Calzaturificio Con Debiti: Cosa Fare E Come Difendersi

Hai un calzaturificio con debiti fiscali o cartelle esattoriali e non sai come intervenire?
Il settore calzaturiero, tra crisi di mercato, aumento dei costi energetici e riduzione della domanda, è oggi uno dei più esposti a verifiche fiscali, intimazioni di pagamento e difficoltà di liquidità.
Molte aziende, anche solide e storiche, si trovano a gestire debiti con l’Agenzia delle Entrate, l’INPS o i fornitori, che rischiano di compromettere la produzione e i posti di lavoro.
Con una difesa legale e fiscale ben strutturata, è possibile bloccare le azioni di riscossione, rateizzare i debiti e tutelare la continuità del calzaturificio, evitando conseguenze patrimoniali e reputazionali.

Quando un calzaturificio entra in difficoltà fiscale
Le situazioni più comuni che portano a un accertamento o a debiti con il Fisco sono:

  • Cartelle esattoriali o intimazioni di pagamento per imposte non versate o contributi arretrati.
  • Accertamenti fiscali per presunti redditi non dichiarati, incongruenze contabili o errori IVA.
  • Pignoramenti o ipoteche su conti e beni aziendali disposti dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione.
  • Insolvenze verso fornitori e dipendenti, con accumulo di interessi e penali.
  • Sanzioni e interessi dovuti a ritardi o omessi pagamenti.
  • Decadenza da agevolazioni o crediti d’imposta legati all’innovazione o all’internazionalizzazione.

Cosa fare se il calzaturificio ha debiti o è sotto accertamento

  1. Agisci subito: ogni atto fiscale (cartella, avviso o intimazione) ha termini precisi per essere impugnato o rateizzato. Ignorarli può rendere definitiva la pretesa.
  2. Controlla la legittimità degli atti: molti accertamenti e cartelle contengono errori di notifica, vizi formali o calcoli errati, che permettono di ottenerne l’annullamento.
  3. Verifica l’importo effettivo del debito: spesso le somme richieste includono interessi o sanzioni sproporzionate che possono essere ridotte.
  4. Richiedi una rateizzazione: è possibile ottenere fino a 120 rate mensili, con sospensione temporanea delle azioni di riscossione.
  5. Valuta la definizione agevolata (rottamazione): quando disponibile, consente di pagare solo il capitale, cancellando sanzioni e interessi.
  6. Impugna gli accertamenti illegittimi: puoi presentare un ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per bloccare l’esecuzione e far valere i tuoi diritti.

Come difendersi legalmente e salvare l’azienda
Un avvocato tributarista esperto nel settore industriale e manifatturiero può esaminare ogni atto per verificarne la validità e proporre la soluzione più adatta:

  • Ricorso per vizi di notifica o motivazione dell’accertamento.
  • Richiesta di sospensione cautelare delle azioni di riscossione.
  • Rateizzazione o transazione fiscale per ridurre e dilazionare i debiti.
  • Assistenza nel contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate, per evitare l’emissione di nuovi atti.
  • Analisi contabile e bilancistica per dimostrare la reale capacità contributiva e ottenere riduzioni.
  • Supporto in procedure di composizione della crisi d’impresa, se necessario, per proteggere l’attività e i posti di lavoro.

Il ruolo dell’avvocato nella difesa del calzaturificio

  • Analizza la legittimità di accertamenti, cartelle e ipoteche.
  • Impugna tempestivamente gli atti fiscali davanti alla Corte di Giustizia Tributaria.
  • Negozia con l’Agenzia delle Entrate-Riscossione piani di pagamento sostenibili.
  • Protegge i macchinari, i capannoni e i conti aziendali da pignoramenti.
  • Tutela la reputazione e la continuità produttiva dell’impresa.
  • Coordina la difesa con commercialisti e consulenti aziendali per impostare una gestione più solida e trasparente.

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace

  • La sospensione immediata delle procedure di riscossione.
  • L’annullamento totale o parziale dei debiti illegittimi.
  • La rateizzazione o definizione agevolata delle somme dovute.
  • La protezione del patrimonio aziendale e familiare.
  • Il risanamento della posizione fiscale e contabile dell’azienda.

⚠️ Attenzione: ignorare cartelle e accertamenti può portare a pignoramenti, blocco dei conti correnti o fermo dei macchinari, mettendo in pericolo la sopravvivenza stessa del calzaturificio.
Molte situazioni, tuttavia, sono risolvibili, se affrontate tempestivamente con una strategia legale e fiscale mirata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e difesa delle imprese manifatturiere e artigiane – spiega cosa fare se il tuo calzaturificio ha debiti fiscali o è sotto accertamento, come bloccare le azioni esecutive e come ricostruire un piano di rientro sostenibile.

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Introduzione

Un calzaturificio in difficoltà finanziaria può trovarsi sommerso dai debiti verso fornitori, banche, Fisco ed enti previdenziali. La domanda cruciale per l’imprenditore è: come reagire e tutelarsi di fronte a questa crisi? Negli ultimi anni la disciplina italiana delle insolvenze è stata rivoluzionata dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), introdotto dal D.Lgs. 14/2019 e successivamente modificato (da ultimo col correttivo 2024, D.Lgs. 136/2024) . Oggi si parla di liquidazione giudiziale invece che di fallimento, e sono disponibili nuovi strumenti per ristrutturare i debiti e salvare l’azienda ove possibile. Questa guida – pensata per avvocati, imprenditori e privati coinvolti in situazioni di crisi aziendale – esamina in dettaglio cosa può fare un debitore (il calzaturificio indebitato) per difendersi dai creditori, ristrutturare i debiti o, nei casi estremi, gestire una liquidazione ordinata limitando i danni.

Affronteremo tutti gli aspetti rilevanti con linguaggio giuridico ma divulgativo: dalle diverse tipologie di debiti (fiscali, contributivi, bancari, commerciali, leasing, ecc.) ai segnali di crisi da monitorare, fino agli strumenti di risanamento (accordi stragiudiziali, composizione negoziata, concordato preventivo, ecc.) e di tutela del patrimonio personale. Analizzeremo le responsabilità degli amministratori – civili e penali – in caso di gestione non diligente, nonché le possibili conseguenze penali (come i reati di bancarotta). Saranno incluse tabelle riepilogative per un confronto immediato tra strumenti, una sezione di domande e risposte frequenti e alcune simulazioni pratiche di casi tipici. Le fonti normative e le più recenti sentenze (aggiornate a settembre 2025) sono riportate in fondo alla guida per approfondimenti .

Punto di vista del debitore: tutta l’analisi considera le mosse difensive e le strategie dal lato dell’impresa indebitata (il calzaturificio). Lo scopo è fornire un percorso di orientamento avanzato su cosa fare concretamente se l’azienda ha troppi debiti, come negoziare con i creditori evitando errori, quali procedure attivare per risolvere o attenuare la crisi, e come proteggere il patrimonio personale dell’imprenditore. Conoscere i propri diritti e doveri in queste situazioni è fondamentale: ad esempio, quando e come attivare una procedura concorsuale può fare la differenza tra salvare l’azienda (o parte di essa) oppure subire passivamente azioni esecutive disordinate. Allo stesso modo, una tempestiva attivazione di strumenti come la composizione negoziata può dimostrare la buona fede del debitore e prevenire responsabilità per aggravamento del dissesto .

Inizieremo mappando i vari debiti del calzaturificio e le relative criticità, per poi passare ai segnali di allarme e agli obblighi di reazione a carico degli amministratori. Successivamente, esamineremo nel dettaglio gli strumenti di gestione della crisi, dai più informali (piani di rientro e accordi privati) ai più strutturati (accordi di ristrutturazione, concordati) fino alla liquidazione. Dedicheremo spazio anche alla negoziazione con banche e fornitori al di fuori delle aule di tribunale, essenziale per guadagnare tempo e soluzioni pragmatiche. Infine, ci occuperemo della tutela del patrimonio personale dell’imprenditore (trust, fondi patrimoniali, holding, ecc.) e delle conseguenze giuridiche per gli amministratori che non agiscono correttamente (responsabilità civile e penale). Lungo il percorso, FAQ e casi pratici aiuteranno a chiarire i dubbi più comuni in modo concreto.

Importante: ogni situazione di crisi è unica. Questa guida offre un quadro di riferimento avanzato, ma è essenziale consultare professionisti qualificati (avvocati d’impresa, commercialisti) per applicare le soluzioni più adatte al caso specifico. In un contesto normativo in evoluzione, essere aggiornati alle ultime novità – come le modifiche del 2024 che introducono maggior flessibilità nei piani e moratorie più ampie per i debitori – è cruciale per prendere decisioni informate e difendersi al meglio.

Tipologie di debiti di un calzaturificio e relativi rischi

Un calzaturificio può accumulare debiti di natura diversa, ciascuno con proprie caratteristiche giuridiche e conseguenze. Prima di scegliere come affrontare la crisi, è opportuno distinguere le varie categorie di debito e capire quali rischi e strumenti specifici si accompagnano a ciascuna. Di seguito esaminiamo i principali tipi di debito di un’impresa calzaturiera:

Debiti fiscali (Erario)

I debiti verso il Fisco includono imposte non versate (es. IVA, IRES) e ritenute non pagate. Si tratta di crediti privilegiati per il Fisco: in caso di insolvenza, lo Stato gode di un diritto di prelazione sul ricavato dei beni del debitore, soprattutto per alcune imposte (ad esempio l’IVA e le ritenute hanno privilegio generale sui mobili ex art. 2752 c.c.). Inoltre, il mancato pagamento di imposte può condurre rapidamente ad azioni esecutive da parte dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione (AdER), l’ente preposto alla riscossione coattiva. Quest’ultima può notificare cartelle esattoriali e, in difetto di pagamento, attivare misure come il fermo amministrativo su automezzi, l’ipoteca su immobili aziendali, o il pignoramento di conti correnti e beni mobili registrati.

Va segnalato che per i debiti fiscali esistono strumenti di sollievo specifici. In via amministrativa, l’impresa può chiedere una rateizzazione del debito tributario: ad esempio, le cartelle esattoriali possono essere dilazionate fino a 72 rate mensili (6 anni) ordinariamente, e fino a 120 rate (10 anni) in casi di comprovata temporanea difficoltà . Negli ultimi anni, inoltre, si sono susseguite diverse definizioni agevolate – le cosiddette rottamazioni delle cartelle – che consentono di pagare il debito fiscale senza sanzioni e interessi di mora. Ad esempio, la rottamazione-quater 2023 ha permesso ai debitori di definire i carichi affidati all’AdER fino al 2017 pagando solo imposta e interessi legali. È importante verificare periodicamente se la normativa introduce nuove opportunità di sanatoria fiscale, poiché possono rappresentare un’occasione preziosa per ridurre l’esposizione debitoria fiscale.

Nell’ambito delle procedure concorsuali, il trattamento dei crediti tributari è peculiare. Da un lato, il Fisco ha diritto a percentuali minime di soddisfazione se il piano è liquidatorio (tradizionalmente almeno il 5% per IVA e ritenute, anche se il CCII ha introdotto il best interest test in luogo di soglie rigide). Dall’altro, esiste la possibilità di concludere una transazione fiscale: si tratta di un accordo inserito nel piano di concordato preventivo o di ristrutturazione, in cui l’Amministrazione finanziaria accetta un pagamento parziale o dilazionato del proprio credito . La transazione fiscale richiede l’approvazione dell’Erario (che valuterà la convenienza rispetto alla liquidazione fallimentare); grazie al correttivo 2024, oggi il debitore può chiedere di posticipare il pagamento dei crediti tributari privilegiati fino a 2 anni dall’omologazione del piano , ottenendo una sorta di moratoria che alleggerisce la pressione finanziaria iniziale. Ciò rappresenta una novità di grande rilievo: consente all’impresa di respirare e dedicare le risorse alla continuità aziendale nel breve termine, fermo restando l’obbligo di soddisfare il Fisco nei termini concordati successivamente.

Attenzione ai profili penali: alcuni debiti fiscali, se non onorati, possono far insorgere responsabilità penali a carico degli amministratori. Ad esempio, omessi versamenti IVA oltre una certa soglia (attualmente €250.000 per periodo d’imposta) costituiscono reato tributario ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000. Analogamente, l’omesso versamento di ritenute dovute sopra soglie minime è sanzionato dall’art. 10-bis D.Lgs. 74/2000. È dunque fondamentale che il debitore-valuti anche questi rischi: in sede di concordato o accordo, la regolarizzazione (anche parziale) dei debiti IVA/ritenute può evitare il perfezionarsi del reato, data la previsione di causa di non punibilità in caso di pagamento integrale del dovuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. In sintesi, i debiti fiscali vanno gestiti con massima attenzione, sfruttando gli strumenti di dilazione o transazione per evitare sia le aggressive azioni di recupero dell’AdER sia eventuali implicazioni penali per i vertici aziendali.

Debiti contributivi e previdenziali (INPS, INAIL)

I debiti contributivi riguardano principalmente i contributi obbligatori dovuti agli enti previdenziali (INPS per i lavoratori dipendenti e i titolari, INAIL per i premi assicurativi obbligatori contro gli infortuni). Anche questi debiti godono di privilegio nelle procedure concorsuali, similmente ai debiti fiscali (ad esempio, i contributi INPS non versati ai dipendenti hanno privilegio generale ex art. 2753 c.c.). L’INPS e gli altri enti hanno facoltà di iscrivere a ruolo gli importi dovuti, con emissione di cartelle esattoriali affidate all’Agente della Riscossione. In mancanza di pagamento, le azioni esecutive seguiranno lo stesso iter delle imposte: ingiunzioni, pignoramenti, iscrizioni ipotecarie, blocco di veicoli, ecc.

Dilazione e interventi normativi: analogamente alle imposte, anche i contributi possono essere rateizzati. L’INPS consente piani di dilazione del debito contributivo, generalmente fino a 24 rate mensili (2 anni), estensibili in casi eccezionali. Inoltre, provvedimenti legislativi straordinari talvolta includono i contributi nelle sanatorie: ad esempio, alcune “rottamazioni” hanno riguardato anche i contributi affidati all’Agente Riscossione, permettendo di pagarli senza sanzioni civili. È bene quindi valutare con i consulenti del lavoro la possibilità di istanze di rateazione dirette all’INPS o all’INAIL, evitando che la posizione debitoria degeneri.

Implicazioni sulla gestione aziendale: un elevato debito contributivo può creare ostacoli operativi: in Italia esiste il DURC (Documento Unico di Regolarità Contributiva), certificato che attesta il pagamento di contributi e premi. Un’impresa con contributi arretrati non ottiene il DURC e ciò le preclude, ad esempio, la partecipazione ad appalti pubblici e in alcuni casi la stipula di contratti con grandi committenti privati (che spesso richiedono il DURC alle aziende fornitrici). Il mancato pagamento dei contributi, quindi, oltre all’azione dei creditori, può isolare commercialmente l’impresa, aggravando la crisi.

Profili penali: per i contributi previdenziali vige una soglia oltre la quale scatta reato. L’art. 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983 (conv. in L. 638/1983) punisce l’omesso versamento di ritenute previdenziali oltre una soglia (circa €10.000 annui di importi omessi). È prevista la causa di non punibilità se il datore di lavoro versa integralmente le ritenute dovute entro il termine per la presentazione del modello Unico dell’anno successivo. Dunque, se un calzaturificio ha omesso contributi per i dipendenti superando tale importo, gli amministratori rischiano conseguenze penali a meno che regolarizzino la posizione entro i termini di legge. Anche questo deve incentivare l’imprenditore a considerare accordi con l’INPS (ad esempio includendo il debito contributivo in un concordato preventivo con transazione contributiva, analoga a quella fiscale, per dilazionare/pagare parzialmente il dovuto): l’INPS può aderire a un piano se ritiene di ricavarne almeno quanto otterrebbe da una liquidazione forzata.

Va ricordato che il Codice della crisi include espressamente l’INPS tra i “creditori pubblici qualificati” tenuti a segnalare tempestivamente all’azienda il superamento di soglie di debito contributivo arretrato . In particolare, l’INPS invia un avviso all’impresa se i contributi non versati superano €15.000 . Tale avviso invita formalmente l’imprenditore a prendere provvedimenti (ad esempio ad attivare la composizione negoziata della crisi) e viene inviato anche ai sindaci/revisori della società . Ricevere una simile segnalazione e non reagire è estremamente pericoloso: da quel momento, gli amministratori non possono più invocare ignoranza della situazione e ogni ulteriore inerzia potrebbe essere valutata come grave colpevolezza in sede di eventuale azione di responsabilità o procedura penale . Dunque, la presenza di debiti contributivi è un campanello d’allarme che il debitore deve affrontare con decisione, sia per evitare misure esecutive, sia per non incorrere in censure legali per omessa reazione alla crisi.

Debiti bancari e finanziari

Molte aziende calzaturiere finanziano l’attività attraverso prestiti bancari, mutui ipotecari, affidamenti di conto corrente, leasing finanziari e altri strumenti di credito. I debiti verso banche e finanziarie presentano alcune specificità:

  • Presenza di garanzie: spesso tali debiti sono assistiti da garanzie reali o personali. Ad esempio, un mutuo per il capannone del calzaturificio sarà garantito da ipoteca sull’immobile; un fido bancario può essere garantito da un pegno su beni o da una fideiussione personale dei soci/imprenditori. Se l’azienda è inadempiente, la banca può escutere la garanzia: in caso di ipoteca, attiverà una procedura esecutiva immobiliare, in caso di fideiussione potrà rivalersi sui beni personali del garante (coinvolgendo così il patrimonio dell’imprenditore o di eventuali coobbligati).
  • Clausole contrattuali e decadenza dal beneficio del termine: i contratti bancari spesso prevedono che, al mancato pagamento anche di una sola rata o al verificarsi di insolvenza, la banca possa considerare scaduto l’intero debito e chiederne l’immediato pagamento (clausole di decadenza dal termine). Ciò significa che se l’azienda salta una rata di mutuo, la banca può accelerare il rimborso dell’intera esposizione residua, aggravando ulteriormente la crisi di liquidità. Inoltre, la segnalazione a Centrale Rischi (la banca dati della Banca d’Italia) di un’esposizione “a sofferenza” compromette la reputazione creditizia dell’impresa, rendendo quasi impossibile ottenere nuovi finanziamenti.
  • Azioni esecutive rapide: le banche dispongono di titoli esecutivi potenti. Un mutuo fondiario, ad esempio, è munito di titolo esecutivo ipotecario, e la banca può iniziare la esecuzione immobiliare in tempi brevi dopo un semplice atto di intimazione. Anche senza garanzie reali, i contratti di finanziamento possono essere assistiti da clausole notarili di immediata esecutorietà (tipo atto di finanziamento ex art. 117 TUB), che evitano alla banca di dover ottenere un decreto ingiuntivo. In pratica, il creditore bancario è spesso in grado di reagire più velocemente di un fornitore qualsiasi per recuperare il proprio credito.

Nonostante ciò, i debiti bancari si prestano spesso a negoziazione e ristrutturazione. Se l’azienda ha prospettive di ripresa, la banca stessa potrebbe preferire una ristrutturazione del debito anziché un fallimento che porterebbe probabilmente a un recupero parziale e tardivo. Le strade percorribili includono: – Piani di rientro bilaterali: l’impresa può contrattare con la banca una modifica del piano di ammortamento (es. allungamento della durata del mutuo, con rate più piccole; periodi di preammortamento in cui si pagano solo interessi; standstill temporanei). Spesso le banche, soprattutto su esposizioni a breve termine, concedono una moratoria dei pagamenti o una dilazione se vedono che l’azienda sta intraprendendo un percorso di risanamento credibile. – Consolidamento e nuova finanza: in alcuni casi, il debitore ottiene ulteriore credito per pagare gli arretrati (ad esempio, un nuovo finanziamento assistito da garanzia pubblica Fondo PMI o da privilegio ex art. 90 CCII su beni in caso di concordato in continuità). Ciò consente di “spalmare” i debiti nel tempo e superare l’emergenza di cassa. Ovviamente la concessione di nuova finanza da parte delle banche richiede un solido business plan di rilancio e spesso garanzie aggiuntive. – Accordi di ristrutturazione del debito in sede concorsuale: la legge prevede strumenti ad hoc come gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati (artt. 57-64 CCII) dove, se si raggiunge l’adesione di almeno il 60% dei creditori (spesso le banche detengono gran parte dei crediti finanziari), l’accordo può essere omologato dal tribunale e ottenere efficacia anche verso eventuali dissenzienti (che però vanno pagati integralmente fuori dall’accordo, salvo specifiche eccezioni settoriali) . Un esempio è l’accordo ad efficacia estesa ai creditori finanziari: se aderisce il 75% delle banche, l’accordo di ristrutturazione può essere esteso anche alle banche non aderenti, vincolandole (purché siano banche e abbiano possibilità simili offerte) . Ciò facilita la crisi da debiti bancari, evitando che una minoranza rovini un piano condiviso dalla maggioranza.

Un aspetto critico dei debiti bancari è la possibile presenza di garanzie personali dei soci o amministratori (fideiussioni). In un calzaturificio organizzato come S.r.l. o S.p.A., per ottenere finanziamenti è prassi che le banche chiedano ai soci di garantire personalmente. Ciò significa che, se la società non paga, la banca potrà aggredire direttamente il patrimonio personale del garante (es. la casa di abitazione, salvo sia protetta da strumenti come il fondo patrimoniale, v. oltre). In questo scenario, difendersi significa per l’imprenditore non solo salvare l’azienda, ma anche evitare l’escussione personale. Una via possibile è includere nel piano di ristrutturazione della società una clausola di liberazione o graduale esdebitazione del socio garante: alcune banche accettano di liberare i garanti se la società rispetta il piano di rientro concordato (magari prevedendo che i garanti mettano a disposizione un certo apporto di capitali o beni in cambio della liberazione). È una questione di negoziazione caso per caso.

Infine, occorre evidenziare che le banche, in caso di insolvenza conclamata, possono attivarsi per chiedere esse stesse il fallimento (ora liquidazione giudiziale) dell’impresa. In passato, alcuni istituti hanno preferito cedere il credito deteriorato a società specializzate (i cosiddetti fondi distressed o recupero crediti), che a loro volta possono agire in modo aggressivo. Tuttavia, se il debitore avvia per tempo una procedura di concordato o un piano attestato, si può ottenere la sospensione delle azioni esecutive (v. oltre sulle misure protettive nella composizione negoziata e concordato) e instradare anche la banca verso una soluzione concordata. Riassumendo, i debiti bancari impongono: 1) di valutare subito l’esistenza di garanzie e il rischio per i soci; 2) di dialogare con gli istituti per trovare intese ragionevoli; 3) di considerare la formalizzazione di un accordo omologato se il debito è ingente e diffuso tra più banche (così da vincolare tutti in un’unica soluzione).

Debiti verso fornitori e altri creditori commerciali

I debiti verso fornitori riguardano materie prime (pelli, tessuti, componenti), servizi (es. energia elettrica, trasporti) e in generale tutte le obbligazioni assunte nel ciclo commerciale. Tali crediti sono in genere chirografari (non privilegiati), a meno che il fornitore non goda di particolari tutele contrattuali. Ad esempio, alcuni fornitori di beni possono aver pattuito una clausola di riserva della proprietà (art. 1523 c.c., patto di riservato dominio): la merce fornita rimane di proprietà del venditore finché non è pagata completamente. Se il calzaturificio non paga, il fornitore con riserva di proprietà può rivendicare la restituzione dei beni forniti (ad esempio macchinari consegnati o partite di merce non ancora utilizzate) – ciò costituirebbe un colpo per la produzione, perché l’azienda perderebbe materiali/attrezzature essenziali. Inoltre, i fornitori possono tutelarsi tramite strumenti di credito come le cambiali o le ricevute bancarie (Ri.Ba.): una cambiale impagata permette al fornitore di agire esecutivamente in tempi brevi (la cambiale è titolo esecutivo); analogamente, una Ri.Ba. non pagata può portare rapidamente a un decreto ingiuntivo se il credito è documentato.

Il rischio principale con i debiti verso fornitori è il blocco del ciclo produttivo: se l’azienda non paga, il fornitore interrompe le forniture. Un calzaturificio in crisi di liquidità potrebbe trovarsi senza materiali per produrre le scarpe, aggravando ulteriormente la situazione. Per questo, la gestione dei fornitori in fase di crisi deve combinare priorità nei pagamenti critici (identificando quali fornitori sono strategici e cercando di soddisfarli almeno parzialmente) e negoziazioni individuali. Molti fornitori, soprattutto se hanno interesse a mantenere la relazione commerciale, possono accettare piani di rientro personalizzati: ad esempio pagamento del 50% subito e il resto dilazionato, oppure pagamento delle sole forniture correnti a pronti e slittamento del pregresso. L’importante è comunicare tempestivamente con i fornitori, spiegando la situazione e presentando una proposta seria (magari supportata da un piano di risanamento complessivo dell’azienda). Ignorare i fornitori porterà inevitabilmente a decreti ingiuntivi, pignoramenti di merci o conti, e al deterioramento dei rapporti.

Nelle procedure concorsuali, i fornitori chirografari sono i creditori che subiscono normalmente le maggiori falcidie (riduzioni): in un concordato preventivo liquidatorio, ad esempio, il piano potrebbe prevedere che ai chirografari (fornitori) venga pagato solo il 20% del credito – percentuale minima prevista dalla legge fallimentare (oggi il CCII impone comunque il rispetto del best interest test, ossia i fornitori non devono ricevere meno di quanto otterrebbero in caso di liquidazione giudiziale) . Se il piano è in continuità aziendale, di solito si offre ai fornitori una soddisfazione maggiore (p.es. 40-60%) magari dilazionata negli anni, confidando nel proseguimento dell’attività. In un concordato preventivo, i fornitori votano come creditori chirografari e la loro adesione è spesso decisiva per l’approvazione: perciò il debitore dovrà saper convincere una buona parte di essi che la proposta concordataria è più conveniente di una liquidazione forzata (dove i tempi sarebbero lunghi e il recupero incerto).

Un aspetto importante: anche un singolo fornitore (o qualsiasi creditore) con un credito consistente può, ricorrendone i presupposti, presentare istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) contro il calzaturificio. La legge richiede tuttavia che l’insolvenza non sia di piccolo importo: non si fa luogo a fallimento se i debiti scaduti sono inferiori a €30.000 . Se un solo fornitore è esposto per importi rilevanti (decine o centinaia di migliaia di euro) e vede che l’azienda non paga ed accumula altri debiti, potrebbe preferire spingerla in una procedura concorsuale per evitare che il patrimonio residuo si dissipi. Questo chiaramente è un’extrema ratio per il creditore, ma il debitore deve esserne consapevole: trascurare un fornitore chiave può portare quest’ultimo – per non perdere tutto – a scegliere l’azione giudiziale aggressiva.

In conclusione, per i debiti commerciali la parola chiave è negoziazione tempestiva. Il debitore dovrebbe stilare un elenco dei fornitori in base alla criticità (quali forniscono input essenziali e quali sono invece sostituibili), e agire di conseguenza: mantenere fedeltà di pagamento su quelli critici per continuare a operare; proporre accordi di saldo e stralcio o dilazione a quelli meno strategici; tenere monitorate eventuali reazioni giudiziarie (ingiunzioni) per intervenire legalmente o con accordi prima che sfocino in pignoramenti. Nella sezione dedicata affronteremo tecniche e consigli pratici per negoziare efficacemente con i creditori commerciali.

