Consulenza Tributaria Internazionale: Come Scegliere Gli Avvocati

Sei un’impresa o un professionista che opera all’estero e hai bisogno di consulenza tributaria internazionale? Le operazioni transfrontaliere, i rapporti con società estere, la gestione dei redditi fuori dall’Italia e l’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni sono aspetti molto complessi, costantemente sotto la lente dell’Agenzia delle Entrate. Scegliere avvocati esperti in materia fiscale internazionale è fondamentale per tutelare i propri interessi, ridurre i rischi di contestazioni e pianificare correttamente il carico fiscale.

Quando serve una consulenza tributaria internazionale
– Se possiedi società o filiali all’estero e devi gestire il transfer pricing
– Se percepisci redditi esteri (dividendi, royalties, interessi, plusvalenze)
– Se detieni conti correnti, investimenti o immobili fuori dall’Italia
– Se sei soggetto a possibili casi di doppia imposizione fiscale
– Se l’Agenzia delle Entrate contesta la tua residenza fiscale o la sede effettiva di una società

Rischi senza una consulenza specializzata
– Doppia tassazione dei redditi in Italia e all’estero
– Errori nella compilazione del quadro RW e conseguenti sanzioni
– Contestazioni per esterovestizione, stabile organizzazione o fittizia residenza estera
– Accertamenti fiscali con recupero di imposte, sanzioni e interessi elevati
– Possibili procedimenti penali per omessa dichiarazione di redditi esteri o riciclaggio internazionale

Come scegliere gli avvocati giusti per la consulenza tributaria internazionale
– Verifica che abbiano esperienza specifica in diritto tributario internazionale
– Valuta le competenze in transfer pricing, normativa OCSE e convenzioni bilaterali
– Assicurati che abbiano già seguito contenziosi con l’Agenzia delle Entrate in materia internazionale
– Preferisci studi legali capaci di offrire assistenza sia in fase di pianificazione che in sede di contenzioso
– Controlla che abbiano conoscenza delle procedure di cooperazione amministrativa e scambio di informazioni fiscali tra Stati

Cosa fa l’avvocato nella consulenza tributaria internazionale
– Analizza la posizione fiscale del cliente in Italia e all’estero
– Individua i rischi di doppia imposizione e propone soluzioni concrete
– Predispone accordi di transfer pricing e strategie di pianificazione fiscale lecita
– Assiste nei rapporti con l’Agenzia delle Entrate in caso di accertamenti internazionali
– Difende il contribuente davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale

Cosa ottieni con un’assistenza legale specializzata
– La certezza di una pianificazione fiscale conforme alla legge
– La riduzione del rischio di contestazioni per operazioni internazionali
– La corretta gestione del quadro RW e degli obblighi di monitoraggio fiscale
– La tutela dei tuoi redditi esteri da tassazioni ingiuste o duplici
– La sicurezza di pagare solo quanto realmente dovuto secondo le convenzioni internazionali

⚠️ Attenzione: la fiscalità internazionale è una delle aree più complesse e più controllate dal Fisco italiano. È fondamentale affidarsi ad avvocati esperti per evitare errori che possono tradursi in contestazioni milionarie e procedimenti penali.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscale internazionale – spiega quando serve una consulenza tributaria internazionale e come scegliere i professionisti più qualificati per proteggere i tuoi interessi.

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Introduzione

Nel contesto odierno di economia globalizzata, le questioni fiscali travalicano sempre più spesso i confini nazionali. Consulenza tributaria internazionale significa saper affrontare problemi complessi che coinvolgono normative di diversi Paesi, accordi contro le doppie imposizioni, strumenti di pianificazione patrimoniale transnazionale e collaborazione tra autorità fiscali. In questa guida avanzata – aggiornata a settembre 202 – esploreremo in dettaglio come un contribuente (specie se debitore o a rischio di controversie fiscali) può tutelarsi e quali strategie legali esistono. Ci rivolgeremo sia a professionisti del diritto tributario (avvocati, dottori commercialisti), sia a privati imprenditori e cittadini che necessitano di orientamento. Adotteremo un linguaggio tecnicamente preciso (riferimenti normativi e giurisprudenziali) ma con finalità divulgative per rendere accessibili concetti complessi.

Tra i temi che affronteremo vi sono: la residenza fiscale (persone fisiche e società) e le sue insidie, incluso il fenomeno dell’esterovestizione; gli strumenti di protezione patrimoniale (trust, fondi patrimoniali, società holding) e il loro utilizzo lecito vs. illecito; le procedure di regolarizzazione dei capitali esteri (come la voluntary disclosure e altri rientri dei capitali); gli interpelli internazionali (accordi preventivi con il Fisco per avere certezza su operazioni transfrontaliere); e infine i meccanismi di cooperazione amministrativa internazionale (scambio automatico di informazioni finanziarie, assistenza tra Stati nel recupero delle imposte, procedure amichevoli per evitare doppie imposizioni).

Poiché il focus è sugli strumenti di tutela dal punto di vista del contribuente-debitore, evidenzieremo sia le opportunità lecite di pianificazione e difesa, sia i rischi legali (sanzioni amministrative e reati tributari) connessi a comportamenti elusivi o evasivi. In ogni sezione, offriremo esempi pratici italiani, tabelle riepilogative per sintetizzare i concetti chiave e una sezione di Domande e Risposte (FAQ) per chiarire i dubbi più frequenti. L’obiettivo è fornire una guida completa e autorevole, corredata dalle fonti normative pertinenti e dalle più recenti sentenze di corti italiane (Corte di Cassazione, Corte Costituzionale) ed europee, in modo che il lettore possa approfondire ulteriormente tramite riferimenti verificabili.

1. La Scelta dell’Avvocato per la Fiscalità Internazionale

Affrontare questioni di fiscalità internazionale richiede competenze multidisciplinari ed esperienza specifica. Come scegliere l’avvocato giusto? È cruciale individuare un professionista (o uno studio) con solide conoscenze di diritto tributario italiano e convenzioni internazionali, padronanza dell’inglese giuridico (e magari di altre lingue, data la necessità di interagire con consulenti esteri) e, preferibilmente, abilitazione o collaborazione transfrontaliera. A differenza del commercialista tradizionale focalizzato sugli aspetti contabili e dichiarativi, l’avvocato tributarista internazionale può offrire un valore aggiunto in fase di pianificazione fiscale strategica, strutturazione di operazioni estere e soprattutto nella gestione del contenzioso tributario su scala internazionale.

Ecco alcuni criteri da valutare nella scelta di un legale esperto in fiscalità internazionale:

  • Formazione e specializzazione: verificate che l’avvocato abbia una formazione avanzata (master o corsi) in diritto tributario internazionale o comparato. L’iscrizione ad associazioni professionali come l’International Fiscal Association (IFA) o STEP (Society of Trust and Estate Practitioners, per i trust) è un indicatore di specializzazione.
  • Esperienza pratica: un buon tributarista internazionale avrà casi concreti alle spalle – es. difesa di contribuenti in procedimenti per residenza fiscale fittizia, consulenza su trust e holding estere, accordi preventivi con l’Agenzia delle Entrate, ecc. Chiedete esempi (nei limiti della riservatezza) delle operazioni seguite dal professionista.
  • Network internazionale: la capacità di collaborare con studi legali o fiscali esteri di fiducia è fondamentale. Ad esempio, se state valutando di trasferire la residenza in un altro Paese o di aprire una società all’estero, l’avvocato dovrà interfacciarsi con consulenti locali per gli aspetti di diritto straniero.
  • Pluridisciplinarietà: spesso la soluzione ottimale nasce dal lavoro congiunto di avvocato tributarista e dottore commercialista (esperto contabile). Verificate se lo studio legale collabora con commercialisti o se al suo interno vi sono figure in grado di coprire anche gli aspetti contabili/fiscali (dichiarazioni, bilanci) così da offrire un servizio integrato.
  • Aggiornamento normativo: il panorama della fiscalità internazionale è in evoluzione continua (si pensi alle riforme fiscali italiane del 2023-2024, agli accordi OCSE G20 come il Common Reporting Standard, alle direttive UE DAC6/DAC7, ecc.). È importante che l’avvocato sia aggiornato alle ultime novità legislative e giurisprudenziali. Ad esempio, un professionista aggiornato saprà che la definizione di residenza fiscale in Italia è cambiata dal 1° gennaio 2024 (ne parleremo tra poco) e conoscerà le più recenti pronunce della Cassazione in tema di esterovestizione .

Consiglio pratico: durante il primo colloquio, presentate brevemente la vostra situazione (es. “Sono residente in Italia ma ho attività e conti in Svizzera” oppure “Vorrei costituire una società in Delaware mantenendo l’attività in Italia”) e fate domande mirate. Un buon avvocato tributarista internazionale saprà subito individuare i profili critici (es. rischio di doppia residenza, obblighi monitoraggio fiscale, rischio di contestazione esterovestizione, ecc.) e illustrarvi possibili soluzioni o accorgimenti. Diffidate invece di chi banalizza eccessivamente (“trasferisci tutto all’estero, così non paghi tasse”) o, all’opposto, di chi sembra poco pratico di scenari internazionali (magari focalizzato solo sul diritto tributario interno). La fiscalità estera offre opportunità, ma anche trappole, e solo con una consulenza qualificata si può evitare che una pianificazione aggressiva si traduca in un contenzioso o, peggio, in sanzioni penali.

2. Residenza Fiscale delle Persone Fisiche: Criteri e Nuove Regole

La residenza fiscale di una persona fisica è il punto di partenza per determinare dove quella persona debba pagare le imposte sul reddito. Un individuo fiscalmente residente in Italia è tassato in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti (worldwide taxation), mentre un non residente paga le imposte italiane solo sui redditi di fonte italiana (principio di territorialità) . Ne consegue che stabilire correttamente la residenza fiscale è fondamentale: ad esempio, un cittadino italiano che vive stabilmente nel Regno Unito sarà esente da tassazione in Italia sui redditi esteri solo se ha effettivamente perso la residenza fiscale italiana ed acquisito quella britannica secondo i criteri di legge e l’eventuale convenzione tra i due Paesi .

