivo ≤ €300k, ricavi ≤ €200k, debiti ≤ €500k), non sei soggetto a fallimento ordinario . I creditori dovranno agire individualmente (pignoramenti) o al più chiedere una liquidazione controllata se ricorrono i presupposti. Se però superi quei limiti (ad es. debiti ingenti), allora i creditori possono presentare istanza di liquidazione giudiziale (fallimento) e il tribunale la dichiarerà se accerta lo stato d’insolvenza. In ogni caso, puoi prevenire un’iniziativa dei creditori presentando tu stesso un ricorso per concordato preventivo o altre procedure: ciò blocca sul nascere le azioni di fallimento, perché la legge tutela il tentativo di risanamento . Ad esempio, se ricevi una citazione per fallimento, puoi depositare un concordato “in bianco” e il tribunale sospenderà la decisione dando tempo a te di proporre un piano . Quindi hai strumenti per difenderti e guadagnare tempo, purché ti muova per tempo.
  • D: Cosa succede ai debiti se la mia società di persone fallisce?
    R: Nelle società di persone (S.n.c., S.a.s.), i soci illimitatamente responsabili falliscono insieme alla società. Il fallimento si estende automaticamente ai loro patrimoni personali. Ciò significa che un creditore potrà rivalersi anche sui beni privati dei soci (case, conti bancari) all’interno della procedura concorsuale. Dopo la chiusura della procedura, i soci possono chiedere l’esdebitazione personale e liberarsi dai debiti residui , ma nel frattempo i loro beni rischiano di essere liquidati. È fondamentale quindi, se gestisci uno showroom in forma di società di persone indebitata, agire prima: ad esempio avviare un concordato minore o un accordo che coinvolga anche i soci, così da evitare il fallimento e proteggere (per quanto possibile) il patrimonio personale all’interno di una procedura più morbida.
  • D: Ho debiti sia verso fornitori della mia attività sia personali (es. mutuo casa). Posso fare un piano del consumatore per liberarmi di tutto?
    R: No, il piano del consumatore è riservato ai debiti contratti come privato consumatore . Se i tuoi debiti derivano in parte dall’attività professionale/imprenditoriale, non puoi usare quella procedura per tutti. I debiti “promiscui” (misti) vanno affrontati con il concordato minore , che è pensato proprio per chi è un piccolo imprenditore ma ha anche debiti personali. Nel concordato minore puoi includere tutti i debiti in un’unica proposta ai creditori, e sarà il giudice a omologarla in caso di voto favorevole della maggioranza . Cassazione ha chiarito che chi ha anche solo parte di debiti d’impresa non rientra nella definizione di consumatore per il piano . Tuttavia, se ad esempio hai un mutuo casa e debiti dell’attività, potresti “spezzare” le situazioni: magari far entrare il mutuo casa in una trattativa separata (continuando a pagarlo normalmente se riesci) e usare il concordato minore per tagliare gli altri debiti. Ad ogni modo, dovrai percorrere le vie del sovraindebitamento (concordato minore, liquidazione controllata, etc.), non quelle del piano consumatore puro, a meno che tu non abbia cessato completamente l’attività e i debiti d’impresa siano stati saldati (scenario in cui saresti di fatto un consumatore per i debiti rimasti, ma è raro).
  • D: I debiti con il fisco possono essere inclusi in un accordo o devo pagarli per forza integralmente?
    R: Possono essere inclusi eccome. Le norme sul sovraindebitamento e sul concordato preventivo prevedono la “transazione fiscale”, ossia la possibilità di proporre al fisco un pagamento parziale e/o dilazionato delle imposte . È necessario rispettare certe condizioni (ad esempio offrire al fisco almeno quanto otterrebbe in un fallimento) e ottenere il suo accordo o comunque l’omologazione del tribunale. Con le novità introdotte nel 2025, la legge consente al fisco di essere più flessibile: si può proporre lo stralcio di sanzioni e interessi e la rateizzazione fino a 10-12 anni . Addirittura, anche per debiti sotto €100k ora l’Agenzia delle Entrate può accettare transazioni (prima era più complicato) . Se il fisco non accetta ma la proposta è conveniente, il tribunale può omologare comunque (cram-down fiscale). Quindi