Accertamento Fiscale E Costi Indeducibili Per Mancanza Di Contratto Scritto: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per costi dichiarati indeducibili a causa della mancanza di un contratto scritto? In questi casi, l’Ufficio presume che le spese sostenute non siano adeguatamente documentate e quindi non possano essere portate in deduzione dal reddito imponibile. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero delle imposte, applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con una difesa ben preparata è possibile dimostrare l’effettività e l’inerenza dei costi anche senza un contratto formale.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta costi indeducibili per mancanza di contratto scritto
– Se le prestazioni di consulenza o collaborazione non sono formalizzate per iscritto
– Se i rapporti di fornitura o servizio risultano regolati solo verbalmente
– Se le parcelle o fatture non sono accompagnate da documenti che provino l’effettiva esecuzione delle prestazioni
– Se i compensi appaiono sproporzionati rispetto all’attività svolta
– Se l’Ufficio presume che si tratti di costi fittizi utilizzati per ridurre il reddito imponibile

Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità totale o parziale dei costi contestati
– Recupero a tassazione delle somme ritenute non giustificate
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme dovute
– Nei casi più gravi, denuncia penale per dichiarazione infedele o utilizzo di documentazione falsa

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’effettiva esistenza e inerenza delle prestazioni rese
– Produrre fatture, corrispondenza email, relazioni tecniche, report e altra documentazione a supporto
– Contestare la necessità assoluta del contratto scritto quando la legge ammette anche la prova documentale indiretta
– Evidenziare errori di valutazione, difetti istruttori o vizi di motivazione nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione delle spese per ridurre sanzioni e interessi applicati
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento totale o parziale della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i rapporti commerciali e professionali oggetto di contestazione
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta interpretazione delle norme fiscali
– Predisporre un ricorso basato su prove concrete e giurisprudenza favorevole
– Difendere l’impresa o il professionista davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio personale e aziendale da richieste fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– Il riconoscimento della deducibilità totale o parziale dei costi sostenuti
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: la mancanza di contratto scritto non significa automaticamente che i costi siano indeducibili. Il Fisco tende a contestare in blocco, ma il contribuente può dimostrare con documenti, prove e testimoni la reale esistenza delle prestazioni.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso fiscale – spiega come difendersi in caso di accertamento fiscale per costi indeducibili dovuti a mancanza di contratto scritto e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.

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Introduzione

In ambito tributario italiano, uno dei motivi ricorrenti di contestazione in sede di accertamento fiscale è la deducibilità di costi aziendali in mancanza di un contratto scritto. L’Agenzia delle Entrate, durante le verifiche, può infatti ritenere “indeducibili” – ossia non fiscalmente deducibili dal reddito d’impresa – quei costi sostenuti dal contribuente che non siano supportati da un’adeguata pezza giustificativa, come un contratto formalizzato per iscritto. Dal punto di vista del Fisco, l’assenza di un accordo scritto per operazioni di rilievo può essere indice di un’operazione inesistente o non inerente all’attività, portando al recupero a tassazione dei relativi importi . In pratica, se durante un accertamento l’Ufficio riscontra spese significative senza un contratto firmato che ne disciplini le condizioni, potrebbe presumere che tali costi non siano reali o comunque non strettamente legati all’attività d’impresa e dunque disconoscerli, aumentando il reddito imponibile e le imposte dovute.

Questa guida, aggiornata a settembre 2025, fornisce un’analisi approfondita – con taglio sia giuridico che pratico – del problema dei costi indeducibili per mancanza di contratto scritto e spiega come difendersi da tali contestazioni. Si esamineranno i riferimenti normativi italiani e i più recenti orientamenti giurisprudenziali sul tema, offrendo esempi pratici (es. consulenze, prestazioni occasionali, affitti non registrati, spese di pubblicità), tabelle riepilogative dei principi chiave e una sezione di domande e risposte per chiarire i dubbi frequenti. L’obiettivo è fornire a professionisti, imprenditori e privati gli strumenti conoscitivi per comprendere quando il Fisco può legittimamente negare la deduzione di un costo per assenza di un contratto scritto, quali sono i diritti del contribuente (debitore d’imposta) e quali strategie difensive adottare sia in fase pre-contenziosa sia nel processo tributario già avviato.

Nota: Questa guida adotta un linguaggio tecnico-giuridico ma divulgativo. Si premette che, in linea generale, in Italia vige la libertà di forma dei contratti (salvo eccezioni di legge) e un accordo verbale può essere valido civilmente; tuttavia, in ambito fiscale, la forma e la documentazione assumono un ruolo cruciale per soddisfare i requisiti di deducibilità. Pertanto, l’assenza di un documento contrattuale scritto e datato può creare seri problemi probatori in sede di verifica. Nei paragrafi che seguono analizzeremo i principi generali sulla deducibilità dei costi, le principali casistiche di contratti mancanti o nulli e, soprattutto, come impostare una difesa efficace dal punto di vista del contribuente.

Principi generali sulla deducibilità dei costi d’impresa

Prima di entrare nel merito dei contratti non formalizzati per iscritto, è fondamentale richiamare i principi cardine della deducibilità dei costi nel reddito d’impresa, così da capire in quale modo la mancanza di un contratto scritto possa incidere su tali requisiti. In base al sistema tributario italiano (disciplinato in particolare dal TUIR, D.P.R. 917/1986), un costo sostenuto dall’impresa è deducibile solo se soddisfa determinati presupposti, tra cui i principali sono comunemente riassunti nei concetti di inerenza, certezza (e determinabilità) e competenza. A questi si aggiunge il tema della congruità/normalità economica della spesa, derivante da elaborazione giurisprudenziale, e la ripartizione dell’onere della prova in caso di accertamento. Esaminiamoli brevemente:

  • Inerenza – Un costo è inerente se riferibile all’attività d’impresa svolta, anche solo in potenza o prospettiva futura, e non estraneo ad essa . Si tratta di un giudizio qualitativo: non è necessario che il costo produca uno specifico ricavo, basta che sia sostenuto nell’ambito dell’attività e risponda a una logica imprenditoriale (ad esempio, spese per ricerca, per marketing strategico o formazione del personale possono essere inerenti anche se il loro beneficio economico non è immediato). La Corte di Cassazione ha più volte chiarito che il principio d’inerenza “esprime una correlazione tra costi e attività d’impresa concretamente esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo” . Ciò significa, per esempio, che il Fisco non può negare la deducibilità di un costo semplicemente perché lo reputa antieconomico o eccessivo, a meno che la spesa non sia talmente sproporzionata o anomala da far sospettare che in realtà manca del tutto la connessione con l’attività (in tal caso la macroscopica antieconomicità può costituire indizio di non inerenza) . In sintesi, l’inerenza va valutata in base alla natura del costo rispetto all’oggetto dell’impresa, non sulla base della sua utilità economica immediata né in rapporto diretto con specifici ricavi.
  • Certezza e documentazione – Il costo deve essere vero e certo nella sua esistenza e supportato da adeguata documentazione. L’ordinamento richiede che i componenti negativi risultino da elementi certi e precisi, specialmente se non risultano contabilizzati nel conto economico . Più in generale, l’art. 109 TUIR stabilisce che i costi concorrono alla formazione del reddito nell’esercizio di competenza solo se esistenti e determinabili oggettivamente nell’ammontare entro la chiusura di quell’esercizio . Per “certezza dell’esistenza” di un costo si intende la certezza giuridica del relativo obbligo, “giustificata dall’esistenza di un titolo produttivo di effetti giuridici” valido alla data di chiusura del periodo d’imposta . In altre parole, deve sussistere un titolo contrattuale o legale che obbliga al pagamento e che renda certo il diritto del fornitore e il correlativo dovere del committente. È qui che la documentazione contrattuale entra in gioco: un contratto scritto, datato e possibilmente registrato è la prova principe dell’esistenza di quel titolo giuridico. Una fattura da sola può non bastare se manca un contratto sottostante credibile, specialmente in presenza di indizi di irregolarità. Come affermato dalla Cassazione, l’esistenza di scritture contabili regolari e di pagamenti tracciati non vincola affatto l’Amministrazione finanziaria a riconoscere il costo se esistono elementi che ne mettano in dubbio la reale sussistenza o inerenza . Spetta al contribuente, in sede di controllo, dimostrare l’effettività del costo e la sua rispondenza ai requisiti di legge (inerenza, competenza, ecc.), anche oltre la mera regolarità formale delle scritture . In mancanza di documenti probanti (come un contratto firmato, ordini di acquisto, DDT, rapporti di intervento, ecc.), il Fisco può legittimamente dubitare della certezza del costo e riprenderlo a tassazione.
  • Competenza temporale – Il costo deve fare riferimento all’esercizio di competenza, secondo il principio di competenza economica. Questo principio (art. 109 TUIR) richiede di imputare costi e ricavi al periodo in cui le relative operazioni si considerano effettuate, indipendentemente dal momento del pagamento. La competenza assume rilievo anche ai fini della documentazione: un contratto scritto con data certa può aiutare a individuare correttamente l’esercizio di competenza del costo. Ad esempio, se vi è solo un accordo verbale con un fornitore, può essere controverso stabilire in quale anno l’obbligazione sia sorta, mentre un contratto scritto e datato lo prova con certezza. Nel caso di contratti non formalizzati, occorre prestare attenzione all’aspetto temporale: il rischio è che il Fisco contesti la deduzione in un dato anno perché ritiene che la spesa non fosse di competenza di quell’anno (magari perché l’accordo era generico o concluso successivamente). Pertanto, la mancanza di data certa di un contratto può complicare anche la prova della competenza temporale del costo.
  • Congruità ed economicità della spesa – Sebbene, come detto, la legge non subordini la deducibilità ad un giudizio di congruità quantitativa del costo, in pratica l’Amministrazione può contestare spese anormalmente elevate o antieconomiche ritenendole sintomo di mancanza di inerenza o, nei casi peggiori, operazioni simulate volte solo a diminuire il reddito imponibile. La giurisprudenza più recente ha precisato che il giudizio di congruità non può di per sé giustificare l’indeducibilità: un costo elevato è comunque deducibile se inerente, a meno che la sua macroscopica antieconomicità, provata dal Fisco, sia tale da rivelare che non vi è un’effettiva correlazione con l’attività d’impresa . Ad esempio, la Cassazione (Sent. n. 12588/2025) ha affermato che non si può escludere l’inerenza in base a una valutazione di congruità, salvo che l’Ufficio dimostri una antieconomicità evidente tale da far presumere che la spesa sia estranea all’impresa . Questo principio tutela il contribuente da arbitrari giudizi di merito sulle scelte imprenditoriali, ma al contempo consente al Fisco di intervenire quando il livello di spesa appare incompatibile con qualunque logica aziendale (es: costi per consulenze enormi a fronte di ricavi esigui possono far sospettare un’uscita di cassa per fini personali o illeciti).
  • Onere della prova – In un eventuale contenzioso, chi deve provare cosa? È ormai consolidato che, in materia di imposte sui redditi, il contribuente ha l’onere di provare i presupposti che danno diritto alla deduzione di un costo . Ciò implica fornire la documentazione e le spiegazioni idonee a dimostrare l’esistenza, l’inerenza e la competenza del costo contestato. Dal canto suo, l’Amministrazione finanziaria, per negare la deduzione, deve quantomeno indicare gli elementi (anche indiziari) su cui fonda la contestazione – ad esempio la mancanza di un contratto, la natura apparentemente personale della spesa, legami sospetti tra le parti, incongruenze nei documenti, etc. – così da “spostare” sul contribuente l’onere di fornire una prova contraria convincente . In alcuni casi, l’Ufficio può procedere anche sulla base di semplici presunzioni (art. 39, c.1, lett. d, D.P.R. 600/1973), purché gravi, precise e concordanti, per ritenere inesistente o non deducibile un costo dichiarato . Ad esempio, se emergono indizi forti che un’operazione è fittizia (mancanza di contratto, fornitore inesistente o compiacente, assenza di traccia dell’attività svolta, ecc.), il Fisco può disconoscere il costo e starà poi al contribuente fornire la prova contraria (documenti, testimonianze, perizie, etc.). In sintesi, la regolare contabilizzazione di un costo non “protegge” il contribuente se il Fisco porta elementi per dubitare della sua deducibilità; sarà sempre necessario, in caso di verifica, saper dimostrare concretamente la legittimità del costo.

