Contestazione Per Utilizzo Carte Aziendali Per Spese Private: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per utilizzo di carte aziendali a fini personali? In questi casi, l’Ufficio presume che le spese sostenute con carte di credito, debito o prepagate intestate all’azienda non abbiano natura inerente e siano state effettuate per scopi privati del titolare, dei soci o dei dipendenti. Le conseguenze possono essere molto pesanti: recupero delle imposte, indeducibilità dei costi e applicazione di sanzioni. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare l’inerenza delle spese o ridurre sensibilmente le pretese fiscali.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’uso delle carte aziendali
– Se le spese riguardano beni o servizi chiaramente non collegati all’attività (viaggi personali, cene familiari, shopping privato)
– Se mancano giustificativi o documenti che provino l’uso aziendale delle spese effettuate
– Se i movimenti delle carte aziendali non coincidono con le scritture contabili
– Se l’Ufficio presume che le spese siano state sostenute per vantaggi personali del titolare o dei soci
– Se vi sono spese frequenti e ricorrenti prive di correlazione con l’attività

Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità totale delle spese considerate non inerenti
– Recupero a tassazione delle somme contestate come utili extracontabili o compensi in natura
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme dovute
– Nei casi più gravi, denuncia penale per dichiarazione infedele

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare con contratti, report e documentazione che le spese erano effettivamente legate all’attività aziendale
– Produrre note spese, autorizzazioni interne e giustificativi che provino l’uso aziendale delle carte
– Contestare la qualificazione come spese private se funzionali all’attività (es. viaggi di lavoro, cene con clienti, forniture operative)
– Evidenziare errori di valutazione, difetti istruttori o vizi di motivazione nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione delle spese in categorie deducibili per ridurre l’impatto fiscale
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della contestazione

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i movimenti delle carte aziendali e la documentazione di supporto
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta applicazione del principio di inerenza
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e giurisprudenza favorevole
– Difendere l’impresa o il professionista davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da pretese fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– Il riconoscimento della deducibilità delle spese realmente inerenti
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione di sanzioni e interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: l’uso improprio delle carte aziendali è tra le contestazioni più frequenti, perché il Fisco presume facilmente la natura privata delle spese. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso fiscale – spiega come difendersi in caso di contestazione per utilizzo delle carte aziendali a fini privati e quali strategie adottare per tutelare i tuoi interessi.

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Introduzione

Utilizzare la carta di credito aziendale per spese personali è una condotta che può provocare gravi conseguenze giuridiche per il dipendente o l’amministratore coinvolto. In ambito lavorativo, tale comportamento costituisce normalmente una violazione dei doveri di fiducia e correttezza ed espone il soggetto a procedimenti disciplinari interni, fino al licenziamento per giusta causa. Inoltre, vi sono implicazioni sul piano civilistico (obbligo di restituzione delle somme e risarcimento danni), possibili profili penali (il reato di appropriazione indebita) e conseguenze fiscali-tributarie (indeducibilità dei costi per l’azienda e tassazione in capo al beneficiario della spesa personale) di cui bisogna tenere conto.

Questa guida, aggiornata a settembre 2025, fornisce un’analisi approfondita delle norme italiane e delle più recenti sentenze (dal 2022 al 2025) in materia. Si rivolge sia a professionisti legali (che assistono aziende o lavoratori), sia a privati e imprenditori direttamente interessati da contestazioni di questo tipo. L’obiettivo è esaminare il fenomeno dal punto di vista del soggetto accusato (il debitore delle somme contestate), illustrando come difendersi efficacemente in ogni sede: disciplinare, civile, penale e tributaria.

Seguendo un approccio sistematico, la guida tratterà i principi normativi di riferimento, la procedura disciplinare interna (contestazione e difesa del lavoratore), le possibili strategie difensive nei procedimenti interni, le tutele in caso di licenziamento e gli strumenti di impugnazione. Verranno inoltre analizzati i profili civilistici (responsabilità contrattuale per l’uso indebito della carta, obblighi di risarcimento, ecc.), le conseguenze fiscali (in particolare per l’utilizzatore delle somme) e i possibili profili penali.

Troverete tabelle riepilogative per sintetizzare i punti chiave, una sezione di Domande & Risposte per chiarire i dubbi frequenti e anche modelli pratici (come un fac-simile di memoria difensiva) utili per impostare concretamente la difesa. Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate saranno elencate in fondo alla guida, per un riferimento immediato e autorevole.

Normativa e principi generali applicabili

In primo luogo, è essenziale comprendere quali norme e principi regolano la materia, definendo gli obblighi del lavoratore e le possibili violazioni in caso di utilizzo di risorse aziendali per fini privati.

Doveri del lavoratore: diligenza, fedeltà e correttezza

Il Codice Civile impone al lavoratore subordinato precisi doveri di diligenza e fedeltà verso il datore di lavoro. L’art. 2104 c.c. richiede l’uso della diligenza nell’eseguire la prestazione, mentre l’art. 2105 c.c. sancisce l’obbligo di fedeltà, che si sostanzia nel non trattare affari in concorrenza col datore e nel non divulgare informazioni riservate. Sebbene l’uso improprio della carta aziendale non sia concorrenza, esso rientra nella violazione dei doveri di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.): il dipendente dovrebbe utilizzare gli strumenti aziendali esclusivamente per scopi lavorativi, agendo con lealtà verso l’azienda. La giurisprudenza sottolinea che il rapporto di lavoro è fondato su un patto di fiducia reciproca: il datore di lavoro affida beni e risorse al dipendente confidando in un uso appropriato legato alle esigenze lavorative.

Esempio: Se un’azienda fornisce al dipendente una carta di credito per spese di trasferta, si aspetta che essa venga usata solo per costi connessi al lavoro (viaggi, pasti di lavoro, carburante per l’auto aziendale, ecc.), non per acquisti personali. L’azienda non è tenuta a un controllo costante e preventivo su ogni utilizzo, proprio perché fa affidamento sulla correttezza del dipendente e non può essere obbligata a diffidare di lui in partenza. Un controllo assiduo infatti snaturerebbe il rapporto fiduciario.

L’utilizzo della carta aziendale per fini privati senza autorizzazione costituisce quindi un inadempimento contrattuale grave: da un lato, viola gli obblighi generali di buona fede e correttezza contrattuale; dall’altro, spesso comporta un illecito arricchimento del dipendente a danno dell’azienda (che sostiene spese estranee all’attività). È irrilevante che la somma spesa sia poi restituita spontaneamente se l’uso è avvenuto inizialmente all’insaputa o contro la volontà del datore: il fatto in sé di essersi appropriati di risorse aziendali per scopi personali configura già la condotta infedele. Naturalmente, la entità e le circostanze dell’addebito incidono sulla gravità (un conto è una spesa minima e subito comunicata, altro è un uso esteso e deliberatamente occultato), ma in linea di massima il principio resta fermo.

Va ricordato che molti contratti collettivi (CCNL) o regolamenti aziendali disciplinano in dettaglio l’uso degli strumenti aziendali (auto, carte carburante, carte di credito, dispositivi elettronici). In genere tali fonti interne vietano espressamente l’uso personale e prevedono sanzioni disciplinari in caso di violazione. Il lavoratore è tenuto a rispettare anche queste regole specifiche, la cui violazione costituisce giusta causa o giustificato motivo di recesso se la gravità lo giustifica (si veda oltre).

La contestazione disciplinare e il diritto di difesa del lavoratore

Se il datore di lavoro scopre che un dipendente ha utilizzato la carta aziendale per spese private, è tenuto ad attivare la procedura disciplinare prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970). Tale norma stabilisce che qualsiasi sanzione disciplinare più grave del rimprovero verbale debba essere preceduta da una contestazione scritta dell’addebito e dalla concessione di un termine (almeno 5 giorni) per permettere al lavoratore di presentare le proprie giustificazioni (memoria difensiva) o di essere sentito a sua difesa.

I punti chiave della procedura disciplinare sono: – Contestazione immediata e specifica: la lettera di contestazione deve essere tempestiva rispetto al momento in cui il datore ha avuto conoscenza dei fatti e deve descrivere con sufficiente precisione la condotta addebitata (date, importi e circostanze delle spese personali contestate). La tempestività non va confusa con immediatezza assoluta: conta il momento della piena conoscenza dei fatti da parte del datore, non quando essi si sono verificati. Ad esempio, se l’uso indebito emerge da controlli contabili annuali, la contestazione sarà valida se effettuata poco dopo la scoperta, anche se i fatti risalgono a molti mesi prima. La Cassazione ha chiarito che il datore non ha l’obbligo di un controllo continuo e capillare, potendosi basare sulla fiducia; quindi non gli si può imputare tardività se agisce appena i comportamenti scorretti emergono con certezza. Diversamente, un ritardo ingiustificato dopo la conoscenza può far presumere tolleranza e pregiudicare la legittimità della sanzione disciplinare. – Diritto di difesa: il lavoratore ha diritto a contestare i fatti, fornire spiegazioni o prove a discarico entro il termine assegnato (di norma 5 giorni dal ricevimento della lettera, salvo termini diversi in CCNL). Può inviare una memoria difensiva scritta oppure chiedere di essere ascoltato di persona (eventualmente con l’assistenza di un rappresentante sindacale o legale). È fondamentale esercitare questo diritto nei tempi previsti: il silenzio può essere interpretato come mancanza di giustificazioni. – Irrogazione della sanzione: valutate le difese del lavoratore (o in mancanza di difese), l’azienda adotta la sanzione ritenuta adeguata. Questa può andare dal rimprovero scritto o multa (per violazioni lievi) alla sospensione disciplinare (per infrazioni di media gravità), fino al licenziamento disciplinare nei casi più gravi (quando ricorra la giusta causa o un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali). La sanzione deve essere proporzionata e applicata nel rispetto di eventuali procedure aggiuntive previste da legge o contratto.

Nel prosieguo vedremo in dettaglio le strategie difensive che il lavoratore può adottare nella fase di risposta alla contestazione disciplinare.

Giusta causa di licenziamento per uso indebito della carta aziendale

Giusta causa (art. 2119 c.c.) significa una causa talmente grave da non consentire la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro. L’uso della carta aziendale per fini personali, in quanto violazione del rapporto fiduciario, viene tipicamente considerato dalla giurisprudenza una grave infrazione disciplinare integrativa di giusta causa.

La Corte di Cassazione ha più volte affermato che appropriarsi di denaro aziendale (o utilizzarlo) per scopi privati costituisce un grave inadempimento agli obblighi contrattuali, idoneo a ledere in modo irreparabile il vincolo fiduciario. In altri termini, il datore di lavoro perde la fiducia nella futura correttezza del dipendente, venendo meno il presupposto fondamentale del rapporto di lavoro. Non è necessario che l’azienda subisca un danno patrimoniale ingente: anche senza un danno economico elevato, la natura fraudolenta o volutamente indebita della condotta può giustificare il licenziamento per giusta causa. Ad esempio, un dipendente che utilizzi la carta carburante aziendale per rifornire il proprio veicolo personale, o che paghi pranzi privati con la carta di credito aziendale, compie un atto di infedeltà sostanziale, anche se l’importo in sé non mandasse in rovina l’azienda. La consapevolezza del carattere irregolare e la violazione deliberata dei doveri di lealtà fanno venir meno la fiducia del datore di lavoro.