Debiti da leasing e altri finanziamenti specifici

Un calzaturificio può aver acquisito macchinari, automezzi o immobili tramite contratti di leasing (leasing finanziario). In un leasing, l’azienda utilizzatrice paga un canone periodico al locatore (società di leasing) e ha in genere la facoltà di riscattare il bene alla fine. I debiti da leasing hanno una disciplina propria: il mancato pagamento di alcune rate (di solito, due canoni consecutivi ai sensi dell’art. 4, D.Lgs. 72/2016) comporta la risoluzione del contratto e la possibilità per la società di leasing di riprendere il bene. Ciò implica che, se il calzaturificio smette di pagare il leasing di un macchinario fondamentale, rischia di vederselo sottrarre dal lessor, interrompendo la produzione. La società di leasing, dopo aver riavuto il bene, provvederà a venderlo o riallocarlo, e potrà chiedere al debitore la differenza tra l’importo ricavato e il credito residuo (di solito come penale risolutiva prevista nel contratto). Tale differenza diventa un debito chirografario verso la società di leasing.

Nelle procedure concorsuali, al leasing si applicano norme specifiche. Il CCII prevede che, in caso di liquidazione giudiziale (fallimento), il curatore possa decidere se subentrare nel contratto di leasing pagando i canoni (se il bene è utile per una eventuale esercizio provvisorio) oppure sciogliersi dal contratto. Se si scioglie, la società di leasing riprende il bene e ha un credito per i canoni scaduti e futuri, in parte privilegiato e in parte chirografario secondo formule di legge (art. 177 CCII). In caso di concordato preventivo, il debitore può proporre varie soluzioni: continuare il leasing (pagando i canoni correnti e trattando nel piano gli arretrati), oppure restituire il bene e dare al leasing lo stesso trattamento di un creditore con riserva di proprietà (se c’è interesse a liberarsi). La pratica insegna che spesso conviene negoziare col lessor per trovare un accordo: ad esempio, la società di leasing potrebbe accettare di rinegoziare il contratto allungandolo o riducendo i canoni, se ritiene che mantenere il cliente sia più vantaggioso che riprendersi un bene usato e doverlo rivendere.

Oltre ai leasing, ci sono altri debiti finanziari specifici: debiti per derivati o finanziamenti agevolati, debiti verso soci per finanziamenti soci, debiti verso enti pubblici per contributi o sanzioni. Ciascuno di questi ha proprie peculiarità (ad esempio, i finanziamenti soci postergati ex art. 2467 c.c., di cui diremo nella parte su responsabilità e bancarotta). Un cenno va fatto proprio ai finanziamenti dei soci: se i soci hanno versato denaro in azienda a titolo di prestito (anziché come capitale), in una situazione di sottocapitalizzazione o difficoltà, la legge presume che quei crediti dei soci siano postergati (cioè rimborsabili solo dopo aver soddisfatto gli altri creditori) . Ciò significa che il socio non può legittimamente pretendere la restituzione del suo finanziamento mentre ci sono altri creditori insoddisfatti. Se invece il socio si fa rimborsare prima della crisi quei soldi, rischia in sede fallimentare l’azione revocatoria (il curatore può chiedere la restituzione di quanto pagato entro un anno) e anche possibili sanzioni penali per bancarotta (come vedremo, la Cassazione ha chiarito che rimborsare un finanziamento soci in periodo di dissesto integra bancarotta fraudolenta distrattiva perché equivale a sottrarre risorse dovute alla massa dei creditori ). Dunque, i debiti verso soci sono da trattare con cautela: in caso di crisi è sconsigliabile rimborsare i soci preferendoli agli altri creditori, sia per motivi di legittimità sia per la propria protezione legale.

In sintesi, ogni tipologia di debito ha il suo perimetro di rischio e i suoi strumenti di gestione. La tabella seguente riassume le principali categorie di debito e alcune caratteristiche salienti:

Tipologia di debitoEsempi e caratteristicheStrumenti di gestioneNote
Fiscale (Erario)IVA, imposte reddito, ritenute non versate. Privilegiato ex lege. Azioni esecutive tramite cartelle, ipoteche, pignoramenti. Eventuali sanzioni e interessi elevati.Rateizzazione fino a 6-10 anni; Definizioni agevolate (“rottamazioni”); Transazione fiscale in concordato (possibile pagamento parziale/dilazionato con voto Fisco) .Rischio reati tributari per omessi versamenti (soglie di punibilità). Segnalazione automatica se > €5.000 IVA non pagati .
Contributivo (INPS/INAIL)Contributi previdenziali e premi assicurativi non pagati. Privilegiati. Azioni tramite avvisi e cartelle INPS. Manca DURC se irregolare.Rateizzazione piani INPS; Transazione contributiva in concordato (simile a fiscale).Rischio reato omesso versamento contributi (>€10.000/anno). Segnalazione INPS se > €15.000 contributi arretrati .
Bancario/FinanziarioMutui, fidi, leasing finanziari, obbligazioni verso banche/intermediari. Spesso garantiti (ipoteche, pegni, fideiussioni).Moratorie concordate con banca; Rinegoziazione tassi/durata; Nuova finanza con garanzie; Accordo di ristrutturazione omologato (>=60% crediti) ; Concordato preventivo con continuità (banche soddisfatte nel tempo).Insolvenza comporta decadenza dal termine (debito immediatamente esigibile). Escussione garanzie reali e personali (soci garanti a rischio patrimonio personale). Crediti assistiti da pegno/ipoteca hanno privilegio sui beni dati a garanzia.
Fornitori commercialiDebiti per materie prime, servizi, utenze, ecc. Chirografari salvo patti di riservato dominio.Accordi di dilazione o saldo stralcio individuali; Pagamento prioritario fornitori strategici; Concordato preventivo (pagamento % ai chirografari, p.es. proposta del 30-40%).Rischio azioni legali diffuse (ingiunzioni, pignoramenti); Blocco forniture se non pagati (impatto su continuità produttiva); Ruolo attivo nel voto di eventuale concordato (necessario convincere maggioranza).
Leasing e contratti assimilatiLocazione finanziaria di macchinari, immobili, veicoli. Inadempimento -> risoluzione e ritiro bene.Negoziare con lessor (riduzione canoni, sospensione temporanea); Restituire il bene se non più utile (limitando danni); Concordato: continuare leasing (pagando arretrati) o scioglimento contrattuale (bene restituito, creditore indennizzato secondo legge).Bene essenziale in leasing va tutelato (pagare canoni se possibile per non perderlo). Se risolto, debitore dovrà coprire differenza tra debito e ricavato realizzo bene.
Finanziamenti sociPrestiti dei soci all’azienda (in luogo di capitale). Postergati ex art. 2467 c.c. se effettuati in crisi o sottocapitalizzazione (rimborsabili dopo altri crediti).Convertire in capitale (rinuncia al credito) per rafforzare patrimonio; In concordato, trattarli come postergati (non pagati se altri creditori non soddisfatti integralmente).Vietato restituire ai soci in pre-dissesto: rischio azione revocatoria e bancarotta preferenziale/distrattiva . Cass. 27259/2025: rimborso finanziamenti soci in crisi = bancarotta fraudolenta per distrazione .

(Tabella 1 – Categorie di debito di un’impresa e strumenti di gestione principali)

Come si nota, ogni categoria presenta sfide diverse: i debiti erariali e contributivi attivano l’allerta pubblica e implicano possibili reati in capo al legale rappresentante; i debiti bancari coinvolgono garanzie e possono travalicare nel patrimonio personale; i debiti commerciali minacciano la continuità produttiva; i leasing rischiano di sottrarre asset essenziali; i finanziamenti soci devono rispettare la regola della postergazione. Un calzaturificio indebitato deve quindi fare un check-up completo delle proprie passività, stratificando le priorità e le azioni:

  • Pagamenti indispensabili: quelli senza i quali l’attività si ferma (es. alcune utenze, fornitori chiave) o quelli la cui omissione comporta danni irreversibili (es. mancato pagamento di stipendi o TFR può far perdere maestranze qualificate, omesso pagamento di assicurazioni obbligatorie può sospendere licenze, ecc.).
  • Debiti negoziabili: posizioni dove c’è margine di trattativa (fornitori non strategici disposti ad attendere, banche aperte a ristrutturazioni).
  • Debiti da mettere in sicurezza legale: ad es. debiti fiscali e contributivi dove conviene attivare subito una rateazione per congelare le esecuzioni e mostrarsi cooperativi, oppure debiti bancari con garanzie personali dove può essere utile coinvolgere il garante in trattative parallele.
  • Debiti postergati o meno critici: ad es. i finanziamenti dei soci, i debiti infragruppo, che in sede concorsuale avranno minore rilievo e possono essere tenuti “sul fondo” in una trattativa (i soci spesso accettano di essere soddisfatti per ultimi, se ciò serve a salvare l’azienda).

Nei prossimi capitoli, dopo aver visto come riconoscere e dichiarare la crisi d’impresa, entreremo nel vivo degli strumenti a disposizione del debitore per fronteggiare queste passività: dalle misure di allerta e prevenzione (interne ed esterne) ai procedimenti di composizione negoziata, dagli accordi stragiudiziali attestati ai concordati preventivi e alle eventuali liquidazioni. L’obiettivo è illustrare un arsenale di soluzioni che, a seconda della gravità della situazione, permetta al calzaturificio di reagire attivamente anziché subire passivamente l’aggressione dei creditori.

Segnali di crisi e obblighi di reazione: adeguati assetti, allerta interna ed esterna

Prevenire è meglio che curare: il legislatore italiano ha cercato di inculcare questo principio negli imprenditori introducendo obblighi di monitoraggio della crisi e sistemi di allerta precoce. Comprendere i segnali di crisi e attivarsi tempestivamente è non solo nell’interesse dell’impresa (per aumentare le chance di salvataggio), ma costituisce ormai un preciso dovere legale degli amministratori. In questa sezione esamineremo:

  • Gli obblighi organizzativi interni: dotarsi di adeguati assetti ex art. 2086 c.c. per rilevare squilibri economico-finanziari.
  • Gli indicatori di crisi da monitorare (indici di bilancio, DSCR, debiti scaduti, ecc.) e il ruolo delle linee guida CNDCEC.
  • Il sistema di allerta esterno: le segnalazioni obbligatorie dei creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, AdER) al superamento di determinate soglie di debito, e le conseguenze di tali avvisi.
  • Il ruolo degli organi di controllo (collegio sindacale, revisori) nel dover vigilare e, se del caso, spronare gli amministratori ad agire.
  • In sintesi, cosa deve fare un imprenditore (o gli organi societari) appena emergono sintomi di crisi, per adempiere al proprio dovere ed evitare che l’inerzia si traduca in responsabilità personali.

Adeguati assetti organizzativi e monitoraggio interno

Il Codice della Crisi ha rafforzato quanto già previsto dall’art. 2086, comma 2, del Codice Civile: l’organo amministrativo è tenuto a istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale . In pratica, ciò significa che l’azienda deve dotarsi di strumenti per monitorare costantemente la propria salute finanziaria e cogliere per tempo eventuali segnali di difficoltà.

Dopo le modifiche del correttivo 2024, è stato chiarito che gli indicatori elencati nel CCII (art. 3) hanno funzione predittiva e preventiva, e non vanno interpretati come soglie “automatiche” di crisi . L’idea è che nessun singolo indice determina da solo lo stato di crisi; piuttosto è la combinazione di trend e dati che deve mettere in allarme l’imprenditore. Quali sono questi indicatori tipici? I più importanti includono:

  • Indici di liquidità: es. current ratio (attivo a breve / passivo a breve) che se persistentemente < 1 segnala tensione finanziaria.
  • Indice di indebitamento: rapporto tra posizione finanziaria netta e mezzi propri, per misurare l’eccesso di debito rispetto al patrimonio.
  • DSCR (Debt Service Coverage Ratio): rapporto tra flussi di cassa attesi e debiti finanziari da pagare nei successivi 6-12 mesi. Un DSCR < 1 (flussi insufficienti a coprire il servizio del debito) per il periodo di un anno è considerato un campanello d’allarme importante .
  • Andamento di fatturato e margini: cali significativi e prolungati di ricavi o margine operativo possono preludere a crisi di redditività e poi di liquidità.
  • Debiti scaduti verso banche, fornitori o Erario: il semplice accumulo di arretrati (es. ritardi nei pagamenti fornitori, imposte non versate alle scadenze) è di per sé un indicatore che l’impresa sta vivendo tensioni di cassa .
  • Perdite di esercizio rilevanti: una perdita d’esercizio che erode il patrimonio netto più del terzo può far scattare cause di scioglimento (art. 2482-bis c.c. per Srl/SpA), che obbligano gli amministratori a reazione immediata (convocare soci, ridurre capitale o ricapitalizzare, ecc.).

Già nel 2019 il CNDCEC (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti) aveva elaborato un set di indici di allerta quantitativi calibrati per settore e dimensione d’impresa, da usare come riferimento per rilevare probabili crisi . Tali indici sono stati pensati per il sistema di allerta originario (poi sospeso), ma restano utili per l’autodiagnosi interna. Il correttivo 2024 ha comunque voluto sottolineare che gli indicatori servono a stimolare analisi prospettiche, non a “bollare” matematicamente l’impresa come decotta .

Strumenti pratici di autodiagnosi: per aiutare le imprese, è stata messa a disposizione (dal sistema delle Camere di Commercio) una checklist di autovalutazione online nell’ambito della piattaforma di composizione negoziata . Questa checklist pone una serie di domande sull’andamento aziendale e calcola indicatori, offrendo una valutazione guidata dello stato di salute economico-finanziaria. Inoltre, è previsto un test pratico sulla ragionevole perseguibilità del risanamento (art. 13 CCII): in sostanza, un algoritmo che, inseriti i dati di bilancio e finanziari, restituisce un giudizio preliminare sulla possibilità di risanare l’impresa. Questi strumenti – pur facoltativi – sono raccomandabili: un amministratore diligente, specie se percepisce sintomi di crisi, dovrebbe servirsene per avere una misura oggettiva della situazione.

Un esempio: se un calzaturificio riscontra un calo di fatturato del 30% per due anni consecutivi, e contemporaneamente vede aumentare i tempi medi di incasso dai clienti (magari da 60 a 120 giorni) e di pagamento ai fornitori (segno che fatica a pagare), sono segnali di squilibrio. A livello di indicatori, potrebbe emergere un cash flow insufficiente e un DSCR sotto la soglia di 1: ciò vuol dire che, senza interventi, l’azienda potrebbe non riuscire a onorare i debiti nei prossimi mesi. Secondo la legge, l’organo amministrativo in questa situazione deve attivarsi: esplorare soluzioni per riequilibrare (riduzione costi, ricerca di soci finanziatori, rinegoziazione debiti, ecc.) e, se del caso, ricorrere agli strumenti di composizione della crisi previsti (ad esempio contattare un esperto per la composizione negoziata).

Il concetto di “adeguatezza” degli assetti va tarato sulla singola impresa: per una piccola azienda familiare, potrebbe bastare un semplice cruscotto di controllo mensile di cassa e ordini; per realtà più complesse, servirà un sistema di budgeting e reporting frequente. L’importante è che gli amministratori non operino alla cieca: la giurisprudenza sta diventando severa nel valutare la condotta di chi continua ad agire come se nulla fosse quando invece gli indicatori interni urlano pericolo. Cassazione civile n. 6893/2023 ha affermato che gli amministratori di una S.r.l. rispondono verso i creditori per gli atti di gestione compiuti dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (es. perdita rilevante capitale) se tali atti non sono meramente conservativi . In altre parole, una volta che gli indici rivelano che la società è “oltre il limite” (p.es. capitale eroso, insolvenza tecnica), gli amministratori devono limitarsi a conservare il patrimonio e non aggravare il dissesto; se non lo fanno, sono responsabili dei danni arrecati ai creditori. E grazie a una modifica normativa (art. 2486 c.c. come integrato dall’art. 378 CCII), il danno risarcibile si presume pari alla differenza di patrimonio netto tra la data in cui doveva cessare l’attività e la data del fallimento . Questo meccanismo presuntivo significa che gli amministratori rischiano grosso se ignorano i segnali di crisi: non potranno neanche opporre che “non sapevano” o che “il danno è minore”, perché la legge presume un danno standard se hanno continuato ad agire in perdita.

In sintesi, un debitore diligente deve: implementare sistemi di monitoraggio finanziario; controllare periodicamente i principali indicatori; documentare le analisi svolte e le decisioni prese (ad es. verbalizzare nel CDA che, rilevati certi indici critici, si è deliberato di consultare esperti o adottare misure correttive). Ciò non solo aumenta le probabilità di salvare l’impresa, ma protegge anche gli amministratori sul piano delle responsabilità, mostrando che hanno fatto il possibile per evitare il default. Al contrario, la mancanza di adeguati assetti e la mancata reazione ai segnali di crisi possono integrare culpa in vigilando e costituire base per azioni di responsabilità ex art. 2476 c.c. (per Srl) o 2394 c.c. (azione dei creditori sociali per danni da gestione imprudente).

Allerta esterna: segnalazioni di Agenzia Entrate, INPS e Agente della Riscossione

Accanto all’“allerta interna” gestita dagli organi sociali, il Codice della Crisi ha introdotto un sistema di allerta esterna basato su specifiche segnalazioni obbligatorie inviate da alcuni enti pubblici creditori quando l’impresa accumula debiti scaduti oltre certe soglie. I protagonisti di questo meccanismo sono detti “creditori pubblici qualificati” e sono: Agenzia delle Entrate, INPS e Agenzia delle Entrate-Riscossione (ex Equitalia) . L’idea è che questi enti, avendo visibilità su debiti fiscali e contributivi, fungano da sentinelle automatiche: se un’impresa non paga l’IVA, le ritenute o i contributi oltre un certo importo, probabilmente sta entrando in crisi e va “avvisata” di correre ai ripari.

Soglie di segnalazione: le norme attuative (D.M. 28 settembre 2021) hanno fissato soglie relativamente basse, proprio per far scattare l’allerta in fase precoce. In particolare: – Agenzia delle Entrate segnala il mancato pagamento dell’IVA periodica se l’importo supera €5.000 (anche per un solo trimestre) . Basta dunque saltare il versamento IVA trimestrale (o mensile accumulato) per oltre 5 mila euro perché scatti l’allarme. – INPS segnala il mancato versamento di contributi previdenziali per un importo superiore a €15.000 . – Agente della Riscossione (AdER) segnala la presenza di carichi affidati per la riscossione (cartelle esattoriali) scaduti da oltre 90 giorni, per un ammontare superiore a €100.000 per imprese individuali, €200.000 per società di persone, €500.000 per società di capitali . Questa soglia più alta intercetta situazioni di accumulo di debiti fiscali/contributivi non pagati già iscritti a ruolo.

Come si nota, soglie come 5.000 euro di IVA o 15.000 di contributi non sono affatto elevate: anche PMI modeste possono superarle con un paio di trimestri difficili . Lo scopo è dichiaratamente quello di far suonare il campanello molto presto, “prima che i debiti diventino insostenibili” . In un’ottica di prevenzione, se un’azienda ha già 5-10 mila euro di IVA arretrata, potrebbe ancora salvarsi, ma intanto viene ufficialmente spronata a reagire.

Modalità e contenuto della segnalazione: trascorsi 60 giorni dal superamento della soglia senza che l’impresa abbia regolarizzato il dovuto, l’ente invia una PEC (posta elettronica certificata) all’indirizzo digitale dell’azienda (e contestualmente all’indirizzo dei sindaci o revisori, se presenti) . Nella comunicazione si evidenzia l’importo del debito scaduto (IVA, contributi, cartelle) e si invita espressamente l’imprenditore ad attivare la procedura di composizione negoziata della crisi o comunque a prendere provvedimenti . La lettera non dichiara formalmente lo stato di crisi (non ne avrebbe il potere), ma suona un chiaro allarme: “La vostra azienda ha debiti rilevanti verso l’Erario/INPS, vi suggeriamo di rivolgervi a un esperto per trovare una soluzione prima che sia troppo tardi” .

Dal punto di vista giuridico, la ricezione di tale segnalazione non obbliga l’impresa ad avviare la composizione negoziata o altra procedura (non c’è automatismo verso il tribunale) . Tuttavia, le conseguenze pratiche sono significative: – Conoscenza formale della crisi: l’organo amministrativo (e di controllo) da quel momento sa ufficialmente di avere superato una soglia di pericolo . Se in seguito l’impresa fallisce e risulta che gli amministratori non hanno fatto nulla dopo l’avviso, sarà quasi impossibile per loro difendersi da accuse di negligenza grave. Come sottolineato in dottrina, la PEC di allerta “toglie ogni alibi” agli amministratori: l’inerzia successiva può costituire elemento di colpa grave nelle azioni di responsabilità . Anche la Cassazione ha rimarcato che il mancato adempimento all’obbligo di attivarsi una volta nota la situazione può configurare gestione colposa (si veda ad es. Cass. civ. 2223/2025, citata in letteratura per aver confermato che la soglia fallimentare di €30.000 va accertata alla data del fallimento, implicando che la persistenza di debiti sopra soglia senza intervento è indice di colpa) . – Coinvolgimento degli organi di controllo: la segnalazione è inviata anche al collegio sindacale o al revisore . Ciò serve a responsabilizzare pure costoro: i sindaci, ricevuto l’avviso, devono intervenire, sollecitando gli amministratori e vigilando strettamente. Se gli amministratori non fanno nulla, i sindaci potrebbero dover informare il tribunale (ad esempio ex art. 2409 c.c. per gravi irregolarità) per non essere corresponsabili . Il correttivo 2024 ha chiarito che anche i revisori legali unici hanno gli stessi obblighi dei sindaci nell’allerta . Insomma, l’allerta esterna crea un effetto cascata: costringe i controllori a “battere un colpo” a loro volta. – Traccia documentale: la PEC resta agli atti. Se l’imprenditore non reagisce, quella data segnerà per ogni eventuale curatore o giudice il momento a partire dal quale l’inerzia è inescusabile . Viceversa, se l’imprenditore reagisce (attivando la composizione negoziata o altro), potrà in futuro far valere la propria diligenza e buona fede, ad esempio per ottenere l’esdebitazione o evitare sanzioni per tardiva richiesta di fallimento .

Dunque, il consiglio è chiaro: se arriva una segnalazione di allerta, non ignorarla mai! Al contrario, va interpretata come un ultimatum per fare qualcosa: contattare subito professionisti, studiare un piano di ristrutturazione, attivare la composizione negoziata (ne parliamo nel prossimo capitolo) o altre misure. Questo non solo può aiutare l’impresa a salvarsi, ma mette i suoi organi al riparo dall’accusa di aver lasciato andare la situazione senza tentare nulla. L’allerta esterna è concepita come uno sprone, non come una condanna: sta all’imprenditore coglierla in modo costruttivo.

Va detto che inizialmente il Codice della Crisi prevedeva anche un sistema di allerta “interno” con organismi dedicati (gli OCRI) e segnalazioni obbligatorie da parte di organi di controllo e creditori pubblici direttamente al suddetto OCRI. Questo impianto però è stato sospeso e sostituito dall’approccio attuale: una spinta più “morbida” (lettere di sollecito) e l’uso su base volontaria della composizione negoziata. Al momento, quindi, l’allerta non sfocia mai automaticamente in una procedura concorsuale: sta al debitore decidere se e come muoversi dopo la segnalazione. Ciò non toglie che, come visto, non muoversi affatto espone a gravi rischi.

Doveri degli amministratori e ruolo dei sindaci nella crisi

Abbiamo accennato più volte alle responsabilità degli amministratori in caso di inerzia o gestione imprudente della crisi. Qui riassumiamo i principi chiave: – Gli amministratori hanno un dovere di attivarsi senza indugio appena la società entra in una fase di crisi o perde il capitale. Ciò può significare cercare soluzioni di risanamento, ma se si rende conto che non c’è soluzione, significa anche attivare tempestivamente una procedura concorsuale o la liquidazione, per evitare ulteriore pregiudizio. – L’art. 2486 c.c. prevede che, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (tipicamente la perdita di oltre 1/3 del capitale e capitale sotto il minimo legale), gli amministratori che proseguono l’attività rispondono dei danni ai creditori. Il CCII ha introdotto criteri presuntivi di quantificazione di tali danni: salvo prova contraria, il danno è pari alla differenza tra patrimonio netto alla data in cui si doveva liquidare e patrimonio netto alla data della sentenza dichiarativa, aumentata dei costi sostenuti nell’interim . Ciò pone una forte pressione agli amministratori di limitare l’aggravarsi del dissesto. Ad esempio, se il calzaturificio doveva sciogliersi nel 2024 ma è fallito nel 2025 con un patrimonio netto più deteriorato di €100.000, quella differenza è il danno presumibile a carico degli amministratori. – Sul fronte opposto, un comportamento diligente – come attivare subito una composizione negoziata o chiedere un concordato preventivo non appena ci si accorge dell’insolvenza – può esimere da responsabilità per tardiva iniziativa. La tempestività è una sorta di scriminante: chi dimostra di aver agito appena compreso lo stato di crisi può difendersi meglio contro accuse di aver aggravato il buco.

I sindaci (o revisori), da parte loro, hanno obblighi di vigilanza sulla continuità aziendale. Devono verificare che gli amministratori attuino adeguati assetti e monitorino la situazione. Se rilevano segnali di crisi ignorati, dovrebbero sollecitare formalmente gli amministratori ad agire (mettendolo a verbale delle riunioni). Se poi la situazione precipita e nulla è stato fatto, i sindaci possono essere ritenuti corresponsabili per omessa vigilanza. Emblematica una pronuncia del 2024 che ha affrontato la responsabilità del collegio sindacale per omesso impedimento del dissesto: la Cassazione ha ritenuto censurabile il comportamento dei sindaci che non intervengono per frenare atti dannosi compiuti dagli amministratori in una società in dissesto (con possibile azione risarcitoria anche verso di loro) . Pertanto, i sindaci prudenti, quando ricevono le segnalazioni di cui sopra o notano indicatori preoccupanti, devono mettere pressione al consiglio di amministrazione, ed eventualmente informare l’autorità giudiziaria se gli amministratori persistono nell’inazione.

In definitiva, il quadro normativo odierno intende creare una “cultura della prevenzione”: amministratori e organi di controllo sono guardiani della continuità, chiamati a non ignorare i campanelli d’allarme. Per il debitore ciò si traduce in un principio chiave: non aspettare che siano i creditori a farsi vivi. Se sai di avere debiti e vedi la situazione peggiorare, muoviti tu per primo. Questo approccio proattivo non solo può salvare l’azienda, ma ti mette anche in una posizione di forza negoziale migliore e riduce il rischio di subire azioni legali.

Nei prossimi capitoli vedremo quali strumenti concreti la legge mette a disposizione proprio per chi, accortosi della crisi, vuole provare a risolverla. Dalla composizione negoziata al piano attestato di risanamento, dagli accordi di ristrutturazione al concordato preventivo, esamineremo come funzionano e come il debitore può accedervi, con particolare attenzione alle novità più recenti e alle strategie di utilizzo efficaci.

Strumenti per la gestione della crisi d’impresa

Quando i debiti diventano insostenibili o comunque mettono a rischio la continuità aziendale, il debitore ha davanti a sé varie opzioni di gestione della crisi. Tali strumenti vanno dalla semplice trattativa privata con i creditori (senza intervento dell’autorità giudiziaria) fino alle vere e proprie procedure concorsuali giudiziali regolate dalla legge e supervisionate dal tribunale. L’ordinamento – specialmente con il nuovo Codice della Crisi – favorisce l’utilizzo di soluzioni “di risanamento” rispetto alla pura liquidazione, incentivando l’imprenditore a intervenire presto e a coinvolgere i creditori in un accordo.

