Contestazione Per Trasferimento Utili In Paradisi Fiscali: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per presunto trasferimento di utili in paradisi fiscali? In questi casi, l’Ufficio presume che gli utili generati in Italia siano stati spostati all’estero, in giurisdizioni a fiscalità privilegiata, con lo scopo di ridurre il carico tributario. Si tratta di uno dei fenomeni più monitorati dal Fisco, anche grazie allo scambio automatico di informazioni internazionali. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero delle imposte, sanzioni pesantissime e, nei casi più gravi, contestazioni penali per esterovestizione o riciclaggio. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa ben costruita è possibile ridurre sensibilmente le pretese fiscali o dimostrare la legittimità delle operazioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta il trasferimento di utili in paradisi fiscali
– Se i dividendi sono stati trasferiti a società controllate o collegate residenti in Paesi black list
– Se i pagamenti verso l’estero non trovano adeguata giustificazione economica
– Se i contratti di intercompany pricing non rispettano il principio di libera concorrenza (transfer pricing)
– Se i movimenti bancari non coincidono con i redditi dichiarati in Italia
– Se l’Ufficio presume che la sede estera sia fittizia e che la direzione effettiva resti in Italia

Conseguenze della contestazione
– Tassazione integrale in Italia degli utili ritenuti trasferiti illecitamente
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Possibile disconoscimento dei benefici fiscali e delle deduzioni collegate
– Nei casi più gravi, denuncia penale per dichiarazione fraudolenta, esterovestizione o riciclaggio internazionale

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale operatività delle società estere coinvolte
– Produrre contratti, bilanci, delibere assembleari e documentazione bancaria a supporto
– Contestare l’automatismo delle presunzioni basate solo sulla residenza fiscale dei percettori
– Evidenziare la corretta applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni
– Richiedere la riqualificazione delle contestazioni per ridurre le sanzioni
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i flussi finanziari internazionali e i rapporti societari coinvolti
– Verificare la legittimità della contestazione e l’applicazione corretta delle norme su transfer pricing e paradisi fiscali
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e giurisprudenza nazionale ed europea favorevole
– Difendere l’impresa o i soci davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da richieste fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della correttezza delle operazioni internazionali
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: il trasferimento di utili in paradisi fiscali è uno degli ambiti più sorvegliati dal Fisco italiano ed europeo. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata per evitare pesanti conseguenze fiscali, penali e reputazionali.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e internazionale – spiega come difendersi in caso di contestazione per trasferimento di utili in paradisi fiscali e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.

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Introduzione

Le contestazioni fiscali relative al trasferimento di utili verso paradisi fiscali rappresentano una delle sfide più complesse per contribuenti e professionisti. Negli ultimi anni, il Fisco italiano ha intensificato i controlli sulle operazioni transfrontaliere volte a spostare redditi e profitti verso giurisdizioni a fiscalità privilegiata (i cosiddetti paradisi fiscali). Queste pratiche possono assumere diverse forme – dalla fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di società (c.d. esterovestizione), all’utilizzo di società controllate estere in paesi a bassa tassazione (Controlled Foreign Companies – CFC), fino a sistemi di transfer pricing non allineati al valore di mercato o a schemi di interposizione fittizia di entità offshore per celare il reale beneficiario dei redditi.

Dal punto di vista del debitore d’imposta (sia esso un’impresa o una persona fisica), è fondamentale conoscere il quadro normativo e giurisprudenziale aggiornato al 2025, per comprendere quali comportamenti sono ritenuti illeciti o elusivi dall’Amministrazione finanziaria e soprattutto quali strumenti di difesa si possono adottare in sede amministrativa e contenziosa. Questa guida – pensata per un pubblico avanzato di avvocati, consulenti fiscali, imprenditori e contribuenti con operatività internazionale – analizza in modo approfondito la disciplina italiana in materia, con un linguaggio giuridico ma divulgativo. Verranno esaminati i profili civilistici e penal-tributari, incluse le novità normative recenti, le sentenze più aggiornate delle Corti (Corti di Giustizia Tributaria e Corte di Cassazione) e i rimedi offerti sia dal diritto interno che dalle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione.

La guida fornisce inoltre tabelle riepilogative, una sezione di domande e risposte sui quesiti più frequenti e alcuni casi pratici simulati riguardanti contestazioni tipiche (dalla società esterovestita alla controllata estera, fino al transfer pricing), con l’obiettivo di chiarire come il contribuente possa efficacemente difendersi. Si adotterà la prospettiva del contribuente contestato (il debitore verso il Fisco), evidenziando le strategie difensive e i diritti a sua tutela nel procedimento tributario. Iniziamo dunque delineando i concetti chiave e la normativa rilevante in materia di utili trasferiti in paradisi fiscali.

Concetti generali e quadro normativo

In questa sezione introduttiva verranno definiti i termini e i concetti fondamentali relativi al trasferimento di utili in paradisi fiscali e alla loro contestazione, nonché il quadro normativo italiano di riferimento. Si analizzeranno i paradisi fiscali e i regimi fiscali privilegiati, le modalità con cui gli utili possono essere spostati all’estero e gli strumenti normativi predisposti per contrastare tali fenomeni: dall’esterovestizione delle residenze societarie, alla disciplina delle CFC, ai prezzi di trasferimento e alle norme sull’interposizione fittizia. Saranno inoltre illustrati i principi generali in tema di elusione ed evasione fiscale internazionale e il rapporto con le regole contro l’abuso del diritto. Infine, verranno richiamati i meccanismi per evitare la doppia imposizione internazionale e l’ambito di applicazione delle convenzioni fiscali, dato che spesso le contestazioni su utili esteri richiedono di coordinare la normativa domestica con il diritto internazionale tributario.

Paradisi fiscali e fiscalità privilegiata

Con l’espressione paradiso fiscale (tax haven in inglese) si indica una giurisdizione – Stato o territorio – che offre un trattamento fiscale fortemente agevolato (quando non addirittura nullo) a soggetti non residenti. Tipicamente, tali paesi presentano aliquote d’imposta molto basse o nulle su determinati redditi, un’ampia opacità nei flussi finanziari (segreto bancario, scarsa trasparenza societaria) e normative snelle che attraggono società e capitali esteri. Nel contesto italiano, si parla spesso di regimi fiscali privilegiati per riferirsi a paesi che garantiscono livelli impositivi molto inferiori a quelli italiani e/o che non aderiscono pienamente agli standard di scambio di informazioni finanziarie.

La normativa italiana ha nel tempo individuato elenchi di Stati e territori considerati “non cooperativi” o a fiscalità privilegiata (le cosiddette black list). In ambito unionale, esiste dal 2017 una Black List UE dei paradisi fiscali non cooperativi, aggiornata periodicamente dal Consiglio ECOFIN. Al 2025, tale lista include ad esempio giurisdizioni come Panamá, Isole Samoa (americane), Isole Vergini USA, Vanuatu, nonché paesi rilevanti come la Russia, segnalata per pratiche fiscali non allineate agli standard di trasparenza. La lista UE viene rivista due volte l’anno e funge da riferimento anche per gli Stati membri.

Parallelamente, l’Italia ha storicamente avuto proprie liste e normative speciali rivolte ai rapporti con paesi “black list”. Ad esempio, fino al 2016 vigeva una disciplina restrittiva sulla deducibilità dei costi derivanti da transazioni con imprese localizzate in paradisi fiscali (costi black list): tali spese erano deducibili solo se si provava il loro concreto interesse economico. Dopo alcune abolizioni, la Legge di Bilancio 2023 ha reintrodotto una disciplina simile (art. 110 commi da 9-bis a 9-quinquies TUIR) che limita la deducibilità dei costi sostenuti verso soggetti di Stati non cooperativi al loro valore normale di mercato . In pratica, se una società italiana acquista beni o servizi da una società situata in un paradiso fiscale, potrà dedurre il costo solo entro il valore di mercato (arm’s length price), prevenendo così sovrafatturazioni volte a spostare utili all’estero.

È importante sottolineare che “paradiso fiscale” non è di per sé un termine giuridico rigido, ma un concetto che si sostanzia in normative specifiche anti-elusive. In Italia si parla appunto di regime fiscale privilegiato quando la tassazione effettiva estera è inferiore a una certa soglia rispetto a quella italiana (ad es. meno della metà, secondo regole precedenti, o sotto il 15% secondo le regole nuove sulle CFC). I paradisi fiscali vengono così individuati in funzione di parametri di bassa tassazione, mancanza di scambio di informazioni e assenza di sostanza economica delle attività.

In sintesi, operare con (o attraverso) un paradiso fiscale non è vietato in sé; tuttavia, il nostro ordinamento prevede presunzioni e misure stringenti per evitare che ciò avvenga al solo scopo di sottrarre materia imponibile al Fisco italiano. Vediamo dunque quali sono le principali modalità con cui utili e redditi possono essere trasferiti in paradisi fiscali e quali normative contrastano tali pratiche.

Modalità di trasferimento degli utili all’estero

Quando si parla di “trasferimento di utili in paradisi fiscali” si fa riferimento a varie operazioni attraverso cui imprese o individui cercano di localizzare redditi al di fuori dell’Italia, beneficiando di imposizioni più vantaggiose. Le principali modalità (illecite o contestabili) includono:

  • Esterovestizione della residenza fiscale: consiste nel collocare fittiziamente all’estero la residenza di una società (o persona fisica), pur mantenendo in Italia il centro effettivo degli interessi e della gestione. In tal modo i redditi conseguiti vengono dichiarati (o non dichiarati) all’estero e sottratti al fisco italiano.
  • Uso di società controllate estere (CFC): l’impresa o il contribuente residente costituisce o utilizza società figlie in paradisi fiscali, dove accumulare utili tassati al minimo; questi utili possono non essere distribuiti al socio italiano, realizzando un differimento o un’elusione dell’imposta italiana.
  • Transfer pricing “aggressivo”: nelle transazioni infragruppo tra società italiane e consociate estere a bassa fiscalità, si fissano prezzi di trasferimento non di mercato (ad esempio sovraprezzando costi verso l’Italia o sottoprezzando vendite dall’Italia), spostando così margini di profitto verso la giurisdizione a minore tassazione.
  • Interposizione fittizia di società o soggetti non residenti: i redditi generati da un’attività italiana vengono formalmente intestati a un soggetto estero (società, trust, prestanome) residente in un paradiso fiscale, che funge da schermo; in realtà il beneficiario effettivo del reddito resta il soggetto italiano, ma grazie all’interposta persona tenta di non dichiararlo.
  • Altre forme elusive internazionali: ad esempio la creazione di stabili organizzazioni occulte all’estero (vendite effettuate dall’Italia tramite entità offshore per non dichiarare una stabile organizzazione in Italia), l’uso di strumenti finanziari ibridi o strutture societarie complesse per sfruttare disallineamenti normativi e ottenere doppie deduzioni o doppie esenzioni.

Ognuna di queste condotte può dare luogo a contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, basate su diverse disposizioni normative. Di seguito analizziamo i principali strumenti normativi: esterovestizione, CFC, transfer pricing e interposizione fittizia, evidenziando criteri, presunzioni e oneri probatori connessi, alla luce delle più recenti modifiche legislative e pronunce giurisprudenziali.

Esterovestizione della residenza fiscale

Esterovestizione è il termine comunemente usato per indicare la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di un soggetto che, di fatto, ha la propria sede o domicilio fiscale in Italia. Il caso tipico è quello di una società formalmente costituita all’estero, magari in un paese a fiscalità privilegiata, che però viene amministrata e gestita dall’Italia (oppure svolge in Italia la sua attività principale). Lo scopo è beneficiare del regime estero, eludendo le imposte italiane.

In base all’ordinamento italiano, la residenza fiscale delle società è definita dall’art. 73 del TUIR: sono considerate residenti in Italia le società e enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno nel territorio italiano la sede legale, la sede dell’amministrazione (direzione effettiva) o l’oggetto principale. Le norme aggiornate dal D.Lgs. 209/2023 hanno precisato che per sede di direzione effettiva si intende il luogo in cui vengono assunte in modo continuo e coordinato le decisioni strategiche sulla società, mentre per gestione ordinaria si intende il luogo in cui si compiono gli atti di gestione corrente in modo continuativo. Questi criteri sono alternativi: basta che uno sia in Italia perché la società sia considerata fiscalmente residente in Italia.

Accanto a tali criteri sostanziali, esiste nel TUIR una presunzione legale relativa di residenza (art. 73 comma 5-bis) pensata proprio per contrastare l’esterovestizione: “Salvo prova contraria, si considerano residenti nel territorio dello Stato le società ed enti che detengono partecipazioni di controllo in società italiane, se alternativamente: a) sono controllati da soggetti residenti in Italia; oppure b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia”. Questa presunzione – rafforzata anch’essa dal 2023 – agevola il Fisco, invertendo l’onere della prova a carico del contribuente: se una società estera controlla società italiane ed è di fatto controllata o gestita da Italiani, si presume residente in Italia, salvo che il contribuente dimostri il contrario.

In pratica: se un imprenditore italiano crea una holding in un paradiso fiscale (es. una società X alle Cayman) che possiede la società operativa italiana, ed egli stesso (o persone italiane) ne controlla la gestione, l’Agenzia delle Entrate considererà la società estera come residente in Italia, tassandone i redditi nel nostro Paese. Sarà onere del contribuente provare che la società estera ha un’effettiva autonomia e sostanza economica all’estero (ad es. uffici, personale, decisioni realmente prese lì).

La giurisprudenza di legittimità si è più volte occupata di esterovestizione, fornendo importanti chiarimenti. Un orientamento consolidato della Corte di Cassazione definisce l’esterovestizione come la situazione in cui “una società, che ha stabilito in Italia la sede dell’amministrazione – cioè il luogo di direzione e gestione effettiva – localizza la propria residenza fiscale all’estero al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa”. In altre parole, è una costruzione artificiosa priva di reale sostanza economica estera, finalizzata unicamente a ottenere un risparmio d’imposta.

Un elemento cruciale emerso dalle sentenze è la differenza di approccio a seconda che la società esterovestita sia situata in un paese UE oppure extra-UE. Infatti, per le società nell’Unione Europea occorre tenere conto della libertà di stabilimento garantita dai Trattati UE: trasferire la sede legale in un altro Stato membro per beneficiare di un regime fiscale favorevole non è di per sé illecito (non costituisce automaticamente abuso). Il limite, secondo la Corte di Giustizia UE (caso Cadbury Schweppes), è rappresentato dalle “costruzioni di puro artificio” prive di sostanza economica. La Cassazione italiana, con la sentenza n. 1883/2023, ha affermato proprio che la contestazione di esterovestizione va declinata diversamente a seconda se la società estera risieda in UE o fuori UE. Nel caso UE, l’accertamento dovrà verificare e provare la natura artificiosa dell’insediamento estero (onere probatorio più elevato per il Fisco); nel caso extra-UE, invece, non operano le libertà comunitarie e è sufficiente (al Fisco) dimostrare il ricorrere di uno dei criteri di collegamento ex art. 73 TUIR (sede, amministrazione, oggetto in Italia).

Di fatto, per le società in paesi extra-UE (es. classici paradisi fiscali offshore), la presunzione e i normali criteri di residenza bastano: l’Agenzia può rettificare la residenza fiscale individuando il centro di direzione effettiva in Italia sulla base di indizi (riunioni amministrative svolte in Italia, affari conclusi in Italia, infrastruttura estera inesistente, ecc.). Per le società in ambito UE, invece, l’Amministrazione dovrà anche dimostrare che la presenza all’estero è meramente fittizia e priva di genuina attività economica, altrimenti rischierebbe di violare il diritto di stabilimento.

Cassazione 1883/2023 (Società in San Marino e Svizzera): emblematica è la vicenda esaminata in Cass. 1883/2023, relativa a due società con sede legale a San Marino e Svizzera, ma sospettate di essere amministrate da Bolzano (Italia). L’Agenzia delle Entrate, notando che le merci vendute da tali società erano stoccate stabilmente presso un magazzino di una società terza a Bolzano, dedusse che la sede effettiva di direzione fosse in Italia. Dopo che le Commissioni tributarie avevano dato ragione ai contribuenti (ritenendo insussistenti prove sufficienti), la Cassazione confermò la decisione pro-contribuente: poiché San Marino e Svizzera sono fuori dalla UE, la Corte ha verificato solo se vi fossero i criteri di collegamento di cui all’art. 73, comma 3, TUIR. Ha concluso che gli indizi raccolti non provavano in modo consistente né la sede amministrativa né l’oggetto principale in Italia, confermando quindi l’annullamento dell’accertamento. Da notare che la Cassazione, in quel caso, non ha nemmeno indagato sull’eventuale artificiosità dell’insediamento estero o sulla reale attività svolta: non ce n’era bisogno, trattandosi di Stati extra-UE, una volta esclusi i criteri di collegamento interni. Questo approccio conferma che in ambito non-UE il Fisco gode di maggior agilità probatoria (basta provare i fatti indice di residenza in Italia), mentre in ambito UE serve l’ulteriore step di dimostrare l’abuso (costruzione puramente artificiale).

Cassazione 21505/2025 (Società in Austria – frode IVA): un caso recente di interesse è un’ordinanza della Cassazione del 2025, n. 21505, riguardante una società di telecomunicazioni con sede legale in Austria, accusata di aver localizzato fittiziamente la residenza all’estero per evadere IVA in Italia . La società faceva parte di una frode carosello: secondo il Fisco era una società-schermo estera che emetteva fatture a imprese italiane inesistenti (missing traders) nell’ambito di una frode IVA, mentre la gestione effettiva era in Italia. In primo e secondo grado, le Commissioni tributarie avevano annullato l’accertamento (prima per vizi formali, poi nel merito ritenendo le prove solo “ipotetiche” e rilevando che la società pagava qualche imposta in Austria). La Cassazione invece ha ribaltato la decisione, censurando la superficialità con cui i giudici di merito avevano ignorato gli elementi probatori del Fisco . La Suprema Corte ha ribadito che il giudice tributario deve valutare globalmente tutti gli indizi forniti dall’Amministrazione e che pagare alcune imposte all’estero non basta ad escludere l’esterovestizione se tutti gli altri elementi portano a conclusione opposta . In particolare, la Cassazione ha ricordato che l’esterovestizione si prova tramite una pluralità di indizi gravi, precisi e concordanti che dimostrino come la sede estera sia solo formale mentre le attività decisionali sono in Italia. Nel caso specifico, l’Agenzia delle Entrate aveva documentato che la società austriaca era inserita in un meccanismo fraudolento circolare (le fatture, i flussi di merce, ecc.), ma i giudici d’appello avevano liquidato tali prove come “sensazioni personali” dei verificatori. La Cassazione ha considerato ciò un errore grave: gli indizi andavano valutati nel loro complesso, e se convergenti nell’indicare la gestione in Italia, l’esterovestizione doveva essere riconosciuta. La sentenza afferma quindi un principio importante: il giudice non può ignorare la prova della sede fittizia; l’effettività del trasferimento va sempre verificata in concreto, e un modesto adempimento fiscale estero non salva una struttura che presenti tutti i connotati dell’artificiosità .

In sintesi, per difendersi efficacemente da una contestazione di esterovestizione, una società dovrà dimostrare la reale sostanza estera della propria organizzazione: ad esempio, esibire documentazione che attesti che le decisioni strategiche sono prese all’estero (verbali di CdA, luogo delle riunioni), che esiste personale e uffici operativi fuori d’Italia, che l’attività commerciale è effettivamente svolta nel paese estero e non in Italia. Il tutto per superare la presunzione di residenza in Italia ed evitare che i redditi “esteri” vengano attratti a tassazione in Italia.

Va aggiunto che, laddove l’esterovestizione sia conclamata, possono profilarsi anche conseguenze penali (si pensi al caso sopra: frode IVA internazionale). I profili penal-tributari saranno esaminati più avanti; basti qui notare che simulare la residenza all’estero può comportare reati di omessa dichiarazione o dichiarazione fraudolenta a seconda delle modalità, qualora superate le soglie di punibilità.

Controlled Foreign Companies (CFC) e tassazione per trasparenza

Un altro pilastro della normativa anti-elusiva internazionale è la disciplina delle Controlled Foreign Companies (CFC), prevista attualmente dall’art. 167 TUIR. Si tratta di norme che mirano a contrastare la delocalizzazione di utili verso società estere controllate in paradisi fiscali, imponendo una tassazione per trasparenza in capo al socio italiano. In pratica, se un soggetto residente in Italia controlla (direttamente o indirettamente) una società estera localizzata in un paese a bassa fiscalità, gli utili di quella società possono essere immediatamente imputati al socio e tassati in Italia, indipendentemente dalla loro distribuzione come dividendi. Ciò serve a neutralizzare il vantaggio del tax deferral, ovvero il rinvio a lungo termine della tassazione tramite accumulo di profitti all’estero.

La normativa CFC italiana è stata oggetto di recenti modifiche per recepire le indicazioni internazionali (Direttiva ATAD) e semplificare i criteri. Fino al 2023, la CFC rule si applicava se ricorrevano due condizioni congiunte nella controllata estera (società non residente controllata dal soggetto italiano):

  1. Redditi “passivi” o mobile income: oltre il 1/3 dei proventi della società estera derivasse da passive income (dividendi, interessi, royalties) o da operazioni infragruppo a scarso valore aggiunto. In sostanza, la legge mirava a colpire società estere che fungevano da cassaforte finanziaria o da entità di pura carta (holding di investimenti, società di servizi infragruppo, ecc.).
  2. Low tax rate: la società estera fosse assoggettata a tassazione nel paese di insediamento inferiore alla metà di quella che avrebbe subito se fosse stata residente in Italia. Questa era la cosiddetta “comparazione 50%”: si confrontava il carico fiscale effettivo estero con quello ipotetico italiano.

