Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per spese relative a software considerate non inerenti? In questi casi, l’Ufficio presume che i costi sostenuti per licenze, programmi gestionali, applicazioni o servizi digitali non abbiano un legame diretto con l’attività d’impresa o professionale e quindi non siano deducibili. Le conseguenze possono essere molto pesanti: recupero delle imposte, applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare l’utilità e l’inerenza delle spese sostenute.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta spese per software
– Se il software acquistato è utilizzato anche per scopi personali e non solo aziendali
– Se le licenze o i canoni di abbonamento non risultano collegati all’attività svolta
– Se mancano contratti, fatture dettagliate o documentazione tecnica a supporto
– Se i costi appaiono sproporzionati rispetto ai ricavi dell’impresa
– Se l’Ufficio presume che si tratti di spese fittizie inserite per ridurre il reddito imponibile
Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità totale o parziale delle spese contestate
– Recupero a tassazione delle somme ritenute non giustificate
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme dovute
– Nei casi più gravi, possibile contestazione per dichiarazione infedele
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare che il software è effettivamente utilizzato per l’attività aziendale
– Produrre contratti di licenza, fatture dettagliate e corrispondenza con i fornitori
– Presentare relazioni interne o tecniche che provino l’impiego del software nei processi aziendali
– Contestare le presunzioni del Fisco se basate solo su considerazioni generiche
– Evidenziare errori di calcolo, difetti istruttori o vizi di motivazione nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione delle spese in caso di utilizzo promiscuo (aziendale/personale) per ridurre le sanzioni
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i costi contestati e la documentazione fiscale e tecnica disponibile
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta applicazione del principio di inerenza
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e giurisprudenza favorevole
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da pretese fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– Il riconoscimento della deducibilità totale o parziale delle spese per software
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione di sanzioni e interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: le spese per software sono tra le più frequentemente contestate dal Fisco, soprattutto se non adeguatamente documentate. È fondamentale predisporre prove chiare che ne dimostrino l’inerenza all’attività.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso fiscale – spiega come difendersi in caso di accertamento fiscale per spese di software considerate non inerenti e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.
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Introduzione
Un accertamento fiscale per contestazione di spese per software “non inerenti” si verifica quando l’Agenzia delle Entrate contesta a un contribuente – sia esso imprenditore, professionista o società – la deduzione di costi relativi a software ritenuti non attinenti all’attività svolta. In pratica il Fisco sostiene che tali spese informatiche non abbiano un nesso con la produzione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo e, di conseguenza, non possano essere dedotte dal reddito imponibile secondo le norme vigenti . Questo tipo di contestazione rientra nella più ampia categoria degli oneri non ammessi in deduzione perché carenti del principio di inerenza previsto dalla legge. Spesso riguarda costi legati a programmi gestionali, licenze software, servizi digitali, strumenti di marketing o soluzioni di intelligenza artificiale (AI) che, a giudizio dell’Amministrazione finanziaria, sarebbero estranei o eccessivi rispetto all’attività esercitata.
Le conseguenze di un accertamento del genere possono essere rilevanti. In caso di esito sfavorevole al contribuente, l’Ufficio procederà al recupero a tassazione dei costi ritenuti indeducibili, con una rettifica in aumento del reddito imponibile. Contestualmente verranno applicate sanzioni tributarie (tipicamente per dichiarazione infedele), che possono arrivare fino al 90% – 180% dell’imposta relativa ai costi contestati (in casi gravi anche il 200% della maggiore imposta accertata) , oltre al computo degli interessi di mora dovuti. Inoltre, l’accertamento comporterà la rettifica delle dichiarazioni fiscali e dei bilanci degli esercizi interessati . In situazioni estreme, se le spese contestate fossero state contabilizzate in modo da alterare i risultati di bilancio (ad esempio gonfiando artificiosamente i costi per abbattere l’utile), potrebbe persino scattare una segnalazione all’Autorità giudiziaria per verificare possibili false comunicazioni sociali da parte degli amministratori della società . Infine, ove il maggior reddito accertato configuri una significativa evasione d’imposta, non è escluso l’avvio di procedimenti penali tributari a carico del contribuente (si pensi al reato di dichiarazione infedele ex art. 4 D.Lgs. 74/2000, che scatta oltre €100.000 di imposta evasa – v. § Profili penali).
Di fronte a contestazioni di questo tipo, è fondamentale ricordare che il contribuente ha il diritto di difendersi e di far valere la legittimità delle proprie deduzioni . Non tutte le contestazioni del Fisco, infatti, sono fondate o incontrovertibili: l’inerenza di un costo è concetto sfumato e spesso è oggetto di interpretazione, tanto che la giurisprudenza tributaria negli ultimi anni ha delineato principi importanti a tutela dei contribuenti (ad es., ha chiarito che anche spese economicamente “antieconomiche” possono essere inerenti se funzionali all’attività ). Dunque, chi si vede recapitare un avviso di accertamento per spese di software non inerenti deve sapere quando e perché può scattare una simile contestazione, quali sono le norme di riferimento su cui poggia la pretesa fiscale e, soprattutto, quali strategie difensive attivare in sede amministrativa e contenziosa per contrastarla .
In questa guida esamineremo dapprima il quadro normativo italiano sul principio di inerenza e sulla deducibilità delle spese per software, per poi passare alle tipologie di costi software più comuni e alle situazioni in cui il Fisco tende a contestarli. Verranno quindi analizzate le contestazioni tipiche sollevate dall’Agenzia delle Entrate (dalle ipotesi di spese palesemente personali o estranee all’oggetto sociale, ai casi di costi “antieconomici” o documentazione carente, fino alle verifiche derivanti da indagini finanziarie e controlli automatizzati/documentali). Seguirà una parte dedicata a come difendersi efficacemente, sia in fase pre-contenziosa (ovvero durante la verifica o tramite istanze di autotutela, adesione, mediazione) sia in sede contenziosa davanti alle Commissioni/ Corti di Giustizia Tributaria. Verranno illustrate le principali strategie difensive, il riparto dell’onere della prova tra Fisco e contribuente secondo le norme e le più recenti sentenze, e gli strumenti per far valere le proprie ragioni (produzione documentale, perizie tecniche, richiami giurisprudenziali, eccezioni procedurali, ecc.). Infine, proporremo alcune FAQ (domande e risposte) su questioni frequenti e delle simulazioni pratiche di casi reali (riguardanti, ad esempio, un libero professionista con spese software contestate, una PMI che implementa un ERP, una grande impresa con un progetto AI, ecc.), allo scopo di mostrare concretamente come impostare una difesa vincente.
Prospettiva del debitore d’imposta: va sottolineato che l’approccio della guida è focalizzato sul punto di vista del contribuente, ossia di colui che si vede muovere la contestazione. L’intento è fornire gli strumenti conoscitivi e operativi per tutelare i propri diritti e limitare gli effetti di un possibile accertamento fiscale sfavorevole. Conoscere le regole del gioco e i più recenti orientamenti dei tribunali permette infatti di predisporre una difesa solida e documentata, aumentando le chance di ottenere l’annullamento (totale o parziale) della pretesa tributaria o quantomeno una significativa riduzione di imposte e sanzioni .
Importante: poiché la materia è complessa e in evoluzione, ogni affermazione sarà accompagnata da riferimenti a fonti normative e sentenze aggiornate (fino a settembre 2025), riportate in fondo alla guida nella sezione Fonti. Ciò consentirà al lettore di verificare l’autorevolezza delle informazioni e di approfondire ulteriormente gli aspetti di interesse. Procediamo dunque con l’analisi, iniziando dal fondamento giuridico del principio di inerenza e dalle norme che regolano la deducibilità dei costi relativi al software.
Normativa di riferimento: inerenza e deducibilità delle spese per software
Per comprendere quando una spesa per software è deducibile e quando invece può essere contestata come “non inerente”, occorre partire dalle fonti normative italiane che disciplinano la materia. Di seguito riepiloghiamo i riferimenti principali, a livello di leggi tributarie e di principi civilistici, evidenziando come si applicano nello specifico alle spese per programmi informatici e servizi digitali.
- Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR, D.P.R. 917/1986) – È la legge fondamentale in materia di reddito d’impresa e di lavoro autonomo. Stabilisce i criteri generali di competenza e inerenza per la deducibilità dei costi. In particolare, l’art. 109 del TUIR enuncia il principio secondo cui “le spese e gli altri componenti negativi […] sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito” . Questa disposizione (originariamente art. 75, comma 5, del TUIR) è alla base del concetto di inerenza: implica che un costo è deducibile solo se attinente all’attività esercitata e funzionale, almeno potenzialmente, alla produzione di ricavi tassabili . Il legislatore non fornisce però una definizione dettagliata di “inerenza”, lasciando che siano la prassi applicativa e la giurisprudenza a delinearne i contorni (come vedremo, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’inerenza è un concetto qualitativo, di correlazione con l’attività, e non richiede un immediato rapporto costi-ricavi ). Si noti che l’art. 109 TUIR, al comma 5, esclude dal proprio ambito gli interessi passivi e alcuni oneri specifici, che seguono regole proprie, ma per tutti gli altri costi aziendali il principio generale è quello appena citato.
- Art. 108 TUIR – Riguarda espressamente le spese la cui utilità si estende su più esercizi, categoria in cui rientrano sovente le spese per software. Il comma 1 dell’art. 108 dispone che “le spese relative a più esercizi sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio” . In altre parole, un costo ad utilità pluriennale (ad esempio l’acquisto di un software gestionale utilizzabile per diversi anni) deve essere dedotto in modo graduale, seguendo il principio di competenza: ogni esercizio potrà dedurre solo la quota di costo di propria competenza, tipicamente determinata secondo i criteri di ammortamento civilistici . Anticipare indebitamente la deduzione di un onere pluriennale in un unico anno fiscale costituisce una violazione del principio di competenza e porta il Fisco a riprendere a tassazione la parte di costo eccedente la quota dell’anno (configurandola appunto come deduzione indebita) . Il comma 2 dell’art. 108 prevede un’eccezione a favore delle nuove imprese: esse possono, in via facoltativa, posticipare la deduzione delle spese di start-up al primo esercizio in cui conseguono ricavi (anziché dedurle nell’anno di sostenimento) . Ciò consente alle start-up di non “sprecare” deduzioni in anni in perdita, ma anche questa è una facoltà da esercitare secondo legge, non un arbitrio: l’anticipazione o il differimento della deduzione sono ammessi solo nei limiti previsti. Il comma 3 dell’art. 108 disciplina infine le spese di rappresentanza, imponendo limiti quantitativi alla loro deducibilità (percentuali sui ricavi) – un aspetto non direttamente attinente alle spese per software, se non quando l’acquisto di un software o servizio informatico possa essere qualificato esso stesso come spesa di rappresentanza (ipotesi rara, ma ad esempio si pensi a una costosa applicazione mobile regalata ai clienti: andrebbe valutata secondo i criteri delle spese di rappresentanza).
- Art. 103 TUIR – Questa norma è cruciale per il trattamento fiscale dei beni immateriali e riguarda da vicino molti investimenti in software. L’art. 103 disciplina infatti la deducibilità delle quote di ammortamento dei beni a fecondità ripetuta di natura incorporea (ossia i cespiti intangibili durevoli), un elenco che include brevetti, opere dell’ingegno (come i programmi software), marchi, concessioni, avviamento acquisito, ecc. . In generale, tali beni sono deducibili tramite ammortamento in base alla loro vita utile. Ad esempio, per il software applicativo acquistato a titolo oneroso, in bilancio si stima una vita utile (spesso 3-5 anni per molti software) e si procede ad ammortamento; fiscalmente, l’art. 103 consente di dedurre le quote di ammortamento in misura non superiore a quella civilistica, con però alcuni paletti: le quote vanno distribuite su almeno due esercizi (non è ammessa la deduzione in un solo anno anche se civilisticamente ammortizzato subito) , e per alcuni beni specifici come i marchi e l’avviamento possono esistere periodi minimi molto più lunghi (nel recente passato, rivalutazioni di marchi/avviamento sono deducibili in 50 anni salvo imposte sostitutive pagate ). Per il software, in particolare, vige il principio generale: se è un bene autonomo capitalizzato (es. licenza pluriennale o software proprietario sviluppato/acquisito), va ammortizzato lungo la vita utile stimata. Se il software ha una durata contrattuale definita (ad es. licenza d’uso per 5 anni), l’ammortamento civilistico e fiscale seguirà quella durata ; se la durata utile non è definita (es. software con licenza perpetua o sviluppato internamente senza scadenza prevedibile), si stimerà una vita utile ragionevole in base ai principi contabili (spesso non oltre 5 anni, salvo casi particolari) e comunque fiscalmente la deduzione non potrà avvenire in meno di 2 anni . È importante notare che il software di base (ad esempio il sistema operativo di un computer) in ambito fiscale viene di norma assimilato ai beni materiali strumentali e dedotto con i coefficienti di ammortamento dei cespiti elettronici (tipicamente 20% annuo), mentre il software applicativo rientra tra le opere dell’ingegno soggette ad ammortamento ex art. 103 (aliquota fiscale di regola 50% annuo, quindi vita minima 2 anni) . Questi dettagli tecnici servono a evidenziare che un’eventuale contestazione del Fisco potrebbe riguardare non solo l’inerenza in senso stretto del software all’attività, ma anche la corretta qualificazione temporale della spesa: ad esempio, se un’impresa ha acquistato un costoso software ERP con licenza illimitata e lo ha dedotto integralmente nell’anno invece di ammortizzarlo, l’Ufficio potrà legittimamente riprendere a tassazione la quota dedotta in eccesso, configurando un errore di competenza (violazione dell’art. 108 e 103 TUIR). In tal caso la spesa in sé può essere inerente (il software serve all’attività), ma viene contestata la modalità di deduzione perché anticipata indebitamente rispetto alle quote spettanti . Distinguere queste due dimensioni – inerenza qualitativa vs. competenza temporale – è fondamentale per costruire la difesa appropriata (vedi oltre).
- Codice Civile, art. 2426 – Il diritto civile fornisce i criteri di base per la contabilizzazione di costi e beni pluriennali. L’art. 2426 c.c. (rilevante per società di capitali e in generale per bilanci redatti secondo il Codice Civile) prevede, tra l’altro, che: i costi di impianto e ampliamento, e i costi di sviluppo capitalizzati siano ammortizzati entro un periodo non superiore a 5 anni (comma 1 n.5) ; le spese su beni di terzi (come le migliorie su beni in leasing o locazione) vadano ammortizzate tenendo conto della durata residua del contratto (comma 1 n.2) ; più in generale, che un costo possa essere iscritto all’attivo solo se ne sia dimostrabile l’utilità futura e la recuperabilità economica (principio di prudenza) . Perché questo rileva? Perché se, ad esempio, una spesa per software fosse palesemente estranea all’oggetto sociale o destinata a finalità personali, già in bilancio non sarebbe legittimo attivarla tra le immobilizzazioni (mancando l’utilità per l’impresa). Inoltre, il rispetto delle regole civilistiche può essere un argomento difensivo: se un software è stato correttamente capitalizzato e ammortizzato a bilancio, ciò è indice che l’organo amministrativo lo considerava utile per più esercizi e inerente all’attività – elemento che la difesa può evidenziare a proprio vantaggio. Va detto però che, ai fini fiscali, l’oggetto sociale non è un vincolo assoluto: una spesa non esplicitamente menzionata nello statuto sociale può comunque essere inerente se funzionalmente collegata all’attività in concreto esercitata . La Cassazione ha ad esempio ritenuto deducibili i costi sostenuti da una società per manutenzione di macchinari concessi in comodato gratuito ai clienti, benché per contratto le spese spettassero ai comodatari: si è valutato che la spesa, ancorché non obbligatoria secondo il contratto, era economicamente giustificata in funzione della fidelizzazione dei clienti e quindi potenzialmente produttiva di reddito . Questo per sottolineare che le valutazioni civilistiche formali (oggetto sociale, previsioni contrattuali, ecc.) non prevalgono sui risultati sostanziali: in sede fiscale conta la reale utilità economica della spesa per l’impresa.
- Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000) – All’art. 7 garantisce il diritto del contribuente a ricevere atti impositivi motivati in modo chiaro e comprensibile. Questo implica che un avviso di accertamento per costi non inerenti deve spiegare le ragioni per cui l’Ufficio ritiene che quei costi siano estranei all’attività (ad esempio, evidenziando che manca un contratto che colleghi il software all’attività aziendale, oppure che la società opera in un settore del tutto diverso rispetto al software acquistato). Un deficit di motivazione può costituire vizio impugnabile dell’atto. Inoltre, l’art. 8 dello Statuto, al comma 5, come modificato dal D.Lgs. 219/2023, ha introdotto un importante principio in tema di conservazione dei documenti fiscali: oggi stabilisce che il contribuente non è obbligato a conservare oltre il decennio i documenti rilevanti ai fini tributari, e che il Fisco non può pretendere documenti relativi a periodi oltre 10 anni indietro . Questa norma mira a tutelare il contribuente da contestazioni fondate su pezze giustificative molto risalenti nel tempo. Tuttavia, occorre fare attenzione: secondo la Cassazione, tale previsione generale va coordinata con le norme speciali in materia di accertamento . In particolare, l’obbligo di tenuta delle scritture contabili (art. 22 del D.P.R. 600/1973) permane fino alla definizione degli accertamenti dell’anno cui le scritture si riferiscono, anche oltre i termini ordinari . Ciò è stato interpretato dalla Suprema Corte nel senso che, se un costo ha effetti su più esercizi (dedotto pro-quota in anni successivi), il contribuente deve conservare i documenti originari finché non siano decaduti i termini di accertamento di tutti gli anni in cui quel costo incide . Ad esempio, se si è dedotto ogni anno dal 2015 al 2020 una quota di ammortamento di un software acquistato nel 2015, bisognerà conservare la fattura del 2015 almeno fino al termine di decadenza dell’anno d’imposta 2020 (e non solo fino al 2025). Dunque, invocare rigidamente il limite decennale dello Statuto potrebbe non bastare in contenzioso: la Cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 8500/2021) ha affermato che per i componenti a deduzione pluriennale conta ogni anno di utilizzo fiscale, e la documentazione va esibita finché l’ultimo anno non sia prescritto . Su questo punto, comunque, esiste un dibattito e qualche margine argomentativo (vedi oltre, § Difesa sul piano documentale), specie considerando che la modifica statutaria del 2023 potrebbe essere letta in chiave favorevole al contribuente a partire dalle nuove annualità.
- D.P.R. 600/1973 (Accertamento tributario) – Come accennato, l’art. 22, c.2 di questo decreto prevede che le scritture contabili obbligatorie vadano conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti dell’anno cui si riferiscono . Inoltre l’art. 32 del medesimo D.P.R. conferisce all’Amministrazione finanziaria ampi poteri istruttori: ad esempio la facoltà di eseguire indagini finanziarie (acquisire informazioni sui conti bancari del contribuente) e di richiedere documentazione al contribuente stesso o a terzi. Questi strumenti sono spesso utilizzati nelle verifiche relative a costi “sospetti”: tramite le indagini finanziarie il Fisco può rilevare pagamenti anomali (es. un bonifico verso un fornitore estero di software non noto, che potrebbe nascondere un’operazione inesistente o un trasferimento extracontabile), oppure attraverso controlli formali (art. 36-ter DPR 600/73) può chiedere al contribuente di inviare copie di fatture e contratti per verificarne la regolarità. È importante sapere che la mancata esibizione dei documenti richiesti in sede di verifica pregiudica la successiva difesa: in base all’art. 32, co.4 del DPR 600/73, i documenti non forniti al Fisco durante l’accesso, ispezione o verifica non sono ammessi in giudizio a favore del contribuente, salvo circostanze eccezionali. Quindi, se durante un controllo l’ufficio chiede documentazione sul software, è essenziale collaborare e fornire tutto il materiale disponibile, per non trovarsi poi impossibilitati a usarlo come prova in contenzioso.
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari) – Sul fronte penale, le norme da tenere presenti sono principalmente: l’art. 4 (Dichiarazione infedele) che punisce chi indica elementi passivi fittizi o indebite detrazioni nelle dichiarazioni dei redditi, superando determinate soglie; e gli artt. 2 e 3 (Dichiarazione fraudolenta mediante fatture false o altri artifici) che riguardano le operazioni inesistenti. Nel contesto delle spese di software non inerenti, il reato configurabile in caso di contestazione fiscale è di norma la dichiarazione infedele (art. 4) qualora il vantaggio fiscale indebito superi €100.000 di imposta evasa e il 10% dell’imponibile dichiarato . Ad esempio, una società che abbia dedotto costi di software inesistenti o estranei per €500.000 riducendo l’imposta di €140.000, supererebbe la soglia e rischierebbe il penale . Va sottolineato però che nei casi di inerenza contestata, spesso manca il dolo specifico di evasione tipico delle frodi conclamate: l’imprenditore può sempre sostenere di aver ritenuto in buona fede deducibile quel costo . La Cassazione penale ha infatti distinto le ipotesi di errori di qualificazione o valutazione di costi reali (come l’anticipare una deduzione pluriennale, o dedurre spese opinabili) dalle frodi mediante falsi costi: nel primo caso non c’è una condotta fraudolenta ma al più una violazione tributaria amministrativa (mancanza di dolo) , mentre solo nel secondo (costi fittizi inesistenti) si configura una vera frode. Inoltre, il D.Lgs. 74/2000 prevede all’art. 13 cause di non punibilità se il contribuente estingue il debito tributario prima del dibattimento penale . In pratica, qualora dovesse scattare una denuncia penale per costi non inerenti (dich. infedele), il pagamento integrale del tributo e della sanzione amministrativa dovuta entro l’apertura del processo penale conduce all’archiviazione/estinzione del reato. Ciò offre un importante strumento di tutela: regolarizzare la posizione fiscale (anche tardivamente) consente di evitare strascichi penali. Infine, merita menzione l’art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993 (come modificato negli anni), il quale vieta in assoluto la deducibilità di costi illeciti o provenienti da operazioni costituenti reato (es. tangenti, costi di beni destinati a reati, ecc.). Se per ipotesi una spesa di software celasse un pagamento illecito, sarebbe indeducibile ex lege per questo motivo ancor prima che per inerenza.
Ricapitolando il quadro normativo, possiamo dire che: la deducibilità delle spese per software richiede, in linea generale, che tali spese siano inerenti all’attività produttiva di reddito (art. 109 TUIR) e vengano dedotte nell’esercizio corretto in base al principio di competenza (art. 108 TUIR), eventualmente tramite ammortamento pluriennale se la loro utilità si protrae nel tempo (art. 103 TUIR e regole civilistiche). Devono inoltre essere documentate adeguatamente e rispettare eventuali vincoli specifici (come le percentuali di deducibilità se riconducibili a categorie particolari di spesa). In mancanza di questi presupposti, l’Amministrazione finanziaria potrà contestare il costo e negarne la deduzione. I paragrafi che seguono approfondiranno proprio quando scatta la contestazione dell’“inerenza” e quali sono le casistiche tipiche in cui un software o un servizio informatico vengono considerati dal Fisco non deducibili. Successivamente, vedremo come il contribuente possa difendersi e far valere le proprie ragioni di fronte a tali contestazioni.
Spese per software: tipologie e trattamenti (aspetti civilistici e fiscali)
Prima di addentrarci nelle contestazioni, è utile chiarire cosa si intende per “spese per software” e quali categorie rientrano in questo ambito, perché la natura della spesa può influire sul trattamento fiscale e sulle possibili contestazioni. In contabilità, le spese informatiche possono presentarsi in varie forme, tra cui:
- Acquisto di software “pacchettizzato” (licenze perpetue): è il caso classico in cui un’azienda o un professionista acquista un programma software standard (es. una licenza di Microsoft Office, un software gestionale ERP, un programma di grafica, ecc.) pagando una volta sola per un diritto d’uso illimitato. Queste spese, se di importo significativo, vengono normalmente capitalizzate tra le immobilizzazioni immateriali (opere dell’ingegno) e ammortizzate su più anni. Ad esempio, l’acquisto di un ERP per €50.000 con utilizzo previsto a lungo termine sarà iscritto tra le immobilizzazioni e ammortizzato (civilisticamente e fiscalmente) in un certo numero di esercizi (tipicamente 5 anni in base alla prassi contabile, o comunque non meno di 2 anni fiscalmente) . Se invece l’importo è modesto e il beneficio economico non si estende su molti anni, talvolta in contabilità si preferisce imputarlo direttamente a costo dell’esercizio (specie per spese sotto una certa soglia di rilevanza). Il Fisco potrebbe contestare la deduzione immediata di una licenza a vita molto costosa sostenendo che andava ammortizzata (violazione di competenza) oppure, sul fronte inerenza, potrebbe metterne in dubbio la necessità per l’attività svolta, specialmente se il software appare estraneo al settore del contribuente.
- Acquisto/Sviluppo di software personalizzato: molte imprese investono nello sviluppo di software ad hoc (ad esempio un’applicazione proprietaria, un sito web evoluto, una piattaforma digitale per i clienti). Se il software sviluppato diviene proprietà dell’impresa (cioè l’azienda acquisisce il codice sorgente o comunque il diritto di utilizzarlo senza limiti temporali), i costi di sviluppo sostenuti (spese per programmatori, consulenti IT, acquisto di componenti software) vanno anch’essi capitalizzati come immobilizzazioni immateriali (categoria “opere dell’ingegno” o “costi di sviluppo”) se ne sussistono i requisiti, e ammortizzati. In caso contrario (progetto non andato a buon fine o utilità non dimostrabile) dovrebbero essere spesati a conto economico. Dal punto di vista fiscale, anche qui vale la regola che l’ammortamento è deducibile pro-quota . Il rischio di contestazione in questo ambito nasce quando l’Amministrazione dubita dell’effettiva realizzazione o utilità del progetto software: ad esempio, se una piccola impresa dichiara di aver speso ingenti somme per sviluppare un software innovativo che però non risulta mai utilizzato né completato, il Fisco potrebbe sospettare che si tratti di costi fittizi o non inerenti (magari artificiosamente caricati in contabilità per ridurre l’utile). In tali casi l’onere per il contribuente sarà dimostrare che il software è stato effettivamente sviluppato e aveva attinenza con i piani aziendali (vedremo più avanti come documentare ciò, anche eventualmente tramite perizie informatiche – cfr. § Strategie difensive).
- Canoni di licenza e abbonamenti software (SaaS): oggi molte forniture di software avvengono in modalità “as a service”, con pagamenti periodici (mensili o annuali) per poter utilizzare il programma, spesso via cloud. Questi costi – ad es. un abbonamento annuale a un CRM online, oppure una sottoscrizione a un servizio di marketing automation o a una piattaforma di intelligenza artificiale – sono tipicamente considerati spese correnti di competenza del periodo in cui si usufruisce del servizio. Diversamente dalle licenze perpetue, infatti, l’abbonamento non crea un bene durevole per l’azienda ma è un servizio a consumo. Fiscalmente, quindi, tali canoni sono deducibili per intero nell’esercizio di competenza (es.: canone software 2025 deducibile integralmente nel 2025), a meno che coprano più anni anticipatamente. Se, ad esempio, un’impresa paga in un’unica soluzione un canone triennale scontato per un servizio cloud (per dire, €30.000 per il triennio 2024-2026), dovrà imputare a costo solo la quota di competenza di ciascun anno (€10.000 per anno), rinviando la restante parte ai successivi esercizi come risconto attivo. Un’eventuale contestazione fiscale potrebbe nascere se il contribuente imputasse erroneamente a costo tutto subito: l’Ufficio in tal caso rettificherebbe suddividendo la quota di competenza (non è tanto un problema di inerenza, quanto di corretta competenza temporale). Un altro aspetto: se l’abbonamento a un servizio software ha componenti accessorie (es. formazione, setup iniziale), occorre seguire le regole generali di deducibilità di quelle componenti (spesso deducibili subito se separabili, oppure da ammortizzare se capitalizzate insieme al software).
- Spese di manutenzione e aggiornamento software: molte imprese sostengono costi annuali per manutenere o aggiornare i programmi (c.d. maintenance fees, oppure contratti di assistenza IT). Questi costi, in genere, sono di competenza dell’anno in cui sono pagati, in quanto servono a mantenere l’efficienza del software o ad ottenere aggiornamenti periodici. Non si considerano migliorie capitalizzabili (a meno che non introducano funzionalità totalmente nuove e significative, caso in cui potrebbero essere capitalizzate come incremento dell’immobilizzazione software esistente). Fiscalmente sono oneri di periodo pienamente deducibili. Difficilmente il Fisco li contesta sul piano temporale, mentre potrebbe contestarli sul piano dell’inerenza se, poniamo, un’azienda di tutt’altro settore paga costose manutenzioni per un software che parrebbe fuori contesto. Ad esempio, la Manifatture Alfa S.p.A. produce mobili ma paga annualmente una licenza di aggiornamento per un sofisticato software di intelligenza artificiale linguistica: l’Ufficio potrebbe chiedere spiegazioni, sospettando che quel software non abbia attinenza con la produzione di mobili. Spetterà all’azienda spiegare l’uso (es.: “lo usiamo per analisi di mercato e trend design”) e fornire riscontri.
- Hardware con componenti software preinstallato: qui siamo leggermente fuori dal perimetro, ma per completezza accenniamo che se si acquista un apparato elettronico (un server, un macchinario high-tech) comprensivo di software di funzionamento, il costo è un bene materiale unitario e l’inerenza/deducibilità seguono le regole sui beni strumentali. Il software “embedded” viene dedotto tramite i piani di ammortamento del bene materiale. Eventuali contestazioni di inerenza in questi casi riguardano più spesso l’intero bene (es.: “perché un professionista ha comprato un server da €50k?”) che non la componente software separatamente.
In sintesi, le spese per software possono essere considerate costi pluriennali (se generano un’utilità prolungata e vengono capitalizzati) oppure costi d’esercizio (se relative a servizi annuali o di modesta entità). Il trattamento fiscale varierà di conseguenza: i costi pluriennali dovranno essere dedotti per quote annuali di ammortamento , mentre i costi di periodo potranno essere dedotti interamente nell’anno (salvo prorata temporale per servizi prepagati).
Ai fini della contestazione fiscale, però, indipendentemente dalla categoria, l’Amministrazione finanziaria tende a focalizzarsi su alcuni profili trasversali: (a) la presenza di un nesso di inerenza tra il software e l’attività svolta (ovvero: quel software è effettivamente funzionale all’attività da cui deriva il reddito imponibile?); (b) la congruità economica della spesa in rapporto all’attività (ovvero: il costo è ragionevole o appare sproporzionato, suggerendo un possibile intento elusivo o extra-aziendale?); (c) la corretta imputazione temporale e documentale (ovvero: il costo è stato dedotto nell’esercizio giusto e supportato da adeguata documentazione?). Nel prossimo paragrafo esamineremo proprio le contestazioni tipiche sollevate dal Fisco sulle spese per software, che generalmente ricadono in una o più di tali categorie di rilievi.