In questa sezione passeremo in rassegna i principali strumenti, spiegandone la natura, la finalità e i presupposti. Si possono distinguere tre grandi famiglie: 1. Strumenti stragiudiziali (o “negoziali” puri): accordi raggiunti privatamente con i creditori, eventualmente con l’ausilio di esperti, ma senza omologazione del tribunale. Esempi: i piani attestati di risanamento e, in parte, la composizione negoziata della crisi (che pur essendo prevista per legge, resta una procedura volontaria e non giudiziale). 2. Strumenti ibridi o semigiudiziali: accordi negoziati che vengono però omologati dall’autorità giudiziaria, acquisendo efficacia legale vincolante e alcune protezioni. Esempi: gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati (in cui serve l’adesione di una determinata percentuale di creditori, ma non il voto di tutti), e i nuovi piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (PRO) introdotti con l’attuazione della direttiva UE 2019/1023. 3. Procedure concorsuali giudiziali: vere e proprie procedure aperte innanzi al tribunale, con nomina di organi ausiliari (commissario/curatore) e coinvolgimento di tutti i creditori. Qui troviamo il concordato preventivo (nelle sue varianti: in continuità o liquidatorio, ordinario o semplificato) e, da ultima ratio, la liquidazione giudiziale (l’ex fallimento).

La scelta dello strumento dipende dal grado di insolvenza e dalle prospettive dell’azienda: se la crisi è incipiente e risanabile, meglio soluzioni snelle e riservate; se è grave ma recuperabile con sacrifici condivisi, servono strumenti più strutturati con coinvolgimento del tribunale; se infine non c’è speranza di salvataggio, si va verso la liquidazione, cercando comunque di mitigare i danni (ad esempio con l’esdebitazione finale). Nel seguito spieghiamo ciascun istituto con taglio pratico. Una tabella di confronto aiuterà poi a raffrontare rapidamente le loro caratteristiche essenziali.

Composizione negoziata della crisi d’impresa

Cos’è: la composizione negoziata è uno strumento introdotto nel 2021 (D.L. 118/2021 conv. in L. 147/2021, ora confluito negli artt. 17-25 CCII) per assistere le imprese in crisi nella ricerca di accordi con i creditori con l’aiuto di un esperto indipendente. È una procedura volontaria (viene attivata solo su istanza dell’imprenditore) e confidenziale (non dichiara lo stato d’insolvenza né è pubblica inizialmente), pensata per facilitare trattative extra-giudiziali quando c’è ancora possibilità di risanamento.

Come si attiva: il debitore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica gestita dalle Camere di Commercio, corredata da informazioni economiche e dal piano che intende perseguire. Un’apposita commissione nomina un esperto della composizione negoziata (generalmente un commercialista o avvocato con specifica formazione) che assisterà il debitore nel tentativo di accordo con i creditori. L’apertura della procedura non è pubblicata nei registri, ma i creditori principali vengono invitati ai tavoli negoziali dall’esperto.

Cosa fa l’esperto: l’esperto è un facilitatore neutrale. Convoca l’imprenditore e i creditori, esamina la situazione aziendale e cerca di trovare soluzioni condivise. Non ha poteri autoritativi, ma svolge un ruolo cruciale: da un lato, aiuta il debitore a predisporre proposte sostenibili; dall’altro, rassicura i creditori sulla bontà delle informazioni fornite (è un terzo indipendente che vede i numeri) e sulla fattibilità delle ipotesi. L’esperto redige una relazione iniziale e poi relazioni periodiche sullo stato delle trattative. La composizione negoziata dura in genere 3 mesi, prorogabili di altri 3 (in totale 6 mesi, estensibili a 12 in casi complessi). Se si trova un accordo, la procedura si chiude con la sottoscrizione degli accordi; se fallisce, l’imprenditore può comunque optare per altre strade (ad esempio, depositare un concordato semplificato, v. oltre).

Vantaggi per il debitore: la composizione negoziata offre diversi benefici legali: – Misure protettive: il debitore, una volta avviata la procedura, può chiedere al tribunale l’applicazione di misure cautelari e protettive, in particolare la sospensione (per la durata della composizione) delle azioni esecutive individuali dei creditori . Ciò significa, ad esempio, bloccare pignoramenti o istanze di fallimento mentre si tratta. Il tribunale concede queste misure se ritiene che le trattative abbiano possibilità di successo e non arrechino pregiudizio ai creditori (es. di regola, il debitore dovrà astenersi dal pagare debiti antecedenti salvo autorizzazione). – Continuità aziendale tutelata: durante la composizione negoziata, la legge consente di ottenere provvedimenti per la gestione corrente. Ad esempio, il tribunale può autorizzare l’azienda a contrarre finanziamenti prededucibili (art. 22 CCII) per ottenere liquidità urgente: tali prestiti, se poi si aprirà una procedura concorsuale, verranno rimborsati con priorità (prededuzione) perché autorizzati in composizione negoziata. Oppure può autorizzare il pagamento di fornitori strategici o di arretrati di dipendenti quando ciò sia funzionale a continuare l’attività (in deroga al divieto di pagare creditori anteriori). – Esenzione da revocatoria: i pagamenti e le garanzie concessi durante la composizione negoziata su autorizzazione del tribunale sono esenti da revocatoria (non potranno essere annullati successivamente se l’azienda fallisse). Questo rassicura chi fa accordi col debitore in questa fase: ad esempio, una banca che conceda nuova finanza non rischierà che il suo atto venga dichiarato inefficace in un futuro fallimento, purché fosse autorizzato. – Risoluzione contratti pendenti: se vi sono contratti in corso troppo onerosi, il debitore può chiedere all’esperto di convincere la controparte a rinegoziare. In alcuni casi, può persino ottenere dal tribunale l’autorizzazione a sciogliersi da contratti non ancora completamente eseguiti (es. contratti di forniture non più utili) pagando un indennizzo equitativo.

Esito delle trattative: può essere di vari tipi: – Accordo stragiudiziale semplice: l’imprenditore raggiunge intese private con alcuni o tutti i creditori (ad esempio, proroga delle scadenze, riduzione dei tassi, accordi di saldo e stralcio). Tali accordi non richiedono omologa e rimangono riservati. Se coinvolgono la totalità (o quasi) dei creditori, l’impresa può risanarsi senza passare dal tribunale. – Piano attestato di risanamento: è possibile che, grazie all’intervento dell’esperto, l’imprenditore elabori un piano di risanamento formalmente attestato da un professionista indipendente. Questo piano attestato (strumento ex art. 56 CCII) è un atto unilaterale dell’azienda che, accompagnato dall’attestazione sulla sua fattibilità e idoneità al risanamento, viene eseguito con il consenso (anche tacito) dei creditori coinvolti . Il vantaggio legale del piano attestato è l’esenzione da revocatoria per gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione del piano . Dunque il debitore, se riesce a convincere i creditori chiave a rispettare quel piano (ad esempio accordando nuove scadenze), può proteggere tutte le operazioni effettuate in base ad esso dall’azione di un eventuale curatore in futuro. Il piano attestato è un accordo puramente negoziale, non richiede il voto formale dei creditori né l’intervento del giudice . L’esperto della composizione negoziata può consigliare questa via se vede che c’è consenso unanime o quasi: in effetti, un piano attestato funziona solo con consenso integrale dei creditori rilevanti, perché quelli dissenzienti restano liberi di agire (non essendoci forza legale erga omnes) . Si usa infatti quando i creditori sono pochi e d’accordo, o quando comunque la crisi è ancora “moderata” e l’imprenditore conserva credibilità . – Accordo di ristrutturazione soggetto a omologazione: se l’esperto comprende che l’accordo privato non basterebbe perché ci sono troppi creditori o alcuni disallineati, può indirizzare verso un accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII). In tal caso, il debitore formalizzerà un accordo scritto con almeno il 60% dei creditori e chiederà al tribunale di omologarlo. L’omologa rende l’accordo efficace e concede alcune protezioni (come il blocco delle azioni esecutive durante l’omologa e la non revocabilità degli atti eseguiti in adempimento dell’accordo omologato). Questo strumento vincola solo i creditori aderenti, salvo alcune eccezioni per categorie omogenee (ad es. banche come detto). – Concordato preventivo (ordinario o semplificato): se le trattative falliscono o comunque non si arriva a un accordo extragiudiziale soddisfacente, l’imprenditore può decidere di presentare domanda di concordato preventivo. Può essere un concordato “classico” (con un piano di risanamento o liquidazione da sottoporre al voto di tutti i creditori) oppure – novità introdotta con il D.L. 118/2021 – un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, riservato al caso in cui la composizione negoziata non abbia sortito accordi e l’esperto ne dia attestazione (art. 25-sexies CCII). Il concordato semplificato consente al debitore di proporre al tribunale una liquidazione dei beni con riparto ai creditori senza passare per il voto dei creditori . Il tribunale decide se omologare questa proposta tenendo conto dell’esito delle trattative e del miglior interesse dei creditori. Si tratta di una scorciatoia per evitare la liquidazione giudiziale, ma richiede che prima il debitore abbia seriamente tentato di trovare accordi nella composizione negoziata.

In ogni caso, la composizione negoziata può dirsi riuscita se l’impresa evita la crisi irreversibile grazie ad essa: ciò può avvenire con un accordo privato (mantenendo riservatezza e immagine aziendale intatta) oppure con l’innesco di una procedura concorsuale minore come un concordato in continuità che consenta di ristrutturare il debito mantenendo l’attività.

Quando conviene usarla: la composizione negoziata è pensata per situazioni in cui l’impresa è in difficoltà ma non ancora insolvente in modo irreversibile. Indicativamente, quando si è di fronte a una “crisi” (tensioni di liquidità, previsione di insolvenza entro pochi mesi) ma c’è ancora patrimonio e prospettive per sistemare le cose. Se invece il fallimento è pressoché inevitabile e il patrimonio esiguo, difficilmente i creditori aderiranno a trattative e la composizione negoziata rischia solo di ritardare l’inevitabile (in tal caso potrebbe essere più serio andare direttamente a una liquidazione guidata, magari tramite concordato semplificato).

Esperienza pratica: dall’entrata in vigore (15 novembre 2021) molte PMI hanno provato la composizione negoziata con alterne fortune. Spesso ha funzionato come “contenitore” temporaneo: l’imprenditore ottiene un freeze delle azioni, nel frattempo prepara un piano e poi sfocia in un concordato o accordo omologato. In altri casi, specie nelle microimprese, è servita a concludere accordi parziali (ad esempio con le banche) e poi il resto è stato gestito con un piano attestato. I professionisti notano che la riuscita dipende molto dalla collaborazione del debitore (che deve fornire dati completi, essere trasparente) e dalla disponibilità dei creditori principali. Se uno o più creditori adottano un atteggiamento ostruzionistico (ad esempio, una banca che preferisce fare causa), l’utilità della composizione negoziata scema, perché ricordiamo che è volontaria: non c’è alcun voto a maggioranza o potere di obbligare un creditore a ridurre il credito.

In conclusione, la composizione negoziata è uno strumento flessibile e poco formalizzato per negoziare in sicurezza con i creditori. Va vista come un “primo soccorso” per imprese in crisi: permette di guadagnare tempo, sospendere aggressioni esterne, e testare se un accordo è raggiungibile. Se sì, tanto di guadagnato (si risolve la crisi fuori dai tribunali o con minime formalità); se no, funge comunque da preludio ad altre procedure (concordato o liquidazione semplificata), con il vantaggio di aver chiarito la posizione finanziaria e magari già discusso ipotesi di riparto. Dal punto di vista del debitore, è quasi sempre consigliabile provarci quando la situazione diventa critica: male che vada, non si peggiorerà di molto la situazione; se va bene, si evita il tracollo. E ricordiamo che, come detto, reagire attraverso la composizione negoziata dopo un’allerta esterna è considerato comportamento diligente che potrà essere valorizzato a favore dell’imprenditore in sede di valutazione di condotte.

Piani attestati di risanamento

Natura e scopo: il piano attestato di risanamento è lo strumento più snello previsto dall’ordinamento per risolvere una crisi d’impresa. È disciplinato dall’art. 56 CCII (già art. 67, co.3, lett. d) Legge Fallimentare) . Consiste in un piano di risanamento dell’azienda, redatto dall’imprenditore con l’ausilio di professionisti, che appare idoneo a garantire l’equilibrio dell’impresa e a superare lo stato di crisi, e che viene attestato da un esperto indipendente circa la sua fattibilità. In parole semplici, l’imprenditore predispone un business plan dettagliato pluriennale con le misure per risanare l’impresa (ristrutturazione debiti, dismissione di asset, aumento di capitale, riorganizzazione produttiva, ecc.), e un professionista terzo (ad esempio un commercialista iscritto all’albo dei curatori) verifica i numeri e attesta per iscritto che, a suo giudizio, il piano è realistico e adeguato a risanare l’impresa. Il piano e l’attestazione vengono poi conservati dall’impresa (senza pubblicazione, salvo facoltativa iscrizione della sola attestazione al Registro Imprese se lo si vuole opponibile ai terzi) e costituiscono la base per contrattare con i creditori.

Carattere negoziale: attenzione, il piano attestato di per sé non vincola i creditori . Non essendo omologato né votato, la sua efficacia dipende dai consensi contrattuali che il debitore riesce a ottenere. In pratica, l’imprenditore presenta il piano attestato ai suoi principali creditori e chiede loro di aderirvi bilateralmente (firmando accordi individuali). Ad esempio, potrebbe chiedere alle banche di sottoscrivere accordi di moratoria conformi al piano (es: moratoria di 2 anni dei pagamenti capitali), ai fornitori di accettare pagamenti parziali come da piano, ecc. Se ciascun creditore importante accetta, il piano verrà eseguito e – se le stime erano corrette – l’azienda uscirà dalla crisi nel periodo previsto.

Beneficio legale fondamentale: il motivo per cui il piano attestato è un istituto previsto dalla legge (e non una semplice prassi) è l’esenzione dall’azione revocatoria fallimentare per gli atti compiuti in esecuzione del piano . Normalmente, se un imprenditore in crisi paga anticipatamente un creditore o costituisce garanzie, e poi fallisce entro 6 mesi/1 anno, il curatore può revocare quei pagamenti o garanzie perché pregiudizievoli (art. 164 CCII, ex art. 67 L.F.). Invece, se tali atti sono previsti da un piano attestato di risanamento regolarmente attestato, la legge li dichiara non soggetti a revocatoria. L’idea è di proteggere la fidelizzazione dei creditori al piano: ad esempio, se una banca nel contesto di un piano attestato accetta di consolidare l’esposizione in un nuovo mutuo con ipoteca (costituendo ipoteca su un immobile aziendale a garanzia del nuovo mutuo ristrutturato), quell’ipoteca non potrà essere revocata se poi l’azienda fallisse comunque . Ciò dà sicurezza ai creditori e li incentiva a supportare il risanamento senza la paura di vedersi annullare tutto dopo.

Limiti: il punto debole del piano attestato è che i creditori non coinvolti o dissenzienti restano liberi: possono agire per il recupero integrale e non sono tenuti ad attendere o aderire . Dunque, il piano attestato funziona bene solo se c’è pressoché unanimità (o comunque se chi non aderisce è marginale o viene pagato separatamente). Se invece, ad esempio, su 10 banche 2 non vogliono sentir ragioni e agiscono giudizialmente, il piano rischia di saltare perché l’impresa dovrà fronteggiare le azioni di quelle 2. Per questo, il piano attestato è indicato in situazioni dove: – il numero di creditori è limitato e controllabile, tali da poter ottenere consensi informali (es. un’azienda con 3 banche principali e 5 fornitori cruciali può provare un piano attestato se tutti mostrano apertura), – oppure quando la crisi è ancora moderata e l’imprenditore ha credibilità sufficiente affinché i creditori diano fiducia spontaneamente . Spesso il piano attestato è il primo tentativo per “aggiustare la rotta” prima di ricorrere a procedure più complesse .

Contenuto del piano e attestazione: il piano deve contenere la descrizione dell’azienda, l’analisi delle cause della crisi, le strategie di intervento (taglio costi, nuovi prodotti, disinvestimenti, aumento capitali, ecc.), il dettaglio delle proiezioni finanziarie (cassa e p&l) che mostrino come e in quanto tempo si ritrova l’equilibrio. L’attestatore controlla i dati di partenza (bilanci, conti, lista debiti) e valuta se le assunzioni future sono plausibili. Egli deve dichiarare che il piano è idoneo a risanare l’esposizione e che c’è ragionevole prospettiva di successo. Non garantisce però il risultato: certifica solo che, in base alle conoscenze attuali, il piano ha serie possibilità di riuscita. Va da sé che una attestazione fatta con superficialità espone l’attestatore a responsabilità (civili e penali in caso di false attestazioni), quindi la sua presenza è anche garanzia di serietà del piano.

Formalità e riservatezza: il piano attestato non richiede pubblicità. A discrezione, l’imprenditore può depositare la relazione dell’attestatore presso il Registro Imprese, per dare data certa e opponibilità ai terzi, ma non è obbligatorio. Molti debitori preferiscono tenere il piano riservato per non danneggiare la reputazione (i concorrenti non devono sapere della crisi) . Questa riservatezza è un vantaggio del piano attestato rispetto a concordati o accordi omologati (che invece diventano pubblici). Come detto nel testo citato: “nessuna pubblicità (i competitor neanche sapranno che Delta era in crisi, mentre un concordato è pubblico)“, costi limitati, flessibilità massima . Di contro, l’assenza di coinvolgimento giudiziario implica mancanza di strumenti coattivi: tutto si regge sulla fiducia. I creditori che aderiscono confidano nell’attestazione e nella buona fede del debitore; se però uno “si rimangia la parola”, non c’è uno strumento concorsuale per costringerlo .

Esempio pratico: il calzaturificio Delta ha 3 banche creditrici per mutui e fidi, e 20 fornitori chirografari; la crisi è dovuta a calo ordini ma c’è un nuovo mercato potenziale. Delta elabora un piano attestato in cui i soci apportano nuovi capitali, le banche prorogano le scadenze di 2 anni e accettano interessi ridotti, i fornitori maggiori accettano un pagamento al 80% del dovuto in 12 mesi. L’attestatore conferma che con queste misure la liquidità torna positiva e l’azienda può riprendersi nel giro di 2 anni. Le banche e i 10 fornitori più grossi aderiscono formalmente (magari con scritture private); i fornitori minori, vedendo gli altri, confidano che verranno pagati anch’essi magari integralmente a fine piano e non agiscono legalmente. Delta esegue il piano sotto monitoraggio trimestrale dell’attestatore e dopo 2 anni esce dalla crisi, avendo evitato il fallimento senza mai entrare in procedure concorsuali. In questo scenario ideale, il piano attestato ha funzionato alla perfezione: l’azienda non è comparsa su alcun bollettino fallimentare, i mercati non hanno saputo nulla, e i creditori hanno collaborato volontariamente perché convinti della convenienza.

Fallimento del piano attestato: se invece un creditore importante non aderisce e agisce per conto proprio (es. un fornitore ottiene un decreto ingiuntivo e pignora il c/c), il piano può saltare. In tal caso, il debitore spesso dovrà passare ad un piano B concorsuale (concordato). Non c’è disonore: i tribunali, anzi, guardano con favore chi ha tentato un piano attestato prima di chiedere il concordato, perché denota volontà di risanare senza avventurarsi subito in procedure costose. L’importante è non intestardirsi: se il piano attestato appare irrealizzabile perché mancano adesioni chiave, l’imprenditore dovrà cambiare strategia in tempo, altrimenti rischia di aggravare il dissesto provando a far vivere un piano morto.

In conclusione, il piano attestato è la via privilegiata per chi vuole risolvere la crisi in modo discreto e con massima libertà di contenuti. È lo strumento di elezione quando la crisi è all’inizio o gestibile con accordi consensuali riservati . Se funziona, è l’esito migliore; se non funziona, di solito precede immediatamente l’attivazione di strumenti concorsuali (accordi omologati o concordato). Nel ventaglio delle opzioni del debitore, il piano attestato occupa il primo gradino di intervento “leggero” ma efficace, e ogni imprenditore dovrebbe verificarne la praticabilità prima di passare ad altro.

Accordi di ristrutturazione dei debiti (omologati)

Cosa sono: gli accordi di ristrutturazione sono dei concordati “light”: invece di coinvolgere tutti i creditori e prevedere un voto generale come nel concordato preventivo, gli accordi (disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, ex art. 182-bis L.F.) consistono in accordi giuridici tra il debitore e una parte consistente dei creditori, che vengono poi sottoposti all’omologazione del tribunale. Una volta omologati, gli accordi acquistano efficacia legale e certe protezioni analoghe a quelle del concordato, pur coinvolgendo in modo diretto solo i creditori aderenti. Il requisito standard è l’adesione di almeno il 60% dei crediti totali . I creditori che firmano (raggiungendo quella maggioranza qualificata) sono vincolati nei termini pattuiti; i creditori estranei all’accordo restano fuori: devono essere pagati per intero alle scadenze originarie, oppure il debitore chiede contestualmente misure per loro (ad es. moratorie autorizzate). L’accordo, quindi, non è un concorso di tutti i creditori, ma una sorta di contratto collettivo di ristrutturazione con una larga maggioranza di essi, elevato a efficacia legale dall’omologazione del giudice.

Perché usarlo: il senso dell’accordo di ristrutturazione è di avere uno strumento più agile del concordato quando: – Il numero di creditori non aderenti è ridotto o comunque si prevede di poterli pagare integralmente. Ad esempio, se l’80% del debito è verso banche e queste aderiscono, il restante 20% (forse fornitori piccoli) può essere escluso dall’accordo purché il piano dimostri che saranno pagati normalmente. In questo modo non si coinvolgono migliaia di piccolissimi creditori nella procedura, semplificando molto. – Si vuole evitare il voto e il complesso meccanismo del concordato, specialmente se la maggioranza è già d’accordo. Di fatto, l’accordo di ristrutturazione può essere visto come un concordato senza voto: il debitore negozia privatamente con i creditori fino a superare il 60%, dopodiché formalizza l’accordo e chiede al tribunale di omologarlo, senza passare per un’assemblea dei creditori. – Permette di gestire anche casi in cui alcune banche (o soggetti istituzionali) preferiscono un accordo privatistico rispetto a un concordato (che percepiscono più stigmatizzante). Spesso le banche preferiscono gli accordi ex art. 57 CCII perché consentono loro di mantenere in bonis il credito ristrutturato e non doverlo classificare a sofferenza come invece implicherebbe l’ingresso in concordato dell’azienda.

Procedimento: il debitore deposita presso il tribunale l’accordo firmato dai creditori aderenti (che rappresentino almeno il 60% dei crediti) insieme a una relazione di un attestatore che certifica l’idoneità dell’accordo a assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei 120 giorni dalla scadenza originaria (per i crediti scaduti) o dall’omologazione (per quelli non ancora scaduti) . Il tribunale verifica la regolarità e la fattibilità, quindi omologa con decreto. Da quel momento l’accordo è efficace e i creditori aderenti (detti consenzienti) non possono più agire al di fuori di esso.

Protezione e misure cautelari: su richiesta del debitore, già dalla pubblicazione del ricorso di omologazione può essere concessa la sospensione delle azioni esecutive da parte dei creditori (anche estranei), simile a quella del concordato. Inoltre, l’accordo omologato viene pubblicato nel Registro Imprese e da quel momento i creditori estranei non possono acquisire cause di prelazione sul patrimonio del debitore, a pena di inefficacia (per evitare corse preferenziali). Quindi c’è una certa tutela erga omnes nel periodo di omologazione.

Estensioni particolari: la legge prevede alcune varianti: – Accordo ad efficacia estesa: se l’accordo raggiunge il 75% dei crediti di una categoria omogenea (ad esempio soli creditori finanziari), può essere chiesta l’estensione degli effetti anche ai creditori dissenzienti di quella categoria, purché abbiano chance simili di soddisfo . Questo è stato introdotto per soddisfare la Direttiva UE e riguarda per lo più banche: se la stragrande maggioranza di banche è d’accordo, le poche banche fuori possono essere “trascinate” dentro l’accordo con decreto del tribunale. In tal caso l’accordo funziona quasi come un concordato limitato ai finanziari. – Accordi agevolati e accordi semplificati: il CCII contempla la possibilità di ridurre il quorum dal 60% al 30% in alcuni casi, come per gli accordi con intermediari finanziari che prevedano finanza esterna per almeno il 10% e assicurino continuità aziendale (art. 61 CCII). Ciò per incoraggiare salvataggi con il supporto bancario anche quando non tutte le banche salgono a bordo. – Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO): è una novità (art. 64-bis CCII, introdotto dai correttivi 2022) che consente al debitore di presentare un piano di ristrutturazione con formazione di classi di creditori e deroghe alle regole di distribuzione par condicio, purché tutte le classi di creditori votanti approvino . È un istituto di frontiera: in pratica, se il debitore riesce a convincere ogni classe di creditori (ad esempio: classe banche, classe fornitori, classe bondholder) e ognuna vota favorevolmente a maggioranza, allora può chiedere l’omologazione anche se il piano non rispetta le priorità legali tra classi (cosa di norma vietata nel concordato). Il PRO è pensato per ristrutturazioni complesse dove però c’è accordo unanime dei gruppi: consente, ad esempio, di fare haircut differenti a creditori di pari rango se tutti loro accettano . È uno strumento innovativo e potenzialmente potente, ma richiede appunto consenso universale tra classi (non tra singoli creditori, ma tutte le classi devono dire sì). In mancanza, si ricade nel concordato con eventuale cram-down (come vedremo nella sezione concordato).

In pratica: l’accordo di ristrutturazione è molto utile quando non serve coinvolgere tutti i creditori oppure quando c’è già il consenso delle principali parti. Ad esempio, se un calzaturificio ha 5 banche e tutte 5 sono d’accordo a ristrutturare (magari riducendo il debito del 20% e allungando i piani), ma ci sono 50 piccoli fornitori che verranno comunque pagati integralmente a scadenza (solo più tardi), il debitore può siglare con le 5 banche un accordo ex art. 57 CCII e omologarlo, dichiarando che pagherà i fornitori fuori accordo regolarmente. Le banche aderenti saranno vincolate, e i fornitori non potranno far fallire l’impresa perché nel frattempo la banca otterrà protezione durante l’omologa e poi i fornitori verranno soddisfatti come promesso. Così si evita un concordato che coinvolgerebbe inutilmente i fornitori.

Procedura semplificata rispetto al concordato: meno formalità (niente voto, niente classi, solo adesioni contrattuali); tempi spesso più rapidi; minor pubblicità negativa. Di contro, se il debitore non riesce a ottenere il 60% di adesioni, l’accordo non è perseguibile e tocca il concordato.

Il tribunale in sede di omologa dell’accordo verifica anche che l’accordo non sia peggiorativo per i creditori estranei. Questi devono risultare pagati almeno quanto avrebbero preso in fallimento (best interest test) e comunque integralmente entro 120 giorni . Se, ad esempio, c’è un estraneo chirografario e il piano prevede di pagarlo al 100% in 6 mesi, va bene; se invece il piano implicasse che quell’estraneo alla fine viene pagato solo in parte, l’accordo non sarebbe omologabile se quell’estraneo non aderisce. Quindi c’è un principio di tutela esterna per chi non firma.