Il secondo criterio (low tax) comportava complessi calcoli di Effective Tax Rate (ETR), regolati anche da un Provvedimento attuativo del 27/12/2021. Dal periodo d’imposta 2024, però, tali regole sono state semplificate: il D.Lgs. 209/2023 (attuativo della delega di riforma fiscale) ha modificato l’art. 167 TUIR stabilendo che la disciplina CFC si applica se l’ETR della controllata estera è inferiore al 15%. Non è più richiesto il complesso confronto percentuale con l’aliquota italiana, ma una soglia fissa: se la società estera paga meno del 15% di tasse sui propri utili, è considerata a fiscalità privilegiata ai fini CFC. Inoltre, si prevede un calcolo semplificato dell’ETR basato sul rapporto tra imposte (correnti e differite) e utile ante imposte da bilancio, a condizione che il bilancio estero sia certificato da revisori locali affidabili. In assenza di bilancio certificato, o se comunque l’ETR semplificato < 15%, si applica il metodo ordinario (presumibilmente, tornerà il calcolo analitico precedente).

Rimane invece invariata la prima condizione qualitativa: la normativa continua a rivolgersi alle società estere con prevalenza di redditi passivi o attività mobile (è ragionevole ritenere che il requisito di passive income > 1/3 resti in vigore, salvo modifiche regolamentari).

Inoltre, per conformità con il diritto UE, la CFC rule non si applica (o comunque l’imputazione non scatta) se la società controllata estera si trova in un Paese UE o SEE cooperativo e il contribuente dimostra che svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, asset e locali. Questa è la cosiddetta esimente della “sostanza economica” (derivante proprio dalla dottrina Cadbury Schweppes): ad esempio, se la controllata è in uno Stato UE (o in un paese come la Norvegia) e lì ha uffici, dipendenti e un vero business, non la si può considerare una mera costruzione di comodo e quindi si evita la tassazione per trasparenza. Un’esimente simile, basata sull’attività economica effettiva, viene riconosciuta in genere anche per paesi extra-UE, come appiglio difensivo generale: in passato l’art. 167 permetteva al contribuente di provare che la controllata non realizzava l’effetto di localizzare utili in paradisi fiscali, perché svolgeva una reale attività commerciale nello Stato estero (anche se a bassa tassazione).

Effetti della disciplina CFC: se scatta la disciplina (nessuna esimente applicabile), il reddito totale della controllata estera va imputato al socio italiano proporzionalmente alla sua quota di partecipazione, ed è tassato in Italia come reddito di impresa del socio (con credito per le imposte eventualmente pagate all’estero). Allo stesso tempo, quando poi gli utili vengono effettivamente distribuiti come dividendi, la legge evita una doppia tassazione: infatti, se gli utili erano già stati tassati per trasparenza, la successiva distribuzione è esente al 95% o al 100% (una minima parte potrebbe restare imponibile, a seconda delle norme sui dividendi in vigore, ma in passato si prevedeva la detassazione quasi completa). In sostanza, l’imposizione avviene anticipatamente e una volta sola. Ad esempio, Cassazione 18025/2025 (Sez. V, ud. 23 maggio 2025) ha confermato che il meccanismo di imputazione CFC “serve a contrastare il trasferimento di redditi verso paradisi fiscali” e va applicato in maniera coerente alla sua ratio .

Una questione particolare chiarita di recente riguarda il momento temporale in cui il reddito CFC deve essere imputato. La Cassazione, con un’importante pronuncia del 2025 (sentenza n. 18025/2025, citata sopra e pubblicata a settembre 2025), ha stabilito che gli utili della controllata estera possono essere tassati in capo al socio residente solo se quest’ultimo possedeva la partecipazione al momento in cui tali utili sono stati realizzati . Nel caso deciso, una società italiana aveva acquisito nel corso del 2011 il controllo di una consociata a Singapore, e il Fisco le aveva imputato per trasparenza gli utili che però la controllata aveva prodotto prima dell’acquisizione (sempre nel 2011). I giudici di merito avevano dato ragione all’Amministrazione (ritenendo sufficiente che a fine anno vi fosse il controllo), ma la Cassazione ha annullato la tassazione, chiarendo il principio che “ai sensi dell’art. 167 TUIR i redditi della CFC vanno imputati al socio residente nel momento in cui sono conseguiti; è pertanto indispensabile verificare se, al momento del conseguimento del reddito da parte della CFC, il socio avesse già acquisito la partecipazione”. In altre parole, non si può attrarre in Italia materia imponibile formatasi interamente all’estero quando la partecipazione non c’era ancora, perché ciò esula dallo scopo anti-elusivo della norma . Questo principio offre certezza giuridica agli operatori: chi acquista società estere non dovrà temere di vedersi imputare utili pre-acquisizione (che restano tassabili solo all’estero o al vecchio proprietario).

Difesa nel merito delle contestazioni CFC: un contribuente cui venga contestata l’omessa dichiarazione di redditi di una CFC può difendersi dimostrando, ad esempio, che la propria controllata estera non rientra nelle condizioni CFC. Ciò può avvenire provando che: (a) la tassazione estera non è inferiore al 15% (quindi niente low tax) oppure (b) la società estera svolge un’attività economica effettiva e non è uno schermo (specie se in UE/SEE) oppure (c) i suoi redditi non sono prevalentemente “passivi” ma derivano da attività industriali o commerciali genuine. L’onere di provare le esimenti è a carico del contribuente. Peraltro, il contribuente avrebbe dovuto dichiarare nel quadro RM del modello Redditi l’eventuale esistenza di controllate in paradisi fiscali (adempimento di monitoraggio fiscale), e presentare istanza di ruling in via preventiva per escludere la CFC (l’ordinamento offre la possibilità di interpello all’Agenzia per ottenere conferma che la CFC rule non si applichi, ad esempio in presenza di attività effettiva – ma se non lo si fa, se ne discute poi in accertamento).

Va segnalato infine che il D.Lgs. 209/2023 ha introdotto anche un’opzione di tassazione alternativa per chi possiede CFC: l’art. 167 comma 4-ter TUIR consente ai soggetti controllanti di optare per l’applicazione di un’imposta sostitutiva su base di branch exemption o simili (dettagli non riportati qui, ma accennati nella norma). Ciò rientra nelle semplificazioni volte a rendere la gestione delle CFC meno onerosa: se per esempio la controllata ha redditi modesti, si potrebbe optare per un prelievo forfettario anziché calcolare l’ETR.

In conclusione, la disciplina CFC riflette un bilanciamento tra la necessità di impedire facili spostamenti di utili su entità estere di comodo e la tutela di chi investe all’estero in vere attività economiche. Le sentenze più recenti, come visto, ne affinano la portata, evitando estensioni oltre la ratio (principio del momento di possesso del 2025) e assicurando coerenza con i principi UE (esenzione se attività economica reale).

Prezzi di trasferimento (Transfer Pricing)

Il transfer pricing concerne i prezzi delle transazioni commerciali o finanziarie tra imprese appartenenti allo stesso gruppo multinazionale. In un contesto di paradisi fiscali, una pratica elusiva diffusa è quella di fissare prezzi infragruppo tali da spostare utili verso le consociate localizzate in paesi a bassa tassazione. Ad esempio, una società italiana vende beni a una consociata sita in un paradiso fiscale a un prezzo artificiosamente basso, cosicché gran parte del profitto della rivendita si realizza nella società estera (meno tassata), riducendo il margine in Italia. Viceversa, possono essere gonfiati i costi di acquisto di servizi o royalties dall’estero, abbattendo l’utile italiano.

Per contrastare tali manovre, l’ordinamento prevede il principio del valore normale (art. 110, comma 7, TUIR): nelle transazioni con società estere controllate o collegate, i corrispettivi devono essere conformi a quelli che sarebbero stati praticati tra entità indipendenti in condizioni di libera concorrenza (arm’s length principle). Se così non è, l’Amministrazione finanziaria ha facoltà di rettificare i prezzi e riprendere a tassazione maggiori utili in Italia . In termini pratici, in sede di accertamento il Fisco effettua un’analisi di transfer pricing: individua prezzi di comparazione di mercato (interni o esterni) e, se i prezzi applicati differiscono causando un’erosione dell’utile italiano, procede ad un aggiustamento aumentando i ricavi o riducendo i costi dedotti.

La disciplina italiana è allineata alle Linee Guida OCSE sui prezzi di trasferimento. Già dal 2010 e poi con la L. 147/2013 e il D.L. 50/2017 si è chiarito che l’interpretazione dell’art. 110 c.7 TUIR deve avvenire alla luce dei principi internazionali generalmente riconosciuti in materia (quindi le metodologie OCSE: CUP, RPM, TNMM, ecc.). La Cassazione ha in diverse occasioni confermato che il riferimento ai criteri OCSE è corretto, pur sottolineando che le Linee Guida in sé non hanno valore di legge ma costituiscono criteri tecnici attuativi del principio di libera concorrenza. Una recente ordinanza (Cass. 11954/2025) ha ribadito l’applicabilità dell’art. 110 c.7 anche a fenomeni antecedenti (essendo norma di interpretazione autentica la L.147/2013) e ha richiamato l’attenzione sugli aspetti probatori in giudizio.

Aspetti probatori: in un contenzioso transfer pricing, uno snodo cruciale è determinare a chi spetti l’onere della prova e con quali evidenze. In generale, l’onere di dimostrare che i prezzi praticati non sono di mercato (causando un imponibile inferiore) grava sull’Amministrazione finanziaria, che quindi in atto di accertamento deve motivare la rettifica indicando il metodo utilizzato e le comparazioni. Ad esempio, la Cassazione n. 11625/2023 ha ritenuto valida la preferenza accordata dall’Agenzia alle comparazioni interne di prezzo rispetto a quelle esterne in un caso di beni scambiati infraguppo: la Corte ha confermato che se esistono prezzi di libera concorrenza interni (cioè transazioni comparabili fatte con terzi dalla stessa società), questi costituiscono il termine di paragone privilegiato. Quindi il Fisco può utilizzare il metodo del CUP interno (Comparable Uncontrolled Price) come primo riferimento. Il contribuente, dal canto suo, può contestare la metodologia, proporre comparables alternativi o evidenziare differenze che giustifichino lo scostamento di prezzo.

Un tema oggetto di dibattito è la rilevanza delle Linee Guida OCSE in giudizio. La Cassazione n. 26432/2024 (ottobre 2024) ha affrontato la questione del peso delle raccomandazioni OCSE nel nostro ordinamento. Da quanto risulta (fonte Belluzzo.net), in tale sentenza la Corte avrebbe ridimensionato la vincolatività di alcune raccomandazioni OCSE, affermando che esse vanno seguite salvo che contrastino con la norma interna. Ciò suggerisce che l’applicazione pratica deve sempre passare per il filtro dell’art. 110 c.7. Ad esempio, se l’OCSE suggerisce approcci semplificati, ma la legge interna richiede certe condizioni, prevale la legge.

Documentazione e sanzioni: per incentivare il rispetto del transfer pricing e facilitare i controlli, in Italia esiste un obbligo (facoltativo ma vantaggioso) di predisporre la documentazione di transfer pricing secondo linee guida dell’Agenzia Entrate. Se il contribuente predispone un Masterfile e Documentazione Nazionale (country file) conforme e lo segnala in dichiarazione, può beneficiare della disapplicazione delle sanzioni amministrative in caso di rettifiche (il cosiddetto penalty protection). In assenza di documentazione, invece, oltre alla maggiore imposta si applicano pesanti sanzioni (normalmente dal 90% al 180% dell’imposta evasa). Tale documentazione deve essere redatta secondo il Provvedimento AE 2020 aggiornato e consegnata in sede di verifica su richiesta. Dunque, in caso di contestazione per utili trasferiti via transfer pricing, la prima linea difensiva del contribuente virtuoso è esibire la documentazione di TP a supporto dei prezzi adottati, dimostrando di aver rispettato l’arm’s length.

Giurisprudenza su casi tipici: spesso le liti in materia riguardano servizi infragruppo, royalties o finanziamenti infragruppo. La Cassazione in linea generale ha affermato che spetta al contribuente provare l’inerenza e congruità di costi infragruppo qualora il Fisco abbia portato elementi che li mettono in dubbio. Una sentenza del 2023 (Cass. 2689/2023) ha trattato l’inerenza dei costi in contratti infragruppo, mentre Cass. 5913/2025 ha ribadito che la L.147/2013 è norma interpretativa retroattiva su TP. In concreto, un contribuente può ad esempio difendersi mostrando che i margini di utile in Italia, pur ridotti, sono giustificati da funzioni e rischi limitati dell’entità italiana rispetto all’estera (approccio di profit split o simili). Oppure contestare che le comparazioni dell’Ufficio non sono omogenee.

Esempio pratico: se l’Agenzia contesta a un’azienda italiana di aver venduto un prodotto a 80 a una sua consociata estera rivenditrice, mentre ad altri clienti indipendenti lo vendeva a 100, la rettifica può consistere nel riallineare il prezzo a 100, tassando la differenza di 20 come maggior ricavo in Italia. Il contribuente per difendersi potrebbe argomentare che la consociata estera svolgeva funzioni aggiuntive (marketing, garanzia, ecc.) tali da giustificare lo sconto di 20, e che dunque il prezzo di 80 è in linea con la differente funzione (in tal caso fornendo analisi di comparabilità, margini, ecc.). Se tali giustificazioni non emergono, la contestazione avrà buon gioco. Da notare che, in assenza di accordi di doppia imposizione specifici, una rettifica in Italia senza contropartita all’estero genera doppia imposizione (lo stesso utile tassato due volte: una come ricavo aggiunto in Italia, e una come profitto tassato anche nella consociata). In tali casi, il contribuente può attivare procedimenti di Mutual Agreement Procedure (MAP) previsti dai trattati o dalla Convenzione arbitrale UE per ottenere un aggiustamento corrispondente all’estero.

In conclusione, il transfer pricing è un campo altamente tecnico: la difesa richiede spesso l’ausilio di perizie economiche e documentazione dettagliata. Tuttavia, se condotto correttamente (documentazione, politiche di gruppo in linea con mercato), è anche uno degli ambiti dove è possibile prevenire contestazioni, grazie a strumenti come gli Advance Pricing Agreements (APA) con l’Agenzia delle Entrate – accordi preventivi che fissano regole di pricing per il futuro, vincolanti per le parti.

Interposizione fittizia di società o persone

Il concetto di interposizione fittizia in ambito fiscale riguarda i casi in cui un reddito o bene formalmente intestato a un soggetto in realtà appartiene, dal punto di vista della disponibilità economica, a un altro soggetto. In pratica, vi è una dissociazione tra titolarità formale e possesso effettivo della ricchezza. Questa situazione è spesso strumentalizzata per fini elusivi o evasivi: si interpone una società o un prestanome (magari residente in un paradiso fiscale) per celare il vero beneficiario italiano di redditi o patrimoni.

L’ordinamento italiano consente all’Amministrazione finanziaria di disconoscere l’interposizione e tassare i redditi direttamente in capo al beneficiario effettivo. Il riferimento normativo principale è l’art. 37, comma 3, del DPR 600/1973, il quale stabilisce che il Fisco può imputare i redditi al soggetto che ne risulta il reale possessore, indipendentemente dai contratti o dalle intestazioni formali. La giurisprudenza ha interpretato questa norma nel senso che non occorre distinguere tra interposizione reale o fittizia: sia nei casi di pura simulazione (prestanome che figura ma non esiste un reale trasferimento) sia nei casi di interposizione “fiduciaria” (dove l’interposto ha una qualche autonomia ma agisce per conto altrui), ciò che conta è provare che il contribuente accertato è l’effettivo proprietario del reddito. In altre parole, rileva la sostanza economica: se Tizio, residente in Italia, di fatto dispone di redditi formalmente intestati a una società estera, quei redditi vanno tassati a Tizio, a prescindere dal velo giuridico.

Cassazione 8479/2025 (Interposizione società lussemburghese): un caso paradigmatico è trattato nella sentenza Cass. n. 8479/2025. La vicenda riguardava un contribuente italiano e la sua ex moglie, ai quali l’Agenzia contestava di aver realizzato una plusvalenza (derivante dalla cessione di quote di una nota società calcistica) tramite una società con sede in Lussemburgo usata come schermo. Secondo il Fisco, la società lussemburghese era mera interposta, mentre i reali possessori del reddito della cessione erano i due coniugi. In Cassazione, uno dei motivi di ricorso del contribuente era che l’interposizione fosse “reale” (cioè che la società lussemburghese avesse effettivamente titolo sui beni) e pertanto l’art. 37 DPR 600/73 non dovesse applicarsi in assenza di simulazione pura. La Cassazione ha respinto questa tesi, ribadendo appunto che è irrilevante la distinzione tra interposizione fittizia e reale: ciò che conta è dimostrare con presunzioni gravi, precise e concordanti che il contribuente italiano è il possessore effettivo del reddito. In tal caso, il Fisco può “guardare attraverso” lo schermo societario estero e tassare direttamente il soggetto che ha la disponibilità di fatto della ricchezza. La sentenza in questione ha anche confermato che l’onere della prova ricade sull’Amministrazione: servono elementi presuntivi robusti e convergenti per sostenere l’interposizione. Nel caso specifico, vari indizi portavano a ritenere che la società estera fosse effettivamente manovrata dal contribuente e che l’ex moglie fosse solo intestataria formale di parte delle quote (lei stessa si dichiarava “utilizzata” dall’ex marito e di non aver percepito alcun reddito). Su quest’ultimo punto la Cassazione ha cassato parzialmente la sentenza d’appello, poiché il giudice di merito aveva omesso di valutare la posizione della ex moglie che sosteneva di essere una prestanome inconsapevole (omessa pronuncia su un motivo di appello). Ciò evidenzia anche un profilo procedurale: in presenza di più soggetti coinvolti (es. coniugi), va garantito che ciascuno possa far valere le proprie specifiche difese (ad esempio dimostrare di non aver beneficiato dei redditi, lasciando che siano imputati magari solo all’altro soggetto).

Ambiti tipici di interposizione: oltre al caso di plusvalenze da cessione di società via schermo estero, frequenti sono i casi di conti bancari o investimenti all’estero intestati a fiduciari. Ad esempio, Tizio residente in Italia potrebbe celare fondi su un conto intestato a una società offshore o a un prestanome straniero: se il Fisco scopre la situazione (magari grazie allo scambio automatico di informazioni finanziarie internazionale), potrà presumere che i redditi finanziari su quel conto (interessi, dividendi) siano di Tizio e non dell’intestatario formale. Similmente, nel caso di trust esteri opachi interposti, la Cassazione (sent. n. 9096/2025) ha chiarito che i redditi del trust estero vanno imputati al disponente italiano se costui mantiene di fatto il controllo e la disponibilità dei beni in trust. Insomma, la sostanza prevale sulla forma: substance over form è il principio ribadito più volte (Cass. 11055/2021; Cass. 17743/2021; Cass. 9096/2025).

Dal punto di vista difensivo, per contrastare una contestazione di interposizione fittizia, il contribuente dovrà cercare di dimostrare l’autonomia economica e decisionale del soggetto formalmente titolare. Ad esempio, nel caso della società estera: provare che essa aveva risorse proprie, che non agiva su istruzioni del contribuente, che i proventi della cessione sono rimasti nella società estera e non sono stati nella disponibilità del residente. Oppure, come nel caso dell’ex coniuge nel processo sopra, provare di non aver in alcun modo beneficiato di quei redditi (se si viene accusati di esserne contitolari). In mancanza di tali prove contrarie, gli indizi raccolti dall’Ufficio (transito di denaro dai conti esteri a conti riconducibili all’italiano, poteri di firma occulti, coincidenza di decisioni, etc.) verranno valutati secondo i canoni delle presunzioni semplici (gravità, precisione, concordanza) e possono legittimamente supportare l’atto impositivo.

Un’altra linea difensiva può essere contestare vizi procedurali: ad esempio, se l’accertamento fonda l’interposizione su documenti bancari esteri ottenuti senza le necessarie garanzie (oggi però grazie allo scambio di informazioni CRS queste eccezioni sono meno frequenti). O ancora, eccepire la decadenza dei termini se il Fisco ha notificato l’atto tardivamente. A tal proposito, segnaliamo che nel caso Cass. 8479/2025 il contribuente contestava l’utilizzo del raddoppio dei termini per via del rilievo penale: la Corte ha chiarito che il raddoppio dei termini di accertamento si applica quando sussiste l’obbligo di denuncia penale per reati tributari, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia entro il termine ordinario. Ciò in linea con l’orientamento prevalente: il raddoppio opera come condicio iuris legata all’esistenza della soglia penale di reato, non alla tempestività della denuncia.

Riassumendo, l’interposizione fittizia è uno strumento che il Fisco utilizza spesso in combinazione con altre contestazioni internazionali: molte volte la contestazione di esterovestizione di società estera si accompagna all’idea che la società estera sia interposta e i redditi in realtà siano dell’italiana controllante; così come nelle CFC l’interposizione è in re ipsa (la controllata è “interposta” per accumulare utili). Anche nei casi di quadro RW (monitoraggio delle attività estere) l’Agenzia può contestare interposizione: se un contribuente omette di dichiarare asset esteri dicendo che non sono formalmente suoi, ma viene provato il contrario, scatteranno sanzioni e recupero a tassazione.

Elusione, abuso del diritto ed evasione fiscale internazionale

Prima di passare alle procedure e alle difese, è utile inquadrare concettualmente il limite tra elusione lecita e illecita in ambito internazionale, e il concetto di abuso del diritto in materia tributaria. Il D.Lgs. 128/2015 ha introdotto nello Statuto del Contribuente (L. 212/2000) l’art. 10-bis che disciplina l’abuso del diritto fiscale, definito come l’uso di una o più operazioni prive di sostanza economica, volte ad ottenere un indebito vantaggio fiscale, pur nel rispetto formale delle norme. L’abuso (che ricomprende la nozione pregressa di elusione fiscale) non costituisce reato ma consente al Fisco di disconoscere i vantaggi tributari ottenuti.

Molte pratiche di pianificazione fiscale internazionale – come il trasferimento di utili in entità offshore – possono configurare un abuso del diritto se manca una sostanza economica effettiva e l’unica ragione è il risparmio d’imposta. Ad esempio, costituire una società in un paradiso fiscale che fattura servizi intragruppo all’Italia per drenare utili, senza una reale struttura operativa, è classicamente un abuso/elusione. La conseguenza è che l’Agenzia potrà riqualificare le operazioni secondo la sostanza (ad esempio, negare la deducibilità di quei costi fittizi, o tassare la società come residente in Italia).