Questi principi generali delineano il contesto in cui si inserisce la problematica specifica dei costi privi di un contratto scritto. Infatti, la mancanza di un documento contrattuale spesso si traduce in un dubbio circa la certezza del costo e la sua inerenza, nonché facilita contestazioni sull’antieconomicità o addirittura sull’inesistenza dell’operazione. Nei prossimi paragrafi analizzeremo perché l’assenza di un contratto scritto può far scattare l’indeducibilità e quali sono le casistiche più tipiche (dalle locazioni non registrate alle consulenze senza accordo, fino ai compensi a amministratori non deliberati, ecc.), con i relativi rimedi difensivi.

Mancanza di contratto scritto e indeducibilità: cause e casi tipici

Perché il Fisco attribuisce tanta importanza all’esistenza di un contratto scritto? In generale, un contratto firmato dalle parti e avente data certa costituisce la prova formale di un accordo e ne fissa i termini (importo, prestazione, durata, condizioni di pagamento, ecc.). La mancanza di un contratto scritto, di per sé, non rende automaticamente indeducibile un costo, poiché non esiste una norma tributaria che imponga la forma scritta per tutti i tipi di spesa aziendale. Tuttavia, l’esperienza mostra che in assenza di un accordo documentato “nero su bianco” l’Ufficio può più agevolmente sostenere che il costo:

  • Non è provato nella sua effettiva esistenza o misura (difetto di certezza): ad es. senza contratto è meno certo che vi fosse un obbligo di pagare quella somma.
  • Non è inerente all’attività (difetto di inerenza): specialmente se l’operazione appare insolita, potrebbe essere giudicata estranea all’impresa e magari destinata a fini personali.
  • Nasconde un accordo illecito o simulato: ad es. un rapporto di lavoro subordinato mascherato da consulenza, oppure una distribuzione occulta di utili sotto forma di falso pagamento a un familiare.
  • Viola norme di legge sulla forma (nullità civilistica): in alcuni casi specifici la legge richiede la forma scritta ad substantiam (pena nullità del contratto), quindi l’assenza di scritto rende nullo l’accordo e i costi relativi non hanno causa giuridica valida.

Esaminiamo ora le casistiche tipiche in cui la mancanza (o irregolarità) di un contratto scritto porta il Fisco a contestare la deducibilità dei costi, e le relative basi normative e giurisprudenziali.

1. Locazioni di immobili non registrate (contratto nullo)

Un caso emblematico è quello dei canoni di affitto di immobili pagati senza aver registrato il contratto di locazione. La legge italiana impone che i contratti di locazione immobiliare siano registrati presso l’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni; la mancata registrazione comporta per legge la nullità del contratto stesso (art. 1, comma 346, L. 311/2004) . In altri termini, un contratto di affitto “in nero” è giuridicamente nullo e non produce effetti tra le parti finché non venga registrato. La Cassazione a Sezioni Unite ha confermato questo principio, sancendo che la mancata registrazione di un contratto di locazione immobiliare ne comporta la nullità assoluta .

Dal punto di vista fiscale, la nullità del contratto implica che manca un titolo giuridico valido a giustificare il pagamento dei canoni. Ne consegue che tali costi non soddisfano il requisito della certezza giuridica richiesto per la deducibilità . La stessa Corte di Cassazione – già con la sent. n. 19593/2014 – ha ritenuto legittimo il recupero a tassazione dei fitti passivi relativi a un contratto non registrato, sottolineando che un contratto privo di data certa (perché non registrato) non giustifica la deducibilità del costo, ponendo in dubbio la certezza e l’antieconomicità di quell’operazione . In quella vicenda, peraltro, il conduttore e il locatore erano parenti, fatto che ha ulteriormente insospettito l’Ufficio circa possibili finalità elusive .

Effetti pratici: se un’impresa ha dedotto canoni di affitto per un immobile senza un regolare contratto registrato, in caso di controllo l’Agenzia delle Entrate disconoscerà tali costi. Contestualmente potrebbe anche procedere a tassare il locatore per i canoni non dichiarati (qualora ne venga a conoscenza), ma ai fini della deduzione per il conduttore rileva il fatto che senza un contratto valido il pagamento avvenuto è considerato privo di causa legittima. Il contribuente si troverà quindi non solo a pagare le imposte su quei costi ripresi a tassazione, ma anche le sanzioni amministrative per omessa o infedele dichiarazione dei redditi (oltre alle sanzioni specifiche per l’omessa registrazione del contratto di locazione, che sono molto salate: dal 120% al 240% dell’imposta di registro dovuta ).

Come difendersi? Purtroppo, dal punto di vista del conduttore è difficile difendere la deduzione di un costo legato a un contratto nullo per legge. Le linee difensive possibili sono limitate:

  • Regolarizzazione tardiva: se l’omissione è scoperta prima dell’avviso di accertamento, conviene procedere immediatamente a registrare tardivamente il contratto (pagando l’imposta di registro e le sanzioni ridotte per ravvedimento). Tuttavia, la registrazione tardiva non retroagisce per sanare la nullità originaria agli effetti fiscali pregressi . Al massimo può dimostrare la volontà delle parti di formalizzare l’accordo e fornire una base contrattuale per il futuro. In giudizio, però, difficilmente questo salverà i costi passati, visto l’orientamento univoco sulla nullità.
  • Dimostrare l’inerenza economica: si può tentare di far leva sul fatto che l’immobile era effettivamente utilizzato nell’attività (es. come ufficio o negozio) e che senza di esso non sarebbe stato possibile produrre reddito. Talora in dottrina si è osservato che, ancorché il contratto sia nullo, de facto l’azienda ha sostenuto un esborso per una sede operativa, e tassare un reddito senza tenere conto di quel costo andrebbe contro il principio di tassazione del reddito netto (capacità contributiva). Questo argomento tuttavia cozza contro la necessità del titolo giuridico: i giudici potrebbero obiettare che l’azienda avrebbe potuto utilizzare l’immobile solo grazie a un accordo non dichiarato e quindi contra legem, e non possono avallare un costo basato su un atto nullo. Alcune Commissioni Tributarie hanno considerato indeducibili non solo i canoni non registrati ma persino le spese accessorie su immobili occupati senza valido titolo .
  • Richiamare l’equità: in estrema ratio, si può far presente che il locatore spesso ha comunque tassato (anche se tardivamente) i canoni una volta emerso il problema, e che negare la deduzione al conduttore produce di fatto una doppia tassazione economica. Non esiste però un diritto a “compensazione” automatica in questi casi: l’indipendenza dei periodi d’imposta e dei soggetti implica che ciascuno subisce le conseguenze delle proprie violazioni.

In definitiva, per le locazioni immobiliari la regola aurea è di stipulare e registrare sempre per tempo i contratti, assicurandosi di rispettare la normativa civilistica e fiscale. Se ciò non è avvenuto, in giudizio le chance di spuntarla sono scarse, vista la chiarezza della legge e l’orientamento delle Sezioni Unite . Un parziale successo difensivo può consistere, al limite, nel contestare altri aspetti formali dell’accertamento (motivi, procedure) o nel ottenere l’esclusione parallela dei ricavi correlati. A tal proposito, la Cassazione ha statuito che un bene estraneo all’attività comporta sì indeducibilità dei relativi costi, ma al contempo i ricavi prodotti da quel bene vanno esclusi dal reddito d’impresa . Nel caso di un immobile non inerente, ad esempio, se l’azienda avesse comunque dichiarato proventi (affitti attivi) da quell’immobile, e poi il Fisco consideri l’immobile estraneo negando i costi, allora non può tassare neppure i ricavi derivanti dallo stesso (principio di simmetria) . Questo però riguarda la stessa impresa e lo stesso bene; non è direttamente applicabile alla relazione locatore-conduttore (dove sono soggetti diversi), ma può essere utile in situazioni interne alla stessa società.

Tabella – Locazione non registrata e impatto fiscale:

SituazioneConseguenze fiscali 💰Riferimenti normativi/giurisprudenziali
Contratto di locazione non registrato (immobile)Contratto nullo ex lege; costi affitto indeducibili; sanzioni per omessa registrazione (120%-240% imposta registro); possibile riqualificazione come spesa personale/non inerente.L. 311/2004, art. 1 c.346 ; Cass. SU 23601/2017 ; Cass. 19593/2014 .
Locazione non inerente (bene ad uso personale del socio, ecc.)Costi indeducibili perché bene estraneo; eventuali ricavi relativi non imponibili (se tassati prima).Cass. 4365/2023 (bene estraneo: togliere anche ricavi correlati).

2. Consulenze e prestazioni di servizi senza accordo scritto

Nel mondo imprenditoriale è frequente affidarsi a consulenti esterni, collaboratori occasionali o fornitori di servizi senza formalizzare dettagliatamente per iscritto il rapporto, specie se vi è fiducia tra le parti. Tuttavia, proprio le spese per consulenze e prestazioni professionali sono tra le più bersagliate dal Fisco, specialmente quando gli importi sono elevati e – appunto – manca un chiaro contratto o progetto che giustifichi la prestazione. L’Amministrazione finanziaria teme spesso che dietro apparenti consulenze si celino operazioni inesistenti (fatture “gonfiate” o di comodo per creare costi fittizi) oppure pagamenti per finalità extracontabili (es. utilità personali, provvigioni occulte, ecc.).

In assenza di un contratto scritto che stabilisca l’oggetto dell’incarico, la durata, il compenso e i risultati attesi, diventa più difficile per il contribuente dimostrare che la consulenza sia stata effettivamente resa e che fosse inerente all’attività. Case study tipico: una società deduce, poniamo, €100.000 per “consulenza strategica” pagata all’azienda Alfa, ma non esiste alcun contratto o relazione dettagliata: c’è solo la fattura emessa da Alfa con descrizione generica. Se l’Agenzia verifica e trova questa situazione, chiederà conto del perché non vi sia traccia contrattuale o report dell’attività svolta. Se inoltre risultasse che Alfa è un soggetto collegato (es. società dello stesso gruppo o di un familiare) o senza reali strutture operative, i sospetti di inesistenza dell’operazione aumenterebbero.