sì, i debiti tributari possono essere trattati nelle procedure concorsuali. Fuori da esse, puoi chiedere la rateizzazione amministrativa (fino a 10 anni per importi alti, 7 anni per importi minori) o aspettare eventuali “rottamazioni” legislative (sanatorie) , ma sono misure temporanee e non prevedibili. Le procedure giudiziali danno una soluzione strutturale. Da notare: se nel tuo piano offri di pagare il 100% dell’IVA e delle ritenute (che sono tributi “sensibili”), aumenta di molto la chance di omologazione, perché elimini anche eventuali ostacoli penali (il reato di omesso versamento è estinto col pagamento integrale). Quindi conviene valutare caso per caso la strategia col fisco.
  • D: La banca mi ha revocato il fido e minaccia di portarmi via casa (sono garante). Posso fare qualcosa per impedirlo?
    R: Sì. Se hai fatto da garante o hai dato ipoteca sulla tua casa per i debiti della tua azienda, la banca in caso di insolvenza può aggredire l’immobile. Per difenderti, la strada migliore è includere la banca in una procedura concorsuale: ad esempio, in un concordato le ipoteche restano ma puoi trattare il debito (magari vendendo l’immobile garantito a valore di mercato invece che farlo svendere all’asta , o trovando un accordo di ristrutturazione). Durante la procedura, la banca non può eseguire il pignoramento grazie allo stay generale. Tieni presente che al creditore ipotecario spetta almeno il ricavato che otterrebbe dalla vendita del bene; quindi non è che in concordato puoi dargli molto meno – a meno che il valore del bene sia inferiore al debito. In quel caso la banca sarà ipotecaria solo fino a concorrenza del valore. Ad esempio: debito €200k, casa ne vale €150k -> la banca è sicura per €150k, il resto è chirografo e potresti stralciarlo. Se invece casa vale più del debito, la banca esigerà 100% (per legge non puoi intaccare un creditore ipotecario oltre la perdita eventuale). In ogni caso, puoi evitare l’esecuzione forzata implementando tu un piano: vendi l’immobile volontariamente e paga la banca (se vuoi salvarlo, l’unica è rifinanziare il debito in qualche modo, magari con un nuovo garante o chiedendo alla banca stessa un accordo di moratoria nel contesto di comp. negoziata). Riassumendo: per impedire il pignoramento, attiva una procedura concorsuale (concordato, accordo ristrutturazione) e chiedi al giudice la sospensione di quel pignoramento . Poi tratta con la banca all’interno del piano. In alternativa, se sei in sovraindebitamento come persona fisica, c’è la norma nuova che consente, con autorizzazione del giudice, di continuare a pagare le rate del mutuo ipotecario sulla prima casa e tenerti la casa . Devi però dimostrare che riuscirai a mantenere le scadenze e che, vendendo la casa, la banca comunque sarebbe soddisfatta integralmente (quindi tanto vale lasciartela). Se ottieni questa chance, la banca non potrà escutere immediatamente l’ipoteca e tu proteggerai la casa.
  • D: Dopo quanto tempo ottengo la liberazione dai debiti (esdebitazione)?
    R: Dipende dalla procedura scelta:
  • Se completi un piano del consumatore o un concordato (minore o preventivo), l’esdebitazione dei debiti residui scatta appena hai eseguito tutto ciò che promettevi (quindi può essere a fine piano, che dura ad es. 4-5 anni).
  • Nella liquidazione controllata o fallimento, l’esdebitazione arriva a fine procedura, che varia (in media un fallimento dura qualche anno, una liquidazione controllata un po’ meno). Diciamo che in 2-4 anni potresti vedere concluso il tutto e ricevere il decreto di esdebitazione. In alcune situazioni la legge oggi consente l’esdebitazione immediata: ad esempio se sei persona fisica nullatenente, puoi chiedere la cancellazione dei debiti subito , e il giudice decide in pochi mesi; oppure nel caso di esdebitazione “ordinaria” post-liquidazione giudiziale, puoi ottenerla anche entro 1 anno dalla chiusura depositando istanza (spesso la concedono in 60-90 giorni salvo opposizioni).
  • Con la novità dell’art. 283-bis CCII introdotto nel 2025, l’esdebitazione del debitore incapiente (senza beni) avviene in tempi rapidi, una volta dimostrati i requisiti .