Criteri di residenza fiscale in Italia (persone fisiche) – L’art. 2 del TUIR (DPR 917/1986) definisce i criteri in base cui un soggetto è considerato residente in Italia ai fini delle imposte sui redditi. Fino al 31/12/2023, i criteri erano tre, non tassativi, da valutarsi per la maggior parte dell’anno: (a) iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente (Anagrafe comunale, oppure AIRE se residente all’estero); (b) domicilio in Italia ex art.43 cod. civ. (inteso come sede principale degli affari e interessi, soprattutto morali e familiari); (c) residenza in Italia ex art.43 cod. civ. (dimora abituale). In pratica, la prassi considerava residente chi risultava iscritto all’anagrafe italiana oppure aveva in Italia il centro dei propri interessi o la dimora per più di 183 giorni l’anno .

Dal 1° gennaio 2024, tali criteri sono stati ridefiniti dal D.Lgs. 29 dicembre 2023 n. 209 (attuativo della legge delega di riforma fiscale 2022-2023). Le novità principali sono:

  • L’iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) da sola non è più determinante: costituirà solo una presunzione relativa di residenza all’estero, superabile con prova contraria . In parallelo, l’iscrizione nelle anagrafi italiane non comporta più automaticamente la residenza fiscale, se la persona dimostra di aver effettivamente vissuto all’estero. Ciò è coerente con l’orientamento della Cassazione, che ha più volte ribadito che un certificato di residenza estero ha valore meramente formale se tutti gli indizi concreti (famiglia, abitazione, attività) indicano ancora l’Italia come centro di vita .
  • Sono ora previsti tre criteri alternativi e distinti, ciascuno sufficiente a configurare la residenza in Italia :
  • Iscrizione nelle anagrafi italiane (presenza nel registro della popolazione residente) – resta un indizio, ma come detto va rafforzato da elementi sostanziali.
  • Domicilio in Italia (ex art. 43 c.c.) – interpretato in senso più aderente alla nozione di centro degli interessi vitali (legami personali e familiari prevalenti in Italia).
  • Residenza (dimora abituale) in Italia – ossia permanenza fisica sul territorio italiano per più di 183 giorni nell’anno (considerando qualsiasi frazione di giorno).

È sufficiente il soddisfacimento di anche uno solo di questi criteri per qualificare il soggetto come residente fiscale italiano (purché tale condizione sussista per oltre metà dell’anno) . Ad esempio, un cittadino italiano che si trasferisce formalmente a Dubai iscrivendosi all’AIRE ma continua a mantenere in Italia la moglie e i figli (centro degli affetti) e vi trascorre alcuni mesi l’anno, sarà comunque considerato residente in Italia in base al domicilio prevalente, a meno che la convenzione contro le doppie imposizioni con gli Emirati Arabi Uniti (in vigore dal 2021) gli attribuisca la residenza estera attraverso le tie-breaker rules (criteri di “rottura” in caso di doppia residenza) . Viceversa, una persona che trascorre più di 183 giorni all’anno in Portogallo, ha lì un’abitazione e vi trasferisce la vita familiare, potrà acquisire la residenza portoghese (ad esempio beneficiando del regime speciale per pensionati esteri) e perdere quella italiana, a condizione di aver anche adempiuto agli obblighi formali (iscrizione AIRE, ecc.) . In tal caso, grazie alla convenzione Italia-Portogallo, certi redditi come la pensione potrebbero essere tassati solo nel nuovo Stato .

Tabella – Criteri di Residenza Fiscale (Persone Fisiche)

CriterioFino al 2023 (interpretazione previgente)Dal 2024 (riforma fiscale)
Iscrizione AnagraficaDeterminante (salvo prova contraria, iscrizione in Italia = residente; iscrizione AIRE = non residente)Presunzione relativa (indizio formale, superabile con prove del contrario). Non iscriversi all’AIRE comporta sanzioni (€200–€1000 annui) ma non basta a provare la residenza se fatti mostrano effettiva vita all’estero .
Domicilio (centro interessi)Valutato congiuntamente ad altri indizi (famiglia, affari).Criterio autonomo: se i legami personali/familiari sono prevalentemente in Italia, si è residenti, anche se formalmente registrati altrove. Coincide con “centro interessi vitali” per tie-breaker OCSE.
Residenza (dimora abituale)Soggiorno >183 giorni in Italia considerato con altri elementi.Criterio autonomo: presenza fisica in Italia per >183 giorni rende residente, a meno che altri criteri convenzionali prevalgano in caso di conflitto di residenze.
Presunzione “black list”Art. 2 co.2-bis TUIR: chi trasferiva residenza in paradisi fiscali era presunto residente in Italia (salvo prova contraria).ABROGATA di fatto dalla riforma e dall’applicazione delle convenzioni: oggi anche per Paesi a bassa fiscalità vale la regola generale + eventuale tie-breaker. Cass. n. 35284/2023: la presunzione interna cede di fronte ai criteri convenzionali OCSE .

Nota: In caso di doppia residenza (due Stati che simultaneamente considerano residente la stessa persona), si applicano le clausole previste dalle convenzioni contro le doppie imposizioni (generalmente modellate sull’art. 4 del Modello OCSE). Tali criteri tie-breaker seguono un ordine: (1) abitazione permanente; (2) centro degli interessi vitali (legami personali ed economici più stretti); (3) soggiorno abituale; (4) cittadinanza; e in ultima istanza, procedura amichevole tra le autorità competenti . Queste regole convenzionali prevalgono sul diritto interno: ad esempio, come accennato, la Cassazione ha riconosciuto che anche un trasferimento in un Paese “black list” può risultare effettivo se, applicando i criteri convenzionali, l’interessato risulta avere lì il suo tie-break (criterio risolutivo) .

Obblighi formali e sanzioni: Chi trasferisce la residenza all’estero deve comunicare la cancellazione dall’anagrafe italiana e iscriversi all’AIRE entro 90 giorni. Dal 2024 la L. 13/2023 (Legge di bilancio 2023) ha introdotto una sanzione amministrativa da € 200 a € 1.000 per anno per omessa iscrizione AIRE nei termini . Questa sanzione è pensata per rafforzare il monitoraggio delle emigrazioni fiscali, ma – come detto – l’eventuale mancata iscrizione non determina automaticamente la residenza in Italia, che va invece desunta dai fatti. Ciò non toglie che la presenza negli elenchi anagrafici italiani sia ancora un elemento di cui il Fisco terrà conto: in un contenzioso, spetterà al contribuente provare di aver vissuto stabilmente all’estero se risulta formalmente residente in Italia (onere della prova a suo carico, secondo giurisprudenza costante) .

Case study: Mario, pensionato, si trasferisce in Portogallo aderendo al regime speciale per residenti non abituali. Si iscrive all’AIRE e vive a Lisbona più di 183 giorni l’anno, affittando casa e portando con sé il coniuge. Non ha più immobili né familiari in Italia. – In questo scenario Mario dovrebbe risultare non residente in Italia, con residenza fiscale esclusiva in Portogallo, e la sua pensione italiana sarà tassata solo in Portogallo (come previsto dall’art. 18 della Convenzione Italia-Portogallo) . Se invece Mario avesse mantenuto in Italia la casa familiare e vi trascorresse diversi mesi, oppure avesse omesso l’iscrizione AIRE continuando a comparire nei registri italiani, l’Agenzia delle Entrate avrebbe validi appigli per considerarlo ancora residente in Italia (invocando il centro degli interessi o la dimora abituale) e potrebbero chiedergli le imposte su tutti i redditi esteri, contestando un’esterovestizione della residenza . In caso di accertamento, Mario dovrebbe esibire prove concrete della sua nuova vita portoghese (contratti di locazione, bollette, conti bancari, iscrizione al sistema sanitario, ecc.) e potrebbe eventualmente attivare la procedura amichevole (MAP) tra Italia e Portogallo prevista dalla convenzione per risolvere il conflitto di residenza, qualora l’Italia insistesse nel ritenerlo residente nonostante gli elementi contrari.

3. Residenza Fiscale delle Società ed Esterovestizione

Accanto alle persone fisiche, un tema cruciale di fiscalità internazionale è la residenza fiscale delle società. In Italia, i criteri legali sono stabiliti dall’art. 73 TUIR. Anche qui, di recente vi sono state modifiche importanti: il D.Lgs. 27 dicembre 2023 n. 209 ha riscritto i parametri a decorrere dal 1° gennaio 2024 , con l’intento di allineare la normativa italiana alle prassi internazionali e contrastare con maggior efficacia la cosiddetta esterovestizione societaria (fittizia residenza all’estero di società che operano in Italia).

3.1 Criteri di Residenza Fiscale delle Società (riforma 2024)

Secondo il “nuovo” art. 73 TUIR, sono considerate fiscalmente residenti in Italia le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo d’imposta, hanno nel territorio dello Stato alternativamente: (a) la sede legale; (b) la sede di direzione effettiva; (c) la sede della gestione operativa in via principale . Vediamoli nel dettaglio:

  • Sede legale: rimane il criterio formale classico, ovvero il luogo indicato nell’atto costitutivo o nello statuto come sede della società. Se tale sede è in Italia, la società è residente, a prescindere da dove operi effettivamente.
  • Sede di direzione effettiva: rappresenta il luogo in cui vengono adottate in maniera continuativa e coordinata le decisioni strategiche e di gestione più importanti dell’ente . In pratica coincide col place of effective management del Modello OCSE. Questa nozione sostituisce il previgente concetto di “sede amministrativa” (ritenuto poco chiaro) e viene a coincidere con dove gli organi direttivi apicali (consiglio di amministrazione, amministratori delegati) concretamente dirigono l’attività societaria.
  • Sede della gestione operativa (in via principale): criterio introdotto ex novo nel 2024, individua il luogo in cui si svolgono, in modo continuativo e prevalente, gli atti di gestione ordinaria e l’attività imprenditoriale quotidiana . Ad esempio, dove si trovano gli uffici amministrativi, dove lavorano i dipendenti, da dove partono gli ordini e si gestiscono clienti e fornitori.