È interessante evidenziare una recente evoluzione giurisprudenziale: non ogni utilizzo “sbagliato” dei sistemi di rimborso spese aziendali integra necessariamente una condotta fraudolenta e quindi giusta causa. Con ordinanza n. 23189/2025, la Cassazione ha escluso la sussistenza dell’elemento di fraudolenza (e dunque della giusta causa di licenziamento) nel caso di una lavoratrice che aveva chiesto un rimborso spese eccessivo attraverso il portale aziendale, in presenza però di un meccanismo di controllo automatizzato che aveva bloccato e stornato l’eccedenza. In quel caso, la dipendente aveva inserito note di trasferta per circa €920, di cui €265 risultati non dovuti (spese non documentate o non inerenti) e non effettivamente rimborsati dall’azienda grazie ai controlli successivi. La Cassazione ha ritenuto che, poiché era previsto un controllo a posteriori che impediva di fatto un esborso indebito, la condotta della lavoratrice fosse qualificabile come irregolarità procedurale (un errore nella richiesta) e non come un tentativo fraudolento di arricchirsi a spese dell’azienda . In assenza di un’ingiusta locupletazione effettiva e di dolo comprovato, manca la gravità necessaria alla giusta causa: la sola richiesta di un rimborso maggiore del dovuto, se c’è un sistema aziendale che la intercetta e corregge prima del pagamento, non giustifica il licenziamento in tronco. Questa pronuncia “salva” il dipendente in casi del genere, pur riconoscendo che restano possibili sanzioni disciplinari minori (richiamo scritto, ad esempio) e che la condotta potrà incidere sull’affidabilità del lavoratore (in caso di reiterazione potrebbe divenire rilevante).

Riassumendo: – Nella generalità dei casi, un uso intenzionale e non autorizzato della carta aziendale per fini privati è considerato giusta causa di licenziamento: la Cass. civ. sez. lav. n. 7467/2023 ha confermato il licenziamento di una dipendente che aveva addebitato carburante per uso extra-lavorativo, definendolo “utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati” e quindi grave inadempimento lesivo del vincolo fiduciario. Analogamente la Cass. n. 7268/2022 (Caso FCA, v. oltre) ha ritenuto legittimo il recesso per giusta causa verso un lavoratore che, fra l’altro, aveva utilizzato la carta aziendale in modo abusivo. – Fanno eccezione situazioni borderline come quella del rimborso spese gonfiato ma non incassato: in Cass. 23189/2025 si è negata la fraudolenza (e quindi la giusta causa) ravvisando una semplice irregolarità in mancanza di danno e in presenza di controlli interni. Ciò non toglie che la condotta sia sbagliata e sanzionabile, ma secondo la Corte non equiparabile a un furto o ad un’appropriazione indebita, data la presenza di sistemi di sicurezza che hanno evitato perdite all’azienda.

È importante notare che la proporzionalità della sanzione va valutata caso per caso. Ove il fatto sia di entità minima, commesso magari per errore e subito rettificato dal lavoratore (ad esempio, uso accidentale della carta per €50 di spesa personale, con immediata segnalazione al datore e rimborso), il licenziamento potrebbe risultare eccessivo. In tali ipotesi, i giudici potrebbero ritenere applicabile una sanzione conservativa (rimprovero scritto) e dichiarare illegittimo il licenziamento perché non proporzionato alla mancanza. Tuttavia, episodi del genere devono essere realmente scusabili. Un orientamento giurisprudenziale consolidato esclude che il dipendente possa farsi “giustizia da sé” compensando indebitamente debiti e crediti col datore: ad esempio, non vale come scusa il dire “ho usato la carta aziendale perché l’azienda mi doveva rimborsi e ritardava a pagarmeli”. La Cassazione ha chiarito che l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) non può essere invocata dal dipendente in questo modo, sia perché mancherebbe la buona fede (il lavoratore era consapevole della violazione), sia perché l’eccezione nasce per sollecitare l’altro ad adempiere, non per mascherare la propria inadempienza. In un caso del 2022, un dipendente licenziato sosteneva di aver usato la carta aziendale per prelevare somme a titolo di compensazione di spese di trasferta rimborsate in ritardo dal datore: la Cassazione ha respinto questa tesi, evidenziando che il lavoratore era ben conscio dell’abuso commesso e che la risposta disciplinare dell’azienda era giustificata dalla mancanza di buona fede del dipendente.

Conclusione pratica: se un dipendente utilizza intenzionalmente la carta aziendale per spese personali confidando di poter poi eventualmente restituire o giustificare a posteriori, rischia fortemente il licenziamento per giusta causa. Solo situazioni di minima entità o prive di dolo effettivo potrebbero evitare l’esito espulsivo, ma si tratta di eccezioni da maneggiare con cautela. Nel dubbio, è sempre preferibile non incorrere in tali condotte o, se per errore ciò accade, segnalarlo immediatamente al datore, offrendo rimborso, prima ancora che l’azienda se ne accorga autonomamente: ciò potrà costituire un fattore attenuante rilevante.

Profili civilistici: obblighi di restituzione e risarcimento

Dal punto di vista civilistico, l’uso della carta aziendale per spese personali non autorizzate comporta due ordini di conseguenze: 1. Obbligo di restituzione delle somme spese indebitamente (indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., o responsabilità contrattuale per violazione degli obblighi, art. 1218 c.c.). Il dipendente che abbia utilizzato denaro della società deve restituire quanto percepito indebitamente. Se non lo fa spontaneamente, l’azienda potrà agire giudizialmente per il recupero del credito corrispondente alle spese personali addebitate sulla carta. 2. Eventuale risarcimento di ulteriori danni causati all’azienda. In genere, il danno emergente coincide con l’importo speso (e dunque si esaurisce con la restituzione di quell’importo, maggiorato di interessi e spese). Tuttavia, potrebbero configurarsi danni ulteriori: ad esempio, costi sostenuti dall’azienda per indagini interne, consulenze o verifiche contabili rese necessarie dall’illecito; oppure danni di immagine (se la vicenda ha avuto rilevanza esterna); o ancora, nel caso di dirigente/apicale, possibili conseguenze negative sui bilanci o sui rapporti con i soci. Tali danni vanno però provati e non sono automatici.

Dal lato dell’azienda, l’azione tipica è quella di risarcimento danni contrattuale (violazione degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro). Se il rapporto è ancora in essere, spesso la questione si risolve con una richiesta di rimborso al dipendente e relativa trattenuta in busta paga o accordo di restituzione. Se il rapporto cessa (ad esempio per licenziamento), l’azienda può decidere di: – Trattenere somme dal TFR o dalle ultime spettanze a titolo di compensazione con il credito vantato verso il dipendente. Occorre cautela: per la legge, i crediti da lavoro (come retribuzioni o TFR) non sono liberamente compensabili se il credito datoriale non è “liquido ed esigibile” (ossia certo nell’an e nel quantum). Tuttavia, la giurisprudenza ammette la compensazione “atecnica” tra TFR e risarcimento dovuto dal dipendente quando entrambe le poste derivano dal medesimo rapporto di lavoro e il saldo può essere calcolato dal giudice. In sostanza, se è accertato che il lavoratore deve restituire X euro, il datore può legittimamente trattenere fino a X euro dal TFR dovuto. La Cassazione (ord. n. 10132/2018) ha convalidato questa prassi, riformando corti d’appello che la negavano. Dunque, il dipendente licenziato per utilizzo indebito di carta aziendale potrebbe vedersi decurtare il TFR a compensazione delle somme non restituite, sempre che il danno sia certo e liquido (spesso oggetto di accordo transattivo o di sentenza). – Agire in giudizio per recupero crediti: se non è possibile la compensazione diretta, l’azienda potrà ottenere un decreto ingiuntivo o citare il lavoratore per vedersi restituire le somme. In giudizio, di solito la prova è relativamente agevole (estratti conto della carta, spese contestate con chiaramente natura personale, ecc.). Il lavoratore potrà opporsi sostenendo magari che alcune spese erano in realtà aziendali, o che vi era una tacita autorizzazione, ma dovrà fornire elementi convincenti. Se perde, dovrà pagare l’importo, interessi legali (dal momento in cui il denaro è uscito indebitamente) e spese legali. – Chiedere il sequestro conservativo o altre misure cautelari: in casi di importi elevati e timore che il dipendente dissipi i propri beni, l’azienda può richiedere al giudice un sequestro conservativo, soprattutto se ha già elementi solidi per il credito (ad es. ammissioni del lavoratore). Ciò per garantire che vi siano beni aggredibili per soddisfare il credito una volta ottenuta sentenza. – Azione di responsabilità verso amministratori (art. 2393 c.c. per S.p.A. o 2476 c.c. per S.r.l.): se l’utilizzatore della carta era un amministratore o dirigente apicale che ha disposto spese personali a carico della società, i soci (o la società stessa, su deliberazione assembleare) possono promuovere un’azione di responsabilità sociale. L’amministratore che usa risorse societarie a fini personali viola i doveri di gestione prudente e può aver causato un danno al patrimonio sociale. In caso di società di capitali, questa azione può portare l’amministratore a rispondere con il proprio patrimonio per le somme spese indebitamente e gli eventuali danni connessi. In contesti di insolvenza o fallimento, anche il curatore può esercitare questa azione per recuperare ai creditori sociali le somme distratte. – Dimissioni per giusta causa del dipendente creditore: ipotesi puramente teorica inversa, se mai accadesse che un lavoratore sia creditore di somme dall’azienda e si rivalga arbitrariamente con la carta aziendale, egli non può certo giustificare la propria condotta, come visto. La via corretta sarebbe semmai rassegnare dimissioni per giusta causa (ad esempio per reiterato mancato rimborso di spese dovute) e agire legalmente per ottenere quanto dovuto. Ma quando il lavoratore sceglie la via impropria dell’autocompensazione, perde ragione dal punto di vista legale.

Difendersi sul piano civilistico: il lavoratore accusato di spese personali su carta aziendale, qualora abbia realmente sostenuto spese non autorizzate, ha margini ristretti di difesa sul merito (deve tendenzialmente restituire quanto speso). Può però: – Verificare gli importi contestati: assicurarsi che non vi siano errori di calcolo o addebiti duplicati. Spesso le contestazioni riguardano varie voci: è utile controllare ciascuna e, se qualcuna era in realtà legata all’attività lavorativa (o coperta da autorizzazione), evidenziarlo per ridurre l’ammontare dovuto. – Negoziare un accordo: ammettere l’errore e proporre un piano di rimborso, magari evitando il licenziamento o ottenendo in cambio una qualificazione della cessazione come dimissioni o risoluzione consensuale. In alcuni casi l’azienda può accettare di transigere, ad esempio se il lavoratore è pentito, ha lungo servizio e l’importo è modesto: il dipendente restituisce subito il dovuto e riceve una sanzione disciplinare minore, evitando il licenziamento. Tali accordi devono essere messi per iscritto (spesso in sede protetta, sindacale o innanzi all’Ispettorato del Lavoro, per essere mutualmente vincolanti). – Opporsi a richieste sproporzionate: ad esempio, se l’azienda chiedesse non solo la restituzione ma anche penali o somme aggiuntive non giustificate, il lavoratore potrà contestarne la legittimità. Ogni risarcimento deve corrispondere a un danno reale: non si possono pretendere somme punitive non previste dal contratto o dalla legge. – Sfruttare eventuali vizi procedurali: se l’azienda trattiene il TFR senza un titolo valido o senza seguire la corretta procedura, il lavoratore può impugnare la trattenuta. Come visto, la Cassazione ammette la compensazione solo quando il credito risarcitorio è già accertato (per sentenza o riconosciuto). Se l’azienda si “autoattribuisce” la cifra senza accordo o giudizio, il lavoratore può fare opposizione (in sede di decreto ingiuntivo o causa lavoro). In pratica, però, se il debito è palese, difficilmente un giudice darà torto al datore sull’esistenza del credito; può tutt’al più sanzionare un’irregolarità formale imponendo il pagamento del TFR e poi compensando in sentenza, con spese a carico magari dell’azienda se la procedura non è stata ortodossa. Ma ciò serve a guadagnare tempo o a cercare un vantaggio transattivo.

Profili penali: appropriazione indebita e altri reati possibili

L’utilizzo di una carta di credito aziendale per scopi privati senza autorizzazione può assumere rilievo penale, integrando in particolare il reato di appropriazione indebita (art. 646 Codice Penale). Secondo la Cassazione, infatti, quando un dipendente è legittimamente in possesso della carta aziendale (conoscendone PIN e poteri d’uso) e la impiega per trarne un ingiusto profitto personale, non commette il reato di indebito utilizzo di carta (previsto dall’art. 55, co. 9 D.Lgs. 231/2007, che punisce chi utilizza carte altrui non essendone titolare), bensì commette appropriazione indebita . In sostanza, il dipendente è un “titolare qualificato” all’uso dello strumento (anche se la carta è intestata all’azienda) e, disponendone oltre i limiti consentiti per profitto proprio, si appropria di risorse altrui a lui affidate in ragione del suo ufficio .