Quindi in teoria, il range è: da subito (pochi mesi, se incapiente meritevole) a qualche anno (se devi eseguire un piano pluriennale). Ma in ogni caso oggi è garantito che c’è una fine: non rimarrai debitore a vita. La legge prevede che anche dopo il fallimento più lungo, dopo 3 anni dalla chiusura, se hai cooperato, sei esdebitato di diritto . Insomma, la filosofia è: 3 anni di sacrificio e poi fresh start nella maggior parte dei casi.

  • D: Posso continuare la mia attività durante il concordato o l’accordo, o devo chiudere?
    R: Puoi certamente continuare l’attività se il piano lo prevede, anzi è auspicabile quando c’è valore nell’impresa. Si parla di concordato in continuità proprio per indicare che l’azienda prosegue durante e dopo la procedura. Durante il concordato, resterai normalmente alla guida ma sotto la supervisione di un Commissario Giudiziale e con alcuni limiti (atti straordinari autorizzati dal giudice). Nella composizione negoziata, rimani al 100% in carica (l’esperto è solo un facilitatore). Solo nel fallimento/liquidazione controllata l’attività cessa (a meno di esercizio provvisorio, raro nel commercio al dettaglio) e l’impresa muore. Quindi, strumenti come accordo di ristrutturazione e concordato sono fatti per consentire la prosecuzione magari ristrutturata. Nota che se vuoi proseguire, devi predisporre un piano in continuità credibile: ad esempio prevedere come finanzierai l’attività corrente, assicurare che onorerai i debiti verso fornitori nuovi durante la procedura (di solito chiedendo autorizzazione a pagare fornitore essenziale o simili). Dopo l’omologa, l’azienda esce dalla procedura e continua – ovviamente dovrà rispettare il piano di pagamenti concordato coi creditori. Ad esempio, se il concordato dice che nei prossimi 2 anni pagherai rate semestrali ai creditori chirografari, dovrai farlo attingendo dai flussi di cassa dell’attività risanata; se non lo facessi, il concordato potrebbe essere revocato/risolto e i creditori tornerebbero all’attacco . Ma la legge contempla la continuità come opzione prioritaria dove possibile , proprio per salvare i valori.
  • D: Se la mia azienda ha dei leasing per arredi o macchinari, cosa succede in caso di procedura concorsuale?
    R: Il leasing è un contratto particolare: in caso di procedura, il debitore (o il curatore) può scegliere se continuare il contratto di leasing pagando i canoni o scioglierlo. Se lo continua, i canoni futuri diventano prededucibili (da pagare regolarmente). Se lo scioglie, la società di leasing riprende il bene e ha un credito per danni da risoluzione (differenza tra valore residuo e valore realizzato del bene) che si insinua al passivo come chirografo. In un concordato, puoi prevedere una di queste opzioni: ad esempio, se gli arredi in leasing ti servono per proseguire l’attività, li tieni e continui a pagare (magari la società di leasing potrebbe accettare di rimodulare il contratto); se invece non te li puoi permettere, li restituisci. Nel fallimento, di solito il curatore scioglie il leasing a meno che il bene valga molto più dei canoni residui (caso raro). Attenzione: se hai versato già molti canoni e nel leasing c’è maxirata finale con opzione di acquisto, valuta se conviene reperire i fondi e riscattarlo prima di una procedura, perché potresti perdere i soldi già pagati. In alcune procedure minori, il giudice ha autorizzato il debitore a pagare la maxi rata per non perdere ad esempio un macchinario essenziale, includendo poi l’impegno nel piano. Comunque, il leasing non ti dà la proprietà finché non riscatti, quindi il bene formalmente è della società di leasing e non entra nell’attivo fallimentare (salvo eventuale equo compenso se hai pagato molto e restituisci il bene). In sintesi: se il bene in leasing ti è indispensabile e sostenibile, prevedi di tenerlo e paga quei canoni; se è un lusso che non puoi più permetterti, liberatene nella procedura, così il debito residuo diventa chirografo e potrai forse stralciarlo in parte.
  • D: Ho firmato delle fideiussioni personali per debiti aziendali. Se faccio il concordato per l’azienda, le fideiussioni si estinguono?
    R: No, purtroppo l’effetto esdebitativo di un concordato o accordo vale solo per il debitore che vi accede. I coobbligati e garanti restano obbligati in solido, salvo che anch’essi siano parte della procedura. Ad esempio, se la tua S.r.l. fa un concordato e paga il 40% ai creditori, tu che avevi garantito un debito verso banca rimani responsabile verso la banca per l’eventuale quota non pagata dall’azienda (la banca potrebbe cercare da te il restante 60%, a meno che nel frattempo tu non abbia incluso te stesso in un’altra procedura personale). Questo è un punto critico: conviene che anche il garante acceda alla procedura, quando possibile. Nei sovraindebitati c’è la procedura “familiare” congiunta che consente, ad esempio, a un imprenditore e al suo garante familiare di presentare un concordato minore unico . Per le società di capitali, invece, il garante persona fisica (spesso il socio) non è di diritto incluso: se vuole proteggersi deve aprire magari un piano del consumatore suo o un accordo parallelamente (sempre che abbia i requisiti). In alternativa, può negoziare con la banca di rinunciare ad escutere la fideiussione in cambio di un miglior trattamento nel concordato dell’azienda (in pratica, “ti pago un po’ di più nel piano, e tu liberami dal garante”). Ciò deve però essere espressamente accettato dal creditore, altrimenti la liberazione del garante non si verifica. Quindi attenzione: se hai garanti, la procedura dell’azienda non li salva automaticamente, occorre affrontare il tema separatamente.