La differenza tra abuso del diritto (elusione) e evasione fiscale sta principalmente nei mezzi utilizzati: l’elusione si colloca in una “zona grigia” di uso distorto di norme senza violarle espressamente, mentre l’evasione comporta la violazione diretta (omessa dichiarazione di redditi, dichiarazione mendace, uso di false fatture, ecc.). Nel contesto internazionale, spesso le contestazioni di trasferimento utili combinano entrambi i profili: può esserci abuso (esterovestizione come abuso della libertà di stabilimento, costi intercompany fittizi come abuso) ed evasione (omessa dichiarazione di utili esteri, false rappresentazioni).

Le sentenze di Cassazione riflettono questa duplicità. Ad esempio, Cass. 1883/2023 citata prima sottolinea che mentre alcune pronunce qualificavano l’esterovestizione come evasione, altre come abuso della libertà di stabilimento, con differenze sul piano probatorio. Oggi con l’art. 10-bis è forse meno rilevante etichettare, poiché comunque l’operazione priva di sostanza viene disconosciuta. In concreto: se c’è piena collaborazione del contribuente e solo abuso, si applicheranno i recuperi d’imposta e sanzioni amministrative (per infedele dichiarazione, solitamente); se c’è anche un quid pluris di fraudolenza (documenti falsi, attività occultate), si può sfociare nel penale.

In tutti i casi, la difesa del contribuente può sostenere – in alternativa – due linee: o che l’operazione ha ragioni economiche valide (substance) e quindi non è abuso; oppure, qualora vi sia qualche elemento di violazione, cercare di dimostrare la mancanza di dolo o di profili fraudolenti per evitare sanzioni più gravi.

Doppia imposizione e convenzioni internazionali

Un aspetto inevitabilmente collegato al trasferimento di utili all’estero è la possibile doppia imposizione internazionale: lo stesso reddito potrebbe essere tassato in due Stati diversi (ad esempio nel paradiso fiscale di destinazione e in Italia in caso di ripresa a tassazione). In verità, molti paradisi fiscali applicano imposta zero o trascurabile, quindi il problema pratico è spesso la mancata imposizione all’estero e la tassazione (recuperatoria) in Italia – il che non genera un vero doppio prelievo. Vi sono tuttavia situazioni in cui la doppia imposizione è concreta, specie se il paese estero non è propriamente un “paradiso” ma uno Stato con fiscalità agevolata che però tassa qualcosa (es. Svizzera con aliquote ridotte, Emirati Arabi con imposta solo su certe attività, ecc.), oppure se interviene una rettifica di transfer pricing asimmetrica.

Per gestire questi casi, entrano in gioco le Convenzioni contro le doppie imposizioni (i Trattati fiscali bilaterali) e gli strumenti internazionali. L’Italia ha una vasta rete di trattati (oltre 100) basati sul Modello OCSE, che generalmente prevedono la ripartizione delle competenze impositive tra Stati e meccanismi di credito d’imposta. Ad esempio, un dividendo pagato da una controllata estera viene tassato in Italia ma con detrazione del credito per l’imposta estera pagata sullo stesso (art. 165 TUIR). Oppure, se un reddito immobiliare è tassato nel paese estero, l’Italia lo esenta o accredita l’imposta.

Nel contesto di contestazioni di utili in paradisi fiscali, il contribuente può cercare sollievo invocando il credito d’imposta estero su quanto (eventualmente) versato fuori. Tuttavia, spesso i paradisi fiscali non impongono tasse, quindi non c’è credito da far valere. Se invece c’è stata imposizione (es. ritenuta estera su interessi), la si potrà portare in detrazione nei limiti dell’art. 165.

Più complesso è il caso di doppia residenza societaria: se Italia e Stato estero considerano entrambi una società come residente, teoricamente entrambi tasserebbero i redditi mondiali della società. In tali frangenti, le convenzioni fiscali (art. 4, par. 3 del Modello OCSE) prevedono un criterio di tie-break per determinare un’unica residenza fiscale, tradizionalmente individuato nella sede di direzione effettiva. Da pochi anni, l’OCSE ha modificato tale criterio prevedendo che la residenza, in caso di doppia residenza di persona giuridica, sia risolta di comune accordo tra le Autorità competenti (Mutual Agreement) tenendo conto di luogo di direzione effettiva, luogo di costituzione e altri fattori. L’Italia si sta adeguando a questo approccio: come visto, la norma interna ora definisce la sede effettiva coerentemente alle convenzioni e riconosce che se due Stati reclamano la residenza, ci si dovrà accordare in base al trattato. In pratica, in un caso di esterovestizione in un paese con trattato, la società potrebbe risultare dual-resident: a quel punto saranno i due Fisci a negoziare il da farsi (in genere, l’Italia se ha prove forti prevarrà sul paradiso fiscale, che spesso neppure ha trattato con noi in molti casi).

Nelle contestazioni di transfer pricing con Stati con cui l’Italia ha trattati, per evitare doppi prelievi esiste la già menzionata procedura amichevole (MAP): il contribuente, ricevuto un accertamento in Italia che comporta doppia imposizione (perché l’altro Stato non riconosce l’aggiustamento), può entro determinati termini attivare la procedura prevista dall’art. 25 della Convenzione o dalla Direttiva UE 2017/1852 (recepita in Italia con D.Lgs. 49/2020). Le autorità competenti dei due Stati cercheranno di risolvere eliminando la doppia imposizione, ad esempio facendo esentare o rettificare in uno dei due paesi. Se non trovano accordo, interviene un arbitrato vincolante (soprattutto per i paesi UE c’è questa garanzia).

Un discorso a parte meritano i fenomeni di doppia imposizione economica legati alla disciplina CFC: come accennato, la legge evita che gli utili tassati per trasparenza vengano ritassati come dividendi (li esenta al 95% in genere). Ma potrebbe comunque succedere che il paese della CFC, magari quando distribuisce i dividendi, applichi una ritenuta alla fonte. Se c’è convenzione, quell’imposta estera andrà a credito per il socio italiano. Se non c’è convenzione, purtroppo ci sarebbe doppia imposizione (perdita secca). Un contribuente prudente in genere cerca di utilizzare strutture in paesi con trattati o nel rispetto delle normative anti-abuso proprio per non incorrere in penalizzazioni doppie.

Convenzioni internazionali rilevanti: oltre ai trattati bilaterali, ricordiamo che dal 2020 è in vigore per l’Italia il Multilateral Instrument (MLI) che modifica molte convenzioni introducendo clausole anti-abuso (Principal Purpose Test) per evitare usi impropri dei trattati stessi. Questo strumento potrebbe essere invocato dall’Agenzia per negare benefici convenzionali se ritiene che ad esempio una struttura societaria estera sia stata creata principalmente per godere del trattato (scenario tipico: holding in paese terzo solo per ridurre ritenute – treaty shopping).

In definitiva, la pianificazione fiscale internazionale deve tener conto che esistono meccanismi per evitare la doppia imposizione legittima, ma non per avallare doppie non imposizioni: l’era del “doppio non imponibile” (no tax in paradiso + no tax in patria grazie a schermi) sta finendo, con iniziative come la global minimum tax OCSE in arrivo. Dunque chi si vede contestare utili in paradisi fiscali difficilmente potrà opporre un trattato per sottrarsi alla tassazione italiana, a meno di situazioni peculiari. Piuttosto, potrà chiedere di evitare di pagare due volte su uno stesso importo, usando crediti d’imposta o MAP.

Procedura di contestazione e fasi del contenzioso

Dopo aver esaminato il “cosa” (quali condotte e normative sono in gioco), vediamo ora il “come”: come si svolge la contestazione del Fisco quando sospetta un trasferimento di utili in paradisi fiscali, e quali sono le fasi successive di difesa, dall’accertamento all’eventuale contenzioso tributario. Dalla prospettiva del contribuente (il soggetto destinatario della contestazione), è fondamentale conoscere i propri diritti procedurali e i passi temporali, per poter impostare una strategia efficace e tempestiva.

In sintesi, il percorso tipico può prevedere: verifiche e indagini fiscali (spesso della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate – Divisione contribuenti internazionali); la formazione di un Processo Verbale di Constatazione (PVC) se emergono rilievi; l’emissione di un Avviso di Accertamento motivato; la possibilità di strumenti deflativi (accertamento con adesione, mediazione, etc.); quindi, in mancanza di definizione, il ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (già Commissione Tributaria Provinciale); l’eventuale appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (già Commissione Regionale); e infine il ricorso per Cassazione sui soli motivi di diritto. Ciascuna fase ha regole proprie e opportunità da sfruttare. Analizziamole in dettaglio.

Accertamenti fiscali e indagini internazionali

Le contestazioni su utili trasferiti all’estero spesso nascono da attività di controllo mirate. La Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate dispongono oggi di numerosi strumenti investigativi:

  • Questionari e richieste documentali: l’Agenzia può inviare questionari al contribuente chiedendo informazioni su rapporti con l’estero, documentazione transfer pricing, struttura del gruppo, etc. Anche le indagini finanziarie possono essere attivate per ottenere movimenti di conto (e ormai con l’Anagrafe dei conti e lo scambio internazionale di dati, l’Agenzia può avere accesso a elementi su conti esteri).
  • Verifiche fiscali: accessi, ispezioni e verifiche presso la sede del contribuente (o dei suoi intermediari). Nel caso di sospetta esterovestizione, ad esempio, la GdF potrebbe fare sopralluoghi per vedere dove è gestita effettivamente l’azienda; nelle indagini finanziarie internazionali, si raccolgono evidenze di passaggi di denaro verso l’estero.
  • Scambio di informazioni con estero: grazie ai network internazionali, l’Amministrazione può ottenere dati da autorità estere (specie su conti bancari, struttura societaria, etc.). Ad esempio, con la Svizzera ora c’è scambio automatico di informazioni finanziarie: un conto cifrato un tempo nascosto oggi viene comunicato all’Italia. Oppure, in casi specifici, si possono fare richieste mirate tramite autorità competenti o utilizzare la Convenzione Multilaterale OCSE sul mutuo aiuto amministrativo.
  • Data analysis e selezione per profili di rischio: l’Agenzia ha sviluppato indici di rischio (anche grazie all’anagrafe tributaria e ai nuovi strumenti digitali) per individuare soggetti con possibili operazioni elusive internazionali. Ad esempio, un’azienda con margini calanti e costi infragruppo in crescita verso una consociata estera potrebbe essere selezionata per controllo.

Una volta raccolti elementi indiziari, in genere la Guardia di Finanza redige un PVC (Processo Verbale di Constatazione) che elenca i fatti accertati e le violazioni ravvisate (es: “la società Alfa risulta aver trasferito fittiziamente la sede in paese X, mentre di fatto l’amministrazione avviene in Italia; proponiamo la tassazione di tutti i redditi prodotti e sanzione per omessa dichiarazione”). Il contribuente viene invitato a sottoscrivere il PVC e può rilasciare controdeduzioni sommarie.

Contraddittorio preventivo: in molte materie tributarie vige (per norma o per prassi) l’obbligo di attivare un contraddittorio prima di emettere l’avviso di accertamento. Soprattutto in ambito di accertamenti complessi internazionali, l’Agenzia spesso invita il contribuente a un confronto (c.d. invito a comparire) per discutere i rilievi del PVC. Questo è un momento importante: presentare memorie e giustificazioni può a volte far modificare o attenuare la pretesa. Tuttavia, in assenza di obbligo generalizzato di contraddittorio (la Cassazione ha avuto orientamenti altalenanti sul se sia obbligatorio sempre o solo in alcuni tributi), è bene per il contribuente sfruttare ogni occasione di dialogo. Per esempio, in un contesto di transfer pricing, presentare all’ufficio un report di transfer pricing difensivo durante il contraddittorio potrebbe evitare una rettifica errata.

Avviso di accertamento: presupposti e motivazione

L’Avviso di Accertamento è l’atto formale con cui l’Agenzia delle Entrate (o l’Ufficio competente) notifica al contribuente la rettifica delle imposte e l’irrogazione delle eventuali sanzioni amministrative. Nel caso di utili esteri, potrebbe trattarsi di un accertamento in materia di imposte dirette (IRPEF/IRES) e talvolta IVA se c’è di mezzo anche imponibile IVA (come nel caso delle frodi carosello).

Presupposti temporali: l’avviso deve essere notificato entro determinati termini di decadenza. Normalmente, per imposte dirette l’accertamento va notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (se il 2019 è oggetto di verifica, entro fine 2025); se dichiarazione omessa, entro il settimo anno. Però attenzione: se c’è obbligo di denuncia per reato tributario, i termini raddoppiano (diventano dieci anni, dodici in caso di omessa). Questo raddoppio dei termini – previsto dall’art. 43 DPR 600/73 e confermato più volte – è frequente nei casi di paradisi fiscali perché spesso vengono ravvisate soglie di reato. Ad esempio, se una società non ha dichiarato €1 milione di utili nascosti in un offshore, l’imposta evasa può tranquillamente superare €150.000, integrando dichiarazione infedele penale: l’ufficio avrà 10 anni. Quindi il contribuente potrebbe vedersi arrivare un accertamento anche molto tardivamente, grazie a questa estensione.

Motivazione dell’atto: l’avviso deve contenere la descrizione dei fatti, delle ragioni giuridiche e degli esiti dell’istruttoria. Negli accertamenti internazionali, la motivazione spesso richiama il PVC e può essere corposa. Ad esempio, in caso di esterovestizione, l’atto citerà: “visto l’art.73 TUIR e l’art.5-bis, considerato che la società ha sede legale in X ma abbiamo rilevato Y, Z elementi che provano la direzione in Italia, si ritiene la società residente ai fini fiscali in Italia e si accertano maggiori IRES per tot”. Oppure per CFC: “avendo verificato che la controllata estera in paese Black list presenta ETR del 5% (<15%) e redditi di natura passiva, ai sensi art.167 si imputano al socio gli utili pari a…”.

Se l’avviso non è adeguatamente motivato o non indica le prove su cui si fonda, può essere affetto da nullità. Tuttavia, negli ultimi anni gli Uffici sono abbastanza diligenti nel motivare, anche allegando parte del PVC. Il contribuente, una volta ricevuto l’avviso, ha varie strade: accettarlo (e pagare) oppure attivare strumenti di definizione pre-contenziosa o presentare ricorso.

Difesa in fase pre-contenziosa (definizione e adesione)

Prima di impugnare l’atto in Commissione, il contribuente può valutare la via deflattiva del contenzioso. Le opzioni includono:

  • Accertamento con adesione: può presentare istanza di adesione, ottenendo la sospensione dei termini di ricorso e avviando un contraddittorio con l’Ufficio per raggiungere un accordo transattivo sulle somme dovute. Nel campo di utili esteri, l’adesione è possibile ma dipende dalla negoziabilità dei rilievi. Ad esempio, su un recupero da transfer pricing le parti potrebbero trovare un valore di compromesso del margine; su una contestazione di esterovestizione, l’ufficio potrebbe accordare la non applicazione di sanzioni se il contribuente accetta di versare le imposte. Con l’adesione, si ottiene la riduzione delle sanzioni amministrative a 1/3.
  • Acquiescenza all’accertamento: se non si vuole (o non conviene) contestare, pagando le somme dovute entro termini ridotti si può beneficiare di sanzioni ridotte a 1/3. Questo in genere se il contribuente riconosce la fondatezza del rilievo o se teme di peggio andando in causa. Ad esempio, se uno ha effettivamente omesso volontariamente di dichiarare redditi esteri, potrebbe preferire chiudere con acquiescenza piuttosto che prolungare la vicenda (valutando però anche l’effetto penale: attenzione che l’acquiescenza non estingue il reato, solo il pagamento integrale prima del dibattimento lo fa – come vedremo dopo).
  • Mediazione tributaria: per le liti di valore fino a €50.000 (importo del tributo contestato al netto interessi e sanzioni), è obbligatorio proporre reclamo-mediazione prima del ricorso. Nel contesto internazionale, è raro che le contestazioni abbiano importi così modesti, ma può capitare per soggetti piccoli (es. una persona fisica con investimento estero di piccola entità). In sede di mediazione, l’ente (Agenzia) può accordare sconti su sanzioni e una definizione agevolata.

Questi istituti vanno valutati attentamente con consulenti e magari con un approccio negoziale: a volte l’Ufficio è disposto a chiudere per evitare l’incertezza del giudizio (specie su questioni tecniche come transfer pricing dove l’esito non è scontato). Altre volte invece tiene il punto, specie se il caso ha profili importanti o volano (per es. casi di elusione macroscopica). È anche possibile che parallelamente il contribuente scelga di aderire per alcune annualità e litigare per altre, o aderire su alcuni rilievi e non su altri (se l’avviso contiene più riprese).

Se la fase pre-contenziosa non porta a una definizione integrale, il contribuente dovrà allora prepararsi al ricorso giurisdizionale.

Ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria (primo grado)

Dal 2023, le Commissioni Tributarie sono state ridenominate Corti di Giustizia Tributaria a seguito della riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria. La Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (CGT I grado) corrisponde alle vecchie Commissioni Provinciali. Il contribuente entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (o 150 se ha presentato adesione nel frattempo) deve notificare il ricorso all’Ufficio emittente e poi depositarlo presso la Corte competente (tipicamente, quella della provincia del suo domicilio fiscale).

Il ricorso è l’atto introduttivo con cui si espongono i motivi di impugnazione: sia motivi di diritto (errori nell’applicazione della norma, illegittimità dell’atto) sia motivi di fatto (contestazione della ricostruzione fattuale). Nel nostro tema, possibili motivi di ricorso possono essere, ad esempio:

  • Vizio di motivazione o difetto di istruttoria: ad esempio “l’avviso è nullo perché non spiega sufficientemente la base della ripresa a tassazione, né allega i documenti raccolti”; oppure “l’Ufficio non ha tenuto conto di elementi decisivi forniti dal contribuente in sede precontenziosa” (omesso esame di fatti decisivi).
  • Errata interpretazione normativa: es. “l’Agenzia ha applicato l’art.167 CFC ma in realtà la società estera non rientrava nei parametri di legge (non era controllata al >50%, oppure era in UE con attività economica effettiva)”; oppure “non sussistono i presupposti di esterovestizione perché la sede di direzione effettiva non è in Italia in base ai criteri legali, a nulla rilevando l’ottica penalizzante adottata dall’Ufficio” (magari citando la Cass. 1883/2023 sulla differenziazione UE/extraUE).
  • Errata valutazione probatoria: es. “L’ufficio ha inferito l’interposizione fittizia da elementi non gravi né concordanti; in realtà la società estera aveva sostanza economica (ecco le prove: personale, uffici, ecc.)”; oppure “i comparables usati per il transfer pricing non sono omogenei, il che invalida la ripresa”.
  • Violazioni procedurali: mancato contraddittorio (se eccepibile come obbligatorio), decadenza dei termini (se l’atto è tardivo e non giustificato da raddoppio, o se si ritiene il raddoppio illegittimo in un caso – ad esempio se il reato ipotizzato era insussistente), difetto di sottoscrizione valida dell’atto, ecc.

Nel giudizio tributario di primo grado, valgono regole processuali peculiari: l’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa è in capo all’Amministrazione finanziaria, ma il contribuente deve provare eventuali fatti esimenti o modificativi (per esempio, provare che la controllata estera ha attività economica reale se vuole sottrarsi alla CFC, prova contraria in ambito presunzioni). Il processo si svolge tendenzialmente in forma scritta, ma è prevista un’udienza pubblica in cui le parti possono discutere (specialmente per casi complessi, è utile farsi rappresentare e spiegare al collegio tecnico i punti nodali, magari con l’ausilio di memorie illustrative).

La CGT di primo grado emette quindi una sentenza, che può essere di accoglimento totale (annulla l’avviso), accoglimento parziale (rideterminando ad esempio il maggior imponibile in misura minore) oppure rigetto (conferma l’atto). Nel rendere la decisione, il giudice tributario può basarsi su presunzioni semplici fornite dall’Ufficio, purché le giudichi gravi, precise e concordanti. Ad esempio, se l’Ufficio porta 5 elementi a supporto dell’esterovestizione (sede legale in stanzina all’estero, amministratori italiani, decisioni prese in Italia, ecc.), il giudice li valuta nel complesso: se li trova coerenti, darà ragione al Fisco, a meno che il contribuente non li abbia superati con prove contrarie altrettanto forti.

La parte soccombente (il contribuente, se perde; oppure l’ente impositore, se perde) può decidere di appellare.

Appello e giudizio di secondo grado

Il giudizio di appello avviene davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale), tipicamente quella della regione ove ha sede l’ufficio che ha emesso l’atto. I termini per l’appello sono di 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. In appello si possono riproporre i motivi non accolti, contestare le argomentazioni della sentenza ed eventualmente portare nuovi motivi se emersi da documenti noti dopo (ma in generale l’appello ha natura di “revisio prioris instantiae”, quindi tendenzialmente rivede quanto già trattato).

Nelle controversie tributarie, non è più sospesa la riscossione per il solo fatto di appellare: dopo il primo grado, se il contribuente ha perso, deve pagare 2/3 delle imposte (e relativi interessi) a titolo provvisorio, salvo chiedere e ottenere una sospensione dall’autorità (cosa non facile). Quindi la posizione finanziaria va considerata.

Il giudizio d’appello rivede il merito e il diritto: in questa sede, spesso i nodi giuridici assumono rilievo, e può capitare che una controversia di transfer pricing, ad esempio, venga risolta in appello con CT Reg che si uniformano a orientamenti di Cassazione maturati nel frattempo (visto i tempi lunghi). Ad esempio, se tra primo e secondo grado esce una sentenza di Cassazione epocale su CFC (come quella del 2025 sul momento di tassazione ), il contribuente in appello la porterà come nuovo elemento interpretativo a suo favore.

La Corte di secondo grado emette anch’essa sentenza, e se conferma la decisione di primo grado, la pretesa diventa in gran parte definitiva (salvo eventuale ricorso per Cassazione, limitato però a motivi di legittimità). Se invece riforma, la vicenda può chiudersi (se accoglie integralmente l’appello del contribuente annullando l’atto) o modificarsi (accoglimento parziale, ecc.).