Novità correttivo 2024: come visto, è stata introdotta la possibilità di moratoria fino a 2 anni per i crediti privilegiati anche negli accordi di ristrutturazione . Ciò consente di proporre alle banche o altri privilegiati un pagamento dilazionato, migliorando la fattibilità dei piani. Inoltre, il correttivo ha reso più flessibile la modifica dei piani in corso di omologa (15 giorni per integrazioni, art. 48 CCII) , e previsto il diritto di reclamo contro l’omologa o il diniego, a tutela delle parti dissenzienti .

Concordato preventivo (in continuità e liquidatorio)

Il concordato preventivo è la più nota procedura concorsuale “di ristrutturazione”. Previsto originariamente dalla Legge Fallimentare del 1942, è stato riformato più volte e ora disciplinato dagli artt. 84-120 CCII. Si tratta di una procedura giudiziale in cui il debitore propone ai creditori un accordo di sistemazione delle obbligazioni, sotto il controllo del tribunale e con il voto espresso dai creditori stessi. Se il concordato viene approvato dalle maggioranze di legge e omologato, diventa vincolante per tutti i creditori anteriori (anche dissenzienti o non votanti) . È quindi un potente strumento di cram-down collettivo: consente di imporre tagli e dilazioni ai creditori contrari, a patto di rispettare certe regole di equità e maggioranze.

Tipologie di concordato: il Codice distingue in particolare: – Concordato in continuità aziendale: quando è prevista la prosecuzione (diretta o indiretta) dell’attività d’impresa, sfruttando i flussi che genera per pagare i creditori. Esempio: l’azienda riduce il debito e continua a produrre scarpe, pagando i creditori in parte coi profitti futuri. – Concordato liquidatorio: quando invece l’azienda cessa l’attività e il piano prevede la vendita dei beni e la distribuzione del ricavato ai creditori (magari con la liquidazione affidata allo stesso debitore sotto sorveglianza, anziché a un curatore come nel fallimento). Ad esempio: il calzaturificio chiude, vende macchinari, scorte, incassa crediti, e distribuisce quel che ottiene ai creditori in percentuale.

Ci sono poi forme speciali: – Concordato semplificato (già menzionato): applicabile se la composizione negoziata fallisce. È di fatto un concordato liquidatorio senza voto, deciso dal tribunale su proposta del debitore . – Concordato con assuntore: un terzo rileva l’azienda o i beni e si assume l’onere di eseguire il concordato verso i creditori, liberando il debitore originario. – Concordato di gruppo: per gruppi d’imprese, con piani coordinati.

Procedure per l’accesso: il debitore per accedere deve trovarsi in stato di crisi o insolvenza. Si deposita un ricorso contenente la proposta di concordato (quanto intende pagare ai creditori e come), il piano dettagliato e la documentazione (dati aziendali, attestazione di un professionista sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano). Il tribunale, valutata l’ammissibilità, ammette il debitore alla procedura e nomina un Commissario giudiziale, che vigila durante la fase delle votazioni e prepara una relazione per i creditori. Nel frattempo, dalle pubblicazioni della domanda di concordato, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive (c’è il blocco delle azioni individuali, art. 54 CCII). L’impresa continua l’attività sotto la gestione dell’imprenditore, ma con autorizzazione del tribunale per atti straordinari.

Classi e trattamenti: il debitore può dividere i creditori in classi secondo posizione giuridica omogenea (spesso si fa classe banche, classe fornitori chirografi, classe subordinati, ecc.). Questo permette di prevedere trattamenti differenziati a seconda delle classi (p.es. alle banche si offre il 60% in 5 anni, ai fornitori il 30% in 2 anni, etc.), purché all’interno della classe tutti siano trattati uguale. Nel concordato liquidatorio puro, la legge tradizionale imponeva almeno il 20% ai chirografari; il CCII ora richiede semplicemente che il trattamento non sia inferiore al valore di liquidazione giudiziale (best interest test). Nel concordato in continuità, non c’è soglia fissa, ma i creditori devono poter sperare in una soddisfazione maggiore rispetto alla liquidazione dei beni.

Votazione: i creditori vengono convocati all’adunanza e esprimono il voto sulla proposta . Il concordato è approvato se ottiene il sì della maggioranza dei crediti ammessi al voto (>50% in valore) . Se ci sono classi, occorre la maggioranza in ciascuna classe, ma il CCII 2022 ha introdotto una norma di cram-down interclassi: il tribunale può omologare il concordato anche senza l’approvazione di tutte le classi, a condizione che almeno una classe di creditori non postergati abbia votato sì e che il piano rispetti la priorità assoluta per le classi dissenzienti . Questa è una grossa novità del 2024: consente di superare il veto di classi minoritarie dissenzienti, purché quelle classi non vengano trattate peggio del loro rango (nessuna classe inferiore prende più di loro) e ricevano almeno quanto avrebbero in liquidazione . In pratica, il giudice può forzare il concordato (“cram-down forzoso”) se, ad esempio, solo la classe dei chirografari ha detto no ma sono previsti prendere 30% che è comunque più di zero che avrebbero in fallimento e nessuna classe inferiore prende di più . Questo allineamento alla direttiva UE riduce il potere di veto delle minoranze e facilita l’omologa di piani ragionevoli nonostante qualche opposizione.

Omologazione: se la proposta è approvata (o anche non approvata da tutte le classi ma con i requisiti di cram-down), si passa all’udienza di omologa. I creditori dissenzienti e non votanti possono fare opposizione deducendo eventuali vizi (inattendibilità piano, violazione par condicio, atti in frode, ecc.) . Il tribunale verifica d’ufficio alcune condizioni: – regolare trattamento dei creditori privilegiati (in continuità si può anche degradare una parte del privilegio a chirografo, se si paga almeno il valore di realizzo del bene su cui insiste il privilegio), – omogeneità delle classi, – rispetto del best interest test (nessun creditore deve ricevere meno che in liquidazione giudiziale, valutata dal giudice comparando il piano con uno scenario di fallimento) , – fattibilità del piano (dev’essere realistico e attuabile), – assenza di atti in frode (il debitore non deve aver dolosamente sottratto o occultato attivo ai danni dei creditori; se scoperto un atto in frode rilevante, il concordato non può essere omologato) .

Se tutto è in regola, il tribunale omologa con decreto. Da quel momento, la proposta concordataria diviene vincolante per tutti i creditori anteriori , anche per chi ha votato no o non ha votato. I creditori possono ottenere solo quanto previsto dal concordato e nei tempi lì indicati, la parte residua del loro credito è stralciata (esdebitazione concordataria). Ad esempio, se i fornitori avevano €100 e il concordato prevede pagamento 30%, dopo l’esecuzione del 30% il restante €70 è cancellato definitivamente .

Esecuzione: il debitore (o un liquidatore giudiziale, se nominato in caso di concordato liquidatorio) procede poi ad attuare il piano: pagare le percentuali dovute, vendere eventuali beni secondo le modalità pianificate, sotto la vigilanza del commissario giudiziale (che dopo l’omologa può restare a monitorare l’esecuzione) . I creditori devono rispettare il concordato: rinunciano alla parte eccedente condonata e attendono i pagamenti secondo le scadenze concordatarie . Se il debitore non adempie, il tribunale può dichiarare la risoluzione del concordato su istanza dei creditori, facendo tipicamente scattare la liquidazione giudiziale (fallimento). Ecco perché è cruciale proporre solo ciò che si è in grado di mantenere.

Una volta completato il concordato (o decorso il termine ultimo previsto), viene dichiarata la chiusura della procedura e l’azienda ne esce “pulita” dai debiti residui come da piano . Se era una società, prosegue la sua attività con la struttura di debito ridimensionata; se era un imprenditore individuale, può continuare la sua impresa, oppure se era un concordato liquidatorio e ha liquidato tutto, potrà chiedere l’esdebitazione per liberarsi di eventuali debiti insoddisfatti.

Novità 2024: oltre al cram-down interclassi già evidenziato, un’altra modifica introdotta è l’art. 118-bis CCII che consente, dopo l’omologa, di apportare modifiche al piano omologato in presenza di circostanze sopravvenute che ne impediscono temporaneamente o definitivamente l’attuazione . Prima, se accadeva un imprevisto (es. crisi settoriale, pandemia) l’unica via era la risoluzione e nuovo concordato. Ora invece il debitore può ricorrere al tribunale chiedendo di modificare il piano (sentito il commissario e i creditori, con eventuale nuovo voto se le modifiche incidono sui loro diritti). Questo rende il concordato più flessibile post-omologa, evitando il fallimento in caso di ostacoli non imputabili al debitore.

Concordato dal punto di vista del debitore: è un percorso impegnativo e complesso, spesso lungo (può durare 1-2 anni tra proposta e fine esecuzione), ma è la soluzione principe per riequilibrare drasticamente la situazione debitoria mantenendo se possibile l’azienda in vita. Richiede costi (spese di procedura, compenso commissario, attestatore, legali) e pubblicità (l’azienda appare come “in concordato preventivo” negli atti e su registro imprese, con inevitabile impatto su reputazione e operatività). Tuttavia, se la crisi è profonda, il concordato è spesso l’unico modo per evitare il fallimento disordinato e avere un qualche controllo sull’esito: il debitore propone lui come pagare e come riorganizzare. In concordato in continuità, può persino ottenere la prosecuzione dei contratti essenziali e proteggere la sua azienda come entità funzionante, magari con riduzione dell’organico (si possono prevedere esuberi con procedure protette). In un certo senso, il concordato è un “male minore” rispetto alla liquidazione giudiziale: comporta sacrifici a tutti (creditori che prendono meno, imprenditore che perde potere perché sotto vigilanza e deve spesso cedere beni), ma persegue la soddisfazione del ceto creditorio in misura migliore che nel fallimento e consente all’imprenditore onesto di ripartire.

La giurisprudenza degli ultimi anni è diventata esigente sui requisiti di veridicità e fattibilità del piano. Ad esempio, Cass. 1521/2020 ha negato omologa ad un concordato liquidatorio perché offriva ai chirografari meno di quanto ricavabile in fallimento: è il principio del best interest test. Oppure Cass. 10991/2022 ha insistito che nei concordati in continuità va preservata la par condicio salvo giustificate eccezioni (no trattamenti deteriore ingiustificato a una classe).

Il caso tipico: un calzaturificio propone un concordato in continuità, offrendo ai creditori chirografari il 40% in 5 anni, mentre se fallisse prenderebbero forse il 20%. Le banche privilegiate prendono 100% ma con pagamento a 2 anni (moratoria) . I dipendenti sono pagati integralmente (per legge, TFR e ultime mensilità hanno privilegio fino a concorrenza del fondo di garanzia INPS). I creditori votano; supponiamo il 75% in valore dei crediti votanti dica sì. Il tribunale omologa, non rilevando irregolarità. L’azienda continua a operare, genera flussi con cui paga ogni anno una quota di debito secondo il piano. Dopo 5 anni, ha onorato il 40% promesso: il residuo 60% viene cancellato e il concordato si chiude positivamente. L’azienda è salva e può proseguire senza lo zaino di debiti precedente. Questo è l’esito virtuoso. Ovviamente se le performance non consentissero di pagare le percentuali, il concordato rischierebbe di non essere eseguito e allora scattano le sanzioni (risoluzione e fallimento). Perciò il debitore deve anche realisticamente valutare se preferire un concordato liquidatorio (chiudere e liquidare il possibile) con l’opportunità di ottenere comunque l’esdebitazione a fine procedura, piuttosto che intestardirsi in una continuità impossibile che fallirebbe.

Liquidazione giudiziale (ex fallimento) e liquidazione controllata

Quando ogni tentativo di risanamento o accordo fallisce o è impraticabile, la legge prevede la liquidazione giudiziale, cioè la procedura che prende il posto del fallimento tradizionale . La liquidazione giudiziale è la soluzione finale per chiudere la crisi d’impresa quando l’insolvenza è conclamata e nessun piano di risanamento è attuabile. A differenza degli strumenti visti prima, qui l’obiettivo non è salvare l’azienda ma liquidare il patrimonio e distribuire il ricavato tra i creditori secondo le regole di prelazione .

Presupposti: dev’esserci un debitore assoggettabile (imprenditore commerciale sopra soglie di fallibilità, vedi sotto) e un stato di insolvenza (incapacità non transitoria di soddisfare regolarmente le obbligazioni). La liquidazione giudiziale può essere aperta su iniziativa del debitore (ricorso volontario) o dei creditori, o su impulso della procura (per casi di iniziativa pubblica). Se la chiede il debitore stesso, di solito lo fa perché si rende conto che non c’è rimedio (a volte avendo prima tentato concordati, risanamenti, etc.). Se la chiedono i creditori, di norma è perché vedono l’impresa insolvente e preferiscono un concorso ordinato che una caccia al bene da soli.

Procedure e organi: il tribunale dichiara l’apertura della liquidazione con sentenza, nomina un Curatore (figura professionale che gestirà la procedura al posto dell’imprenditore), nomina un Giudice Delegato (un magistrato che sovrintende la procedura) e convoca i creditori per l’esame dello stato passivo (udienza di verifica delle domande creditori). Da quel momento l’imprenditore è spossessato dei suoi beni: non può più amministrarli né disporne, tutti i poteri passano al Curatore . I crediti verso il debitore devono essere accertati nel concorso mediante insinuazione al passivo (i creditori presentano domanda corredata di documenti, il Giudice li esamina e forma lo stato passivo). Avviene una cristallizzazione dei debiti: i crediti maturano fino alla data di apertura, poi basta (salvo interessi per i privilegiati se capienza).

Realizzazione dell’attivo: il Curatore compie un inventario dei beni e li vende secondo un programma di liquidazione (che viene approvato dal comitato dei creditori e dal giudice). Può vendere l’azienda in blocco, oppure singoli cespiti (immobili, macchinari, marchi, ecc.), oppure incassare crediti (anche tramite cessione). Oggi la legge spinge a fare le vendite in modo celere e trasparente, spesso tramite aste telematiche. L’obiettivo è massimizzare il ricavato nel minor tempo, perché la legge chiede di chiudere la liquidazione giudiziale entro 3 anni se possibile.

Distribuzione e chiusura: il denaro raccolto viene distribuito secondo l’ordine delle cause di prelazione: prima si pagano creditori con pegno/ipoteca (collateralizzati) sul ricavato dei loro beni, poi creditori privilegiati generali (stipendi, fisco, ecc.), infine i chirografari in proporzione (che spesso prendono poco o nulla se l’attivo è scarso). Al termine, il Curatore presenta un rapporto conclusivo, ed il tribunale chiude la procedura con decreto. La società fallita, se è persona giuridica, viene cancellata dal registro imprese (cessa di esistere). Se è un imprenditore individuale, invece, la persona fisica rimane ma i debiti insoddisfatti permangono a suo carico (salvo esdebitazione, vedi sotto).

Conseguenze per il debitore (persona fisica): il fallimento portava con sé storicamente delle incapacità personali (interdizione commerciale, divieto di ricoprire cariche, ecc.). Il CCII ha attenuato lo stigma, ma comunque il fallito persona fisica incontra delle limitazioni (non può promuovere cause se non su autorizzazione, non può amministrare beni che dovesse ereditare nel frattempo, ed è soggetto ad altre restrizioni). Tali limitazioni cessano con la chiusura del procedimento. Inoltre, il fallito può richiedere l’esdebitazione: l’esdebitazione è la liberazione dai debiti residui non pagati in procedura, concessa a certe condizioni di meritevolezza (non aver frodato creditori, cooperato, ecc.). Con il CCII, l’esdebitazione per le persone fisiche è diventata quasi automatica dopo 3 anni dalla chiusura , senza necessità di fare un’apposita domanda se non ci sono opposizioni. Anche il cosiddetto debitore incapiente (che non riesce a offrire nulla ai creditori) può ottenere l’esdebitazione “a zero” secondo l’art. 283 CCII . Questo è pensato per dare un “fresh start” agli imprenditori onesti sfortunati.

Soglie di fallibilità: come anticipato, non tutte le imprese possono essere soggette a liquidazione giudiziale. Le piccolissime imprese e i non imprenditori rientrano nel “sovraindebitamento” (oggi chiamato concordato minore, ristrutturazione dei debiti del consumatore, ecc.). I criteri dimensionali: un imprenditore non è assoggettabile se nei 3 esercizi precedenti non ha superato congiuntamente i limiti di €300.000 di attivo, €200.000 di ricavi, €500.000 di debiti . Chi sta sotto tutti questi parametri è un “piccolo imprenditore” non fallibile. Inoltre, come già detto, non si apre la liquidazione se i debiti scaduti sono inferiori a €30.000 (soglia minima). Tali soglie esistevano in sostanza già con la L.F. e sono confermate, con un meccanismo di calcolo su base triennale e una presunzione di sussistenza dei requisiti salvo prova contraria. Ad esempio, se un calzaturificio è in contabilità semplificata con fatturato €150k e attivo €100k, non può essere dichiarato fallito: i suoi creditori potranno agire solo individualmente o dovrà usare procedure di sovraindebitamento.

Liquidazione controllata: per i soggetti non fallibili, il CCII prevede la liquidazione controllata del sovraindebitato (art. 268 e ss.), che è l’equivalente del fallimento per i piccoli. Si differenzia per alcuni aspetti procedurali e per il fatto che è volontaria (di solito la chiede il debitore stesso). Per esempio, un artigiano con debiti che non rientra nella fallibilità, può chiedere la liquidazione controllata e, come esito, ottiene la cancellazione dei debiti in tempi relativamente rapidi. Anche qui c’è la soglia minima di €50.000 di debiti scaduti per aprirla , secondo la dottrina, proprio per evitare di trattare come procedura concorsuale casi di indebitamento modesto.

Considerazioni finali: per il debitore, la liquidazione giudiziale è ovviamente l’evento meno desiderabile: perde l’azienda, i beni vengono venduti all’asta e lui viene spossessato. Tuttavia, a volte è l’unica via e anzi può essere liberatoria in certi casi (soprattutto per le persone fisiche che poi con esdebitazione possono ripartire pulite). Dal punto di vista “difensivo”, anche durante la liquidazione giudiziale il debitore ha interesse a collaborare col curatore (per esempio per massimizzare i valori di vendita) e a mantenere condotta irreprensibile, perché da ciò può dipendere l’esdebitazione o l’assenza di strascichi penali. Se l’imprenditore ha commesso atti di frode o distrazione pre-fallimento, qui emergono e si innescano i procedimenti penali (bancarotta fraudolenta, v. sezione penale). Viceversa, se ha agito in trasparenza, il fallimento sarà più ordinato e, pur doloroso, concluderà la vicenda con la distribuzione di quel che c’è e la liberazione del soggetto.

Riassumendo tutti gli strumenti di regolazione della crisi trattati, ecco una tabella comparativa:

StrumentoNaturaFinalitàNecessità di consenso creditori
Allerta e adeguati assettiMisure organizzative e segnalazioni interne/pubbliche. (Non è una procedura, ma un obbligo continuo)Prevenire e intercettare la crisi precocemente.N/A (obblighi interni di governance, non richiede consenso dei creditori).
Composizione negoziataProcedura stragiudiziale assistita (con esperto nominato)Risanare l’impresa tramite accordi volontari con i creditori, in quadro protetto (possibile moratoria).Consenso volontario dei creditori alle proposte; non c’è voto formale (adesioni individuali durante le trattative).
Piano attestato di risanamentoAccordo privato con attestazione di esperto indipendente.Ristrutturazione extragiudiziale riservata, con protezione giuridica (esenzione da revocatoria) per gli atti eseguiti secondo piano .Consenso integrale dei creditori coinvolti (il piano è un insieme di accordi contrattuali, serve l’adesione di ciascuno interessato). Dissenzienti non vincolati .
Accordo di ristrutturazioneAccordo omologato dal tribunale (artt. 57-60 CCII).Ristrutturazione con efficacia legale e protezione giudiziale, mantenendo un carattere negoziale (coinvolge i principali creditori).Adesione di ≥60% dei crediti. Vincola solo i consenzienti, salvo estensioni settoriali (es. 75% banche -> esteso a tutte le banche) . Creditori non aderenti restano estranei ma vanno pagati integralmente entro termini fissati.
Concordato preventivoProcedura concorsuale giudiziale (con voto dei creditori e omologa).Due varianti: continuità (salvare azienda operativa) o liquidatorio (liquidare beni in modo concordato). Evitare la liquidazione fallimentare, con soddisfacimento parziale dei creditori secondo un piano vincolante.Voto dei creditori per classi/categorie. Approvazione con maggioranza >50% crediti (e maggioranza classi, se più classi). Omologa tribunale (possibile cram-down su classi dissenzienti dal 2024) .
Concordato semplificatoProcedura concorsuale semplificata (art. 25-sexies CCII, post composizione negoziata fallita).Liquidazione rapida dell’attivo con distribuzione ai creditori, evitando il fallimento, quando la negoziazione assistita non ha prodotto accordi.Nessun voto dei creditori. Il tribunale decide sull’omologazione su proposta del debitore (sentito il parere dell’esperto sulla composizione fallita). Creditori possono opporsi in sede di omologa ma non votano .
PRO – Piano di Ristrutturazione OmologatoProcedura concorsuale flessibile (introdotta da direttiva UE, art. 64-bis CCII).Ristrutturazione con possibili deroghe alla parità di trattamento tra creditori (es: sacrifici diversi) se necessaria, ma con controllo giudiziale.Approvazione di tutte le classi di creditori (maggioranza in ciascuna classe) + omologazione tribunale. Richiede consenso unanime inter-classi (altrimenti si ripiega su concordato ordinario).
Liquidazione giudizialeProcedura concorsuale liquidatoria (ex fallimento).Liquidazione del patrimonio e chiusura dell’impresa, con riparto ai creditori secondo prelazioni.Nessun consenso: procedura avviata d’ufficio o su istanza creditori su stato d’insolvenza conclamato. I creditori non votano un piano, subiscono la liquidazione curatelare.

(Tabella 2 – Panoramica sintetica dei principali strumenti del Codice della Crisi d’Impresa)

Questa tabella offre una visione d’insieme: si va da strumenti pre-concorsuali, volontari e flessibili (allerta, composizione negoziata, piano attestato) a strumenti concorsuali giudiziali vincolanti (concordati e liquidazione). In generale, l’imprenditore in difficoltà dovrebbe scalare queste opzioni: provare prima le soluzioni “morbide” (negoziali), e solo se falliscono ricorrere alle procedure giudiziali più invasive. Naturalmente, la scelta dipende dalla gravità: in una crisi avanzata, può essere necessario saltare subito al concordato.

Nel capitolo successivo, affronteremo in particolare l’aspetto pratico delle negoziazioni con i creditori, che è trasversale a tutti questi strumenti (poiché in ogni caso il dialogo e il convincimento dei creditori è fondamentale). Successivamente parleremo di come proteggere il patrimonio personale dell’imprenditore nel contesto di queste procedure e quali responsabilità (anche penali) possono sorgere.

Negoziare con banche e fornitori: strategie pratiche per il debitore

Una delle capacità più importanti per un imprenditore indebitato è la negoziazione con i creditori. Indipendentemente dalle procedure formali attivate, molto spesso la soluzione della crisi passa per accordi negoziali con banche, fornitori, locatori, ecc. In questa sezione ci poniamo dal punto di vista del debitore che deve convincere i creditori a cooperare, analizzando: – Perché è cruciale negoziare: evitare contrapposizioni giudiziarie, prendere tempo, trovare soluzioni meno distruttive (es. dilazioni, riduzioni) rispetto all’esecuzione forzata o al fallimento . – Obiettivi della negoziazione: ristrutturare il debito (allungare i pagamenti), ottenere moratorie, riduzioni parziali, nuova finanza, o combinazioni di queste . – Preparazione alla negoziazione: come raccogliere dati finanziari, predisporre un piano credibile, definire la strategia e le priorità per ciascun creditore . – Tecniche e consigli per la trattativa: comunicazione trasparente, approccio professionale, eventuale uso di mediatori o advisor, gestione delle obiezioni e ricerca del win-win. – Errori da evitare: improvvisazione, promesse irrealistiche, trattamenti preferenziali occulti, atteggiamenti minacciosi o scorretti che possono far saltare la fiducia.

Importanza e obiettivi della negoziazione con i creditori

Quando un’azienda si trova in difficoltà e non riesce a pagare puntualmente debiti verso banche o fornitori, ignorare il problema peggiora solo le cose . I creditori insoddisfatti possono reagire bruscamente: sospendere forniture, revocare fidi, avviare cause e pignoramenti, o chiedere il fallimento. Ciò spesso innesca un circolo vizioso: l’impresa, già a corto di liquidità, subisce ulteriori contrazioni di credito e reputazione, venendo spinta ancor più verso l’insolvenza definitiva. Negoziare con i creditori offre invece l’opportunità di evitare questi scenari peggiori , cercando una soluzione che, pur scontentando un po’ tutti, sia preferibile al disastro. D’altronde, anche molti creditori (soprattutto fornitori o banche con crediti chirografari) hanno interesse ad evitare il collasso totale: un fallimento del debitore spesso significa per loro incassare briciole dopo anni, mentre una ristrutturazione potrebbe dargli di meno ma prima e salvare un cliente.

Gli obiettivi tipici della negoziazione col ceto creditorio includono : – Dilazione del debito (ristrutturazione): concordare nuove scadenze più sostenibili. Ad esempio, trasformare debiti a vista o scaduti in debiti rateizzati su 2-5 anni. Ciò abbassa la pressione sulla cassa e permette all’azienda di “respirare”. – Moratoria o sospensione temporanea: ottenere un periodo (es. 6-12 mesi) di sospensione dei pagamenti, soprattutto sul capitale dei finanziamenti, concentrandosi nel frattempo sul riequilibrio di cassa . Alcune banche, specie in accordi di sistema (come le moratorie ABI per PMI), concedono “standstill” temporanei, così come fornitori possono attendere se vedono serietà. – Riduzione parziale del debito (saldo e stralcio): in alcuni casi, i creditori potrebbero accettare di rinunciare a una quota del credito pur di incassare subito il resto. Tipico è l’accordo “ti pago il 50% ora a saldo del 100% dovuto”. Questo di solito avviene se il creditore percepisce che rischia di peggio col fallimento (dove forse recupererebbe 20% fra 5 anni). La riduzione può essere maggiore con creditori chirografari, mentre banche con ipoteca tendono a non fare sconti sul capitale (semmai riducono interessi o allungano tempi). – Consolidamento dei debiti: ad esempio, più esposizioni sparse vengono accorpate in un unico mutuo con garanzia (magari statale). Ciò facilita i pagamenti perché l’azienda ha una sola rata sostenibile invece di tanti piccoli pagamenti in disordine. – Mantenimento della fornitura o del servizio: per i fornitori strategici, un obiettivo è convincerli a continuare a fornire merce/servizi durante la crisi, magari modificando i termini (pagamento anticipato per forniture correnti, ma contestualmente definendo il rientro del pregresso in più tempo). Evitare l’interruzione delle forniture è vitale per non fermare l’attività. – Nuove garanzie o equity: talvolta la negoziazione può coinvolgere apporti esterni. Esempio: i soci offrono immobili personali in garanzia alle banche in cambio di rinegoziazione del debito, oppure convertono parte dei crediti fornitori in quote di partecipazione (fornitore diventa socio in piccola parte). Sono soluzioni meno comuni ma possibili in contesti di fiducia.

In estrema sintesi, l’obiettivo ultimo è guadagnare tempo e flessibilità per superare la crisi , distribuendo i sacrifici in modo equo tra i creditori e l’imprenditore. Tutti rinunciano a qualcosa (un po’ di denaro, o di tempestività di incasso), in cambio di evitare il peggio.