La giurisprudenza ha coniato al riguardo alcune massime importanti. Già nel 2007 la Cassazione affermò che “è inverosimile che per un importo di tale rilievo […] non sia stato stipulato un regolare contratto” , riferendosi a un appalto milionario privo di contratto scritto. Più di recente (ordinanza Cass. n. 7897/2013), la Corte ha ritenuto legittimo l’operato del Fisco che aveva recuperato a tassazione costi di appalto di importo elevato fondati solo su un accordo verbale, senza traccia documentale . In quel caso, la contribuente non era riuscita a provare l’effettiva stipula di alcun contratto e la Corte, richiamando una “massima di esperienza” (cioè un criterio di comune buon senso economico), ha concluso che per costi ingenti ci si attende sempre un contratto scritto, e la sua assenza legittima la presunzione che il contratto non sia mai esistito e dunque che il costo sia indebito . Significativamente, i giudici aggiunsero che la parte privata non aveva fornito alcuna valida ragione per cui, contrariamente a ciò che avviene di solito, in quel caso non si era fatto un contratto scritto . Dunque, in mancanza di spiegazioni, ha prevalso l’“id quod plerumque accidit” (ciò che normalmente accade): normalmente, per grosse commesse, le parti formalizzano tutto; se ciò non è avvenuto, è plausibile che la commessa sia fittizia .

Un altro aspetto sottolineato dalla Cassazione è che, di fronte a contestazioni su operazioni inesistenti, grava sul contribuente dimostrare la “fonte legittima” del costo e la reale esecuzione della prestazione. Non basta esibire contabilità in ordine e prove di pagamento, perché “si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” – occorre provare la sostanza . Se dunque il contratto manca, il contribuente deve supplire con altri supporti documentali: ad esempio rapporti, corrispondenza, documenti di lavoro, risultati concretamente ottenuti (studi consegnati, progetti, presentazioni, ecc.), eventuali e-mail tra le parti che definivano l’accordo, ecc. Inoltre, se il fornitore ha le caratteristiche di una “scatola vuota” (pochi dipendenti, nessuna struttura), andrà provato che aveva comunque la capacità di svolgere l’incarico (magari subappaltandolo a terzi, se del caso).

Strategie difensive specifiche: di fronte a una contestazione di costi per consulenze senza contratto, le difese possibili includono:

  • Documentare a posteriori la prestazione: ad esempio, predisporre (se genuino) un dossier con tutti i deliverables prodotti dal consulente (report, analisi, disegni, software, ecc.), corredato magari da una dichiarazione del consulente stesso che conferma di aver svolto l’attività secondo accordi verbali. Sebbene un’attestazione del fornitore non abbia lo stesso peso di un contratto originario, può costituire un elemento di prova (una sorta di confessione stragiudiziale del terzo) su cui fare leva, specie se il fornitore è terzo indipendente. Attenzione: se il fornitore è parte correlata, la sua dichiarazione sarà valutata con sospetto.
  • Provare l’utilità e inerenza: spiegare dettagliatamente a cosa serviva la consulenza e come i risultati sono stati impiegati nell’impresa. Se possibile, mostrare un collegamento con i ricavi (es. “grazie a quel progetto di consulenza, l’azienda ha avviato una nuova linea di business che ha prodotto fatturato” oppure “il consulente ha formato il personale, migliorando l’efficienza interna”). Più si dimostra che la spesa aveva una logica imprenditoriale, più si contrasta l’idea che fosse simulata.
  • Evidenziare la normalità dell’operazione: se nello stesso settore è prassi svolgere certe consulenze con accordi informali, o se l’azienda in passato ha fatto simili operazioni senza problemi, sottolinearlo. Ad esempio: “l’azienda da anni si avvale dell’esperto Tizio per consulenze verbali, pagate a ora, e non ha mai avuto contestazioni”. Ciò però va preso con cautela: la prassi non scrimina la mancanza documentale, ma può mitigare l’impressione di anomalia.
  • Distinguere tra assenza di forma e inesistenza: ricordare al giudice che un contratto verbale è perfettamente valido per il codice civile (salvo eccezioni) e che l’assenza di un documento scritto non significa assenza dell’accordo. Se si riesce a provare per altre vie che le parti avevano un accordo (verbale o per fatti concludenti), il costo può essere ritenuto comunque certo. Su questo fronte, può essere utile l’art. 2721 c.c., che limita la prova testimoniale per contratti di valore sopra una certa soglia, ma ammette eccezioni in caso di impossibilità di procurarsi una prova scritta. In sede tributaria la testimonianza è vietata formalmente, però si potrebbero utilizzare prove presuntive a favore: ad esempio, la continuità di pagamenti periodici può far presumere un accordo stabile; oppure l’esistenza di e-mail dettagliate può valere come “principio di prova scritta” dell’accordo verbale.
  • Verificare la posizione fiscale del fornitore: se il consulente ha regolarmente dichiarato quel compenso nei suoi redditi ed ha versato le relative imposte, lo si può far presente. Non costituisce una prova certa dell’esistenza della prestazione, ma crea un elemento di coerenza: se fosse stata una finta fattura al 100%, il fornitore compiacente di solito non verserebbe le imposte. In alcuni casi (specie nelle frodi IVA) i giudici considerano il fatto che l’operazione sia a imponibile “zero somma” (dedotta da uno e tassata in capo all’altro) come un punto a favore della sua realtà. Attenzione: ciò non vincola giuridicamente (un costo fittizio resta indeducibile anche se fatturato e tassato dall’altro, perché comunque non inerente), però da un punto di vista equitativo suona ingiusto tassare uno e non riconoscere all’altro, e questa sensazione può talvolta influire, sebbene formalmente non dovrebbe.

Prestazioni occasionali: analogamente alle consulenze, anche i compensi corrisposti a collaboratori occasionali (ai sensi dell’art. 2222 c.c., lavoro autonomo occasionale) vanno documentati. In genere in questi casi si utilizza una “ricevuta per prestazione occasionale” firmata dal prestatore, che contiene i dati delle parti, la descrizione dell’opera e l’importo lordo con ritenuta d’acconto. Se l’azienda si limita a pagare in contanti o senza formalizzare neanche una ricevuta, sarà quasi impossibile difendere la spesa: manca qualunque evidenza della controprestazione. Quindi, in fase di difesa, almeno far sottoscrivere ex post al collaboratore una dichiarazione di aver svolto l’attività XYZ per l’azienda nel tal periodo, con compenso ricevuto. Anche qui, resta l’irregolarità formale (la ricevuta andava fatta all’epoca e applicata la ritenuta fiscale), però può aiutare a dimostrare la sostanza: il lavoro c’è stato.

Focus antielusivo: attenzione che pagamenti a consulenti o collaboratori senza contratto, specie se ricorrenti, potrebbero anche nascondere un rapporto di lavoro subordinato non dichiarato. Il Fisco collabora con l’INPS e, se fiuta un lavoro dipendente mascherato (es. finti occasionali che lavorano full-time per anni), potrebbe segnalarlo con riflessi contributivi. In quel caso, oltre alla indeducibilità del costo (perché non un vero autonomo), vi sarebbe l’obbligo di versare contributi omessi. Tuttavia, questo tema esula dal campo fiscale stretto ed entra nel diritto del lavoro.

Ricapitolando, la difesa di costi per servizi senza contratto richiede di colmare la lacuna documentale con qualsiasi altra prova disponibile della realtà economica dell’operazione. Viceversa, per prevenire tali problemi, è buona prassi formalizzare per iscritto anche gli accordi di consulenza, magari in forma di lettera d’incarico firmata dal consulente, in modo da poterla esibire in caso di controlli. Come osserva un esperto, “il contratto non costituisce requisito essenziale ai fini della deducibilità fiscale. Tuttavia la sua assenza, in caso di importi rilevanti, permette ai verificatori di trarre tutta una serie di presunzioni” . Questa frase riassume bene la situazione: la legge non impone il contratto scritto, ma la sua mancanza mette il contribuente in posizione debole, aprendo la porta alle presunzioni del Fisco.

Tabella – Consulenze senza contratto vs consulenze documentate:

Scenario consulenzaRischio fiscale se manca contrattoDifesa/Rimedi possibili
Consulenza di importo elevato senza contratto scritto, solo fattura generica.Contestazione probabile: costo ritenuto indeducibile come non provato/inesistente. Fisco presume che per importi alti l’assenza di contratto indichi operazione fittizia .– Esibire documenti alternativi (report, esiti del lavoro). <br>– Dichiarazione del consulente sull’attività svolta. <br>– Provare inerenza e utilità concreta del servizio. <br>– Evidenziare eventuale tassazione correlata (fornitore che ha dichiarato il ricavo).
Prestazione occasionale pagata senza ricevuta/accordo scritto.Contestazione: costo indeducibile per difetto di certezza e violazioni ritenute d’acconto. Può emergere sospetto di lavoro subordinato in nero.– Far rilasciare al prestatore una ricevuta o dichiarazione, anche tardiva, con dettagli. <br>– Regolarizzare tardivamente versando ritenute omesse (per attenuare sanzioni). <br>– Mostrare che era davvero occasionale (durata breve, incarico specifico).
Servizio infragruppo addebitato da società collegata, con contratto generico e manca dettaglio attività.Contestazione frequente: costo indeducibile per difetto di inerenza/ economicità (specie se metodo forfettario). Contratto da solo non basta .– Provare l’utilità effettiva ricevuta (benefit test) con documenti e KPI. <br>– Documentare criteri di ripartizione costi infragruppo. <br>– Adeguare contratti infragruppo agli standard OCSE (specificando servizi e vantaggi per la controllata).

3. Spese di pubblicità e rappresentanza senza adeguata documentazione

Le spese di pubblicità e di rappresentanza meritano un cenno separato, perché presentano peculiarità sia nei requisiti di deducibilità sia nelle modalità di controllo. La normativa tributaria (art. 108 TUIR) distingue le spese di pubblicità – interamente deducibili nell’esercizio o in quote costanti – dalle spese di rappresentanza, deducibili invece solo entro certi limiti (percentuali sui ricavi) e a condizione che siano “congrue e inerenti” secondo criteri specifici (DM 19/11/2008).

Cosa accade se il Fisco contesta che una spesa classificata dall’azienda come pubblicitaria in realtà non è tale (magari è rappresentanza, o peggio è un costo personale)? E come incide l’eventuale mancanza di contratti o documenti? Esempi:

  • Una società ha dedotto €50.000 per “campagna pubblicitaria” versati a un’altra società che avrebbe curato l’immagine aziendale, ma non c’è contratto, non ci sono report di campagna, né materiali pubblicitari rintracciabili (brochure, spot, ecc.). È facile preda di accertamento: l’ufficio potrà sostenere che non vi è prova dell’effettiva effettuazione della promozione, o che magari i fondi sono stati distratti altrove.
  • Un’azienda sostiene spese per eventi con clienti, regalistica, viaggi: ufficialmente pubblicità, in realtà sono spese di rappresentanza (quindi deducibili solo in parte). Se non c’è un contratto con un’agenzia eventi o documenti che spieghino la natura promozionale, il Fisco potrebbe riclassificare tutto come rappresentanza (limitandone la deducibilità) o come spesa non inerente se il legame con l’attività non è evidente.