L’appropriazione indebita punisce chi, per procurare a sé o ad altri un profitto, si appropria di denaro o cose mobili altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Nel nostro caso: – Il denaro speso con la carta è denaro dell’azienda (che paga il conto della carta). – Il dipendente ne aveva possesso detenzione per ragioni di servizio (carta fornitagli per spese di lavoro). – Usandolo per scopi estranei all’ufficio, si comporta uti dominus su quel denaro, per profitto proprio, soddisfacendo tutti gli estremi dell’art. 646 c.p.

Le possibili conseguenze penali includono: – Denuncia/querela da parte dell’azienda: l’appropriazione indebita è un reato che in forma semplice è punibile a querela di parte (ossia su denuncia dell’avente diritto). L’azienda potrebbe, parallelamente al licenziamento, sporgere querela nei confronti del dipendente infedele, specie se la somma è rilevante o se vuole dare un segnale deterrente. In alcuni casi, la minaccia di denuncia viene utilizzata dall’azienda anche come leva per ottenere la restituzione delle somme (ad esempio: “risarcisci immediatamente o sarò costretto a denunciarti”). – Procedibilità d’ufficio in caso di aggravanti: se ricorre l’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera (art. 646 ult. comma in relazione all’art. 61 n.11 c.p.), ossia se il fatto è commesso con abuso di relazioni d’ufficio, la procedibilità diventa d’ufficio. Un dipendente che abusa del proprio ruolo per appropriarsi di beni aziendali potrebbe rientrare in questa aggravante. Ad esempio, un amministratore unico che usa i fondi sociali come fossero propri commette appropriazione indebita aggravata dall’abuso di ufficio (come notato da Cass. Pen. 2017, n. 7910, per un socio unico amministratore che usava beni sociali a fini personali). In caso di aggravante, le pene sono aumentate e non serve querela: l’azione penale parte d’ufficio. – Possibile integrazione di altri reati: se per utilizzare la carta indebitamente il soggetto compie ulteriori condotte, potrebbero configurarsi altri illeciti. Ad esempio: – Falso: qualora il dipendente falsificasse note spese o ricevute per coprire le spese personali come spese aziendali (documenti falsi per giustificare le uscite), si avrebbe anche un reato di falso in scrittura privata o false attestazioni. – Truffa: è meno frequente in tali casi, poiché la truffa presuppone l’inganno ai danni dell’azienda per ottenere un profitto. Se l’uso della carta è occultato con artifici e raggiri (ad es. alterando estratti conto), potrebbe profilarsi truffa contrattuale oltre all’appropriazione. – Infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.): reato societario che si ha quando gli amministratori, cagionando danno alla società, compiono atti di gestione in conflitto di interessi per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Un amministratore che “distragga” fondi sociali per spese personali potrebbe incorrere in questo reato se non si configura appropriazione indebita (c’è dibattito tecnico: spesso gli atti dispositivi a proprio vantaggio integrano appropriazione; l’infedeltà si applica se l’atto è formalmente lecito ma compiuto in conflitto di interessi e dannoso). Ad ogni modo, in contesti di amministratori-soci che usano beni sociali privatamente, la responsabilità penale può emergere. – Reati tributari: se le somme indebitamente spese vengono contabilizzate come costi aziendali e portano a evadere imposte (perché abbassano l’utile imponibile), si possono realizzare reati di dichiarazione infedele o frode fiscale a carico di chi ha firmato la dichiarazione fiscale della società (tipicamente l’amministratore). Questo profilo è indiretto ma reale: ad esempio, inserire tra i costi deducibili fatture o ricevute relative a spese personali è una violazione fiscale; se l’ammontare dell’imposta evasa supera le soglie penali, l’amministratore rischia un procedimento per reati tributari (il dipendente in sé no, salvo concorso se ha consapevolmente fornito false pezze giustificative).

Difesa in sede penale: il soggetto accusato (dipendente o ex dipendente) può tentare diverse strade: – Restituzione integrale del maltolto e risarcimento: prima che la situazione degeneri in un procedimento penale, offrire il risarcimento può evitare la querela (se non ancora presentata) o portare alla remissione di querela da parte dell’azienda. Se il procedimento penale è già in corso, il risarcimento è comunque fortemente attenuante e può orientare il giudice verso sanzioni minori (sospensione condizionale, multa al posto di reclusione, ecc.). Nei reati a querela come l’appropriazione indebita semplice, il pagamento di quanto dovuto e le scuse possono convincere il querelante a ritirare la querela, estinguendo il reato. – Dimostrare assenza di dolo: sul piano tecnico, l’appropriazione indebita richiede l’intenzione di trarre profitto ingiusto. Se il dipendente può provare che l’uso improprio è avvenuto per errore o equivoco e che non aveva la volontà di procurarsi un vantaggio indebito (es. ha preso la carta sbagliata per pagare, convinto fosse la propria, e poi ha subito avvisato), potrebbe difettare l’elemento soggettivo. È però una difesa non facile: bisogna avere riscontri coerenti con la buona fede. – Riqualificazione della condotta: in alcuni casi il legale potrebbe sostenere che la condotta non integra appropriazione indebita ma semmai un illecito disciplinare o civile, cercando di evitare il penale. Ad esempio, se la cifra è minima, tentare di far ritenere la cosa penalmente irrilevante per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), che esclude la punibilità se l’offesa è modesta e l’autore non abituale. La tenuità richiede però soglie modeste e circostanze lievi. – Infine, qualora si arrivi a processo, le strategie processuali possono includere richieste di riti alternativi (patteggiamento, messa alla prova se possibile) per contenere le conseguenze.

È importante sottolineare che, a differenza dell’ambito del lavoro, dove la questione può chiudersi con la cessazione del rapporto e la restituzione dei soldi, in ambito penale la faccenda ha un rilievo pubblico e può proseguire anche a distanza di tempo. Non tutti i casi di uso indebito di carte aziendali finiscono in denuncia: molte aziende preferiscono risolvere internamente (licenziamento e rimborso) senza coinvolgere l’autorità giudiziaria, a meno che la somma sia molto elevata o vi siano ragioni deterrenti. Tuttavia, il rischio esiste, specialmente se l’episodio diventa noto (ad esempio durante un audit o una procedura concorsuale).

Caso reale: Un dipendente di un’azienda di trasporti usava regolarmente la carta carburante aziendale per fare il pieno alla propria auto e a quelle di familiari. L’azienda lo ha denunciato. La Cassazione penale ha confermato la condanna per appropriazione indebita aggravata, sottolineando che l’imputato, pur avendo la carta in dotazione per motivi di lavoro, l’aveva sfruttata per profitto personale, appropriandosi di carburante e denaro aziendale in violazione della fiducia accordatagli .

Conseguenze fiscali e tributarie delle spese personali su carta aziendale

L’utilizzo di fondi aziendali per spese private solleva anche importanti questioni sul piano fiscale, sia per l’azienda sia per il soggetto che ne ha beneficiato (dipendente o socio). Il Fisco italiano, specie negli ultimi anni, presta particolare attenzione a queste situazioni per evitare che attraverso l’azienda si occultino compensi o utili non tassati. Vediamo le principali implicazioni:

Deducibilità dei costi per l’azienda e utili occulti

Per l’azienda, le somme spese per fini non inerenti all’attività non sono fiscalmente deducibili. Il principio di inerenza vuole che solo le spese connesse all’attività d’impresa possano ridurre il reddito imponibile. Se la società ha contabilizzato come costo aziendale una spesa che in realtà era personale (es. conto del ristorante per il compleanno del dipendente, acquisto di elettronica per uso privato, ecc.), l’Agenzia delle Entrate in sede di accertamento recupererà a tassazione quell’importo, aumentando il reddito imponibile della società di pari cifra. L’effetto immediato è un recupero di IRES e IRAP: la società dovrà pagare le imposte dovute come se quell’uscita non fosse mai stata un costo deducibile, più interessi e sanzioni.

Se la società è una piccola società a ristretta base (pochi soci, tipicamente familiari), scatta una presunzione ancora più severa: la giurisprudenza ha elaborato la presunzione di distribuzione di utili extracontabili ai soci in caso di costi non inerenti. In pratica, una volta aumentato il reddito imponibile della società per eliminare il costo personale indeducibile, si presume che il maggior utile così emergente sia stato occultamente distribuito ai soci. Questo perché in società a base familiare o con pochi soci, si ritiene verosimile che se la società si è fatta carico di spese personali dei soci, in sostanza abbia erogato loro un’utilità economica equivalente a un dividendo.

La conseguenza è una sorta di doppia imposizione: – La società paga le imposte sul reddito ripreso a tassazione (quindi paga le tasse su quell’importo prima dedotto indebitamente). – Contestualmente, viene imputato a carico del socio utilizzatore un reddito da capitale (utile distribuito) pari al beneficio goduto, con tassazione in capo al socio. Ad esempio, se una S.r.l. ha pagato €10.000 di viaggi personali del socio unico e li ha dedotti, il Fisco recupera quei €10.000 a tassazione come maggior utile societario e parallelamente può contestare al socio un dividendo non dichiarato di €10.000. Il socio dovrà quindi pagare l’IRPEF su quei €10.000 come “utili occulti” (all’aliquota prevista per i dividendi, tipicamente imposta sostitutiva 26% se partecipazione non qualificata, o in parte IRPEF se qualificata, a seconda dei periodi).

La Cassazione ha avallato questo meccanismo (ad es. sent. n. 2224/2021) e le Corti di Giustizia Tributaria applicano regolarmente la presunzione. Come evidenziato in una recente sentenza del 2025, poco importa che la spesa personale sia stata realmente sostenuta dalla società (non fittizia): anche se i soldi sono usciti per pagare un fornitore reale (es. la ditta edile che ha ristrutturato casa del socio a spese della società), per il fisco ciò genera comunque un maggior utile non dichiarato e, in più, costituisce prova concreta di un utili in natura al socio (la società ha pagato un beneficio diretto del socio) . In quella vicenda, la Corte tributaria regionale ha parlato esplicitamente di “dividendo in natura”: invece di dare soldi al socio perché pagasse le sue spese, la società ha pagato direttamente tali spese per conto suo, realizzando di fatto una distribuzione di utili mascherata .

Nota: La presunzione di distribuzione di utili nascosti si applica di solito alle società di capitali a ristretta base (pochi soci, non quotate). Nelle società più grandi o diffuse, l’Agenzia potrebbe limitarsi a recuperare le imposte a livello societario, senza individuare un socio specifico beneficiario (anche se potrebbe contestare un compenso in natura a un amministratore, v. oltre).