Quando (e perché) il Fisco contesta le spese per software come “non inerenti”
L’Agenzia delle Entrate può effettuare verifiche e accertamenti sulle spese per software dedotte dal contribuente in diversi scenari. Vediamo le situazioni tipiche in cui un costo informatico viene contestato come indebitamente dedotto, insieme ad esempi pratici:
1. Mancanza di inerenza qualitativa (estraneità all’attività): è il caso più diretto, in cui il Fisco ritiene che la spesa per software non abbia nulla a che vedere con l’attività esercitata dal contribuente. Ciò può avvenire, ad esempio, quando un’impresa deduce costi per un software che appare del tutto estraneo al suo oggetto sociale o al suo settore economico. Esempio: una società di consulenza fiscale acquista e deduce i costi di un software per graphic design utilizzato per produrre animazioni 3D – potrebbe sorgere il dubbio che tale software non sia inerente al core business (salvo provare che serviva magari per realizzare video promozionali dello studio, il che lo ricondurrebbe a spese di pubblicità). Oppure, un libero professionista in campo giuridico deduce l’acquisto di un software per ingegneria meccanica: a meno di giustificazioni eccezionali, l’Agenzia considererebbe quel costo personalissimo o comunque estraneo alla professione legale. In situazioni del genere, l’accertatore contesterà la non deducibilità integrale del costo per difetto di inerenza, recuperando a tassazione l’intera spesa. Dal punto di vista probatorio, l’onere sarà in capo al contribuente, che dovrà dimostrare concretamente il collegamento del software alla propria attività economica (contratti, documenti che provino l’uso del software in commesse o progetti aziendali, ecc.). Non basta averla contabilizzata: occorre provare che essa “attiene all’esercizio dell’impresa”. La giurisprudenza recente conferma questo approccio: ad esempio, in un caso del 2023 una società edile si era vista contestare spese per servizi informatici generici, e i giudici tributari hanno confermato il recupero a tassazione perché la società “non ha fornito prove idonee a dimostrare la concreta inerenza […] delle spese”, avendo esibito solo fatture generiche senza mostrare l’effettivo utilizzo dei servizi nell’attività . Best practice: per prevenire contestazioni di inerenza, ogni spesa per software “atipica” rispetto all’attività dovrebbe essere corredata da una relazione o documento interno che ne spieghi la funzione economica per l’impresa.
2. Spesa ad utilità personale o extracaratteristica: una variante del difetto di inerenza si ha quando il costo, più che estraneo oggettivamente all’attività, appare sostenuto nell’interesse di soggetti diversi dall’impresa, ad esempio per finalità personali dell’imprenditore, dei soci o di terzi. Questo può avvenire se l’azienda acquista software che in realtà viene usato a fini privati. Un caso classico: il titolare della ditta individuale compra un software di home entertainment o un pacchetto di videogiochi e prova a dedurlo come spesa aziendale; oppure una SRL acquista costose licenze software che poi regala o mette a disposizione gratuita dei soci. Tali costi, anche se formalmente intestati alla società, non sono inerenti perché mancano di strumentalità rispetto all’attività e soddisfano piuttosto esigenze personali (si configurano come una sorta di utilizzo di risorse aziendali “pro socio”). L’Agenzia su questo profilo è molto attenta: considera sempre sospette le spese che potrebbero celare un beneficio personale. Nella categoria rientrano spesso beni come autovetture, telefonia, viaggi, abbigliamento – ma anche i software non ne sono esenti. Per esempio, se un amministratore scarica a spese della società un software di trading finanziario per gestire il suo portafoglio personale di investimenti, quella spesa non ha alcuna inerenza con l’oggetto sociale dell’impresa (poniamo, commercio di elettrodomestici) e verrà ripresa a tassazione. Un altro esempio: una software house (attività IT) acquista e deduce il costo di una barca da diporto sostenendo che la utilizza per incontrare clienti VIP – in casi simili i giudici hanno ritenuto l’onere non inerente, trattandosi di un bene di lusso estraneo all’oggetto sociale, con uso verosimilmente personale (la motivazione “ci porto i clienti a fare meeting a bordo” è apparsa pretestuosa) . Dunque, se il beneficiario effettivo della spesa software non è l’attività ma il privato, la deduzione va negata. Dal lato difensivo, però, va considerato che non sempre il confine è netto: molte spese informatiche possono avere un uso promiscuo (business e personale). Si pensi a un laptop o uno smartphone su cui girano software sia per lavoro che per uso privato: la normativa italiana in alcuni casi ammette deduzioni parziali (ad es. telefonia, automezzi), ma per il software non esiste una percentuale forfettaria stabilita per legge. Il contribuente, se vuole dedurre integralmente un costo del genere, dovrà provare che l’utilizzo esclusivo o prevalente è aziendale e che eventuali utilizzi estranei sono marginali. Se ciò non è credibile, meglio optare per la non deducibilità (o una deduzione proporzionalmente ridotta e motivata in contabilità, se possibile). In caso di verifica, l’Ufficio potrebbe disconoscere almeno una quota del costo come “uso personale”. Ad esempio, la CTR Veneto 177/2023 ha confermato che le spese di abbigliamento “di scena” di un professionista erano indeducibili perché ritenute di natura personale, salvo casi specifici di indumenti tecnici necessari . Allo stesso modo, un software che il contribuente usa sia per lavoro sia per hobby privati rischia di essere trattato come spesa personale non deducibile.
3. Importo eccessivo rispetto ai ricavi (costo antieconomico): un altro motivo frequente di contestazione è l’antieconomicità apparente della spesa. L’ufficio, cioè, osserva che il costo per software sostenuto è sproporzionato rispetto alla dimensione o al volume d’affari del contribuente, e ne deduce (in modo talora arbitrario) che l’onere non sarebbe “meritevole” di deduzione perché un imprenditore razionale non avrebbe speso così tanto per quel beneficio. Ad esempio, una piccola impresa artigiana con €100.000 di fatturato annuo che deduce €80.000 di spese per software (magari per un costoso sistema ERP e CRM integrato) può far scattare un campanello d’allarme: il rapporto costi/ricavi è anomalo. L’Agenzia potrebbe eccepire che il costo non è inerente in quanto antieconomico, sostenendo che il contribuente ha investito somme eccessive senza un corrispettivo aumento di ricavi, insinuando magari che la spesa celi finalità diverse (es. sovrafatturazione con parti correlate, distrazione di utili, ecc.). È importante capire che l’antieconomicità di per sé non costituisce una causa automatica di indeducibilità, come ha chiarito più volte la Cassazione: “anche una spesa antieconomica può essere inerente e deducibile, se per sua natura è riferita all’attività” . In altre parole, una campagna pubblicitaria molto costosa che non genera un ritorno immediato rimane inerente all’attività promozionale dell’impresa ; similmente, l’investimento in un software innovativo che non porta subito benefici può comunque essere funzionale all’impresa in una prospettiva di lungo termine. La sproporzione quantitativa può tutt’al più costituire un indizio da approfondire, ma “non basta a negare la deducibilità” . La Cassazione (ord. n. 33568/2022) ha spiegato che un costo molto elevato rispetto ai vantaggi attesi crea una presunzione semplice di non inerenza, che il contribuente ha l’onere di superare con spiegazioni plausibili; se il contribuente giustifica il perché di quella spesa elevata, allora spetta di nuovo al Fisco eventualmente provare che la spiegazione non regge e che la spesa in realtà nasconde finalità estranee . Quindi, in pratica: un costo può essere inerente anche se antieconomico, salvo che si dimostri che dietro l’antieconomicità si cela un elemento patologico (frode, inesistenza, utilità personale) . Questo principio è stato ribadito di recente dalla Suprema Corte: “l’antieconomicità da sola non basta a negare la deducibilità” ; e ancora nell’ordinanza n. 6426/2025 si è affermato che la mancanza di un vantaggio economico immediato non esclude l’inerenza, dovendo questa valutarsi in base a una correlazione anche solo potenziale con l’attività produttiva di reddito . Dunque, se l’atto impositivo si basa esclusivamente sul rilievo “spesa troppo alta rispetto all’utilità”, la difesa potrà contestare che ciò è contrario all’orientamento giurisprudenziale dominante (violazione di legge). Tuttavia, resta il fatto che l’antieconomicità legittima il Fisco a fare domande: se un costo software appare oggettivamente abnorme (es. un software pagato 1 milione di euro da una ditta individuale che fattura 50k), l’Ufficio è nel giusto nel chiedere spiegazioni e pretendere prove dell’effettiva utilità. In sintesi, l’antieconomicità è un “campanello d’allarme”, ma il segnale deve poi essere verificato: il Fisco non può disconoscere la spesa solo perché alta, se il contribuente dimostra la coerenza economica col proprio business . (Si veda oltre, nelle strategie difensive, come argomentare in questi casi).
4. Errata imputazione temporale (violazione del principio di competenza): come anticipato parlando dell’art. 108 TUIR, una contestazione molto comune – specialmente per i software – è quella rivolta a costi pluriennali dedotti interamente in un unico esercizio. Il classico caso: un’azienda sostiene nel 2024 un costo di €100.000 per l’acquisto di un software gestionale la cui utilità durerà diversi anni, ma, anziché attivarlo e ammortizzarlo, lo porta tutto a costo nel bilancio 2024 riducendo drasticamente l’utile di quell’anno. L’Agenzia, in sede di accertamento, rettificherà il reddito imponibile 2024 ripristinando la parte di costo non di competenza (ipotizziamo che, secondo i principi contabili, andava ammortizzato in 5 anni: l’ufficio ammetterà solo €20.000 come quota 2024 e riprenderà a tassazione €80.000) . Di fatto si tratta di un recupero per indebita anticipazione di costi. Qui il tema non è l’inerenza “qualitativa” (il software magari è inerente all’attività), ma il contribuente ha violato il criterio di competenza deducendo più del lecito nell’anno. Questa contestazione viene spesso qualificata ugualmente come “indebita deduzione di costi” ed è sanzionata come dichiarazione infedele, anche se il costo negli anni successivi sarebbe stato comunque deducibile (il Fisco non è tenuto a “spalmare d’ufficio” il costo negli anni futuri: semplicemente toglie dall’anno in verifica la quota non spettante, e il contribuente potrà eventualmente dedurla negli anni successivi presentando dichiarazioni integrative, se ancora nei termini, o mediante altri strumenti). Una variante di questa situazione è quando il contribuente ha sì ammortizzato, ma troppo velocemente rispetto ai minimi fiscali. Ad esempio, supponiamo che un’impresa capitalizzi un software e lo ammortizzi civilisticamente in 2 anni, deducendo il 50% all’anno; se però dalle norme risulta che quel tipo di software doveva avere un periodo di almeno 5 anni (come costi di sviluppo o impianto), l’Agenzia contesterà la quota eccedente (il 30% all’anno in più) come non deducibile in quei due anni . Ciò è avvenuto, ad esempio, per le migliorie su beni di terzi: la Cassazione, con ord. 11192/2025, ha ribadito che vanno ammortizzate sul minore tra vita utile e durata residua del contratto di locazione, censurando piani di ammortamento più brevi non giustificati . Nel contesto software, se una licenza è valida 10 anni, dedurla in 2 sarebbe contestato; viceversa, se un software diventa inutilizzabile prima (es. progetto abortito), bisogna documentare bene la perdita di utilità per giustificare un eventuale write-off anticipato. In conclusione su questo punto: tutte le volte che l’accertatore trova disallineamenti temporali significativi tra principio contabile/fiscale e condotta del contribuente, solleva rilievo. La difesa qui può giocare soprattutto su aspetti procedurali e sanzionatori (vedi oltre: buona fede, mancanza di dolo, ecc.), perché sul piano del merito se la deduzione anticipata c’è stata realmente, difficilmente si potrà negare l’errore. Si può però sostenere che la violazione è di natura formale o meramente temporale (se, ad esempio, l’importo sarebbe comunque stato deducibile in seguito), cercando una riduzione delle sanzioni.
5. Spesa documentata in modo insufficiente o irregolare: un altro motivo frequente di contestazione è la carenza, agli occhi del verificatore, di pezze giustificative adeguate. Ad esempio, il contribuente esibisce solo una fattura molto generica (“fornitura software €50.000”) senza un contratto o una specifica tecnica che dettagli cosa è stato fornito; oppure mancano i rapportini di consulenza, le mail di consegna del software, o ogni altra prova del fatto che il software sia stato effettivamente consegnato e utilizzato. In tali casi, l’Ufficio può insinuare che si tratti di un’operazione inesistente (totalmente o parzialmente) o comunque di un costo non dimostrato come reale e inerente. La giurisprudenza ha più volte affermato che fatture generiche e preventivi non bastano a provare l’inerenza e l’effettività di un costo se poi manca la prova concreta della prestazione . Questo tipo di contestazione può quindi sovrapporsi al caso 1 (difetto di inerenza sostanziale) oppure al caso di costi fittizi. Se il Fisco sospetta che il software in realtà non esista o non sia mai stato fornito (magari il fornitore è una cartiera o una società compiacente), può qualificare il costo come inesistente: in tal caso spetterà a loro provare almeno alcuni elementi che facciano dubitare dell’operazione (es. fornitore irreperibile, software non rinvenuto sui sistemi, ecc.), dopo di che scatterà sul contribuente l’onere di provare l’effettiva esistenza . Se invece non c’è accusa di frode ma solo di insufficiente prova, si ricade nell’ambito ordinario dove l’onere della prova dell’inerenza è a carico del contribuente (vedi oltre, § Onere della prova): quindi la mancanza di documenti gioca contro il contribuente. In tali casi difendersi diventa arduo se non si trovano ex post evidenze alternative (contratti, email, deliverables digitali, testimonianze tecniche, ecc.). Un tema correlato è quello del termine di conservazione: spesso le contestazioni documentali riguardano costi di software capitalizzati anni prima, di cui magari non si trova più il contratto originario. Come detto, la legge ora pone un limite di 10 anni per la richiesta documenti , ma la Cassazione invita a cautela su costi pluriennali. Un accorgimento pratico per evitare guai futuri è questo: se deducete un costo di software su più anni, conservate digitalmente tutta la documentazione attinente (contratti, codici di licenza, manuali, ecc.) almeno fino a decorrenza dei termini di accertamento dell’ultima quota ammortata, perché potreste averne bisogno in un controllo.
6. Contestazioni derivanti da indagini finanziarie: in alcuni casi, la “scoperta” di costi di software non inerenti avviene non tanto tramite l’esame del bilancio, quanto attraverso le indagini finanziarie sui conti bancari. Ad esempio, durante un controllo la Guardia di Finanza analizza il conto corrente aziendale e trova un bonifico di importo elevato verso una società estera di software, che però non risulta tra i fornitori noti dell’azienda né c’è traccia di fatture corrispondenti. Oppure emergono prelievi o pagamenti in contanti giustificati vagamente come “acquisto software” ma senza pezze d’appoggio. In questi casi, l’indagine finanziaria fornisce l’input per contestare o come costi non documentati (indeducibili per difetto di prova) o addirittura come elementi di ricavi non dichiarati (se pensano che in realtà quei soldi siano usciti per fini personali del titolare). Uno scenario: un professionista ritira 5.000 € in contanti dicendo che servono per comprare un software “particolare” all’estero; se non c’è fattura, l’ufficio potrebbe ricostruire quel prelievo come extra-reddituale (utile prelevato) e negare qualsiasi deduzione. Le indagini finanziarie vengono usate anche per smascherare sovrafatturazioni: se l’azienda Alfa paga 100k a Beta per un software, e Beta poi rigira una parte ai soci di Alfa, è indice di una possibile frode (costi gonfiati per portare fuori utili). In tal caso, oltre a contestare l’inerenza, si profilano violazioni più gravi (fatture per operazioni inesistenti, reati fiscali). La difesa in queste situazioni è complessa perché il Fisco di solito arriva già con indizi solidi. Bisogna quindi lavorare per dimostrare la genuinità della transazione software (esistenza del software, valore in linea col mercato, nessun retropagamento ai soci, ecc.) oppure evidenziare vizi procedurali nelle indagini se ve ne sono (es. mancato contraddittorio, richieste bancarie eccessive oltre periodo accertabile, ecc.). In ogni caso, se un accertamento nasce da indagini finanziarie, è segnale che l’Amministrazione sospetta qualcosa di più serio del semplice “costo non inerente”: di solito ipotizza o evasione di ricavi o creazione di fondi neri travestiti da costi.