  • D: Se non rispetto il piano approvato (ad es. salto delle rate verso i creditori), che succede?
    R: Succede una cosa brutta: il concordato o accordo può essere revocato/risolto dal tribunale su istanza dei creditori . In caso di risoluzione, si torna alla situazione pre-procedura: i debiti risorgono per l’intero importo originario, detratti i pagamenti già ricevuti . E a quel punto quasi certamente verrai dichiarato fallito/liquidato, perché hai dimostrato di non reggere il piano. La Cassazione ha recentemente confermato che il tribunale può addirittura dichiarare il fallimento del debitore anche senza passare per la formale risoluzione, se il concordato omologato si rivela inadempiuto e l’insolvenza persiste . Ciò per evitare inutili perdite di tempo: è il concetto di “omisso medio” . Dunque, è fondamentale che il piano sia realistico e che tu lo rispetti fedelmente. Meglio prevedere margini di sicurezza (es. rate sostenibili, non il 100% dei flussi stimati). Se proprio sopravviene un imprevisto (metti un’altra crisi economica), la legge consente di chiedere alcune modifiche o proroghe al piano, ma devi farlo prima di diventare inadempiente e comunque ottenere un nuovo ok del tribunale/creditori a seconda dei casi. Una volta risolto, perdi anche il beneficio dell’esdebitazione finché non completi una liquidazione successiva. Quindi la regola è: prometti solo ciò che puoi mantenere. Meglio un piano più lungo ma sostenibile, che uno “ottimista” da cui poi devii.
  • D: Dopo l’esdebitazione, i miei dati rimarranno in qualche registro? Potrò tornare a chiedere credito?
    R: La chiusura di una procedura concorsuale e l’esdebitazione sono eventi pubblici: risultano nel casellario giudiziario (per pochi anni e poi si cancellano) e soprattutto nel Registro Imprese (se era un concordato o accordo). Esistono banche dati private dei cattivi pagatori (es. CRIF) dove comparirai se hai fatto stralci. In pratica, riavere credito dalle banche sarà difficile nel breve termine, poiché vedranno che hai usato procedure di insolvenza. Col tempo, però, si può recuperare reputazione, specie se nel frattempo costruisci una nuova storia positiva. Non c’è un divieto legale di fare impresa post-procedura, anzi la legge vuole reintegrarti. Se era un fallimento, per qualche tempo non potrai gestire società per disposizioni legali, ma dopo l’esdebitazione sei libero di ricoprire cariche. I fornitori e partner commerciali forse avranno memoria dell’accaduto, ma se li hai parzialmente soddisfatti in concordato, magari la fiducia non è azzerata come lo sarebbe in caso di fallimento con zero ritorno. Quindi, potrai tornare a chiedere credito, ma aspettati condizioni più onerose o richieste di garanzie. L’effetto sul rating creditizio durerà un po’ (per le centrali rischi private, un concordato può segnalare per 36 mesi ad esempio). Comunque, legalmente sei riabilitato. Sta a te poi ricostruire la credibilità. Molti imprenditori di successo hanno alle spalle un fallimento superato e poi banche e investitori tornano se vedono che hai un nuovo progetto solido.
  • D: La procedura concorsuale mi tutela anche da eventuali reati commessi?
    R: Non esattamente. Se hai commesso reati (ad es. bancarotta fraudolenta, frodi fiscali), la procedura in sé non cancella la responsabilità penale. Ci sono però due aspetti:
    1. Alcuni comportamenti che sarebbero reato in caso di fallimento, non lo sono se commessi in attuazione di un piano concorsuale omologato . Ad esempio, pagare preferenzialmente un creditore normalmente è bancarotta preferenziale se fallisci; ma se l’hai fatto perché previsto da un piano attestato o concordato, non è punibile . Quindi la procedura ti dà uno scudo su quelle azioni autorizzate dal giudice o legittime nel piano (art. 324 CCII esclude punibilità di atti dovuti all’esecuzione del concordato).
    2. Per reati tributari specifici come l’omesso versamento IVA, la legge prevede la causa di non punibilità se paghi il dovuto prima del giudizio. Dunque, se nel concordato paghi integralmente l’IVA e gli altri tributi penalmente rilevanti, ti metti al riparo anche penalmente. Se invece fai un concordato dove l’IVA viene falcidiata (cosa possibile per l’IVA solo dal 2022 in poi), allora il reato non è estinto e potresti essere comunque perseguito (qui c’è un dibattito giuridico, ma tendenzialmente falcidiare IVA non ti salva dalle conseguenze penali pregresse, a meno che intervenga una norma di clemenza). Quindi conviene valutare attentamente con un legale: a volte pagare un po’ di più al fisco può evitarti un procedimento penale.