Tassazione in capo al dipendente o amministratore (fringe benefit e redditi diversi)

Dal lato del soggetto che ha beneficiato della spesa personale, le conseguenze fiscali variano a seconda che sia un semplice dipendente o un socio/amministratore:

  • Se trattasi di normale dipendente non socio: l’utilità economica ottenuta (spesa personale pagata dall’azienda) dovrebbe essere considerata un fringe benefit o comunque una forma di retribuzione in natura. L’art. 51 TUIR stabilisce che qualsiasi beneficio corrisposto al lavoratore (salvo esenzioni specifiche) concorre a formare il reddito da lavoro dipendente. Dunque, se un dipendente ha fatto spese personali per €X a carico dell’azienda, e tali somme non gli sono state addebitate né restituite, il fisco può considerarle come reddito imponibile da lavoro. In pratica:
  • L’azienda avrebbe dovuto trattare €X come una componente aggiuntiva dello stipendio del dipendente (fringe benefit), assoggettandola a ritenute IRPEF e contributi previdenziali.
  • Non avendolo fatto all’epoca, in caso di verifica potrà essere sanzionata per non aver operato le ritenute e dovrà versare le imposte non trattenute, oltre a sanzioni e interessi. Anche il lavoratore potrebbe dover rifondere le imposte non versate, ma generalmente l’Erario si rivale sul sostituto d’imposta (datore) che poi eventualmente può recuperare sul dipendente.
  • L’azienda non potrebbe dedurre quel costo come spesa aziendale, ma potrebbe in teoria dedurlo come costo del personale (se lo riclassifica come retribuzione). Tuttavia la mancata applicazione di ritenute rende il tutto irregolare.
  • Esempio: un dipendente si è fatto rimborsare dall’azienda una spesa per acquisti personali spacciandola per spesa di rappresentanza. Se l’azienda la deduce e non la tassa in capo al dipendente, e poi l’Agenzia scopre l’inghippo, rettificherà: negherà la deduzione (aumentando il reddito societario) e in parallelo potrà contestare che il dipendente ha percepito quell’importo come reddito non dichiarato (anche se di solito, essendo un fringe benefit non dichiarato per colpa del datore, la sanzione colpisce quest’ultimo).
  • Nella prassi, se l’importo è piccolo, spesso il Fisco si limita a tassare l’azienda (indeducibilità) e non approfondisce sul dipendente. Se invece è rilevante (es. decine di migliaia di euro di spese personali coperte), potrebbe seguire anche il profilo reddituale del dipendente.
  • Attenzione: Recenti norme (Legge di Bilancio 2023 e 2024) hanno introdotto obblighi di tracciabilità per i rimborsi spese di trasferta: dal 2025 i rimborsi di vitto, alloggio, carburante ecc. devono avvenire con strumenti tracciabili, pena la loro tassazione come reddito per il dipendente. Questo implica che eventuali spese non tracciate o non adeguatamente documentate diventano reddito imponibile. Ciò è un incentivo per aziende e lavoratori a tenere nette le distinzioni; nel nostro contesto, serve a evidenziare che qualunque prassi poco chiara rischia di far considerare beneficio personale ciò che non è dimostrato come spesa di lavoro.
  • Se trattasi di socio o familiare dell’imprenditore: qui rileva la normativa dei beni concessi in godimento ai soci. Come anticipato, dal 2012 il legislatore ha previsto (art. 67, co.1, lett. h-ter TUIR) che il socio o familiare che utilizza un bene dell’azienda per fini privati deve dichiarare un reddito diverso pari alla differenza tra il valore di mercato dell’uso e quanto eventualmente corrisposto. Nel caso di carta di credito aziendale, non è esattamente un “bene” ma è comunque uno strumento per utilizzare denaro sociale: se un socio preleva o spende somme sociali senza rimborsarle, di fatto sta ottenendo un vantaggio patrimoniale dalla società. Tale vantaggio può essere assimilato a:
  • Dividendo occulto (se la società aveva utili non distribuiti, parte di essi sono stati goduti dal socio in forma di spesa pagata).
  • Finanziamento fruttifero non dichiarato (se trattato come prestito al socio, dovrebbero esserci interessi a valore di mercato).
  • Reddito diverso ex art. 67 se qualificato come bene in godimento: tuttavia questa norma si applica tipicamente a beni come auto, case, barche intestate alla società ma usate dal socio. Per denaro liquido, si ricorre più alla presunzione utili occulti o al contestare una distribuzione non deliberata.

Il risultato fiscale per il socio amministratore che usa carta aziendale per spese personali è spesso: doppia penalizzazione fiscale: 1. Società: recupero imposte su costi indeducibili + potenziali sanzioni per dichiarazione infedele. 2. Socio: tassazione dell’importo come dividendo o reddito diverso, con aliquota corrispondente. Nel regime attuale, se è socio qualificato, una parte del dividendo occulta concorre a IRPEF; se non qualificato, tassazione separata al 26%.

Da notare che se il socio restituisce la somma (ad esempio, sistema le cose rimborsando la società entro fine anno), la questione fiscale si attenua: la spesa aziendale può essere stornata (diventa un credito verso socio, quindi niente costo in conto economico), e il socio non ha più beneficio da tassare. Però spesso queste sistemazioni non avvengono subito, specie se l’uso privato era intenzionale.

Rischi di controlli e sanzioni

L’uso personale di beni o denaro aziendale è uno dei “campanelli” che possono far scattare verifiche fiscali. Agenzia Entrate e Guardia di Finanza incrociano dati e fanno controlli incrociati: ad esempio, se un dipendente (o un amministratore) ha rimborsi elevati o se l’azienda contabilizza molte spese di rappresentanza, trasferte, carburante, potrebbero chiedere dettagli. Se emergono spese non coerenti con l’attività (es. fatture di beni voluttuari, ricevute in orari non lavorativi, ecc.), chiederanno spiegazioni. In assenza di giustificazioni, scatterà l’accertamento: – Sanzioni amministrative tributarie: oltre al recupero delle imposte, l’azienda rischia sanzioni dal 90% al 180% dell’imposta non pagata (per dichiarazione infedele) per la deduzione indebita. Il socio/dipendente può subire sanzione per omessa dichiarazione di redditi percepiti (se ne aveva l’obbligo). – Interessi di mora: su imposte e ritenute non versate. – Rischio di reato tributario: se l’imposta evasa supera le soglie di punibilità (per la dichiarazione infedele la soglia è €100.000 di imposte evase o €2 milioni di componenti attivi sottratti al fisco), l’amministratore potrebbe essere perseguito penalmente. Nel caso di spese personali, non è immediato superare tali soglie (bisognerebbe che i costi indebiti fossero altissimi), ma va menzionato come rischio estremo.

Difendersi dalle contestazioni fiscali: se il Fisco contesta spese personali, il contribuente (società o socio) può: – Dimostrare l’inerenza delle spese (se in realtà erano funzionali all’attività e solo apparentemente personali). – Oppure, provare che quelle spese sono già state riaddebitate al socio/lavoratore e quindi non hanno inciso sul reddito (ad es. esibire il rimborso effettuato dal dipendente). – Negare la distribuzione di utili se applicata in via presuntiva: ad esempio, sostenere che la società ha subito un impoverimento (ha pagato terzi) e che quei soldi non sono “andati in tasca” al socio in senso stretto. Argomento però debole se il socio ha tratto beneficio (come visto, la giurisprudenza confuta la distinzione tra costi fittizi e costi reali: anche se pagati a terzi, se il socio ne ha goduto il vantaggio, è come se li avesse percepiti). – Invocare la tenuità o occasionalità per evitare sanzioni penali, se del caso.

Va segnalato che esistono norme specifiche per alcuni beni: ad esempio per le auto aziendali ad uso promiscuo date ai dipendenti si calcola un fringe benefit forfettario (in percentuale sul costo chilometrico annuo). Quindi se un’auto è concessa al dipendente anche per uso personale, quel valore viene tassato in busta paga. Analogamente, se una carta carburante aziendale viene usata per usi extra, se l’azienda volesse essere regolare dovrebbe addebitare il costo personale al dipendente o imputarlo come fringe benefit (magari concordando che una certa quota di carburante è per uso privato). Spesso però queste formalizzazioni mancano e, se c’è abuso, scatta la contestazione come stiamo trattando.

In sintesi, per evitare guai fiscali: – Le aziende dovrebbero tenere separate le spese personali: se un dipendente/socio per errore usa la carta aziendale per qualcosa di personale, deve comunicarlo subito e restituire l’importo, registrando l’operazione in contabilità (credito vs dipendente) ed evitando di farla finire tra i costi. Così il bilancio rimane corretto. – Se l’azienda tollera o concede benefici in natura (es. pagamento di spese personali), deve gestirli fiscalmente (attraverso busta paga o tramite distribuzione utili deliberata) per non incorrere in sanzioni.

Procedimento disciplinare interno: strategie difensive

Dal punto di vista pratico, quando un lavoratore riceve una contestazione disciplinare per uso improprio della carta aziendale, come può difendersi efficacemente per cercare di evitare il licenziamento o attenuare le conseguenze? Ecco una serie di strategie difensive e consigli utili:

1. Rispetto dei termini e richiesta di chiarimenti: Appena ricevuta la lettera di contestazione, verificare la data e segnarsi il termine di risposta (generalmente 5 giorni). È fondamentale non lasciar trascorrere inutilmente questo termine. Se la contestazione non è chiara su qualche punto (ad es. non specifica quali transazioni sono contestate, o riferisce cifre cumulative), il lavoratore può chiedere maggiori dettagli all’ufficio HR o al datore prima di rispondere, in modo da poter articolare compiutamente la difesa. Tale richiesta di chiarimenti è preferibile farla per iscritto e tempestivamente, poiché non sospende il termine, ma può essere utile a segnalare buona fede e a ottenere informazioni. Spesso però le contestazioni ben fatte allegano già l’estratto conto o l’elenco delle spese contestate.

2. Prepara una memoria difensiva dettagliata: Nella risposta scritta (memoria difensiva) occorre affrontare puntualmente ogni addebito. Consigli: – Mantenere un tono professionale e rispettoso, evitando toni polemici o accusatori verso l’azienda. – Se vi è una spiegazione plausibile per alcune spese, fornirla con eventuali prove. Esempi: “la spesa del 10/05 presso l’Hotel XYZ, di importo €120, era inizialmente a mio carico personale ma fu poi utilizzata per ospitare un cliente, come risulta dalla presenza del cliente Sig. Rossi (email allegata)”; oppure “l’acquisto presso Farmacia ABC per €30 era dovuto all’urgenza di comprare medicinali durante una trasferta di lavoro, trattandosi di presidi sanitari necessari in itinere”. – Se effettivamente alcune spese sono indifendibili (ad es. acquisto regali di Natale per familiari con carta aziendale), conviene ammettere l’errore subito, mostrando pentimento: es. “Riconosco di aver utilizzato indebitamente la carta per l’acquisto X in data Y; si è trattato di un grave errore di valutazione di cui mi rammarico profondamente”. – Evidenziare eventuali attenuanti: prima violazione in anni di servizio impeccabile, importo modesto, mancanza di danno effettivo (specie se già rimborsato), stato di necessità personale (senza esagerare: giustificazioni come problemi familiari o economici possono spiegare ma non scusano del tutto, tuttavia aiutano a far percepire la persona come non puramente opportunista). – Offrire rimedi: se non si è già provveduto, dichiararsi disponibile a restituire immediatamente le somme contestate (o quelle effettivamente non giustificabili) e a pagare eventuali differenze. Allegare, se possibile, la ricevuta di un bonifico di rimborso all’azienda per l’importo controverso; oppure impegnarsi formalmente a farlo. La volontà di riparare riduce il motivo di conflitto e potrebbe convincere l’azienda ad adottare una sanzione conservativa invece del licenziamento. – Chiedere clemenza motivatamente: valorizzare la propria storia aziendale (“in 10 anni mai una contestazione, sempre onorato i miei doveri”), eventuali riconoscimenti avuti, per far pesare la sproporzione di una misura espulsiva per un singolo scivolone. Se il rapporto è lungo e positivo, l’azienda potrebbe decidere di dare una seconda possibilità. – Fare attenzione a non contraddirsi o mentire: fornire spiegazioni false o facilmente smentibili peggiora la situazione (la malafede aggravata la posizione). Se non si ha una giustificazione convincente, meglio puntare su ammissione e scuse piuttosto che inventare scuse poco credibili. – Forma della memoria: è opportuno redigerla in modo ordinato, magari per punti numerati che corrispondono agli addebiti, così che la commissione disciplinare possa leggere agevolmente il riscontro a ciascuna voce.

Di seguito un fac-simile semplificato di memoria difensiva:

Oggetto: Risposta a contestazione disciplinare del


Destinatario:


Mittente:

, Matricola

In riferimento alla Vostra lettera di contestazione disciplinare del

, relativa all’utilizzo della carta di credito aziendale per spese non autorizzate, intendo presentare le mie giustificazioni.