Ricorso per Cassazione

L’ultimo grado è la Corte di Cassazione, cui si può ricorrere entro 60 giorni dalla notifica della sentenza d’appello (o 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata). In Cassazione si possono far valere solo motivi di legittimità: violazioni di legge, vizi di motivazione ultra-limits (secondo la riforma del 2012 la motivazione è censurabile solo se manca del tutto o è insanabilmente contraddittoria su un fatto decisivo discusso).

In questioni tributarie complesse come quelle internazionali, è piuttosto comune arrivare fino alla Cassazione, poiché spesso sono in gioco principi e interpretazioni di legge (es: come interpretare la norma CFC, se un certo comportamento integra abuso del diritto, come ripartire oneri probatori, ecc.). Abbiamo già citato diverse pronunce di Cassazione 2023-2025 su questi temi. La Cassazione può decidere rigettando il ricorso (quindi consolidando la decisione di secondo grado) oppure accogliendolo, in tutto o in parte. L’accoglimento in genere comporta la cassazione con rinvio ad altra sezione della CGT di secondo grado, che dovrà uniformarsi ai principi enunciati dalla Suprema Corte. Ad esempio, Cass. 18025/2025 sul caso CFC di Singapore ha cassato con rinvio alla CTR Lombardia, affermando il principio di diritto sul momento di possesso, e ora il giudice di rinvio ricalcolerà il dovuto secondo quel principio.

Le sentenze di Cassazione – specie se Sezioni Unite o se reiterano principi consolidati – fungono da precedente autorevole che orienta gli operatori. Nel nostro campo, possiamo sintetizzare alcuni principi di diritto affermati dalla Cassazione negli ultimi anni:

  • Esterovestizione: la presenza in UE impone la prova della costruzione artificiosa, mentre fuori UE bastano i criteri di collegamento (Cass. 1883/2023); la residenza di società estera controllata da italiani si presume in Italia salvo prova contraria, e vanno valutati tutti gli indizi in modo globale (Cass. 2458/2025, Cass. 21505/2025) .
  • CFC: i redditi vanno imputati solo se il socio possedeva la partecipazione quando sono maturati (Cass. 18025/2025); la soglia di tassazione privilegiata è ora fissa al 15% (norma 2024).
  • Interposizione: irrilevante la distinzione tra interposizione simulata o reale, conta la prova della disponibilità effettiva del reddito (Cass. 8479/2025); onere sul Fisco di provare presuntivamente la fittizietà, poi spetta al contribuente fornire prova contraria.
  • Transfer pricing: art.110 c.7 va letto in chiave OCSE (L.147/2013 interpretazione autentica); preferibili comparabili interni se disponibili (Cass. 11625/2023); il giudice non può limitarsi ad affermazioni generiche ma deve esaminare concretamente la comparabilità e l’analisi svolta, altrimenti può configurarsi vizio (Cass. 23587/2023 per motivazione su TP).

Le pronunce di Cassazione, opportunamente citate, possono essere un’arma difensiva potente: un avvocato tributarista nel redigere il ricorso di merito inserirà richiami a tali sentenze per persuadere il giudice d’appello o di primo grado a seguire quell’orientamento. Parimenti, la controparte pubblica farà lo stesso con le sentenze a sé favorevoli.

Sospensione della riscossione e misure cautelari

Un accenno meritano gli aspetti di riscossione: quando c’è un accertamento, l’importo accertato (imposte, interessi, sanzioni) viene iscritto a ruolo e cartella dopo la scadenza per il ricorso, ma con percentuali diverse a seconda dello stadio:

  • In pendenza di primo grado: viene affidato a riscossione solo il 1/3 delle imposte accertate (e relativi interessi) a titolo provvisorio. Se il contribuente ottiene una sospensione cautelare dal giudice, può bloccare la riscossione di quel 1/3, ma deve provare grave e irreparabile danno oltre al fumus boni iuris. Nel nostro contesto, data la mole di importi spesso elevata, si tenta la sospensiva, ma i giudici la concedono solo se l’atto appare palesemente invalido o se la cifra è insostenibile e rischia di mandare l’azienda in crisi.
  • Dopo la sentenza di primo grado, se il contribuente perde, scatta la riscossione di 2/3 (o il residuo, se già pagato 1/3) delle imposte. Se invece aveva vinto, è l’Ufficio che può essere condannato a rifondere le somme versate (ma nelle liti internazionali di norma non c’è pagamento anticipato integrale se non dopo secondo grado).
  • Dopo la sentenza di secondo grado, se il contribuente ancora perde, diventa esigibile l’intero (salvo eventuale sospensiva in Cassazione, che però è rarissima, essendo di terzo grado).
  • Oltre alle somme, l’Agenzia potrebbe adottare misure cautelari (iscrizione di ipoteche, fermi amministrativi) se il credito è elevato e teme difficoltà di recupero. Anche sequestri per equivalente possono sorgere se vi è procedimento penale parallelo.

Dal punto di vista del debitore fiscale, è essenziale monitorare questi aspetti: a volte conviene richiedere una rateazione del dovuto provvisorio (ad esempio dei 2/3 dopo primo grado) per evitare aggressioni sul patrimonio, mantenendo comunque il contenzioso in corso. Oppure, se le somme sono altissime, valutare strumenti come la transazione fiscale nell’ambito di procedure di crisi d’impresa (se applicabile), che tra l’altro può avere effetti anche penali positivi (come visto nel caso del Tribunale di Lecco 2025: accordo di ristrutturazione del debito con pagamento parziale prima del dibattimento ha portato ad estinzione del reato).

In chiusura di questa parte procedurale, sottolineiamo come, in contestazioni così delicate e talora invasive (pensiamo a perquisizioni per cercare documenti che provino la gestione occulta, ecc.), il contribuente abbia diritto a farsi assistere da professionisti sin dall’inizio delle verifiche. Redigere verbali, rispondere a questionari, presentare memorie difensive, tutto può incidere sull’esito finale. Una distrazione o reticenza nella fase di verifica può pregiudicare poi la difesa in giudizio, e viceversa un atteggiamento collaborativo ma fermo sui propri diritti può limitare l’irrigidimento dell’Ufficio.

Strategie difensive del contribuente

Passiamo ora ad esaminare in modo sistematico come difendersi dalle contestazioni di trasferimento utili in paradisi fiscali, analizzando le diverse tipologie di contestazione già illustrate. Le strategie difensive si giocano sia sul piano fattuale (dimostrare la realtà economica delle operazioni) sia su quello giuridico-procedurale (far valere vizi dell’azione accertatrice, interpretazioni normative favorevoli, ecc.). È fondamentale impostare la difesa sin dall’inizio in modo coerente, tenendo conto anche di eventuali profili penali correlati.

Esamineremo di seguito le possibili difese specifiche per: contestazioni di esterovestizione, contestazioni CFC, rettifiche di transfer pricing, accertamenti per interposizione fittizia. Successivamente, tratteremo gli strumenti per gestire la doppia imposizione ed eventualmente attivare le tutele convenzionali. Infine, affronteremo i profili penal-tributari: come prevenire o mitigare le conseguenze penali e quali difese adottare in sede penale.

Va premesso che ogni caso è unico e richiede di adattare le strategie generali alle evidenze concrete e alla documentazione disponibile. Tuttavia, è possibile delineare alcuni principi di difesa validi trasversalmente:

  • Raccolta e produzione di prove: l’onere della prova può formalmente gravare sul Fisco per certi aspetti, ma in pratica il contribuente deve essere proattivo nel fornire evidenze a proprio favore (documenti societari, relazioni peritali, testimonianze, ecc.).
  • Coerenza e credibilità: costruire una tesi difensiva internamente coerente e supportata dai fatti è essenziale. Versioni contraddittorie o giustificazioni tardive e inverosimili rischiano di essere rigettate. Ad esempio, dichiarare in un primo momento che “la società estera è gestita all’estero” e poi emergono email che mostrano direttive dall’Italia può minare la credibilità.
  • Uso della giurisprudenza favorevole: citare sentenze di Cassazione e CTR pertinenti, evidenziando analogie col proprio caso, orienta il giudice a seguire precedenti (pur non essendovi il vincolo forte del precedente, la persuasione è importante).
  • Attenzione ai profili penali: se c’è il rischio concreto di denuncia penale, coordinare la difesa tributaria con quella penale per evitare posizioni incoerenti. In certi casi, riconoscere parzialmente l’addebito in sede tributaria (magari in un’adesione) e pagare il dovuto può essere finalizzato a chiudere il capitolo penale (art. 13 D.Lgs.74/2000 sulla non punibilità per pagamento integrale).

Vediamo ora, caso per caso, le strategie specifiche.

Difendersi da una contestazione di esterovestizione

Situazione: il Fisco contesta che la tua società (o ente) formalmente residente all’estero è in realtà fiscalmente residente in Italia, in base a indizi su sede amministrativa o oggetto principale in Italia (art.73 TUIR). Di conseguenza, vuole tassare in Italia i redditi esteri e applicare sanzioni come per omessa dichiarazione dei redditi societari.

Strategie difensive:

  • Dimostrare la sostanza estera (substance): devi fornire quanti più elementi possibile per provare che la società è effettivamente gestita all’estero. Ciò include:
  • Documentazione societaria: verbali delle assemblee e CdA tenuti all’estero (con indicazione luogo e partecipanti), registri sociali, bilanci depositati localmente.
  • Struttura organizzativa: evidenziare che la società ha amministratori e dirigenti esteri (non solo prestanome: contratti di lavoro, CV, iscrizione ad associazioni locali per far vedere il radicamento).
  • Ufficio e dipendenti: contratti di locazione di uffici all’estero, utenze, fotografie dei locali, elenco dipendenti localizzati e loro ruoli. Se la società opera davvero lì, presentare risultati: ad es. se è una società di trading, mostrare i magazzini all’estero, le consegne locali, i contratti con clienti locali.
  • Conti bancari operativi all’estero e movimenti coerenti (pagare fornitori locali, incassare clienti locali).
  • Pagamento delle imposte locali: se l’esterovestizione è contestata ma tu hai comunque pagato imposte significative all’estero, sottolinearlo. Non è risolutivo (lo abbiamo visto ), ma è un tassello a supporto dell’effettività.
  • Business rationale: predisporre una relazione che spieghi perché la sede è in quel paese (es. “mercato di sbocco principale dei prodotti”, “vicinanza a fornitori”, “legislazione societaria più adatta per…”, ecc.), insomma ragioni extra-fiscali autentiche.
  • Confutare i singoli indizi del Fisco: l’avviso elencherà magari vari punti (es: “amministratore di fatto è il sig. Rossi residente a Milano”; “sede estera è un indirizzo presso uno studio di consulenza”; “contratti conclusi in Italia”, ecc.). Bisogna rispondere a ciascuno:
  • Se contestano l’amministratore di fatto italiano: dimostrare che quella persona aveva deleghe limitate, oppure che c’erano altri manager esteri che prendevano decisioni chiave. Fornire organigrammi, email che mostrano i flussi decisionali.
  • Sede legale di comodo: se l’indirizzo estero è presso uno studio, far vedere che ciò è comune in quel paese (magari per ragioni burocratiche) e che la vera sede operativa è altrove (fornendo quell’indirizzo operativo se presente).
  • Beni in Italia: se contestano che l’azienda teneva merci o beni in Italia (come nel caso Cass.1883/2023), spiegare perché (es. contratto di consignment stock presso terzi, prassi commerciale, ecc.) e perché ciò non implica la direzione in Italia.
  • Personale italiano coinvolto: se qualche dipendente italiano svolgeva attività per la società estera, circoscriverne il ruolo (ad esempio, “il sig. Bianchi era un consulente in Italia per marketing, ma non partecipava alla gestione amministrativa” – documentare con contratto di consulenza, fatture da lui emesse).
  • Invocare libertà di stabilimento se UE: se il caso riguarda società in UE, far valere la giurisprudenza comunitaria: ribadire che trasferirsi in un altro Stato UE per usufruire di aliquote minori è lecito salvo artificiosità. Quindi sostenere: “La mia società ha effettiva attività in [paese UE] e comunque anche se l’intento fiscale fosse presente, va provato che è una costruzione di puro artificio. Nel caso di specie, l’Ufficio non lo ha dimostrato.” Citare Cadbury Schweppes (C-196/04) e Cass. 1883/2023 a supporto.
  • Attenzione: se il paese è considerato cooperativo (es. Malta, Lussemburgo ecc.), sottolinearlo per ridurre l’alone negativo. Il Fisco spesso gioca sul presentare la giurisdizione come “paradiso”, ma se è un paese UE “normale”, evidenzia che la tua presenza lì non può essere automaticamente sospetta.
  • Dimostrare errore di diritto nella presunzione: se l’Agenzia ha applicato la presunzione art.73 c.5-bis (controllo italiano = presunzione residenza), prova a contestare che i requisiti non sussistono:
  • Ad esempio, se la società estera non detiene partecipazioni in società italiane (il 5-bis infatti parla di società estera che detiene partecipazioni di controllo in soggetti di cui a lettere a) e b) art.73, quindi in società italiane), allora la presunzione non si applica. Spiega se la struttura è inversa (italiana controllata da estera, non il contrario).
  • Oppure se non c’è controllo di soggetti italiani, o se il controllo da parte di italiani non è configurabile (ad esempio, la società estera è posseduta da persone fisiche italiane ma non controlla società italiane – qui 5-bis non calza letteralmente se non ha controllate italiane).
  • Se invece la presunzione formalmente si applica, l’unica è fornire la prova contraria: che malgrado i due indici (controllo italiano e board italiano), la residenza effettiva non è in Italia. Questa prova contraria coincide con quanto detto sopra sulla sostanza estera.
  • Eccepire vizi procedurali se presenti: ad esempio, se non è stato attivato il contraddittorio in un caso in cui doveva (questione dibattuta: per ora in ambito imposte dirette il contraddittorio non è obbligatorio generalizzato, ma in materia di dazi e IVA sì; tuttavia alcune CTR hanno annullato accertamenti per mancato contraddittorio anche in elusione). Tentare questa carta se applicabile: non hai avuto modo di spiegarti prima che uscisse l’atto? Sottolineare la complessità della materia e la necessità che l’Agenzia ascoltasse la tua versione (magari cita anche Cass. SU 24823/2015 sul contraddittorio obbligatorio in ambito di tributi armonizzati, per analogia).
  • O ancora, se la delega di firma del funzionario che ha firmato l’avviso è invalida, ecc. (controlli formali tipici).
  • Strategia “offensiva”: talvolta, se la posizione difensiva è debole sul merito, può convenire puntare a ridurre il danno. Ad esempio, se capisci che probabilmente sarà confermata la residenza in Italia, cerca almeno di evitare sanzioni piene o anni ulteriori:
  • Mostra che hai pagato qualcosa all’estero per chiedere l’applicazione dell’art.8 D.Lgs.471/97 (attenuante per versamenti effettuati all’estero). Le sanzioni da omessa dichiarazione possono essere ridotte se su quei redditi hai scontato già un’imposizione fuori.
  • Chiedi la non applicazione di sanzioni per obiettiva incertezza normativa, specie se parliamo di casi borderline UE (poco probabile ma tentabile).
  • Oppure sfrutta norme di definizione agevolata se ce ne sono (nel 2023-2024 c’erano rottamazioni, conciliazioni agevolate in appello, ecc.).

In definitiva, la difesa sull’esterovestizione è una battaglia sulle prove: più riesci a dipingere un quadro credibile di un’azienda veramente all’estero, maggiori chance di successo. Viceversa, se la società estera era palesemente un guscio vuoto, conviene esplorare soluzioni transattive perché in giudizio sarà arduo prevalere contro un fascio di indizi convergenti.

Difendersi da una contestazione CFC (utili di controllata estera)

Situazione: l’Agenzia contesta al socio residente (persona fisica o società italiana) di non aver dichiarato nella propria base imponibile i redditi di una società controllata estera a fiscalità privilegiata, in violazione dell’art. 167 TUIR. Tipicamente arriva un accertamento che aumenta il reddito imponibile italiano di X (quota di utili della controllata), più imposte e sanzioni (spesso infedele dichiarazione).

Strategie difensive:

  • Negare la condizione di controllo rilevante: verifica innanzitutto se formalmente esiste il controllo come definito dalla norma. Art. 167 rimanda all’art. 2359 c.c. (controllo di diritto >50% dei voti, controllo di fatto, influenza dominante). Se la tua partecipazione era minoritaria, puoi sostenere che non c’è controllo (es. detenevi 30% di una JV in Hong Kong – in tal caso la CFC rule potrebbe non applicarsi se non hai poteri di controllo). Mostra assetti societari, patti parasociali se negano il controllo.
  • Attenzione, conta anche il controllo indiretto: se possiedi attraverso altre società, va considerato. Ma se ad esempio sei socio di minoranza di una holding estera con altri non residenti che hanno la maggioranza, potresti non avere controllo.
  • Se persona fisica, il controllo può essere attribuito anche per legami familiari (se tu e tuoi familiari possedete cumulativamente >50%). Quindi valuta bene se isolatamente no ma con familiari sì.
  • Verificare la lista dei paesi white/black: in passato la norma CFC aveva una black list di Stati considerati a fiscalità privilegiata. Oggi è criterio percentuale (<15% ETR). Comunque, controlla se il paese della tua controllata era effettivamente considerato a fiscalità privilegiata nell’anno di riferimento:
  • Ad esempio, la norma 2019-2023 considerava “privilegiato” se tassazione <50% di quella italiana e redditi per >1/3 passivi. Se la tua controllata non superava quel test (magari pagava imposte pari a 60% di quelle italiane teoriche), potresti dire: non era CFC. Servirà una simulazione con aliquote e imponibile.
  • Dal 2024, soglia 15%: se la tua controllata ha pagato ad esempio il 18% di tax rate, è esclusa.
  • Documenta l’Effective Tax Rate: estrai il bilancio estero, calcola imposte su utile. Se viene >15%, portalo come evidenza che non c’è fiscalità privilegiata (magari allegando parere di un commercialista locale sul tax rate).
  • Argomentare sull’attività economica effettiva (esimente): questo è l’argomento principe se la controllata è in UE/SEE o in un paese con scambio info. Devi dimostrare che la società estera:
  • ha un’organizzazione economica propria (uffici, personale, attrezzature) e
  • svolge un’attività industriale/commerciale effettiva non rivolta meramente a passivamente incamerare redditi.

In pratica è simile alla difesa contro l’esterovestizione ma qui l’obiettivo non è negare la residenza in Italia (la controllata è estera e tale resta), bensì mostrare che non è un’entità artificiale creata solo per la tassazione agevolata. Ad esempio: – Se possiedi una fabbrica in Tunisia: mostra che lì c’è uno stabilimento, operai, produzione destinata a vari mercati, ecc. E spiega che se gode di un tax holiday locale, ciò è accessorio a un investimento reale. – Se è una società di servizi finanziari: più complicato, ma se ha effettiva sede a Singapore con traders locali, contratti con clienti terzi, evidenzia la sostanza.

Questa dimostrazione, se convincente, può portare all’inapplicabilità della CFC rule. Bisogna magari ricorrere a perizie di società di revisione o consulenti che attestino parametri di sostanza (es. indicatori di substance test).

  • Quantificazione del reddito CFC: contestare l’ammontare imputato. Spesso l’ufficio prende l’utile risultante dal bilancio estero. Potresti eccepire:
  • Che quell’utile estero era stato già tassato in parte in Italia come dividendo (in casi peculiari).
  • Oppure che l’utile andrebbe rettificato per differenze di criteri fiscali (le norme permettono di rideterminare secondo regole italiane se necessario). Se sai che il bilancio estero include componenti non imponibili o minusvalenze non deducibili, etc., potresti ricalcolare un reddito inferiore.
  • Anche qui, l’onere in principio è del Fisco, ma meglio portare tu un calcolo alternativo se ritieni l’Ufficio abbia sbagliato conversione valute o altri dettagli.
  • Aspetti procedurali:
  • Se la contestazione CFC riguarda un paese con trattato, potresti contestare che l’Italia sta tassando redditi esteri in violazione della convenzione. In verità la Cassazione ha sempre rigettato questa tesi perché considera l’imputazione CFC come tassazione del socio su redditi suoi (non della società estera), quindi i trattati non proteggono, specie dopo che l’articolo sulle imposte sulle società di solito non copre queste fattispecie. Tuttavia, in dottrina c’è chi dibatte di possibili conflitti convenzionali. Poco utile in giudizio, ma da valutare in casi limite (es: convenzione che non consente espressamente CFC).
  • Contraddittorio: se l’avviso è arrivato senza darti modo di illustrargli che la CFC era reale, lamentare la mancata apertura di confronto (non risolutivo ma segna punto).
  • Sanzioni e reati: la contestazione CFC di solito ricade in dichiarazione infedele. Verifica soglie penali: >€150k imposta evasa e >10% ricavi. Se l’imposta su quei utili supera 150k e costituivano più del 10% dei redditi dichiarati, allora potresti avere un problema penale. In tal caso, considera:
  • Pagare il dovuto (imposte + interessi + sanzioni) prima possibile, per attivare l’art.13 D.Lgs.74/2000 ed evitare la punibilità. Se sei ancora in tempo (prima che si apra dibattimento penale).
  • Questo pagamento può avvenire anche con adesione (ti fai conteggiare il dovuto e paghi).
  • Sul piano amministrativo, se paghi integrale spontaneamente c’è riduzione sanzioni a 1/3 (ravvedimento operoso entro avviso) oltre all’effetto penale estintivo.
  • Se invece contesti in giudizio, sappi che una pendenza penale parallela potrebbe portare a sequestro preventivo sui beni pari all’imposta evasa (profitto del reato). Ciò rende importante anticipare eventuali mosse: patteggiare, chiedere messa alla prova, ecc. (questo esula un po’, ma fa parte della strategia integrata).
  • Evitare la doppia tassazione effettiva: se malauguratamente hai già pagato imposta all’estero sugli utili e ora devi pagarla in Italia, assicurati di chiedere il credito d’imposta per l’imposta estera (art.165). L’Ufficio dovrebbe concederlo d’ufficio, ma meglio sollevare la questione. Cassazione ha affermato che la tassazione per trasparenza “esaurisce il prelievo in relazione a quel reddito”, quindi la successiva distribuzione non deve essere tassata di nuovo. Usa questo concetto in tuo favore: se percepirai dividendi già tassati, chiedi che vengano esclusi.