7. Contestazioni da controlli automatizzati/documentali: infine, menzioniamo le ipotesi in cui l’Agenzia delle Entrate rileva incongruenze relative a spese per software mediante gli ordinari controlli sulle dichiarazioni. Ad esempio, un controllo automatizzato (art. 36-bis DPR 600/73) potrebbe segnalare che il contribuente ha dedotto quote di ammortamento di un certo importo ma nella dichiarazione dell’anno di acquisto non risultava alcun bene immateriale attivato, oppure potrebbe incrociare dati e notare che una società in regime di contabilità semplificata ha dedotto un costo pluriennale non consentito. In questi casi l’Agenzia invia tipicamente un avviso bonario chiedendo chiarimenti o comunicando la rettifica d’ufficio. È quindi possibile ricevere già in fase di controllo automatico una contestazione su un costo di software (specie per errori formali di competenza). Ancora, un controllo documentale (art. 36-ter) potrebbe estrarre a campione la dichiarazione di un professionista che ha dedotto importi rilevanti per “spese software” e richiedere l’invio delle relative fatture per verifica: se dalle fatture emergesse, ad esempio, che era un software non inerente (magari un videogame), l’Agenzia potrebbe emettere un avviso di irregolarità disconoscendo la deduzione. Rispetto alle verifiche “sul campo”, i controlli automatizzati e formali offrono spesso al contribuente la possibilità di correggere l’errore in maniera agevolata (pagando sanzioni ridotte se si aderisce all’esito del controllo). Pertanto, se ci si rende conto di aver realmente sbagliato – ad esempio deducendo troppo presto un costo software da ammortizzare – può convenire accettare l’esito del controllo formale e pagare il dovuto con sanzione ridotta a 1/3 (beneficio dell’adesione ai controlli automatici), anziché attendere un accertamento vero e proprio con sanzione piena del 90%. Naturalmente, se invece si ritiene di aver ragione, è possibile fornire spiegazioni e documenti in risposta all’avviso bonario per evitare la rettifica.
Quelli descritti sopra sono i casi più comuni in cui il Fisco mette sotto la lente le spese informatiche. È evidente come spesso più motivi di contestazione possano coesistere: ad esempio, una spesa per software molto alta in un’azienda piccola farà leva sia sull’argomento antieconomicità sia sul sospetto di non inerenza; una spesa non documentata bene potrà essere definita sia non inerente che non provata; una spesa personale verrà bollata come non inerente in quanto estranea all’attività, e così via.
Nel prossimo capitolo, passeremo dal “cosa contesta il Fisco” al “come difendersi”. Affronteremo quindi le strategie difensive sia in sede amministrativa (pre-contenziosa) sia in sede giudiziale, cercando di fornire linee guida su misura per le varie situazioni sopra delineate. In particolare, analizzeremo il fondamentale tema dell’onere della prova dell’inerenza – anche alla luce della riforma del processo tributario del 2022 – e vedremo come il contribuente può concretamente provare che un costo software è inerente e deducibile. Inoltre, daremo uno sguardo ai rimedi procedurali (autotutela, accertamento con adesione, mediazione) e alle tecniche processuali (richiami giurisprudenziali, eccezioni di nullità, ecc.) utili a chiudere positivamente la vertenza.
Onere della prova dell’inerenza: chi deve dimostrare cosa?
Una domanda cruciale in ogni controversia su costi indeducibili è: a chi spetta provare l’inerenza o la non inerenza del costo contestato? Nel caso di spese per software, questo tema assume rilievo centrale. È infatti dal gioco delle prove che spesso dipende l’esito del contenzioso: se il contribuente non fornisce evidenze sufficienti, rischia di perdere il ricorso; viceversa, se il Fisco non motiva adeguatamente la contestazione, l’atto può essere annullato. Esaminiamo dunque l’evoluzione della normativa e della giurisprudenza in materia di onere probatorio.
Orientamento tradizionale (fino al 2022): per lungo tempo la regola consolidata è stata che l’onere di provare la deducibilità di un costo grava sul contribuente. Questo principio si fonda sull’idea che le deduzioni sono agevolazioni rispetto al reddito lordo e chi ne beneficia deve giustificarle . In pratica, se il Fisco contesta un costo come non inerente, spetta al contribuente dimostrare il perché e il percome quel costo sia legittimamente dedotto . La Cassazione lo ha ripetuto più volte: “l’onere di provare e documentare la natura del costo, i fatti giustificativi e la sua destinazione alla produzione del reddito d’impresa grava sul contribuente” . Anche in ambito IVA, per la detraibilità, è il contribuente che deve provare l’inerenza dell’acquisto alla sua attività economica . Ciò significa che l’ufficio, in prima battuta, può limitarsi a sollevare dubbi o contestazioni (ad esempio: “questa spesa software sembra non attinente, la disconosco”), senza dover dimostrare esso stesso l’estraneità; è poi il contribuente che, per evitare la sanzione, deve attivarsi e fornire elementi a proprio favore . Questo assetto, pre-2022, era pacifico ed è tuttora ribadito in pronunce recenti: ad esempio la Cass. Sez. Trib. n. 6114/2024 (7 marzo 2024) ha confermato che l’art. 109, comma 5 TUIR non definisce l’inerenza ma che comunque l’onere della prova rimane a carico del contribuente, senza mutamenti dovuti alla riforma .
Novità della riforma processo tributario 2022: con la L. 130/2022 è stato introdotto un nuovo comma 5-bis all’art. 7 del D.Lgs. 546/1992 (Disposizioni sul processo tributario), in vigore dal 16 settembre 2022. Questo comma recita, in sostanza, che nelle controversie di impugnazione di atti impositivi l’onere della prova è a carico dell’Amministrazione finanziaria circa la fondatezza della pretesa, fatte salve le presunzioni legali stabilite a suo favore . Molti commentatori inizialmente hanno interpretato questa norma come un possibile “ribaltamento” dell’onere probatorio generale, immaginando che d’ora in poi sarebbe sempre il Fisco a dover provare ogni aspetto della propria pretesa, sollevando il contribuente da buona parte degli oneri . In realtà, una lettura più attenta (anche sistematica con il resto dell’ordinamento) mostra che non è così semplice. Anzitutto, la norma non ha efficacia retroattiva: si applica solo ai giudizi su atti emessi dopo la sua entrata in vigore . Quindi per accertamenti notificati prima di metà settembre 2022 non cambia nulla (e infatti molte sentenze post-2022 continuano ad applicare le regole previgenti nei casi antecedenti). In secondo luogo, il comma 5-bis va letto in armonia col principio per cui il giudizio di impugnazione di un atto impositivo è un’azione di annullamento: ciò implica che l’Amministrazione deve provare la legittimità dell’atto (ossia di aver rispettato la legge nell’emetterlo) , ma questo non significa che il contribuente sia esonerato dal provare i fatti che gli danno diritto a esenzione o deduzione . In altre parole, la novità impone al Fisco di presentarsi in giudizio con una motivazione e un minimo di prova a sostegno della sua pretesa – non può più aspettarsi di vincere il ricorso del contribuente restando del tutto passivo – ma non toglie al contribuente il dovere di provare i fatti a lui favorevoli (soprattutto quando si tratta di “eccezioni” al regime ordinario, come sono appunto le deduzioni di costi) . La Cassazione stessa, nelle prime applicazioni, ha chiarito che l’art. 7, co.5-bis “non ribalta l’onere probatorio di base” né deroga ai criteri generali . Più correttamente, esso codifica principi già esistenti: il Fisco deve motivare l’atto e portare quantomeno indizi a sostegno (non può pretendere che il giudice gli dia ragione “al buio”), ma resta al contribuente l’onere di confutare quei rilievi con prove contrarie . Si può dire che l’onere della prova diventa dinamico: l’ente impositore parte avvantaggiato da presunzioni legali e dalla posizione di dover far valere un atto già emanato; il contribuente deve presentare le sue prove difensive; se queste risultano convincenti, allora torna sul Fisco l’onere di rafforzare la propria tesi e smontare le prove avversarie . Questo meccanismo era in nuce già riconosciuto dalla giurisprudenza e ora ha una base normativa.
Applicando tali principi al tema dell’inerenza: se il Fisco contesta “questo costo software non c’entra con la tua attività”, deve almeno spiegare il perché (es.: “dall’oggetto sociale/dai tuoi codici attività vedo che fai commercio alimentare, mentre hai dedotto costi per un software CAD di progettazione: manca attinenza” ). Fornito questo quadro fattuale, l’ufficio ha soddisfatto il suo onere iniziale. A quel punto il contribuente deve dimostrare concretamente che invece il software era collegato alla sua attività (ad esempio mostrando che l’azienda aveva anche un settore design per packaging alimentare dove effettivamente il CAD veniva usato). Se il contribuente non fornisce nulla, perderà la causa perché non ha provato l’inerenza e l’atto del Fisco risulta motivato e basato su una logica (antieconomicità o estraneità). Se invece il contribuente porta prova contraria convincente (documenti, testimonianze, ecc.), allora l’onere “si rafforza” in capo al Fisco, che per prevalere dovrebbe a sua volta dimostrare che la spiegazione fornita è falsa o insufficiente . Questo secondo “round” è difficile per il Fisco, a meno di non avere elementi davvero solidi (ad es. scopre che il presunto utilizzo del software era una balla, che il software non è mai stato installato, ecc.). In assenza di tali controprove, la bilancia probatoria penderà a favore del contribuente.
Riassumendo: oggi (per atti dal 2022 in poi) possiamo dire che: (i) l’Agenzia delle Entrate deve sempre motivare adeguatamente la contestazione di non inerenza, indicando su quali elementi si basa (es.: assenza di contratto, palese estraneità rispetto all’attività dichiarata, sproporzione enorme costo/ricavi, ecc.) ; (ii) il contribuente però resta onerato di portare prova positiva dell’inerenza, cioè elementi concreti che colleghino la spesa all’attività (non può limitarsi a dire “il Fisco non ha provato il contrario”); (iii) qualora il contribuente assolva a questo onere e le sue prove creino quantomeno un serio dubbio sull’infondatezza della pretesa, spetterà all’Amministrazione – se vuole vincere – fornire ulteriori elementi a sostegno della propria tesi (ad esempio, se il contribuente esibisce il contratto software e le relazioni di progetto, l’ufficio per persistere dovrebbe dimostrare che sono documenti fittizi o che l’uso dichiarato non è plausibile). In definitiva, il cuore della difesa per il contribuente sta nel non rimanere inerte: presentare sempre documentazione e spiegazioni dettagliate a proprio favore. La strategia di sperare che “il Fisco non ha prove” da solo è perdente, perché se la vostra unica linea è mettere in dubbio l’operato dell’ufficio senza fornire la prova positiva dell’inerenza, i giudici (anche dopo la riforma) tenderanno comunque a dar torto al contribuente: “il contribuente non può limitarsi a stare alla finestra, confidando che la controparte non riesca a provare un fatto negativo (‘che quel costo non c’entra nulla’): dovrà comunque provare il fatto positivo che gli dà diritto alla deduzione (che quel costo attiene alla sua attività)” .
Prova testimoniale e altri mezzi di prova: una novità collegata alla riforma 2022 è l’apertura – sia pure limitata – alla prova testimoniale nel processo tributario. Oggi, ex art. 7, co.4-bis D.Lgs. 546/92, è ammessa la “testimonianza scritta” su istanza di parte, che il giudice può ammettere se la ritiene necessaria e vertente su fatti non documentabili altrimenti. Prima del 2022 la testimonianza era vietata nel processo tributario. Questa innovazione potrebbe rivelarsi utile proprio in casi di inerenza dove manchino contratti formali. Ad esempio, se un costo software è contestato perché l’AdE dubita che il servizio sia stato reso, il contribuente potrebbe produrre una dichiarazione giurata di un tecnico informatico terzo che attesti di aver installato o visto funzionare quel software nell’azienda, spiegandone la funzione. Oppure, nel caso di una spesa di consulenza informatica contestata come inesistente, si potrebbe acquisire la testimonianza dell’effettivo consulente che illustri il lavoro svolto e la sua utilità per l’impresa . Ovviamente la testimonianza è ammessa solo se il giudice la ritiene indispensabile e non surrogabile da documenti; inoltre resta preclusa per provare il contenuto di documenti che per legge devono essere scritti (es. non posso supplire con testimonianza alla mancanza di un contratto scritto laddove la legge lo richiede) . Quindi, non è una panacea: però è uno strumento in più. In sede difensiva, sapere di poter contare su dichiarazioni testimoniali può aiutare a colmare gap probatori. Nel predisporre il dossier difensivo, il contribuente farà bene a raccogliere non solo i documenti, ma anche – ove possibile – eventuali dichiarazioni di chi ha partecipato ai fatti (ad esempio il project manager del software) pronte per essere utilizzate.
In conclusione su questo tema: dal punto di vista pratico, il contribuente (debitore d’imposta) deve essere pronto a sostenere con prove robuste la deducibilità dei propri costi . Non si può più (e non si poteva neanche prima, in verità) puntare su una difesa meramente passiva o procedurale: di fronte a una contestazione di inerenza, spesso “serve entrare nel merito e convincere i giudici che ogni spesa contestata era effettivamente funzionale all’attività” . Nei prossimi paragrafi vedremo come predisporre queste prove e quali argomenti specifici utilizzare per i vari tipi di contestazione. In particolare, passeremo in rassegna le strategie difensive sia in fase di verifica (pre-contenziosa) sia in fase contenziosa, distinguendo i diversi profili: inerenza qualitativa, antieconomicità, documentazione mancante, ecc., senza dimenticare gli aspetti sanzionatori e penali.
Strategie difensive in sede pre-contenziosa (verifiche, adesione, autotutela)
Affrontare una contestazione fiscale fin dall’inizio con l’approccio giusto può fare la differenza tra risolvere la questione in modo indolore o finire in una lunga battaglia legale. Vediamo quali sono le strategie difensive e i comportamenti consigliati prima che la disputa arrivi davanti a un giudice tributario, ossia durante le verifiche fiscali o nelle fasi amministrative immediatamente successive (avviso di accertamento, eventuale contraddittorio e procedure deflative).
1. Collaborare durante la verifica e fornire subito la documentazione richiesta: se la contestazione emerge in sede di verifica (ispezione della Guardia di Finanza o richiesta documenti dell’Agenzia), la prima regola è non assumere un atteggiamento ostruzionistico. Come già detto, l’art. 32 DPR 600/73 preclude di esibire in giudizio documenti non forniti in verifica, salvo casi eccezionali. Quindi, se i verificatori chiedono i contratti e i dettagli del software, bisogna consegnare tutto il possibile. In caso di smarrimento di qualche documento, meglio dichiararlo subito e magari anticipare che si cercheranno copie presso terzi. Un’ottima mossa è, oltre a consegnare i documenti, accompagnarli con una memoria esplicativa: ad esempio, allegare un breve scritto dove si illustra il progetto software, lo scopo per cui è stato acquistato e come è stato contabilizzato. Questo può orientare positivamente i verificatori, mostrando trasparenza e buona fede. Ovviamente, bisogna essere onesti: mai fornire documenti falsi o dichiarazioni mendaci, perché ciò aggraverebbe enormemente la posizione (sfociando anche nel penale). Se qualcosa manca, si può consegnare in un secondo momento in risposta al processo verbale di constatazione (PVC), ma in generale conviene chiudere la verifica sul punto chiave già con tutti gli elementi sul tavolo.