La presenza anche di uno solo di questi collegamenti con l’Italia per oltre metà dell’anno fiscale rende la società residente in Italia . È importante notare che la riforma ha eliminato il precedente criterio dell’“oggetto principale” (ossia il luogo dove si svolgeva principalmente l’attività statutaria): questo perché creava incertezze ed era facilmente eludibile. Ora ci si concentra su criteri più oggettivi e sostanziali legati alla gestione e direzione.

L’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 20/E del 4 novembre 2024, ha chiarito che il nuovo dettato normativo mantiene continuità sostanziale con il passato . In pratica: se la sede legale è in Italia, la società resta certamente residente; se la sede legale è all’estero ma la direzione e/o gestione operativa sono in Italia, continuerà a scattare la residenza italiana, come già avveniva considerando la “sede dell’amministrazione” pre-2024 (concetto ora sdoppiato in direzione effettiva e gestione operativa). La novità semmai è che ora il legislatore ha fornito definizioni più puntuali, utili per accertare la sostanza economica delle strutture societarie. Resta fermo, ovviamente, che possono verificarsi situazioni di doppia residenza societaria (ad es. un Paese estero considera la medesima società residente da loro secondo altri criteri): in tali casi valgono le clausole delle convenzioni, che tipicamente assegnano la residenza allo Stato in cui si trova la sede di direzione effettiva (tie-breaker per enti) .

3.2 Il fenomeno dell’Esterovestizione Societaria

Con il termine esterovestizione si indica la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di un soggetto, al solo scopo di sottrarsi al fisco italiano . Più precisamente, nel caso delle società si parla di esterovestizione quando un’entità formalmente costituita e registrata all’estero (spesso in Paesi a fiscalità privilegiata o comunque più conveniente) viene di fatto amministrata dall’Italia e svolge qui la sua attività principale . L’esterovestizione consente indebiti vantaggi fiscali – tipicamente l’applicazione di aliquote più basse o l’assenza di tassazione sui redditi – a scapito del principio di tassazione nel luogo di effettiva produzione del reddito. Per l’ordinamento italiano, una società esterovestita costituisce a tutti gli effetti un caso di evasione fiscale (non semplice elusione) in quanto si fonda su false rappresentazioni (la sede estera fittizia) e sulla violazione di obblighi dichiarativi in Italia .

Norme anti-esterovestizione: già prima della riforma 2024, esistevano nel TUIR disposizioni mirate a intercettare queste situazioni. L’art. 73 comma 5-bis TUIR (introdotto dal 2006) prevede una presunzione legale relativa secondo cui determinate società estere sono considerate comunque residenti in Italia . Tale presunzione scatta se la società estera: (i) è controllata, direttamente o indirettamente, da soggetti residenti in Italia; (ii) è localizzata in un Paese a regime fiscale privilegiato (black list); (iii) detiene prevalentemente partecipazioni o attività in Italia (funzione di mera holding di società italiane). In presenza di queste condizioni, si presume che la società abbia in Italia il centro effettivo di direzione e interessi, salvo prova contraria a carico del contribuente . In sostanza, la società viene trattata come esterovestita per legge e l’onere è sull’azienda di dimostrare che invece l’attività sostanziale avviene davvero all’estero (es. mostrare struttura operativa reale fuori, amministratori indipendenti, ecc.).

(Da notare che una analoga presunzione esisteva per le persone fisiche: art. 2 comma 2-bis TUIR, già citato, che presuntivamente considerava residenti in Italia coloro che trasferivano la residenza in Paesi black list. Tale norma, dopo modifiche intervenute dal 2019, è di fatto inoperante oggi, essendo prevalenti i criteri convenzionali.)

Giurisprudenza: La Corte di Cassazione negli anni ha più volte affrontato contenziosi in materia di esterovestizione, consolidando alcuni principi chiave. Recentemente, con le sentenze n. 17289/2024 e n. 18143/2025, la Suprema Corte ha ribadito che ai fini dell’individuazione della sede effettiva di una società conta il luogo di concreta gestione e amministrazione . In particolare, la nozione di “sede dell’amministrazione” va fatta coincidere con quella di sede effettiva: il luogo in cui si svolgono le attività direttive, dove si tengono le riunioni societarie rilevanti, dove risiede il management principale e da cui parte l’impulso alla gestione . I giudici devono guardare a molteplici elementi fattuali: ad es. la dimora dei dirigenti apicali, il luogo in cui vengono conservati i documenti contabili e societari, dove si trovano i conti bancari aziendali, dove si svolgono le operazioni finanziarie, nonché dove si trova il principale mercato o bacino di clienti della società . Se tutti questi indizi convergono sull’Italia, poco importa se la sede legale risulta alle Cayman o a Malta: la società sarà considerata residente in Italia a pieno titolo.

La Cassazione ha anche chiarito che la lotta all’esterovestizione non viola di per sé la libertà di stabilimento garantita dal diritto UE . Richiamandosi alla celebre dottrina della Corte di Giustizia UE (caso Cadbury Schweppes, C-196/04, 2006), la Corte italiana ha affermato che misure come l’art. 73 co.5-bis TUIR sono giustificate dalla necessità di contrastare costruzioni puramente artificiose, prive di sostanza economica, create al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale . In altri termini, la libertà di stabilimento consente certamente a un imprenditore italiano di aprire una società in un altro Stato membro o in un Paese terzo, ma richiede che vi sia un insediamento reale e un’attività economica effettiva in quel Paese per poter invocare la protezione comunitaria. Se invece la società è solo sulla carta all’estero ma di fatto opera in Italia, le autorità fiscali italiane possono tassarla come residente senza violare il diritto UE, in quanto stanno semplicemente disregarding una veste formale considerata artificiosa.

Esempio pratico: Alfa Srl è costituita a Malta dove ha la sede legale; tuttavia i due soci (italiani) e l’amministratore unico risiedono a Milano, dove prendono tutte le decisioni. Alfa Srl detiene partecipazioni in due Srl italiane e una villa in Toscana, e i ricavi provengono in gran parte da affari conclusi in Italia. – In questo scenario, Alfa Srl sarà considerata fiscalmente residente in Italia. Si verifica infatti più di un criterio: la direzione effettiva è a Milano (riunioni e decisioni strategiche prese lì) e anche la gestione operativa quotidiana in pratica avviene in Italia (i soci-amministratori gestiscono clienti e fornitori italiani, e Malta funge solo da sede “di comodo”). Secondo le norme italiane e gli orientamenti giurisprudenziali, Alfa Srl dovrà dichiarare in Italia i propri redditi mondiali, e le verranno applicate le imposte italiane (IRES, IRAP) . Inoltre, l’Agenzia delle Entrate potrà contestare per gli anni passati l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi in Italia da parte di Alfa Srl (un’omissione rilevante anche penalmente se le imposte evase superano le soglie di punibilità) . In caso di accertamento per esterovestizione, Alfa Srl potrà difendersi solo provando un’effettiva attività a Malta (es. uffici con dipendenti maltesi, riunioni documentate lì, contratti stipulati e gestiti a Malta, ecc.), cosa che appare difficile in questo esempio. Se nulla di ciò è dimostrabile, l’esito sarà con ogni probabilità un recupero a tassazione in Italia di tutti gli utili non dichiarati, con sanzioni e interessi, oltre alla possibilità di contestazioni penali per dichiarazione fraudolenta o omessa.

Profili penali: la condotta di chi realizza un’esterovestizione societaria può rilevare sotto vari aspetti. Anzitutto, presentare dichiarazioni fiscali estere “di comodo” e occultare gli imponibili in Italia integra almeno il reato di dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs. 74/2000) se i redditi non dichiarati superano le soglie, o persino omessa dichiarazione (art.5) se nessuna dichiarazione è stata presentata in Italia . Inoltre, in caso di frode allo Stato più grave, potrebbe configurarsi il reato di associazione per delinquere transnazionale finalizzata all’evasione, se più persone coordinano la fittizia allocazione estera (ipotesi estrema, ma contestata in alcuni casi di schemi societari offshore complessi). Va poi ricordato il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art.11 D.Lgs.74/2000): se l’esterovestizione è attuata dopo la maturazione di un debito tributario importante e al fine di renderne difficile la riscossione (ad es. trasferendo asset a una società estera per evitare pignoramenti in Italia), può configurare questa fattispecie penale. La Cassazione ha affermato che anche atti astrattamente leciti possono costituire mezzi fraudolenti se compiuti con l’intento di sfuggire al pagamento delle imposte dovute . Insomma, l’esterovestizione non è solo un tema fiscale-amministrativo, ma può sfociare in conseguenze penali serie per amministratori e consulenti coinvolti.

Onere della prova e difesa: in un procedimento per esterovestizione, l’Amministrazione finanziaria italiana deve in prima battuta fornire elementi che facciano ragionevolmente presumere la gestione italiana (es. sede di fatto, operatività in Italia). Una volta superata questa soglia, scatta a carico del contribuente l’onere di provare che la residenza estera è genuina e che sussistono tutti i requisiti per l’esenzione da quella italiana . Questo comporta tipicamente produrre documentazione estera (bilanci, contratti, bolle, fatture con controparti estere, verbali di assemblee all’estero, ecc.), testimonianze, perizie, ecc. Se la società riesce a dimostrare una presenza reale all’estero (una substance economica), può ribaltare la presunzione. In caso contrario, l’accertamento verrà confermato. Un possibile strumento preventivo è l’interpello sui nuovi investimenti o sulle CFC (ne parleremo in seguito) per ottenere parere dell’Agenzia a priori sulla residenza, anche se nel caso specifico dell’esterovestizione l’interpello non è ammesso “in bianco” – ovvero non si può chiedere all’Agenzia una certificazione di residenza fiscale, decisione che spetta ai fatti – ma solo su aspetti specifici. In pratica, un’impresa che vuole essere sicura di non incorrere in contestazioni di esterovestizione deve strutturare adeguatamente la propria presenza estera fin dall’inizio (sede operativa, personale locale, autonomia decisionale all’estero) e mantenere traccia di ciò.