In sintesi: la procedura concorsuale non lava via reati già compiuti. Però se conduci la procedura onestamente, non incorrerai in reati di bancarotta (che scatterebbero solo in caso di fallimento, e anzi l’uso riuscito del concordato evita proprio il fallimento e quindi niente bancarotta!). È uno stimolo in più: preferisci un concordato ben fatto che non avere un fallimento dove il curatore magari ti denuncia per qualche irregolarità. In altri termini, rispettando le regole della procedura ti tieni lontano dal penale.

  • D: Che differenza c’è tra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione?
    R: Entrambi sono strumenti per evitare il fallimento tramite un’intesa coi creditori, ma differiscono:
    • Il concordato preventivo coinvolge tutti i creditori e richiede un voto formale; viene gestito interamente dal tribunale (ammissione, commissario, ecc.). Può imporre tagli anche ai dissenzienti di minoranza perché se approvato a maggioranza diventa vincolante per tutti . Include anche la possibilità di suddividere in classi e procedere in continuità. È più adatto a situazioni dove serve vincolare l’intera massa creditoria e forse c’è conflittualità.
    • L’accordo di ristrutturazione dei debiti (182-bis) è più snello: il debitore deve ottenere adesione di almeno il 60% dei crediti (o soglie minori in casi particolari) privatamente, e poi chiede solo l’omologa al tribunale. Non c’è voto di una platea in sede giudiziaria, perché i creditori li hai già convinti fuori. I dissenzienti restano estranei (li devi pagare integralmente, salvo casi di “efficacia estesa” in cui li puoi includere se sono omogenei a quelli consenzienti). È dunque indicato se hai pochi creditori principali con cui trovi l’accordo e magari qualche piccolo creditore che pagherai comunque. Proceduralmente l’accordo è più rapido e riservato (meno intervento del giudice, niente commissario).