2. Redigere memorie difensive e osservazioni al PVC: al termine della verifica, i verificatori (GdF o AdE) redigono un PVC con i rilievi. Il contribuente ha 60 giorni per presentare osservazioni prima che l’ufficio emetta l’eventuale avviso di accertamento (a meno di casi di particolare urgenza in cui l’atto può essere emesso prima). È fondamentale non sprecare questa opportunità. Nelle osservazioni al PVC si possono chiarire punti fraintesi, integrare documentazione e invocare prassi o giurisprudenza favorevoli. Ad esempio, se il PVC contesta un software come non inerente perché “non risulta nell’oggetto sociale”, nelle osservazioni si potrà far presente la giurisprudenza che considera l’oggetto sociale indicativo ma non vincolante , e spiegare l’utilità economica del software per l’impresa, magari allegando progetti o rapporti interni che lo dimostrino. Le osservazioni dovrebbero anche sottolineare eventuali vizi procedurali (se ce ne sono): es. difetto di contraddittorio, errori di calcolo. Anche far rilevare che il costo è stato dedotto in buona fede e che si tratta al più di una divergenza interpretativa può predisporre l’ufficio a maggiore cautela (sapendo che su questioni dubbie in giudizio potrebbe perdere).
3. Accertamento con adesione: ricevuto l’avviso di accertamento (o anche prima, su invito), il contribuente può attivare la procedura di adesione (D.Lgs. 218/1997) chiedendo di definire la questione in via concordata con l’ufficio. Nel contesto di spese per software non inerenti, l’adesione può essere un’occasione per negoziare col Fisco una soluzione intermedia. Ad esempio, se viene contestata l’intera indeducibilità di €100k, si potrebbe cercare di far riconoscere almeno una parte come deducibile (se si dimostra un parziale utilizzo inerente) oppure concordare una riqualificazione della violazione. Cosa significa? Significa convincere l’ufficio a, per così dire, “trasformare” la contestazione in una meno grave. Ad esempio, se l’accertamento qualifica il costo come totalmente fittizio (fatture false), riuscire a farlo ricondurre a semplice violazione di inerenza (costo vero ma non inerente) elimina l’aspetto penale e riduce le sanzioni. Oppure, se viene contestato come non inerente un costo pluriennale dedotto in un’unica soluzione, si potrebbe proporre in adesione di spalmare il recupero sugli anni (riconoscendo che il costo era deducibile ma non in quell’anno), anche se ciò tecnicamente l’ufficio non potrebbe farlo in un avviso formale, in sede di adesione c’è una certa flessibilità nel rideterminare la materia imponibile. L’adesione consente inoltre la riduzione delle sanzioni a 1/3 di quelle minime. Bisogna entrarci ben preparati: portare magari un parere pro veritate di un consulente, o citare le ultime sentenze pro contribuente, può aiutare il funzionario a convincersi a trovare un accordo (anche perché se l’ufficio percepisce che il contribuente è agguerrito e con argomenti solidi, potrebbe preferire incassare subito qualcosa piuttosto che rischiare di perdere tutto in giudizio).
4. Istanza di autotutela: se dopo l’accertamento emergono nuovi elementi a favore del contribuente, è sempre possibile presentare una richiesta di autotutela all’ente impositore per ottenere l’annullamento, totale o parziale, dell’atto. Nel caso di costi per software, l’autotutela è particolarmente utile quando il contribuente rinviene documenti che non aveva potuto esibire prima. Ad esempio, supponiamo che l’accertamento disconosca l’ammortamento di un software perché “manca il contratto di acquisto” e dopo la notifica l’azienda riesce a recuperare copia del contratto (magari dal fornitore): presentando immediatamente tale documento in autotutela e spiegando che la contestazione ora cade (perché il contratto prova l’effettiva esistenza e inerenza), spesso l’ufficio è disposto a sgravare in via di autotutela la parte di rilievo infondata . L’autotutela va richiesta tempestivamente, idealmente prima di dover depositare il ricorso in Commissione, in modo da evitare il contenzioso. Non c’è garanzia che venga accolta, ma tentar non nuoce, soprattutto se le prove nuove sono chiare. Da notare: l’autotutela è opportuna anche quando il contribuente scopre errori formali nell’avviso (es. motivazione completamente mancante, o notifica nulla): segnalare tali vizi all’ufficio potrebbe indurlo a rimediare d’ufficio se riconosciuti, evitando la causa.
5. Valutare la definizione agevolata o altre sanatorie: negli ultimi anni il legislatore ha introdotto varie misure di definizione agevolata delle controversie tributarie (ad esempio la definizione delle liti pendenti prevista dalla L. 197/2022 per le cause in corso al 1° gennaio 2023). È utile che il contribuente e i suoi consulenti monitorino la normativa vigente per sfruttare eventuali “finestre” di condono o sanatoria. Per esempio, se il nostro avviso di accertamento su costi software sfocia in un ricorso pendente e il legislatore apre la possibilità di chiudere pagando il 10-20% (come avvenuto per talune liti pendenti 2023), potrebbe essere conveniente aderire per eliminare rischio e ulteriori spese . Ovviamente, queste valutazioni vanno fatte caso per caso, tenendo conto della fondatezza della propria tesi: se si è convinti di vincere, si può proseguire; se il risultato è incerto, una definizione agevolata offre certezza (pagando qualcosa). Nel 2023, ad esempio, c’è stata la possibilità di definire gli avvisi di accertamento non impugnati con sanzioni ridotte (c.d. ravvedimento speciale), e definire le liti in Cassazione con pagamento di un forfait. Allo stato attuale (settembre 2025) non vi sono particolari condoni attivi, ma occorre restare vigili perché la legislazione fiscale italiana periodicamente introduce queste misure.
6. Ravvedimento operoso pre-accertamento: qui entriamo in un’ottica ancora diversa, quella della prevenzione. Se un contribuente si accorge, prima di subire controlli, di aver commesso un errore nel dedurre spese non inerenti (ad esempio, dopo aver letto questa guida, capisce che un software che ha dedotto integralmente andava invece ammortizzato, o che un costo personale è stato indebitamente messo tra le spese), la via maestra è ricorrere al ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97). In pratica si può presentare una dichiarazione integrativa a sfavore, correggendo il reddito imponibile, e versare spontaneamente la maggiore imposta dovuta con interessi e una sanzione ridotta (a seconda del tempo trascorso, può essere ridotta fino a 1/6 del minimo). Il ravvedimento ha due vantaggi enormi: evita l’accertamento (e quindi le sanzioni piene del 90%) e, se fatto tempestivamente, esclude il rilievo penale (perché pagando l’imposta prima di eventuali contestazioni si rientra nella non punibilità ex art. 13 D.Lgs. 74/2000) . Certo, richiede capacità di autodiagnosi e volontà di regolarizzare. Ma soprattutto per imprese che hanno situazioni a rischio (es. costi di dubbia inerenza di importo molto elevato), valutare un ravvedimento può essere segno di prudenza e lungimiranza: si paga qualcosa oggi, ma si dormono sonni tranquilli domani. Naturalmente è una scelta strategica non sempre facile – comporta ammettere l’errore e tirare fuori soldi – ma va tenuta presente nel ventaglio delle opzioni.
7. Assistenza professionale qualificata: in sede pre-contenziosa, giova infine sottolineare l’importanza di farsi affiancare da un professionista esperto in diritto tributario sin dalle prime fasi del controllo. Un avvocato tributarista o un commercialista esperto di contenzioso potrà: individuare subito le possibili criticità dell’accertamento; impostare correttamente la produzione documentale (evitando di dare troppo o troppo poco); gestire le interlocuzioni con i verificatori senza incidenti; redigere memorie difensive efficaci (anche dal punto di vista tecnico-giuridico, citando le sentenze rilevanti); negoziare l’adesione massimizzando i punti a favore del contribuente. Oltre a questo, un legale può già mettere in sicurezza alcuni aspetti: ad esempio, verificare se i termini di decadenza per l’accertamento siano stati rispettati, o se l’atto presenta vizi macroscopici (motivazione, autorizzazioni, ecc.), elementi che magari sfuggono a un profano ma possono risultare decisivi. Inoltre, se c’è il rischio penale, avere un avvocato sin da subito aiuta a modulare le difese in modo coerente anche in quell’ottica (ad esempio evitando ammissioni scritte che potrebbero nuocere in sede penale, senza però ostacolare la difesa amministrativa – un equilibrio delicato da mantenere).
In sintesi, la fase pre-contenziosa è un momento in cui il contribuente può ancora evitare che la controversia deflagri: collaborando, spiegando, magari transigendo, si può spesso ottenere un risultato accettabile. Le statistiche dicono che molti accertamenti si chiudono in adesione o con autotutela. Solo quelli più controversi arrivano in Commissione. Se però nonostante tutto ci si trova nella necessità di fare ricorso, allora è fondamentale prepararsi bene per la fase successiva. Nel capitolo seguente affronteremo quindi la difesa in contenzioso, cioè davanti al giudice tributario, dove saranno cruciali sia gli argomenti di merito (inerenza sì/no, leggi e sentenze) sia eventuali eccezioni formali.
Difesa in sede contenziosa (Corti di Giustizia Tributaria)
Se il tentativo di evitare il contenzioso fallisce o non è praticabile, il contribuente deve passare al ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (già Commissione Tributaria Provinciale). In questa sede la controversia entra nella fase giudiziale vera e propria, con scambio di memorie, udienza e sentenza. Affrontare con successo il processo tributario su costi per software non inerenti richiede di impostare il ricorso in maniera solida sia sul piano fattuale sia su quello giuridico. Vediamo i principali aspetti da considerare.
1. Strutturare il ricorso: motivi di impugnazione principali. Nel ricorso introduttivo vanno indicati i motivi di diritto e le circostanze di fatto su cui si fonda la domanda di annullamento dell’accertamento. Tipicamente, i motivi in una causa su costi non inerenti possono essere: (a) Violazione di legge sull’inerenza, se si ritiene che l’ufficio abbia applicato erroneamente i principi (es. ha negato indebitamente la deduzione pur a fronte di costi inerenti secondo Cassazione); (b) Travisamento dei fatti, se il Fisco ha valutato male le prove presentate (es. ha ignorato documenti importanti che dimostravano l’inerenza); (c) Insufficienza di motivazione dell’atto, qualora l’accertamento sia generico e non spieghi adeguatamente le ragioni (lo Statuto del contribuente lo impone, art.7 L.212/2000); (d) Errori procedurali, come l’aver emesso l’atto prima dei 60 giorni dal PVC senza urgenza, o aver utilizzato documenti che non potevano essere richiesti oltre i 10 anni (argomento discutibile ma da menzionare) , oppure ancora vizi di notifica, ecc. (e) Erronea applicazione sanzioni, ad esempio se il contribuente sostiene che trattandosi di un errore di competenza (che non ha inciso sul totale imposte dovute su base pluriennale) le sanzioni avrebbero dovuto essere più basse o non dovute per obiettiva incertezza. Tutti questi motivi vanno articolati con riferimento a norme e sentenze. Ad esempio, se si lamenta che il giudizio sull’inerenza è stato troppo restrittivo, si citeranno Cass. n. 450/2018 e 30366/2019 che definiscono l’inerenza qualitativa e non legata alla congruità ; se l’ufficio ha negato il costo solo perché antieconomico, si citerà Cass. 6368/2021 e 33568/2022 sul punto .
2. Evidenziare i punti di forza fattuali con logica e concretezza. Nei fatti del ricorso, occorre narrare in modo chiaro cosa è successo: che attività svolge il contribuente, che software ha acquistato o sviluppato, perché all’epoca sembrava sensato, come è stato utilizzato, ecc. Questa narrazione dev’essere supportata dai documenti che si allegano. L’obiettivo è far emergere la “logica imprenditoriale” del costo – come sottolineato anche in dottrina: “Più la difesa riesce a far percepire che quel costo aveva una logica imprenditoriale, più indebolisce l’accusa di non inerenza” . Ad esempio, se la società ha comprato un software di gestione magazzino molto costoso ma poi non ha aumentato i ricavi, si potrà spiegare che l’investimento mirava a benefici di efficienza di lungo periodo, citando magari studi interni o del settore che giustificano quell’upgrade (in modo da contrastare l’accusa di antieconomicità). Attenzione: tutti i documenti che si vogliono utilizzare vanno allegati al ricorso introduttivo (o erano già stati prodotti in sede amministrativa e richiamati). Non si può arrivare a sorpresa in udienza con nuovi documenti, salvo quelli emersi dopo (che si potranno produrre nelle memorie integrative entro 20 giorni prima dell’udienza). Quindi, massima cura nel predisporre il fascicolo di parte: contratti, fatture, estratti contabili che provano il pagamento, documentazione tecnica (manuali, specifiche del software), eventuali perizie di parte. Ad esempio, se il Fisco sostiene che “questo software non è mai stato realizzato”, il contribuente potrebbe incaricare un perito informatico di esaminare i sistemi aziendali e certificare che il software esiste, indicandone caratteristiche e eventuale valore – una prova tecnica che, pur se di parte, può influenzare il giudice (il quale potrebbe anche nominare un CTU, anche se nel tributario è raro, ma non impossibile in casi molto tecnici).
3. Richiamare i principi giurisprudenziali chiave a sostegno. Come anticipato, la giurisprudenza di legittimità è molto importante perché i giudici tributari spesso si orientano seguendo le linee dettate dalla Cassazione. Negli ultimi anni abbiamo diverse pronunce nette pro-contribuente sul concetto di inerenza: è opportuno citarle testualmente nei motivi di ricorso o nelle memorie difensive. Ad esempio, l’Ordinanza Cass. n. 6426 dell’11/03/2025 afferma chiaramente che “l’inerenza non implica un nesso utilitaristico costi-ricavi, bensì una correlazione con l’attività anche solo potenzialmente idonea a produrre reddito”, e che la sproporzione quantitativa è solo un indizio . Questo estratto può essere riportato nel ricorso per contestare un eventuale rilievo basato sul fatto che il software “non ha generato utili immediati”. Ugualmente, Cass. n. 23278/2018 parla dell’inerenza come “nesso di strumentalità, anche solo potenziale” . Cass. n. 33568/2022 e Cass. n. 6368/2021 ribadiscono che l’antieconomicità di per sé non basta e delineano l’onere della prova dinamico in caso di spese sproporzionate . Cass. Sez. Unite n. 8500/2021 (citata prima) può essere richiamata per argomentare sui limiti di richiesta documenti ultradecennali (anche se non ha dato pienamente ragione ai contribuenti, ha comunque fissato un principio). Cass. n. 8716/2025 (Sez. Trib.) è rilevante sul fronte delle operazioni inesistenti: ha ribadito che nelle frodi IVA l’onere di provare l’inesistenza oggettiva spetta al Fisco e solo dopo si sposta sul contribuente . Ciò può essere utile da citare se l’ufficio allude a fittizietà delle fatture senza prove. Insomma, riempire il ricorso di riferimenti a sentenze di Cassazione (magari anche a sezioni unite) conferisce autorevolezza alle tesi difensive. È opportuno riportare i passaggi salienti tra virgolette e citarne gli estremi . Nella sezione Fonti di questa guida elenchiamo alcune di queste pronunce chiave, che sono un vero arsenale per il difensore.
4. Eccepire i vizi formali e procedurali (se presenti). Un bravo difensore non tralascia mai di scrutare l’atto impugnato in cerca di errori formali, perché a volte vincere su un vizio procedurale è più semplice che sul merito. Ad esempio, se l’avviso non è motivato adeguatamente, violando l’art. 7 L.212/2000, lo si eccepisce subito (anche se poi spesso i giudici dicono che la motivazione c’è se rinvia al PVC, ma tentar non nuoce). Oppure: l’accertamento è stato notificato oltre i termini decadenziali? (Ricordiamo che per il 2016 e seguenti, salvo frode, il termine ordinario è il 5° anno successivo, esteso al 7° in caso di violazione rilevante penale). Oppure: l’ufficio ha applicato retroattivamente la norma del 2022 sull’onere della prova a un atto precedente? (Potrebbe essere un motivo di contestazione, anche se ormai superato dalla Cassazione). O ancora: sono state applicate sanzioni duplicative? (ad es. sanzionato due volte lo stesso importo, una come infedele e una come altro). Qualsiasi cosa che non quadri nella forma, va segnalata. Anche la questione della richiesta di documenti oltre 10 anni va proposta: si può sostenere che l’art. 8 Statuto – pur con la prevalenza della norma speciale sulle scritture – esprime un principio di ragionevolezza che il giudice potrebbe valorizzare, specie se il contribuente ha agito in buona fede . Non è garantito che venga accolto, ma è materiale per un eventuale appello se in primo grado va male.