Focus: Esterovestizione e Imposte Indirette

Sebbene l’esterovestizione venga generalmente discussa in relazione alle imposte dirette (redditi d’impresa non tassati), va segnalato che può avere riflessi anche sulle imposte indirette. Ad esempio, la Cassazione ha recentemente affrontato il caso di un conferimento di immobili italiani in una SRL con sede legale a Londra ma attività gestita in Italia: ha stabilito che, essendo la società esterovestita, all’atto andava applicata l’imposta di registro proporzionale italiana (anziché quella fissa agevolata prevista per conferimenti a società estere), poiché “il contrasto del fenomeno dell’esterovestizione societaria assume rilevanza anche ai fini dell’imposta di registro” . In altre parole, una società simulatamente estera viene trattata come italiana anche per le operazioni su beni siti in Italia, con recupero delle imposte indirette eventualmente evase. Questo rafforza ulteriormente il principio della prevalenza della sostanza sulla forma: non conta il “vestito” giuridico estero, se la realtà economica è domestica. Le imprese devono tenerne conto anche in operazioni straordinarie: ad esempio, trasferire la sede legale all’estero prima di una vendita immobiliare per pagare meno imposte di registro è una strategia che può venire disconosciuta dall’amministrazione.

3.3 Esterovestizione delle Persone Fisiche

Analogamente alle società, anche le persone fisiche possono incorrere in contestazioni di esterovestizione, quando trasferiscono la residenza all’estero solo sulla carta, mentre la loro vita rimane legata all’Italia. Ne abbiamo già parlato a proposito dell’art. 2 comma 2-bis TUIR (presunzione per chi va in paradisi fiscali) e dei criteri oggettivi. Vale la pena ribadire alcuni punti pratici:

  • L’Agenzia delle Entrate monitora attentamente i movimenti anagrafici e finanziari: l’iscrizione all’AIRE di per sé non mette al riparo se poi emergono spese o indici di presenza in Italia incompatibili con un’effettiva emigrazione (utenze attive, carte di credito utilizzate in Italia per buona parte dell’anno, dichiarazioni ISEE, ecc.).
  • In sede di accertamento, spesso il Fisco chiede al contribuente di fornire prova dettagliata della propria permanenza all’estero (biglietti aerei, contratti di affitto, bollette estere, iscrizione a club/assicurazioni locali, ecc.). Contemporaneamente raccoglie dagli archivi pubblici italiani dati su eventuali proprietà immobiliari possedute, contratti attivi (ad es. un’auto assicurata e circolante in Italia), famigliari rimasti sul territorio, incarichi sociali in società italiane, ecc. Se questi elementi indicano un centro di interessi ancora in Italia, l’Ufficio può emettere accertamento sostenendo che la residenza fiscale non è mai cessata in Italia.
  • La Cassazione ha chiarito, come già accennato, che un certificato di residenza fiscale estera rilasciato da uno Stato estero (tax residency certificate) è solo un elemento formale: non basta ad evitare la tassazione in Italia se i fatti dimostrano diversamente . Hanno fatto giurisprudenza alcuni casi in cui la Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione al contribuente basandosi sul certificato AIRE e di residenza UK, ma la Cassazione ha annullato tali decisioni, ribadendo che ciò che conta sono gli elementi di fatto (famiglia, attività, patrimonio) e che il contribuente deve provarli .

Profilo penale (persone): nel caso di persone fisiche, l’esterovestizione può avere risvolti di dichiarazione infedele od omessa. Inoltre, se l’espatrio fittizio avviene con debiti tributari già in essere o procedimenti in corso, anche qui si può configurare la sottrazione fraudolenta al pagamento (ad es. se il contribuente sposta tutti i propri beni a San Marino o in un trust estero per evitare l’esecuzione coattiva). Non a caso, la Guardia di Finanza spesso indaga chi trasferisce improvvisamente la residenza all’estero dopo aver accumulato cartelle esattoriali: tale comportamento, se accompagnato da operazioni di occultamento di beni, può essere perseguito.

Come difendersi? Per il contribuente che genuinamente si è trasferito all’estero, è fondamentale tenere un dossier personale: documentare anno per anno la propria presenza fuori d’Italia (visti, contratti, iscrizioni, buste paga estere, ecc.). In caso di contestazione, si può proporre ricorso in Commissione Tributaria evidenziando tutti gli elementi che provano l’effettività del trasferimento. Se esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni col Paese estero, quella sarà la stella polare: si dimostrerà che secondo i criteri convenzionali la residenza spetta all’altro Stato (esempio: il contribuente ha abitazione permanente solo all’estero, famiglia lì, ecc.). In casi limite, è possibile attivare una Mutual Agreement Procedure (MAP) tra i due Stati se entrambi pretendono le imposte come residenti: è una procedura prevista nei trattati che consente alle amministrazioni di accordarsi sullo status del contribuente, evitandogli la doppia tassazione.

Infine, una precauzione importante: quando si valuta un trasferimento di residenza per motivi fiscali, è bene chiedere una consulenza preventiva. Un avvocato tributarista potrà esaminare la situazione e segnalare eventuali rischi di continuità di residenza italiana, magari suggerendo di attendere a realizzare plusvalenze o a disinvestire finché la residenza estera non sia saldamente acquisita da almeno un anno fiscale. Spesso, improvvisare un esodo fiscale senza pianificazione porta a cadere nelle maglie delle normative anti-esterovestizione, con conseguenze pesanti.

4. Strumenti di Protezione Patrimoniale: Trust, Fondo Patrimoniale, Holding

Passiamo ora agli strumenti giuridici di protezione patrimoniale maggiormente utilizzati in ambito internazionale e domestico: trust, fondo patrimoniale e società holding. Questi istituti, se correttamente impiegati, permettono di separare il patrimonio personale dai rischi d’impresa o dalle pretese di creditori, e possono avere anche benefici fiscali. Tuttavia, è fondamentale comprendere i limiti legali: un uso distorto o abusivo di tali strumenti può essere neutralizzato dai giudici o addirittura configurare reato (se finalizzato a frodare il Fisco o altri creditori). Esaminiamoli singolarmente in ottica avanzata.

4.1 Il Trust

Cos’è e come funziona: Il trust è un istituto di origine anglosassone, recepito nell’ordinamento italiano tramite la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985 (ratificata con L. 364/1989, in vigore dal 1992) . In Italia non esiste una legge interna specifica sul trust, ma si riconoscono i trust istituiti secondo una legge straniera (ad esempio la legge di Jersey, di Guernsey, del Regno Unito, ecc.) scelta dal disponente nell’atto istitutivo. Il trust comporta che un soggetto, detto disponente (settlor), trasferisca determinati beni o diritti ad un altro soggetto, il trustee, il quale li amministra nell’interesse di beneficiari o per uno scopo determinato, secondo le istruzioni stabilite nell’atto istitutivo. I beni conferiti in trust formano un patrimonio separato sia dai beni personali del trustee sia da quelli eventualmente rimasti nel patrimonio del disponente . Ciò significa che tali beni non possono essere aggrediti dai creditori personali del trustee, né (in linea di principio) dai creditori del disponente . È proprio questa efficacia segregativa che rende il trust uno strumento di protezione patrimoniale: ad esempio, se Tizio conferisce un immobile in trust a beneficio dei figli, un suo creditore personale non potrà pignorare quell’immobile, perché formalmente appartiene al trustee “nell’interesse dei figli” e non più a Tizio.

Effetti giuridici e fiscali: Un punto cruciale da comprendere è che nel trust non avviene un vero trasferimento di ricchezza immediato a favore dei beneficiari. Il trasferimento dal disponente al trustee ha natura strumentale e non arricchisce il trustee (che è vincolato a gestire nell’interesse altrui). La Cassazione ha chiarito questo concetto affermando che “il conferimento dei beni al trust produce soltanto efficacia segregante, poiché il trustee non ne è proprietario in senso pieno ma solo amministratore, e quei beni non possono che essere trasferiti ai beneficiari finali” . In altri termini, il disponente non “regala” davvero i beni al trustee, bensì li destina ad uno scopo, e il vero arricchimento patrimoniale si avrà solo quando i beni usciranno al termine del trust in favore dei beneficiari. Questo principio ha riflessi importanti in campo fiscale: ad esempio in tema di imposta sulle successioni e donazioni, la giurisprudenza (Cass. SS.UU. n. 21614/2016 e seguenti) ha stabilito che il mero conferimento di beni in trust non sconta tale imposta, perché manca un arricchimento stabile di qualcuno . L’imposta sarà casomai dovuta all’atto di attribuzione finale ai beneficiari (in base al rapporto di parentela col disponente), come riconosciuto oggi anche dall’Amministrazione finanziaria nella Circolare 34/E/2022 . Allo stesso modo, gli atti di dotazione in trust scontano imposte di registro ipotecarie e catastali in misura fissa (200€ ciascuna), trattandosi di atti neutri di segregazione , salvo casi particolari (ad es. se col trust si fruisce indebitamente di agevolazioni prima casa, la Cassazione ha chiarito che il conferimento in trust equivale ad alienazione e può far perdere l’agevolazione, v. Cass. 24387/2024 ).

Perché usare un trust? I trust trovano impiego in molti ambiti: – Tutela dei familiari e passaggio generazionale: un genitore può vincolare beni in trust per garantire il mantenimento dei figli minorenni o disabili, oppure per regolare la successione nell’azienda di famiglia a favore di eredi specifici, evitando le liti ereditarie. Simile al patto di famiglia ma più flessibile.
Protezione da rischi d’impresa: un imprenditore può segregare parte del patrimonio personale (es. immobili di pregio) in un trust destinato alla famiglia, in modo che eventuali fallimenti o crisi della sua attività non intacchino quei beni.
Pianificazione fiscale internazionale: trust istituiti in giurisdizioni estere possono, se correttamente strutturati, ottimizzare il carico fiscale su investimenti (es. trust opachi in Paesi con convenzioni che riducono le ritenute su dividendi). Attenzione però: dal 2020 in Italia esistono norme anti elusione sui trust esteri interposti e sulle CFC (Controlled Foreign Trust), per cui questi schemi vanno maneggiati con cautela e sostanza economica reale.
Benefici sociali o filantropici: trust caritatevoli, trust per sostituzione fedecommissaria a favore di soggetti incapaci, trust per gestire patrimoni artistici, ecc.