In conclusione, la difesa CFC ruota attorno al provare che la società estera o non doveva proprio rientrare (niente controllo o niente low tax) o che, se rientrava, è un caso escluso per attività genuina. In subordine, cercare di ridurre l’impatto economico mostrando magari che gli utili erano minori. E, se appare inevitabile la sconfitta, considerare soluzioni transattive in adesione con mitigazione sanzioni (anche per considerazioni penali).

Difendersi da contestazioni di transfer pricing (prezzi infragruppo)

Situazione: l’Agenzia delle Entrate, magari a seguito di verifica, contesta che i prezzi applicati tra la società italiana e la consociata estera (in paradiso fiscale o comunque a bassa tassazione) non siano di mercato, determinando una rettifica: in genere, aumentano i ricavi imponibili o riducono i costi dedotti in Italia, con maggiori imposte IRES/IRAP e sanzioni (infedele dichiarazione se sopra soglie).

Strategie difensive:

  • Documentazione di Transfer Pricing come prima linea: se avevi predisposto il Masterfile e la Documentazione Nazionale per quegli anni, assicurati di averne dato comunicazione barrando l’apposita casella in dichiarazione. In caso affermativo, enfatizza subito che hai diritto alla non applicazione delle sanzioni in base al Provvedimento 2020 e all’art. 1, c.6, D.Lgs.471/97. Ciò non elimina il recupero di imposta, ma toglie il peso delle sanzioni (che spesso sono 100% dell’imposta). È un punto a tuo favore che il giudice terrà presente (mostra compliance).
  • Se l’ufficio contesta anche la validità della documentazione (dicendo che è inidonea), difendi la qualità di essa: ad esempio, era conforme alle linee guida, è stata consegnata tempestivamente, etc. Spiega che magari differenze di opinione sul metodo non significano inidoneità.
  • Attacco sul metodo e sui comparabili dell’Ufficio: esamina in dettaglio come l’Agenzia ha calcolato l’aggiustamento:
  • Che metodo ha usato (CUP, TNMM, etc.) e perché potrebbe non essere appropriato. Ad esempio, se ha usato un confronto di margine netto (TNMM) a livello azienda, e tu ritieni che un altro metodo (CUP su prodotto) fosse più accurato, sottolinealo.
  • Quali comparables ha scelto: sono davvero comparabili? Spesso il fisco usa database per trovare aziende simili; i tuoi consulenti potrebbero trovare differenze (diversa zona geografica, diversa dimensione, funzioni non comparabili). Porta analisi alternative: “Le società prese a paragone operano in mercati diversi/regolamentati, dunque i margini non sono confrontabili”.
  • Periodo di riferimento: a volte confrontano anni non coincidenti (es. pricing di anni differenti). Se c’è stato shock di mercato (crisi economica, oscillazioni valutarie), evidenzia che i dati di comparazione vanno normalizzati.
  • Presentare un’analisi di TP difensiva: se non l’avevi già, in causa porta una perizia di parte sul transfer pricing. Ad esempio, incarica un consulente esperto (un economista forense) di rifare il calcolo degli arm’s length range, magari aggiungendo comparables che l’AE ha ignorato. Se la tua perizia mostra che il prezzo applicato stava comunque nel range di libera concorrenza, questo è un ottimo argomento per annullare la rettifica (o ridurla).
  • Anche se non raggiungi proprio il risultato, la perizia può convincere la Corte che la materia è dubbia e interpretativa, e quindi optare per una soluzione di mezzo.
  • Ricorda: Cass. 11625/2023 ha detto preferibili comparabili interni. Se ne avevi (ad es. vendi lo stesso prodotto anche a terzi indipendenti): se il Fisco non li ha considerati, tu evidenziali. “Guardi, Giudice, noi vendevamo a terzi a prezzo X, venduto alla consociata a X-5% per ragioni di volume. Quindi non c’è abnormità, è entro logica commerciale.”
  • Motivazione dell’avviso: in diversi casi i giudici annullano accertamenti TP perché motivati in modo insufficiente (ad es. “non hanno spiegato perché hanno scelto quel margine e scartato altri comparables”). Se trovi lacune nella motivazione (mancata esposizione di calcoli, omissione di ragionamento su obiezioni che avevi mosso), fallo presente come motivo di illegittimità.
  • Per esempio, avevi in contraddittorio proposto un diverso comparabile e l’ufficio lo ha ignorato senza spiegare? Scrivilo nel ricorso, perché ciò può configurare difetto di motivazione/istruttoria.
  • Dimostrare ragioni economiche dei prezzi: spiega perché hai applicato quel prezzo basso/alto:
  • Forse la consociata estera si assumeva funzioni extra (distribuzione, magazzino) che giustificano darle un margine maggiore. Porta analisi di functional analysis (chi fa cosa, chi assume rischi, chi possiede asset).
  • Se la tua società italiana era semplicemente un contract manufacturer (produttore a contratto) con rischio limitato, è normale che margine sia basso e la consociata (che magari vende globalmente) abbia margine alto. Argomenta sul modello di business del gruppo.
  • In altre parole, cerca di allineare la tua politica di TP a un modello riconosciuto (cost plus, resale minus, etc.), mostrando coerenza.
  • Questioni convenzionali: se c’è trattato contro doppia imposizione con l’altro paese, potresti segnalare che c’è in corso (o che attiverai) un MAP per eliminare la doppia tassazione. Questo non ferma il contenzioso, ma potrebbe predisporre il giudice a una soluzione equa sapendo che c’è un negoziato internazionale. Non è un vero argomento legale, ma di contesto.
  • Penale: il transfer pricing in sé raramente è configurato come reato fraudolento (difficile dire che è artificio fraudolento a meno di documenti falsi). È più spesso infedele dichiarazione se i numeri superano soglie. Quindi soglia evasa >150k, >10% ricavi.
  • Se c’è rischio penale, valga quanto detto: valutare pagamento integrale per non punibilità. Ma qui c’è l’alea che tu stai dicendo “il prezzo era corretto”, pagare contraddice un po’. Dovrai bilanciare: magari se le evidenze ti sono sfavorevoli, paghi e chiudi la parte penale, e poi sul residuo contenzioso cerchi di recuperare qualcosa mostrando buona fede (difficile però).
  • Notare che l’art.4 D.Lgs.74/2000 (infedele) esclude la punibilità se la divergenza deriva da valutazioni di TP diverse tra contribuente e Fisco. Infatti, come indicato da Itaxa, la riforma 2015 ha stabilito che “ai fini del calcolo dell’imposta evasa non si tiene conto delle valutazioni in materia di transfer pricing se la differenza con quelle corrette è entro il 10%”. Questo può essere un argomento: se la differenza di prezzo è piccola percentualmente, potresti dire che rientra in quell’alveo di incertezza valutativa non punibile. Penalmente potrebbe salvarti; amministrativamente l’accertamento rimane ma magari può convincere di ridurre sanzioni (perché effettivamente la legge riconosce che sul TP c’è margine di opinabilità).

Riassumendo, la difesa TP è molto tecnica: devi parlare il linguaggio dei numeri e dei metodi. Spesso è utile anche chiedere al giudice la nomina di un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU), se la vertenza lo permette, per avere un’analisi imparziale. Non sempre i giudici lo dispongono, ma in casi complicati potrebbe. In definitiva, se hai ragione sostanziale la devi far emergere con chiarezza; se sei in torto marcio (ad esempio applicavi prezzi del tutto irrealistici), conviene trovare un accordo prima o in corso di causa per limitare i danni.

Difendersi da contestazioni di interposizione fittizia

Situazione: ti viene contestato che certi redditi o disponibilità economiche, formalmente di un altro soggetto (società estera, trust, parente, ecc.), in realtà sono tue, e quindi dovevi dichiararle tu. Il caso classico: avevi fatto transitare una plusvalenza su una società offshore, o tenuto soldi su un conto intestato a un prestanome.

Strategie difensive:

  • Negare la disponibilità effettiva: la chiave è convincere che davvero quei redditi non erano nella tua disponibilità. Ad esempio, se dicono che la plusvalenza X (derivante da cessione azioni) è tua e non della società estera Y:
  • Mostra che la società Y aveva propri soci (oltre a te) e che quei soldi sono rimasti a Y, usati per investimenti di Y, non girati a te. Se ad esempio i proventi sono stati reinvestiti in un progetto all’estero, documentalo (bilanci di Y post-transazione).
  • Se tirano in ballo un tuo famigliare (es. “i conti a nome di tua madre li usavi tu”), devi far testimoniare tua madre (se possibile) che i soldi erano propri e li gestiva lei e tu non c’entri. Attenzione però, testimonianze in tributario sono ammesse solo se riprodotte per iscritto come dichiarazioni rese in altra sede o se sono parte del materiale probatorio (ad es. verbali).
  • Fornisci spiegazioni alternative per eventuali evidenze: es. l’Agenzia vede che dal conto estero intestato a Tizio è partito un bonifico su un tuo conto: tu spiega che era un prestito o una restituzione debito (se hai pezze giustificative).
  • Legittimità dell’intestazione: se l’interposto era un soggetto con vita propria, sottolinea la legalità della struttura: ad esempio, avevi costituito un trust per protezione patrimoniale, poi venduto l’azienda e i soldi sono nel trust. Argomenta che, secondo la legge, un trust opaco estero non attribuisce redditi al disponente fino a distribuzione (ci sono sentenze a favore su trust non interposti).
  • Cass. 9096/2025 ha fissato limiti sull’uso di trust esteri: se mantieni controllo, è interposto. Devi dimostrare che non controllavi più quel trust: magari c’era un trustee indipendente, e tu non eri beneficiario in vita, etc.
  • Insomma, se la struttura è genuina, fai leva sul rispetto formale: “il trust è stato riconosciuto dalle autorità del paese X, e secondo quell’ordinamento i beni non sono miei. Non vi è prova che io ne abbia goduto i frutti fino ad ora, quindi tassare me ora è prematuro.”
  • Smontare le prove presuntive: l’Amministrazione avrà citato indizi: es. “il contribuente aveva delega sul conto dell’interposto” oppure “il soggetto interposto non aveva capacità economica per quell’operazione” ecc. Devi replicare puntualmente:
  • Delega su conto: spiega il perché (ad es. “avevo delega sul conto di mia madre solo per aiutarla a operare online, ma non l’ho mai usata se non su sua istruzione” – se riesci, procurati estratti e mostra che i bonifici erano coerenti con spese della madre, etc.).
  • L’interposto era nullatenente prima: spiega se c’era un contratto tra voi (magari un loan agreement per cui tu prestavi fondi alla società estera? Allora c’era un debito, non erano tuoi redditi ma rimborso di un debito?). Spiegazioni creative ma supportate da atti scritti e date certe sono necessarie.
  • Se l’interposto è l’ex coniuge come nel caso Cass.8479/2025, quell’ex può dire “io non sapevo nulla, non ho beneficiato”. Quindi tu (coniuge principale) potresti addossarti tutta la responsabilità e scagionare l’altro per ridurre il fronte (come successo, hanno cassato su di lei per riesaminare la sua posizione). Non è bello da dire, ma a volte salvare il prestanome riducendo la sua compartecipazione può limitare la pretesa su di te (in quell’esempio, la donna faceva scudo col 40% dei redditi, togliendolo tocca a lui il 100%, però può darsi che lui volesse così per togliere lei).
  • Limiti giuridici all’interposizione: il potere del fisco di riqualificare ex art.37 c.3 DPR 600/73 è ampio, ma devi verificare ad esempio se quell’articolo era richiamato nell’atto (devono motivare l’uso della norma anti-interposizione). Se non lo hanno fatto chiaramente, potresti dire che l’avviso è carente di motivazione perché non spiega la norma applicata per imputarti redditi altrui.
  • Inoltre, va rispettato un contraddittorio con l’interposto? Se l’interposto è anch’egli contribuente italiano (es. tu e tua moglie), l’Ufficio dovrebbe accertare coerentemente in capo a entrambi. Non può tassare due volte lo stesso reddito (cioè a te e all’altro). Se l’ha fatto, evidenzia la duplicazione. Se non ha accertato sull’interposto (perché è estero o nullatenente), allora loro puntano solo su di te – nulla da fare se è estero, ma se fosse soggetto italiano e hanno ignorato lui, può essere vizio? Poco probabile, di solito scelgono il bersaglio con capienza.
  • Accordi tra le parti: se c’erano accordi scritti tra te e l’interposto (fiduciari, mandati, procure) e ti favoriscono, portali. A volte però tali accordi svelano la simulazione, attento. Se c’è una scrittura privata dove l’interposto dichiara di agire in tuo nome, quello è un boomerang (fornisce la pistola fumante al Fisco). Se esiste ed è nota, inutile difendersi, conviene ammettere la simulazione e puntare a sanzioni minori (magari ravvederti tardivamente).
  • Profili penali: l’interposizione si traduce spesso in dichiarazione infedele o omessa (se proprio non hai dichiarato nulla). Se è dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art.3 D.Lgs.74) dipende dall’uso di mezzi fraudolenti. Una società estera come schermo potrebbe configurare art.3 (considerato “altro artificio”? la giurisprudenza è altalenante, ma potrebbe in casi di frode elaborata). Se contestano penalmente l’art.3, soglia di €30k imposta evasa e condotta fraudolenta.
  • Anche qui, la causa di non punibilità per integrale pagamento si applica (art.13). Valuta il pagamento se ti è possibile. L’obiettivo primario in penal-tributario è evitare condanne (che possono essere pesanti: art.3 prevede 2-8 anni reclusione).
  • In parallelo, cerca se del caso un patteggiamento o richiesta di messa alla prova se i fatti lo consentono (questo dipende dalla strategia penale).
  • Dal punto di vista tributario, il pagamento integrale può far cessare il sequestro eventuale e ridurre sanzioni.

In sintesi, per difendersi dall’interposizione devi convincere i giudici che quell’apparenza corrispondeva alla realtà, cioè che davvero quel reddito non era tuo (o comunque non ancora tuo). Non è semplice se l’evidenza indica diversamente. Quando la difesa nel merito è debole, un approccio pragmatico può essere cercare un accordo con l’ufficio: in certe situazioni di interposizione (specie se penalmente rilevanti), l’Agenzia potrebbe accettare un patteggiamento fiscale (accertamento con adesione) con sanzioni ridotte se paghi, anche per facilitare la definizione penale. Questo però dipende dalla fase (in istruttoria è più fattibile, a contenzioso avanzato meno).

Strumenti per evitare la doppia imposizione e risolvere controversie internazionali

Una volta impostata la difesa sul merito delle contestazioni, il contribuente deve anche preoccuparsi di eliminare eventuali doppie imposizioni sui medesimi redditi e utilizzare gli strumenti internazionali a sua disposizione. Sebbene l’Amministrazione italiana tenda a tassare e basta, il contribuente può parallelamente attivarsi presso lo Stato estero coinvolto.

  • Credito per le imposte estere (art.165 TUIR): come già accennato, se i redditi contestati sono stati tassati anche all’estero, hai diritto al credito d’imposta italiano nei limiti della quota di imposta italiana proporzionalmente riferibile a quei redditi. In pratica, se hai pagato 10 di tassa estera su un reddito e l’Italia su quel reddito preleva 20, pagherai 10 (20-10). Questo va richiesto al giudice se l’Ufficio non l’ha concesso. Potresti dover documentare l’imposta estera pagata (certificato dell’autorità fiscale estera).
  • Attenzione: se non hai ancora pagato nulla all’estero (perché magari c’è un contenzioso anche là), il credito sarà sub judice. In sede di adesione, a volte si inserisce clausola che se paghi poi all’estero, l’Italia ti rimborsa, ma è complicato. Nel contenzioso, il giudice può sospendere parzialmente in attesa di definizione estera. Comunque solleva il tema per evitare silenzio su doppio carico.
  • Mutual Agreement Procedure (MAP): se c’è un Trattato vigente con lo Stato estero e la questione rientra tra quelle copribili (transfer pricing e doppie residenze sì, CFC di solito no se paradiso fiscale senza trattato, ovviamente), puoi presentare istanza di MAP al Ministero delle Finanze – Dip. Relazioni Internazionali, entro i termini (in genere 3 anni da primo accertamento). Nel ricorso tributario puoi informare la Corte di aver attivato la MAP. Il giudizio può comunque proseguire, ma potresti chiedere di sospendere il processo per conciliazione extragiudiziale qualora le trattative MAP siano in corso avanzato. La sospensione richiede accordo tra le parti in causa, non automatica.
  • Se il MAP arriva a soluzione (es. lo Stato estero accetta di esentare quell’utile perché l’Italia lo tassa, o viceversa), allora potrai perfezionare una conciliazione fuori udienza col fisco italiano recependo l’esito (oggi con la Dir.1852/2017 se c’è accordo va eliminata doppia imposizione).
  • Arbitrato internazionale ed EU Arbitration Convention: in ambito transfer pricing, la Convenzione Arbitrale 90/436/CEE prevede arbitrato obbligatorio se in 2 anni non c’è accordo. La direttiva 2017/1852 estende l’arbitrato a tutti i casi di doppia imposizione su redditi. Questi strumenti garantiscono che, almeno in ultimo, uno dei due Stati cederà. Perciò, se il tuo caso è palesemente doppia imposizione (tipo aggiustamento TP non riconosciuto dall’altro Stato), falli valere per rassicurare il giudice che mantenere la doppia imposizione non è accettabile.
  • Transazione Fiscale in procedure concorsuali: se l’azienda è in crisi e sottoposta a concordato preventivo o ristrutturazione, puoi includere il debito tributario in una transazione ex art.182-ter L.F. (oggi Codice Crisi art.63). Un accordo di ristrutturazione che riduca il debito tributario (come nel caso di Lecco 2025 per IVA) può avere effetti anche sul piano penale (riduzione confisca, e se paghi quota ridotta come da accordo, un giudice penale ha considerato ciò sufficiente per la causa di non punibilità). Questo è un caso particolare ma da conoscere: se il debito complessivo, anche da contestazione estera, è talmente grosso da portare l’azienda in default, valutare strumenti concorsuali che possano risolvere in via globale. Certo, a livello di guida per avvocati e imprenditori è bene menzionarlo.

In sintesi, la difesa non finisce alla frontiera: se la contestazione involge rapporti con un altro Stato, bisogna gestire il contenzioso su due fronti e farli dialogare. L’obiettivo è che alla fine il contribuente paghi una volta sola l’imposta dovuta nel rispetto delle regole, e non si trovi stritolato tra due fisco affamati. Purtroppo, con i paradisi fiscali veri (tipo Panama, Isole Vergini) i trattati spesso non ci sono e quindi la doppia imposizione “non preoccupa” perché l’altra giurisdizione magari nemmeno tassa quel reddito. Ma se parliamo di paesi come Svizzera, Lussemburgo, Singapore ecc., allora sì conviene sfruttare le convenzioni.

Gestione del rischio penale-tributario e difese in sede penale

Chiudiamo la sezione strategie affrontando i profili penali. Come evidenziato nei paragrafi precedenti, molte condotte di trasferimento utili all’estero possono integrare reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000. È fondamentale per l’avvocato conoscere l’interazione tra procedura tributaria e procedimento penale, in modo da tutelare il cliente su entrambi i fronti senza pregiudicare uno a vantaggio dell’altro.

Reati tipici nel trasferimento di utili:

  • Dichiarazione infedele (art.4): omessa indicazione di redditi esteri o indicazione di elementi passivi fittizi per spostare utili fuori. Soglia: imposta evasa > €150.000 e >10% dell’imposta dovuta (o >€3 milioni redditi non dichiarati). Pena da 2 a 4 anni e 6 mesi.
  • Omessa dichiarazione (art.5): se addirittura non hai presentato la dichiarazione dei redditi in Italia per fingerti non residente. Soglia: imposta evasa > €50.000. Pena 1.6 – 4 anni.
  • Dichiarazione fraudolenta mediante artifici (art.3): se per attuare lo spostamento di utili hai messo in piedi operazioni simulate o usato documenti falsi diversi da fatture. Ad esempio, un complesso giro di sovrafatturazioni infragruppo, società schermo ecc., potrebbe essere inquadrato come “altri artifici” (specie se c’è false rappresentazioni contabili). Soglia: imposta evasa > €30.000 (probabilmente elevata a 100k nel 2015, ma non sono sicuro; la Boccia penalista dice 50k per omessa e dice fraudolenta con fatture punita 4-8 anni soglia zero, per altri artifici mi pare fosse 30k e ora 100k, controllare). Pena comunque alta: 3 – 8 anni (dopo inasprimenti del 2019).
  • Emissione di fatture false (art.8): se l’interposizione comporta anche fatture false (es. fatture dall’entità estera per costi fittizi in Italia).
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art.11): se dopo l’accertamento hai spostato beni all’estero per non pagar tasse (es. porti fondi su trust in paradiso per non farceli pignorare).

Nel contesto del nostro tema, i più rilevanti sono art.4, 5 e 3.