5. Sottolineare buona fede e assenza di intenti elusivi: è utile, soprattutto se vi è di mezzo una valutazione di antieconomicità o un errore di competenza, rimarcare come il contribuente abbia agito senza volontà di evasione. Ad esempio, evidenziare che il costo era regolarmente registrato in contabilità e indicato nella nota integrativa, e che l’eventuale scelta contabile/fiscale contestata era stata fatta alla luce delle interpretazioni disponibili . La Cassazione penale ha osservato che errori di classificazione di costi reali non integrano dolo penale ; analogamente, in sede tributaria, ciò può essere portato come argomento per chiedere, quantomeno, clemenza sanzionatoria. Si può invocare l’esimente dell’obiettiva incertezza normativa (art. 6, c.2 D.Lgs. 472/97) se applicabile – ad esempio in materia di inerenza, data la evoluzione giurisprudenziale non sempre lineare, non è assurdo sostenere che vi fosse incertezza sul perimetro. Alcune CTP/CTR hanno talvolta accolto questa tesi riducendo le sanzioni. Inoltre, se il giudice percepisce che il contribuente non è un evasore incallito ma magari ha commesso una sovrastima ingenua di un investimento, potrebbe essere più ben disposto nell’analisi del merito (anche se in teoria non dovrebbe influire, nella pratica l’equità gioca un ruolo).
6. Gestire il dibattimento e l’eventuale prova testimoniale: una volta presentato il ricorso e le memorie (entro 30 giorni dal deposito dell’atto impugnato l’AdE depositerà controdeduzioni, e il contribuente può replicare fino a 10 giorni prima dell’udienza), si arriva all’udienza. In udienza pubblica (se non è stata richiesta quella scritta) l’avvocato potrà rimarcare i concetti chiave oralmente. Se si intende far ammettere la testimonianza scritta di cui parlavamo prima, occorre aver depositato istanza motivata nelle memorie e insistere affinché il collegio la valuti. Non è garantito che venga ammessa – ad oggi è ancora un istituto poco rodato – ma provarci potrebbe dare frutti se il giudice è giovane e aperto alle novità procedurali. Un testimone chiave in un caso di costi software potrebbe essere, ad esempio, il project manager che seguì l’implementazione del software, o un cliente che può confermare l’utilità del software nella relazione commerciale. Qualora ammessa, la testimonianza assumerà la forma di risposte scritte a domande concordate, quindi va pianificata con cura.
7. Esiti e passi successivi: se la sentenza di primo grado sarà favorevole, ottimo – l’ufficio potrebbe anche non appellare se la materia è borderline (ma spesso appella, specie se ci sono somme ingenti). Se invece la sentenza è sfavorevole, il contribuente ha 60 giorni per appellare alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale). In appello si possono introdurre nuovi motivi solo se sono emersi dopo (ad es. nuove sentenze della Cassazione che ribaltano principi, o nuovi documenti scoperti, anche se quest’ultima ipotesi è delicata per il principio del divieto di nuove prove oltre il primo grado, salvo eccezioni) . L’appello è principalmente in punto di diritto o contro errori di valutazione del primo giudice. In materia di inerenza, non di rado si arriva fino alla Cassazione, poiché si tratta di questioni di principio (rapporto costo/ricavo, definizione di inerenza, onere probatorio) su cui la Suprema Corte ama esprimersi per uniformare i criteri . Se si arriva al terzo grado, occorrerà impostare il ricorso per Cassazione su motivi di legittimità (violazione di legge o vizio motivazionale grave). Ad esempio: “violazione dell’art. 109 TUIR e dei principi in tema di inerenza, avendo la CTR affermato la necessità di un utile immediato per riconoscere il costo deducibile, in contrasto con la giurisprudenza di legittimità” – un motivo di questo tipo avrebbe buone chance se effettivamente la CTR avesse ragionato in modo antiquato. La Cassazione, se riconosce che la CTR ha applicato un criterio erroneo (es. pretendendo un nesso costi-ricavi diretto, smentito dalle pronunce di legittimità), può cassare la sentenza. Può cassarla con rinvio (per un nuovo giudizio di merito) o, nei casi di puro diritto, anche senza rinvio, decidendo la causa se non ci sono fatti controversi. Nel frattempo, bisogna anche gestire gli aspetti pratici: chiedere la sospensione dell’esecutività delle somme se necessario (gli accertamenti, dopo il primo grado, diventano esecutivi per 1/3 se il Fisco vince; dopo il secondo grado, per 2/3). Tenere d’occhio eventuali chance di conciliazione in appello (esiste la conciliazione giudiziale, che permette di chiudere la lite con accordo anche in secondo grado, con alcune riduzioni sanzioni).
8. Focus sui costi “soggettivamente inesistenti” vs “oggettivamente inesistenti”: un punto specialistico merita attenzione. In alcune cause relative a costi fittizi, la Cassazione distingue tra operazioni oggettivamente inesistenti (mai avvenute in realtà) e soggettivamente inesistenti (avvenute ma con fornitori diversi da quelli fatturati, es: fattura emessa da cartiera ma la merce/servizio è stata comunque resa da altro soggetto). Nel contesto software potrebbe capitare che la società si sia avvalsa di fatture di comodo di una cartiera per coprire pagamenti a programmatori in nero, ma il software poi c’è davvero. Ebbene, la Cassazione ha riconosciuto che in caso di operazioni soggettivamente inesistenti – se il contribuente prova che il costo è effettivo e inerente – la deduzione può essere ammessa nonostante l’irregolarità soggettiva (restano le sanzioni per violazioni IVA ecc.) . Invece per operazioni oggettivamente inesistenti (il software non esiste proprio) nulla è deducibile . Quindi, se ci si trova a difendere un contribuente “vittima” di una frode carosello o di un fornitore risultato fittizio, ma il bene/servizio era reale, si deve puntare su questo distinguo: costo reale e inerente nonostante tutto, deducibile . La CTR Lombardia in un caso simile diede ragione al contribuente; la Cassazione (sent. n. 18825/2019, n. 10414/2018 e altre) ha consolidato l’orientamento a favore della deducibilità dei costi da fornitori “cartiera” se c’è prova dell’effettività (anche se l’IVA detraibile invece viene persa perché richiede fattura regolare). È un terreno scivoloso, ma da giocare se applicabile.
9. Profili penali nel contenzioso tributario: se parallelamente pende un procedimento penale per dichiarazione infedele o frode legato alle stesse spese, la strategia difensiva in Commissione dovrà essere concertata con quella penale. Spesso conviene sospendere il giudizio penale in attesa dell’esito di quello tributario o viceversa (il penale può essere sospeso in attesa del tributario se il fatto dipende dall’accertamento tributario). Una soluzione spesso percorsa è pagare il dovuto ed estinguere il reato (come detto, art. 13 D.Lgs. 74/2000) . In ogni caso, attenzione a ciò che si scrive nelle memorie tributarie: ammettere certi fatti per ottenere indulgenza fiscale potrebbe costituire confessione in sede penale. È un equilibrio delicato, per cui è essenziale che avvocato tributarista e penalista lavorino coordinati.
10. Caso di studio riassuntivo (contenzioso): Immaginiamo un esempio pratico: la “Beta S.r.l.”, piccola società di marketing (fatturato €200k), nel 2022 ha dedotto €100k per lo sviluppo di un’app di intelligenza artificiale per analisi di mercato. Il progetto però non ha portato risultati tangibili e la società è andata in perdita. L’Agenzia contesta nel 2024 l’intero costo come non inerente, ritenendolo antieconomico e dubbio. Beta S.r.l. presenta ricorso. Nel ricorso, Beta allega il business plan del progetto AI redatto nel 2021 dove si prevedevano benefici futuri (anche se poi non realizzati), mostra il codice sorgente dell’app sviluppata (come prova che qualcosa è stato effettivamente creato), una perizia informatica attestante che l’app, benché non redditizia, ha funzionalità coerenti con l’analisi di dati di marketing (quindi inerenti al settore), e magari una dichiarazione scritta di un esperto di marketing che conferma che molte aziende tentano progetti AI sperimentali anche senza garanzia di successo. Giuridicamente, Beta argomenta che: il costo è inerente in senso qualitativo essendo finalizzato all’oggetto sociale (marketing data analysis) anche se l’utile non c’è stato (cita Cass. 6426/2025) ; l’antieconomicità non basta a escludere la deduzione (cita Cass. 33568/2022) ; il Fisco non ha contestato che l’operazione sia fittizia, quindi la spesa è reale e va riconosciuta almeno pro-quota; in subordine, se mai, si potrebbe discutere semmai di competenza (forse doveva essere capitalizzata e ammortizzata, ma allora l’indeducibilità totale è sproporzionata). Chiede inoltre la disapplicazione della sanzione per obiettiva incertezza, visto il tema nuovo (AI) e l’assenza di chiarimenti specifici dell’amministrazione. Con questo impianto documentale e giuridico, Beta S.r.l. ha buone probabilità di spuntarla o almeno di ottenere una riduzione significativa dell’addebito.
Passiamo ora a una sezione più discorsiva: alcune domande frequenti che contribuenti e consulenti possono porsi riguardo alle spese per software contestate e le relative risposte, per fissare i concetti chiave in forma di FAQ.
Domande frequenti (FAQ) su spese di software non inerenti
D: Il mio oggetto sociale non prevede esplicitamente certe attività informatiche. L’ufficio mi contesta quindi che il software acquistato non rientra nell’oggetto sociale. Questo basta a renderlo indeducibile?
R: Non necessariamente. L’oggetto sociale indicato nello statuto (o l’attività dichiarata al fisco per le ditte individuali) è un parametro da considerare, ma non è un vincolo assoluto per l’inerenza . Ciò che conta è la funzione economica del costo. Anche spese per attività non elencate formalmente nell’oggetto possono essere inerenti se servono a far produrre reddito all’impresa . Ad esempio, una società immobiliare che acquista un software di gestione clienti (CRM): lo statuto magari non menziona attività informatiche, ma se il software è usato per migliorare le relazioni coi clienti e incrementare le vendite, è inerente. Certo, se la spesa è radicalmente fuori contesto (es: una SRL che si occupa di sviluppo software compra e deduce una barca da diporto – scenario estremo ma citato in dottrina ), allora l’onere di provare un nesso è molto difficile e il Fisco avrà buon gioco a contestare. In generale, però, “l’inerenza implica coerenza economica, non burocratica”: se dimostri che la spesa era finalizzata all’attività, la mancanza dal codice Ateco o dallo statuto non è di per sé motivo per negarla . È comunque prudente, se un’impresa intraprende sistematicamente attività collaterali non previste dallo statuto, aggiornare l’oggetto sociale o comunicare le attività multiple (per le ditte individuali, aggiornare il codice attività) per evitare facili argomenti al Fisco .
D: Una micro-impresa individuale (regime forfettario) può avere problemi simili di inerenza su acquisti di software?
R: Nel regime forfettario (tipico delle micro partite IVA in Italia) non si deducono analiticamente i costi, ma si applica una percentuale forfettaria di redditività. Pertanto, in quel regime il Fisco non contesta la singola spesa come non inerente (perché i costi non sono dichiarati in dettaglio). Semmai potrebbe contestare se l’attività dichiarata è reale o meno, ma non entra nel merito di ogni acquisto. In un regime analitico (semplificato o ordinario), invece, sì: ogni costo dedotto analiticamente è passibile di giudizio di inerenza. Quindi paradossalmente i forfettari sono immuni da queste specifiche liti (pagano però potenzialmente più imposte proprio perché non deducono i costi). Va detto che se un contribuente in regime forfettario compra un software costoso per uso personale e cerca di scaricare l’IVA (cosa che comunque non può fare, essendo forfettario non ha detraibilità IVA) o lo mette a spese, non ha un vantaggio fiscale immediato – quindi l’AdE di solito non indaga. Laddove però emergesse un abuso (es. fatture false usate in un regime forfettario per gonfiare costi fittizi e ottenere altri benefici), allora il discorso esula dall’inerenza e si passa a contestazioni di altro tipo (frode, indebite compensazioni, ecc.). Quindi, per sintetizzare: nei regimi a forfait l’inerenza dei singoli costi non viene valutata dal Fisco, mentre nei regimi analitici sì. Se un soggetto forfettario pensa di passare al regime ordinario, magari perché cresce di dimensioni, allora dovrà iniziare a fare attenzione all’inerenza delle sue spese.
D: Ho dedotto spese di software ma in quell’anno la mia impresa era in perdita o appena avviata e non ha prodotto ricavi. Possono contestarmi l’inerenza perché non ho guadagnato nulla da quei software?
R: No, il fatto di non avere utili o di essere in perdita non rende il costo non inerente di per sé. La Cassazione è chiara: l’inerenza è un concetto qualitativo, non quantitativo . Non serve un rapporto diretto con ricavi immediati; basta che la spesa abbia una correlazione potenziale con l’attività. Anche costi sostenuti in fase di start-up o in anni in perdita possono essere inerenti se erano finalizzati all’attività (es. investimenti preparatori, ricerche di mercato per lanciare il business) . Nel suo linguaggio suggestivo, la Cassazione ha affermato che anche i costi collocati in una prospettiva futura possono essere inerenti . Quindi non ti possono dire “non hai fatturato, dunque quel software è inutile”: magari serviva proprio a cercare di fatturare in futuro. Ovviamente, se passi molti anni senza alcun beneficio, l’ufficio potrebbe iniziare a dubitare della reale funzione del costo (soprattutto se ingente). Ma in linea di principio, l’assenza di ricavi non basta a negare l’inerenza. Il contribuente però deve spiegare perché la spesa aveva senso: ad esempio, “quel software ERP l’ho implementato nel 2023 per organizzare l’azienda, i ricavi arriveranno dal 2024 in poi” – questa è una spiegazione plausibile se poi effettivamente l’attività prosegue. Diverso è se uno deduce costi per anni e poi chiude senza aver mai avviato l’attività: in casi del genere, l’AdE potrebbe dire che in realtà quell’impresa non ha mai esercitato seriamente attività (quindi magari quel costo nascondeva altro). Ma se c’è la volontà e il tentativo genuino di fare impresa, i costi preparatori rimangono inerenti anche se non portano frutti immediati.
D: È vero che le spese per l’abbigliamento professionale o l’aspetto personale (trucco, vestiti) non sono mai deducibili? Posso dedurre il costo di software per la cura dell’immagine (ad es. un software per fotoritocco se sono un fotografo)?
R: La questione dell’abbigliamento/trucco è un tema classico di inerenza e la risposta generale è sì, in genere sono considerati costi personali quindi indeducibili . La giurisprudenza recente è severa: l’abito elegante per un professionista, anche se serve a “fare bella figura”, è ritenuto bisogno personale non inerente all’esercizio della professione . Solo in casi molto specifici si ammettono: indumenti tecnici obbligatori (camice, divisa, DPI) o costumi di scena per artisti, perché lì c’è un uso esclusivamente lavorativo e necessario . Allargando la domanda ai software legati all’immagine personale: se, ad esempio, sei un fotografo o un graphic designer, un software di fotoritocco è strumento di lavoro a tutti gli effetti, quindi inerente (non è per “abbellire te stesso”, ma per svolgere il servizio ai clienti). Se invece sei un avvocato e deduci Photoshop dicendo che ti serve per ritoccare le tue foto sul sito web, sarebbe visto con sospetto: in teoria si potrebbe dire che è per promozione (immagine sul sito), ma è tirato per i capelli. In questi casi meglio evitare, o al limite dedurre parzialmente se proprio (ma non esiste norma su deduzione parziale di software per autopromozione; se fosse pubblicità andrebbe documentato come tale). Comunque, per stare sul sicuro: spese di guardaroba, estetica, cura della persona – no deduzione, a meno che non ricadi in eccezioni di costumi di scena o simili. Software per fitness, diete, fotoritocco per selfie ecc.: indeducibili, perché non c’entrano col reddito d’impresa (a meno che la tua impresa sia produrre contenuti di immagine e quei software servano a quel prodotto – ma lì non sono spese personali, sono strumenti di produzione).