Preparazione: conoscere la propria posizione e pianificare la strategia

Una negoziazione efficace inizia molto prima di sedersi al tavolo con i creditori. La preparazione è decisiva . Essa comprende:

  • Analisi approfondita della situazione finanziaria: l’imprenditore deve avere chiaro il quadro dei debiti (quanto, con chi, scaduti o in scadenza, con quali garanzie) , nonché delle risorse disponibili (cassa attuale, incassi futuri prevedibili, asset liquidabili). Va redatto un bilancio di crisi, evidenziando il deficit di liquidità e a partire da quando si genera, e un cash flow forecast a breve termine . Questo serve a sapere quanta dilazione serve per tornare liquidi e in che misura si può onorare il debito. Ad esempio: “se otteniamo 6 mesi di moratoria su mutuo e sconto 30% fornitori, possiamo reggere”.
  • Redazione di un piano (anche informale): pur se non si tratta di un piano attestato, è opportuno preparare un piano di risanamento almeno in bozza, da condividere con i creditori per convincerli. Questo piano spiega cause della crisi, misure che l’azienda sta intraprendendo (taglio costi, nuovi mercati, ingresso di socio o finanza fresca) e come tali misure genereranno flussi per ripagarli. Includerà una proposta dettagliata di pagamento per ciascuna categoria di creditore. Un creditore è più propenso ad aderire se vede che l’imprenditore ha un progetto concreto di rilancio, non sta solo chiedendo “per favore aspettami” a vuoto.
  • Classificazione dei creditori: non tutti hanno lo stesso peso o atteggiamento. È utile stilare un elenco e magari dividerli in classi di priorità . Ad esempio:
  • Creditori critici: quelli senza il cui supporto l’azienda non può operare (es. fornitore unico di un componente chiave, banca che finanzia il circolante, locatore dell’immobile industriale). Con loro la trattativa va considerata prioritaria e le concessioni che si faranno forse minori (non si può tirare troppo la corda).
  • Creditori con maggior esposizione: chi ha i crediti più grandi può influire di più (nel senso che se ad esempio una banca ha il 50% di tutti i debiti, convincerla risolve metà problema, e viceversa un suo rifiuto può rendere vano ogni sforzo – come in concordato, i “pesi” contano).
  • Creditori con garanzie: es. banche ipotecarie. Questi hanno potere negoziale forte (possono agire sul bene), di solito non accettano riduzioni sul capitale (perché protetti dall’ipoteca). Magari concederanno tempo ma pretendendo interessi. Non vanno comunque trascurati.
  • Creditori chirografari piccoli: fornitori vari, professionisti. Ognuno singolarmente ha poco peso, ma insieme sì. Spesso seguiranno il “clima generale”: se vedono che l’azienda sta cercando accordo e i big aderiscno, si accodano; se fiutano scontro e caos, faranno causa.
  • Definizione degli obiettivi e del perimetro di trattativa per ciascun creditore :
  • Esempio: con le banche si punta a moratoria 12 mesi + allungamento mutui a 7 anni; con i fornitori a un saldo al 50% in 1 anno; con il fisco a una rateazione massima (72 rate) o transazione fiscale nel concordato; col proprietario capannone a riduzione temporanea affitto per 6 mesi.
  • Bisogna avere chiaro il minimo accettabile e l’ideale auspicato in ogni sub-negoziazione. Anche anticipare le possibili richieste loro (ad es. una banca potrebbe chiedere garanzie aggiuntive: si è pronti a darle? un fornitore potrebbe chiedere pagamenti puntuali sulle nuove forniture in contanti: lo si può fare?).
  • Coinvolgere consulenti o mediatori: se l’imprenditore non ha esperienza in tali trattative, è opportuno farsi affiancare da un advisor finanziario o legale. Un professionista esterno dà credibilità, sa negoziare tecnicamente (ad esempio, con le banche parlerà il linguaggio del ristrutturatore, con tabelle di cash flow e reference normative). A volte, un mediatore neutrale può facilitare (specie con gruppi di creditori conflittuali). La composizione negoziata, di cui sopra, in fondo formalizza proprio questo: un esperto che mette tutti attorno a un tavolo. Ma anche fuori dalle procedure, si può informalmente nominare un professionista che parli con tutti e faccia da regista.
  • Documentazione trasparente: avere pronti i documenti da esibire per farsi credere. Bilanci, elenco ordini futuri, situazione incassi, perizie su immobili se rilevante, ecc. Mostrare di non avere nulla da nascondere predispone meglio i creditori. Ad esempio, fornire all’istituto bancario un report settimanale di cassa per far vedere come verranno utilizzate le risorse, può convincerlo a tenere aperto il fido.

In sintesi, arrivare al tavolo con i compiti fatti: sapere esattamente cosa chiedere, come giustificarlo e cosa si è disposti a concedere in cambio. Una preparazione accurata dimostra professionalità e serietà, elementi che colpiscono positivamente i creditori (abituati purtroppo a incontrare, a volte, debitori che improvvisano o minimizzano i problemi finché sono troppo tardi).

Strategie e consigli per condurre la negoziazione

Vediamo ora qualche suggerimento operativo su come condurre le trattative con i principali tipi di creditori:

1. Negoziare con le banche:Approccio centralizzato: se l’azienda ha più banche, è preferibile presentare una proposta di ristrutturazione unitaria e cercare di portarli allo stesso tavolo (o comunque fare offerte simili a tutte). Le banche parlano tra loro in comitato creditori spesso; se una percepisce che si sta trattando diversamente con un’altra, nasceranno problemi. Un “accordo di moratoria” firmato congiuntamente dalle banche è l’ideale (c’erano modelli ABI per ciò). – Usare normative esistenti: citare ad es. la Possibilità di accordo ex art. 67 TLBD (Testo Unico Bancario) che esenta da revocatoria nuovi finanziamenti in esecuzione di accordi di ristrutturazione. Oppure l’esistenza del fondo di garanzia statale che può garantire rinegoziazioni di medio termine. Far capire alla banca che l’operazione può avere backing legale e magari anche vantaggi (tipo trasformare crediti incagliati in inadempienze probabili (UTP) con minor accantonamento). – Non bluffare con le banche: loro di solito hanno informazioni (Centrale rischi) sullo stato. Non ha senso dire “vi pagherò fra un mese” se non è vero. Meglio presentare chiaramente il piano a 5 anni e poi discutere eventuali aggiustamenti. La trasparenza sui numeri con banche paga in credibilità. – Concedere garanzie se necessario: se la banca esige, valutare di dare qualcosa (es. ipoteca di 2° grado su immobile di proprietà se libera, pegno su marchio, ecc.). Ma negoziare che sia temporaneo o riducibile man mano che si paga. Attenzione a non impegnare troppo patrimonio personale se poi c’è il rischio di fallire comunque (perché poi la garanzia la useranno). – Formalizzare l’accordo: con le banche, una volta trovata l’intesa, farlo mettere per iscritto in una rimodulazione contrattuale o accordo transattivo. Questo evita future incomprensioni e consente di avere evidenze scritte anche per gli organi societari (così gli amministratori potranno difendersi dicendo che c’era quell’accordo). – Monitoraggio periodico: spesso la banca, se accetta la ristrutturazione, chiede covenants o reporting mensile/trimestrale. È nell’interesse del debitore essere collaborativo e magari fornire spontaneamente aggiornamenti: “questo trimestre vendite +10% vs previsione, abbiamo incassato tot e rispettato il piano”. Ciò costruisce fiducia.

2. Negoziare con i fornitori:Personalizzare l’approccio: i fornitori non sono tutti uguali. Quelli locali o con rapporti di lunga data forse sono più comprensivi. Quelli occasionali magari no. A ciascuno bisogna spiegare la situazione calibrando il discorso in base al livello di confidenza e interesse futuro. Ad esempio: ai fornitori strategici si può dire chiaramente “se mi stai dietro in questo momento, avrai continuità di business e magari ti do anche più volume quando riparto”; a fornitori meno cruciali, puntare sul fatto che “prendere ora il 50% è meglio che rischiare il fallimento e forse zero”. – Non aspettare troppo: contattare i fornitori prima che la situazione degeneri è importante. Se li chiami solo quando hai già 6 mesi di insoluto, saranno più arrabbiati. Meglio anticipare: “questo mese pagherò solo metà fattura, ma ti propongo un piano per recuperare il resto”. – Offrire qualcosa subito: la tattica del “do ut des” funziona: ad esempio, proporre di pagare una percentuale (20-30%) cash adesso come segno di buona volontà, e il restante a rate. Molti fornitori, specie PMI come il debitore, apprezzano incassare almeno un po’ (che migliora loro la liquidità). – Garanzie alternative: se la crisi è grave, alcuni fornitori possono accettare – in luogo del denaro – forme alternative come cambiali (effetto cambiario dà certezza e titolo esecutivo se non pagato), oppure assegni postdatati (non proprio legale ma avviene), oppure un riconoscimento del debito con promessa di ipoteca su un bene futuro se non paga. Bisogna essere cauti in quello che si promette (ad es. dare ipoteche a fornitori isolati può poi creare preferenze revocabili). – Forniture continuative: per quelli da cui ancora si compra durante la crisi, mantenere regolari i pagamenti correnti è cruciale, anche se si sta chiedendo tempo sul vecchio. Una formula usata: “da oggi pagamenti regolari su consegne nuove (magari a 30 giorni max) e recuperiamo l’arretrato su 12 mesi”. Così il fornitore è tranquillo che non accumuli altro debito e il pregresso piano piano scende. – Gruppo di fornitori: se i fornitori importanti si conoscono (accade in distretti industriali), val la pena tenerli informati in parallelo, per evitare diffidenze. A volte potrebbe convenire fare un incontro con i principali fornitori tutti insieme e illustrare il piano di rilancio (simile a come si fa nell’adunanza concordataria, ma in via informale). Ciò crea un clima di “stiamo lavorando insieme” piuttosto che di sospetto reciproco. – Attenzione agli impegni futuri: se prometti a un fornitore di pagarlo integralmente ma poi fai concordato pagandolo meno, lui potrebbe incavolarsi (se avrà diritto ad opporsi). Quindi se si prospetta un possibile concordato, meglio fin da subito indicare ai fornitori che potrebbero dover accettare un taglio (per non illuderli). Purtroppo è un equilibrio difficile: troppo pessimismo li spaventa, troppo ottimismo li illude.

3. Negoziare con l’Erario e gli enti: qui c’è meno margine discrezionale perché l’Agenzia Entrate o Riscossione segue norme rigide. Comunque: – Chiedere subito rateazione per tutte le cartelle esattoriali possibili. Oggi fino a €120.000 si ottiene automaticamente, oltre serve documentare calo fatturato. – Se esce un provvedimento di rottamazione (ad esempio “Rottamazione-quater”), aderire entro i termini per congelare cartelle e ottenere lo sconto su sanzioni/interessi. – In sede di concordato o composizione, predisporre la transazione fiscale offrendo allo Stato almeno il valore di realizzo in fallimento. Far vedere che il debitore è attento anche a quell’aspetto aumenta le chance di voto favorevole dell’Erario in concordato (che oggi è possibile: dal 2020 AE può votare anche per abbattimento del credito se c’è convenienza). – Interlocuzione personale: per debiti IVA correnti, se la crisi è temporanea, talvolta si può chiedere un piano di pagamento IVA dilazionato prima che scatti la segnalazione AE (in situazioni minori, l’AdE locale può accettare). – Durc: se l’irregolarità contributiva blocca appalti, valutare con l’INPS se è possibile ottenere un Durc provvisorio presentando domanda di dilazione e pagando la prima rata.

4. Negoziare con il locatore (affitto capannone): spesso poco considerato, ma se l’affitto pesa, si può chiedere: – Riduzione temporanea del canone (ad es. 50% per 6 mesi) con recupero successivo (diluito sui mesi futuri). – Se ci sono mensilità arretrate, proporre un piano. Il locatore ha potere (può sfrattare, ma se l’azienda va male magari trovarne un altro non è facile). Può convenire anche a lui tenere l’inquilino con sconto piuttosto che avere immobile vuoto. – Offrire magari una garanzia in più, tipo “ti do una fideiussione extra di un parente per rassicurarti, in cambio dello sconto”. – In procedure concorsuali, segnalare che il credito da affitto maturato ante è chirografo, se ti butta fuori recuperi poco; se invece continui il contratto, in concordato i canoni post sono prededucibili (quindi li paghiamo per forza o risolvi il contratto). Questo può convincerlo a non fare sfratto immediato.

5. Negoziare con i dipendenti: se la crisi implica ritardi negli stipendi, qui è delicato perché i lavoratori hanno tutele. Strategia: – Spiegare la situazione (coinvolgerli nel piano di rilancio, molti potrebbero comprendere). – Se possibile, pagare almeno parzialmente e costantemente (anche acconti) per evitare vertenze. – Utilizzare ammortizzatori sociali: cassa integrazione straordinaria per crisi, contratti di solidarietà (riduzione orario) – ciò va negoziato coi sindacati. – Offrire incentivi di mantenimento: es. quando supereremo la crisi, pagheremo un bonus X per compensare i ritardi (scriverlo potrebbe creare crediti però, meglio bonus discrezionale). – Se inevitabile ridurre personale, farlo in modo negoziato (es. chiedere uscite volontarie con incentivo, piuttosto che attendere di non poter più pagare tutti).

Atteggiamento generale nella trattativa:Professionalità e rispetto: anche se il debitore è in posizione di bisogno, deve porsi come serio e determinato. Non supplica in ginocchio, ma neppure arroganza. Un tono franco: “Capisco le vostre ragioni, ecco cosa propongo e perché conviene anche a voi”. – Comunicazione chiara e onesta: spiegare le cause della crisi senza false scuse, ammettere eventuali errori di gestione, e mostrare cosa è cambiato per il futuro. Molti creditori apprezzano la sincerità: meglio dire “Abbiamo sbagliato a fare quell’investimento, ora abbiamo imparato e non si ripeterà” piuttosto che dare la colpa al destino. – Non prendere impegni irrealistici: è preferibile promettere meno e magari pagare prima, che promettere mari e monti e poi deludere di nuovo. Ogni rottura di una promessa peggiora la credibilità successiva. Quindi calibrarsi su ciò che si può mantenere anche in scenario pessimistico. – Tieni traccia scritta: dopo ogni incontro o telefonata importante, è bene inviare un’email di recap (“Come discusso in data odierna, confermo di aver proposto… etc.”). Questo crea un piccolo dossier, utile se poi serve dimostrare la buona fede e gli sforzi fatti (ad esempio in tribunale se un creditore tenta di far passare il debitore come inerte). – Valuta la formalizzazione legale se opportuno: se l’accordo coinvolge molti creditori e c’è un rischio di strappi, potrebbe essere saggio “istituzionalizzarlo” facendolo diventare un accordo ex art. 182-bis (accordo di ristrutturazione omologato) o un concordato. Ad esempio, se l’80% dei creditori è d’accordo privatamente, omologare quell’accordo mette in sicurezza il risultato e stringe anche i dissidenti. Questo però comporta costi e tempi, quindi va valutato caso per caso.

Errori comuni da evitare:Inazione o negazione: aspettare troppo prima di contattare i creditori, o minimizzare il problema sperando si risolva da solo. Questo porta spesso i creditori a perdere fiducia e passare alle vie di fatto. Meglio essere proattivi. – Trattare segretamente un creditore a scapito di altri: es. pagare di nascosto un fornitore “amico” e lasciare gli altri a secco. Non solo è eticamente discutibile, ma giuridicamente può portare a revocatorie e accuse di bancarotta preferenziale se si finisce in procedura . Nella negoziazione è bene essere equi: se si concede il 40% a uno, idealmente anche gli altri chirografari dovrebbero stare su quel livello (salvo ragioni oggettive). – Mentire o manipolare dati: se un creditore scopre che il debitore gli ha nascosto qualcosa (es. ha venduto un macchinario e non l’ha detto, o i bilanci presentati sono falsi), la trattativa finisce immediatamente e si passa al conflitto. Inoltre si alimentano possibili responsabilità penali (false comunicazioni, bancarotta fraudolenta documentale). – Litigare emotivamente: a volte, preso dallo stress, l’imprenditore può reagire male alle pressioni di un creditore (alzare la voce, minacciare di non pagare nulla se spingono troppo, ecc.). Questi comportamenti sono deleteri. Mantenere sempre un approccio professionale, eventualmente facendo gestire i momenti di tensione al proprio legale. Ad esempio, se un creditore è aggressivo, far intervenire l’avvocato per rispondere può calmare (lo sposta su un terreno tecnico, non personale). – Ignorare la dimensione legale: la negoziazione si svolge in un contesto in cui pendono diritti legali (decreti ingiuntivi, ipoteche, ecc.). Non bisogna mai dimenticare di presidiare la situazione legale: se arriva un atto giudiziario, bisogna reagire (anche chiedendo al creditore di sospenderlo in attesa di accordo, oppure difendersi formalmente per guadagnare tempo). Se il creditore vede inattività legale, potrebbe portare a termine un pignoramento e fine. – Non considerare il “piano B”: mentre si negozia, l’imprenditore deve sempre pensare: “E se non si trova l’accordo, qual è la mia mossa successiva?” Potrebbe essere presentare un concordato con misure protettive. Bisogna avere chiaro il worst case scenario e prepararsi. Ad esempio, se la trattativa con le banche fallisce, essere già pronti con un ricorso di concordato in bianco per proteggersi prima che una banca pignori. Questo non va detto esplicitamente ai creditori (sennò sembra minaccia), ma va pianificato internamente.

In conclusione, la negoziazione con i creditori è un’arte di equilibrio: far capire loro che si riconosce il debito e la serietà dell’impegno, ma al contempo convincerli che conviene collaborare. Molto sta nella credibilità personale dell’imprenditore: se in passato era affidabile, sarà più facile. Se aveva abusato di fiducia (assegni protestati, promesse mancate), sarà più arduo. Tuttavia, anche in casi difficili, ho visto creditori apprezzare un cambio di atteggiamento onesto e ben pianificato da parte del debitore.

Spesso una crisi ben gestita tramite negoziazione evita la rovina ed anzi rafforza i rapporti: alcuni fornitori, dopo aver superato una crisi insieme al cliente, instaurano legami di fiducia ancora più forti per il futuro. L’importante è non arrendersi alla prima chiusura: se un creditore dice no secco alla prima proposta, cercare di capire perché e se c’è un margine (“Cosa la preoccupa maggiormente? Come posso garantirla di più?”). La negoziazione è per definizione un processo, non un evento one-shot.

Protezione del patrimonio personale del debitore

Quando un’azienda va in crisi e accumula debiti, l’imprenditore (specie se piccolo imprenditore o socio di maggioranza) non può fare a meno di preoccuparsi per i propri beni personali: la casa di famiglia, i risparmi, i beni intestati a sé o ai propri congiunti. Se l’impresa è una società di capitali (es. S.r.l. o S.p.A.), in linea di principio vige la separazione patrimoniale: i creditori sociali possono aggredire solo il patrimonio della società e non quello personale dei soci. Tuttavia, questa protezione ha dei limiti: molte volte i soci hanno firmato fideiussioni personali a garanzia dei debiti (soprattutto bancari e di leasing), rendendosi quindi obbligati verso quei creditori. Inoltre, se emergono profili di mala gestio, i creditori potrebbero cercare di coinvolgere gli amministratori o soci in sede di azione di responsabilità o revocatoria di atti dispositivi.

Se invece l’attività è svolta in forma individuale o societaria con responsabilità illimitata (S.n.c., S.a.s. per i soci accomandatari), allora non c’è distinzione tra patrimonio aziendale e personale: tutti i debiti gravano direttamente sull’imprenditore, il quale risponde “con tutti i suoi beni presenti e futuri” (art. 2740 c.c.).

Diventa quindi centrale, per il debitore, valutare come tutelare il proprio patrimonio di fronte ai creditori. La protezione patrimoniale è lecita e legittima finché si attua con strumenti previsti dalla legge e con congruo anticipo rispetto ai tempi della crisi. Deve essere chiaro: protezione patrimoniale lecita non significa sottrarsi fraudolentemente ai debiti . Significa piuttosto pianificare la propria struttura patrimoniale in modo che alcuni beni (spesso quelli familiari o estranei al rischio d’impresa) siano segregati e al riparo dalle vicende imprenditoriali, purché ciò avvenga prima che i debiti insorgano in modo significativo e senza intenti di frode . Se invece si agisce dopo che i creditori sono già insoddisfatti, ogni atto dispositivo potrà essere attaccato come atto in frode (revocatoria) o addirittura considerato reato (bancarotta per distrazione se in fallimento).

Esaminiamo i principali strumenti di tutela patrimoniale a disposizione dell’imprenditore e i relativi vantaggi e limiti :

Trust e vincoli di destinazione

Il trust è un istituto di origine anglosassone, riconosciuto in Italia tramite la Convenzione dell’Aja (L. 364/1989). Consente a un disponente di trasferire beni a un trustee, il quale li amministra per uno scopo o a favore di beneficiari designati . Il punto chiave è la segregazione patrimoniale: i beni conferiti nel trust escono dal patrimonio del disponente e sono insensibili alle vicende debitorie del disponente stesso . Ad esempio, se l’imprenditore Tizio istituisce un trust familiare e vi conferisce la propria villa, quella villa diventa di proprietà del trustee nell’interesse, poniamo, dei figli di Tizio, ed è separata sia dal patrimonio di Tizio (non è più sua) sia da quello personale del trustee. Dunque, i creditori personali di Tizio non possono aggredirla (perché non è più un suo bene) . Il trust può essere molto flessibile: può riguardare beni immobili, partecipazioni societarie, liquidità, e può avere scopi di protezione familiare (pagare studi dei figli, mantenimento di un parente disabile, etc.).

Vantaggi del trust per protezione: se fatto in tempi non sospetti e per finalità genuine (successioni, tutela minori, ecc.), il trust è uno strumento legittimo per mettere al riparo beni da rischi d’impresa e personali. La Cassazione ha riconosciuto, ad esempio, la validità di trust costituiti da imprenditori per destinare beni ai bisogni della famiglia . Quindi è concepito come un patrimonio separato inattaccabile dai creditori del disponente e anche del trustee. E finché il disponente non è anche beneficiario, non c’è un’aspettativa giuridica su quei beni (diverso se il disponente si riserva il ruolo di beneficiario, in tal caso i creditori potrebbero aggredire i benefici economici che ne derivano).

Limiti e rischi: il rovescio della medaglia è che il trust, specie se fatto in prossimità della crisi, può essere considerato un atto a titolo gratuito (se i beneficiari non danno corrispettivo) e quindi soggetto a azione revocatoria. L’art. 2901 c.c. consente di revocare atti gratuiti compiuti fino a 2 anni prima del pignoramento, e per i fallimenti il curatore può spingersi fino a 2 anni a ritroso dalla dichiarazione di fallimento. Molti trust “dell’ultimo minuto” vengono infatti dichiarati inefficaci verso i creditori perché chiaramente fatti per sottrarre beni (e i giudici li revocano) . Inoltre, la Cassazione ha stabilito che il curatore fallimentare può impugnare sia l’atto istitutivo del trust sia i singoli conferimenti di beni in trust , perché entrambi funzionali all’effetto segregativo. Oltretutto, dal 2015 esiste l’art. 2929-bis c.c., che consente ai creditori di pignorare direttamente i beni conferiti in un trust (o in un fondo patrimoniale) senza dover prima ottenere la revocatoria, qualora quell’atto dispositivo rechi in sé gli estremi della frode (debito pregresso e atto gratuito) . Ciò è un forte deterrente contro i trust dell’ultim’ora: un creditore potrebbe arrivare e pignorare i beni dentro il trust come se fossero ancora del debitore, salvo poi discutere la legittimità in tribunale (ma intanto blocca i beni).

In situazioni di insolvenza conclamata, addirittura il trust potrebbe configurare bancarotta fraudolenta per distrazione se l’imprenditore fallito vi aveva conferito beni distogliendoli dai creditori (c’è un caso celebre Cass. 10105/2014 che annullò un trust liquidatorio ritenendolo in frode alla legge fallimentare, equiparandolo a un tentativo di liquidazione parallela fuori dal fallimento) .

In sintesi: un trust è efficace se fatto come pianificazione anticipata, non in vista dei creditori. Se la nostra azienda è ancora sana, e vogliamo proteggere la casa di famiglia, costituire ora un trust familiare potrebbe essere una scelta saggia. Se però i debiti sono già scoppiati, istituire un trust appare come una mossa difensiva tardiva e probabilmente inefficace (anzi controproducente, in quanto sarà annullato e intanto incrina la buona fede del debitore davanti al giudice).

Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c.: sono simili in principio al trust, ma di origine codicistica: dal 2006 è possibile vincolare immobili o mobili registrati per realizzare interessi meritevoli (familiari, disabili, pubbliche amministrazioni) con atto pubblico trascritto. Hanno durata max 90 anni o vita beneficiario. Anche questi vincoli segregano il bene per quello scopo. Tuttavia, sono soggetti agli stessi rischi di revocatoria se fatti per sottrarre a creditori e sono meno versatili (non includono denaro o mobili non registrati). Il vantaggio è che essendo in atto pubblico, c’è certezza di data. Ma in pratica sono usati di rado perché il trust copre più situazioni.

Fondo patrimoniale

Il fondo patrimoniale (artt. 167 ss. c.c.) è un istituto tradizionale del diritto italiano rivolto alle famiglie. Consiste nel destinare uno o più beni (immobili, mobili registrati o titoli di credito) al soddisfacimento dei bisogni della famiglia . Viene istituito da coniugi (o da uno per entrambi, anche da terzi per loro) mediante atto notarile, e i beni conferiti formano un patrimonio separato: non possono essere eseguiti per debiti che il creditore sapeva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni familiari (art. 170 c.c.). In altri termini: se marito e moglie costituiscono un fondo patrimoniale con la casa, i creditori non potranno pignorare quella casa per debiti estranei ai bisogni della famiglia. Sono considerati “bisogni familiari” le esigenze attinenti al mantenimento e allo sviluppo del nucleo (casa, salute, istruzione figli, etc.), mentre ne restano fuori i debiti contratti per attività professionali o imprenditoriali di uno dei coniugi che travalichino i bisogni domestici.

Efficacia e limiti: spesso si pensa al fondo patrimoniale come scudo totale, ma la giurisprudenza ha interpretato in modo restrittivo la clausola “estranei ai bisogni”. Molti debiti dell’imprenditore vengono comunque considerati contratti per esigenze anche indirettamente correlate alla famiglia (per es. un finanziamento bancario per l’azienda se serve a produrre reddito per mantenere la famiglia, in senso lato può essere visto come collegato ai bisogni). Corte di Cassazione ha più volte affermato che i debiti fiscali, ad esempio, derivanti dall’attività di impresa non sono coperti dal fondo se quell’attività serviva al sostentamento familiare . In generale, il fondo patrimoniale non protegge da debiti tributari e da molti debiti dell’attività d’impresa, perché ritenuti funzionali ai bisogni della famiglia (il reddito dell’impresa alimenta la famiglia, quindi i debiti connessi ne fanno parte) . Protegge invece da debiti completamente estranei (es. spese voluttuarie, attività speculative separate, forse risarcimenti per fatti del tutto avulsi).