Cosa fare in concreto:

  • Prevenire il reato: se sei ancora in tempo (non è stata presentata denuncia penale né è iniziata verifica) e ti accorgi di essere in una situazione a rischio, il ravvedimento operoso può evitare l’insorgere di reati. Ad esempio, hai omesso di dichiarare utili esteri 2022, siamo nel 2025: se spontaneamente presenti ora una dichiarazione integrativa e versi imposte e sanzioni ridotte prima che partano controlli, il reato non si perfeziona (perché manca l’intento di evasione, hai regolarizzato). Questo ovviamente è il consiglio in ottica di compliance per l’imprenditore.
  • Art. 13 D.Lgs.74/2000 – Causa di non punibilità per pagamento: se il procedimento penale è potenzialmente innescato, una carta potentissima è pagare il debito tributario prima dell’apertura del dibattimento penale. La norma infatti prevede la non punibilità dei reati di dichiarazione fraudolenta, infedele, omessa (art.2,3,4,5) se il debito (imposte + interessi + sanzioni) è estinto per intero. Ciò “premia” chi si pente e risarcisce l’Erario. Dunque, in casi di esterovestizione, CFC, ecc. dove ravvisi reato, consigli al cliente di trovare le risorse e pagare tutto quanto contestato (magari attraverso adesione o acquiescenza, con sanzioni ridotte – la norma richiede comprenda sanzioni, ma se c’è adesione la sanzione ridotta paghi ed è comunque estinto il debito).
  • Se il debito è alto e non ci sono liquidità, si può tentare la via di accordi di ristrutturazione (come sopra, il caso Lecco: hanno pagato 22% del debito concordato, e il giudice ha interpretato estensivamente come soddisfazione ai fini penali). Tuttavia, meglio puntare al pagamento integrale se possibile.
  • Nota: nel 2023 è stata introdotta una causa di non punibilità per particolare tenuità per alcuni reati, ma è residuale se l’evaso è poco (mi pare sotto 10k euro imposta).
  • Coordinare la difesa penale e tributaria: se la questione va in parallelo in tribunale penale e commissione tributaria, bisogna evitare contraddizioni. Ad esempio, in tribunale penale il tuo cliente potrebbe voler dire “sì ho fatto così, ho sbagliato, ma ho pagato – chiedo attenuanti”, mentre in tributario sostenevi che l’accertamento era infondato. Questa dissonanza può essere sfruttata dall’accusa penale (es. se in ricorso hai ammesso fatti, attenzione che potrebbero emergere). Idealmente, se paghi e vuoi uscire dal penale, puoi rinunciare al ricorso tributario (tanto hai pagato), oppure conciliarlo dichiarando che accetti i rilievi. Così hai coerenza: ho riconosciuto il debito e pagato, lasciatemi non punibile.
  • Viceversa, se sei convinto di avere ragione nel merito e vuoi combattere in tributi, in penale devi allora puntare su mancanza di dolo, errore scusabile, complessità della materia (es. “pensavo legittimamente di non dover dichiarare quell’utile perché c’erano interpretazioni divergenti”). Questo può evitare condanna (dolo specifico non provato). Ma non sempre le scuse reggono se la condotta appare pianificata.
  • Responsabilità delle società (D.Lgs. 231/2001): dal 2019 alcuni reati tributari (es. dichiarazione fraudolenta, emissione fatture false) fanno scattare la responsabilità amministrativa dell’ente se commessi nell’interesse o a vantaggio della società. Dunque, se si tratta di un’azienda, potrebbe subire sanzioni pecuniarie 231/01. Difesa: implementare modelli organizzativi di controllo fiscale per dire che l’azienda aveva policy per prevenire l’evasione (difficile se poi è avvenuta su input dei vertici).
  • Sequestro e confisca: nei reati tributari oggi c’è la confisca obbligatoria del profitto (art.12-bis D.Lgs.74). Profitto = imposta evasa. Quindi se contestano €1M evaso, possono sequestrare beni per €1M. Per riavere i beni, l’unica è pagare il debito (così il profitto non c’è più, o lo riduci). Quindi altro incentivo a pagare prima possibile.

In conclusione, la strategia migliore sul penale è spegnere il fuoco prima che divampi: regolarizzazione e pagamento. Se ciò non è praticabile, allora serve una robusta difesa tecnica (difetto di dolo, mancanza di elemento materiale per incertezza normativa, ecc.) e magari cercare riti alternativi (patteggiamento con riduzione pena, messa alla prova se possibile per reati sotto 4 anni). Va ricordato che l’esito del giudizio tributario non vincola quello penale e viceversa, ma i fatti accertati in sede penale (es. sentenza penale definitiva che riconosce una simulazione) possono poi scivolare nel tributario (e in teoria i giudici tributari dovrebbero tenerne conto). Tuttavia, spesso i tempi divergono e si arriva prima a definizione tributaria.

Il contribuente-imputato deve essere consapevole che l’aspetto penale può avere ricadute personali gravissime (reclusione, interdizioni), dunque non va trascurato confidando solo di vincere in Commissione.

Abbiamo quindi esplorato le possibili difese. Nel capitolo seguente, proponiamo alcune Domande e Risposte comuni sulla materia, per fissare i concetti chiave in modo discorsivo, e successivamente esamineremo casi pratici simulati per vedere l’applicazione concreta di queste strategie.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito riportiamo una serie di domande frequenti relative alle contestazioni per utili trasferiti in paradisi fiscali, con risposte concise ma complete, allo scopo di chiarire i principali dubbi di imprenditori, professionisti e contribuenti alle prese con queste problematiche.

  • D: Cosa si intende esattamente per “trasferimento di utili in paradisi fiscali”?
    R: In generale indica operazioni con cui un contribuente sposta o concentra profitti in entità collocate in paesi a bassa o nulla tassazione (i paradisi fiscali), sottraendoli alla normale imposizione italiana. Ciò può avvenire tramite varie tecniche: ad esempio fissando prezzi infragruppo anomali (transfer pricing) a favore di consociate in quei paesi, oppure creando società di comodo all’estero (esterovestizione) dove far affluire utili maturati in Italia, o ancora occultando redditi personali in conti offshore intestati a prestanome (interposizione). Il comune denominatore è la volontà di abbattere il carico fiscale italiano mediante l’uso di giurisdizioni estere “compiacenti” dal punto di vista fiscale.
  • D: Quali sono considerati “paradisi fiscali” per l’Italia nel 2025? Esiste una lista ufficiale?
    R: L’Italia fa riferimento sia a parametri generali sia a liste stilate a livello UE. Attualmente sono considerati a fiscalità privilegiata i paesi con tassazione effettiva inferiore al 15%. Inoltre esiste la Black List UE delle giurisdizioni non cooperative, aggiornata semi-annualmente, che nel 2025 include ad esempio: Samoa (americane e occidentali), Anguilla, Fiji, Guam, Palau, Panama, Russia, Trinidad & Tobago, Isole Vergini USA, Vanuatu. L’Italia aderisce a tale lista per varie misure. Parallelamente, alcune normative italiane menzionano “Stati o territori non cooperativi a fini fiscali” rimandando alla suddetta lista UE. In passato c’erano specifici decreti ministeriali con elenchi (black list per CFC, per costi indeducibili, etc.), oggi superati dall’approccio basato su criteri oggettivi (aliquota < 15%, mancanza scambio info). Va detto che un paradiso fiscale nel linguaggio comune è qualsiasi paese offra regime fiscale molto vantaggioso e opaco rispetto allo standard internazionale (esempi classici: Svizzera per alcuni regimi, Montecarlo, Cayman, Dubai, Hong Kong, Singapore su certi redditi, Irlanda per le multinazionali, ecc.). Non tutti sono nella lista “cattiva” UE, ma tutti potenzialmente attraggono l’attenzione del Fisco se ci si spostano utili senza valide ragioni economiche.
  • D: Quali segnali possono far scattare un controllo fiscale per esterovestizione o utili esteri non dichiarati?
    R: Ci sono vari indicatori di rischio. Alcuni esempi:
    Società italiane con margini bassissimi ma con consociate in paesi a bassa tassazione che realizzano alti profitti: questo squilibrio fa sospettare transfer pricing manipolato.
    Imprenditori o persone fisiche che si trasferiscono in paesi “sospetti” mantenendo forti legami con l’Italia: ad esempio amministratore italiano che improvvisamente sposta residenza a Dubai ma continua ad operare qui – possibili controlli su reale residenza.
    Presenza di strutture complesse e poco trasparenti: trust esteri, società con azioni al portatore, schermi societari multipli – il Fisco riceve segnalazioni su queste catene perché usate per celare redditi.
    Mancata compilazione del quadro RW (monitoraggio attività estere): se dall’estero arriva informazione (scambio automatico CRS) che un contribuente ha conti o investimenti non dichiarati, scatta l’accertamento.
    Operazioni con paradisi fiscali: l’Agenzia ha un elenco delle transazioni (esportazioni, pagamenti) verso paesi black list; se un’azienda fa molti pagamenti verso una sua controllata alle Bermuda per “consulenze”, è probabile un approfondimento.
    Utilizzo di regimi fiscali speciali all’estero: ad esempio, società italiane che costituiscono filiali in Irlanda sfruttando il “Double Irish” o simili – queste notizie arrivano spesso via stampa o cooperazione internazionale e innescano verifiche.

Insomma, ogni anomalia che indichi erosione della base imponibile italiana a vantaggio di entità offshore può far accendere i riflettori del Fisco.

  • D: La mia società ha sede legale a Londra ma opera anche in Italia: rischio l’accusa di esterovestizione?
    R: Dopo la Brexit, il Regno Unito per l’Italia è un paese estero extra-UE (anche se con elevata fiscalità standard, quindi non un paradiso fiscale classico). Se la sua società è a Londra ma con attività significativa in Italia, la residenza fiscale dipenderà dai criteri dell’art. 73 TUIR: se la sede di direzione effettiva o l’oggetto principale degli affari risulta in Italia per la maggior parte dell’anno, allora l’Agenzia potrebbe considerarla residente qui. Ad esempio, se lei e gli amministratori prendete decisioni in Italia, i clienti e i mercati sono perlopiù italiani, Londra è solo un ufficio di comodo, c’è il rischio di contestazione. Essendo UK fuori dall’UE, non c’è più la protezione piena della libertà di stabilimento; tuttavia, UK non è tipicamente un paradiso fiscale e ha convenzione con l’Italia. In caso di “dual residence” (Regno Unito e Italia che vi considerassero residenti entrambe), si applicherebbe la convenzione Italia-UK che risolve in base al place of effective management (gestione effettiva). Quindi la domanda chiave è: dove viene gestita effettivamente l’impresa? Se la risposta onesta è “in Italia”, conviene regolarizzare (magari dichiarando stabile organizzazione in Italia, o spostando ufficialmente la sede qui). Se invece l’attività sostanziale è davvero a Londra (uffici, dipendenti, mercato UK/internazionale) e solo una parte minore in Italia, occorre documentare bene questa struttura per difendersi in caso di controlli, evidenziando che l’Italia al più potrebbe tassare la porzione di attività qui tramite stabile organizzazione, ma non pretendere la residenza totale. È una situazione sfumata: non è il classico caso lampante di paradiso fiscale, però l’Agenzia potrebbe comunque indagare perché alcune aziende usano società UK per pagare meno tasse (aliquota UK 19% fino a 2022, poi 25%, comunque competitiva rispetto Italia 27,5%).
  • D: Quali sanzioni amministrative si rischiano in caso di accertamento per utili esteri non dichiarati?
    R: Dipende dal tipo di violazione:
    Omessa dichiarazione di redditi: se l’esterovestizione fa sì che non abbia presentato proprio la dichiarazione in Italia, la sanzione amministrativa è dal 120% al 240% dell’imposta dovuta (minimo 250€). Quindi se evaso 100k di imposte, multa da 120k a 240k euro.
    Dichiarazione infedele: se hai presentato dichiarazione ma incompleta (non includendo redditi esteri, o deducendo costi fittizi), la sanzione va dal 90% al 180% della maggior imposta evasa (minimo 250€). Ad esempio, per 100k di imposta evasa, sanzione tra 90k e 180k.
    Altre violazioni legate: omessa compilazione del quadro RW (monitoraggio attività estere) comporta sanzione separata, dal 3% al 15% dell’ammontare non dichiarato (raddoppiata 6-30% se attività in paesi non cooperativi) per anno. Anche le violazioni IVA (nel caso di frodi carosello) hanno loro sanzioni (generalmente 90-180% dell’IVA dovuta).
    Riduzioni possibili: se ti avvali di definizioni agevolate (adesione, acquiescenza, conciliazione) le sanzioni si riducono a 1/3 o 1/2. Con ravvedimento (spontaneo prima di accertamento) addirittura 1/6 o 1/5 del minimo.
    In sintesi, le sanzioni tributarie sono molto pesanti, spesso pari o superiori all’imposta evasa stessa, a sottolineare la gravità di queste condotte. Oltre alle multe, si pagano ovviamente le imposte dovute e gli interessi moratori (tasso circa 4% annuo). Non sono previste, per queste violazioni, sanzioni accessorie tributarie se non in casi eccezionali (tipo sospensione licenza se riguardasse IVA in frodi, ma nel trasferimento utili no). Resta poi l’eventuale versante penale di cui diremo.
  • D: Oltre alle sanzioni fiscali, ci sono conseguenze penali?
    R: Sì, come approfondito sopra, se l’evasione supera certe soglie scattano i reati tributari. Ad esempio:
    Dichiarazione infedele: se imposta evasa > 150k €, è reato punito con reclusione 2-4.5 anni.
    Omessa dichiarazione: se > 50k € evasi, reclusione 1.5-4 anni.
    Dichiarazione fraudolenta: se per spostare utili hai usato frodi (es. società schermo, false fatturazioni), la versione “fraudolenta mediante altri artifici” comporta reclusione 3-8 anni (soglia evasa > 100k €) e quella “mediante fatture false” addirittura 4-8 anni anche senza soglia.
    Queste sono pene detentive non lievi. Inoltre, come menzionato, dal 2020 alcuni di questi reati (frodi, emissioni) fanno scattare responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (D.Lgs.231) con sanzioni pecuniarie e interdittive a carico dell’azienda. Va detto che non ogni contestazione fiscale porta automaticamente al penale: l’Agenzia, se ravvisa i presupposti, è obbligata a fare denuncia penale (art.331 cpp) e poi la Procura valuta. Spesso però per importi rilevanti la Procura procede. In caso di condanna penale, oltre alla pena, è disposta la confisca del profitto del reato (denaro o beni per valore equivalente alle imposte evase).
    Dunque le conseguenze possono essere molto serie: non solo economiche ma anche la fedina penale e la libertà personale. Per questo la guida insiste su rimedi come il pagamento integrale del debito prima del processo, che può evitare la punibilità. Da notare che per i reati tributari non sono previste sanzioni penali per fatti di mera elusione (abuso del diritto): se un’operazione è qualificata come elusiva ma non comporta false dichiarazioni, c’è solo sanzione amministrativa. Il penale scatta per l’evasione in senso stretto (occultamento redditi, false attestazioni).
  • D: La società estera controllata ha già pagato tasse nel suo paese: devo pagarle di nuovo in Italia sui suoi utili? Non è doppia imposizione?
    R: Nel caso di CFC (Controlled Foreign Company), la legge italiana prevede il meccanismo del credito d’imposta estero per evitare doppia imposizione giuridica. Significa che se l’utile della controllata estera è tassato per trasparenza in Italia, il socio italiano detrae dalle imposte dovute quanto è stato pagato all’estero su quell’utile. In genere, se la società estera ha pagato ad esempio 10 di imposte sul suo utile e l’Italia imputandotelo genera 30 di imposte per te, tu paghi 20 netti (30-10). Quindi non paghi due volte interamente. Inoltre, la normativa stabilisce che quando poi la controllata distribuisce dividendi al socio italiano, questi dividendi non sono tassati (o lo sono in minima parte) perché l’utile è già stato tassato per trasparenza. Questo evita la doppia imposizione economica sullo stesso flusso.
    Attenzione: se la tassazione estera era inferiore a quella italiana (tipicamente sì, essendo un paradiso fiscale), può residuare da pagare la differenza. Ad esempio, la società in paradiso ha pagato zero, l’Italia tassa pieno: allora paghi tutto qui (e ovviamente no doppia imposizione perché estero era zero). Se ha pagato il 10%, l’Italia fino al 27% circa ti chiederà un altro 17%.
    Nei casi non CFC ma di doppia residenza societaria, valgono i trattati per evitare la doppia imposizione: di solito ci si accorda su un’unica residenza fiscale. Oppure nei casi di transfer pricing, se due Stati tassano lo stesso reddito, esistono procedure di accordo amichevole (MAP) per ripartire la base imponibile e stornare la doppia imposizione. In UE c’è anche un meccanismo arbitrale vincolante per assicurarlo. Dunque, benché possano verificarsi temporaneamente doppie imposizioni in attesa di definizione, alla lunga l’obiettivo è far sì che uno stesso reddito venga tassato una volta sola, nella misura più alta dei due paesi (non ci si auspica doppia non imposizione, ma neppure doppia imposizione).
  • D: Ho ricevuto un questionario dall’Agenzia sulle operazioni con la mia consociata a Malta. Cosa devo fare?
    R: I questionari dell’Agenzia vanno presi molto sul serio: sono spesso il preludio di un controllo approfondito. Le consiglio di coinvolgere subito un consulente tributario esperto in fiscalità internazionale per predisporre risposte accurate, senza contraddirsi e senza fornire informazioni inutilmente dannose. Bisogna rispondere entro i termini indicati (di solito 15 o 30 giorni, prorogabili se motivato) perché la mancata risposta o la risposta evasiva può portare a sanzioni (generalmente 2.500€) e soprattutto indispone il fisco. Nel rispondere:
    – Sia trasparente ma anche strategico: fornisca i dati richiesti corredandoli magari di spiegazioni che facciano capire la ragionevolezza delle operazioni. Esempio: se chiedono “elencare beni venduti e prezzi praticati alla consociata maltese”, lei può sì dare la lista, ma aggiunga una nota che illustri come i prezzi sono stati determinati con mark-up standard e che Malta non è un paradiso (aliquota 35% poi rimborsi complicati – magari faccia presente la normativa maltese per far capire che non è zero tax).
    – Eviti di dichiarare cose non richieste che potrebbero aprire altri fronti. Risponda puntuale ai punti.
    – Se alcuni documenti non li ha immediatamente, può rispondere comunque dicendo che li fornirà a breve, evitando il silenzio su voci.
    – Il tono dev’essere collaborativo ma attento: ogni affermazione potrà poi essere usata. Quindi, ad esempio, non scriva “i prezzi li abbiamo decisi a caso in famiglia”, ma semmai “i prezzi sono stati fissati in base ai costi e tenendo conto delle condizioni di mercato”. Anche se non aveva un vero studio di TP, mostri che non c’era dolo.
    – Se il questionario è ampio e tocca profili di possibile elusione, è segno che l’Ufficio sospetta qualcosa (es. chiede organigrammi, chi prende decisioni, ecc.). In tal caso, oltre a rispondere per iscritto, sarebbe opportuno chiedere un incontro (i questionari spesso prevedono possibilità di incontro) per fornire chiarimenti di persona e dissipare dubbi, presentando magari documentazione aggiuntiva spontaneamente (es. organigramma con nomi e luoghi di lavoro per far vedere presenza estera reale).
    In breve: rispondere in modo completo e coerente è nell’interesse del contribuente, perché a volte un chiarimento fornito subito può evitare l’apertura di un’indagine formale o comunque dimostrare buona fede (utile poi nel valutare sanzioni).
  • D: Ho una piccola società e vorrei aprire una filiale a Dubai dove la tassazione è nulla. Posso farlo legalmente o incorro subito in problemi col fisco?
    R: Aprire una società o filiale a Dubai è legale – non c’è una proibizione di per sé. Il punto cruciale è come verrà utilizzata tale entità. Se la filiale a Dubai avrà una reale attività economica (es. apre un negozio lì, ha personale, vende sul mercato mediorientale), i profitti genuinamente generati a Dubai non saranno tassati in Italia (Dubai finora non aveva imposte sul reddito societario, se parliamo di Mainland, e se non ci sono controlli italiani rilevanti). Dovrà comunque rispettare l’obbligo di monitoraggio (dichiarare la partecipazione estera) e, se la controlla, fare attenzione alla normativa CFC: dal 2024, se l’aliquota a Dubai è sotto il 15% (lo è, essendo zero per molte attività) e più di 1/3 dei redditi sono “passivi”, quell’utile rischia di essere tassato in Italia. Quindi conviene che la filiale svolga un business attivo (per evitare categoria di passive income) e valutare l’impatto del nuovo corporate tax 9% che gli EAU introducono dal 2023 per certe aziende – potrebbe superare il 15% con combinazioni? Altrimenti, prepararsi a dimostrare l’esimente di sostanza economica effettiva (personale, uffici a Dubai) per non far scattare la CFC.
    Il rischio “problemi col fisco” sorge se la filiale è usata solo come schermo per spostare utili senza sostanza: ad esempio fattura servizi inesistenti alla casa madre italiana per portare via utili – quello sarebbe contestato come costi indeducibili o esterovestizione. Invece, strutturare correttamente la presenza a Dubai, con funzioni reali (es. un ufficio vendite regionale), remunerarla a valori di mercato, e rispettare gli adempimenti di trasfer pricing, può permettere un’ottimizzazione fiscale lecita. In ogni caso, è prudente farsi assistere da consulenti sia in Italia che a Dubai per configurare l’operazione: ad esempio, scegliere se aprire una società locale o una Free Zone company, definire i rapporti contrattuali con la società italiana (contratto di distribuzione? commissione?), fissare prezzi congrui. E poi, trasparenza nelle dichiarazioni italiane (se la controlla, indicarla nel quadro RW e se dovuto compilare il prospetto CFC nella dichiarazione dei redditi). Così ridurrà sensibilmente i problemi.
    In breve: si può fare, ma non pensi di “farla franca” semplicemente trasferendo utili su Dubai: serve una pianificazione fiscale internazionale ben congegnata e in linea con le normative anti-elusive per evitare contestazioni.
  • D: La Guardia di Finanza mi contesta una “stabile organizzazione occulta” in Italia di una società estera che controllavo. Di cosa si tratta?
    R: La “stabile organizzazione occulta” è un’altra figura con cui il Fisco recupera imponibile estero. In pratica significa che una società estera (formalmente indipendente) viene ritenuta avere una presenza materiale in Italia non dichiarata, attraverso la quale svolge la sua attività. È “occulta” perché non è stata apertamente dichiarata come branch. Se lei controllava una società estera ma di fatto quest’ultima operava in Italia (ad esempio tramite un ufficio non dichiarato, personale sul posto, o usando la sua società italiana come agente dipendente), l’Agenzia potrebbe dire: quella società estera in realtà aveva una stabile organizzazione in Italia, perciò i redditi ad essa riferibili vanno tassati in Italia.
    È un concetto affine all’esterovestizione ma diverso: qui non spostano la residenza in Italia dell’intera società estera, ma tassano in Italia i redditi a essa attribuibili perché generati attraverso una sua base fissa o agente in Italia. Ad esempio, una società residente a Panama vendeva beni in Italia utilizzando personale e infrastrutture della tua azienda italiana: ecco, l’utile di Panama in realtà è considerato prodotto da una stabile organizzazione in Italia.
    Difendersi richiede dimostrare che non c’era una presenza stabile: es. le vendite erano fatte direttamente dall’estero, la società italiana era un mero intermediario indipendente (tipo commissionario con fee di mercato già tassata). Se invece c’è evidenza che la società estera era solo un nome e tutto accadeva qui, la contestazione è difficile da ribattere. La GdF spesso adopera questo strumento in abbinata: contestano sia esterovestizione che stabile occulta, in alternativa. In sede di accertamento, uno esclude l’altro (o è residente in Italia, o è estera con branch Italia). Comunque, in entrambi i casi la finalità è tassare i redditi non dichiarati.
    Quindi la “stabile occulta” per lei significa che imputano alla branch occulta in Italia quei redditi e li tassano come se fossero di un soggetto italiano. Dovrà esaminare come è svolta l’attività: se la società estera aveva locali/attività qui per più di 12 mesi e dipendenti, è sicuramente una stabile. Se aveva solo un agente, bisogna vedere se l’agente era “dipendente” (con poteri di concludere contratti a nome estero abitualmente) o indipendente. Sono concetti tecnici da convenzioni internazionali. Conviene studiare il modello di business con un esperto per capire se la contestazione regge o se può essere smontata evidenziando che l’attività in Italia era preparatoria o ausiliaria (non generatrice di reddito imponibile).
    In breve: è un altro modo di dire che secondo loro lei usava la società estera per fare affari in Italia senza pagarci le tasse, e ora gliele vogliono far pagare come se quell’entità fosse “radicata” qui.
  • D: In caso di accertamento su utili esteri, conviene pagare subito quanto richiesto o fare ricorso?
    R: Dipende da vari fattori: la fondatezza della pretesa, la sostenibilità dell’importo, le implicazioni penali, e anche le eventuali definizioni agevolate offerte dalla legge in quel momento. Proviamo a schematizzare:
    Se l’accertamento è chiaramente sbagliato o eccessivo: allora conviene presentare ricorso, eventualmente preceduto da un tentativo di accertamento con adesione (per vedere se l’Ufficio è disposto a ridurre). Pagare integralmente somme non dovute non è consigliabile, anche perché poi recuperarle è lungo. Durante il ricorso, come detto, dovrà comunque versare 1/3 e poi 2/3 provvisoriamente, ma se vince glieli restituiranno con interessi.
    Se l’accertamento è sostanzialmente corretto e ha anche profili penali: in tal caso, pagare subito (o con adesione) può essere la scelta migliore. Questo perché, pagando entro certi termini, può evitare il processo penale e usufruire di forti sconti su sanzioni (1/3). Ad esempio, se hanno beccato conti esteri non dichiarati e l’evidenza è schiacciante, meglio negoziare un’adesione, ridurre sanzioni e chiudere la faccenda, anziché trascinarla in tribunale.
    Se l’importo è enorme e mettere in pericolo l’azienda: in questi casi spesso né pagare né ricorrere appieno sono soluzioni ottimali. Bisogna cercare un compromesso: ad esempio, valutare definizioni agevolate se il legislatore ne offre (in passato condoni, pacificazione fiscale) o procedure di accordo (MAP, arbitrati) se trattasi di doppia imposizione. Oppure rateizzare e insieme fare ricorso su punti contestabili (pagando intanto il giusto in rate).
    Valutare opzioni deflattive: come discusso, l’adesione consente un confronto: magari l’Ufficio accetta di ridurre alcune pretese (es. togliere sanzioni CFC se c’era incertezza). Se raggiunge un accordo, avrà risparmiato tempo e ottenuto certezza. Se l’adesione fallisce, resta la via del ricorso.
    Inoltre, consideri che fare ricorso non preclude di definire più avanti: ad esempio, in appello si può sempre fare una conciliazione giudiziale con sanzioni ridotte al 50%. Quindi una strategia è: ricorrere in primo grado (specie se ci sono argomenti forti), vedere come evolve giurisprudenza e come si pone l’ufficio, e magari transare in appello per evitare la Cassazione.
    In sintesi: pagare subito conviene se si vuole sfruttare l’esimente penale e beneficiare di sconti sanzioni – tipicamente quando sai di aver torto. Ricorrere conviene se ci sono chance di vittoria o almeno margini per ridurre notevolmente la pretesa. Spesso la scelta ottimale è ibrida: pagare una parte (magari quella non difendibile) e litigare sull’altra. Serve una valutazione caso per caso con professionisti.
  • D: Quali sono le sentenze più rilevanti e aggiornate che potrei citare a mio favore in un ricorso su queste materie?
    R: Ci sono diverse pronunce recentissime (2023-2025) della Corte di Cassazione, segno che l’argomento è caldo. Eccone alcune, a seconda del tema:
  • Esterovestizione: Cass. n. 1883/2023 – distingue approccio UE vs extra-UE (libertà di stabilimento vs abuso); Cass. n. 21505/2025 (ordinanza) – ribadisce dovere del giudice di valutare tutti gli indizi di sede fittizia e che pagamento di imposte estere non esclude esterovestizione se manca sostanza ; Cass. n. 23842/2025 – pare (da notizie) che ribadisca la necessità di provare l’effettività della struttura estera in ogni caso.
  • CFC: Cass. n. 18025/2025 – principio: utili CFC tassabili solo se partecipazione già posseduta al momento produzione redditi. Cass. n. 2458/2025 – caso di società in Antille olandesi controllata, ribadisce che l’esterovestizione va provata con indizi concordanti e richiama la presunzione legale relativa dell’art.73 c.5-bis TUIR.
  • Interposizione: Cass. n. 8479/2025 – afferma irrilevanza distinzione tra interposizione fittizia e reale: conta la sostanza (art.37 DPR 600/73). Cass. n. 9096/2025 – in tema di trust estero, chiarisce che se disponente mantiene controllo sostanziale, i redditi vanno imputati a lui (interposizione fiscale).
  • Transfer pricing: Cass. n. 11625/2023 – preferenza comparabili interni; Cass. n. 26432/2024 – sulla rilevanza linee guida OCSE (da citare se utile a sostenere conformità comportamento alle prassi internazionali, ma sembra dica che non prevalgono sul diritto interno se in contrasto); Cass. n. 11954/2025 – ordinanza su interpretazione autentica della norma TP (art.110 c.7) e oneri probatori.
  • Procedurali: Cass. n. 3386/2024 (Sez Trib) – potrebbe riguardare esterovestizione, ma dalla descrizione è su imposta di registro quindi non attinente; Cass. SU 330/2021 – sul raddoppio termini di accertamento vs obbligo di denuncia (conferma che basta presupposto reato, denuncia anche tardiva vale – in linea con Cass.8479/25 citata).
  • Penale-tributario: Cass. pen. n. 44519/2024 – in tema di confisca e accordi di ristrutturazione del debito tributario (menzionata nel caso Lecco come apertura a considerare pagato ridotto come causa estintiva). Naturalmente, vanno selezionate in base al caso. Importante anche citare sentenze CTR se di favore su casi simili (es. CTR Lombardia 2019 sullo stesso contribuente, ecc.), ma il peso maggiore ce l’hanno le Cassazioni, specie se di principio. Inoltre conviene controllare poco prima dell’udienza se sono uscite nuove pronunce, data la continua evoluzione (per es., attendersi altre Cassazioni su Pillar Two in futuro, ecc.). Nel ricorso, citare brani rilevanti delle massime o motivazioni e collegarli ai fatti del proprio caso per massimizzare l’impatto persuasivo.