D: Ho perso in Commissione tributaria la causa sui costi indeducibili. Rischio adesso anche conseguenze penali?
R: Dipende dall’entità dell’evasione accertata e dalla natura della contestazione. La sconfitta in sé in Commissione non attiva automaticamente il penale, ma se l’ufficio non lo aveva già fatto, di solito se le soglie di reato erano superate aveva già inviato la notizia di reato in Procura al momento dell’accertamento . Come detto prima, la dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) scatta se imposta evasa > €100.000 e reddito non dichiarato > 10% di quello dichiarato (con minimo €2 milioni di imponibile sottratto). Quindi se, ad esempio, ti hanno contestato €500.000 di costi non inerenti e ciò ha generato €140.000 di imposte, sei sopra soglia . In tal caso, probabilmente la segnalazione al penale è partita. Se invece erano importi minori, niente reato. Da notare: se la contestazione riguarda costi inesistenti (fittizi), potrebbe configurarsi la dichiarazione fraudolenta con fatture false (art. 2 D.Lgs. 74/2000) con soglia più bassa (€50k IVA evasa o elementi passivi fittizi), punita più gravemente. Però lì parliamo di frode vera e propria. Nel caso di costi “non inerenti” ma reali, si tratta di infedele. In genere, come osservavi, se perdi in Commissione significa che il costo è stato definitivamente ritenuto indebito: se la soglia è superata e il penale non era stato attivato prima, la sentenza negativa potrebbe spingere la GdF o AdE a trasmettere la notizia di reato (ma normalmente lo fanno prima, non aspettano l’esito del processo tributario, anche se a volte attendono la definizione). La buona notizia è che l’inerenza è materia opinabile, dunque è difficile provare in sede penale il dolo specifico di evasione. Un imprenditore potrà sempre dire “pensavo fosse deducibile” . Infatti, casi penali per inerenza pura sono rari e spesso archiviati, a meno che dietro non ci sia un costrutto fraudolento (fatture false) . Inoltre, come già evidenziato, c’è l’ancora di salvezza dell’art. 13 D.Lgs. 74/2000: pagando il dovuto (imposte + interessi + sanzioni) prima del dibattimento penale, il reato di infedele è non punibile . Quindi, se ti ritrovi a rischio penale, la strategia tipica è pagare il debito tributario residuo e chiedere l’archiviazione per estinzione del reato. Ovviamente, conviene farsi seguire da un penalista tributarista in tali frangenti. Ma ribadisco: se l’importo non supera le soglie, non c’è reato penale e ti rimangono solo le sanzioni amministrative (eventualmente rateizzabili).
D: L’Agenzia può contestare un costo solo perché antieconomico, ossia dicendo “hai speso troppo per quel software rispetto ai benefici”?
R: No, non può farlo in modo legittimo. Come discusso, la mera antieconomicità non è una causa autonoma di indeducibilità . Se l’AdE facesse un accertamento con unico motivo “costo sproporzionato, quindi lo disconosco”, il contribuente avrebbe ottimi argomenti per farlo annullare per violazione di legge (dei principi sull’inerenza) . L’Amministrazione può però usare l’antieconomicità come indizio per scavare: ossia può dire “questa spesa sembra antieconomica, secondo me nasconde qualcosa: o non è inerente o è fittizia o è uno spreco fuori attività”. In quel caso la contestazione non sarà mai formulata come “non deduco perché troppo alta e basta”, ma come “riteniamo il costo non inerente in quanto antieconomico e probabilmente estraneo all’attività”. È sottile la differenza, ma sostanziale: loro cercheranno sempre di legare l’antieconomicità a una mancanza di inerenza. Ad esempio: “hai speso 100 per un software che ti ha prodotto 0 utili, quindi quel software non serviva all’impresa, ergo non inerente”. La difesa deve spezzare questa equazione: dimostrare che anche se non ha prodotto utili immediati, serviva eccome all’impresa (per obiettivi futuri, per immagine, per necessità organizzative, ecc.) . Se si fornisce una spiegazione plausibile, allora il Fisco, per insistere, dovrebbe provare il contrario, cioè che la motivazione aziendale addotta è falsa e in realtà c’era uno scopo estraneo . In mancanza di tale prova contraria, la contestazione basata su “costo troppo alto” cade. Quindi, per rispondere chiaramente: da sola l’antieconomicità non basta a negare la deduzione . Se però l’antieconomicità è estrema e non giustificata, il rischio è che il giudice consideri l’assenza di inerenza provata indirettamente: ma questo succede quando il contribuente non riesce a dare alcuna ragione plausibile. Esempio pratico: un’azienda di ferramenta spende €500k in software di “business intelligence” in un anno in cui ha €100k di ricavi e poi smette pure di usarlo; se in giudizio non riesce a motivare questa scelta, è probabile che la commissione avalli il Fisco nel dire che era un costo fuori da ogni logica imprenditoriale, quindi verosimilmente non inerente (magari era un modo per trasferire soldi a una consociata produttrice di software, per dire). Ma se quell’azienda porta evidenze che stava tentando un cambio di modello di business, che quel software era parte di un progetto di trasformazione digitale con potenziali benefici (anche se poi fallito), allora il giudice potrebbe riconoscere la buona fede e la deducibilità (magari non totale, ma questo è un altro discorso).
D: Ho scoperto nuovi documenti o sentenze della Cassazione a me favorevoli dopo aver ricevuto l’accertamento (o dopo il primo grado). Posso farli valere in qualche modo?
R: Sì. Se hai nuovi documenti che prima non avevi, puoi presentarli tramite istanza di autotutela all’ufficio (meglio subito, come detto) . Se sei già in giudizio, puoi provare a produrli fino a 20 giorni prima dell’udienza di primo grado (oltre sarebbe tardivo, a meno che non siano documenti formatasi dopo, in tal caso anche in appello ai sensi dell’art. 58 D.Lgs. 546/92). Per le nuove sentenze della Cassazione, certamente sì: la legge ti permette di depositare giurisprudenza fino all’udienza (anche all’ultimo momento come semplice produzione di massime). Ad esempio, se dopo l’accertamento esce una Cassazione delle Sezioni Unite proprio sul tuo tema, puoi integrarla nei motivi di ricorso se sei ancora in tempo, oppure evidenziarla in memoria aggiuntiva o in udienza. I giudici tributari in teoria dovrebbero conoscere le sentenze di legittimità, ma non sempre è così, quindi segnalare “vedasi Cass. SU n. XYZ del 2024 che ha stabilito…”. Nel pre-contenzioso, si può persino provare a usare nuove sentenze in un’istanza di autotutela: “Nel frattempo la Cassazione ha emesso sentenza che dà ragione al contribuente su questo punto, dunque vi chiediamo di rivedere la posizione” . Non è garantito che l’Agenzia accolga, ma se la sentenza è autorevole (meglio se Sezioni Unite o comunque recentissima a sezioni semplici) potrebbe evitare una lite persa.
D: Come mi devo regolare con la conservazione dei documenti di acquisto del software? È cambiata la legge sui 10 anni, ma la Cassazione pare dire altro…
R: La regola generale, da poco modificata, è: 10 anni dalla presentazione della dichiarazione (art. 8 Statuto mod. da D.Lgs. 219/2023). Quindi, ad esempio, per un costo sostenuto nel 2025 e dedotto in parte fino al 2030, la dichiarazione 2030 verrà presentata nel 2031, i 10 anni vanno dal 2031: conserverai fino al 2041 (che sono 16 anni dal 2025, in sostanza…). Capisci che, applicata alla lettera, per costi pluriennali si finisce oltre i 10 effettivi dall’acquisto. La Cassazione (SU 8500/2021) ha infatti detto che la specialità delle norme sulle scritture contabili prevale , quindi se deduci su più anni devi conservare finché tutti quegli anni sono accertabili . In pratica, per stare sicuro: tieni i documenti originari per tutto il tempo in cui l’accertamento di ogni quota è possibile. Considera che i termini di accertamento ordinari sono 5 anni (o 7 in caso di omessa dichiarazione o reati). Quindi, se il tuo costo software tocca l’anno N fino all’anno N+4 (5 anni di quote): devi conservare almeno finché non scadono i termini per l’anno N+4. Facciamo un esempio: acquisto software nel 2018, ammortizzo dal 2018 al 2022. Il termine di accertamento per il 2022 (dich. presentata 2023) scade al 31/12/2028. Dovresti tenere la fattura 2018 fino a fine 2028 (che sono 10 anni dopo 2018, infatti). Se invece ammortizzavi fino al 2025, dovresti tenere fino al 31/12/2031. Dunque la regola 10 anni “dal loro utilizzo” in sostanza significa: 10 anni dopo l’anno di deduzione dell’ultima quota. Il nuovo Statuto dice 10 anni dal loro utilizzo e preclude pretese su doc oltre 10 anni , ma la Cassazione non l’ha (ancora) interpretata a favore del contribuente immediatamente . Forse potrebbe farlo in futuro (c’è un dibattito se la modifica sia interpretativa, e quindi valga retroattivamente, ma la Cassazione per ora sembra di no). Quindi per ora il consiglio prudenziale: conserva tutto almeno per 10 anni dall’ultima quota dedotta. In formato digitale va bene (firma elettronica ecc.). Se proprio hai buttato i documenti vecchi, sappi che c’è quell’argomento da spendere, ma non farci troppo affidamento. La cosa migliore è attrezzarsi per tempo con archiviazione elettronica a lungo termine dei contratti e fatture più importanti.
Passiamo ora a concludere con alcune simulazioni pratiche di casi realistici riguardanti spese di software contestate, per illustrare come applicare i principi discussi e quali potrebbero essere gli esiti attesi.
Simulazioni pratiche di contestazioni e difese (casi di studio)
Per rendere più concreta la trattazione, analizziamo tre scenari ipotetici – ispirati a casi realmente occorsi – in cui un contribuente si trova a fronteggiare un accertamento su spese di software, e vediamo come potrebbe svolgersi la difesa e quale esito potenziale avrebbe.
Caso 1: Libero professionista e software specialistico “dubbio”
Scenario: L’avvocato Tizio, libero professionista, nel 2024 acquista un costoso software di intelligenza artificiale per analisi giuridica, pagando €15.000. Deduce l’intero importo come spesa professionale nel 2024. L’Agenzia delle Entrate, durante un controllo formale, nota la voce “Software AI €15.000” nel quadro delle spese di Tizio, e invia una richiesta di documenti. Tizio fornisce la fattura e il contratto di licenza, da cui risulta che si tratta di un tool AI avanzato per ricerca di precedenti e supporto nella redazione di atti, con abbonamento perpetuo (quindi in realtà una licenza illimitata). L’ufficio solleva due rilievi: (a) il software, a suo dire, non è inerente perché “benché innovativo, non è necessario né tipico per l’attività forense”; (b) in subordine, contesta la deduzione integrale immediata sostenendo che trattandosi di licenza illimitata, Tizio avrebbe dovuto ammortizzarla su più anni (violazione art. 54 TUIR per i professionisti, che richiama criteri simili all’art. 102/103 per beni strumentali). Viene emesso un avviso di accertamento recuperando l’intero costo (con facoltà per Tizio di dedurlo pro quota nei 5 anni successivi mediante dichiarazioni integrative). Sanzione al 90% sull’imposta relativa (essendo infedele). Importo imposte evase non rilevante penalmente (diciamo €6.000 di IRPEF).
Difesa: Tizio presenta istanza di accertamento con adesione, portando memorie in cui evidenzia: (1) che il software in questione è sempre più utilizzato negli studi legali di grandi dimensioni per aumentare l’efficienza, allegando articoli di riviste di settore; (2) che lui stesso lo ha utilizzato in alcune cause nel 2024 (produce, ad esempio, estratti di pareri generati dall’AI integrati nei suoi atti legali, a dimostrazione dell’uso); (3) richiama Cassazione e dottrina sul fatto che inerenza non significa indispensabilità, ma correlazione all’attività (se fosse vero che un avvocato può dedurre solo ciò che è tradizionale, non potrebbe dedurre un computer perché un avvocato può scrivere a mano? Assurdo – questo è l’argomento “logico”); (4) ammette tuttavia l’errore sulla competenza temporale: essendo licenza illimitata, riconosce che andava ammortizzata (per i professionisti le spese per beni strumentali vanno dedotte tramite quote di ammortamento come per le imprese). Propone quindi all’ufficio di rinegoziare la ripartizione: deduzione su 5 anni, quindi nel 2024 solo €3.000 erano deducibili, e su questo sarebbe disposto a pagare le imposte sulla differenza (€12.000 indebitamente dedotti), chiedendo la sanzione ridotta a 1/3. L’ufficio in adesione accetta la soluzione sulla competenza, ma continua a ritenere non inerente magari il 50% del costo, col ragionamento che l’AI è qualcosa di ultroneo per un avvocato individuale (ammettono solo €7.500 spalmati su 5 anni). Dopo trattative, si accordano su un compromesso: riconoscimento pieno dell’inerenza (del 100% del costo) e semplice rifacimento del piano di deduzione (5 anni), applicando sanzione al 1/3 sul primo anno. Tizio paga dunque la differenza di imposta per il 2024 (circa €12k * aliquota marginale 40% = €4,8k) + sanzione 30% (€1,44k) + interessi, e contestualmente effettua dichiarazioni integrative per dedurre €3k all’anno dal 2025 al 2028 (recuperando parte delle tasse).
Esito alternativo (se non accordo): Poniamo che l’ufficio fosse rigido e non avesse accolto l’adesione. Tizio avrebbe fatto ricorso, e quasi certamente il giudice avrebbe riconosciuto l’inerenza (perché il software è chiaramente attinente all’attività forense, anche se innovativo, e c’è uso concreto) ma avrebbe comunque negato la deduzione integrale nel 2024, disponendo semmai la ripartizione su più anni. Dunque Tizio avrebbe vinto sul principio (inerenza) ma magari avrebbe ottenuto solo l’annullamento parziale delle sanzioni (quelle sulla parte che comunque avrebbe potuto dedurre in futuro). A conti fatti, l’accordo di adesione era la via più efficiente in questo caso.
Caso 2: PMI industriale e implementazione ERP ammortizzata male
Scenario: La Alfa S.p.A., azienda manifatturiera (medio-piccola, fatturato €5 milioni), nel 2022 ha sostenuto un costo di €200.000 per l’implementazione di un sistema ERP (software gestionale integrato) comprensivo di licenze perpetue e servizi di consulenza per installazione e personalizzazione. In bilancio 2022, la società – su input erroneo del suo commercialista – ha imputato a conto economico l’intera spesa come “costi per servizi”, senza capitalizzare nulla, ritenendo (impropriamente) che fosse tutta manutenzione ordinaria. In realtà si trattava di un nuovo sistema informativo. Nel 2023, l’Agenzia fa un controllo sostanziale sul bilancio 2022 e rileva che nei documenti di nota integrativa non c’è menzione di immobilizzazioni immateriali, ma nel conto economico figurano €200k di spese informatiche, una tantum. Convoca l’azienda per un contraddittorio. Durante il confronto, i funzionari fanno presente che, a loro avviso, quei €200k erano un classico costo ad utilità pluriennale da ammortizzare e che la deduzione integrale 2022 è indebita per €160k (ipotizzando una vita utile di 5 anni, solo €40k competono al 2022). Alfa S.p.A., tramite il nuovo CFO, ammette l’errore contabile. Tuttavia, nel frattempo il 2023 e 2024 sono andati male e la società ha perdite fiscali: se le quote di ammortamento ERP fossero state su 5 anni, parte sarebbero “perdute” in anni in perdita (non recuperabili pienamente perché la società non riesce a usare tutte le perdite per limiti alle compensazioni). Questo dettaglio spiega perché forse avevano deciso di dedurre tutto subito (per abbattere utili 2022). L’ufficio emette accertamento per il 2022, recuperando €160k a tassazione. Imposta accertata supponiamo €38k (24% IRES). Sanzione base 90% = €34k circa.