Inoltre, come il trust, il fondo patrimoniale può essere revocato se costituito in pregiudizio dei creditori. Essendo un atto a titolo gratuito (tra coniugi), la revocatoria fallimentare può colpirlo entro 2 anni dall’atto senza bisogno di provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte dei beneficiari (basta l’elemento oggettivo) – i coniugi lo sanno per forza. Anche il creditore individuale può agire ex art. 2901 c.c. entro 5 anni, e come visto c’è l’art. 2929-bis che consente loro di pignorare direttamente i beni conferiti se il debito era precedente e l’atto gratuito .

Quando usarlo: il fondo patrimoniale ha senso come tutela se: – L’azienda è intestata solo a uno dei coniugi e c’è rischio che contragga debiti “extra-familiari” (ad esempio, uno fa l’imprenditore e l’altro è fuori dall’attività). Allora intestare alcuni beni in comunione e porli in fondo può isolare il patrimonio familiare. Comunque, se i debiti risalgono all’attività del coniuge imprenditore, come detto la protezione regge poco. – Un esempio dove funziona: debiti di natura risarcitoria non legati ai bisogni (es. sanzioni amministrative, multe stradali grosse, risarcimenti extracontrattuali). Ma questi sono casi specifici.

In conclusione, il fondo patrimoniale è uno scudo parziale. Molti professionisti oramai preferiscono il trust, reputato più robusto. Comunque, è uno strumento semplice e a basso costo (un atto notarile) che, se istituito ad inizio matrimonio quando ancora non ci sono problemi finanziari, può offrire un certo livello di comfort: i beni restano formalmente dei coniugi ma con vincolo di destinazione pubblicizzato; il creditore che vorrà aggredirli dovrà dimostrare che il suo credito è familiare, altrimenti no.

Società holding e separazione societaria

Un metodo di protezione patrimoniale adottato in ambito aziendale è la creazione di una holding: strutturare il gruppo imprenditoriale in due livelli, con una società “alta” che detiene gli asset patrimoniali (immobili, liquidità, partecipazioni) e una o più società “operative” a valle che svolgono l’attività rischiosa (produzione, commercio). In questo modo, i rischi dell’impresa gravano sulle società operative (che magari hanno poco patrimonio proprio perché prendono in leasing macchinari e in affitto immobili dalla holding), mentre la holding è al riparo dai debiti operativi quotidiani e funge da “cassaforte”. Se una società operativa fallisce, la holding risponde limitatamente per la partecipazione (che in caso di default perderà valore) ma i suoi beni rimangono intatti, e i creditori della figlia non possono attaccare direttamente quelli della madre.

Esempio: il calzaturificio Alfa S.r.l. scorpora l’immobile e il marchio conferendoli in Beta S.r.l. (holding). Alfa paga un canone di affitto e di royalty a Beta. Se Alfa in futuro andrà male, Beta può risolvere i contratti e restare proprietaria di capannone e brand, potendoli affittare o vendere altrove, e i creditori di Alfa non avranno ragione su Beta. Questa separazione ex ante è un tipico assetto per mitigare i danni di una crisi su tutto il patrimonio.

Condizioni di efficacia: ovviamente la holding deve essere costituita e strutturata prima che i debiti insorgano. Se uno crea la holding a posteriori, spostandovi asset quando l’azienda è già insolvente, si torna al problema di revocabilità (conferimenti a holding facilmente contestabili come atti in frode se fatti sottovalutando asset o senza corrispettivo).

Serve attenzione anche a: – Non concedere fideiussioni infragruppo: se la holding garantisce i debiti della figlia o viceversa, la separazione viene meno. Quindi la holding deve evitare di fare da garante (ma spesso le banche la chiedono se vedono la holding piena di asset). – Tenere governance e contabilità separate: per non far confusione e rischiare azioni di imputazione di responsabilità (ad esempio, evitare di far pagare debiti di Alfa con soldi di Beta, se poi Alfa fallisce il curatore accusa Beta di aver distratto capitali per pagare debiti di altri). – Anche la holding, se possiede immobili dati in garanzia (ipoteca per debiti di Alfa) può essere esposta: meglio far sì che le società operative abbiano proprie garanzie o limitare l’indebitamento su asset di holding.

Utilità per protezione persona: l’imprenditore, se possiede partecipazioni, preferirà possedere la holding e far sì che il grosso del valore stia lì. Se l’imprenditore è una persona fisica, i creditori suoi personali non potrebbero attaccare i beni sociali della holding (salvo situazioni eccezionali tipo revocatoria se li ha conferiti poco prima di indebitarsi, o se è praticamente alter ego con confusione patrimoni – casi di abuso di personalità giuridica in cui tribunale “buca il velo”).

In sostanza, la holding è una protezione di struttura: mentre trust e fondi agiscono come recinti giuridici su specifici beni, la holding crea due sacche separate di rischio. Molte medie aziende familiari italiane negli ultimi decenni hanno adottato questo schema su suggerimento di consulenti: immobili in una srl immobiliare, attività in un’altra srl. Nei casi di insolvenza di quella operativa, spesso l’immobiliare rimane e la famiglia quantomeno conserva l’immobile (magari lo affitta al curatore finché serve per continuare provvisoriamente l’azienda, poi lo riutilizza).

Limite: non è che i creditori restino a mani vuote – possono comunque rifarsi su tutto ciò che sta nella società debitrice. Ma l’intento è che in quella debitrice ci stiano meno beni possibili. È come mettere gli asset in “cassette separate” cosicché se se ne rompe una non si perdono gli oggetti dell’altra.

Polizze assicurative sulla vita e altri strumenti

Un cenno merita anche l’utilizzo di polizze vita a scopo protettivo patrimoniale. Ai sensi dell’art. 1923 c.c., le somme dovute dall’assicuratore al contraente o al beneficiario di un’assicurazione sulla vita non sono pignorabili né sequestrabili (salvo i premi versati con intento di frode verso i creditori) . Ciò significa che, se un imprenditore sposta gradualmente i propri risparmi in una polizza assicurativa sulla vita a beneficio, ad esempio, del coniuge o dei figli, quelle somme in caso di suo fallimento o debiti non potranno essere toccate dai creditori, e alla sua morte saranno liquidate ai beneficiari fuori dall’asse ereditario. Anche prima della morte, molte polizze vita hanno valore di riscatto e funzioni di investimento; finché restano “polizza” sono impignorabili. Questo strumento viene talvolta usato come rifugio patrimoniale. Ovviamente, se uno all’improvviso versa cifre enormi in una polizza mentre i creditori lo incalzano, potrebbero contestare l’operazione come atto in frode (specie se i premi sono sproporzionati rispetto al suo patrimonio residuo: ex art. 1923 c.c. ultimo comma, la legge stessa prevede che la regola impignorabilità non si applica se i premi pagati sono manifestamente eccessivi rispetto alle possibilità del debitore, lasciando intendere che c’è frode). Però un accumulo graduale e coerente di risparmio in polizze è generalmente considerato lecito.

Altri strumenti: – Intestazione fiduciaria di beni a terzi di fiducia (es. a una società fiduciaria o a un parente). Questo di per sé non sottrae il bene all’esecuzione se il fiduciante ne rimane il reale proprietario (il creditore può farsi dichiarare che la fiducia è fittizia e far valere i suoi diritti). È rischioso e può configurare simulazione. Non consigliato, se non in contesti molto specifici. – Patti di famiglia: se l’imprenditore volesse trasmettere l’azienda (o partecipazioni) ai figli, il patto di famiglia (artt. 768 quater c.c.) consente di farlo anticipatamente con l’accordo di tutti gli eredi legittimari. Protegge poi dalle rivendicazioni ereditarie. Non incide però sui creditori estranei: se l’imprenditore trasferisce l’azienda al figlio e poi ha debiti, i creditori possono comunque agire su quell’azienda in mano al figlio con revocatoria se era atto gratuito. – Esdebitazione del debitore incapiente (fresh start): non è esattamente uno strumento preventivo di protezione, ma è un istituto nuovo (art. 282 CCII e seguenti) che consente alla persona fisica sovraindebitata senza beni di ottenere la cancellazione di tutti i debiti una tantum . In pratica, se uno è nullatenente e non ha prospettive di soddisfare creditori, può ricorrere al tribunale per farsi esdebitare senza neanche passare per la liquidazione controllata (una sorta di “fallimento zero asset”). È l’extrema ratio, ma dà l’idea che l’ordinamento vuole comunque dare la chance di ripartire da capo, anche quando i creditori rimangono insoddisfatti.

Attenzione alle condotte fraudolente: spesso, in situazioni disperate, si vedono debitore compiere atti come: – vendere a parenti a prezzo stracciato i propri beni (magari data come vendita ma in realtà regalo), – prelevare contanti dal conto e farli sparire, – creare debiti fittizi verso amici per simulare pagamenti preferenziali, – gonfiare passività o distruggere documenti.

Queste condotte possono portare a sanzioni gravissime: – Revocatoria: i curatori possono far invalidare vendite a prezzi inferiori al giusto fatte nell’anno prima del fallimento a parenti etc. Presunzione di malafede. – Bancarotta fraudolenta patrimoniale: se c’è fallimento, aver distratto beni (cioè sottratti ai creditori) o aver simulato passività configura reato (punito con reclusione 3-10 anni, art. 322 CCII) . – Bancarotta documentale: se per nascondere le frodi si falsificano o si sottraggono libri contabili, c’è reato (art. 323 CCII). – Profilo fiscale: vendite sotto costo a parenti possono attrarre anche accertamenti fiscali (valore normale vs dichiarato). Insomma, meglio evitare vie illecite. Pianificare per tempo asset protection è lecito; farlo tardi e male porta quasi sicuramente peggior danno.

Consigli pratici al debitore per proteggere il patrimonio (lecitamente): – Ancor prima di indebitarsi: valutare di svolgere l’attività con forma adeguata (es. società di capitali per separare, niente firme personali se non strettamente necessarie). – Se si hanno beni personali importanti (casa, eredità di famiglia), considerare strumenti come fondo o trust quando ancora i tempi sono buoni. Una volta che l’azienda ha sintomi di crisi, quei movimenti saranno sospetti. – In fase di negoziazione/accordi, cercare di includere clausole limitative della rivalsa sui soci. Ad esempio, in un accordo di ristrutturazione con banche, provare a far inserire che le fideiussioni personali verranno liberate man mano che si rimborsa X%, o comunque negoziare la posizione del garante (magari paga qualcosa upfront in cambio dell’esonero). – Se l’impresa è condannata a fallire, considerare l’opportunità di richiedere il concordato preventivo: perché in concordato la regola è che i garanti (fideiussori) non beneficiano dell’esdebitazione e i creditori potrebbero rifarsi su di loro a meno che la proposta concordataria non preveda espressamente un trattamento anche per i creditori verso garanti. A volte il debitore riesce a includere nel concordato un soddisfacimento dei creditori a condizione che rilascino garanzie (cancello ipoteca su casa del socio etc.). Non facile, ma un professionista può studiare soluzioni. – In caso di fallimento inevitabile, collaborare col curatore può evitare aggressioni e istanze di estensione del fallimento a soci o società correlate (es. evitare che parlino di “supersocietà di fatto” – c’è giurisprudenza su fallibilità di holding di fatto col fallimento soci se c’è confusione totale) .

In conclusione, proteggere il patrimonio è possibile ma va fatto legalmente e con trasparenza. Strumenti come trust, holding, fondi patrimoniali funzionano se attivati con anticipo e per scopi leciti (pianificazione familiare, efficienza aziendale) . Se vengono improvvisati come difesa estrema quando i creditori bussano alla porta, saranno spazzati via dai rimedi giuridici.

L’imprenditore accorto, assistito dall’avvocato, deve bilanciare il legittimo desiderio di salvaguardare i propri cari e il frutto di anni di lavoro con il rispetto delle regole e dei diritti altrui. Fortunatamente la legge, con adeguata programmazione, consente di coniugare entrambe le esigenze (ad es. utilizzando il trust per assicurare un tetto alla famiglia, ma continuando a usare le altre risorse per pagare i debiti). Chi invece cerca scorciatoie, come spogliarsi in extremis dei beni, finirà spesso per perdere sia i beni (recuperati dai creditori) sia la reputazione e la libertà (rischiando condanne penali).

Responsabilità degli amministratori: profili civili e azioni di responsabilità

Quando un calzaturificio precipita nei debiti, la condotta di chi l’ha amministrato viene inevitabilmente scrutinata. Gli amministratori (titolari dell’impresa individuale o amministratori di società) possono essere chiamati a rispondere personalmente per le scelte compiute, sia verso la società stessa e i soci, sia direttamente verso i creditori, specialmente se hanno aggravato il dissesto o violato doveri legali. Si aprono così due fronti: – Le azioni di responsabilità civili (spesso promosse dal curatore fallimentare o dai creditori in concorso) per ottenere il risarcimento dei danni causati dagli amministratori con gestione imprudente o illecita. – Le conseguenze penali in caso di condotte dolose (ad es. distrazioni di beni, false comunicazioni, etc., di cui parleremo nella sezione successiva).

Qui ci concentriamo sulla responsabilità civile/concorsuale degli amministratori nei confronti dei creditori sociali e della società, disciplinata principalmente dal Codice Civile e dal Codice della Crisi.

Dovere di conservazione del patrimonio sociale e “wrongful trading”

Il principio base è che gli amministratori di società di capitali (Srl, Spa) hanno, per legge, il dovere di gestire nell’interesse della società e, in caso di crisi grave, di conservare il patrimonio sociale evitando atti che possano pregiudicare ulteriormente la garanzia dei creditori. Quando la società subisce una perdita tale da ridurre il capitale al di sotto dei minimi legali, scatta una causa di scioglimento (art. 2484 c.c.): da quel momento, gli amministratori devono astenersi da nuove operazioni e limitarsi alla gestione ordinaria finalizzata alla conservazione dell’integrità del patrimonio (art. 2486 c.c.) . Se essi ignorano tale obbligo e proseguono l’attività incorrendo in nuovi debiti o dissipando risorse, possono essere chiamati a risponderne.

Azione dei creditori sociali (art. 2394 c.c. per Spa, 2476 c.c. per Srl): quando il patrimonio della società risulta insufficiente a soddisfare i creditori (tipicamente in caso di insolvenza/fallimento), i creditori possono agire contro gli amministratori se il depauperamento patrimoniale è dovuto a violazioni dei doveri da parte di questi ultimi. In pratica, è la cosiddetta responsabilità per “mala gestio” a tutela dei creditori: se gli amministratori hanno aggravato il dissesto (o non hanno impedito che si aggravasse potendolo fare), i creditori possono chiedere il risarcimento del danno corrispondente alla differenza di attivo che avrebbero trovato in caso di gestione diligente.

Questa azione spesso è esercitata dal Curatore fallimentare in via unitaria (ex art. 146 L.F., ora art. 255 CCII) per conto di tutti i creditori . Non a caso, nel fallimento del calzaturificio, il Curatore quasi sempre valuta se sussistono estremi per citar gli amministratori in giudizio, con l’accusa ad esempio di: – aver tardato la declaratoria di fallimento, continuando l’attività in perdita e aumentando il buco verso i creditori (c.d. wrongful trading, non tipizzato come in UK ma ricavato dalla combinazione di doveri civilistici). Cass. 6893/2023 sopra citata ne è esempio : “atti gestori non conservativi dopo causa scioglimento -> danno risarcibile ai creditori”. – aver distratto risorse: es. pagato dividendi nonostante perdite, venduto beni sottocosto a parti correlate, etc. – aver omesso di reagire alla crisi: qui il nuovo art. 2086 c.c. e art. 3 CCII fungono quasi da standard di diligenza. Un amministratore che ignora i segnali di allerta e non prende misure potrebbe essere accusato di aver agito con colpa grave. – violazione di obblighi di legge specifici: ad es. non aver convocato l’assemblea per riduzione capitale ex art. 2482-bis c.c., o non aver depositato istanza di concordato o fallimento quando l’insolvenza era manifesta.

Criteri di quantificazione del danno: come già menzionato, il CCII (art. 378) ha inserito criteri presuntivi proprio per semplificare la prova del danno : – Salvo prova di diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra patrimonio netto alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento (o al momento in cui doveva essere presentata domanda concordato/fallimento) e patrimonio netto alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale, aumentata dei costi sostenuti nell’arco temporale intermedio che non ci sarebbero stati (ad es. perdite operative ulteriori, pagamenti di stipendi, forniture, ecc.). – Alternativamente, se maggiore, la differenza tra l’ammontare dei debiti alla data di apertura della procedura e l’ammontare dei debiti alla data della causa di scioglimento.

In termini semplici: se la società ha perso 100 di patrimonio per aver continuato 1 anno oltre il dovuto, quello è il danno presunto. Oppure se i debiti sono passati da 500 a 800, quel delta 300 può essere preso a riferimento. Questo meccanismo (operativo dal 2019) evita di dover provare nel dettaglio ogni singolo atto dannoso; basta dimostrare che gli amministratori hanno proseguito illegittimamente l’attività oltre il punto di non ritorno e quantificare il peggioramento globale.

Cassazione 5252/2024 ha proprio confermato che a giudizi pendenti si applica il criterio dei “netti patrimoniali” introdotto dall’art. 378 CCII, salvo circostanze che giustificano criterio diverso. Quindi i tribunali applicano ormai questa presunzione a carico degli amministratori incolpati.

Business Judgment Rule vs. irragionevolezza: va detto che se la gestione prima della crisi rientrava in scelte imprenditoriali anche rischiose, in generale gli amministratori non ne rispondono se non in presenza di dolo o colpa grave (principio della insindacabilità del merito delle scelte di gestione, la c.d. Business Judgment Rule). Cass. 10742/2024 ne ha parlato rafforzando che l’immunità della BJR cessa quando la scelta è manifestamente avventata o contraria a logica economica (es. investire in un progetto senza alcuna due diligence) . Quindi i giudici non puniscono l’insuccesso in sé, puniscono l’irresponsabilità manifesta.

Ma nel momento in cui c’è uno stato di crisi conclamato, le scelte di continuare ad assumere obbligazioni sono di norma considerate quantomeno colpose se non supportate da reali prospettive di salvezza (diverso se quell’indebitamento serve per tentare un vero risanamento ragionevole, ma bisogna provare che c’era un piano plausibile). Il confine tra tentativo di risanamento e aggravamento colposo è fine: sta alla saggezza dell’amministratore valutare quando fermarsi. La giurisprudenza mostra poca tolleranza per amministratori che “tirano a campare” sperando nel miracolo, accumulando debiti su debiti: in quei casi li riterrebbe responsabili.

Un orientamento pregresso distingueva: se l’amministratore prova che la continuazione dell’attività era orientata a evitare il tracollo e c’erano concrete chance (anche se poi fallite), può andare esente; se invece appare come mera dilazione dell’inevitabile, con contestuale dissipazione di attivo, ne risponde.

Soggetti coinvolti: oltre agli amministratori di fatto o di diritto, possono rispondere: – I direttori generali (nelle Spa con tale figura) per le scelte gestionali. – I membri del collegio sindacale se omettono di vigilare e impedire irregolarità (ex art. 2407 c.c.). Ad esempio, Cass. 23659/2023 ha statuito che la prescrizione dell’azione contro gli amministratori decorre dal fallimento presuntivamente, salvo prova che il danno si manifestò prima, e implicito è che sindaci e amm. sono chiamati in solido . Cass. 31753/2024 ha escluso dal passivo compenso del sindaco inadempiente, ma potrebbe avere rilevanza anche su risarcimenti dovuti . – Amministratori non esecutivi o dimissionari: se partecipi. Cass. 29844/2024 (ordinanza) pare abbia affermato maggiore coinvolgimento dei non esecutivi, se sapevano di atti dannosi e non fecero nulla . – Soci di Srl: ex art. 2476 c.c. comma 7, anche i soci di Srl che abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato atti pregiudizievoli rispondono verso creditori. Quindi, se in Srl vi è un socio di maggioranza “padre-padrone” che di fatto dirige le operazioni portando a dissesto, il curatore può citare pure lui.

Esempi concreti di atti che generano responsabilità: – Continuare a ordinare merci dai fornitori quando si sa già di non poterle pagare (configura comportamento in malafede, e i fornitori potrebbero ottenere risarcimento per credito sorto in quell’ultima fase). – Pagare preferenzialmente un creditore ipotecario con soldi che sarebbero serviti anche agli altri: i creditori chirografari potrebbero dire che quell’esborso ha leso la garanzia comune (in sede fallimento, potrebbe essere revocato; in sede di responsabilità, curatore può contestarlo come atto distrattivo, anche se fatto prima del fallimento). – Non tenere contabilità o tenerla caotica così da rendere impossibile ricostruire movimenti: oltre a essere reato di bancarotta, in sede civile porta presunzione di colpa grave, perché l’amministratore ha violato obblighi di legge fondamentali e generalmente si stima che dall’assenza di conti derivi occultamento di perdite. – Non attivare strumenti di allerta: se l’impresa supera soglie di debito e riceve segnalazioni, e l’organo amministrativo resta fermo, come visto, questo potrebbe essere addotto come colpa grave successiva. Ad es. un sindaco inerte dopo allerta potrebbe essere co-responsabile (Cass. 255/2024 – su oneri probatori verso organo controllo, indicando che vanno vigilare efficacemente ).

Procedura: di solito, in fallimento, il curatore promuove l’azione in tribunale fallimentare. Se la società non fallisce, i creditori avrebbero legittimazione individuale solo se il patrimonio è insufficiente e se gli atti sono stati dolosi (art. 2394 c.c. in bonis è più difficile da esercitare, perché finché c’è patrimonio non c’è danno attuale). In concordato, durante la procedura, i creditori possono promuovere l’azione di responsabilità? In genere no, perché passa al commissario l’iniziativa? Il CCII ha qualche norma per procedure diverse: per concordato preventivo non credo ci sia surroga, però all’omologa di un concordato i creditori non perdono eventuali diritti risarcitori verso amministratori. Infatti Tribunale di Firenze 8/1/2025 ha osservato che nel comparare concordato vs liquidazione va considerato anche l’eventuale valore di azioni di responsabilità attivabili in fallimento ma non nel concordato (ossia, i creditori devono sapere che scegliendo concordato rinunciano al curatore che fa causa agli amministratori – anche se potenzialmente potrebbero farla loro, ma in concordato spesso rimane lettera morta).

Quindi, paradossalmente, per l’amministratore scorretto potrebbe convenire spingere per un concordato che includa esoneri di responsabilità – anche se legalmente non può prevenire l’azione risarcitoria con concordato, la prassi insegna che raramente i creditori agiscono da soli post-concordato.

Per il debitore amministratore onesto: sapere tutto ciò aiuta a: – Agire diligentemente durante la crisi, documentando le decisioni (verbali CDA che motivino la continuazione come in buona fede e temporanea, piani etc.). – Limitare i danni quando vede che non c’è speranza, per tagliare la linea temporale di eventuale responsabilità. Cioè, depositare una domanda di concordato/fallimento tempestiva per “cristallizzare” la situazione, invece di accumulare altri buchi. – Chiedere ai soci finanziatori di rinunciare ai crediti (trasformarli in capitale), perché così riduce l’insufficienza patrimoniale e quell’apporto non è revocabile e può essere a suo favore come atto di mitigazione. – Attivare tutti gli strumenti di allerta e composizione possibili: se amministratore utilizza la composizione negoziata e poi fallisce, potrà dire “io ho provato ogni cosa, chiamato esperto etc., non sono stato negligente”. – E ovviamente non appropriarsi di nulla (neanche un’auto aziendale dismessa), non favorire nessun creditore di testa sua, non occultare informazioni al collegio sindacale o ai creditori.

In conclusione, la responsabilità civile degli amministratori funge da “rete di protezione” per i creditori, ma scatta ex post. Dal lato pratico, per i creditori (fornitori, banche) è spesso complicato e costoso agire contro amministratori, a meno di avere la sponda del curatore in fallimento. Tuttavia, il timore di queste azioni dovrebbe dissuadere gli amministratori dal comportarsi in modo spregiudicato. L’imprenditore-debitore, se vuole difendersi, deve poter dimostrare di aver gestito la crisi con trasparenza, prudenza e professionalità. Se lo fa, difficilmente sarà condannato, anche se l’impresa è fallita: i tribunali riconoscono che non tutte le crisi sono evitabili, ma puniscono chi ci sguazza o la peggiora volontariamente o colposamente.

Profili penali nella crisi d’impresa

Oltre alle conseguenze civilistiche, la crisi di un’azienda indebitata può sfociare in responsabilità penali per l’imprenditore e gli amministratori. L’ordinamento prevede specifici reati fallimentari e societari volti a reprimere condotte fraudolente o gravemente imprudenti che ledono la massa dei creditori. Nel contesto di un calzaturificio con debiti, è fondamentale che chi lo gestisce sia consapevole dei comportamenti che possono configurare reato, sia per evitarli, sia per predisporre adeguate difese se viene mosso qualche addebito.

I reati più rilevanti sono quelli storicamente noti come reati di bancarotta (fraudolenta o semplice) disciplinati nella vecchia Legge Fallimentare e ora trasfusi nel Codice della Crisi, art. 322 e seguenti . Questi reati scattano in genere a seguito di una procedura concorsuale (liquidazione giudiziale, o anche concordato preventivo omologato per alcune ipotesi minori). Ci sono poi reati “di pericolo” anticipati, come l’omesso versamento di imposte, che prescindono dal fallimento. Vediamoli in dettaglio:

Bancarotta fraudolenta patrimoniale

È forse il reato-simbolo delle crisi d’impresa: punisce l’imprenditore (fallito) che distrugge, occulta, distrae o dissimula parte dell’attivo, ovvero sottrae o distrae beni spettanti ai creditori, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori stessi . Tradotto: se l’amministratore nasconde soldi all’estero, vende beni della società e ne porta via il ricavato, regala asset a parenti, falsifica crediti inesistenti per far risultare meno attivo – tutto ciò è bancarotta fraudolenta patrimoniale. La pena attuale (art. 322 CCII) è reclusione da 3 a 10 anni.

Alcune situazioni tipiche: – Distrazione di beni: l’esempio classico è l’amministratore che preleva denaro o cespiti dall’azienda e li usa per fini personali o li trasferisce a terzi senza giustificazione economica (es. fa uscire soldi con fatture false). Non importa se li destina a sé o ad altri: togliere risorse dalla massa a danno dei creditori è sufficiente. – Preferenze dolose: se un pagamento preferenziale è fatto con modalità fraudolente può integrarla (ad es. restituire in segreto finanziamenti soci per favorire i soci). – Formazione di crediti simulati: creare debiti fittizi (magari retrodatandoli) per far sparire attivo sotto la parvenza di pagamenti a creditori inesistenti.

Un aspetto molto attuale riguarda la restituzione dei finanziamenti soci: come abbiamo visto con Cass. 27259/2025 , la Cassazione penale ritiene che rimborsare i soci finanziatori in situazione di dissesto configuri bancarotta fraudolenta per distrazione, equiparando quei finanziamenti a capitale di rischio che non doveva essere restituito . Questo supera il vecchio orientamento che vedeva nella restituzione ai soci solo una bancarotta preferenziale: ora si punisce come condotta fraudolenta perché priva la massa di risorse in favore di soggetti (i soci) che non ne avevano diritto prima degli altri, data la postergazione ex art. 2467 c.c. . Insomma, pagare i soci prima del fallimento è un tabù: può costare l’accusa di bancarotta distrattiva.

Altro esempio: se l’amministratore ha venduto un macchinario sotto costo a un amico poco prima del fallimento e poi quell’amico gliene restituisce l’utilità (magari glielo affitta), viene considerata una frode (distrazione del valore reale del bene in danno dei creditori).