1. Spesa del

presso

, importo €…]:

. Esempio: “Confermo di aver effettuato l’acquisto indicato, di natura personale. Si è trattato di un utilizzo improprio dovuto a un mio errore: credevo erroneamente di poter addebitare alla società tale spesa che ritenevo rientrare nelle spese di rappresentanza, ma mi rendo conto ora che non era conforme alle policy aziendali. Me ne scuso sinceramente.”
2. Spesa del

presso

, importo €…]:

.

(E così via per ogni punto contestato)

Restituzione somme: Tengo a informare che ho già provveduto in data odierna a restituire all’azienda l’importo totale di €…] corrispondente alle spese personali impropriamente addebitate. Allego copia del bonifico bancario eseguito a favore di

.

Conclusioni: Riconosco la gravità dell’accaduto e il dispiacere di aver tradito la fiducia che l’azienda ha sempre riposto in me. Desidero ribadire che si è trattato di un episodio isolato in oltre

anni di servizio nei quali ho sempre agito con lealtà e correttezza. Sono profondamente pentito dell’errore commesso e assicuro che simili comportamenti non si ripeteranno mai più in futuro. Confido che possiate valutare le circostanze complessive (l’entità contenuta delle somme, il mio immediato rimborso e le mie scuse sincere) e vogliate considerare una sanzione disciplinare conservativa, permettendomi di continuare a offrire il mio contributo all’azienda e a riconquistare la Vostra fiducia.

Resto a disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento riteniate necessario e, se lo desiderate, sono disponibile a un incontro per discutere della questione di persona.

Cordiali saluti,

3. Richiesta di audizione (colloquio orale): In alternativa o in aggiunta alla memoria scritta, il lavoratore può chiedere di essere sentito verbalmente. Se non si è sicuri di esporre tutto al meglio per iscritto, l’incontro di persona (magari con un sindacalista o un avvocato al fianco, se il CCNL lo consente) può aiutare a chiarire aspetti e a mostrare di persona il proprio atteggiamento collaborativo e contrito. Durante l’audizione, è bene mantenere un atteggiamento rispettoso, evitando di mostrarsi aggressivi o di minimizzare troppo (“sono sciocchezze”) perché ciò irriterebbe la controparte. Meglio enfatizzare la propria volontà di rimediare e l’eccezionalità dell’errore.

4. Leva sulle formalità procedurali: Un lavoratore ben assistito verificherà anche se la contestazione disciplinare rispetta i requisiti formali: – È arrivata oltre un ragionevole lasso di tempo dalla conoscenza dei fatti? (Si potrebbe eccepire tardività, ma va usata cautamente: se il datore ha scoperto ora, la tardività non c’è; se invece sapeva da mesi, si può far notare nella difesa che i fatti risalgono a molto tempo fa e l’azienda li aveva sotto mano, insinuando che la reazione tardiva ha pregiudicato il diritto di difesa per affievolimento dei ricordi, ecc. Comunque, la Cassazione ormai valuta la tempestività dal momento di piena conoscenza). – La contestazione è sufficientemente specifica? (Se è vaga, es. “hai usato la carta per fini personali più volte”, senza dettagli, il lavoratore può lamentare di non poter esercitare appieno il diritto di difesa. Questo andrebbe sollevato subito nella memoria difensiva, chiedendo dettagli, come accennato). – Il termine di 5 giorni è stato garantito? (Se la lettera è arrivata tardi o non è stata consegnata correttamente, annotare eventuali irregolarità). – L’eventuale sanzione inflitta rispetterà i limiti del CCNL? (Alcuni contratti collettivi elencano le infrazioni e le relative sanzioni applicabili. Ad esempio, se nel codice disciplinare aziendale interno l’uso indebito di beni è punito con sospensione disciplinare, un licenziamento immediato potrebbe essere impugnabile perché ha saltato le gradazioni previste. Tuttavia, molti codici prevedono comunque il licenziamento per le infrazioni gravi o reiterate).

5. Coinvolgere il sindacato o un legale: Se il lavoratore è iscritto a un sindacato, dovrebbe informarlo subito. Spesso i sindacati aziendali possono intercedere informalmente, oppure affiancare il lavoratore nel procedimento (in alcune realtà c’è la “commissione disciplinare” con presenza sindacale). Anche consultare un avvocato del lavoro, almeno per un parere, può aiutare a impostare correttamente la difesa scritta. Questo è particolarmente opportuno se si teme che l’azienda voglia cogliere l’occasione per liberarsi del lavoratore (magari per altri motivi sottostanti): in tal caso, ogni passo va ponderato perché potrebbe preludere a una causa.

6. Valutare soluzioni alternative (dimissioni concordate): In alcuni casi, il lavoratore potrebbe preferire negoziare un’uscita “soft” invece di essere licenziato in tronco. Ad esempio, offrire le dimissioni immediate e il risarcimento delle somme, in cambio magari di una qualificazione dell’uscita come dimissioni per motivi personali (così da non avere il marchio del licenziamento per giusta causa). Questa strada ha pro e contro: – Pro: evita l’onta del licenziamento (utile per il curriculum), può permettere di percepire comunque il TFR subito e talvolta anche la NASpI (attenzione: le dimissioni normalmente escludono la NASpI, tranne se considerate per giusta causa – qui non è il caso – o se si tratta di risoluzione consensuale nell’ambito di conciliazione obbligatoria ex art. 7 L.604/66, ma per giusta causa non c’è obbligo di conciliazione; tuttavia, se l’azienda accetta di licenziare per giustificato motivo con accordo, allora c’è la NASpI. Argomento delicato, da valutare). – Contro: il lavoratore perde la chance di essere reintegrato o indennizzato se il licenziamento fosse impugnabile; rinuncia a far valere eventuali ragioni in giudizio. Questa scelta di solito si considera quando la posizione del lavoratore è difficilmente difendibile e una causa appare persa.

7. Prevenire la formalizzazione del licenziamento: Finché il procedimento disciplinare è pendente, c’è spazio per convincere il datore a non licenziare. Se, malgrado le difese, l’azienda appare intenzionata al licenziamento, un’ultima carta può essere (tramite legale) di prospettare le possibili complicazioni di una controversia giudiziaria: ad es. se l’importo è basso, far notare che un giudice potrebbe ritenere la sanzione sproporzionata e dare torto all’azienda, con obbligo di indennizzo. Ovviamente l’argomento va maneggiato con diplomazia, perché minacciare cause può irrigidire. Però in situazioni borderline può far riflettere il datore sui rischi.

Riassumendo in tabella alcune possibili mosse difensive e i relativi effetti:

Strategia difensivaDescrizione e Scopo
Ammissione dell’errore e pentimentoSe la violazione è evidente, riconoscerla e scusarsi può umanizzare il lavoratore agli occhi dell’azienda, mostrando affidabilità recuperabile. Negare l’evidenza peggiorerebbe la fiducia residua.
Restituzione immediata delle sommeEliminare subito il danno economico (versando quanto dovuto) riduce l’interesse punitivo del datore. Restituendo i soldi, il lavoratore mostra buona fede riparatoria e lascia all’azienda solo un fatto passato su cui decidere la sanzione, senza strascichi patrimoniali.
Spiegazioni giustificative (se credibili)Fornire contesto ai fatti: es. “pensavo fosse autorizzato perché in passato altri lo facevano”, oppure “ero convinto (erroneamente) che quell’acquisto rientrasse tra i benefit concessi”. Se supportate da elementi reali, tali spiegazioni possono far declassare la valutazione da dolo grave a errore scusabile. (Da usare solo se veritiere e documentabili).
Valorizzazione del buon servizio precedenteRicordare all’azienda i propri meriti: produttività, risultati, assenza di precedenti disciplinari. Serve a far pesare, in ottica disciplinare, il criterio dei “precedenti”. Un lavoratore modello difficilmente compie atti fraudolenti: se ne ha commesso uno, forse merita una seconda chance.
Evidenziare eventuali lacune procedurali del datoreSollevare con tatto questioni come: ritardo nella contestazione (se c’è), genericità o errori di persona. Ciò preserva difese in caso di contenzioso successivo. Ad esempio: “Faccio presente che i fatti risalgono a oltre un anno fa e sono stato informato solo ora; in tal senso il lungo tempo trascorso mi ha reso difficile ricordare dettagli utili a mia discolpa…”. Non si accusa il datore, ma si mette a verbale la circostanza.
Coinvolgimento di un rappresentante sindacaleFar assistere un sindacalista all’eventuale incontro o farsi consigliare nella stesura della risposta. Il sindacato può anche trattare per evitare il licenziamento, specialmente in aziende grandi dove hanno forza contrattuale.
Proposta di sanzione alternativaIl lavoratore stesso può suggerire: “sono disposto ad accettare una sospensione disciplinare senza retribuzione di X giorni come punizione”. Questo mostra comprensione della gravità e può dare all’azienda l’idea di un compromesso: punire sì, ma non espellere. Naturalmente la decisione spetta all’azienda, ma sapere che il dipendente accetterebbe di buon grado una punizione può facilitarla nel percorrere quella via.
Accordo transattivo/uscita consensualeIn extremis, se il lavoratore percepisce che manterrebbe comunque un clima negativo in azienda anche evitando il licenziamento, può negoziare l’uscita con un accordo (es. breve preavviso, definizione “dimissioni”, magari una lettera di referenze di cortesia, ecc.). Ciò chiude la vicenda senza strascichi legali per entrambe le parti.

Ogni situazione è a sé: la scelta delle strategie dipende dalla gravità oggettiva dei fatti e dal contesto aziendale. In ambienti molto rigorosi su compliance e condotta etica (es. banche, multinazionali), l’uso indebito di risorse aziendali viene quasi sempre sanzionato col licenziamento, per policy interna, a prescindere dalle difese. In realtà più piccole o familiari, c’è talvolta maggiore flessibilità, specie se il rapporto personale col titolare è buono. Il lavoratore deve cercare di leggere l’atteggiamento dell’azienda: se ci sono spiragli di comprensione, insistere su scuse e rimedio; se invece l’azienda appare intransigente e decisa a colpire, prepararsi già all’eventuale fase di impugnazione (quindi occhio a mettere per iscritto tutto ciò che possa poi servire davanti al giudice, come la già menzionata contestazione di eventuali ritardi, ecc.).

Impugnazione del licenziamento e tutela del lavoratore

Se l’esito del procedimento disciplinare è il licenziamento per giusta causa e il lavoratore ritiene che sia ingiusto (perché i fatti non sono veri, o non così gravi, o viziato procedimentalmente), può valutare di impugnare il licenziamento nelle sedi opportune. Ecco come funziona e quali sono le possibili tutele.

Procedura di impugnazione: il lavoratore deve, entro 60 giorni dalla ricezione della lettera di licenziamento, inviare una comunicazione scritta al datore (anche tramite PEC o raccomandata) dichiarando di impugnare il licenziamento. Questa è una semplice riserva di impugnazione (anche senza motivazioni dettagliate). Dopo averla inviata, ha ulteriori 180 giorni per depositare il ricorso al Tribunale del Lavoro competente. Se non rispetta questi termini (60+180), perde il diritto all’impugnazione.

Spesso, prima di arrivare al ricorso, si tenta una conciliazione: il lavoratore, magari assistito dal sindacato o da un legale, e il datore possono incontrarsi (talora in sede sindacale o in Commissione di Conciliazione presso l’Ispettorato del Lavoro) per trovare un accordo. In molti casi di licenziamento disciplinare, l’accordo può consistere in una somma economica a titolo transattivo (es. l’azienda paga qualche mensilità extra e il lavoratore rinuncia alla causa). Questo consente al lavoratore di ottenere un ristoro immediato e all’azienda di evitare il rischio di una causa dall’esito incerto.