In questi casi, pur non parlando strettamente di “contratto scritto mancante” (poiché non sempre si formalizza un contratto per ogni attività pubblicitaria), è cruciale avere documentazione a supporto. Se manca il contratto con il fornitore di servizi pubblicitari, almeno devono esserci le fatture dettagliate, i materiali prodotti (es. manifesti, registrazioni audio/video, screenshot di inserzioni online, ecc.), insomma tracce tangibili della campagna. Altrimenti, il rischio è che l’Ufficio qualifichi quella spesa come “mera uscita di denaro non giustificata”, forse a titolo di liberalità o beneficio a terzi, e la consideri indeducibile per carenza di inerenza.

La Cassazione ha fornito indicazioni anche in questo ambito: ad esempio, con riferimento alle spese di sponsorizzazione e pubblicità, ha ribadito il concetto che l’inerenza non va confusa con la redditività immediata e che anche investimenti pubblicitari senza ritorno diretto sono deducibili, ma il contribuente deve comunque provare l’inerenza e congruità della spesa . Ciò significa documentare il nesso tra la sponsorizzazione/pubblicità e l’immagine o il prodotto dell’azienda, e giustificare l’importo speso in rapporto ai potenziali benefici (qui la congruità tende a entrare: pagare 100.000 € per sponsorizzare un evento di scarso rilievo potrebbe apparire antieconomico, e quindi il Fisco potrebbe sindacare la spesa come abnorme).

Cosa fare se contestano una spesa di pubblicità per mancanza di contratto/prove?

  • Raccogliere tutte le evidenze possibili: foto di cartelloni pubblicitari, copie di opuscoli, link a siti web dove è comparsa la pubblicità, rassegna stampa dell’evento sponsorizzato, elenco partecipanti ecc. Anche testimonianze di clienti che hanno conosciuto l’azienda tramite quella pubblicità (se ottenibili per iscritto) possono aiutare a dimostrare che la spesa aveva un senso.
  • Mostrare la strategia aziendale: spiegare che quella spesa rientrava in un piano di marketing, ad esempio esibendo slide interne approvate, budget marketing deliberati dal CdA, ecc. Questo dà l’idea di un’operazione non improvvisata né fittizia.
  • Se la qualificazione è controversa (pubblicità vs rappresentanza): in caso l’Ufficio voglia ricondurre la spesa a rappresentanza (deducibile nei limiti) mentre l’azienda la ritiene pubblicità (deducibile al 100%), occorre puntare sui caratteri distintivi. La pubblicità mira a ottenere nuovi clienti in modo indistinto e ha carattere propagandistico, la rappresentanza mira a consolidare relazioni con soggetti specifici (clienti attuali o potenziali) offrendo benefici a loro (cene, viaggi, omaggi) ed è spesso gratuita per chi riceve. Se la spesa contestata aveva elementi di propagazione al pubblico (es. un banner su un sito, uno stand a una fiera aperta a tutti), insistere su quello per classificarla come pubblicità. Viceversa, se emergono elementi di rappresentanza (es. regali natalizi a pochi clienti, evento riservato), forse conviene ammettere parzialmente tale natura e chiedere almeno la deduzione nei limiti consentiti dalla legge per le rappresentanza, anziché perderla del tutto.
  • Verificare limiti e parametri: se pure fosse rappresentanza, era entro il plafond deducibile? (che dipende dal fatturato). A volte il Fisco disconosce per intero perché l’azienda ha sforato il limite annuo: se così, controllare i calcoli e semmai ridurre il danno sostenendo che fino al limite doveva essere ammesso.

In generale, per queste spese l’assenza di un contratto è meno “assoluta” come problematica, in quanto spesso si tratta di molteplici costi (fatture varie) più che un singolo accordo. Tuttavia, il concetto è lo stesso: assenza di prove -> indeducibilità. Un caso esemplare è quello affrontato dalla Cassazione n. 13764/2025 (richiamato in una memoria di parte ): lì si trattava di fatture per carburante prive dei requisiti (mancava indicazione targa e consumi erano incongrui), quindi l’Amministrazione aveva contestato non solo l’IVA ma anche la deducibilità della spesa perché la documentazione era inidonea a provare l’effettivo utilizzo aziendale del carburante. Questo per dire che anche dettagli formali (come la targa sul documento) possono fare la differenza tra costo ammesso o negato.

Consiglio pratico: formalizzare ove possibile anche contratti con agenzie pubblicitarie o di marketing, specificando l’attività (es. “Realizzazione campagna social per 3 mesi su piattaforme X e Y, con produzione di N banner grafici e gestione account”), e pretendere report a consuntivo. In caso di verifica, poter consegnare un contratto di incarico pubblicitario e un report dei risultati toglie ogni dubbio sulla natura della spesa. Senza, si entra nel terreno scivoloso delle valutazioni discrezionali del verificatore.

4. Compensi ad amministratori non deliberati (assenza di atto sociale)

Un caso peculiare – per certi versi analogo alla mancanza di contratto – è quello dei compensi agli amministratori di società di capitali (S.p.A., S.r.l.) corrisposti senza una formale delibera assembleare o una clausola statutaria che li preveda. Qui non si tratta di un contratto tra due parti distinte, bensì di un rapporto organico interno alla società: gli amministratori non sono fornitori esterni, ma organi della società stessa. La legge (art. 2389 c.c. per le S.p.A., art. 2479 e 2479-bis c.c. per le S.r.l.) prevede che l’eventuale compenso per gli amministratori debba essere determinato dall’assemblea dei soci, salvo sia già fissato nello statuto. In assenza di delibera o previsione statutaria, vige il principio per cui l’ufficio di amministratore si presume gratuito (o meglio: non sorge diritto ad alcun compenso) . Questo è un punto di diritto societario imperativo: la Cassazione (SS.UU. n. 21933/2008) ha chiarito che qualsiasi pagamento di compenso a un amministratore privo di valida base deliberativa è contra legem e, come tale, nullo ed illegittimo . In altre parole, se una società paga il suo amministratore senza che i soci abbiano approvato tale compenso, quel pagamento non è dovuto e la società potrebbe perfino pretenderne la restituzione.

Da un punto di vista fiscale, la conseguenza è ovvia: il compenso indebitamente corrisposto non può essere dedotto dal reddito d’impresa, poiché manca un atto giuridico valido che lo giustifichi. La Cassazione ha reiterato questo concetto in molte pronunce (ad es. Cass. n. 27018/2014; Cass. n. 32732/2021; Cass. n. 8005/2024) affermando che “i compensi corrisposti agli amministratori non sono deducibili se non previamente deliberati dall’assemblea o conformi allo statuto” . Il fatto che il bilancio indichi una voce “compensi amministratori” non è sufficiente, perché l’approvazione del bilancio non equivale a sanare la mancata delibera specifica sul compenso . A meno che nell’assemblea (totalitaria) di approvazione bilancio tutti i soci abbiano anche deliberato espressamente l’importo per l’amministratore, l’indicazione contabile resta una mera annotazione .

Esempio concreto: Alfa S.r.l. paga nel 2024 €30.000 al suo amministratore unico come compenso annuale, ma non esiste una delibera assembleare che lo abbia stabilito. In sede di verifica fiscale, l’Ufficio contesta la deduzione di quei €30.000, sostenendo che il pagamento è avvenuto in assenza di causa legittima. Alfa S.r.l. obietta che comunque l’importo era indicato nel bilancio 2024 approvato dai soci. L’AdE ribatte (correttamente) che ciò non basta. In giudizio, Alfa S.r.l. difficilmente vincerà: la giurisprudenza è costante nel ritenere indeducibili tali compensi non deliberati, perché la loro corresponsione viola norme imperative societarie e quindi il relativo costo non è inerente né certo (non essendovi diritto a pretenderlo da parte dell’amministratore, il pagamento assume la natura di liberalità o distribuzione di utili mascherata). La società, a sua difesa, potrebbe solo invocare l’orientamento minoritario del 2018 (Cass. 24139/2018) che assimilava l’amministrazione al mandato oneroso e dunque presupponeva un compenso dovuto anche se non deliberato . Tuttavia, questa tesi è superata dalle pronunce più recenti, nonché dalle Sezioni Unite 2008, per cui oggi è molto rischioso contare su quell’interpretazione ormai isolata.

Impatti collaterali: non solo il costo è indeducibile, ma l’Amministrazione finanziaria potrebbe contestare anche: – la detrazione IVA su eventuali fatture di compenso emesse dall’amministratore (spesso però gli amministratori non emettono fattura, se sono compensi deliberati vanno a ritenuta d’acconto IRPEF; se erano indeducibili, potrebbero qualificarli come utili e allora non c’è IVA, quindi l’IVA non è l’aspetto principale qui); – la ritenuta d’acconto eventualmente operata e versata su quel compenso: se il compenso era nullo, l’IRPEF trattenuta è stata versata senza presupposto? In genere comunque il Fisco non restituisce l’IRPEF al sostituto, semmai potrebbe integrarla come ulteriore sanzione in capo all’amministratore per percezione di utili non dichiarati correttamente. – la rideterminazione del reddito distribuito: somme agli amministratori non deliberate potrebbero essere qualificate come utili distribuìti ai soci (se l’amministratore è socio) o come spese non di competenza.

Come difendersi o rimediare: la miglior difesa è la prevenzione. Deliberare sempre i compensi prima di corrisponderli. Se ci si accorge dell’errore a posteriori (compenso pagato ma non deliberato), una possibile via è ratificare tardivamente tramite un’assemblea totalitaria che approvi espressamente quel compenso come elemento del bilancio, o meglio ancora con delibera ad hoc. Tuttavia, la ratifica retroattiva non è pacificamente accettata: trattandosi di norma imperativa, molti giudici la considerano insanabile per il passato . Altri potrebbero accogliere la tesi che un’assemblea totalitaria (tutti soci consapevoli) possa convalidare ex post il pagamento, attribuendogli natura di compenso deliberato tardivamente. Non c’è però garanzia.

In contenzioso, se il pagamento è stato effettuato e non c’è delibera, l’unica speranza è magari far leva sulla buona fede dell’errore (ad es. società a ristretta base con soci coincidenti con l’amministratore che non formalizzarono ma erano d’accordo oralmente) per ottenere una riduzione delle sanzioni. Ma sulla sostanza della deduzione c’è poco da fare: le sentenze sono tutte sfavorevoli al contribuente su questo punto .

Da notare che nelle società di persone (snc, sas) il discorso è diverso: lì per legge non c’è un’assemblea che delibera compensi, e spesso l’atto costitutivo già prevede ripartizione utili e compensi eventuali. Inoltre gli amministratori sono soci stessi che hanno diritto agli utili. Quindi, questa problematica è propria delle società di capitali.

Conclusione su questo punto: un compenso amministratore privo di formale base deliberativa è equiparabile a un contratto mancante: non c’è l’“atto” che istituisce il diritto a quel pagamento, dunque il costo non è deducibile. Dal lato dell’amministratore, curiosamente, quell’importo incassato potrebbe essere anch’esso non legittimo e dover esser restituito (ma di solito se è anche socio raramente qualcuno glielo chiederà indietro). Fisco e Cassazione comunque trattano il tema in modo rigido: nullum actum, nullum debitum (fiscale).