In breve: concordato = procedura concorsuale completa con voto e cramming down (imposizione ai contrari), accordo = contratto omologato con i creditori principali, minor formalità. In un caso reale, se hai un showroom con 3 banche e 4 fornitori grandi e tutti d’accordo, fai un accordo 182-bis e fine. Se invece hai 50 fornitori e alcuni non collaborano, meglio un concordato così li costringi se la maggioranza è con te. Spesso la scelta dipende dal numero di creditori e dal grado di consenso preesistente.

  • D: In concreto, a chi devo rivolgermi per avviare queste procedure?
    R: Ci sono alcuni enti e professionisti che entrano in gioco:
    • Per procedure di sovraindebitamento (piano consumatore, concordato minore, liquidazione controllata) devi rivolgerti a un OCC (Organismo di Composizione della Crisi). Ce ne sono in ogni provincia (presso ordini dei commercialisti, avvocati o presso le Camere di Commercio). L’OCC ti assisterà nominando un Gestore e predisponendo la pratica da presentare al tribunale .
    • Per composizione negoziata, la domanda si fa sul portale online e l’esperto viene nominato da una commissione presso la CCIAA. Puoi farlo anche tramite l’assistenza di un professionista, ma formalmente è un procedimento amministrativo inizialmente.
    • Per concordato preventivo o accordo 182-bis, ti serve un avvocato e di solito un professionista attestatore (un commercialista esperto) che rediga la relazione di fattibilità. Si deposita tutto in tribunale sezione fallimentare.
    • In ogni caso, coinvolgere subito un professionista legale specializzato in crisi d’impresa è consigliabile. Molti avvocati e commercialisti si occupano di queste procedure e spesso lavorano in team (avvocato cura aspetti legali, commercialista quelli finanziari).

Inoltre puoi consultare enti come la Camera di Commercio (hanno sportelli informativi sulla composizione negoziata) , associazioni di categoria (a volte hanno convenzioni con OCC o professionisti), o se il tuo è un debito da consumatore c’è la figura del “gestore della crisi” anche presso consigli dell’ordine. La cosa importante è scegliere qualcuno con esperienza nella materia, perché sono procedure nuove e in evoluzione: ad esempio, i correttivi 2024-2025 hanno cambiato qualche regola, serve chi è aggiornato. Un errore di inesperienza (come non includere un documento necessario) può far perdere tempo o, peggio, far dichiarare inammissibile la domanda. Dunque, investire in una buona consulenza è parte della strategia di successo.

Conclusione

Trovarsi con uno showroom di design sommerso dai debiti può sembrare una situazione senza via d’uscita, ma come abbiamo illustrato, l’ordinamento giuridico italiano oggi offre numerosi strumenti per difendersi e persino per ripartire. La chiave sta nel non isolarsi nella paura: occorre invece affrontare proattivamente la realtà finanziaria, coinvolgere professionisti e utilizzare le leve legali disponibili. Che si tratti di negoziare privatamente un accordo coi fornitori, di presentare un piano attestato per ottenere fiducia, di avviare un concordato per ridurre i debiti o di attivare una composizione negoziata assistita, il debitore ha la possibilità di riorganizzare i propri debiti in modo sostenibile.

Abbiamo visto anche l’importanza di tutelare i diritti del debitore: le procedure concorsuali sospendono le esecuzioni, garantiscono la par condicio (trattamento equo di tutti i creditori) e soprattutto permettono al debitore meritevole di ottenere l’esdebitazione, ossia la cancellazione dei debiti residui . Questo principio del “fresh start” è essenziale: anche chi ha fallito può avere una seconda occasione senza restare schiacciato dai debiti a vita .