Fase giudiziale: se si va in giudizio, il lavoratore (ricorrente) dovrà dimostrare l’illegittimità del licenziamento. Le possibili argomentazioni nel caso specifico possono essere: – Insussistenza del fatto contestato: ad esempio sostenere che il lavoratore non ha compiuto spese personali con la carta, o che c’è un errore di persona (spese fatte da altri, furto di carta non imputabile al dipendente). Se il giudice accertasse che il fatto materiale non sussiste (o che non è attribuibile al lavoratore), il licenziamento sarebbe sicuramente illegittimo. In tali casi di insussistenza totale o di mancanza del fatto, è prevista la tutela reale forte: reintegrazione nel posto di lavoro (tranne per contratti “Jobs Act”, si veda oltre) e risarcimento integrale fino ad un massimo (che varia secondo la normativa applicabile). – Fatto lieve o sproporzionato: il lavoratore può ammettere i fatti ma sostenere che non erano così gravi da giustificare il licenziamento. Può portare esempi di altre situazioni analoghe in azienda sanzionate meno severamente (per argomentare una disparità di trattamento), oppure evidenziare che ha restituito tutto spontaneamente, che l’importo era modico, che magari la policy interna non era chiarissima su alcuni usi. In pratica chiede al giudice di valutare la non proporzionalità della sanzione espulsiva. Se il giudice concorda sul fatto che la causa non era abbastanza grave, dichiarerà il licenziamento illegittimo per insussistenza di giusta causa/giustificato motivo soggettivo. Le conseguenze dipendono dal regime di tutela: – Per lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 in aziende con >15 dipendenti (o soggetti ancora coperti dall’art.18 St. Lav): il giudice in caso di insussistenza della giusta causa ma sussistenza del fatto può non reintegrare (se giudica il fatto comunque avvenuto ma punibile con sanzione conservativa), e condannare l’azienda a una indennità risarcitoria tra 12 e 24 mensilità (secondo la gravità e anzianità). Se invece il fatto è di minima entità tale da non costituire neanche illecito disciplinare, allora sarebbe insussistente il fatto disciplinare e scatterebbe la reintegra. – Per lavoratori soggetti al Jobs Act (D.Lgs. 23/2015), cioè tendenzialmente assunti dopo il 2015 in aziende sopra 15 dip., nonché per tutti i lavoratori di aziende con 15 o meno dipendenti, la reintegra nei licenziamenti disciplinari è molto limitata: si applica solo se “il fatto materiale non sussiste” o rientra tra le tutele discriminate/nulle. Se il fatto c’è ma è sproporzionato il licenziamento, la tutela è solo indennitaria (il giudice riconosce un’indennità risarcitoria omnicomprensiva, calcolata in base all’anzianità del lavoratore: oggi tra 6 e 36 mensilità, con criteri rimessi al giudice dopo gli interventi di Corte Cost.). Dunque il lavoratore riavrebbe un indennizzo monetario ma non il posto di lavoro. – Vizio procedurale: ad esempio contestazione tardiva o generica che abbia leso il diritto di difesa, oppure violazione di una previsione del contratto collettivo (es. non aver sentito il lavoratore che ne aveva fatto richiesta). I vizi procedurali nei regimi attuali portano in genere a una tutela indennitaria ridotta (spesso 6 mensilità fisse art.18 co.6 oppure 2-12 mensilità Jobs Act) ma non alla reintegra. Comunque, dichiarano illegittimo il licenziamento e riconoscono un risarcimento. – Altri motivi: raramente applicabile in questi casi, ma per completezza: potrebbe il lavoratore sostenere che il licenziamento sia in realtà rappresaglia per altro (es. per aver segnalato un illecito, per attività sindacale, ecc.) e quindi discriminatorio/nullo. Se lo provasse (onus molto difficile), otterrebbe reintegra piena. Ma di solito negli usi indebiti carta non c’è di mezzo la discriminazione.

Nel giudizio, l’azienda dovrà dal canto suo provare i fatti contestati e giustificare la proporzionalità. Porterà documenti (estratti conto, regolamenti violati, eventuali confessioni rese dal lavoratore nella fase disciplinare ecc.). Se ha seguito la procedura di contestazione regolarmente, parte con un vantaggio tecnico (il fatto ammesso o provato e fiducia compromessa è un argomento forte).

Esiti possibili del contenzioso:Licenziamento confermato: se il giudice ritiene che la giusta causa c’era, rigetta il ricorso. Il lavoratore rimane licenziato e nessun risarcimento è dovuto (tranne TFR e competenze di fine rapporto se non già versate, ma queste spettano comunque). – Licenziamento annullato con reintegra: scenario possibile se il fatto non sussiste o è un licenziamento nullo (poco probabile qui). Il datore deve riassumere il lavoratore, pagare tutte le retribuzioni arretrate dal licenziamento alla sentenza (entro un massimo di 12 mesi per il regime Fornero, mentre per discriminatori tutto), oltre a versare contributi, ecc. Il lavoratore rientra in servizio (anche se talvolta poi si accorda per uscire con una buonuscita). – Licenziamento illegittimo con sola indennità: il caso più comune se il lavoratore vince è l’ottenimento di un’indennità risarcitoria. L’importo varia come detto: ad esempio, se soggetto a Jobs Act ed ha 5 anni anzianità, potrebbe avere magari 10 mensilità di indennizzo. Questa indennità non è soggetta a contributi e solo in parte a imposizione fiscale (trattandosi di risarcimento). Il rapporto di lavoro però cessa definitivamente. – Conversione in giustificato motivo soggettivo: una curiosità tecnico-giuridica: prima del 2012, i giudici talvolta “convertivano” il licenziamento per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo (che è licenziamento disciplinare ma con preavviso) se ritenevano la causa non sufficientemente immediata. Oggi questa distinzione conta solo per capire se spettava o meno il preavviso: se il giudice valuta che non c’era giusta causa ma solo un motivo soggettivo, in teoria condanna anche al pagamento dell’indennità di mancato preavviso (oltre alle altre somme). Ma negli attuali regimi la differenza ai fini della reintegra/indennità è già presa in conto nei parametri di insussistenza/mancanza proporzionalità.

Costo e benefici dell’impugnazione: il lavoratore deve valutare, con l’assistenza legale, la convenienza della causa. Vanno considerati: – Elementi a suo favore (importo esiguo, condotta non fraudolenta, possibili vizi procedurali, ecc.) vs elementi a suo sfavore (prove schiaccianti di malafede, eventuali confessioni già rese). – Il regime sanzionatorio applicabile (ad es. se comunque non avrebbe diritto a reintegra perché Jobs Act, al massimo otterrà soldi: se già ha trovato altro lavoro potrebbe essere interessante lo stesso per avere quell’indennizzo; se spera di tornare in azienda, deve vedere se reintegra è realistica). – Il rapporto costi/benefici: una causa del lavoro può durare 1-2 anni in primo grado, più appello ed eventualmente Cassazione. Ci sono costi (avvocato, eventuali spese) e stress personale. Spesso le cause di licenziamento si chiudono con un accordo economico transattivo. Già all’udienza filtro (rito Fornero in alcune ipotesi) o in appello si può transigere. Molti lavoratori impugnano soprattutto per negoziare una buonuscita.

Naspi (indennità di disoccupazione): va ricordato che il licenziamento per giusta causa non preclude l’accesso alla NASpI. La normativa attuale prevede che la disoccupazione spetti ai lavoratori che perdono involontariamente il lavoro, e vi rientrano anche i licenziamenti per motivi disciplinari (non vi rientrano invece le dimissioni volontarie, salvo quelle per giusta causa del lavoratore). Dunque, anche se licenziato in tronco, il dipendente può fare domanda di NASpI; tutt’al più l’INPS ritarda di 30 giorni l’inizio del trattamento in caso di licenziamento per giusta causa (c’è una sorta di sanzione di disincentivo per finti licenziamenti accordati, ma il diritto sussiste). Questo aspetto è importante perché almeno garantisce un sostegno al reddito mentre si discute l’eventuale causa.

Infine, se il lavoratore è un dirigente (categoria diversa dagli impiegati/operai, con regole proprie), il licenziamento disciplinare segue criteri un po’ differenti: non c’è vera giusta causa in senso tecnico, ma “giustificatezza” del licenziamento. Tuttavia, per gravità, un comportamento del genere sarebbe considerato certamente giustificato per il licenziamento del dirigente (i dirigenti possono essere licenziati con motivo, salvo tutele contrattuali). Nel caso di dirigenti, spesso i contratti prevedono indennità supplementari se licenziati senza giusta causa. Se l’azienda qualifica come giusta causa il fatto, potrebbe non pagare tali indennità; il dirigente potrebbe fare causa per avere l’indennità di mancato preavviso o supplementare sostenendo che non era così grave (ma per un dirigente usare risorse aziendali privatamente è un tradimento grave: difficile spuntarla, a meno di importi simbolici).

Domande frequenti (FAQ)

D1: L’utilizzo della carta aziendale per spese personali è sempre un reato?
R: Non sempre, ma può integrare un reato. In particolare, se il dipendente volontariamente usa la carta aziendale – che può legittimamente usare solo per lavoro – per ottenere un profitto personale, la Cassazione ha chiarito che si configura il reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. . Non si applica invece l’art. 55 co.9 D.Lgs. 231/2007 (indebito utilizzo di carte) perché il dipendente è comunque autorizzato a usare quella carta (ne è “titolare qualificato”), quindi non è un estraneo che usa una carta altrui, ma uno che abusa di uno strumento affidatogli . Se però l’uso personale è occasionale, di modico valore, e viene subito sanato, difficilmente l’azienda sporge denuncia. In assenza di querela (o se il reato è lieve), la questione resta sul piano disciplinare e civile. Va anche detto che se l’azienda autorizza (formalmente o tacitamente) un certo uso promiscuo della carta, quel comportamento non sarebbe antigiuridico: ad esempio, alcune aziende consentono al dipendente di usare la carta di credito aziendale per anticipare spese personali purché poi le rimborsi, oppure per coprire emergenze, ecc. In tal caso non c’è ingiusto profitto perché c’è un consenso (anche se poi ci saranno aggiustamenti contabili). Ma se l’uso è chiaramente contrario alle regole aziendali e fatto di nascosto, è un potenziale reato.

D2: Possono licenziarmi in tronco per un singolo episodio di abuso della carta aziendale?
R: Sì, se l’episodio è considerato grave in sé, l’azienda può procedere al licenziamento per giusta causa anche al primo episodio (non serve la recidiva). La giurisprudenza ritiene che anche un singolo atto di appropriazione di risorse aziendali possa distruggere la fiducia: “l’utilizzo fraudolento del denaro aziendale per scopi privati costituisce grave inadempimento atto a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario”. Ad esempio, se prendo la carta aziendale e ci pago un televisore per me, una sola volta, ciò rappresenta una violazione grave della fiducia, per cui il datore può decidere di licenziarmi senza preavviso. Ovviamente, l’azienda valuterà caso per caso: se l’importo è irrisorio e il lavoratore è eccellente, potrebbe optare per una sanzione minore. Ma non c’è una soglia fissa: contano anche l’intenzionalità, l’occultamento, la posizione del dipendente (più è alto in grado, più è grave tradisca la fiducia). Pertanto sì, anche un singolo episodio può costare il posto.

D3: E se pensavo di avere diritto a quei soldi perché l’azienda mi doveva un rimborso?
R: Non è una giustificazione valida appropriarsi unilateralmente di risorse aziendali. La legge prevede modi leciti per far valere i propri crediti (chiedere il pagamento dovuto, eventualmente diffidare o fare causa), ma l’autotutela privata non è ammessa. La Cassazione ha escluso che il ritardo del datore in un pagamento giustifichi l’uso indebito da parte del lavoratore: l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) non può essere invocata per mascherare la propria inadempienza. Nel caso esaminato, un dipendente aveva usato la carta aziendale perché l’azienda tardava a rimborsargli delle spese: la Corte ha ritenuto il licenziamento legittimo, evidenziando che il lavoratore era consapevole della violazione e in malafede. In sostanza, anche se l’azienda è in torto su qualcosa, il dipendente non può “farsi giustizia da sé” prendendo fondi aziendali. Deve seguire le vie legali. Altrimenti, rischia comunque il licenziamento e perde anche la ragione che poteva avere sul credito.