Tabella – Compensi amministratori senza delibera:

SituazioneConseguenza fiscaleRiferimenti
Compenso a amministratore non deliberato né previsto dallo statuto.Indeducibile per la società (atto nullo per violazione norma imperativa) . L’importo può esser riqualificato come utili ai soci.Art. 2389 c.c.; Art. 2423 c.c. (bilancio); Cass. SU 21933/2008 ; Cass. 24471/2022 ; Cass. 8005/2024 .
Indicato solo in bilancio, senza delibera assembleare specifica.Non vale come approvazione del compenso (salvo verbale totalitario ad hoc). Restano indeducibili.Cass. 8005/2024 ; Cass. 32732/2021 .
Delibera successiva “ratificatoria”.Efficacia dubbia per il passato (dipende da giudice). <br>Per il futuro regolarizza la situazione.

5. Accordi simulati o illeciti: contratti “fittizi” e costi indeducibili

Finora abbiamo trattato casi in cui manca un contratto scritto, ma esiste un’operazione sottostante lecita (solo poco documentata). Vi sono poi situazioni in cui un contratto scritto esiste, ma è simulato o utilizzato per celare un accordo illecito. In tali ipotesi, il contratto può essere considerato “tamquam non esset” (come se non ci fosse) ai fini fiscali: la sua esistenza formale non salva i costi relativi, che vengono comunque disconosciuti perché l’operazione è ritenuta inesistente o nulla nella sostanza. Ne diamo cenno perché spesso i casi di mancanza di contratto e quelli di contratto fittizio sono due facce della stessa medaglia nelle contestazioni tributarie.

Un esempio classico è quello dei contratti di appalto di servizi usati per mascherare una somministrazione illecita di manodopera. In tali casi, formalmente c’è un contratto scritto tra due società (es. contratto di appalto per pulizie industriali), ma se in realtà la società appaltatrice fornisce solo personale che viene diretto dall’appaltante come fossero dipendenti, quel contratto è considerato nullo (per contrarietà a norme imperative sul lavoro) e l’operazione inesistente giuridicamente. La Cassazione, con la recente sentenza n. 34408 del 12/09/2024, ha affrontato proprio una fattispecie di appalto non genuino: ha ribadito l’indetraibilità dell’IVA e l’indeducibilità dei costi afferenti a tale schema, poiché il contratto sottostante, essendo simulato, va considerato nullo e l’operazione “giuridicamente inesistente” . In pratica, se un contratto è usato per uno scopo fraudolento, il Fisco ne disconosce gli effetti fiscali: è come se quel contratto non esistesse (sebbene esista su carta). Dunque, anche con un contratto formalmente scritto, i costi relativi vengono recuperati a tassazione se si prova la simulazione/illeicità.

In questa categoria rientrano anche: contratti di compravendita gonfiati tra parti correlate (per spostare utili), contratti di finanziamento infragruppo con interessi esagerati (possono essere in parte disconosciuti per abuso del diritto), contratti di leasing usati per spese personali, ecc. Non sono casi di “mancanza” di contratto, ma di abuso del contratto. La difesa in questi frangenti è molto complicata perché spesso c’è un’indagine sostanziale (talora supportata da evidenze penali, come intercettazioni, deposizioni, ecc.) che smaschera l’accordo fittizio.

Per completezza, va menzionato che la legge italiana (art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993) prevede espressamente l’indeducibilità di costi sostenuti in violazione di norme penali o a fronte di fatti qualificabili come reato (salvo il pagamento di sanzioni risarcitorie). Ad esempio, i costi di corruzione, le “provvigioni” illecite, le mazzette, non sono deducibili nemmeno se documentate (ovviamente, se emergono). Anche queste sono situazioni in cui, pur magari esistendo documenti (false fatture usate a copertura), la mancanza di un contratto lecito rende il costo indeducibile. La prova di tali illeciti spetta però al Fisco, spesso con l’ausilio del penale.

In sintesi, il filo conduttore è il seguente: un costo collegato a un contratto inesistente, nullo o simulato non può essere dedotto. Sia che il contratto proprio manchi, sia che ci sia ma venga considerato come non stipulato (perché inverosimile senza traccia scritta, o perché fittizio), l’effetto è lo stesso: il Fisco nega il beneficio fiscale. Dal punto di vista del contribuente onesto che abbia solo peccato di forma (non mettendo per iscritto un accordo reale), la sfida è dunque far emergere la realtà effettiva contro l’apparenza formale carente. Nel prossimo capitolo vedremo come impostare una difesa efficace in sede di accertamento e di contenzioso per chi si trova a subire questo tipo di contestazioni.

Come difendersi: strategie in fase di accertamento e nel processo tributario

Dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta), trovarsi di fronte a un avviso di accertamento che recupera a tassazione costi per mancanza di contratto scritto è una situazione critica ma non senza rimedi. È fondamentale agire tempestivamente e in modo strategico, sia durante la fase di verifica/accertamento, sia – se necessario – nel successivo processo tributario. In questa sezione affronteremo separatamente:

  • Difesa in sede amministrativa (fase pre-contenziosa): cosa fare quando il Fisco muove per la prima volta la contestazione (es. nel PVC – processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, o nell’invito al contraddittorio, o comunque prima che l’accertamento diventi definitivo).
  • Difesa in sede giudiziale (contenzioso tributario): come impostare il ricorso presso la Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria) di primo e secondo grado, e quali argomenti e prove portare davanti ai giudici.

L’obiettivo è convincere l’Amministrazione – o in ultima istanza il giudice – della deducibilità (totale o almeno parziale) del costo contestato, malgrado l’assenza del contratto scritto. Vediamo come.

Difesa in fase di accertamento e contraddittorio

Quando l’ispettore fiscale o la Guardia di Finanza contesta una o più poste di costo per carenza di contratto/documentazione, è essenziale interagire in modo proattivo. Alcuni passi utili in questa fase:

  • Fornire spiegazioni dettagliate subito: Nel verbale di constatazione o nell’invito al contraddittorio, l’organo accertatore elencherà i rilievi (ad esempio: “Costo XY di €… indeducibile in quanto manca un contratto scritto a supporto”). È opportuno rispondere per iscritto durante il contraddittorio, descrivendo l’operazione contestata (chi erano le parti, perché fu fatta verbalmente, come è stata contabilizzata) e allegando qualsiasi prova documentale disponibile anche se non richiesta espressamente. Ad esempio, presentare copie di e-mail che mostrano trattative o accordi verbali, copie di assegni o bonifici con causale che indichi la natura del pagamento, foto o documenti che attestino la realizzazione dell’attività (un caso reale vedeva contestate spese per “allestimento stand fieristico” senza contratto: l’azienda fornì le foto dello stand e cataloghi della fiera, dimostrando che lo stand c’era stato). È preferibile sovrabbondare di prove sin da questa fase, perché se si riesce a convincere l’Ufficio prima dell’emissione dell’atto, si evita il contenzioso.
  • Redigere dichiarazioni sostitutive o perizie: Se mancano contratti, può essere utile far redigere delle dichiarazioni giurate (ai sensi del DPR 445/2000) dalle persone coinvolte. Ad esempio, far firmare al fornitore una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in cui conferma di aver svolto la prestazione per la nostra azienda, indicandone i dettagli. Oppure incaricare un consulente tecnico indipendente di redigere una breve perizia che attesti che il costo sostenuto è congruo e in linea col mercato per quel tipo di servizio (questo è utile se la contestazione verte anche sull’antieconomicità). Tali documenti, allegati al contraddittorio, resteranno agli atti e verranno valutati – se non dall’Ufficio – eventualmente dal giudice in seguito.
  • Negoziare una soluzione transattiva: In alcuni casi, soprattutto se si ravvisa che la posizione del contribuente è debole, può valer la pena cercare un accordo con l’Agenzia. Strumenti possibili: l’adesione all’accertamento (definizione agevolata in via amministrativa) con abbattimento delle sanzioni. Durante l’invito al contraddittorio, si può prospettare: “Riconosciamo che manca il contratto, ma la spesa è reale. Siamo disposti a chiudere pagando le imposte su, ad esempio, il 50% del costo (ottenendo quindi il riconoscimento parziale) e le sanzioni minime”. Se il funzionario percepisce buona fede e collaborazione, potrebbe essere disponibile a una mediazione. Questo ovviamente implica accettare l’indeducibilità parziale e rinunciare a fare causa su quella parte; è un calcolo costo/beneficio. Nel 2023-2024 ci sono state norme di definizione agevolata liti pendenti e conciliazione agevolata: valutare se applicabili per evitare lunghi processi con esito incerto. NB: la scelta di transigere va ponderata con il consulente fiscale, considerando la solidità delle prove: se queste ultime sono forti, meglio lottare per il pieno riconoscimento; se sono scarse, meglio limitare i danni.
  • Registrare tardivamente o formalizzare ex post: Se il problema è un contratto non registrato (es. affitto), si può in contraddittorio presentare la ricevuta di registrazione tardiva (anche se, come detto, non sana il passato, mostra però la volontà di mettersi in regola e potrebbe indurre l’Ufficio a essere più mite con sanzioni). Se invece il contratto manca totalmente, si può – con cautela – redigerne uno “di conferma” con data attuale che riepiloga i termini dell’accordo verbale avuto in passato. Attenzione: apporre date retroattive sarebbe falso ideologico, quindi da evitare assolutamente; ma un contratto datato oggi che dichiara “la società A conferma che nel 2022 ha incaricato verbalmente la ditta B di eseguire XYZ al corrispettivo di €…, interamente pagato” può costituire un elemento scritto sottoscritto da entrambe le parti. Certo, fatto dopo è meno incisivo, ma sempre meglio di nulla – mostra che entrambe le parti riconoscono quell’obbligazione. L’Agenzia potrebbe ignorarlo, però in giudizio tornerà utile.
  • Eccepire in modo puntuale ed eventualmente tecnico-legale: Oltre al merito, non trascurare possibili vizi formali dell’accertamento. Per esempio: è motivato adeguatamente? Ha rispettato il termine dilatorio di 60 giorni se c’era un PVC (Statuto del contribuente, art. 12 c.7 L. 212/2000)? Contiene errori nei conteggi? Questi aspetti possono essere contestati già in contraddittorio e poi ripresi in ricorso. Nel caso di costi indeducibili, spesso la partita si gioca sul merito (inerente/non inerente), ma non di rado vi sono anche vizi procedurali da far valere (ad es., talvolta l’ufficio omette di considerare deduzioni presentate dal contribuente: ciò può essere vizio di motivazione). Anticipare tali eccezioni può mettere pressione all’Ufficio, segnalando che si è pronti a dare battaglia su più fronti.

Riassumendo, nella fase pre-contenziosa conviene mettere sul piatto tutte le carte a favore, mantenendo un approccio collaborativo ma fermo sulle proprie ragioni. Ogni documento o argomentazione fornita ora potrebbe far desistere l’Ufficio da qualche rilievo o comunque costituire materiale per il futuro ricorso.