Limiti e rischi: Il trust non deve essere usato come schermo fittizio per compiere operazioni fraudolente. Se un disponente crea un trust ma continua a gestire i beni “come se fossero ancora suoi”, magari traendone liberamente utilità, il trust perde efficacia e può essere considerato simulato. La Cassazione penale ha definito “trust autodestinato” quello in cui il disponente di fatto mantiene il controllo del fondo o ne dispone come proprietario: in tali casi il trust è un negozio simulato e anzi costituisce un mezzo fraudolento verso i creditori . Questa affermazione è stata resa in ambito penale per confermare la configurabilità del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte quando un imprenditore crea un trust solo per mettere al riparo i beni dal Fisco. In sede civile, esistono potenti rimedi contro trust di tal fatta: – L’azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.), con cui i creditori possono far dichiarare inefficace nei loro confronti l’atto di dotazione del trust se lede la loro garanzia patrimoniale. Trattandosi di atto a titolo gratuito (nella grande maggioranza dei trust familiari), è sufficiente provare che il debitore lo ha compiuto conoscendo il pregiudizio per i creditori – la cosiddetta scientia fraudis – senza bisogno di coinvolgere i beneficiari (che non sono considerati aventi causa onerosi) . La giurisprudenza ha ampiamente confermato che l’istituzione di un trust a favore dei propri familiari può essere revocata se fatta in frode ai creditori preesistenti (i beni tornano aggredibili). Peraltro, essendo il trust di regola gratuito, l’azione è più facile: non serve provare la malafede del trustee o dei beneficiari .
– L’art. 2929-bis c.c. (introdotto nel 2015), che consente al creditore munito di titolo esecutivo di pignorare direttamente i beni conferiti a titolo gratuito (es. in un trust o in una donazione) dal debitore, senza dover fare la causa di revocatoria, purché l’atto dispositivo sia successivo al sorgere del credito. Questa norma, concepita proprio per accelerare la reazione ai trust e alle donazioni poste in essere post-debito, ha reso pressoché immediata l’aggredibilità di trust “last minute” costituiti quando già c’erano debiti insostenibili.

Inoltre, se il trust è usato per finalità elusive o evasive sul piano fiscale, l’Amministrazione può contestarne gli effetti: ad esempio, se un contribuente di alto reddito residenziale in Italia sposta tutti i suoi investimenti finanziari in un trust estero “opaco” per non pagarci le tasse, il Fisco potrebbe qualificarlo come trust interposto, imputando comunque i redditi al disponente o ai beneficiari reali (in base all’art. 37, co.3, DPR 600/73) e sanzionando l’omessa dichiarazione. Nel 2023 l’Agenzia Entrate ha emanato anche una risposta a interpello (n. 176/2023) che re-interpreta in senso estensivo l’interposizione nei trust post-mortem, segno dell’attenzione crescente su possibili abusi .

Trust e fisco italiano – Riepilogo normativo:
Riconoscimento giuridico: Convenzione Aja 1985 (L. 364/1989).
Imposte indirette: registro, ipotecaria, catastale fisse sui conferimenti in trust (Circolare 34/E/2022 recepisce Cassazione) ; atti di dotazione equiparati a vincoli di destinazione (art. 2645-ter c.c.).
Imposte dirette: trust “trasparenti” (redditi imputati ai beneficiari) vs “opachi” (tassazione IRPEF/IRES propria del trust); i trust esteri opachi con beneficiari italiani possono essere considerati CFC (tassazione per trasparenza) se localizzati in black list.
Imposta successioni/donazioni: dovuta solo all’uscita ai beneficiari, secondo aliquote e franchigie relative al disponente-beneficiario .
Monitoraggio fiscale (quadro RW): obbligo di segnalare la qualità di disponente o beneficiario di trust esteri (circ. 38/E/2013; 34/E/2022).
Antiriciclaggio & UBO: registrazione del trust nel Registro dei Titolari Effettivi se il trustee è soggetto a AML in Italia; comunicazione del “trustee residente” in Anagrafe Tributaria (Provv. Ag.Entrate 2021).

In sintesi, il trust è un prezioso strumento di pianificazione patrimoniale e successoria, ma va istituito con motivi genuini e gestito in modo trasparente. Se usato correttamente, consente di raggiungere obiettivi impossibili con gli strumenti tradizionali del codice civile; se usato strumentalmente per celare beni o evadere, non reggerà alla prova dei fatti: tribunali e fisco hanno ormai una ricca esperienza nell’andare oltre la facciata formale e colpire i trust fasulli. Come suggerito da un’autorevole sentenza, “anche un atto formalmente lecito come un trust può costituire atto fraudolento se fatto in presenza di un debito fiscale e allo scopo di ostacolarne il recupero” .

4.2 Il Fondo Patrimoniale

Cos’è e come funziona: Il fondo patrimoniale è un istituto previsto dal codice civile italiano (artt. 167–171 c.c.), introdotto con la riforma del diritto di famiglia del 1975. Si tratta di un vincolo che una coppia coniugata (o unita civilmente, esteso dal 2016) può costituire su beni immobili, mobili registrati o titoli di credito, destinandoli a far fronte ai bisogni della famiglia. In pratica, marito e moglie (o uno dei due, o anche un terzo per loro) conferiscono determinati beni in questo “fondo”; i beni restano di proprietà dei coniugi (o del coniuge conferente) ma vincolati all’uso familiare. La protezione consiste nel fatto che i beni del fondo patrimoniale non sono aggredibili dai creditori per debiti che il coniuge ha contratto per scopi estranei ai bisogni familiari (art. 170 c.c.). Ad esempio, se un coniuge subisce un’azione esecutiva per debiti derivanti dalla sua attività imprenditoriale, può opporre che la casa inserita nel fondo patrimoniale non è pignorabile perché quel debito non riguarda un bisogno della famiglia.

Limiti e interpretazioni sui “bisogni della famiglia”: La nozione di bisogni familiari comprende le esigenze di mantenimento, crescita ed educazione dei figli, e più in generale il tenore di vita della famiglia. Non vi rientrano invece i debiti contratti per attività voluttuarie o speculative individuali. Ad esempio, un debito di gioco non è certo un bisogno familiare. Ma dove si collocano i debiti fiscali o d’impresa? Su questo la giurisprudenza si è dibattuta a lungo. L’orientamento oggi prevalente – e messo nero su bianco anche di recente – tende a tutelare maggiormente i creditori, soprattutto se si tratta dell’Erario. In particolare, la Corte di Cassazione ha stabilito che “anche un debito di natura tributaria, sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, potrebbe ritenersi contratto per soddisfare i bisogni della famiglia” . In altre parole, se un soggetto svolge attività d’impresa per mantenere la famiglia, le obbligazioni fiscali correlate (tasse sui redditi, IVA, ecc.) non sono completamente avulse dai bisogni familiari, anzi ne sono una conseguenza indiretta. Pertanto il Fisco, quando interviene per riscuotere, prevale sul fondo patrimoniale: può pignorare i beni nel fondo se il debitore non paga le imposte, a meno che quest’ultimo dimostri che quel debito fiscale non aveva nessuna attinenza con gli interessi della famiglia . Si tratta di una prova quasi impossibile da fornire (dovrebbe provare, ad esempio, che l’attività d’impresa era svolta per fini estranei alla famiglia – il che difficilmente regge).

Cass. n. 3600/2016 (citata nel brano sopra) ha consolidato questa linea, richiamando precedenti pronunce risalenti (Cass. 11230/2003, 12998/2006, 3738/2015). In concreto, Equitalia/Agenzia delle Entrate Riscossione hanno buon gioco nel procedere su immobili in fondo patrimoniale per debiti fiscali: il contribuente può opporsi solo se riesce a provare che quel particolare debito era destinato a scopi personali del tutto slegati dalla famiglia (cosa rara per le imposte, che derivano in genere da redditi che la famiglia ha pur sempre goduto). Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto pignorabile un immobile in fondo patrimoniale per debiti IVA di un professionista, considerando che anche tali redditi concorrono al mantenimento del nucleo .

Inoltre, se il credito (fiscale o di altro tipo) era anteriore alla costituzione del fondo patrimoniale, il creditore può agire in revocatoria ordinaria (entro 5 anni dall’atto) per far dichiarare inefficace il fondo stesso. Questo accade spesso: un contribuente riceve un avviso di accertamento o ha grosse cartelle, e corre dal notaio a costituire un fondo patrimoniale per salvare la casa. Ebbene, se il Fisco ha già iscritto a ruolo il debito o comunque se questo è sorto prima, l’atto di costituzione del fondo è dolosamente preordinato a frodare il creditore e può essere revocato (art. 2901 c.c. ultima parte). Il tutto senza nemmeno necessità di provare la malafede del coniuge cointestatario, dato che si tratta di atto a titolo gratuito. La giurisprudenza è uniforme in merito: ad esempio Cass. 21494/2020 ha confermato la revocatoria di un fondo fatto da un imprenditore con debiti erariali noti, evidenziando l’elemento di frode.

Rischi penali: creare un fondo patrimoniale in presenza di debiti tributari può integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) se ricorrono gli estremi di un’attività simulata volta a rendere inefficace la riscossione coattiva. Tuttavia, la Cassazione ha specificato (sent. n. 33074/2022) che non ogni costituzione di fondo con debiti in essere è di per sé reato: va provato l’elemento fraudolento, cioè l’intento specifico di sottrazione e il carattere simulato o comunque ingannevole dell’operazione. Spesso i fondi patrimoniali sono pubblici e opponibili, quindi in teoria il Fisco può venirne a conoscenza – ciò a volte è valso ad escludere l’inganno. Ma se ci sono indizi di mala fede (ad es. il fondo viene istituito di nascosto subito dopo un avviso bonario di milioni di euro), allora può scattare la denuncia. Insomma, il fondo patrimoniale viene talvolta visto come la “via facile” per mettere al sicuro la casa; ma attenzione: offre protezione limitata e può complicare la posizione del debitore se abusivo.