D4: L’azienda ha scoperto che due anni fa ho fatto alcune spese personali con la carta. Non è troppo tardi per contestarmele?
R: Dipende da quando e come l’azienda ne ha avuto conoscenza certa. Il principio è che la contestazione disciplinare deve essere tempestiva dal momento in cui il datore viene a conoscenza dei fatti. Se per due anni l’azienda non se n’era accorta (es. perché il controllo contabile non l’aveva rilevato subito) e lo scopre solo ora magari grazie a un audit, la contestazione fatta ora è considerata valida e tempestiva. La Cassazione ha chiarito che non conta il tempo trascorso dal fatto in sé, ma quello dalla scoperta: il datore non ha l’obbligo di scovare immediatamente ogni infrazione perché confida nella correttezza del dipendente, e questa fiducia non può rivoltarsi contro il datore facendogli perdere il diritto di contestare. Quindi, se i controlli legittimamente avvenuti più tardi hanno rivelato l’abuso, la contestazione è legittima e non c’è prescrizione (nel rapporto di lavoro, per le sanzioni disciplinari individuali non esiste un termine di prescrizione fissato, salvo quelli dei CCNL, di solito pochi giorni solo per sanzioni minori; per i licenziamenti vige il principio di immediatezza relativo). Viceversa, se l’azienda già sapeva da tempo e ha colpevolmente taciuto, allora sì, la contestazione sarebbe tardiva e impugnabile. Ma è difficile per il lavoratore provare che il datore sapesse: dovrebbe emergere che un superiore gerarchico ne era a conoscenza e ha tollerato. Solo in tal caso il lavoratore può eccepire la decadenza disciplinare per tempestività mancata.

D5: In caso di licenziamento per questa ragione, ho diritto alla NASpI (disoccupazione)?
R: Sì, il licenziamento per giusta causa dà diritto alla NASpI, in quanto è una perdita involontaria del posto di lavoro. Anche se la causa è un comportamento del lavoratore, l’INPS comunque eroga l’indennità di disoccupazione (non c’è esclusione automatica). La normativa recente prevede però che la NASpI decorra dopo 30 giorni dal licenziamento in caso di licenziamento disciplinare, come sorta di “franchigia” (prima decorreva subito dal giorno successivo, ora per ridurre abusi c’è una piccola finestra di differimento). Ma non c’è alcun divieto di accesso: il lavoratore licenziato in tronco può – e deve, se vuole il sostegno – fare domanda di NASpI entro 68 giorni dal licenziamento. Diverso sarebbe se si dimettesse lui volontariamente (in quel caso la NASpI non spetta, salvo dimissioni per giusta causa, che qui non c’entrano). Dunque, benché licenziato per motivi a lui imputabili, il lavoratore può percepire la disoccupazione.

D6: L’azienda può trattenersi il mio TFR per coprire le spese che ho fatto con la carta?
R: Può cercare di compensare il suo credito con il TFR dovuto, ma con alcuni accorgimenti. La regola generale impedisce la compensazione tra crediti da lavoro (TFR) e debiti del lavoratore se questi non sono liquidi ed esigibili. Tuttavia, la giurisprudenza ammette la cosiddetta compensazione atecnica all’interno dello stesso rapporto di lavoro. In pratica, se è acclarato che il lavoratore deve una somma all’azienda (ad esempio perché ha sottoscritto un accordo di restituzione o c’è già una condanna al risarcimento), l’azienda può trattenere dal TFR quell’importo. Molte aziende lo fanno automaticamente in caso di licenziamento per giusta causa con danno: nel lettera di cessazione dicono “tratterremo dal TFR l’importo di €X per coprire il danno arrecato”. Se il lavoratore non contesta o se poi un giudice conferma quel danno, ciò è legittimo. Se invece il lavoratore disputa l’ammontare o l’an debeatur, di solito l’azienda trattiene comunque e lascia che sia il lavoratore eventualmente a fare causa per il TFR: in quella sede, il giudice valuterà la compensazione. Insomma, nella maggior parte dei casi pratici, sì, l’azienda tratterrà il TFR (in tutto o in parte) a titolo di compensazione. Il lavoratore potrebbe opporsi immediatamente diffidando l’azienda dal farlo e chiedendo tutto il TFR: ma se poi l’azienda insiste, l’unico rimedio è la causa. Va detto che il TFR è sempre dovuto al lavoratore, anche se licenziato per giusta causa. Non esiste una sanzione che faccia perdere il TFR (il TFR è retribuzione differita maturata). L’unica ragione per cui potrebbe non riceverlo tutto è appunto se c’è un debito verso il datore da compensare. Se il debito è minore del TFR, il lavoratore avrà la differenza.

D7: Una volta licenziato per giusta causa, avrò un “cartellino nero” che mi impedirà di trovare un altro lavoro?
R: Formalmente no – il lavoratore non ha “fedina lavorativa”. Il nuovo datore non può sapere i dettagli se non glieli fornisce il lavoratore stesso o se fa indagini. Però, nella pratica, alcune aziende chiedono referenze o quantomeno in fase di colloquio chiedono “perché ha lasciato il precedente impiego?”. Mentire non è mai buono, ma neppure dire “mi hanno licenziato perché usavo i soldi dell’azienda”. Bisogna presentare la cosa nel miglior modo possibile: ad esempio, “ho avuto una divergenza con il precedente datore su questioni amministrative e abbiamo risolto il rapporto”. In Italia non c’è un database pubblico dei licenziati per giusta causa. Solo se si cerca lavoro presso una realtà dove il precedente capo è conosciuto, c’è il rischio che informalmente la voce giri. Questo però esula dall’aspetto legale. Da un punto di vista strettamente giuridico, il lavoratore licenziato per giusta causa ha gli stessi diritti di un qualsiasi disoccupato. Se fa causa e vince, addirittura il licenziamento è cancellato (nei documenti di lavoro risulterebbe reintegrato o convertito in altro). Se non fa causa o la perde, rimane con quella cessazione. Ma i certificati di servizio di solito indicano solo “licenziato in data…”. Alcuni contratti (dirigenti) prevedono attestazioni tipo “per giusta causa ex art 2119 c.c.” nei documenti, ma la maggior parte delle volte non serve specificare il motivo sul libretto di lavoro (che peraltro non esiste più in forma fisica).

D8: Come prevenire un’accusa simile o difendersi preventivamente?
R: La prevenzione migliore è mantenere separate le spese. Se si ha una carta aziendale, usarla solo quando si è certi che la spesa è aziendale. In caso di dubbio, chiedere prima al responsabile. Se per sbaglio la si usa per una spesa privata (può capitare ad esempio avendo due carte nel portafoglio e pagando con quella sbagliata), avvisare subito l’ufficio amministrazione, spiegare l’errore e restituire la somma o autorizzare una trattenuta sullo stipendio. In questo modo, molto probabilmente non ci saranno conseguenze disciplinari: l’errore umano non doloso, se subito sanato, in genere viene perdonato (magari con un richiamo verbale). Se invece si spera “che non se ne accorgano”, si entra nel rischio. Per difendersi preventivamente in senso legale, non c’è molto: non esiste una liberatoria che si possa far firmare all’azienda per fare spese personali! L’unica è rispettare le regole. D’altro canto, se si è accusati ingiustamente (ad es. viene fuori che la carta è stata usata per spese strane quando era nelle mani del dipendente, ma in realtà magari era stata clonata), allora bisogna subito raccogliere le prove a proprio discarico – per esempio, denuncia di frode bancaria, segnalazioni alla società di carta di credito, etc. – e presentarle all’azienda per chiarire che non è stata colpa del dipendente. Spesso però i casi sono chiari: difendersi preventivamente significa non dare adito a contestazioni.

D9: L’azienda può anche chiedermi danni ulteriori, tipo danno di immagine?
R: In teoria potrebbe provarci, ma non è comune a meno che la vicenda sia diventata di dominio pubblico e abbia leso la reputazione aziendale. Ad esempio, se l’abuso è stato scoperto e ne hanno parlato i giornali locali, l’azienda potrebbe dire di aver subito un danno di immagine. Tuttavia, quantificarlo e imputarlo al lavoratore è complesso in giudizio. In mancanza di peculiari circostanze, il danno per l’azienda è il danno emergente (i soldi sottratti e gli eventuali costi per recupero). Altri tipi di danno (lucro cessante, immagine) sono rari e difficili da dimostrare. Se l’azienda li invoca in una causa, il giudice di solito richiede prova concreta di un pregiudizio (es. perdita di un contratto perché è emerso lo scandalo interno). Questo scenario è poco probabile in vicende di spese personali con carta. Quindi, generalmente, no: il lavoratore dovrà restituire le somme e pagare gli interessi e le spese legali, ma difficilmente qualcosa in più, salvo eccezioni.

D10: Se l’azienda aveva tacitamente permesso certe spese (per esempio il capo mi disse “usa pure la carta se ti serve, poi sistemo io”), posso evitare sanzioni?
R: Se riesci a provare che c’era una tacita autorizzazione o una prassi tollerata, questo può cambiare completamente il quadro. Un comportamento autorizzato non è illecito. Il problema è dimostrarlo: se era tutto informale e il superiore nega, è la tua parola contro la sua. Ma se ci sono email, messaggi, testimoni, che attestano che l’azienda (o un dirigente con potere) incoraggiava o chiudeva un occhio sull’uso promiscuo, allora la contestazione disciplinare potrebbe cadere per insussistenza del fatto (il fatto c’è, ma non è illecito poiché era consentito). Ad esempio, se puoi esibire una comunicazione in cui il direttore finanziario dice “Per eventuali necessità personali urgenti puoi usare la carta aziendale e poi ce lo segnali”, e tu l’hai fatto in buona fede, l’azienda non potrebbe punirti per quello. In mancanza di prove scritte, però, puntare su “me l’avevano detto a voce” è rischioso, specie se l’altro nega. Un’altra situazione: in alcune aziende c’è tolleranza implicita finché le cose vanno bene; poi magari cambia il management e improvvisamente ciò che prima era accettato diventa illecito. Anche qui, il lavoratore dovrebbe far valere che c’era un uso aziendale consolidato che legittimamente l’ha tratto in errore. Il Codice Civile (art. 2106 c.c.) parla di sanzioni in relazione alla gravità dell’infrazione e all’osservanza dei doveri: se un certo comportamento era di fatto tollerato, non si può pretendere che il lavoratore lo percepisse come violazione dei doveri. Ci sono state sentenze che hanno invalidato sanzioni disciplinari perché l’azienda in passato aveva tollerato quell’uso (principio di affidamento). In concreto, però, il lavoratore deve essere cauto: meglio avere qualcosa di tangibile a supporto di tali affermazioni.