Bancarotta fraudolenta documentale

Prevede condotte relative ai libri e scritture contabili: l’amministratore che occulta, distrugge, falsifica in tutto o in parte i libri contabili o li tiene in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento d’affari, commette bancarotta fraudolenta documentale (pena 3 a 8 anni, art. 322 co.2 CCII). Questa fattispecie punisce chi “spezza il termometro” per non far vedere la febbre. Anche qui serve il fallimento perché si manifesti il reato (prima è solo un’irregolarità amministrativa/tributaria). La Cassazione è severa: ad esempio, è stata ritenuta bancarotta documentale anche l’omessa tenuta del libro giornale per più anni con mancanza delle fatture, perché rende impossibile ai creditori e al curatore capire dov’è finito l’attivo.

Per l’imprenditore in crisi, è fondamentale continuare a tenere le scritture in ordine anche in difficoltà. Non cedere alla tentazione di “perdere la contabilità” credendo di far sparire tracce: ciò aggrava la posizione penale e non impedisce al curatore di cercare diversamente informazioni (e presumere distrazioni se mancano dati).

Bancarotta preferenziale

Diversa dalla fraudolenta patrimoniale, punisce l’imprenditore che, in stato di insolvenza già esistente, favorisce alcuni creditori a danno di altri con atti non di ordinaria amministrazione. Esempio: paga integralmente un fornitore “amico” mentre ne lascia altri impagati, in previsione di fallimento. La ratio è tutelare la par condicio creditorum. È prevista dall’art. 323 CCII come ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria (impropria nel senso che manca l’elemento della distrazione in proprio, ma c’è pur sempre l’evento di danneggiare la massa). La pena è un po’ inferiore (1-5 anni se non è compiuta con altri fatti fraudolenti più gravi).

Tuttavia, come visto sopra, la giurisprudenza tende a ricondurre molte condotte preferenziali gravi comunque nell’alveo più severo della bancarotta distrattiva, specie se c’è connotazione dolosa forte (ad es. restituire soci è considerato distrazione, non mera preferenza) .

Bancarotta semplice

È la forma “colposa” di bancarotta (art. 324 CCII): punisce con pena più lieve (fino a 2 anni) l’imprenditore fallito che, senza frode, ha però: – Aggravato il dissesto per imperizia o negligenza grossolane (es. compie spese personali sproporzionate, ritarda la dichiarazione di fallimento per grave colpa). – O tenuto la contabilità in modo disordinato ma senza malizia. – O fatto operazioni gravemente imprudenti (es. ricorso abusivo al credito).

È un reato di mera colpa o anche dolo eventuale, e viene contestato spesso cumulativamente al fraudolento (in subordine). Ad esempio, l’aver continuato ad operare in perdita accumulando debiti talora viene qualificato come bancarotta semplice (perché amministratore “ha aggravato il dissesto” per spese inevitabili contratte tardivamente). Cass. 3396/2021 ha considerato “ricorso abusivo al credito” come forma di bancarotta semplice: cioè aver continuato a indebitarsi presso terzi quando si sapeva di non poter restituire (anche se non c’è appropriazione, è condotta colposa rispetto all’aumento passivo).

Dunque, se l’imprenditore pur senza rubare nulla aggrava il buco con condotta spericolata, può incorrere in bancarotta semplice.

Altri reati fallimentari

Ci sono fattispecie ulteriori: – Bancarotta da reati societari: es. false comunicazioni sociali aggravate da fallimento. Se l’amministratore aveva falsificato i bilanci (reato di false comunicazioni, art. 2621 c.c.) e poi fallisce, può rispondere di bancarotta fraudolenta impropria (art. 325 CCII). – Preferenze al di fuori del fallimento: il Codice prevede come reato la violazione misure protettive (art. 344 CCII punisce chi paga creditori con misure protettive attive). – Sottrazione fraudolenta al pagamento imposte: è reato tributario (D.Lgs 74/2000 art. 11) se uno aliena o simula vendite su beni propri per rendersi insolvibile col fisco (anche prima di procedure). – Omesso deposito di bilanci o scritture in fallimento: sanzionabile come contravvenzione.

Reati tributari connessi ai debiti

Quando parlavamo dei debiti fiscali e contributivi, abbiamo menzionato: – Omesso versamento IVA oltre soglia (attualmente €250k annui): reclusione fino a 6 anni (art. 10-ter D.Lgs 74/2000). – Omesso versamento ritenute certificate oltre €150k: art. 10-bis, fino a 3 anni. – Emissione di fatture false per dedurre costi fittizi e ridurre utile (art. 8 D.Lgs 74/2000): se crisi spinge a ciò, è reato. – Sottrazione al pagamento imposte: vendere beni propri dopo notifica di cartella per non farli pignorare se importo > €50k è punito con reclusione fino a 4 anni (questo può colpire l’imprenditore che toglie liquidità dall’azienda quando arriva il debito erariale).

Procedimenti penali e difesa

L’apertura di un fallimento comporta quasi automaticamente l’avvio di un’indagine penale da parte della Procura (che riceve la sentenza dichiarativa). Un curatore ben farà esposto se nota irregolarità. Dunque, l’imprenditore deve attendersi visite delle Fiamme Gialle o richieste di documenti. A quel punto, è essenziale: – Fornire collaborazione: consegnare contabilità, spiegare eventuali mancanze (se mancano libri, indicare perché: furto? Alluvione? – serve prova). – Farsi assistere da penalista: soprattutto se emergono profili di distrazione o contabilità irregolare, meglio non improvvisare risposte da soli. – Dimostrare buona fede: se il dissesto è stato gestito con trasparenza, farlo emergere (es. l’attestatore del piano potrà testimoniare che non vide anomalie). – Restituire spontaneamente eventuali utilità: se ad esempio l’amministratore ha fatto prelievi non giustificati e ha ancora disponibilità, restituirli al curatore prima che glieli chiedano attenua di molto la sua posizione (potrebbe evitare imputazione di bancarotta fraudolenta, derubricando a semplice irregolarità sanata, e in ogni caso costituire causa di attenuante riparazione del danno).

Va segnalato che i reati di bancarotta fraudolenta sono di regola dolosi: serve l’intento di frode. Se l’imprenditore dimostra di non aver avuto consapevolezza e volontà di danneggiare i creditori (magari confuse mala gestio più colposa), potrebbe spuntare una qualificazione in bancarotta semplice (che essendo contravvenzione può persino estinguersi per prescrizione più breve). Invece se emergono atti decisi e lucidi di occultamento beni, c’è poco da fare: difficile convincere che non era voluto.

Cass. 22291/2020 citata in articoli ha ribadito che nel cram-down concordatario il giudice deve valutare convenienza per creditori: rilevante ai fini penalistici per dire che se piano concordato non rispetta priorità e è omologato con inganno, amministratore potrebbe incorrere in atti in frode (che in sede fallimento sarebbero stati bancarotta). Quindi anche in concordato c’è rischio penale: art. 236 L.F. prevedeva reato di “attentato ai diritti dei creditori” se con mezzi fraudolenti si otteneva l’approvazione di un concordato. Nel CCII bisognerà vedere se analogamente puniscono atti in frode in concordato (prima c’era art. 236 L.F. con pena fino a 5 anni). Sì, art. 344 CCII punisce con reclusione fino a 2 anni chi compie atti in frode durante procedure di regolazione crisi, inclusi concordati.

In sintesi per l’imprenditore:Non rubare, non nascondere, non mentire. Può sembrare morale ovvio, ma molti in panico fanno sciocchezze credendo di salvare qualcosa – in realtà peggiorano la propria condizione di molto. – Tenere contabilità regolare. Anche se emergono buchi, registrarli: è preferibile presentarsi con libri a zero cassa e ammettere la perdita, che far sparire libri per non far vedere e poi essere incriminati. – Consultare un penalista non appena scatta l’ipotesi fallimento, per predisporre la strategia: ad esempio, se c’è il rischio di reato, valutare di patteggiare, di risarcire i creditori per avere attenuanti, ecc. – Le soglie di punibilità tributaria: tenerle a mente come limiti da non oltrepassare se possibile (ad es. se a dicembre vede che l’IVA annua evasa arriverà a 270k, provare almeno a versare 30k prima fine anno per scendere sotto soglia penale – ragionamento opportunistico ma legittimo).

In conclusione, i profili penali rendono ancora più importante gestire la crisi con rigore e trasparenza. Un calzaturificio indebitato dovrebbe affrontare la situazione come se ogni sua mossa fosse un domani vivisezionata in un’aula di tribunale – agendo dunque in modo da poter spiegare e giustificare tutto. Così facendo, anche qualora l’epilogo sia il fallimento, l’imprenditore avrà ridotto al minimo i rischi di dover rispondere penalmente, potendo magari chiudere solo con una bancarotta semplice (che spesso viene dichiarata prescritta visti i tempi lunghi delle procedure) o addirittura senza alcuna imputazione se non emergono irregolarità significative.

Domande frequenti (FAQ)

Domanda: “La mia S.r.l. calzaturiera è piccola: posso essere dichiarato fallito (liquidazione giudiziale) per qualsiasi importo di debito?”
Risposta: No. La legge esclude la liquidazione giudiziale per imprese sotto certe soglie dimensionali e con debiti modesti. Se negli ultimi 3 esercizi la tua azienda non ha superato almeno uno di questi limiti – attivo €300.000, ricavi €200.000, debiti €500.000 – essa è considerata “non fallibile” (piccolo imprenditore) . Inoltre, non si apre alcuna procedura di liquidazione giudiziale se i debiti scaduti sono inferiori a €30.000 . In pratica, le micro-imprese e le ditte individuali di dimensioni minime non possono essere soggette al fallimento ordinario; i creditori in quel caso possono agire solo individualmente, oppure si possono utilizzare le procedure di sovraindebitamento (oggi chiamate concordato minore o liquidazione controllata). Ad esempio, se il tuo calzaturificio individuale ha €50.000 di debiti e rientra nelle soglie dimensionali, un creditore non può chiederne la liquidazione giudiziale, ma tu potresti comunque accedere volontariamente a una procedura di liquidazione controllata dei beni per liberartene. Attenzione però: se hai garantito personalmente i debiti di una S.r.l., anche se la S.r.l. fosse “non fallibile”, i creditori potrebbero aggredire te personalmente senza bisogno di far fallire la società.

Domanda: “Ho debiti con fornitori e banche. È meglio tentare un accordo stragiudiziale o andare subito in concordato preventivo?”
Risposta: Dipende dalla gravità della situazione e dal livello di fiducia che riesci a stabilire con i creditori. In generale, conviene provare prima un accordo stragiudiziale (anche avviando una composizione negoziata) se: 1) la crisi non è ancora così profonda da rendere impossibile pagare almeno parzialmente i creditori in tempi ragionevoli; 2) hai pochi creditori principali e sono disponibili al dialogo. Un accordo privato (piano attestato o accordo ex art. 57 CCII) è più rapido, meno costoso e mantiene la tua azienda fuori dalla pubblicità di una procedura concorsuale . Tuttavia, se: 1) i debiti sono talmente elevati che solo una forte falcidia o dilazione lunga possono renderli sostenibili; 2) ci sono troppi creditori disorganizzati, o alcuni dichiaratamente aggressivi; 3) serve comunque bloccare le esecuzioni in atto – allora il concordato preventivo può essere indicato. Il concordato permette di imporre per legge ai creditori un piano, ma richiede maggioranze di voto e intervento del tribunale. Spesso la strada migliore è ibrida: tenta l’accordo stragiudiziale (magari con la composizione negoziata) e, se non tutti aderiscono, puoi trasformare quell’accordo in un concordato (hai già il piano pronto e il consenso di molti, col concordato puoi vincolare i dissenzienti). Quindi: provare prima la via negoziale, senza perdere troppo tempo però – se fiuti che i creditori non cooperano o agiscono legalmente, proteggiti col concordato (anche presentando “concordato in bianco” per ottenere subito lo stop ai creditori). Ogni caso è a sé: fatti consigliare da un professionista che valuti le reazioni dei creditori.

Domanda: “Sono amministratore di una S.r.l.: rischio qualcosa personalmente se la società fallisce?”
Risposta: Potresti rischiare sia sul piano civile che su quello penale, ma ciò dipende dal tuo comportamento nella gestione. Civilmente, potresti essere chiamato a risarcire i creditori sociali se hai aggravato il dissesto o violato i doveri di amministrazione diligente . Ad esempio, se hai continuato a fare operazioni azzardate dopo che la società era di fatto insolvente, incrementando i debiti, il curatore fallimentare potrebbe agire contro di te con un’azione di responsabilità, chiedendo un risarcimento pari all’aumento del passivo causato (oggi calcolato spesso come differenza di patrimonio netto tra il momento in cui dovevi fermarti e quello del fallimento) . Penalmente, rischi l’accusa di bancarotta: se hai distolto beni aziendali, tenuto le scritture in modo irregolare, favorito fraudolentemente qualche creditore o commesso altre irregolarità gravi, potresti essere imputato di bancarotta fraudolenta (reato punito anche con diversi anni di reclusione) . Se invece hai solo commesso imprudenze senza dolo, potresti incorrere nella bancarotta semplice (che è meno grave). D’altra parte, se hai amministrato con correttezza, senza arricchirti a scapito della società e hai preso tutte le misure tempestive (ad esempio convocato soci per ricapitalizzare, richiesto concordato appena visto l’insolvenza, consegnato i libri in ordine), non dovresti subire conseguenze personali rilevanti: la mala suerte imprenditoriale non è punita di per sé. In sintesi, rischi in prima persona solo se emergono condotte censurabili (malafede o negligenza grossolana) da parte tua nella gestione della crisi. Ricorda che come amministratore devi documentare le tue scelte e agire nell’interesse dei creditori una volta che la società è in stato di scioglimento o insolvenza conclamata, altrimenti ne rispondi . Se hai dubbi, è opportuno cercare consulenza legale prima che la situazione precipiti, per minimizzare questi rischi.

Domanda: “Ho dato fideiussioni personali su mutui e fidi bancari della mia società: posso proteggere qualche bene personale se le cose vanno male?”
Risposta: Le fideiussioni purtroppo espongono direttamente il tuo patrimonio personale: se la società non paga, la banca potrà agire contro di te (esecuzioni su stipendio, casa, conto corrente privato). Esistono però alcune mosse per limitare i danni: – Patto nel piano di ristrutturazione/concordato: se negozi con la banca una ristrutturazione del debito, chiedi contestualmente la liberazione (o riduzione) della tua fideiussione. A volte le banche accettano di liberare i garanti dopo che l’azienda ha rimborsato una certa quota di piano. Formalizza questo impegno nell’accordo . Nel concordato, puoi prevedere che ai creditori sia offerto qualcosa in più a fronte della liberazione delle garanzie personali: se accettano, l’omologa li vincola. – Strumenti protettivi anticipati: prima che la crisi emerga, valuta di mettere i beni più importanti in comunione legale (se coniuge affidabile) o in fondo patrimoniale o trust familiare . Attenzione: queste mosse devono avvenire quando ancora non ci sono debiti rilevanti con la banca, altrimenti potrebbero essere revocate o addirittura configurare reati. Se fatte con anni di anticipo e motivazioni legittime (es. tutela familiare), i beni così segregati potrebbero non essere aggredibili per debiti aziendali futuri (specie se estranei ai bisogni familiari, nel caso del fondo patrimoniale, anche se le banche spesso contestano che il credito ha finalità familiare, riducendo l’efficacia del fondo) . – Assicurazione vita o pensionistica impignorabile: allocare parte del patrimonio liquido in polizze vita o strumenti previdenziali individuali, che di norma non sono aggredibili dai creditori (entro limiti di ragionevolezza) . – Nuove garanzie per ristrutturare e liberare le vecchie: se hai qualche bene libero (es. un immobile non ipotecato intestato a un familiare), potresti offrirlo in garanzia alla banca in cambio dell’escussione limitata della tua fideiussione. Ad esempio: “metto ipoteca su questo immobile di mia moglie, e la banca rinuncia alla fideiussione su eventuali differenze”. È una trattativa difficile ma a volte praticata. – Esdebitazione personale: se tutto precipita e vieni escusso e magari fallisci come persona fisica, sappi che dopo la procedura potrai chiedere l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) e ottenere un fresh start . Non è una protezione ex ante, ma è un paracadute finale per non rimanere debitore a vita. Purtroppo, quando hai firmato fideiussioni, la protezione del tuo patrimonio è molto complicata se i debiti aziendali diventano insostenibili. L’ideale è negoziare con le banche subito un’uscita ordinata: magari vendere volontariamente qualche bene per ridurre il debito garantito (così la fideiussione scende) e ristrutturare il resto come sopra. Evita assolutamente di fare mosse tipo intestare a terzi beni all’ultimo minuto: la banca potrebbe agire con revocatoria o denuncia per sottrazione fraudolenta al fisco (estesa analogicamente anche alle banche in sede civile) . Gioca a carte scoperte con l’istituto e cerca un compromesso.

Domanda: “Se attivo la composizione negoziata con un esperto, sono obbligato poi a concludere un accordo? Cosa succede se fallisco comunque dopo?”
Risposta: La composizione negoziata è volontaria e confidenziale. Non sei obbligato a concludere un accordo con i creditori: puoi interrompere le trattative se vedi che non portano a nulla, oppure se i creditori propongono condizioni inaccettabili. L’esperto alla fine redigerà una relazione conclusiva dove attesterà l’esito (accordo riuscito, parziale o mancato). Se non si raggiunge un accordo, hai diverse opzioni: – Puoi passare a una procedura concorsuale formale (ad esempio presentare domanda di concordato preventivo, ordinario o il cosiddetto concordato semplificato per la liquidazione) . – Puoi anche lasciar decadere la procedura e valutare altre soluzioni (es. accordi bilaterali senza esperto, o attendere eventuale fallimento richiesto da creditori). Non c’è un obbligo legale di attivare concordato dopo, però considera che se l’esperto conclude che l’impresa è insolvente e non c’è accordo, lui lo segnalerà nella relazione e questo documento potrebbe essere letto da un giudice in caso di successivo fallimento. Durante la composizione, se hai ottenuto misure protettive (blocco dei creditori), queste cessano alla scadenza del periodo (massimo 6 mesi salvo proroga a 12) . Dovrai quindi a quel punto affrontare di nuovo eventuali azioni esecutive, a meno che nel frattempo tu non depositi un ricorso per concordato o liquidazione. Se successivamente la tua azienda fallisce, non subisci sanzioni per aver provato la composizione negoziata: anzi, averla attivata può giocare a tuo favore, dimostrando al tribunale fallimentare e anche in eventuali giudizi di responsabilità che hai tentato un percorso di risanamento diligentemente . In ogni caso, le informazioni emerse durante la procedura restano confidenziali: i creditori partecipanti non possono divulgarle né usarle come prove in giudizio, salvo tu dia consenso (è previsto dalla normativa). Quindi non rischi che, se fallisci dopo, i creditori usino la composizione per attaccarti (non possono, ad esempio, portare in causa proposte scartate o ammissioni fatte lì, è tutto coperto da riservatezza). In sintesi: la composizione negoziata non è un impegno a concludere, ma un tentativo assistito. Se non arriva a buon fine, sei libero di cambiare strategia (concordato, liquidazione controllata o altro), senza penalizzazioni dirette. È chiaro che se fallisci, fallisci comunque: però aver fatto la composizione può aver ridotto il dissesto (ad esempio ottenendo intanto una moratoria temporanea) e migliora la percezione che si è agito in buona fede. Quindi, niente paura nel provare questa strada: male che vada, torni al punto di partenza ma con credibilità di averci provato.

Domanda: “In un concordato preventivo, i creditori fiscali (Agenzia Entrate) e contributivi (INPS) possono subire un taglio? Come convincerli ad accettare?”
Risposta: Sì, oggi è possibile proporre un pagamento parziale anche a Erario e enti previdenziali, grazie alle norme sulle transazioni fiscali e contributive (artt. 63 e 64 CCII, ex art. 182-ter L.F.). Fisco e INPS non sono più esclusi da falcidie: si può offrire loro meno del 100%, a patto che la somma offerta non sia inferiore a quanto otterrebbero in caso di liquidazione fallimentare (principio del miglior soddisfacimento). Quindi occorre stimare quanto incasserebbero sui beni aziendali in un fallimento (tenendo conto dei privilegi) e garantire almeno quell’importo, anche se dilazionato. Ad esempio, se l’IVA privilegiata in fallimento riceverebbe 30% di soddisfo perché l’attivo è limitato, puoi proporre di pagare il 30% in concordato (o magari un po’ di più per incentivare il voto favorevole). In un concordato in continuità, puoi anche proporre di dilazionare il pagamento dei tributi fino a 6 anni dal decreto di omologa (72 mesi) e, con il correttivo 2024, persino chiedere una moratoria fino a 2 anni dall’omologa per iniziare a pagare i crediti privilegiati . Questo significa che, ad esempio, potresti iniziare a pagare l’IVA privilegiata dal terzo anno del piano, suddividendo l’importo in più rate. Per convincere Agenzia Entrate e INPS ad accettare e votare sì, devi dimostrare nel piano che la loro alternativa – la liquidazione giudiziale – sarebbe peggiore. Lo fai con l’attestazione del professionista e tabelle comparative. Se il piano rispetta il requisito (migliorativo rispetto al fallimento) e non presenta profili di inammissibilità, normalmente l’Amministrazione finanziaria aderisce (c’è una specifica procedura interna: decide un ufficio territoriale, spesso seguendo il parere dell’Avvocatura dello Stato). Negli ultimi anni AE e INPS votano sì alle transazioni fiscali se la proposta è seria e congrua. Per aiutarli a decidere: – Presenta con chiarezza i calcoli del “valore di realizzo” in caso di fallimento. – Offri il massimo che la situazione consente, eventualmente prevedendo per loro una percentuale non inferiore a quella offerta agli altri chirografari (anche se normativamente potrebbero prendere meno se privilegio degrada). – Evita di chiedere stralcio totale di IVA e ritenute, perché per legge IVA e ritenute possono essere falcidiate solo se paghi almeno il realizzo integrale del bene su cui insiste il privilegio (o dimostri che non c’è realizzo). Meglio prevedere pagamento parziale ma significativo. – Prevedi che sarai in regola col versamento corrente (il piano di concordato non può non pagare l’IVA dovuta sulle vendite correnti). La transazione fiscale deve essere approvata dai crediti erariali pari al 51% di quelli ammessi al voto per ciascuna classe erariale (praticamente, se c’è solo AE, serve il 51% del suo credito; se AE e Dogane, sommati). Quindi, di solito AE è decisiva col suo voto. Ottenere il loro assenso è spesso la chiave per l’omologa. In sintesi: sì, puoi falcidiare Fisco e INPS in concordato, ma devi offrire loro almeno quanto spetterebbe nel fallimento e persuaderli che il concordato è vantaggioso. Il professionista attestatore sarà fondamentale in ciò (la sua relazione convincerà anche i funzionari pubblici). Negli accordi di ristrutturazione (fuori dal concordato) invece serve l’adesione formale di AE/INPS alla transazione, ma anche lì valgono criteri simili di convenienza. Preparati a trattare con documenti alla mano: AE valuterà in modo tecnico, non emotivo.

Domanda: “Cos’è la ‘bancarotta preferenziale’ e posso essere incriminato se ho pagato alcuni fornitori e non altri prima del fallimento?”
Risposta: La “bancarotta preferenziale” è un reato (previsto dall’art. 323 del CCII) che si verifica quando un imprenditore, in stato di insolvenza, favorisce intenzionalmente un creditore a scapito degli altri pagando o garantendo quest’ultimo in via preferenziale, poco prima del fallimento. È in pratica l’equivalente penale dell’atto “preferenziale” revocabile: se tu, sapendo di essere al collasso, decidi di saldare integralmente il fornitore X (magari perché amico o perché minaccia cause) e lasci impagati tutti gli altri, e poi fallisci, potresti essere accusato di aver alterato la par condicio creditorum in modo doloso . La bancarotta preferenziale è punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni (fino a 2 anni se attenuata). Tuttavia, spesso le autorità valutano il contesto: se hai pagato il fornitore X perché essenziale per tenere viva l’azienda sperando di riprenderla, non per favorirlo ingiustamente, potresti cercare di dimostrare l’assenza di dolo preferenziale. Ma attenzione: la giurisprudenza odierna tende a qualificare come bancarotta fraudolenta (più grave) alcuni pagamenti preferenziali, specie se fatti verso persone correlate. Ad esempio, se hai restituito finanziamenti ai soci o pagato debiti verso una tua società collegata prima del fallimento, la Cassazione vede ciò come distrazione fraudolenta, non semplice preferenza . Quindi la condotta di pagare alcuni e non altri è sempre rischiosa in prossimità del dissesto. L’ordinamento vuole che in quella fase decisioni su chi pagare siano prese sotto controllo del tribunale (concordato) e non arbitrariamente dall’imprenditore. In pratica: se hai effettuato pagamenti selettivi negli ultimi tempi prima del fallimento, il curatore li segnalerà. Se erano pagamenti ordinari nel corso delle normali transazioni (es. hai pagato bollette, materie prime per continuare la produzione – quindi atti di gestione volti a limitare le perdite), di solito non vengono visti come preferenziali dolosi. Se invece emergono pagamenti anomali (per importo o soggetto), allora sì, potresti essere incriminato. Ad esempio: pagare la ditta di tuo cognato integralmente e nessun altro fornitore, poco prima di depositare i libri, appare come preferenza ingiustificata. Va detto che per condannare per bancarotta preferenziale serve provare la “specifica intenzione” di favorire quel creditore. A tua discolpa potresti dire: “Ho pagato quel fornitore perché altrimenti smetteva di fornirmi materiale e speravo di salvare l’impresa, non per favoritismo”. Se credibile, ciò potrebbe escludere il dolo di favor (era per tentare il risanamento, non per favorire lui su altri). In conclusione: sì, esiste il rischio penale se prima del fallimento hai fatto pagamenti preferenziali, benché minore che per altre bancarotte. Meglio sarebbe evitare qualsiasi pagamento “fuori dall’ordinario” quando sei in crisi avanzata, oppure farli solo se strettamente funzionali alla continuazione aziendale (e documentabile come tale). Se la questione emerge, fatti assistere da un legale penalista per evidenziare eventuali giustificazioni legittime dietro quei pagamenti.