Dal punto di vista pratico, per il titolare di uno showroom indebitato, i consigli finali sono: non procrastinare, fare un check-up con esperti (magari un advisor finanziario per capire se l’attività è ancora viable o se conviene liquidare), preparare documenti contabili chiari (serviranno in ogni procedura), e comunicare con i creditori mostrando la volontà di trovare soluzioni. Spesso la trasparenza e il dialogo disinnescano l’aggressività: un fornitore informato del fatto che stai attivando un piano concordatario sarà meno propenso a precipitarsi dal giudice, se sa che potrebbe comunque recuperare qualcosa tramite il piano.

Inoltre, conoscere i propri diritti aiuta psicologicamente: sapere che la prima casa è protetta dal fisco , che lo stipendio non può essere pignorato oltre un certo limite , che c’è la possibilità di liberarsi dei debiti, tutto questo dà la serenità per affrontare razionalmente la situazione, invece di farsi sopraffare dal panico o dalla vergogna (elementi che purtroppo spesso portano chi è indebitato a non agire, peggiorando le cose).

Va sottolineato che le soluzioni qui discusse valgono in ambito italiano e secondo la normativa aggiornata a settembre 2025. Questa normativa, specialmente il Codice della Crisi, è frutto di recenti riforme e potrebbe ancora evolvere; ma il trend generale è chiaro: facilitare la composizione negoziale delle crisi e il risanamento, limitare i fallimenti distruttivi e dare una possibilità di esdebitazione rapida ai debitori onesti .

In conclusione, se gestisci uno showroom di design oberato dai debiti, non disperare: informati sulle opzioni legali, fai squadra con consulenti qualificati e costruisci un piano d’azione. Potrai così difenderti dalle pretese dei creditori in modo lecito ed efficace e, nella migliore delle ipotesi, ristrutturare i debiti mantenendo in vita la tua attività oppure chiuderla senza trascinarti dietro debiti per sempre. Come recita un vecchio adagio giuridico, “la legge aiuta chi si aiuta”: usando gli strumenti giuridici con intelligenza e correttezza, potrai lasciarti alle spalle la crisi e guardare di nuovo al futuro con progettualità.

Gestisci uno showroom di design, arredamento o interior decor e stai affrontando debiti fiscali, bancari o verso fornitori? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Gestisci uno showroom di design, arredamento o interior decor e stai affrontando debiti fiscali, bancari o verso fornitori?
Hai ricevuto cartelle esattoriali, intimazioni di pagamento, o rischi pignoramenti, ipoteche o blocchi dei conti correnti da parte dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione o dei creditori?

👉 Prima regola: non aspettare.
Nel mondo del design e dell’arredamento, dove gli investimenti iniziali sono elevati e i tempi di incasso lunghi, anche una semplice difficoltà di liquidità può generare debiti importanti.
Con una difesa legale e fiscale mirata, puoi bloccare le azioni esecutive, ristrutturare i debiti e salvaguardare la tua attività e la tua immagine commerciale.


⚖️ Le cause più comuni di indebitamento negli showroom di design

  • Tassazione elevata e acconti fiscali mal pianificati.
  • Ritardi nei pagamenti da parte dei clienti o dei partner commerciali.
  • Spese alte per affitti, esposizioni, fiere e allestimenti.
  • Mancato versamento di IVA, IRPEF o contributi previdenziali.
  • Cartelle esattoriali e interessi di mora accumulati.
  • Leasing o finanziamenti onerosi per arredi e spazi espositivi.
  • Errori nella gestione contabile o nella pianificazione economica.

📌 I rischi per uno showroom di design indebitato

  • Cartelle esattoriali e pignoramenti su conti correnti o incassi.
  • Iscrizioni ipotecarie su immobili e beni aziendali.
  • Fermi amministrativi su veicoli o mezzi di trasporto.
  • Blocco dei crediti IVA o dei rimborsi fiscali.
  • Revoca di linee di credito o leasing.
  • Rischio di chiusura o liquidazione giudiziale (ex fallimento) in caso di insolvenza.