Casi pratici di simulazione

Vediamo ora alcuni casi ipotetici (ma realistici) e come, in base a quanto esposto, potrebbero essere affrontati:

  • Caso 1: “Piccola distrazione subito rimediata” – Mario, impiegato, per errore paga €50 di spesa al supermercato con la carta aziendale (aveva nel portafoglio sia la sua carta personale che quella aziendale). Appena realizza l’errore, il giorno seguente manda un’email all’amministrazione aziendale spiegando l’accaduto e allega copia di un versamento di €50 nelle casse aziendali per restituire la somma. Esito: molto probabilmente l’azienda non procederà ad alcuna sanzione formale. Forse Mario riceverà un richiamo verbale a stare più attento. Non essendoci stata malafede né danno, e vista l’iniziativa immediata di Mario, l’episodio sarà archiviato come errore scusabile. Non emergono profili disciplinari né penali, e neppure fiscali (la somma non entrerà nei costi aziendali perché subito restituita).
  • Caso 2: “Prelievo di contante per scopi personali (non restituito)” – Carla, dipendente, preleva €500 in contanti con la carta di credito aziendale durante un weekend, senza autorizzazione. Non informa nessuno e spera di “farla franca”. L’amministrazione, a fine mese, notando l’addebito, le chiede spiegazioni. Carla inizialmente finge fosse per spese di viaggio, ma non ha ricevute. L’azienda avvia la procedura disciplinare. Esito: Questo è un caso grave di abuso. Carla ha agito di nascosto, ha tentato di giustificarsi con scuse ma senza prove. L’azienda con ogni probabilità procederà al licenziamento per giusta causa. Carla potrà difendersi solo chiedendo scusa e offrendo di restituire i €500, ma dato l’intento fraudolento (ha prelevato contante deliberatamente per sé), la fiducia è compromessa. L’azienda forse denuncerà il fatto come appropriazione indebita (ma se Carla restituisce subito, magari eviterà la querela). Fiscalmente, l’azienda toglierà €500 dai costi deducibili (ammesso li avesse registrati) e Carla dovrà restituire quell’importo magari subendo la trattenuta sul TFR se necessario. In sintesi: licenziamento quasi certo e rischio penale concreto (anche se mitigabile con rimborso). Carla difficilmente potrebbe vincere un’eventuale causa per riavere il posto, dato che il fatto è difficilmente difendibile nel merito.
  • Caso 3: “Rimborso spese gonfiato ma bloccato dai controlli interni” – Luigi, commerciale, rientrato da una trasferta, inserisce nel portale note spese €1000 di rimborsi, sapendo che in realtà una parte (€200) non era strettamente dovuta (qualche scontrino mancante, spesa non autorizzata). L’azienda rimborsa automaticamente €800 e segnala che €200 non sono riconosciuti (sistema di controllo postumo). Luigi non riceve quei €200 (vengono stornati dal rendiconto). Tuttavia, il suo capo, accortosi dell’irregolarità, considera il comportamento scorretto e propone di licenziarlo. Esito: Questo scenario è analogo a quello deciso dalla Cassazione nel 2025. Luigi ha tentato un rimborso extra ma non ha in realtà incassato indebitamente nulla, perché la procedura aziendale l’ha fermato. Secondo la Cassazione, non c’è giusta causa in una simile situazione, poiché manca il carattere fraudolento sostanziale e c’è un sistema di verifica che ha impedito il danno. L’azienda potrebbe comunque punire Luigi, ma la sanzione proporzionata sarebbe un richiamo scritto o al massimo una sospensione. Un licenziamento rischierebbe di essere dichiarato illegittimo in giudizio. Dunque, se il capo insiste per licenziare e lo fa, Luigi avrà buone chance di vincere l’impugnazione ottenendo l’annullamento del licenziamento o almeno un indennizzo. Probabile che l’azienda, su consiglio legale, opti invece per una sanzione conservativa (ad esempio una multa disciplinare) e metta Luigi sotto osservazione. Sul piano fiscale, nessun problema perché i €200 non sono stati pagati; sul piano penale, nessun reato consumato (non c’è appropriazione poiché nulla è uscito dalle casse in più, e anche il tentativo di truffa sarebbe difficile da configurare dovendo dimostrare l’intento di ingannare il sistema).
  • Caso 4: “Uso sistematico in azienda tollerato, poi manager nuovo sanziona” – In una piccola azienda familiare, era consuetudine che i dipendenti, durante le trasferte, usassero la carta aziendale anche per spese extra (es. una cena personale se restavano il weekend fuori, piccoli acquisti). Il titolare precedente lo sapeva e considerava queste cose come incentivi informali. Arriva un nuovo direttore amministrativo che fa piazza pulita: contesta a vari dipendenti tutte queste spese degli ultimi mesi come indebite. Esito: Qui i dipendenti possono difendersi invocando la prassi tollerata. Se provano (magari con testimonianze, email passate) che era autorizzato implicitamente, la contestazione disciplinare potrebbe essere rigettata dal giudice per mancanza di colpevolezza dei lavoratori: non si punisce un comportamento se l’azienda stessa l’aveva accettato prima (principio di affidamento e buona fede). Sarebbe opportuno però formalizzare in futuro: il nuovo manager farebbe bene a diramare una circolare che d’ora in poi ciò non è più concesso, così da mettere in chiaro le regole e poter sanzionare successivamente, ma non retroattivamente. In questo scenario, se l’azienda licenzia, il rischio di perdere la causa è alto per l’azienda. I lavoratori potrebbero essere reintegrati o risarciti, mostrando che non c’era intenzione fraudolenta e che credevano lecite quelle spese. È una situazione che evidenzia l’importanza di avere policy aziendali scritte e di farle rispettare: non si può prima lasciare libertà e poi punire severamente.
  • Caso 5: “Amministratore di società usa la carta per spese personali ingenti” – Il sig. Rossi, amministratore unico e socio al 100% della Rossi S.r.l., ha utilizzato nel 2023 la carta aziendale per pagare vacanze, abbigliamento e cene private per un totale di €50.000, che la contabilità ha registrato come “spese di rappresentanza”. Nel 2025, un accertamento fiscale scopre che quelle spese non erano inerenti. Esito: Sul piano del lavoro, essendo lui amministratore, nessuno lo licenzia (era il capo di sé stesso). Ma sul piano societario e fiscale, conseguenze pesanti: il Fisco recupererà i €50.000 a tassazione sull’azienda (maggiore IRES + sanzioni) e considererà probabilmente quei €50.000 come utili extra distribuiti a Rossi, socio unico, tassandoli in capo a lui. Rossi si troverà quindi a pagare doppie imposte (società + personali). Inoltre, se la società poi fallisse o se i creditori reclamassero, queste condotte sarebbero evidenziate come distrazione di risorse. Un curatore fallimentare potrebbe accusarlo di responsabilità e anche di bancarotta fraudolenta se la società è insolvente (spendere soldi per sé invece di pagar debiti è condotta distrattiva). Anche penalmente potrebbe emergere il reato di infedeltà patrimoniale o appropriazione indebita aggravata, benché essendo socio unico c’è il principio di autosoddisfazione (non c’è terzo offeso, discorso complesso, ma di base è scorretto). In sintesi, l’imprenditore individuale in forma societaria che confonde cassa azienda e cassa personale rischia molto: il Fisco non perdona e in certe condizioni scatta pure il penale tributario. L’unica “difesa” è regolarizzare: ad esempio, qualificare quei 50k formalmente come compenso amministratore (pagandoci ritenute e contributi) o come dividendo (che però in società di capitale non si può distribuire se non da utili). Se non l’ha fatto e viene scoperto, pagherà il conto. Il sig. Rossi avrebbe dovuto evitare di usare la società come portafoglio personale, oppure registrare ogni prelievo come debito verso socio e poi restituirlo alla società. Non avendolo fatto, ora subisce la stangata.

Conclusioni

L’utilizzo improprio di carte aziendali per spese private è una materia che intreccia il diritto del lavoro, il diritto penale e il diritto tributario. Dal punto di vista del debitore-lavoratore, difendersi è possibile, ma dipende molto dai fatti: la miglior difesa è prevenire tali situazioni mantenendo una condotta trasparente e corretta. Se l’errore avviene, occorre agire tempestivamente per mitigare i danni (collaborare, rimborsare, spiegare). In sede disciplinare interna, il lavoratore ha diritto di far valere le proprie ragioni e circostanze attenuanti, e l’azienda deve valutare proporzionalmente la sanzione. La legge e la giurisprudenza forniscono strumenti di tutela al lavoratore, ma solo quando effettivamente la sanzione appare ingiustificata o viziata. Al contrario, quando l’abuso è provato e grave, le possibilità di evitare il licenziamento si riducono drasticamente.

Dal punto di vista fiscale e societario, l’utilizzo di fondi aziendali per fini privati porta a conseguenze certe: recupero d’imposta e possibile tassazione del beneficio in capo al beneficiario. Anche in questo ambito, la difesa sta nel provare la correttezza o nel rimediare prima dell’intervento del Fisco. Pianificare preventivamente ed evitare confusioni tra patrimonio sociale e esigenze personali è fondamentale per imprenditori e amministratori.

In definitiva, “come difendersi” in questi casi significa: – per il lavoratore dipendente: conoscere i propri diritti nella procedura disciplinare, preparare con cura la propria difesa (sia in azienda che eventualmente in tribunale), e adottare un atteggiamento riparatorio e collaborativo che possa convincere il datore a soprassedere al licenziamento o, se ciò non avviene, convincere un giudice dell’eccessiva durezza del provvedimento; – per l’imprenditore/socio: regolarizzare immediatamente eventuali usi personali (rimborsando la società o formalizzando i prelievi come dividendi o compensi), per evitare guai fiscali e penali; e se contestato dall’Agenzia Entrate, impostare una difesa tecnica su aspetti formali o su vuoti di prova (compito in cui farsi assistere da tributaristi esperti).

La materia è complessa, ma le ultime pronunce (2022-2025) delineano abbastanza nettamente i confini: tolleranza zero verso gli abusi dolosi e di rilevante entità (che giustificano licenziamento in tronco e sanzioni anche penali), mentre c’è uno spiraglio di tutela per i casi borderline o di errore procedurale senza profitto (in cui il licenziamento può essere ritenuto illegittimo e sostituito da misure meno afflittive). Il punto di vista del debitore deve essere quello di chi dimostra responsabilità: assumersi le proprie colpe quando ci sono, può paradossalmente rafforzare la propria posizione negoziale (dimostrando maturità e volontà di rimediare). Al contrario, negare l’evidenza o perseverare nell’illecito porta quasi certamente a subire le conseguenze massime senza attenuanti.

Come sempre, in situazioni del genere è altamente consigliabile farsi assistere da professionisti (avvocati giuslavoristi e tributaristi) sia nella fase stragiudiziale che nell’eventuale contenzioso, perché una parola giusta o un passaggio tecnico possono fare la differenza tra il salvare il posto (o raggiungere un accordo accettabile) e il perdere tutto con ulteriori aggravamenti.

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato l’utilizzo di carte aziendali per spese considerate personali? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato l’utilizzo di carte aziendali per spese considerate personali?
Vuoi sapere cosa rischi e come predisporre una difesa efficace?

👉 Prima regola: dimostra che le spese sostenute con la carta aziendale erano inerenti all’attività e non rappresentano benefici personali non tassati.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Utilizzo della carta di credito aziendale per spese ritenute non collegate all’attività;
  • Mancanza di documentazione giustificativa per determinati pagamenti;
  • Oneri classificati come costi aziendali ma riconducibili a spese private;
  • Utilizzo della carta da parte di soci o amministratori per fini personali;
  • Disallineamenti tra registrazioni contabili e rendiconti delle carte.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Indeducibilità dei costi relativi alle spese considerate personali;
  • Recupero delle imposte per maggiori redditi imponibili;
  • Sanzioni fiscali per dichiarazione infedele;
  • Interessi di mora sulle somme contestate;
  • Rischio di contestazioni penali in caso di uso sistematico e rilevante delle carte.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Ogni spesa è realmente aziendale o personale?
  • Sono disponibili fatture, ricevute o contratti che provano l’inerenza?
  • Le spese sono coerenti con l’attività e con i servizi resi?
  • Esiste regolamentazione interna sull’uso delle carte aziendali?
  • L’accertamento si basa su verifiche oggettive o su presunzioni?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Estratti conto e rendiconti delle carte aziendali;
  • Fatture e ricevute collegate alle spese contestate;
  • Note spese e giustificativi firmati;
  • Regolamenti aziendali interni sull’uso delle carte;
  • Dichiarazioni fiscali e registrazioni contabili.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare l’inerenza delle spese con prove documentali;
  • Contestare la riqualificazione automatica come spese personali;
  • Evidenziare la buona fede e la presenza di regolamenti aziendali interni;
  • Eccepire vizi di motivazione o errori di valutazione nell’accertamento;
  • Richiedere annullamento in autotutela se la documentazione era già agli atti;
  • Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro i termini.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza gli estratti conto e le spese contestate;
📌 Valuta la fondatezza della contestazione e individua i margini difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per un uso sicuro e trasparente delle carte aziendali.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e diritto d’impresa;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni fiscali per utilizzo improprio di carte aziendali;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni per utilizzo di carte aziendali per spese private non sempre sono fondate: spesso derivano da carenze documentali o da interpretazioni restrittive.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale inerenza delle spese, evitare il recupero di imposte indebite e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni sull’uso delle carte aziendali inizia qui.

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Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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