Domanda: “Dopo la chiusura del fallimento o del concordato, restano dei debiti verso fornitori non soddisfatti. Io come persona fisica dovrò comunque pagarli?”
Risposta: Dipende dal tipo di procedura e dal soggetto debitore: – Se il debitore è una società di capitali (Srl, Spa): una volta chiuso il concordato o il fallimento, la società viene cancellata e cessa di esistere; i suoi debiti insoddisfatti si estinguono con essa (i creditori chirografari non possono più pretendere nulla, salvo riapertura del fallimento per attivo sopravvenuto). I soci non ne rispondono, salvo abbiano garanzie personali o salvo casi eccezionali (es. soci illimitatamente responsabili di Snc rispondono, ma di norma in Srl/SpA i soci no). Nel concordato preventivo omologato, i creditori anteriori non soddisfatti interamente restano tali solo per l’eventuale percentuale concordataria non pagata; la parte falcidiata si intende esdebitata . Quindi i fornitori, dopo aver ricevuto la percentuale concordataria (es. 30%), non possono chiedere il resto: quel debito è legalmente cancellato. – Se il debitore è una persona fisica (imprenditore individuale): nel concordato preventivo l’effetto esdebitatorio opera allo stesso modo – la parte non pagata è cancellata verso tutti i creditori chirografari. Nel fallimento (liquidazione giudiziale) tradizionale, in passato il fallito persona fisica rimaneva obbligato verso i debiti non soddisfatti anche dopo la chiusura; tuttavia, egli può ottenere l’esdebitazione presentando apposita istanza. Oggi il CCII rende questo meccanismo quasi automatico: dopo la chiusura della liquidazione giudiziale, se il fallito ha cooperato e non ci sono ragioni ostative, il tribunale gli dichiara cancellati i debiti residui . In ogni caso, decorso 3 anni dalla chiusura del fallimento, l’esdebitazione scatta (salvo revoca per comportamenti fraudolenti). C’è anche l’esdebitazione “del debitore incapiente” immediata in certe condizioni . Quindi, se tu come imprenditore individuale fallisci, hai ottime chance di uscire pulito dai debiti residui, liberandoti dall’incubo delle pretese future (naturalmente perdi ciò che è stato liquidato, ma nessuno potrà aggredirti per il restante). – Attenzione: l’esdebitazione non copre però eventuali obblighi risarcitori per illecito o debiti personali estranei alla procedura. Inoltre, per gli obblighi di garanzia: se tu eri garante di un debito sociale, la tua esdebitazione personale post-fallimento non copre il debito della società garantita (questo è un aspetto delicato e dibattuto, ma tendenzialmente la liberazione riguarda i debiti tuoi, non estingue l’obbligazione principale; i creditori sociali potrebbero rivalersi sui coobbligati non falliti). In pratica, se la procedura concorsuale va a termine regolarmente, tu (persona fisica) puoi ottenere un “colpo di spugna” sui debiti rimasti. Se sei una società, i debiti muoiono con la società stessa. Dunque, dopo aver affrontato la crisi col suo iter, hai la possibilità di ripartire senza strascichi di debiti (salvo eccezioni come debiti erariali per sanzioni pecuniarie penali o simili, che sono inderogabili, ma per fornitori e banche in genere ci si libera). È fondamentale aver tenuto un comportamento onesto perché l’esdebitazione può essere negata a chi ha commesso atti di frode o non ha collaborato. Ma supponendo correttezza, la risposta è: no, non dovrai pagare di tasca tua i debiti residui non soddisfatti dalla procedura, perché sarai legalmente esdebitato.

Tabelle riepilogative finali

Per concludere questa guida, presentiamo due tabelle di sintesi che riassumono concetti chiave discussi:

Tabella A – Strumenti per affrontare la crisi di un calzaturificio indebitato

StrumentoQuando usarloVantaggiSvantaggi/limiti
Composizione negoziata (procedura assistita con esperto)Crisi iniziale o reversibile; creditori non troppo ostili.– Azioni esecutive sospendibili (con misure protettive) <br> – Soluzione flessibile e confidenziale <br> – Possibilità di nuova finanza protetta– Esito non garantito (volontario) <br> – Non vincola creditori dissenzienti <br> – Durata limitata (6-12 mesi) poi serve altra procedura se non riesce.
Accordo stragiudiziale privato (piano attestato, accordi bilaterali)Crisi moderata; pochi creditori e unanime consenso praticabile.– Rapidità, riservatezza <br> – Nessuna pubblicità negativa <br> – Protezione da revocatoria (se piano attestato)– Richiede consenso di tutti i principali creditori (basta uno fuori per far fallire il piano) <br> – Nessun blocco legale di azioni esecutive (a meno di accordi standstill volontari).
Accordo di ristrutturazione omologato (≥60% crediti)Molti creditori, ma 60-75% disponibile a firmare; serve efficacia giuridica su dissenzienti limitati.– Vincolante dopo omologa per aderenti <br> – Azioni esecutive sospese durante omologa <br> – Possibili cram-down settoriali (banche)– I creditori “estranei” vanno pagati integralmente (no falcidia per chi non partecipa) <br> – Procedimento in tribunale (tempi medio-brevi, ma comunque mesi)
Concordato preventivo in continuitàAzienda ancora viabile operativamente; occorre ridurre debiti per proseguire attività.– Mantiene in vita l’impresa (proteggendo i posti di lavoro, l’avviamento) <br> – Taglio e dilazione debiti possibile (anche su privilegiati con condizioni) <br> – Cram-down su minoranze dissenzienti dal 2024 <br> – Esonera da responsabilità pregresse (esdebitazione) una volta eseguito– Procedura complessa, costosa e pubblica <br> – Richiede voti favorevoli maggioritari dei creditori <br> – Necessita finanza durante la procedura (per gestione corrente) <br> – Sottoposto a controllo del tribunale e commissario (perdita autonomia gestionale in parte).
Concordato preventivo liquidatorio (ordinario o semplificato post-negoziazione)Azienda non più salvabile come going concern; obiettivo evitare fallimento con liquidazione concordata di beni.– Creditori chirografari possono ottenere qualcosa in tempi più rapidi e certi rispetto al fallimento <br> – Debitore può proporre egli stesso la liquidazione, scegliendo (sotto controllo) modalità più efficienti <br> – Concordato “semplificato” non richiede voto creditori (utile se accordo impossibile)– L’attività d’impresa cessa (perdita di avviamento) <br> – Deve garantire un rispetto soglie di soddisfo minima ai chirografari (20% salvo best interest test) <br> – Nel semplificato: esito incerto perché tutto in mano al tribunale (creditori possono opporsi).
Liquidazione giudiziale (fallimento)Insolvenza irreversibile; nessun’altra soluzione tentata o praticabile.– Procedura ordinata con nomina di curatore, egual trattamento creditori privilegi stessi gradi. <br> – Possibilità di azioni di responsabilità e revocatorie per recuperare attivo a favore creditori. <br> – Dopo 3 anni il debitore persona fisica può liberarsi dei debiti residui (fresh start) .– Impresa chiude; tempi spesso lunghi per creditori <br> – Realizzo spesso basso (beni venduti forzatamente) <br> – Stigma e conseguenze per imprenditore (interdizioni temporanee, etc.) <br> – Rischio azioni penali per l’imprenditore (indagine di prassi) se emergono irregolarità.

Tabella B – Principali reati connessi alla crisi d’impresa (ambito fallimentare e tributario)

ReatoDescrizioneQuando si verificaSanzione prevista
Bancarotta fraudolenta patrimonialeDistrazione, occultamento, dissipazione di beni del debitore in danno ai creditori. Esempi: prelievo ingiustificato di cassa da parte dell’amministratore; cessione sottocosto di asset a terzi compiacenti; rimborso anticipato di finanziamenti soci (considerato distrattivo) .Dopo dichiarazione di fallimento (o liquidazione giudiziale). Richiede dolo di recare pregiudizio ai creditori. Si estende a atti compiuti nei 5 anni prima del fallimento o in periodo di crisi conclamata.Reclusione 3 a 10 anni (art. 322 CCII). <br> (Circostanze attenuanti se fatto di particolare tenuità).
Bancarotta fraudolenta documentaleFalsificazione o sottrazione delle scritture contabili, oppure tenuta dei libri in modo da non rendere ricostruibile il patrimonio e il movimento affari. Esempio: distruggere i libri sociali, tenere doppia contabilità, non annotare sistematicamente operazioni.Connessa al fallimento. Basta l’evento oggettivo (libri introvabili o illeggibili); implica dolo di impedire la ricostruzione.Reclusione da 3 a 8 anni (art. 322 co.2 CCII).
Bancarotta preferenzialePagamento o collocazione di garanzie a favore di un creditore in stato di insolvenza, con volontà di favorirlo su altri. Esempio: pagare integralmente un fornitore amico alla vigilia del fallimento, lasciando gli altri a bocca asciutta .In periodo pre-fallimentare (in frazione di tempo in cui l’impresa era già insolvente). Si consuma con la dichiarazione di fallimento (che certifica il danno alla par condicio).Reclusione da 6 mesi a 3 anni (art. 323 CCII). <br> Bancarotta preferenziale aggravata (se commessa con frode) assimilabile a bancarotta fraudolenta patrimoniale con pene più alte.
Bancarotta sempliceFatti meno gravi dovuti a colpa del debitore: aver aggravato il dissesto con spese eccessive o azzardate; non aver tenuto i libri in ordine (ma senza frode); aver tardato a chiedere il fallimento per negligenza. Esempio: imprenditore che continua attività spericolata di sperimentazione prodotti investendo denaro quando era già in perdita grave (senza voler frodare, ma con imprudenza).Con la dichiarazione di fallimento. Richiede almeno colpa grave, non scopo di frode.Reclusione fino a 2 anni (art. 324 CCII). <br> (Procedibile d’ufficio se c’è fallimento).
Omesso versamento IVA (reato tributario)Mancato versamento dell’IVA dovuta annualmente, per importo superiore a soglia (attualmente €250.000 per periodo d’imposta).Indipendente dal fallimento. Si perfeziona allo scadere del termine di versamento saldo IVA (di norma 16 marzo dell’anno successivo), se soglia superata e debito non saldato.Reclusione da 6 mesi a 2 anni (D.Lgs. 74/2000 art.10-ter). <br> Nota: pagamento integrale del debito IVA prima del giudizio estingue il reato (causa di non punibilità).
Omesso versamento ritenuteMancato versamento di ritenute certificate (es. ritenute IRPEF su stipendi) per importo > €150.000 annui.Alla scadenza del periodo di imposta.Reclusione fino a 3 anni e multa (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000). <br> (Pagamento entro termine dichiarazione successiva estingue reato).
Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposteComportamenti mirati a rendere inefficace l’azione di riscossione, come alienare simulatamente o sottoprezzare beni, creare vincoli fittizi (es. costituzione di fondo patrimoniale dolosamente, trust in frode al Fisco, ecc.), per un debito fiscale sopra €50.000.Anche al di fuori del fallimento, in qualunque momento in cui il contribuente, avendo debiti tributari, compie atti dispositivi pregiudizievoli ai creditori fiscali con dolo specifico di evadere il pagamento.Reclusione da 6 mesi a 4 anni (art.11 D.Lgs. 74/2000). <br> (Esempio: imprenditore che intesta beni a prestanome dopo aver saputo di un accertamento fiscale pesante).
False comunicazioni sociali (relativamente alle crisi)Falsificazione dei bilanci o delle relazioni per nascondere lo stato di dissesto (ad esempio, occultare perdite, sovrastimare attivo).Prima del fallimento, in bilanci o comunicazioni societarie ufficiali. Se poi interviene fallimento, si può contestare la fattispecie come causa del dissesto o come aggravante (bancarotta impropria ex art. 325 CCII).Reclusione da 3 a 8 anni se società non quotata (art. 2622 c.c. aggravata dal fallimento). <br> In caso di fallimento: possibile qualificazione come bancarotta fraudolenta impropria (stessa pena bancarotta fraudolenta).

(Tabella di riepilogo dei principali reati connessi alla gestione della crisi d’impresa e insolvenza)

Simulazioni pratiche

Per meglio illustrare come applicare i concetti trattati, immaginiamo due scenari pratici riguardanti un calzaturificio in difficoltà e vediamo quali scelte il debitore (imprenditore) potrebbe fare e con quali possibili esiti.

Caso 1: Risanamento in continuità tramite concordato in continuità
Scenario: Calzaturificio Omega S.r.l., 40 dipendenti, sede di proprietà. A causa di un calo di ordini dall’estero, accumula €2 milioni di debiti: €500.000 con fornitori, €300.000 di mutui con banca (garantiti da ipoteca su capannone), €200.000 di leasing macchinari, €400.000 di debiti fiscali e contributivi, €600.000 altri (utenze, fondo soci, ecc.). Il fatturato è sceso ma l’azienda ha ancora un portafoglio ordini e potrebbe riprendersi convertendosi all’e-commerce. Omega però non ha liquidità per acquistare materie prime e pagare gli arretrati. I fornitori minacciano cause.
Azioni del debitore: Gli amministratori di Omega attivano subito la composizione negoziata . Tramite la piattaforma, nominano un esperto indipendente. Ottenute misure protettive dal tribunale, sospendono intanto i pignoramenti dei fornitori. Con l’esperto elaborano un piano: vendere il capannone (stimato €800.000) a una società immobiliare e restare in affitto, ottenere dai soci un aumento di capitale di €100.000 e da una nuova finanziaria un prestito prededucibile di €200.000 (per capitale circolante), ridurre il personale con 10 esodi incentivati (cassa integrazione + NASpI). I creditori vengono chiamati attorno a un tavolo.
– Le banche: la banca ipotecaria acconsente a non procedere esecutivamente perché con la vendita del capannone recupererà il suo credito (si prevede di soddisfarla 100% al rogito). La società di leasing concorda che Omega continui a usare i macchinari e dilazioni 24 mesi sui canoni arretrati (aggiunti in coda al piano).
Fornitori: l’esperto negozia un accordo corale con i 5 maggiori fornitori (che hanno 60% del debito verso fornitori): Omega pagherà il 40% del dovuto in 6 rate semestrali (3 anni) e fornirà in garanzia pagherò cambiari. Ai fornitori minori Omega promette il medesimo trattamento (40% in 3 anni) e molti accettano perché vedono i principali d’accordo.
Fisco e INPS: attraverso la transazione fiscale, Omega propone di pagare integralmente l’IVA e i contributi (privilegiati) ma dilazionati in 4 anni, e stralciare sanzioni e interessi. L’Agenzia Entrate e l’INPS sono disposte a valutare ciò in sede concorsuale.
Dopo 3 mesi di trattative, tuttavia, un paio di piccoli fornitori e un creditore finanziario minore rifiutano. Per avere certezza e coinvolgere tutti, l’esperto suggerisce di “cristallizzare” l’accordo in un concordato preventivo in continuità. Omega allora deposita ricorso di concordato, allegando il piano oramai definito e le adesioni della maggioranza dei creditori. Il piano prevede: vendita capannone (banche ipotecarie soddisfatte 100%), affitto per continuare attività, continuità per 5 anni, pagamento ai chirografari del 40% in 3 anni (come da accordi), pagamento integrale di IVA e contributi in 4 anni . I dipendenti residui (30) sono garantiti. Il Tribunale ammette la società al concordato. I creditori votano per classi: banche (classe 1) approvano, fornitori (classe 2) approvano all’80% dei crediti, Fisco e INPS (classe 3 privilegiati degradati per la parte chirografa) votano sì perché ottengono più del 20% e comunque quanto avrebbero in fallimento (stimato 15%). Il concordato è quindi approvato. Un creditore non aderente contesta in opposizione che i soci trattengano 20% di quote – ma il giudice respinge l’opposizione notando che i soci hanno apportato equity e che il piano rispetta il best interest test (quel creditore chirografo non avrebbe preso nulla in fallimento, ora prende 40%). Grazie anche alla nuova norma sul cram-down interclassi, eventuali dissensi nella classe 3 non impediscono l’omologa perché nessuna classe inferiore riceve di più .
Esito: Il concordato viene omologato. Omega esegue il piano: vende il capannone, paga le banche; con la finanza ottenuta, riavvia la produzione su commessa e genera utili; paga puntualmente le 6 semestralità ai fornitori e le rate fiscali. Dopo 3 anni tutti i chirografari hanno avuto il 40%. L’azienda torna profittevole. Il tribunale dichiara chiuso il concordato. I debiti residui 60% verso i fornitori sono legalmente cancellati . Omega prosegue l’attività su scala ridotta (in affitto) ma con bilancio risanato. Gli amministratori hanno evitato azioni di responsabilità (hanno agito diligentemente) e nessun reato è contestato (tutte le operazioni sono state autorizzate nel concordato, nessun occultamento). I fornitori, pur sacrificati, hanno apprezzato recuperare 40% invece di quasi zero. I soci hanno perso l’immobile ma salvato la società e mantengono la proprietà dell’azienda risanata.

Caso 2: Liquidazione e protezione del patrimonio del titolare
Scenario: Mario Bianchi è titolare di un calzaturificio individuale (ditta individuale). La crisi di mercato e investimenti errati lo portano all’insolvenza con €500.000 di debiti: €150.000 con fornitori, €50.000 con dipendenti (TFR e retribuzioni arretrate), €80.000 banca (scoperto di c/c garantito da ipoteca su laboratorio di sua proprietà), €60.000 leasing macchinari (valore residuo macchinari 40k), €100.000 debiti fiscali (IVA non versata) e €60.000 altri (bollette, privati). Ha 3 figli e è sposato; la casa di abitazione è in comunione dei coniugi. Mario capisce che non potrà risanare l’azienda – troppo debito e mercato in calo – e decide di cessare l’attività.
Azioni del debitore: Mario, consigliato dal suo legale, opta per la liquidazione controllata (procedura di sovraindebitamento) perché come piccolo imprenditore sotto soglie non è fallibile . Presenta al tribunale un piano di liquidazione: metterà in vendita il laboratorio (valore stimato €120.000) e i macchinari (€30.000 all’asta). Propone di soddisfare con il ricavato ipoteca della banca (80k rimasti + interessi) e in parte i privilegiati (dipendenti e Fisco). Nel frattempo, per tutelare la famiglia, prima di avviare la procedura lui e la moglie costituiscono un fondo patrimoniale su casa coniugale (valore €180.000) destinandola ai bisogni della famiglia . Ciò avviene quando ancora nessun creditore ha pignorato l’abitazione (ma vi sono i debiti in essere, noti ai creditori). La liquidazione controllata viene aperta; un liquidatore nominato vende il laboratorio e macchinari: ricava €130.000 netti. Distribuisce: banca ipotecaria €80.000 (soddisfatta interamente ipoteca), dipendenti ~€30.000 (60% dei loro crediti privilegiati), Erario €20.000 (IVA in privilegio prende parziale, altri tributi zero). Fornitori e altri chirografari nulla. Dopo due anni la procedura si chiude, avendo liquidato tutto l’attivo disponibile. Mario collabora sempre, consegna documenti e non nasconde nulla.
Esito: I creditori chirografari rimangono insoddisfatti, ma Mario chiede ed ottiene l’esdebitazione dal giudice : tutti i debiti residui (€… circa 300k non pagati) vengono cancellati. Ciò permette ai creditori di non perseguitarlo in futuro. La banca e i privilegiati non soddisfatti integralmente non possono rivalersi sulla casa di abitazione, perché quella è nel fondo patrimoniale: i debiti verso banca e fornitori sono stati contratti per l’attività d’impresa di Mario, che la giurisprudenza tende a considerare attività estranea ai bisogni familiari (quantomeno i fornitori sì, per la banca c’è dibattito ma essendo credito d’impresa probabilmente rientra tra quelli estranei) . Inoltre, il fondo è stato costituito prima della liquidazione, ma i creditori potrebbero tentare la revocatoria sostenendo che fu fatto in frode (debiti già esistenti). Nel frattempo però la casa è protetta (2929-bis c.c. permetterebbe un pignoramento rapido, ma solo per crediti sorti prima e con atto gratuito: nel nostro caso, molti debiti erano antecedenti, quindi un creditore insoddisfatto potrebbe provare a pignorare la casa nonostante il fondo) . Dato che i creditori maggiori hanno partecipato alla procedura, è possibile che nessuno agisca in revocatoria (costosa e Mario ormai esdebitato). Mario e famiglia mantengono la casa. In aggiunta, anni prima Mario aveva stipulato polizze vita intestate ai figli per €50.000 totali; quei capitali sono rimasti intoccabili durante la liquidazione (liquidatore non ha potuto chiederli) . Dunque Mario, pur avendo perso l’azienda e i beni strumentali, è riuscito a salvare il patrimonio familiare fondamentale e può ripartire da zero senza debiti. Da notare che se invece Mario avesse venduto la casa alla sorella per €50.000 prima della procedura, quell’atto sarebbe stato sicuramente revocato come atto in frode e forse integrato reato; usando invece strumenti leciti (fondo patrimoniale), ha agito entro i margini consentiti – anche se al limite, dato il potenziale intervento ex art.2929-bis. Sul piano penale, essendo una liquidazione da sovraindebitamento (non fallimento), i reati di bancarotta non si applicano tecnicamente. In ogni caso, Mario non ha compiuto distrazioni dolose (ha messo tutto a disposizione tranne la casa familiare vincolata lecitamente), né vi sono reati tributari perché i debiti IVA sono stati in parte pagati e per l’omesso versamento residuo sotto soglia (20k su 100k). Quindi Mario non subirà sanzioni penali. Il curatore potrebbe al più valutare revocatoria del fondo se fosse fallimento, ma nella procedura minore il liquidatore può analogamente agire: tuttavia la casa è cointestata moglie e poi fondo – fattibilità di revoca complicata e valore per i creditori relativo (potevano già pignorarla in teoria prima ma non l’hanno fatto). In sintesi, Caso 2 mostra come in un contesto di chiusura, l’imprenditore persona fisica possa orientarsi su una liquidazione ordinata – evitando comportamenti fraudolenti – e utilizzare ex ante meccanismi di segregazione per non perdere tutto. Ha comunque sacrificato beni all’impresa e accettato la liquidazione controllata (non ha nascosto il laboratorio, l’ha venduto) e in cambio l’ordinamento lo premia con l’esdebitazione e la conservazione del minimo vitale (la casa). I creditori sono rimasti in parte insoddisfatti, ma avrebbero ottenuto ancor meno da esecuzioni scoordinate. In più, i dipendenti hanno ricevuto parte del dovuto subito (e il resto potranno ottenerlo dal Fondo di Garanzia INPS). È un esito di liquidazione negoziata con la legge, che bilancia le perdite.

Conclusione: Abbiamo esplorato molteplici aspetti del “calzaturificio con debiti: cosa fare e come difendersi”. In sintesi, dal punto di vista del debitore è fondamentale non subire passivamente la crisi ma attivarsi con gli strumenti a disposizione: dal dialogo coi creditori alle procedure formali, dalla riorganizzazione interna alla tutela dei beni personali lecita. Ogni fase (prevenzione, emergenza, regolazione, chiusura) ha strumenti dedicati nel 2025, grazie al nuovo Codice della Crisi e alle riforme recenti. Un approccio proattivo e informato, possibilmente guidato da consulenti esperti, può fare la differenza tra un esito disastroso e uno gestito, seppur doloroso ma con prospettiva di ripartenza. In qualunque caso, la legalità e la trasparenza sono la miglior difesa: chi agisce correttamente, pur nella sventura imprenditoriale, troverà nella legge molte tutele (dall’esdebitazione all’assenza di sanzioni personali) per poter voltare pagina e magari un domani rilanciare una nuova iniziativa senza le ombre del passato.

Hai un calzaturificio o un’azienda di produzione di scarpe che sta affrontando debiti fiscali, contributivi o bancari? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai un calzaturificio o un’azienda di produzione di scarpe che sta affrontando debiti fiscali, contributivi o bancari?
Hai ricevuto cartelle esattoriali, intimazioni di pagamento o temi pignoramenti, fermi amministrativi o blocchi bancari?

👉 Prima regola: non aspettare che la situazione peggiori.
Nel comparto calzaturiero, soggetto a fluttuazioni di mercato, concorrenza estera e calo degli ordini, il debito può crescere rapidamente fino a compromettere la sopravvivenza dell’impresa.
Con una difesa legale e finanziaria tempestiva, puoi bloccare le azioni esecutive, ridurre i debiti e salvaguardare la continuità del tuo calzaturificio.


⚖️ Le cause più frequenti dell’indebitamento nei calzaturifici

  • Calo delle commesse o perdita di clienti storici.
  • Aumento dei costi delle materie prime e della manodopera.
  • Difficoltà di incasso da parte di rivenditori o grossisti.
  • Ritardi nei pagamenti delle imposte e dei contributi INPS.
  • Eccessivo ricorso al credito bancario o al leasing per macchinari.
  • Errori gestionali o mancanza di pianificazione fiscale.
  • Accumulo di cartelle esattoriali e sanzioni non gestite.

📌 I rischi per un calzaturificio indebitato

  • Cartelle esattoriali e pignoramenti su conti, capannoni o macchinari.
  • Fermi amministrativi sui mezzi aziendali.
  • Iscrizioni ipotecarie da parte dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione.
  • Perdita di affidabilità finanziaria presso banche e fornitori.
  • Blocco dei rimborsi IVA o dei crediti fiscali.
  • Rischio di liquidazione giudiziale (ex fallimento) in caso di insolvenza prolungata.

🔍 Cosa fare subito

  1. Analizza l’ammontare dei debiti: fiscali, previdenziali, bancari o commerciali.
  2. Verifica la validità delle cartelle e degli atti notificati — molti contengono errori o sono prescritti.
  3. Blocca eventuali azioni esecutive (pignoramenti, ipoteche, fermi).
  4. Richiedi una rateizzazione sostenibile o una definizione agevolata, se disponibile.
  5. Rivolgiti a un avvocato tributarista e gestore della crisi d’impresa per una strategia completa di difesa e risanamento.

🧾 Strumenti per difendersi e risanare i debiti

💠 Rateizzazione delle cartelle

È possibile ottenere una rateizzazione fino a 120 rate mensili, che sospende pignoramenti e azioni esecutive.

💠 Definizione agevolata (“rottamazione”)

Quando prevista, consente di estinguere i debiti fiscali senza sanzioni né interessi di mora, pagando solo il capitale dovuto.

💠 Istanza di autotutela o ricorso tributario

Se il debito è prescritto o irregolare, si può chiedere l’annullamento o presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria.

💠 Composizione negoziata della crisi

Uno strumento moderno che consente di negoziare un accordo con Fisco e creditori, evitando la chiusura dell’impresa.

💠 Piano di risanamento aziendale

Permette di ristrutturare i debiti, salvare i posti di lavoro e mantenere la produzione, sotto la guida di un esperto legale e finanziario.


🛠️ Strategie di difesa per un calzaturificio in crisi

  • Esaminare ogni atto esattoriale o bancario per individuare vizi o prescrizioni.
  • Contestare ipoteche, fermi o pignoramenti illegittimi.
  • Richiedere sospensioni temporanee per evitare blocchi produttivi.
  • Dimostrare la temporanea difficoltà economica per accedere a piani di rateizzazione.
  • Attivare percorsi di risanamento e ristrutturazione aziendale.
  • Proteggere i beni personali degli amministratori o soci da eventuali responsabilità.

⚖️ Perché agire tempestivamente è decisivo

Un pignoramento di conti o macchinari può paralizzare la produzione e far perdere clienti chiave.
Intervenire subito permette di:

  • Evitare l’interruzione delle attività;
  • Negoziare soluzioni con il Fisco e le banche;
  • Difendere la reputazione del calzaturificio nel distretto produttivo;
  • Ripristinare la liquidità e la sostenibilità finanziaria.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

  • 📂 Analizza la posizione debitoria e gli atti ricevuti.
  • 📌 Verifica eventuali vizi, prescrizioni o opportunità di sospensione.
  • ✍️ Predispone piani di rateizzazione, istanze di autotutela o ricorsi tributari mirati.
  • ⚖️ Ti rappresenta davanti all’Agenzia delle Entrate-Riscossione e alla Corte di Giustizia Tributaria.
  • 🔁 Offre consulenza personalizzata per ristrutturare l’impresa e preservare la produzione.

🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

  • ✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e gestione della crisi d’impresa.
  • ✔️ Specializzato nella difesa di calzaturifici, aziende manifatturiere e artigiane con debiti fiscali e bancari.
  • ✔️ Gestore della crisi d’impresa iscritto presso il Ministero della Giustizia.

Conclusione

Un calzaturificio con debiti può risollevarsi, ma è fondamentale agire subito con una strategia professionale.
Con una difesa legale e contabile adeguata, puoi bloccare pignoramenti, ridurre la pressione fiscale e salvaguardare la continuità produttiva della tua azienda.


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Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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