Difesa: Qui la questione è prettamente di competenza temporale, non di inerenza sostanziale (nessuno dubita che l’ERP serva all’attività – anzi, è tipicamente inerente). Dunque Alfa S.p.A. non contesta il merito del rilievo (sa di aver anticipato indebitamente), ma imposta la difesa su: (a) carenza di motivazione dell’atto (forse l’ufficio ha solo scritto “errata deduzione anticipata” senza dettagliare calcoli; un vizio minore comunque); (b) soprattutto, richiesta di non applicare sanzioni o applicarle nel minimo, sostenendo che c’era un’incertezza normativa o quantomeno un errore tecnico non fraudolento. Si cita ad esempio una circolare Assonime (ipotesi) in cui si diceva che certe spese software borderline potevano essere considerate costi di periodo: anche se l’Agenzia non era d’accordo, questo creerebbe incertezza. Inoltre, si evidenzia che la società non ha tratto un vantaggio definitivo: se avesse ammortizzato correttamente, avrebbe comunque dedotto quei 160k (solo più diluiti); dedurli tutti in 2022 le ha dato sì un beneficio di timing, ma poi negli anni successivi paga più tasse (cosa effettivamente successa: 2023 in perdita, dove una parte di ammortamenti sarebbero rimasti inutilizzati). In sostanza, la violazione non ha generato un’evasione permanente, ma solo un disallineamento temporale (concetto del “raccordo pluriennale”). Alfa propone quindi in adesione di pagare l’imposta dovuta (€38k) ma con sanzioni ridotte al minimo storico (magari 15% in luogo del 90%), dato il carattere formale della violazione e la buona fede. Porta a supporto anche la circostanza che in bilancio la spesa era chiaramente evidenziata (nessun occultamento), quindi no dolo. L’ufficio, colpito da questi argomenti e volendo chiudere, accetta di ridurre la sanzione a 1/8 (visto che tanto con adesione sarebbe 1/3 del 90% = 30%; fare 15% è uno sforzo ma possibile in adesione straordinaria). Alfa paga imposta + 15% sanzioni + interessi. Inoltre, provvede a rettificare i bilanci successivi (in realtà un bilancio civilistico non può essere cambiato per anni chiusi, ma può riflettere l’errore come correzione in patrimonio netto; ai fini fiscali presenta integrative per ridurre perdite riportate del valore degli ammortamenti “riediti”). Nessun penale essendo sotto soglia e comunque condotta non fraudolenta.
Esito atteso se litigioso: In un eventuale giudizio, la Commissione quasi certamente confermerebbe il recupero dell’imposta (perché la legge su competenza è chiara), ma potrebbe – a sua discrezione – ridurre le sanzioni se convinta della buona fede (“errore scusabile”). Alcune sentenze su casi simili hanno ridotto al minimo o annullato sanzioni per errore contabile. Ma non è garantito, è equità del giudice. Quindi l’accordo in adesione era saggio. Alfa rimane con un insegnamento: d’ora in poi attenzione a come trattare i costi pluriennali, e magari chiedere interpello su casi dubbi.
Caso 3: Grande impresa e spese software infragruppo con sospetto di frode
Scenario: La Gamma S.r.l. fa parte di una multinazionale. Nel 2021 acquista da una consociata estera (extra-UE) un “pacchetto software + know-how AI” per €1,5 milioni. Deduce l’importo tramite ammortamento in 3 anni (circa €500k l’anno) poiché la licenza contrattualmente ha durata 3 anni. Nel 2023 la Guardia di Finanza avvia una verifica fiscale su Gamma. Dalle indagini finanziarie emergono flussi di denaro significativi verso il paese estero della consociata, ritenuto a fiscalità privilegiata. Vengono chiesti documenti sul software. Gamma fornisce il contratto di licenza e documentazione tecnica, ma i verificatori nutrono dubbi sul valore reale del software: sospettano che Gamma abbia gonfiato il costo per trasferire utile alla consociata (riducendo il suo reddito in Italia). Parlano quindi di possibile transfer pricing o, se non formalmente contestabile come transfer pricing (poiché la consociata è extra-OCSE e manca accordo sul TP), impostano la contestazione sul piano dell’inerenza/antieconomicità: “costo sproporzionato e non giustificato, pagato a società collegata, con finalità di riduzione del reddito in Italia”. Inoltre, notano che il software non sembra essere stato effettivamente utilizzato molto dall’azienda (pochi utenti attivi). L’accertamento disconosce metà del costo come “non inerente” (ritenendo che il valore corretto sarebbe stato la metà). Quindi recupera a tassazione €750k (spalmati sui tre anni 2021-23) come maggior reddito. Sanzioni per infedele al 90% sulle imposte relative (importante, perché imposta su 750k ~180k €, 90% ~162k €). Sforamento soglia penale (dato l’importo elevato, l’evasione totale su 3 anni supera 100k). Notizia di reato inviata.
Difesa: Questo è un caso complicato, dove l’inerenza si mischia con profili di abuso. Gamma impugna l’accertamento portando a supporto una perizia di stima indipendente che attesta che il software e il know-how acquistati valgono effettivamente intorno a €1,3 milioni (non proprio 1,5 ma quasi). Cerca di dimostrare che il prezzo, sebbene elevato, non è fuori mercato di 10 volte ma al limite del 10-20%. Sottolinea inoltre che la consociata estera non è in un paradiso fiscale bensì ha attività reali (quindi non era una mera cartiera). Sul piano giuridico, Gamma contesta che l’ufficio stia surrettiziamente applicando criteri di valore normale senza averne titolo (inerenza non è congruità, come dice Cassazione) . Richiama sentenze in cui la Cassazione ha detto che il Fisco non può rideterminare il corrispettivo salvo prova di operazione simulata. Inoltre, eccepisce difetto di motivazione: l’AdE si limita a dire “sproporzionato” senza un vero studio di comparables – il che inficia l’atto. Sul fronte penale, l’avvocato penalista sostiene che non c’è elemento fraudolento, al più si discute di transfer pricing (che in Italia all’epoca non era punibile come reato a sé). In parallelo, Gamma avvia procedure MAP (mutual agreement procedure) internazionali per dimostrare che il prezzo era arm’s length.
Esito: In primo grado, la Corte Tributaria potrebbe ragionare così: riconosce che l’ufficio non ha fornito prove solide di sovrafatturazione, solo indizi (parte correlata, costo alto). D’altro canto, la perizia di parte di Gamma riduce il sospetto ma non lo elimina (valore stimato 1,3 vs pagato 1,5). Potrebbe dunque decidere Solomonicamente di accogliere parzialmente il ricorso: riducendo il recupero, ad esempio considerare inerente 1,3 milioni e non inerente l’eccedenza 0,2 (il che abbatterebbe l’imponibile recuperato a €200k in totale). Conseguentemente sanzioni ridotte. Entrambe le parti potrebbero appellare a quel punto. In secondo grado o Cassazione, la partita verterebbe sui principi: se passa la linea “antieconomicità non è contestabile senza prova di finalità estranee” , Gamma può spuntarla del tutto (vittoria contribuente: costo integralmente deducibile salvo TP formalmente non applicabile per mancanza di norma interna all’epoca). Se invece i giudici sono diffidenti e pro-fisco, potrebbero confermare una parte di indeducibilità. Sul penale, se la vicenda tributaria si risolve a favore di Gamma (o anche parzialmente, con riduzione del’evasione sotto soglia), probabilmente il procedimento verrebbe archiviato o derubricato. In caso contrario (fosse confermata l’evasione >100k), Gamma punterebbe sulla mancanza di dolo specifico (non era una frode, prezzo pagato per un bene reale, controversia valutativa) e comunque sul pagamento integrale per estinguere il reato. Questo caso mostra i confini sfumati tra non inerenza e abuso del diritto/transfer pricing: spesso l’Agenzia, se non ha strumenti diretti, usa l’inerenza come “cavallo di Troia” per sindacare operazioni infragruppo. La difesa deve quindi spostare il dibattito su un piano tecnico (valore di mercato) cercando di sfruttare le garantiste pronunce sulla non sindacabilità delle scelte imprenditoriali salvo casi macroscopici .
Questi esempi pratici evidenziano come, a seconda della dimensione del contribuente e della natura della spesa software, le contestazioni e le difese possano variare sensibilmente. Il libero professionista deve stare attento a documentare l’utilizzo lavorativo di strumenti innovativi; la PMI deve curare la corretta contabilizzazione per evitare errori di competenza; la grande impresa deve essere pronta a dimostrare la congruità di costi infragruppo e a gestire eventualmente accuse di abuso. In tutti i casi, avere prove documentali, consulenze tecniche e conoscere i precedenti giurisprudenziali consente di affrontare il confronto con il Fisco da una posizione solida.
Conclusione
Le spese per software e, in generale, per investimenti digitali sono ormai parte integrante della gestione di imprese e professionisti. Tuttavia, come abbiamo visto, dal punto di vista fiscale esse possono talvolta diventare terreno di scontro con l’Amministrazione finanziaria, specie se di importo significativo o se apparentemente “anomale” rispetto al profilo del contribuente. Il concetto di inerenza rappresenta il filo conduttore di queste dispute: è un concetto ampio, di natura qualitativa, che richiede di valutare caso per caso la funzionalità del costo rispetto all’attività d’impresa o di lavoro autonomo.
Per difendersi efficacemente da una contestazione di spese per software non inerenti, occorre agire su più fronti:
- Prevenzione e correttezza iniziale: contabilizzare e dichiarare i costi in modo conforme (rispettando competenza e regole di ammortamento), raccogliere e conservare la documentazione contrattuale e tecnica, e – perché no – predisporre relazioni interne che giustifichino l’investimento (business plan, analisi costi-benefici). Ciò non solo riduce la probabilità di un accertamento, ma in caso di verifica fornisce subito munizioni difensive.
- Collaborazione in sede di verifica: fornire tutte le prove dell’inerenza e della realtà del costo non appena richieste, e spiegare proattivamente al Fisco la logica economica della spesa. Mostrarsi trasparenti e disponibili può convincere i funzionari della bontà della posizione, evitando che si irrigidiscano su posizioni pregiudiziali.
- Strategie deflative: utilizzare l’accertamento con adesione per negoziare eventuali soluzioni di compromesso, ad esempio ottenendo il riconoscimento parziale del costo o la riqualificazione della violazione con sanzioni ridotte. Anche l’autotutela mirata (presentare documenti nuovi scoperti successivamente) può risolvere definitivamente il caso prima del ricorso.
- Difesa tecnica in giudizio: qualora si arrivi davanti al giudice tributario, predisporre un ricorso dettagliato e ben fondato, corredato da tutta la documentazione probatoria, citando le norme e soprattutto le sentenze di legittimità più aggiornate a supporto. Sottolineare la buona fede e l’assenza di intenti elusivi è fondamentale per ottenere, se non l’annullamento integrale, almeno clemenza sanzionatoria. Non esitare a sfruttare i nuovi strumenti probatori (testimonianza scritta) nei casi in cui i documenti siano carenti ma esistono terzi in grado di confermare la sostanza della vicenda.
- Gestione del rischio penale: per importi elevati, prevedere sin da subito un piano per evitare conseguenze penali: il che può voler dire definire la parte tributaria quanto prima (pagando il dovuto per estinguere il reato) o improntare la difesa evidenziando l’assenza di dolo. Ricordare che i costi effettivi ma contestati per inerenza raramente conducono a condanne penali, salvo siano legati a fatture false o condotte fraudolente.
In tutte queste fasi, l’assistenza di professionisti esperti – avvocati tributaristi, commercialisti, periti informatici – può fare la differenza, perché l’argomentazione giuridica sottile o la perizia tecnica ben fatta possono convincere il Fisco (o il giudice) dove le sole affermazioni del contribuente non bastano.
Dal punto di vista del debitore d’imposta, il messaggio finale è di non lasciarsi scoraggiare da una contestazione iniziale: se la spesa per software è stata sostenuta realmente e per motivi legati all’attività, esistono spesso margini per difendersi con successo. La giurisprudenza tributaria italiana, specie di recente, ha mostrato sensibilità nel tutelare le scelte imprenditoriali genuine e nel richiamare il Fisco a non abusare del concetto di antieconomicità . Certo, ogni caso è unico: ma questa guida, con le sue fonti normative aggiornate e i richiami alle ultime sentenze di merito e di legittimità, fornisce una mappa per orientarsi e individuare gli appigli utili.
In conclusione, la miglior difesa è una combinazione di conoscenza (delle regole e dei propri diritti), documentazione (a supporto dei fatti) e prudenza strategica. Con queste armi, anche di fronte a un accertamento su spese di software non inerenti, il contribuente può ambire a tutelare con successo i propri interessi, pagando in definitiva solo quanto realmente dovuto per legge – e non di più.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate spese per software ritenute non inerenti all’attività? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate spese per software ritenute non inerenti all’attività?
Vuoi sapere cosa rischi e come predisporre una difesa efficace?
👉 Prima regola: dimostra che i software acquistati o sviluppati sono stati effettivamente utilizzati nell’attività aziendale e hanno una connessione diretta o indiretta con la produzione di ricavi.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Acquisto di software generici ritenuti di natura personale;
- Licenze o abbonamenti a programmi non collegati all’attività svolta;
- Spese di sviluppo software non documentate da contratti o relazioni tecniche;
- Costi sproporzionati rispetto all’attività e giudicati non giustificati;
- Mancanza di documenti che provino l’uso del software in azienda.
📌 Conseguenze della contestazione
- Indeducibilità delle spese per software ritenute non inerenti;
- Recupero delle imposte su maggiori redditi imponibili;
- Sanzioni fiscali per dichiarazione infedele;
- Interessi di mora sulle somme accertate;
- Possibili controlli futuri su altre categorie di costi digitali e informatici.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Il software acquistato era realmente usato per l’attività aziendale?
- Esistono contratti di licenza, fatture e relazioni tecniche che ne provano l’inerenza?
- I pagamenti sono stati effettuati con mezzi tracciabili?
- Le spese erano necessarie per attività gestionali, operative o produttive?
- L’accertamento si basa su presunzioni o su prove concrete?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Fatture di acquisto o di licenza software;
- Contratti di licenza o di sviluppo personalizzato;
- Relazioni tecniche o documenti interni sull’utilizzo del software;
- Estratti conto bancari che dimostrino i pagamenti;
- Bilanci e registrazioni contabili dei costi informatici.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la reale utilità del software per l’attività aziendale;
- Contestare la presunzione che un software generico non sia inerente;
- Evidenziare l’uso operativo (gestionale, contabile, produttivo, marketing) con prove concrete;
- Eccepire carenze di motivazione nell’accertamento;
- Richiedere annullamento in autotutela se i documenti erano già agli atti;
- Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro i termini previsti.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le spese informatiche e i software contestati;
📌 Valuta la fondatezza delle contestazioni e individua i margini difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta nei procedimenti davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura delle spese aziendali in ambito software e digitale.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e diritto d’impresa;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni fiscali su spese informatiche e digitali;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni per spese software non inerenti non sempre sono fondate: spesso derivano da carenze documentali o da valutazioni superficiali dell’Agenzia.
Con una difesa mirata puoi dimostrare l’effettivo utilizzo dei software nell’attività, evitare il recupero di imposte indebite e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni fiscali sulle spese software inizia qui.