Le risposte fornite coprono molti dubbi comuni; naturalmente ulteriori domande potrebbero sorgere in base alle peculiarità di ciascuna situazione, ma per queste è opportuno rivolgersi a un professionista che analizzi i dettagli del caso concreto.

Casi pratici e simulazioni

Per comprendere meglio come i principi e le strategie esposte si applichino nella realtà, esaminiamo ora alcuni casi pratici simulati, ispirati a situazioni tipiche in cui un contribuente può incorrere in contestazioni relative a utili trasferiti in paradisi fiscali. Attraverso questi esempi concreti – pur semplificati ai fini didattici – vedremo il percorso dalla condotta iniziale, alla contestazione del Fisco, fino alle possibili linee di difesa e agli esiti.

Caso 1: Società italiana con controllata in Panama (CFC non dichiarata)

Scenario: Alfa S.p.A. è una società manifatturiera italiana posseduta al 100% dall’imprenditore Tizio. Nel 2018 Tizio costituisce una società controllata, Beta Inc., con sede a Panamá (paradiso fiscale secondo i criteri italiani). Beta Inc. non ha struttura operativa: funge da trading company che acquista i prodotti da Alfa a prezzo basso e li rivende a clienti esteri a prezzo di mercato, accumulando profitti. Dal 2019 al 2021 Beta Inc. genera utili consistenti (che restano depositati sui conti panamensi) e paga imposte irrisorie (Panamá applica territorialità, quindi su export niente tasse). Tizio non indica nulla di Beta Inc. nelle dichiarazioni italiane (né partecipazione in RW, né utili per trasparenza). Nel 2022, tramite scambio informazioni, l’Agenzia viene a conoscenza di Beta Inc. e avvia un controllo.

Contestazione del Fisco: L’Agenzia delle Entrate contesta l’applicazione della disciplina CFC. Accerta che Alfa S.p.A. (e indirettamente Tizio) controllava Beta Inc. a Panamá, paese a fiscalità privilegiata. Verifica che Beta ricade nei criteri: più del 1/3 dei redditi sono passive o da operazioni infragruppo (sì: è tutta infragruppo) e tassazione estera < 50% di quella italiana (sì: praticamente zero vs 24%). Dunque, per gli anni 2019-2020-2021, l’Ufficio imputa ad Alfa S.p.A. gli utili di Beta Inc. non dichiarati in Italia, per complessivi €5 milioni, con maggiore IRES da pagare di ~1.2 milioni. Vengono irrogate sanzioni al 150% dell’imposta (€1.8 mln) per infedele dichiarazione. Inoltre parte segnalazione penale (imposta evasa >150k per anno, reato infedele).

Posizione del contribuente (prima difesa): Tizio rimane sorpreso: “Pensavo che se non distribuisco dividendi, non devo nulla in Italia… Beta Inc. non ha attività qui, tutto avviene a Panamá”. Si rivolge a un tributarista. Si accorge di non aver neppure compilato il quadro RW (altra sanzione del 3-15% delle attività estere). La sua prima linea difensiva spontanea è: “Beta svolge commercio internazionale, non è società di comodo”. Tuttavia, fatica a portare prove di reale sostanza a Panamá (Beta ha solo un domiciliatario). Capisce che contestare la CFC nel merito è arduo. Il suo legale gli consiglia di considerare un’adesione per ridurre sanzioni e chiudere subito anche il penale tramite pagamento.

Strategia adottata: Si opta per l’accertamento con adesione. In sede di adesione, si cerca di mitigare:
– Si documenta che nel 2020 Beta ha pagato $50k di tax sulle società (minime licenze locali), chiedendo credito d’imposta su quella parte.
– Si fa notare che Beta nel 2019 aveva anche un socio locale al 5% (anche se presta nome) per chiedere di escludere quel 5% di utili.
– Si evidenzia collaborazione e si fa presente che Tizio intende pagare tutto subito per regolarizzare posizione (richiamando l’art.13 non punibilità).
L’Agenzia, dal canto suo, offre riduzione sanzioni a 1/3 e rinuncia a quadro RW sanzioni se si chiude.

Esito: Viene raggiunto accordo: maggior IRES ridotta a €1.1 mln (per piccoli aggiustamenti su utili imputati), sanzioni ridotte a circa €400k (1/3 del minimo). Tizio paga immediatamente €1.5 mln + interessi, estinguendo il debito 2019-2021. L’Ufficio segnala l’intervenuto pagamento integrale all’Autorità giudiziaria. Il procedimento penale per dichiarazione infedele viene archiviato per sopravvenuta non punibilità. Tizio “salva” l’azienda e se stesso da sanzioni peggiori, ma impara a sue spese che avrebbe dovuto dichiarare Beta (o meglio ancora, non usarla solo per tax deferral senza sostanza).

Considerazioni: Questo caso illustra la classica contestazione CFC e la scelta di risolvere deflattivamente. Se Tizio avesse invece voluto combattere, la difesa poteva tentare la carta “attività economica effettiva” (difficile, vista la situazione) o contestare il periodo di possesso (es. se avesse acquisito Beta a metà anno – qui non è così, ma col principio Cass.2025 avrebbe potuto escludere utili pre-acquisizione). In realtà Beta era solo un veicolo di profit shifting, quindi la difesa nel merito sarebbe stata perdente. La soluzione di adesione con pagamento ha contenuto il danno e risolto anche il penale rapidamente, sacrificando però 100% dell’imposta evasa e parte di sanzioni.

Caso 2: Esterovestizione di società in Svizzera (costruzione artificiosa)

Scenario: Due fratelli italiani, Caio e Sempronio, sono titolari al 100% di Delta SA, società con sede a Lugano (Svizzera) operante nel settore moda. Delta SA è formalmente svizzera, amministratore unico è un fiduciario locale. Tuttavia, la progettazione e il design dei prodotti avviene nell’atelier che i fratelli hanno a Milano, e i principali clienti di Delta sono boutique in Italia. Di fatto, Caio e Sempronio vivono a Milano e prendono tutte le decisioni da lì, limitandosi ad andare a Lugano una volta al mese per firmare documenti. Beneficiano del regime fiscale ticinese (aliquota effettiva 8%). Dopo alcuni anni di redditi alti non tassati in Italia, scatta una verifica dell’Agenzia (segnalazione da scambio dati Italia-Svizzera e redditometro che mostrava i fratelli con alto tenore di vita senza redditi dichiarati in Italia).

Contestazione del Fisco: L’Agenzia contesta che Delta SA sia in realtà fiscalmente residente in Italia per esterovestizione. Applica la presunzione art.73(5-bis) TUIR: Delta controlla una srl italiana di distribuzione (Epsilon Srl), ed è a sua volta controllata da residenti (i due fratelli) e amministrata di fatto da essi, quindi presunzione di residenza Italia. Inoltre, porta indizi: sede effettiva a Milano (atelier, dipendenti pagati dalla srl ma lavorano per Delta), conti bancari di Delta movimentati dall’Italia, beni (campionari, magazzino) in Italia. L’accertamento dichiarerà Delta residente in Italia sin dall’origine, quindi assoggetterà a tassazione in Italia tutti i suoi utili mondiali 2018-2022 (al netto di quanto pagato in Svizzera, eventualmente a credito). Ciò comporta per i fratelli una grossa somma di IRES e IRAP evasa, con sanzioni per omessa dichiarazione (non avendo mai dichiarato redditi societari Delta in Italia). Inoltre, ciascun fratello è accusato di omessa dichiarazione (personale) per eventuali utili distribuiti occultamente e reati di amministratori che hanno concorso nell’evasione societaria.

Posizione del contribuente: I fratelli inizialmente invocano la vicinanza geografica: “Lugano è a un’ora da Milano, è normale gestire un po’ di qua e di là… in Svizzera abbiamo un ufficio e paghiamo le tasse là, come può dirci l’Italia che siamo residenti lì?”. Coinvolgono avvocati sia in Italia che in Svizzera. La Svizzera intanto considera Delta residente da loro (ha sede legale, ecc.). Ci si trova in scenario di doppia residenza potenziale. Si decide di resistere in giudizio perché l’importo contestato è enorme e i fratelli sperano di far leva sul fatto che Svizzera non è UE ma ha accordi particolari.

Strategia difensiva: Nel ricorso, i difensori sostengono:
– Che la libertà di stabilimento UE non si applica direttamente (Svizzera non UE), ma invocano principi di accordo Svizzera-UE e buona fede: Delta non era paradisiaca (8% tasse pagate).
– Mettono in dubbio la presunzione art.73(5-bis): vero che Delta controlla Epsilon Srl italiana, ma cercano di sostenere che l’amministratore di Delta è formalmente svizzero (fiduciario) e quindi il CdA non è “composto in prevalenza da residenti in Italia” (anche se i fratelli di fatto dirigono, formalmente non appaiono). Sul controllo da soggetti italiani niente da fare, quello c’è.
– Giocano la carta “costruzione non artificiosa”: producono evidenze che Delta SA aveva un ufficio in Svizzera, un dipendente amministrativo svizzero, e che è nata per internazionalizzare il brand (argomento economico). Citano Cass. 1883/2023 sull’onere di provare la pura artificiosità anche per paesi extra-UE, suggerendo che va comunque dimostrato che era fittizia (in verità la Cassazione dice per extra-UE basta criteri obiettivi, ma la difesa cerca di orientare il giudice su concetto di abuso).
– Sottolineano che parte del business era effettivamente in Svizzera (ad esempio, vendite a clienti tedeschi gestite dal fiduciario).
– In subordine, contestano l’estensione retroattiva: semmai, se Esterovestizione, farla decorrere dal 2021 quando i fratelli acquisirono residenza italiana (ipotizzano magari prima fossero formalmente a Campione d’Italia o Montecarlo). Insomma, accorciare il periodo.

Evoluzione: La CGT di primo grado Lombardia dà ragione in parte al Fisco: ritiene Delta esterovestita. Tuttavia accoglie parzialmente un rilievo: elimina IRAP (perché in quegli anni se non dichiarata difficile da calcolare?) e riduce le sanzioni al minimo, riconoscendo una certa incertezza normativa sulla posizione Svizzera. I fratelli appellano comunque. Nel frattempo, attivano la procedura amichevole Italia-Svizzera: le autorità fiscali iniziano a dialogare sulla doppia residenza di Delta. Visto che gran parte di gestione era in Italia, l’accordo tra stati (nel 2024) decide che dal 2019 Delta è residente in Italia secondo convenzione. La Svizzera quindi rinuncia a tassare dal 2019 in poi (e dovrebbe rimborsare parte imposte). Con questo elemento nuovo, i difensori in appello lo presentano: “vedete, la convenzione ha risolto che la residenza va all’Italia dal 2019, quindi fino 2018 era Svizzera (no tasse IT) e dal 2019 ok Italia ma con credito per tasse pagate in CH”. L’Agenzia a quel punto rivede la pretesa e in conciliazione giudiziale in secondo grado si accorda: imponibile 2019-2022 come da accordo (con credito per imposte svizzere pagate, quindi imposta netta ridotta), sanzioni ridotte al 50% del minimo.

Esito: I fratelli pagano un importo consistente ma sostenibile grazie al credito (in pratica, integrano la differenza tra 8% pagato e 27% dovuto). Evitano duplicazione e sanzioni enormi. Sul penale, l’accordo Italia-CH e il pagamento fanno venir meno l’elemento fraudolento (non era malafede, era incertezza su residenza, così si patteggia per dichiarazione infedele con pena sospesa, vista la collaborazione).

Considerazioni: Questo caso mostra una difesa “aggressiva” su esterovestizione, complicata dal fatto non UE. Inizialmente pareva segnata contro i contribuenti, ma la via diplomatica convenzionale ha fornito una via di uscita, definendo la residenza con un compromesso temporale. Non sempre si ha tempo/lusso di aspettare MAP, ma data la mole e i rapporti Italia-Svizzera, è plausibile. In mancanza di MAP, i fratelli avrebbero comunque dovuto pagare in Italia e poi chiedere rimborso in CH, più contenziosi. Il risultato finale comunque li vede tassati in Italia (giustamente, visto che gestivano tutto da qui), con riduzione di sanzioni e niente bis in idem.

Caso 3: Transfer pricing “sottocosto” verso società in Hong Kong

Scenario: Gamma S.r.l. è un’azienda italiana produttrice di componenti elettronici, parte del gruppo multinazionale Omega con capogruppo in Germania. Dal 2020 Gamma ha una consociata, Zeta Ltd., registrata a Hong Kong, la quale funge da intermediaria commerciale per il mercato asiatico. Gamma vende i propri componenti a Zeta ad un prezzo medio di 50 € al pezzo, che corrisponde ai costi vivi più un 5% di margine. Zeta rivende ai clienti finali asiatici a circa 80 € al pezzo, realizzando un margine netto elevato (utile tassato a Hong Kong al 16.5%). Nei primi due anni, Gamma risulta quasi in pareggio (margini ridotti), mentre Zeta accumula buoni profitti. L’Agenzia esamina la documentazione di transfer pricing di Gamma (che esiste, ma giustifica il 5% di margine con asserite funzioni limitate) e ritiene che il prezzo di trasferimento sia troppo basso. Avvia un accertamento nel 2023 per gli anni 2020-2021.

Contestazione del Fisco: La posizione del Fisco: Gamma S.r.l. svolge attività produttiva con rischi anche di mercato (perché ha stock invenduti, ecc.), quindi non è solo un contract manufacturer a basso margine. Confrontando con produttori terzi italiani simili (trovati su banca dati), risulta che un margine di mark-up adeguato sui costi sarebbe almeno del 15%. Pertanto, l’Agenzia rettifica il prezzo di trasferimento: invece di vendere a 50, Gamma avrebbe dovuto vendere a ~58 (€50 + 15% cost plus). Di conseguenza, maggiori ricavi per Gamma e maggior IRES dovuta per, poniamo, €300k in due anni. Sanzioni al 100% (€300k) per infedele.

Posizione del contribuente: Gamma (supportata dal gruppo Omega) contesta fermamente la rettifica. Spiegano che Gamma ha funzioni limitate: disegna e produce su specifiche decise dalla consociata tedesca, non svolge marketing, e inoltre deve vendere tutto il prodotto al gruppo (non ha rischio commerciale diversificato). La loro documentazione TP applicava il metodo del Costo maggiorato con mark-up 5% ritenendo Gamma una sorta di contract manufacturer. L’ufficio però la vede come full-fledged manufacturer. Omega decide di fare ricorso, per evitare precedenti pericolosi anche altrove.