Suggerimento: redigere una memoria difensiva scritta da consegnare all’Agenzia durante il contraddittorio, in cui elencare i fatti, le norme e la giurisprudenza a supporto (anche citando le sentenze favorevoli). Questo documento rimarrà agli atti e potrà essere ripreso pari pari nel ricorso eventualmente. Inoltre l’Ufficio, dovendo rispondere (se emette l’atto) ai punti sollevati, sarà costretto a motivare più approfonditamente, il che può far emergere eventuali falle.

Difesa nel processo tributario

Se l’accertamento viene emesso e non si è raggiunto un accordo, il contribuente può presentare ricorso presso la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (CGT, ex Commissione Tributaria Provinciale). La preparazione del ricorso e del successivo dibattimento è cruciale. Ecco gli aspetti principali da curare per massimizzare le chance di successo in giudizio:

1. Prova documentale e istruttoria in giudizio: A differenza del processo civile ordinario, il processo tributario tradizionalmente non ammette la testimonianza orale e si basa principalmente su documenti. Pertanto, tutto ciò che può servire come prova deve essere prodotto in forma documentale. Se nella fase pre-contenziosa si è raccolto materiale (contratti tardivi, perizie, dichiarazioni, e-mail, ecc.), andrà tutto allegato al ricorso o, al più tardi, alle memorie integrative (da depositare almeno 20 giorni prima dell’udienza, secondo il rito). È fondamentale non tenere nulla di utile nel cassetto: se una prova non viene prodotta nei tempi dovuti, poi sarà troppo tardi (in appello non si possono generalmente produrre nuovi documenti, salvo eccezioni, e in Cassazione men che meno). Dunque, predisporre un fascicolo probatorio robusto: ad es., copia del contratto tardivo di cui sopra, copia di tutte le fatture e pagamenti, corrispondenza, foto, visure camerali del fornitore (per mostrare che esisteva ed era operante), eventuali atti notori o dichiarazioni giurate di terzi.

*E la testimonianza orale?* Come accennato, nel processo tributario **non è ammessa la prova testimoniale orale** (art. 7 D.Lgs. 546/92). Non si può citare in udienza il fornitore a testimoniare. Tuttavia, alcune CGT accettano le **dichiarazioni scritte rese da terzi** come meri documenti di parte dal valore indiziario. Ad esempio, una lettera firmata dal consulente esterno che conferma l’incarico è considerata alla stregua di un documento. Non avrà la forza di una prova testimoniale con controesame, ma è meglio di niente: il giudice potrebbe tenerla presente come riscontro. Inoltre, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il divieto di testimonianza **non esclude** che il giudice possa fondare il convincimento su elementi indiziari liberamente valutabili, anche se provenienti da terzi in forma scritta (purché non si basi *solo* su quelli in modo decisivo, per non eludere la norma). In pratica, potete produrre tali dichiarazioni: la loro efficacia dipenderà dalla sensibilità del collegio giudicante.

2. Argomentazione giuridica solida: Nel ricorso occorre sviluppare un’argomentazione che inquadri bene il caso nei principi normativi e giurisprudenziali favorevoli. Ad esempio, se il Fisco contesta l’assenza di contratto per un costo inerente, si può impostare così:

  • Richiamare la libertà di forma contrattuale (art. 1325 c.c. e segg.) e sostenere che l’accordo verbale è valido e ha prodotto obbligazioni tra le parti. Citare eventualmente dottrina o pronunce (anche di merito) che riconoscono validità a contratti verbali quando la legge non richiede forma scritta.
  • Affermare che la mancanza del documento non implica mancanza dell’operazione: portare esempi, magari citare Cass. 7897/2013 a contrario dicendo che in quella vicenda specifica la mancanza di contratto unita ad altri fattori ha portato a presumere inesistenza, ma non che ogni costo senza contratto sia fittizio.
  • Enfatizzare gli elementi di fatto che dimostrano la realtà del costo: qui fare riferimento alle prove allegate, spiegando cosa dimostrano. Es.: “la corrispondenza e il rapporto finale allegati provano che il consulente ha effettivamente svolto l’analisi di mercato commissionata; il pagamento è avvenuto con bonifico e il beneficiario ha dichiarato il relativo ricavo, quindi l’operazione ha avuto reale esecuzione e disclosure fiscale bilaterale.”
  • Richiamare i principi di diritto recenti che aiutano: ad esempio la Cassazione 12588/2025 sull’antieconomicità che non può essere presunta (se la contestazione era che la spesa pare alta), oppure Cass. 6426/2025 sul concetto di inerenza come correlazione qualitativa (se contestano l’inerenza). Se c’è un precedente specifico, citarlo: la Cassazione spesso in tema tributario è attenta ai propri precedenti. Anche Cass. 4365/2023 può servire se applicabile (principio del non tassare i proventi se si escludono i costi correlati) : utile ad es. se l’Ufficio ha tassato un ricavo ma negato un costo collegato.
  • Se il contratto era nullo per legge (tipo affitto non registrato o compenso amministratore), la difesa sul merito è debole. In tali casi può essere utile orientare il tiro su aspetti penalty protection: ad esempio sostenere che la questione era controversa (in verità non molto, ma tentare di dipingerla come area grigia) e quindi chiedere almeno di non applicare sanzioni per obiettiva incertezza normativa (art. 6 D.Lgs. 472/1997). Oppure, se c’è stato comportamento incoerente del Fisco (magari in anni precedenti ha accettato la deduzione in situazioni analoghe in dichiarazione), sollevare affidamento legittimo.

3. Richiesta di CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio): Sebbene rara nei processi tributari, nulla vieta di chiedere al giudice di disporre una perizia tecnica se utile. Ad esempio, in un caso di contestazione su pagamento senza contratto per lavori edili, si potrebbe chiedere una CTU contabile o estimativa per dimostrare che i lavori sono stati eseguiti e il costo era congruo. La CGT raramente dispone CTU, anche per ragioni di costi, ma la richiesta può segnalare la volontà di far luce oggettiva. Se la controparte non la accetta, il giudice può percepire chi è che teme l’accertamento tecnico.

4. Strategia “difensiva” vs “offensiva”: Ci si difende confutando i rilievi, ma si può anche “attaccare” la legittimità dell’operato dell’Ufficio. Ad esempio, sostenere che il Fisco ha violato il principio di collaborazione e buona fede se non ha considerato le spiegazioni date (Statuto contrib. art. 10), oppure che ha usato presunzioni semplici non sufficientemente gravi, precise e concordanti. Se l’unico elemento addotto era “manca il contratto”, forse è una presunzione debole se tutto il resto (fatture, pagamenti) è regolare. Si può argomentare che l’Ufficio si è basato su un mero sospetto o sul generico id quod plerumque accidit, ma senza altri riscontri, violando l’art. 39 del DPR 600/73 che richiede presunzioni qualificare per rettificare. Questa linea può impressionare i giudici se effettivamente l’accertamento appare un po’ frettoloso. Di contro, se invece l’Ufficio ha raccolto vari indizi (es. società fittizia, contratti analoghi falsi ecc.), attaccare l’insufficienza delle prove sarà meno credibile.

5. Richiamo di equità e principi costituzionali: Senza esagerare (i giudici tributari non amano arringhe costituzionali), in conclusione di difesa si può ricordare che tassare un reddito al lordo di costi effettivamente sostenuti porta a colpire capacità contributiva non reale, e che l’ordinamento tributario mira a tassare utili netti. Se riuscite a far percepire al giudice che davvero quell’esborso è avvenuto nell’interesse dell’azienda ma solo per formalismo lo si vuol negare, potreste inclinare la bilancia sul filo del ragionevole dubbio a vostro favore. Ad esempio, nel caso di benefit ai soci (bene aziendale usato personalmente) alcuni giudici hanno adottato soluzioni di compromesso, riconoscendo parzialmente l’inerenza (tipo “50% deducibile, 50% no”) quando hanno percepito un uso misto . Questa non è una soluzione prevista da norme (o è tutto inerente o niente), ma a livello di merito ogni tanto accade. Fornire al giudice basi per una decisione equitativa (es. perizia che quantifichi in X% la parte effettivamente inerente) può quindi non essere vano.

6. Conoscere i propri giudici: Se possibile (tramite il proprio difensore, che magari conosce gli orientamenti locali), capire se la CGT locale è più o meno propensa a riconoscere ragioni ai contribuenti su questioni di merito. Ci sono corti più fisco-oriented e altre più taxpayer-friendly. Ad esempio, su compensi non deliberati, quasi tutte le Commissioni hanno seguito Cassazione, ma su temi di inerenza qualitativa c’è più spazio discrezionale. Adeguare lo stile: con giudici molto tecnici conviene insistere sui richiami normativi, con giudici più di “buon senso” puntare su esempi concreti e logica pratica.

7. Considerare la conciliazione anche in giudizio: Anche dopo aver presentato ricorso, fino alla discussione in primo grado c’è la possibilità di una conciliazione giudiziale (art. 48 D.Lgs. 546/92) con l’Agenzia, con sanzioni ridotte. Se durante il processo ci si rende conto che le prove non stanno convincendo, si può sempre tentare un accordo transattivo con l’ufficio legale dell’Agenzia (che spesso in giudizio è più disponibile a compromessi rispetto alla fase pre-contenziosa, per smaltire carichi di lavoro). Ad esempio, ottenere il riconoscimento di metà costo come deducibile e pagare sull’altra metà con sanzione ridotta al 50%. Questo chiude la lite. Certo, l’ideale è vincere del tutto, ma bisogna saper valutare realisticamente le probabilità.

8. Prepararsi all’appello (secondo grado) ed eventualmente alla Cassazione: Se si vince in primo grado, benissimo (anche se l’Agenzia potrebbe appellare); se si perde, bisogna decidere se fare appello. L’appello in CGT secondo grado (ex Commissione Regionale) è un nuovo giudizio di merito, quindi volendo si possono riformulare argomenti, ma non si possono aggiungere nuove prove se non già prodotte (a parte documenti su circostanze avvenute dopo, irrilevante qui). Dunque la partita probatoria va chiusa entro il primo grado. In appello si potrà eventualmente far leva su errori dei primi giudici (es. motivazione carente, mancato esame di un documento). In Cassazione, come ultimo livello, ci si può rivolgere solo per motivi di diritto (violazione di legge o difetti di motivazione macroscopici); quindi, se la questione è prettamente fattuale (esistenza o meno di un contratto e di una prestazione), raramente la Cassazione potrà ribaltarla, a meno di vizi logici evidenti. Va tenuto presente che arrivare fino in Cassazione è lungo (anni) e costoso; spesso conviene risolvere prima se possibile.

Per contestualizzare queste strategie, presentiamo ora alcune FAQ – Domande e Risposte mirate alle questioni che più frequentemente si pongono i contribuenti su questo tema.

Domande frequenti (FAQ)

D: Un contratto verbale ha valore ai fini fiscali?
R: Sì, un contratto verbale è valido civilmente (salvo eccezioni di legge) e quindi può obbligare le parti allo stesso modo di uno scritto. Tuttavia, ai fini fiscali, dimostrare l’esistenza e il contenuto di un contratto verbale è molto difficile in mancanza di documenti. Il Fisco e i giudici richiedono elementi oggettivi (corrispondenza, fatture, comportamenti concludenti) per riconoscere il costo. Quindi, sebbene non vi sia un obbligo generale di legge di forma scritta, di fatto l’assenza di forma indebolisce enormemente la posizione del contribuente perché rende arduo soddisfare il requisito della “certezza” del costo . In sintesi: valido sì, ma provarlo è oneroso; meglio formalizzare per iscritto ogni accordo rilevante.