Vantaggi residui del fondo: Alla luce di quanto detto, il fondo patrimoniale oggi offre una protezione effettiva solo in scenari ristretti. Può difendere i beni: – Da debiti contratti dopo la costituzione del fondo e chiaramente estranei ai bisogni familiari (es. un finanziamento utilizzato dal coniuge per speculazioni personali all’insaputa della famiglia).
– Nel caso di morte di uno dei coniugi, i beni in fondo non rientrano nella comunione ereditaria finché serve il vincolo, anche se poi gli eredi potranno chiederne lo scioglimento.
– Offre una certa riservatezza: l’atto istitutivo va annotato a margine dei registri immobiliari, ma la gestione resta in capo ai coniugi che possono compiere atti di disposizione (seppur con qualche limitazione) senza troppa pubblicità.

Tuttavia, come strumento di asset protection, il trust è considerato molto più efficace e flessibile del fondo patrimoniale. Molti professionisti consigliano il trust al posto del fondo per patrimoni significativi, proprio perché il fondo è stato “depotenziato” da giurisprudenza e norme come il 2929-bis c.c.

Conclusione: Il fondo patrimoniale può servire come primo livello di tutela per famiglie tradizionali, ma non è una barriera robusta contro i creditori qualificati (specialmente l’Erario). Se avete un fondo patrimoniale e ricevete cartelle esattoriali, non fate l’errore di pensare di essere automaticamente immuni: il Fisco potrà comunque iscrivere ipoteca e procedere, e starà a voi eventualmente opporvi dimostrando l’estraneità del debito ai bisogni familiari – una battaglia in salita. In ottica avanzata, chi vuole proteggere beni di famiglia da rischi di impresa o fiscali valuterà strumenti diversi (trust, vincoli di destinazione ex art.2645-ter c.c., affidamento fiduciario, ecc.) con l’aiuto di un legale.

4.3 La Società Holding

Cos’è e perché si utilizza: Una holding è una società (tipicamente di capitali, es. SRL o SpA) la cui attività principale consiste nel detenere partecipazioni in altre società, controllandole e gestendole. Costituire una holding rientra nelle strategie di protezione e ottimizzazione patrimoniale per vari motivi: – Separazione dei patrimoni: i beni (quote societarie, immobili aziendali, liquidità) detenuti dalla holding sono giuridicamente separati dal patrimonio personale dell’imprenditore . Ciò significa che, ad esempio, se l’imprenditore persona fisica ha debiti, i creditori difficilmente possono aggredire direttamente le partecipazioni in holding (a meno di passare per azioni su quella società), e viceversa i debiti di una controllata non ricadono sulle altre o sul titolare.
Limitazione della responsabilità: la holding è di per sé un soggetto giuridico autonomo con responsabilità limitata al capitale sociale. Patrimonializzare una holding con riserve permette di creare uno scudo: in caso di dissesto di una controllata operativa, la holding perde al più il valore della partecipazione ma preserva il resto del suo attivo.
Efficienza fiscale: Le holding consentono di sfruttare regimi fiscali favorevoli, come la participation exemption (in Italia: esenzione 95% sulle plusvalenze da cessione di partecipazioni detenute da >12 mesi), la tassazione di gruppo (consolidato fiscale nazionale) o il regime madre-figlia per i dividendi intra-UE (direttiva madre-figlia). In alcuni casi, costituire la holding in una giurisdizione estera con convenzioni vantaggiose può ridurre le ritenute su dividendi e interessi o abbattere la tassazione sulle plusvalenze . Naturalmente queste operazioni devono avere sostanza economica: costituire una holding in Olanda o Lussemburgo è lecito, ma se è fatta solo per risparmio d’imposta senza reale attività, può essere contestata come abuso del diritto.
Gestione centralizzata e pianificazione successionoria: tramite la holding, un imprenditore può accorpare in un unico veicolo tutte le partecipazioni delle sue aziende. Ciò facilita i passaggi generazionali (basta trasferire – magari gradualmente – le quote della holding ai figli, anziché manipolare molteplici società) e consente un controllo unificato del gruppo . Inoltre la holding può emettere diverse classi di quote/azioni (es. con o senza diritto di voto) dando flessibilità nel distribuire poteri e utili tra eredi.
Patto di famiglia e continuità: spesso la holding è utilizzata come strumento per attuare patti di famiglia, conferendo l’azienda di famiglia alla holding e poi trasferendo le quote ai discendenti prescelti, indennizzando gli altri. È un meccanismo più agile che trasferire asset singoli.

Esempio: Il sig. Rossi possiede interamente due SRL operative (una nel settore immobiliare, l’altra commerciale). Crea una NewCo Holding SRL dove apporta le quote delle due società, ricevendo in cambio quote della holding. Ora la Holding Rossi SRL controlla al 100% le due società operative. Quali vantaggi ottiene? I dividendi che le due SRL versano alla holding godono di esenzione da ritenuta (essendo flussi interni) e la holding pagherà IRES solo sul 5% di essi (participation exemption), accumulando utili tassati molto poco. Se Rossi volesse vendere una delle due aziende, venderebbe la relativa partecipazione dalla holding: la plusvalenza in capo alla holding sarebbe esentasse al 95%. Inoltre, se un domani Rossi volesse ritirarsi e lasciare tutto ai figli, potrebbe semplicemente cedere le quote della holding (eventualmente a titolo gratuito, pagando l’imposta di donazione una volta sola sul valore complessivo). In più, se una delle due società fallisse, la holding verrebbe intaccata solo per la perdita della partecipazione, ma i creditori di quella SRL non potrebbero toccare gli asset dell’altra SRL né il patrimonio personale di Rossi. Inversamente, se Rossi persona fisica avesse dei debiti, i creditori non potrebbero aggredire direttamente i beni delle sue società, ma al più pignorare le sue quote di holding – il che però non trasferisce automaticamente la disponibilità dei beni sociali.

Attenzione però: l’utilizzo di holding estere o di schemi societari complessi è sorvegliato dal Fisco per possibili abusi. Se la holding svolge solo funzioni di schermo (screen holding) in un paradiso fiscale, può entrare in gioco: – la normativa CFC (Controlled Foreign Company), art. 167 TUIR, che imputerebbe per trasparenza al socio residente gli utili della holding estera se priva di sostanza economica e tassata sotto il 50% dell’aliquota italiana;
– le presunzioni di esterovestizione già viste (art. 73 co.5-bis TUIR) se la holding estera è gestita dall’Italia e controlla società italiane;
– la normativa anti-abuso generale (art. 10-bis Statuto del contribuente, D.Lgs. 128/2015) per contestare eventuali vantaggi fiscali indebiti (ad es. un percorso artificioso per vendere indirettamente un’azienda italiana esentasse tramite una holding estera e liquidare poi la holding, eludendo la plusvalenza che avrebbe colpito la cessione diretta delle quote italiane).

Un caso recente in Cassazione (sent. n. 9096 del 7/4/2025) ha riguardato proprio un trust con holding interposta: un imprenditore italiano aveva messo le sue azioni in una holding svizzera posseduta da un trust inglese, cercando di camuffare la plusvalenza di vendita. La Cassazione ha smascherato l’operazione come elusiva, tassando la plusvalenza in capo all’imprenditore e ignorando la struttura estera . Questo per dire che la mera creazione di entità estere non assicura l’esenzione fiscale se manca sostanza.

Holding e protezione patrimoniale interna: Non serve andare all’estero: anche avere una holding italiana può aiutare a proteggere il patrimonio. Ad esempio, molte famiglie imprenditoriali costituiscono una holding immobiliare (che detiene gli immobili di famiglia e li affitta alle società operative) distinta dalle società di produzione o vendita. Così, se l’attività commerciale va male, i capannoni restano al sicuro nella holding e non rischiano di essere aggrediti dai creditori della società operativa (che li ha solo in locazione). Chiaramente, banche e fornitori in tali casi spesso richiedono garanzie a monte (fideiussioni personali o della holding stessa), riducendo il vantaggio, ma rimane un grado di separazione utile.

Aspetti fiscali italiani delle holding: – Le holding industriali godono, come detto, di participation exemption sulle plusvalenze e quasi esenzione sui dividendi (effetto “cascata” della distribuzione di utili tassati a monte al 24% IRES: la holding paga il 1.2% circa effettivo).
– Se la holding opta per il consolidato fiscale nazionale con le figlie (possibile se quota >50%), può compensare utili e perdite delle varie società e presentare un’unica dichiarazione consolidata. Questo ottimizza il carico fiscale del gruppo e semplifica i rapporti col Fisco (anche se responsabilizza la holding per eventuali debiti fiscali consolidati).
– L’IVA di gruppo: c’è la possibilità di versare IVA per saldi compensati tra società controllate, riducendo gli esborsi.
– Attenzione alla sottocapitalizzazione: se la holding finanzia le figlie con prestiti anziché capitali, bisogna considerare le regole sul transfer pricing interno e interessi passivi deducibili (thin capitalization rules); ma queste si applicano similmente anche senza holding.

Conclusione: La holding è uno strumento potente e legittimo di pianificazione. L’importante è che abbia una ragione economica: riorganizzare il gruppo, facilitare investimenti, preparare il passaggio generazionale, cercare efficienza finanziaria. Se invece è creata unicamente per spostare profitti in qualche buco nero fiscale, diventa un azzardo. Con un buon avvocato tributarista, si può disegnare l’architettura societaria ottimale, italiana o estera, valutando i trattati internazionali, le normative CFC e antielusive, e predisponendo la documentazione necessaria a difenderla (es. studi di trasfer pricing, delibere che mostrino l’autonomia della holding, ecc.). Spesso, in casi complessi, si può anche ricorrere a un interpello preventivo con l’Agenzia delle Entrate per ottenere conferma che una data struttura non costituisce abuso (lo vedremo nel prossimo capitolo).