Strategia difensiva: Nel ricorso, Gamma presenta:
– Una perizia di un consulente TP indipendente che rifà l’analisi comparabile e, includendo considerazioni sui rischi limitati di Gamma, giunge a un range di mark-up 5%-10%. Argomenta che l’ufficio ha preso comparables non perfettamente comparabili (produttori che vendono anche a terzi e quindi assumono funzioni di marketing che Gamma non ha).
– Sottolinea che Zeta HK ha funzioni di distribuzione difficili (mercato cinese, rischio cambio, crediti), giustificando il suo margine più alto.
– Mette in evidenza che su quello stesso pricing c’era un APA bilaterale in trattazione con le autorità tedesche (non ancora concluso, ma per dire che il gruppo era in buona fede e cercava certezza).
– Invoca la non applicazione sanzioni, avendo la documentazione conforme depositata (Provv.2010). L’Agenzia su questo aveva insinuato inidoneità doc, ma Gamma mostra di aver prodotto tutti i documenti richiesti.

Evoluzione: La CGT di primo grado, dopo CTU tecnica, conclude che un mark-up adeguato è 8%. Quindi accoglie parzialmente il ricorso: maggiori ricavi dimezzati rispetto all’accertato, e azzera le sanzioni riconoscendo la penalty protection (doc. TP predisposta) e comunque l’incertezza sulla determinazione del valore normale. Entrambe le parti appellano (Gamma vorrebbe annullamento totale; l’Ufficio voleva conferma 15%). In appello, si perviene a conciliazione: gamma di mark-up concordato 8% per gli anni in contestazione, impegnando il gruppo a mantenere quell’indice anche per il futuro (specie se nel frattempo non conclude APA). Sanzioni restano annullate.

Esito: Gamma paga una certa imposta (150k, la metà) ma niente sanzioni. Evita il penale (infedele, imposta evasa sotto 150k per anno a quel punto). E continua la sua attività con parametri chiari.

Considerazioni: Questo caso mostra la tipica diatriba di transfer pricing dove nessuna delle parti ha completamente torto. Il giudice/CTU in effetti arriva ad un valore mediano. Si evidenzia come la documentazione di TP non abbia evitato la rettifica ma almeno ha risparmiato le sanzioni. Inoltre, in simili situazioni cross-border, il MAP potrebbe essere attivato (Italia-Hong Kong niente trattato però, qui no MAP; ma se fosse consociata in Germania, sarebbe stata procedura arbitrato EU possibile). Il messaggio per le imprese è che conviene forse negoziare un APA con l’Agenzia per evitare di finire in tribunale su questioni tecniche così: di fatto, nel 2023 l’Agenzia italiana e quelle estere spingono per soluzioni cooperative su transfer pricing, perché costose per tutti se litigate.

Caso 4: Interposizione di persona fisica per conto estero

Scenario: L’imprenditore X ha accumulato nel tempo 5 milioni di euro su conti in Liechtenstein derivanti da utili distratti della sua azienda italiana. Per coprire le tracce, il conto è intestato a una fondazione liechtensteinese, di cui formalmene beneficiari sono alcuni familiari residenti all’estero. X tuttavia dispone pienamente dei fondi tramite procure occulte. Nel 2020, a seguito di informazioni emerse dai Panama Papers e scambio automatico CRS, la Guardia di Finanza avvia un’indagine finanziaria.

Contestazione del Fisco: Accertata l’esistenza della fondazione e dei conti (con movimenti che mostrano prelievi in contanti quando X era a Montecarlo, ecc.), l’Agenzia contesta l’interposizione fittizia: la fondazione è solo schermo, i soldi sono di X. Conseguentemente: – recupera a tassazione i redditi finanziari prodotti dal capitale (interessi, dividendi su titoli) come redditi di X non dichiarati dal 2016 al 2020 per, supponiamo, 200k € di imposte evase; – applica sanzione del 15% dell’importo non monitorato in RW per ogni anno (salatissima, 15% di 5 mln = 750k per anno, poi ridotta al cumulo giuridico ma comunque enorme); – irroga anche sanzione infedele 90-180% sull’IRPEF evasa sugli interessi; – in più, segnala il reato di omessa dichiarazione quadro RW e forse autoriciclaggio se i fondi provenivano da reati presupposto (ma tralasciamo).

Posizione del contribuente: X, messo alle strette, inizialmente nega: “È tutto della fondazione familiare, io non c’entro”. Ma di fronte alle evidenze (email dove lui dà istruzioni al trustee, prelievi con sue carte, etc.), capisce che reggere è difficile. Inoltre, i familiari beneficiari dichiarati non rivendicano niente (erano ignari). Decide quindi per la via conciliativa: su consiglio legale, X propone di aderire pagando le imposte e una sanzione ridotta, in cambio di chiudere anche il penale con non punibilità.

Strategia adottata: – X presenta istanza di adesione, offrendo di pagare tutti i redditi evasi con interessi. – Chiede contestualmente il cumulo giuridico delle sanzioni RW e un loro abbattimento (erano sproporzionate, e oltretutto Liechtenstein nel frattempo ha accordi, situazione fluida). – Porta avanti, parallelamente, un’istanza di voluntary disclosure bis (ma i termini erano chiusi, dunque non possibile se già scoperto – ipotesi). – In adesione, l’Ufficio concorda di ridurre le sanzioni RW al minimo (3% annuo invece che 15%) visto che i soldi non provenivano da attività illecite ma da utili già tassati (anche se non del tutto chiaro). – Le sanzioni IRPEF infedele ridotte a 1/3.

Esito: X paga ad esempio 200k (imposte) + 20k interessi + 250k sanzioni cumulate. Totale ~470k su 5 milioni di patrimonio estero (che legalizza rimanente). Il pagamento integrale estingue i reati tributari connessi. Resta un potenziale strascico per autoriciclaggio (perché quei fondi originariamente provenivano da distrazione utili – reato prescritto?), ma X patteggia eventualmente anche quell’aspetto con pena sospesa, avendo collaborato.

Considerazioni: Questo caso mostra come, una volta scoperta l’interposizione, spesso la miglior scelta è sanare e pagare. In una difesa teorica, X avrebbe potuto dire: “No, i soldi non sono miei, provatelo”. Ma viste le presunzioni forti (art.37 DPR 600) e le evidenze, avrebbe perso e in più affrontato sanzioni devastanti e penale. Così ha limitato danni (pagato 10% circa del patrimonio, salvato 90% legalmente). Questa è la logica anche delle voluntary disclosure che c’erano: meglio autodenunciarsi e pagare qualcosa che rischiare tutto. Difendere un’interposizione con prove a sfavore di solito è inutile: conviene negoziare.

Questi quattro casi coprono un ampio spettro: CFC pura, esterovestizione, transfer pricing e interposizione persone. Ciascuno evidenzia la dinamica contestazione-difesa-esito, mostrando in pratica come le normative e le tattiche si traducono in numeri e decisioni. Ovviamente ogni caso reale ha le sue sfumature, ma le lezioni generali sono:

  • Se la posizione del contribuente è molto debole (come Beta in Panama o X col conto estero), chiudere presto conviene per ridurre sanzioni e rischi penali.
  • Se ci sono ragionevoli argomenti (come Gamma sul TP, o i fratelli su confine CH), allora combattere può portare a soluzioni intermedie invece di pretese massime.
  • Gli strumenti internazionali (MAP, accordi bilaterali) possono risolvere situazioni di conflitto di residenza o doppia imposizione e dovrebbero sempre essere considerati in parallelo al contenzioso interno.
  • L’importanza di prove documentali e perizie: nei casi visti, chi ha portato analisi (Gamma) ha ottenuto ascolto; chi non aveva nulla (Beta, X) ha dovuto capitolare.
  • Sul penale, il denominatore comune: pagare il dovuto tende a salvare dalla condanna (principio di non punibilità ampiamente sfruttato sopra).

Con i casi pratici conclusi, passiamo ora a riepilogare i concetti chiave in forma tabellare per avere un quadro sinottico, e successivamente forniremo l’elenco delle fonti normative e giurisprudenziali utilizzate in questa trattazione.

Tabelle riepilogative

Per facilitare la comprensione e l’uso pratico delle informazioni trattate, riportiamo alcune tabelle di sintesi su aspetti cruciali: differenze tra i vari strumenti elusivi/evasivi internazionali, onere della prova e presunzioni nel contestare/utilizzare tali strumenti, sanzioni e reati in rapporto alle condotte, e principali difese disponibili. Queste tabelle offrono un colpo d’occhio comparativo e possono servire da guida rapida per operatori del settore.

Tabella 1 – Tipologie di contestazioni internazionali: caratteristiche principali

Tipo di condotta/contestazioneDescrizioneNormativa chiavePresunzioniDifesa principale
Esterovestizione (società)Residenza estera fittizia di società gestita dall’ItaliaArt. 73 TUIR (criteri residenza); Art. 73(5-bis) TUIRPresunzione legale residenza se controllata/amm. da italiani; Indizi sostanziali (sede effettiva, attività in Italia)Provare effettiva sede all’estero (substance); per UE, non costruzione artificiosa
CFC (Controlled Foreign Company)Utili di società estera a bassa tassazione imputati al socio ITArt. 167 TUIR (disciplina CFC)Presunzione imponibilità se ETR <15% + >1/3 passive incomeProvare esimente: attività economica effettiva all’estero (substance) o no controllo
Transfer Pricing (prezzi infragruppo)Prezzi distorti tra imprese collegate estero/Italia per spostare utiliArt. 110(7) TUIR (valore normale)– (Onere su Fisco di dimostrare difformità da valore normale)Documentare conformità a valori di mercato (OECD guidelines); comparables alternativi
Interposizione fittiziaIntestazione di redditi/beni a soggetto estero o terzo per celare il beneficiario italianoArt. 37(3) DPR 600/73Presunzione imputazione al reale possessore, indizi dissociazione titolarità/ disponibilitàProvare reale autonomia del soggetto interposto; assenza disponibilità da parte del residente
Stabile organizzazione occultaImpresa estera che opera in Italia tramite base non dichiarataArt. 162 TUIR (definizione stabile org.); Convenzioni art.5Presunzione da elementi materiali: locali, agente dipendente, durata >12 mesiNegare requisiti: attività preparatorie/ausiliarie in Italia, agente indipendente, ecc.

Note: ETR = Effective Tax Rate estero. Le presunzioni relative ammettono prova contraria (es. art.73(5-bis) è iuris tantum). L’esterovestizione UE richiede prova di “costruzione artificiosa” (onere sul Fisco), mentre extra-UE basta individuare sede amm. in Italia. Nell’interposizione non si distingue più tra fittizia o reale: sempre imputazione al beneficiario.

Tabella 2 – Contestazioni internazionali: onere della prova e difese

AmbitoChi deve provare cosaProva contraria ammessaElementi probatori tipici
Residenza societaria (esterovestizione)Fisco prova criteri residenza in Italia (sede effettiva, oggetto). In UE, deve provare artificialità struttura.Contribuente può provare che direzione è all’estero (riunioni CdA, decisioni fuori) o effettività struttura (personale, uffici).Verbali CdA, contratti di management, organigrammi, fatture locali, testimonianze dirigenti esteri.
CFC (utili non distribuiti)Fisco prova controllo e condizioni (passive income, low tax).Contribuente può dimostrare: società non low-tax (ETR ≥15%), oppure svolge attività economica effettiva (non costruzione artificiosa).Bilanci esteri certificati (calcolo ETR), documenti su attività (produzione/vendita reali), personale e mezzi impiegati all’estero.
Transfer pricingFisco deve motivare difformità da valore normale e proporre prezzo alternativo (metodo OECD).Contribuente può opporre analisi TP diversa: comparables differenti, spiegazione funzioni/rischi che giustificano margini diversi. Documentazione idonea esclude sanzioni.Studi di settore, banche dati comparables, masterfile e country file, perizie economiche, bilanci segmentati per funzioni.
InterposizioneFisco prova – anche per presunzioni – che contribuente ha disponibilità effettiva redditi formalmente di terzi. (Accordi simulatori, flussi finanziari, comportamenti).Contribuente può provare che l’intestazione ha sostanza: es. trust vero con trustee indipendente, beneficiario che realmente trattiene redditi (non girati).Tracce movimenti finanziari (bonifici da interposto a contribuente), procure o deleghe occulte, email istruzioni, ecc. Contratti fiduciari (se esistenti).
Stabile organizz. occultaFisco prova esistenza di base fissa o agente in Italia che svolge attività non ausiliarie per conto estero (sede affari)Contribuente può provare che attività in Italia era preparatoria, o che l’agente è indipendente e opera per più soggetti, o durata <12 mesi.Contratti di agenzia, prove di autonomia agente, natura attività (es. solo promozione, senza potere di concludere). Durata cantiere/progetto se <12 mesi.

Osservazioni: L’onere della prova può spostarsi con le presunzioni legali: es. art.73(5-bis) sposta su contribuente l’onere di provare estero; art.167 CFC, se requisiti integrati, onere al contribuente di provare esimente. In TP, la normativa italiana (L.147/2013) ha chiarito l’onere sulla AdE di motivare la rettifica, ma poi è richiesta cooperazione del contribuente per confutare. Nel penale, l’onere è su accusa con soglia di prova “oltre ragionevole dubbio”, e la collaborazione (es. pagamento) può evitare condanna.

Tabella 3 – Sanzioni amministrative e penali correlate

Violazione fiscaleSanzioni amministrativeFattispecie penale (soglie)Sanzione penale
Omessa dichiarazione di redditi (es. società esterovestita non dichiara in IT)120% – 240% dell’imposta evasa (minimo €250). + Sanz. monitoraggio 3-15% att. estere non dichiarate (RW).Art. 5 D.Lgs.74: omessa dichiarazione se imposta evasa > €50.000.Reclusione 1.6 – 4 anni.
Dichiarazione infedele (omessi redditi esteri o sovracosti)90% – 180% dell’imposta evasa (min €250). Se violazioni TP con doc. idonea: nessuna sanzione.Art. 4 D.Lgs.74: infedele se >€150k imposta evasa e >10% ricavi o >€3 mln elementi non dichiarati.Reclusione 2 – 4.5 anni. (Soglie alzate dal 2015, pena aumentata dal 2019).
Dichiarazione fraudolenta (es. mediante artifici: uso schema societario fittizio)135% – 270% imposta evasa (in genere, trattata come infedele aggravata).Art. 3 D.Lgs.74: fraudolenta con altri artifici, soglia > €30k imposta (ora €100k), condotte ingannevoli (contabilità doppia, operazioni simulate)Reclusione 3 – 8 anni (era 1.5-6, elevata nel 2019 a 3-8).
Emissione/utilizzo fatture false (spesso in frodi carosello internaz.)100% – 200% dell’IVA relativa. (Utilizzatore anche infedele se detrae costi fittizi).Art.2 (dich. fraud. con fatture): qualsiasi importo. Art.8 (emissione).Reclusione 4 – 8 anni (anche qui innalzata nel 2019).
Violazioni monitoraggio estero (RW) (omessa/infedele compilazione)3% – 15% dell’importo non dichiarato (per anno); 6% – 30% se paesi non coop.(No fattispecie penale specifica, salvo collegamenti a reati dichiarativi sopra).– (Può rilevare come elemento di altri reati, es. prove occultamento).
Altro: Mancata risposta a questionario, ecc.€2.000 – 5.000 per mancata risposta (collaborazione)

Riduzioni: Ravvedimento operoso riduce sanzioni (fino a 1/5 minimo se entro un anno). Adesione: sanzioni 1/3. Conciliazione giudiziale: 50% sanzioni.
Non punibilità penale: Pagamento integrale imposte + interessi + sanzioni amministrative prima del dibattimento esclude punibilità per reati di dichiarazione (2,3,4,5). Anche adesione con pagamento entro termini rientra. Inoltre causa di non punibilità per “particolare tenuità” se imposta evasa < 10k (art.13 co.3).
231/2001: Reati di dichiarazione fraudolenta, infedele, omessa (art.2,3,5) comportano responsabilità amministrativa ente: sanzione pecuniaria (da 100 a 500 quote; valore quota da €258 a €1.549) e interdittive (fino a 1 anno). Esempio: frode fiscale grave può costare centinaia migliaia € all’azienda colpevole.

Tabella 4 – Sintesi difese e soluzioni per il contribuente

Problema contestatoAzioni preventive/solutiveDifese specificheStrumenti speciali
Società esterovestita– Strutturare effettiva sede estera (uffici, board locale).<br>– Evitare intestazioni in Black list se gestita da ITA.<br>– Documentare decisioni prese all’estero.– Prova che sede amm. estero (es. tutti gli atti di gestione fuori).<br>– Per UE: richiamo libertà di stabilimento e sostanza economica (non fittizia).<br>– Contestare eventuali errori procedurali (es. se non valutati tutti indizi in insieme).– Procedura accordo doppia residenza (MAP tra Stati).<br>– Eventuale interpello preventivo (residenza fiscale) se dubbi (poco usato).
Utili non dichiarati (CFC/esteri)– Dichiarare sempre partecipazioni estere in RW.<br>– Se società estera in paradiso: presentare interpello disapplicativo CFC se credi esimente (attività reale).<br>– Valutare opzione branch exemption (nuovo art. 168-ter) se conviene.– Provare che società estera non configura CFC (no controllo, no low tax, attività genuine).<br>– In caso di imputazione redditi, chiedere riconoscimento credito per imposte estere pagate.<br>– Invocare eventuali trattati per evitare doppia imposizione su stessi redditi.– Adesione e pagamento integrale per evitare penale (se > soglia).<br>– Rimpatrio capitali (VD o collaborazione volontaria) per attenuanti.
Transfer pricing infragruppo– Preparare documentazione TP conforme e segnalarla in dichiarazione (penalty protection).<br>– Se operazioni significative, valutare Advance Pricing Agreement con AdE.<br>– Politiche di TP in linea con linee guida OCSE e applicarle costantemente.– Produrre perizia tecnica a supporto prezzi adottati (metodi, comparables).<br>– Contestare metodo AdE se inappropriato, proporre metodo alternativo e più coerente.<br>– Evidenziare funzioni e rischi limitati se giustificano margini minori (es. contract manufacturer).– Procedura amichevole (MAP) se doppia imposizione con altro Stato (specie per rettifiche corrispondenti).<br>– Arbitrato convenzionale UE per TP (se Stati UE).<br>– Conciliazione giudiziale: trovare accordo su margine con AdE in appello.
Interposizione (conti/offshore)– Evitare dissociazione legale/reale: se si vuole usare trust/fondazioni, assicurarsi reale perdita di disponibilità (altrimenti è rischioso).<br>– Dichiarare in RW trust esteri dove si è disponente o beneficiario.– Dimostrare che il soggetto interposto è vero proprietario (es. soldi rimasti a lui, tu non beneficiato).<br>– Se l’interposto è parente: evidenziare risorse proprie di costui per giustificare intestazione (difficile).<br>– In mancanza, puntare su vizi formali (es. motivazione avviso carente) ma raramente risolutivi.– Adesione con riduzione sanzioni monitoraggio (spesso conviene se importi enormi).<br>– Pagamento integrale per estinguere reati connessi.<br>– Voluntary Disclosure (se prevista riapertura): sanatoria spontanea con riduzioni sanzioni e non punibilità penale.
Doppia imposizione su stesso reddito– Pianificare trattamenti fiscali considerando crediti d’imposta e eventuali ruling con controparti estere per allocazione profitto.– Richiedere in sede contenziosa applicazione art.165 TUIR (credito imposta).<br>– Opporre eccezione di violazione trattato se evidente (ma poi risolta via MAP).– Attivare MAP convenzionale entro 3 anni dall’accertamento.<br>– Attivare Dir. UE 2017/1852 per arbitrato se applicabile (doppia imp. entro UE).<br>– Negoziare con controparte estera soluzioni (es. rettifiche corrispondenti).

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Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato il trasferimento di utili verso società o conti localizzati in paradisi fiscali?
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👉 Prima regola: dimostra la reale natura delle operazioni e l’assenza di intenti elusivi o evasivi, fornendo documentazione chiara sulla provenienza e destinazione degli utili.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Utili societari trasferiti a società controllate o collegate in Paesi a fiscalità privilegiata;
  • Dividendi esteri non dichiarati in Italia;
  • Movimenti bancari verso conti in giurisdizioni black list senza giustificazione;
  • Operazioni infragruppo ritenute artificiose per abbattere la base imponibile;
  • Assenza di documentazione che provi la reale operatività delle società estere.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero delle imposte sugli utili trasferiti all’estero;
  • Sanzioni fiscali molto elevate per omessa o infedele dichiarazione;
  • Interessi di mora sulle somme accertate;
  • Rischio di contestazioni penali per dichiarazione fraudolenta o riciclaggio;
  • Maggiori controlli futuri su tutti i rapporti esteri del contribuente.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Le società estere coinvolte erano realmente operative o meri “gusci vuoti”?
  • Esiste documentazione che provi la legittimità dei trasferimenti (contratti, delibere, bilanci)?
  • Gli utili trasferiti erano già stati tassati in Italia o altrove?
  • È applicabile una convenzione contro le doppie imposizioni con il Paese estero?
  • L’accertamento si basa su prove concrete o solo su presunzioni di elusione?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Bilanci e delibere societarie di distribuzione utili;
  • Contratti e documentazione infragruppo;
  • Estratti conto bancari e prove dei trasferimenti;
  • Certificazioni estere delle imposte già pagate;
  • Convenzioni internazionali applicabili.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la realtà economica e commerciale delle operazioni con l’estero;
  • Contestare la presunzione di elusione con prove documentali;
  • Fare valere le convenzioni contro la doppia imposizione e il diritto al credito d’imposta;
  • Evidenziare la buona fede e l’adozione di pratiche fiscali conformi;
  • Richiedere annullamento in autotutela o presentare ricorso entro 60 giorni alla Corte di Giustizia Tributaria;
  • Difesa penale mirata in caso di contestazioni per riciclaggio o frode fiscale.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

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📌 Verifica la fondatezza della contestazione e individua i margini difensivi;
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🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e fiscalità internazionale;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su utili trasferiti in paradisi fiscali;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni sul trasferimento di utili in paradisi fiscali non sempre sono fondate: spesso si basano su presunzioni generiche o su interpretazioni restrittive delle norme anti-elusione.
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