D: Se non ho un contratto scritto, come posso provare la natura e l’inerenza di un costo?
R: Dovrai fare ricorso a prove alternative. Alcune possibili: fatture dettagliate (che specifichino quantità e natura della prestazione), ricevute o DDT (documenti di trasporto o consegna per merci o lavori), corrispondenza commerciale (e-mail, lettere, preventivi accettati via PEC), documentazione del risultato (es. rapporto finale, progetto consegnato, foto del lavoro eseguito), movimenti finanziari tracciati (bonifici con causale chiara), dichiarazioni scritte dei contraenti o di terzi che hanno assistito o partecipato all’operazione. Più elementi metti insieme, più riuscirai a ricostruire il puzzle del contratto. Ad esempio, per una consulenza senza contratto: allega le e-mail con cui è stato chiesto il parere, il parere stesso redatto su carta intestata del consulente, la copia del bonifico fatto e magari una dichiarazione firmata dal consulente che conferma tutto. Tali elementi, nel loro complesso, possono convincere il giudice della certezza, inerenza e congruità del costo anche senza un contratto formalizzato.

D: L’Agenzia delle Entrate può considerare inesistente un’operazione solo perché manca il contratto?
R: Non automaticamente, ma può farlo se l’assenza del contratto, unita ad altre circostanze, rende poco credibile l’operazione. La Cassazione ha sostenuto che, per importi molto elevati, la mancanza di un contratto scritto è un indizio grave che l’operazione non sia mai avvenuta realmente . Tuttavia deve trattarsi di situazioni dove normalmente un contratto ci sarebbe stato (appalti, forniture importanti). Per operazioni minori, l’assenza di contratto potrebbe non essere di per sé prova di inesistenza, ma resterà comunque un elemento a sfavore del contribuente. In pratica, l’Ufficio forma il convincimento con una serie di elementi: se l’unico elemento negativo è la mancanza di contratto, a volte si astiene dal contestare (specie se importo modesto e tutto il resto regolare); ma se ci sono anche collegamenti sospetti tra le parti, mancanza di tracce della prestazione, incongruenze nei documenti, allora la mancanza del contratto diventa il tassello centrale per dichiarare l’operazione inesistente e la fattura relativa inesigibile in deduzione . In sintesi: non è “legge” che no contratto = costo finto, ma purtroppo spesso viene interpretato così quando il quadro non è limpido.

D: Ho scoperto che il contratto di affitto del capannone della mia ditta non era stato registrato. Posso registrarlo ora e salvarmi la deduzione dei canoni?
R: Puoi (e devi) sicuramente registrarlo appena possibile per il futuro, pagando l’imposta di registro dovuta e le sanzioni ridotte per tardiva registrazione. Questo eviterà ulteriori problemi a venire. Però, per i canoni passati, la registrazione tardiva non elimina la nullità originaria per quei periodi . In un eventuale accertamento su annualità pregresse, l’Agenzia considererà comunque nulli i contratti non registrati nei termini e dunque indeducibili i relativi costi. La registrazione tardiva avrà effetto dal momento in cui la fai, non retroattivo. Potresti provare a sostenere in giudizio che la registrazione, se avvenuta prima dell’accertamento, sanando civilmente il contratto da quel momento, conferma l’esistenza dell’accordo, ma legalmente la nullità affligge il periodo in cui il contratto non era registrato. Purtroppo la SU 2017 è chiara nel dire che senza registrazione il contratto è nullo ab origine . Quindi aspettati che i canoni non vengano ammessi in deduzione per gli anni passati. L’unica cosa che puoi fare è, in caso di verifica, evidenziare che intanto hai registrato e che l’immobile era usato nell’attività, chiedendo perlomeno equità sul trattamento (ma come detto è difficile). In sintesi: registralo subito, ma sappi che per il passato non c’è certezza di salvare i costi.

D: L’Agenzia mi ha disconosciuto dei costi e contestualmente ha mantenuto tassati i ricavi corrispondenti (mi spiego: hanno detto che il bene è personale quindi costi indeducibili, però i ricavi che avevo da quel bene li hanno lasciati imponibili). È corretto?
R: No, in linea di principio non è corretto. La Cassazione ha affermato il principio di simmetria secondo cui se un bene o un’attività è ritenuta estranea all’impresa, allora non si possono dedurre i relativi costi ma neppure tassare gli eventuali proventi derivanti da essa . Tassare i ricavi e negare i costi significherebbe tassare un “utile” che in realtà non c’è (perché se l’attività è personale, neanche i costi andavano imputati in azienda, ma allora neanche i ricavi lo sarebbero). Nel tuo caso, se riesci a far valere questo principio, devi chiedere in via subordinata che – qualora i costi restino indeducibili – vengano espunti dal reddito anche i ricavi connessi. Mi pare di capire che forse l’Ufficio considera dedotti costi personali (ad es. spese di un immobile usato dal socio) ma al contempo sta tassando i canoni attivi di quell’immobile. Ecco, secondo Cass. 4365/2023 ciò non può accadere: o l’immobile è aziendale (allora ricavi tassabili e costi deducibili) oppure è del tutto extra-aziendale (allora ricavi fuori dal reddito d’impresa e costi fuori) . Quindi in ricorso evidenzia la contraddizione e cita quel precedente. Spesso, di fronte a tale obiezione, la controparte (Agenzia) in giudizio potrebbe accettare di rinunciare almeno ai ricavi pur di tenere fuori i costi, per non incorrere in una probabile sconfitta su questo punto.

D: Posso portare dei testimoni in Commissione Tributaria per far confermare che c’era un accordo verbale?
R: No, la testimonianza personale non è ammessa nel processo tributario (art. 7 D.Lgs. 546/92). Non puoi citare persone a deporre oralmente come in un processo civile. L’unica forma possibile è far fare loro una dichiarazione scritta, come già detto, che tu poi produci come documento. Sappi però che il giudice tributario potrebbe attribuirle un valore limitato, essendo “di parte” e non verificata in controesame. Ma è comunque meglio di niente. Ricorda inoltre che se quelle persone erano coinvolte nell’illecito, difficilmente la loro testimonianza (anche scritta) verrà presa per buona senza riscontri. Esempio: far scrivere al socio che “sì, l’immobile lo usavo io ma pagavo un affitto all’azienda” potrebbe non convincere se non si vedono effettivi bonifici di affitto. Quindi sì a dichiarazioni scritte, ma corroborate da altre prove oggettive.

D: In appello o in Cassazione posso portare nuovi documenti se mi ero dimenticato qualcosa?
R: In appello (CGT secondo grado) no, a meno che tu riesca a farli rientrare nelle eccezioni dell’art. 58 D.Lgs. 546/92 (documenti che il contribuente non ha potuto produrre prima per cause a lui non imputabili, oppure documenti formatisi dopo il processo di primo grado). La regola generale è che le prove si cristallizzano al primo grado. In Cassazione men che meno, lì conta solo quanto risulta già agli atti di merito. Dunque, devi giocarti tutto entro la prima fase. Se ti sei scordato un documento fondamentale e il giudice d’appello non ritiene ammissibile la nuova produzione, rischi di perderlo per sempre. Quindi preparati bene sin dall’inizio, fai un checklist di tutte le possibili evidenze e inseriscile.

D: Ho pagato compensi all’amministratore senza delibera: c’è modo di farli passare in deduzione magari qualificandoli diversamente?
R: Situazione spinosa. In passato c’era chi provava a riclassificare questi importi come, ad esempio, compensi da collaborazione autonoma (sostenendo che l’amministratore aveva anche un contratto di consulenza distinto). Ma è uno schema rischioso e poco credibile se l’amministratore era la stessa persona. L’Agenzia e la Cassazione li considerano comunque compensi di amministrazione e se non deliberati li disconoscono . Un’altra idea potrebbe essere: se l’amministratore è anche socio, sostenere che quei soldi in realtà erano utile distribuito (dividendo) e non costo: ma se così fosse, allora avresti sbagliato tutto in contabilità e dovresti ricorreggere bilanci, dichiarazioni e pagare semmai le imposte da utile (IRES risparmiata?) più imposta sui dividendi eventualmente. Insomma, una sanatoria ex post è complicata. L’unica strada lineare è: fai deliberare dall’assemblea retroattivamente quei compensi (se tutti i soci erano d’accordo è fattibile con assemblea totalitaria). Poi in giudizio sostieni che la delibera tardiva ha confermato la volontà sociale, quindi il costo era dovuto. Non è garantito funzioni, ma hai un argomento. In mancanza di ciò, preparati a vedere quelle somme disconosciute. Se non sono enormi, magari conviene trovare un accordo con l’AdE (pagare la tassa su quelle somme e chiudere). Da ultimo, verifica almeno che l’amministratore li abbia dichiarati come reddito personale: se non l’ha fatto, oltre al danno la beffa (sanzione anche a lui). In conclusione: prevenire con delibere puntuali; a posteriori c’è poco margine, se non appellarsi alla comprensione (che su questo tema però è scarsa, data la chiarezza delle norme societarie).

D: L’Ufficio mi contesta costi infragruppo con società estera, pur avendo il contratto, dicendo che non ho provato l’utilità. Ma allora a cosa serve aver fatto il contratto se poi comunque li disconoscono?
R: Domanda pertinente: infatti il contratto, di per sé, non garantisce deducibilità. Serve a soddisfare un requisito formale e a descrivere la prestazione, ma il Fisco guarda anche alla sostanza. Nel caso dei costi infragruppo (management fees, ripartizioni di costi centralizzati), la Cassazione (sent. 6101/2024 e altre collegate) ha detto chiaramente che serve provare l’utilità effettiva per la controllata e la concreta inerenza del servizio ricevuto, e “non è sufficiente l’esibizione del contratto… e della fattura” . Quindi il contratto è condizione necessaria ma non sufficiente: devi anche documentare come mai quel servizio era utile, cosa hai ricevuto, e possibilmente perché il prezzo è congruo. Nel transfer pricing interno al gruppo, i contratti spesso sono standard e i costi allocati pro-quota: l’Ufficio pretende un benefit test. Per cui la difesa consisterà nel raccogliere report delle attività svolte dalla capogruppo, evidenze che la tua società ne ha beneficiato (es: utilizzazione di software centralizzati, di marchi, di politiche del gruppo, ecc.). In sintesi: il contratto serve a non farsi bocciare subito per mancanza di titolo, ma poi devi comunque vincere sul piano dell’inerenza sostanziale. È il concetto che ripetiamo: forma vs sostanza – occorre avere entrambi dalla propria.