Tabella – Confronto Trust, Fondo Patrimoniale, Holding

CaratteristicaTrustFondo PatrimonialeHolding (società)
NormativaConvenzione Aja 1985; disciplina di legge straniera scelta; riconoscimento in Italia L.364/89.Codice civile artt. 167-171.Codice civile per SRL/SpA; normativa tributaria TUIR, ecc.
Soggetti coinvoltiDisponente, Trustee, Beneficiari, (Guardiano eventuale).Coniugi (o un terzo conferente) e famiglia.Soci (persona fisica o altra società), amministratori, ecc.
Scopo tipicoPianificazione successoria, tutela di beneficiari deboli; protezione beni da rischi personali del disponente.Garanzia bisogni familiari (casa coniugale, redditi per mantenimento figli).Detenzione partecipazioni, coordinamento di gruppo societario; separare attività diverse.
Effetto sui beniSegregazione: beni escono dal patrimonio del disponente e dal trustee (patrimonio separato) . Creditori disponente non aggrediscono salvo revocatoria.Vincolo di destinazione sui beni dei coniugi: impignorabilità relativa per debiti estranei ai bisogni familiari (art. 170 c.c.).Separazione persona fisica/società: beni in holding non appartenenti direttamente al singolo; responsabilità limitata.
DurataFissata dall’atto (può essere a termine o condizionato ad evento, es. figlio che raggiunge 25 anni).Dura finché matrimonio non si scioglie o finché i coniugi decidono (possono revocare o sciogliere per necessità).A tempo indeterminato finché la società esiste (passa alle future generazioni per quote).
Vantaggi fiscali– Differimento imposte donazione/successione fino a attribuzione finale . <br>– Possibili vantaggi su redditi esteri se trust non residente (ma attenti a norme CFC). <br>– Pianificazione IVA/registro su trasferimenti di beni in trust (prima casa, ecc., con attenzione però a Cassazione su abuso ).– Nessun vantaggio fiscale particolare (il fondo di per sé non dà esenzioni d’imposta). <br>– Solo esenzione bollo auto su veicoli in fondo? (prevista ma marginale).– Participation exemption: 95% plusvalenze esenti, dividendi praticamente esenti in capo alla holding . <br>– Consolidato fiscale di gruppo. <br>– Pianificazione internazionale (accordi per evitare doppia tassazione sui flussi intra-gruppo).
Svantaggi / Limiti– Richiede gestione accurata: costi del trustee, contabilità separata. <br>– Scarsa familiarità di alcuni notai/uffici con istituto (possibili intoppi nei registri immobiliari italiani, ecc.). <br>– Soggetto a revocatoria se fatto in frode; se autodichiarato (settlor = trustee = beneficiario) rischia di essere ignorato dal Fisco .– Limitato ai coniugi; non protegge da debiti sorti prima. <br>– Viene facilmente superato per debiti fiscali . <br>– Meno flessibile: i beni restano di proprietà coniugi, dunque in caso di crisi coniugale o d’impresa il giudice può autorizzare pignoramenti se reputa il debito per bisogni famiglia (interpretazione ampia).– Costo e adempimenti di una società (bilanci, notaio per atti). <br>– Se utilizzata per eludere fisco, può generare contenziosi (CFC, esterovestizione, abuso diritto). <br>– Necessita spesso di consulenza continuativa per massimizzare benefici (es. per decidere politiche dividendi, finanziamenti intra-gruppo).

Come si evince, non esiste uno strumento migliore in assoluto: la scelta dipende dagli obiettivi e dalla situazione specifica. Un avvocato esperto saprà consigliare magari un mix: ad es. conferire beni in una holding e poi mettere le quote di holding in un trust a fini successori; oppure prima trasferire immobili di famiglia in un trust e poi farli detenere a una holding che li affitta alle aziende (soluzione complessa ma con vantaggi multipli). L’importante è non improvvisare: una decisione avventata può portare a inefficacia (es. trust non opponibile) o a costi inutili.

5. Rientro dei Capitali e Voluntary Disclosure

Negli ultimi dieci anni l’Italia – in linea con molti altri Paesi – ha varato misure per favorire il rientro dei capitali detenuti all’estero non dichiarati, offrendo ai contribuenti l’opportunità di regolarizzare la propria posizione con sanzioni ridotte e, soprattutto, evitando conseguenze penali. Lo strumento cardine è stato la cosiddetta Voluntary Disclosure (collaborazione volontaria), declinata in più edizioni.

5.1 Voluntary Disclosure: nozione e benefici

Introdotta per la prima volta con la Legge 186/2014, la voluntary disclosure è una procedura straordinaria in cui il contribuente si autodenuncia al Fisco, fornendo un rendiconto completo di attività finanziarie e patrimoniali estere finora occulte, pagando tutte le imposte evase sul passato e una parte delle sanzioni (fortemente ridotte), in cambio dell’esonero da responsabilità penale per alcuni reati tributari (dichiarazione infedele, omessa, talora riciclaggio) . In sintesi, è un patto: “stato, ti dico tutto quello che ho nascosto e pago il dovuto, tu in cambio non mi mandi in galera e non mi applichi le sanzioni ordinarie draconiane”. I vantaggi tipici di chi aderisce a una voluntary disclosure sono: – Sanzioni amministrative ridotte al minimo (es. per omessa dichiarazione di investimenti esteri, invece del 30% per anno si paga intorno al 3% o poco più) .
– Esclusione della punibilità penale per reati di evasione connessi (frode fiscale, omessa dichiarazione, ecc.), purché il contribuente fornisca informazioni complete e paghi quanto concordato . In pratica, l’adesione perfezionata estingue i reati tributari relativi ai periodi regolarizzati.
– Niente raddoppio dei termini di accertamento: il Fisco normalmente, in caso di attività estere non dichiarate, può andare indietro 10 anni, ma con la collaborazione spesso si limita a 5 anni (dipende dalle edizioni).
– Possibilità di rateizzare le somme dovute e di evitare misure come sequestro/confisca dei capitali (che viceversa, se scoperti d’ufficio, possono essere congelati) .
– Nessuna segnalazione automatica per riciclaggio: di norma, far emergere capitali illegali esporrebbe a segnalazioni antiriciclaggio; nel quadro di una VD, invece, l’UIF (Unità di Informazione Finanziaria) considerava la collaborazione come attenuante e le banche potevano trattare i fondi regolarizzati con minor sospetto.

Cosa si può regolarizzare: conti correnti esteri (Svizzera, Montecarlo, Singapore, ecc.), depositi di titoli, polizze assicurative estere, immobili all’estero non dichiarati, metalli preziosi, società offshore non dichiarate, criptovalute detenute su exchange esteri, ecc. Sono inclusi sia gli asset (patrimoni) che i redditi derivati da essi e mai tassati (interessi, dividendi, capital gain, affitti esteri) . Inoltre, è oggetto di disclosure anche il cosiddetto monitoraggio fiscale (quadro RW): se un contribuente residente non ha compilato il modulo RW dichiarando le attività estere, può sanare questa omissione in VD pagando le relative sanzioni ridotte .

Costi per il contribuente: aderire non è affatto un condono liberatorio a prezzo stracciato. Bisogna pagare integralmente tutte le imposte arretrate sui redditi non dichiarati (IRPEF e addizionali per le persone fisiche, IRES per società, ecc.), con relativi interessi. Le sanzioni amministrative vengono ricalcolate in misura ridotta come per un ravvedimento speciale (e spesso condonate nella parte eccedente). Un calcolo empirico mostrava che mediamente chi aderisce finisce per dare allo Stato tra il 30% e il 60% dei capitali emersi , a seconda della composizione (capitale originario, redditività, Paese di detenzione) e della durata dell’evasione. È un esborso significativo ma quasi sempre inferiore a ciò che succederebbe in caso di accertamento: se il Fisco scoprisse autonomamente quei capitali, applicherebbe sanzioni piene dal 90% al 200% del non dichiarato, fino a 10 anni, e scatterebbero denunce penali con rischi di confisca integrale dei beni per equivalente . Senza contare la pubblicità negativa e il possibile blocco dei conti esteri a seguito di rogatorie o di segnalazioni (oggi probabili grazie allo scambio di informazioni CRS, di cui parleremo).

Procedura: La voluntary disclosure si attiva presentando un’istanza all’Agenzia delle Entrate, completa di una relazione dettagliata in cui il contribuente ricostruisce la storia dei capitali: origine (ad es. redditi non dichiarati, eredità, donazioni, attività economiche in nero), trasferimenti, consistenze anno per anno. Vanno indicati tutti gli intermediari esteri coinvolti (banche, fiduciari) e forniti estratti conto e documenti. L’Agenzia poi calcola (o verifica) le imposte dovute e predispone un atto di adesione che il contribuente sottoscrive, impegnandosi al pagamento (spesso frazionato in più rate) . È altamente consigliato farsi assistere da un professionista in questa fase , perché la quantificazione di imposte e sanzioni è complessa e perché errori o omissioni possono compromettere gli effetti premiali (se il Fisco scopre che qualcosa non è stato rivelato intenzionalmente, l’accordo salta). Una volta versato tutto, il procedimento si chiude e il contribuente ottiene di norma una certificazione di regolarizzazione.

5.2 Le varie edizioni e lo stato attuale

  • Voluntary Disclosure 1.0 (2015-2016): prima edizione, oggetto della L. 186/2014. Grande successo, soprattutto per i conti svizzeri: circa 129 mila richieste, oltre €60 miliardi emersi e più di €4 miliardi di gettito incassato dallo Stato . Copriva violazioni fino al 30/09/2014. Previsti sconti sanzionatori e non punibilità per dichiarazione infedele, omessa, false comunicazioni (riciclaggio escluso ma di fatto non contestato se provenienza lecita).
  • Voluntary-bis (2017): riapertura termini con DL 193/2016. Meno partecipazione (circa 7 mila domande) perché ormai molti si erano già mossi. Introdotta anche la VD domestica per il nero interno, ma con scarso appeal.
  • “Scudo” fiscale 2019 per rimpatrio attività finanziarie: il governo dell’epoca valutò ma non attuò un condono vero sui capitali (c’era il progetto di una flat tax al 20% sugli importi rimpatriati, poi saltato).
  • Special Voluntary Disclosure 2023: con la Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022, art. 1 commi 174-178) il governo ha introdotto una nuova forma di regolarizzazione, chiamata poi Sanatoria Meloni dalla stampa . In realtà, questa versione 2023 era più limitata: riguardava le violazioni dichiarative fino al 2021, con pagamento delle imposte dovute e sanzioni ridotte a 1/18 del minimo . Il termine iniziale per aderire era il 30/09/2023 . Poi, a seguito di proroghe (DL 34/2023 e Milleproroghe DL 198/2023), si è estesa la possibilità fino a marzo 2024 per alcune casistiche . Questa “VD 2023” prevedeva la rimozione delle cause penali a fronte del pagamento, analogamente alle precedenti, ed era pensata per chi ancora avesse soldi non dichiarati o redditi esteri non indicati. Va detto che non ha ottenuto i risultati sperati in termini di gettito, anche perché il grosso dell’evasione internazionale era già stato sanato prima oppure riguarda soggetti che, nel frattempo, sono stati individuati in altro modo (scambio di informazioni) e quindi non più incentivati a collaborare.
  • Niente voluntary attuale (2025): al momento in cui scriviamo, non vi sono finestre aperte di voluntary disclosure straordinaria . Chi oggi ha capitali non dichiarati ha come unica via la regolarizzazione ordinaria (cioè il ravvedimento operoso nei limiti consentiti) oppure aspettare se in futuro verrà varata un’ulteriore edizione. Considerata la tendenza globale alla trasparenza e il minor gettito delle ultime edizioni, non è scontato che ve ne siano altre a breve. Il messaggio implicito del legislatore è: c’è già stata abbastanza clemenza, ora chi non ha approfittato rischia grosso con i controlli automatici.