🔍 Cosa fare subito

  1. Analizza la situazione debitoria, separando debiti fiscali, bancari e commerciali.
  2. Verifica la legittimità delle cartelle e degli atti ricevuti, poiché molti contengono vizi o debiti prescritti.
  3. Blocca le azioni esecutive (pignoramenti, ipoteche, fermi) con ricorsi o istanze di sospensione.
  4. Richiedi una rateizzazione o valuta una definizione agevolata (“rottamazione”), se prevista.
  5. Affidati a un avvocato tributarista esperto, per sviluppare una strategia di difesa e risanamento personalizzata.

🧾 Strumenti per difendersi e risolvere i debiti

💠 Rateizzazione delle cartelle

Puoi chiedere una rateizzazione fino a 120 rate mensili, sospendendo pignoramenti e procedure esecutive.

💠 Definizione agevolata o “rottamazione”

Quando disponibile, consente di pagare solo il capitale dovuto, eliminando sanzioni e interessi di mora.

💠 Istanza di autotutela o ricorso tributario

Serve per contestare cartelle o intimazioni irregolari, bloccando la riscossione illegittima.

💠 Composizione negoziata della crisi (Codice della Crisi d’Impresa)

Uno strumento moderno che consente di negoziare con Fisco, banche e fornitori, sospendendo le azioni dei creditori e salvando la continuità aziendale.

💠 Piano di risanamento aziendale

Con una consulenza legale e contabile mirata, puoi ristrutturare i debiti, ottimizzare i costi e salvare lo showroom e il brand.


🛠️ Strategie di difesa per uno showroom di design indebitato

  • Analizzare ogni cartella e atto notificato per scoprire vizi o prescrizioni.
  • Contestare pignoramenti, ipoteche o fermi amministrativi non legittimi.
  • Dimostrare la crisi temporanea di liquidità per ottenere sospensioni o rateizzazioni.
  • Attivare accordi di rientro con Fisco, banche e fornitori.
  • Proteggere arredi, beni espositivi e immobili aziendali da azioni esecutive.
  • Migliorare la gestione contabile e fiscale per prevenire nuovi debiti futuri.

⚖️ Perché agire subito è fondamentale

Nel settore del design, la reputazione e la continuità operativa sono determinanti.
Un pignoramento o il blocco dei conti può compromettere forniture, esposizioni e collaborazioni, danneggiando irrimediabilmente l’immagine del brand.
Agire tempestivamente consente di:

  • Bloccare cartelle e azioni di riscossione.
  • Difendere la tua attività e la tua immagine commerciale.
  • Rinegoziare i debiti in modo sostenibile.
  • Ripristinare equilibrio economico e stabilità aziendale.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

  • 📂 Analizza la posizione debitoria e la documentazione ricevuta.
  • 📌 Verifica la legittimità delle cartelle e la possibilità di sospensione o rateizzazione.
  • ✍️ Predispone piani di risanamento, istanze di autotutela e ricorsi tributari personalizzati.
  • ⚖️ Rappresenta lo showroom davanti all’Agenzia delle Entrate-Riscossione e alla Corte di Giustizia Tributaria.
  • 🔁 Offre consulenza continuativa su fiscalità aziendale, tutela del patrimonio e gestione della crisi d’impresa.

🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e gestione della crisi d’impresa.
  • ✔️ Specializzato nella difesa di showroom, negozi di design e aziende creative contro debiti fiscali e bancari.
  • ✔️ Gestore della crisi d’impresa iscritto presso il Ministero della Giustizia.

Conclusione

Uno showroom di design con debiti può essere risanato e tornare competitivo, ma serve agire subito con una strategia concreta.
Con una difesa legale e fiscale efficace, puoi bloccare cartelle e pignoramenti, ridurre i debiti e proteggere il tuo showroom, i tuoi arredi e la tua reputazione nel settore.
Agire oggi significa salvare la tua azienda, i tuoi collaboratori e il futuro del tuo marchio di design.


📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata:
la tua difesa contro debiti fiscali, cartelle e accertamenti nel tuo showroom di design inizia qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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