D: Conviene fare causa per un importo relativamente piccolo?
R: Dipende. Valuta i costi (tributari e professionali) e i benefici. Ricorrere in CGT ha un costo fisso accessibile (contributo unificato modesto per cause sotto 50k euro) e potresti non aver bisogno di un avvocato se te la senti (nel tributario è ammessa l’autodifesa fino a 3 mila euro di valore). Tuttavia, se la materia è complicata e serve articolare bene le prove, meglio farsi assistere da un tributarista: il suo compenso va considerato. Se la posta in gioco è, poniamo, 5.000 € di imposte, e le chance di vittoria le consideri 50 e 50, magari conviene tentare per principio. Se è 1.000 €, forse no, a meno di questione di principio o timore di creare un precedente (es. l’anno dopo avresti la stessa spesa e rischi nuovo accertamento). Tieni presente che esiste anche la mediazione tributaria obbligatoria per importi fino a 50.000 €: presentando ricorso, la prima fase è di mediazione con l’Agenzia che, se accoglie in parte le tue ragioni, evita il giudizio. Spesso l’Agenzia in mediazione offre sconti (tipo taglio sanzioni) se paghi. Valuta anche quell’opportunità. In sostanza, la convenienza economica va ponderata caso per caso. Certo, se il Fisco ha torto marcio e hai buone prove, anche per poco può valer la pena far valere il principio.

D: In caso di sconfitta, rischio anche sanzioni penali?
R: Di per sé, un costo indebitamente dedotto è materia amministrativa (dichiarazione infedele). Le sanzioni penali tributarie scattano se l’imposta evasa supera certe soglie (€100k per dichiarazione infedele). Se la ripresa di quei costi fa superare la soglia, allora potrebbe configurarsi il reato ex D.Lgs. 74/2000. Tuttavia, spesso i costi indeducibili contestati rientrano in un contesto di “evasione minore”. Fai attenzione però: se il Fisco ritiene che il costo indeducibile derivi da fatture per operazioni inesistenti (false fatture), allora entra in gioco l’art. 2 D.Lgs. 74/2000, reato più grave (pena alta, soglia diversa di €false). Quindi, se la contestazione è: “questa fattura è falsa, contratto mai esistito, costo fittizio”, l’Agenzia quasi certamente ha trasmesso segnalazione alla Procura. Ti potresti trovare coinvolto penalmente per utilizzo di fatture false, che è serio. Viceversa, se è un discorso di inerenza (es. “bene personale, costo non inerente”), non c’è profilo penale, è solo amministrativo. Distingui i due scenari: evasione “qualitativa” (interpretazione di deducibilità) vs evasione fraudolenta (frode documentale). Nel primo caso, male che vada paghi imposte, sanzioni e interessi; nel secondo, potrebbe aggiungersi un procedimento penale. In quest’ultimo scenario, devi coordinare la difesa tributaria con quella penale, assicurandoti di non contraddirti e valutando se sia opportuno non far emergere troppo in giudizio tributario cose che possano nuocere nel penale (anche se i due procedimenti sono indipendenti, le sentenze penali poi influiscono). Comunque, per un contribuente onesto di solito non si arriva al penale: accade quando dietro non c’era davvero nulla (frode conclamata).

D: Quali sono le fonti normative e giurisprudenziali più importanti da citare in questi casi?
R: Nella difesa, oltre ai fatti, è bene citare le fonti autorevoli. Sul piano normativo: l’art. 109 TUIR per competenza e certezza ; l’art. 1 co.346 L. 311/2004 per la nullità locazioni non registrate ; l’art. 2389 c.c. per compensi amm.vi; l’art. 53 Cost. (capacità contributiva) volendo, come principio generale. Sul fronte giurisprudenza: sicuramente Cass. SU 21933/2008 (compensi non deliberati, costo indeducibile), Cass. 7897/2013 (appalto senza contratto, presunzione di inesistenza) , Cass. 19593/2014 (affitto non registrato, indeducibile) , Cass. SU 23601/2017 (nullità locazioni non registrate) , Cass. 24471/2022 (compensi amm.vi Srl necessaria delibera) , Cass. 4365/2023 (bene estraneo -> togliere costi e ricavi) , Cass. 12588/2025 (no sindacato di congruità salvo macroscopica antieconomicità) , Cass. 34408/2024 (contratto nullo per frode, costi indeducibili) , Cass. 6101/2024 (infragruppo, contratto non basta) . Nella sezione Fonti in fondo a questa guida troverai riferimenti puntuali a tali pronunce e norme. Inserirle nel tuo ricorso può dare peso alle argomentazioni, mostrando al giudice qual è l’orientamento di legittimità sul tema.

Conclusioni

In conclusione, affrontare un accertamento fiscale su costi indeducibili per mancanza di un contratto scritto richiede un mix di rigore documentale, preparazione giuridica e visione strategica. Dal punto di vista del contribuente, la lezione fondamentale è di prevenire tali contestazioni: curare sempre la formalizzazione dei rapporti significativi (contratti firmati, registrazioni dove richieste, delibere sociali) e conservare la documentazione di supporto. Spesso le piccole e medie imprese sottovalutano l’importanza della forma, soprattutto quando c’è fiducia tra le parti, ma l’esperienza insegna che quella carta in più firmata a suo tempo può risparmiare anni di contenzioso e costi in futuro.

Quando la prevenzione è mancata e ci si trova sotto attacco del Fisco, è essenziale comprendere le ragioni dell’Agenzia (spesso la mancanza di contratto fa sorgere il dubbio di evasione o uso personale) e quindi colmare quel vuoto probatorio con ogni mezzo lecito. La difesa deve puntare a dimostrare che, nonostante il vizio formale, la sostanza dell’operazione è reale e deducibile. Se ciò risulta impossibile (perché magari davvero il contratto celava qualcosa di improprio), allora conviene negoziare e limitare i danni piuttosto che ingaggiare una battaglia persa.

Dal taglio pratico che abbiamo dato alla trattazione, emergono alcuni consigli operativi finali:

  • Formalizza sempre per iscritto i rapporti d’affari rilevanti: consulenze, locazioni, prestiti, ecc. Una scrittura privata ben fatta e, quando richiesto, registrata, è il primo scudo contro l’accertamento.
  • In mancanza di forma, tieni traccia: se proprio c’è un accordo verbale, assicurati almeno di avere corrispondenza email o altri documenti che ne facciano riferimento, e paga sempre con mezzi tracciabili indicando la causale.
  • Non usare mai l’azienda per spese personali senza formalizzazioni: se hai bisogno di un bene aziendale a uso privato (auto, casa), fai un contratto di comodato o locazione col socio utilizzatore, fissando un corrispettivo di mercato . La documentazione interna può salvare deduzioni e dimostrare la buona fede (es. un regolamento per l’uso promiscuo di un bene, una delibera di assegnazione di auto aziendale al dipendente come fringe benefit , ecc.).
  • Onora le formalità societarie: per compensi amministratori, decisioni di soci, ecc., segui pedissequamente ciò che la legge richiede. Bastano un verbale assemblare o una clausola nello statuto per legittimare ciò che altrimenti verrebbe annullato.
  • In caso di verifica, collaborazione e trasparenza: nascondere o tergiversare peggiora la posizione. Meglio presentare tutto e spiegare, piuttosto che far scoprire al Fisco elementi celati (che minano la credibilità).
  • Fatti assistere da professionisti esperti: situazioni complesse come queste toccano diritto tributario, civile e societario. Un commercialista o avvocato tributarista potrà individuare le linee di difesa migliori e magari conoscere come ragiona l’ufficio locale o la commissione, elementi preziosi per decidere la strategia.

Ricordiamo infine che ogni caso ha le sue particolarità: le sentenze citate offrono principi generali, ma la decisione finale dipenderà dai fatti concreti e da come verranno provati. Il contribuente, da “debitore” quale è nell’accertamento, può però farsi forte di quei principi quando sono dalla sua parte (ad esempio il diritto al netto imponibile, la libertà di iniziativa economica che include scelte anche antieconomiche ma non per questo sindacabili, ecc.). Un giudice terzo potrebbe essere sensibile a non punire oltre misura un’azienda solo formalmente in difetto, se sostanzialmente corretta.

Affrontare serenamente ma con determinazione il procedimento, mostrando di aver agito in buona fede e di voler chiarire ogni aspetto, talvolta porta anche l’Amministrazione a più miti consigli (soprattutto in fase di accordo). E se ciò non avviene, confidate in un giudice preparato ed equilibrato: portategli tutti gli elementi e le norme utili, e avrete fatto il possibile per vedere riconosciuti i vostri diritti.

In conclusione, “come difendersi” da queste contestazioni significa soprattutto dimostrare la verità del costo e la correttezza fiscale della propria condotta, al di là della mancanza di un pezzo di carta. Non sempre è facile, ma con un lavoro accurato di ricostruzione e argomentazione, molte aziende sono riuscite a spuntarla o quantomeno ad attenuare pesanti pretese fiscali. Speriamo che questa guida vi aiuti a fare altrettanto.

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati costi indeducibili per assenza di contratto scritto a supporto delle spese sostenute? Fatti Aiutare da Studio Monardo

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Vuoi sapere cosa rischi e come impostare una difesa efficace?

👉 Prima regola: dimostra la realtà delle prestazioni e l’inerenza dei costi, anche in assenza di un contratto formale, producendo documentazione alternativa.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Spese per consulenze o collaborazioni prive di contratto scritto;
  • Rapporti con fornitori o professionisti basati solo su fatture generiche;
  • Compensi corrisposti senza lettere d’incarico o documenti che definiscano l’attività svolta;
  • Costi ricorrenti senza documentazione contrattuale di supporto;
  • Collaborazioni occasionali ritenute fittizie o non provate.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Indeducibilità dei costi contestati;
  • Recupero delle imposte sui redditi imponibili aumentati;
  • Sanzioni fiscali per dichiarazione infedele;
  • Interessi di mora sulle somme accertate;
  • Rischio di contestazioni penali se i costi sono ritenuti simulati.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Le prestazioni sono state realmente svolte e documentate?
  • Esistono prove indirette (e-mail, report, corrispondenza) che dimostrino l’attività?
  • I pagamenti sono stati effettuati con mezzi tracciabili?
  • Le fatture emesse riportano una descrizione adeguata delle prestazioni?
  • L’accertamento si basa solo sull’assenza di contratto scritto o su altre prove di fittizietà?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Fatture dettagliate con indicazione chiara dei servizi resi;
  • Estratti conto bancari che provano i pagamenti;
  • E-mail, lettere, relazioni o documenti prodotti dai collaboratori;
  • Verbali societari o delibere che hanno approvato l’incarico;
  • Eventuali preventivi, ordini di lavoro o corrispondenza commerciale.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la realtà delle prestazioni e la connessione con l’attività;
  • Contestare la presunzione di indeducibilità basata solo sull’assenza di contratto;
  • Evidenziare la tracciabilità dei pagamenti e la buona fede del contribuente;
  • Eccepire vizi di motivazione o carenze probatorie dell’accertamento;
  • Richiedere l’annullamento in autotutela in presenza di documentazione integrativa;
  • Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro i termini previsti.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza le spese contestate e la documentazione a supporto;
📌 Valuta la fondatezza delle contestazioni e i margini difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce strategie preventive per la corretta gestione documentale dei rapporti professionali.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e diritto d’impresa;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni di costi indeducibili e consulenze senza contratto;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Gli accertamenti fiscali per costi indeducibili dovuti a mancanza di contratto scritto non sempre sono fondati: spesso l’inerenza può essere provata con altra documentazione.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la legittimità delle spese, ridurre drasticamente sanzioni e interessi ed evitare la loro totale indeducibilità.

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  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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