Alternativa attuale – Ravvedimento operoso internazionale: In assenza di una VD aperta, un contribuente che volesse pentirsi spontaneamente può utilizzare gli strumenti ordinari. Ad esempio, può presentare una dichiarazione integrativa per gli ultimi anni non prescritti, dichiarando i redditi esteri non indicati, e pagare imposte e sanzioni ridotte da ravvedimento (che però, per più annualità e importi grandi, non è affatto leggero). Resta però scoperta la parte penale: se gli importi erano molto elevati, il ravvedimento non offre scudo penale. Esiste la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ma non copre i casi più seri. Dunque chi ha ancora cifre ingenti all’estero non dichiarate oggi si trova in posizione difficile: o confida di non essere scoperto (scelta rischiosissima, vedi paragrafo seguente) oppure si auto-denuncia sperando in un trattamento benevolo magari negoziando col Fisco (ma non c’è obbligo normativo di clemenza piena come in VD). Per questo molti professionisti auspicano un ultimo “ravvedimento speciale internazionale”, magari con sanzioni ridottissime e patteggiamento penale, per far emergere lo stock residuo.

5.3 Rischi del non aderire: cooperazione internazionale e sanzioni

Per chi non ha utilizzato le finestre di voluntary disclosure e detiene ancora patrimoni non dichiarati all’estero, il contesto odierno è decisamente sfavorevole. Negli ultimi anni l’Amministrazione finanziaria italiana ha intensificato i controlli incrociando i dati ricevuti grazie ai canali di scambio automatico di informazioni (si veda il capitolo successivo) . In particolare, con l’adesione al Common Reporting Standard (CRS), l’Italia riceve annualmente dalle autorità estere partecipanti l’elenco dei conti finanziari intestati a propri residenti (con saldi e movimenti) . Ciò significa che ormai il Fisco “sa” di tantissimi rapporti esteri: se non li trova nelle dichiarazioni dei contribuenti, parte in automatico un alert di possibile evasione.

Chi viene scoperto con capitali esteri non dichiarati va incontro a: – Sanzioni amministrative pesantissime: omessa compilazione del quadro RW comporta sanzioni dal 3% al 15% di tutti gli importi non dichiarati (raddoppiati al 6–30% se Paese black list) per ciascun anno . A ciò si aggiungono le sanzioni per omessa o infedele dichiarazione dei redditi prodotti da quei capitali (90% fino al 180% dell’imposta evasa per infedele, 120%–240% per omessa) e il recupero integrale delle imposte evase con interessi. Non di rado questo conduce a importi sanzionatori complessivi che superano il valore stesso del patrimonio nascosto, mettendo a rischio anche il resto dei beni del contribuente.
Accertamenti induttivi e presunzioni: se emergono versamenti non giustificati da un conto estero, il Fisco può presumere che siano redditi sottratti a tassazione e riprenderli a tassazione come tali, a meno che il contribuente provi trattarsi di somme già tassate o esenti . Spesso scatta la “presunzione di evasione” per movimenti finanziari non spiegati: e ribaltare quella presunzione in giudizio è arduo.
Conseguenze penali: a seconda dell’entità, possono configurarsi reati di dichiarazione infedele (se l’imposta evasa > €100k per periodo) o omessa dichiarazione (> €50k di imposta evasa). Se poi c’è stato occultamento di documenti o utilizzo di artifizi per mascherare i flussi (società fittizie, conti cifrati), si può arrivare alla dichiarazione fraudolenta o addirittura al riciclaggio. In presenza di condanna per reati fiscali, è prevista quasi sempre la confisca obbligatoria dei proventi dell’evasione (quindi dei capitali stessi).
Azioni di recupero internazionale: tramite gli strumenti di cooperazione, l’Italia può chiedere allo Stato estero di congelare e poi trasferire le somme evase. Soprattutto in ambito UE, con il regolamento sul mutuo recupero crediti fiscali, i margini per farla franca tenendo i soldi oltreconfine si riducono (lo vedremo nel capitolo sulla cooperazione).
Immagine e conseguenze civili: un accertamento di questo tipo può portare a segnalazioni per sproporzione patrimoniale (ai fini antimafia), cause con soci o familiari (se erano coinvolti come prestanome), perdita di fiducia da parte di banche (le quali chiudono volentieri rapporti con clienti scoperti in vicende di evasione internazionale, per evitare guai di compliance).

Case study negativo: Carlo, imprenditore, nel 2010 ha trasferito €2 milioni su un conto in Svizzera non dichiarato. Non aderisce alla VD del 2015. Nel 2018 la banca svizzera, dovendo ottemperare al CRS, segnala il conto alle autorità che trasmettono i dati all’Italia. – Nel 2019 Carlo riceve una richiesta di informazioni dall’Agenzia, che confronta e trova che quei soldi non appaiono in nessuna sua dichiarazione. Nel 2020 scatta l’accertamento: l’Agenzia presume che dal 2010 al 2017 Carlo abbia percepito almeno €50k/anno di redditi non dichiarati (affitti, interessi, utili occultati) e gli calcola €400k di imposte evase, con €600k di sanzioni cumulate e interessi. Contestualmente parte la segnalazione penale per omessa dichiarazione (superando le soglie). Il PM chiede il sequestro preventivo dei €2 milioni ancora in Svizzera, ottenuto via rogatoria. Carlo si trova ora con i fondi bloccati, un procedimento penale in corso, e margini di manovra pressoché nulli: anche volendo patteggiare, deve comunque pagare almeno il danno erariale per sperare in attenuanti, e la confisca dei 2 milioni incombe. Tutto questo si sarebbe evitato con la voluntary disclosure: pagando magari €700k complessivi e dormendo tranquillo. Questo esempio, purtroppo, non è raro nella realtà.

Voluntary disclosure e scelta dell’avvocato: chi intende aderire (o chi deve difendersi dopo essere stato scoperto) farebbe bene ad affidarsi ad un avvocato tributarista internazionale esperto di queste procedure. Infatti occorre: – Reperire e analizzare anni di rendiconti bancari esteri (spesso in lingue diverse) e ricostruire flussi finanziari.
– Conoscere a fondo le sanzioni applicabili e saperle ricalcolare secondo le regole di favore (per evitare che l’Agenzia “sbagli” a proprio sfavore, evenienza non impossibile data la mole dei dati).
– Gestire gli eventuali profili penali: l’avvocato potrà interloquire con la Procura per far valere l’adesione alla collaborazione come causa di non punibilità (art. 5-quinquies D.L. 167/1990) ed evitare misure cautelari.
– Assistere eventualmente in sede di interpello tributario per questioni interpretative (ad es. se certi redditi esteri rientrino in un campo esente da convenzione, o se un soggetto può essere considerato residente altrove per alcuni periodi).
– Curare l’eventuale transazione fiscale se il cliente non ha liquidità per pagare tutto subito: a volte si può trovare un compromesso sull’importo o sulle rate.

Un buon professionista, insomma, può fare la differenza tra una disclosure gestita efficacemente e un incubo amministrativo. Anche i documenti in inglese/francese/tedesco delle banche estere vanno tradotti e compresi in ambito fiscale: l’avvocato tributarista abituato a queste pratiche è più indicato del commercialista generalista.

Situazione attuale (sett. 2025): i capitali esteri ancora non emersi si sono ridotti molto. Restano fuori probabilmente: – Criptovalute: molti detentori di crypto non hanno aderito a VD (anche perché le prime edizioni non le menzionavano). Nel 2023 c’è stata una sanatoria crypto (L. 197/2022) ma pochi l’hanno usata. Il 2024 ha portato la regolarizzazione delle cripto con aliquota 3.5% (DL 34/2023) e poi aliquota sostitutiva 26%. Chi non ha sfruttato nemmeno quella oggi è nell’illegalità piena.
Nuove fortune estero: persone che negli ultimi anni hanno accumulato ricchezza fuori (es. trader online, professionisti globetrotter) e non l’hanno dichiarata. Anche costoro sono a rischio con CRS.
Resistenti storici: qualcuno conta sul fatto che certi Paesi non collaborano (ad es. il principale buco resta gli Stati Uniti: non aderisce a CRS per i conti in USA, anche se fornisce dati FATCA reciproci molto limitatamente). Quindi conti aperti a Miami o Delaware potrebbero essere al sicuro per ora. Attenzione però: l’Italia può ricevere info via trattati bilaterali o scambio su richiesta. Inoltre, trasferire soldi in US oggi espone ad altri rischi (si pensi alle sanzioni internazionali, etc., che rendono i dollari monitorati).

Takeaway: se avete (o il vostro cliente ha) capitali non regolari all’estero, agite subito. Consultate un esperto per valutare la strada migliore (disclosure spontanea, scudo ad hoc se verrà, rimpatrio discreto e investimenti tassati per farli emergere “puliti”, ecc.). L’importante è non rimanere inerti: ogni anno aumentano le probabilità di essere scoperti grazie alla cooperazione internazionale, e a quel punto non ci sarà sconto che tenga. Meglio prendere l’iniziativa e provare a negoziare col Fisco quando si ha ancora il coltello dalla parte del manico.

6. Interpello Internazionale e Accordi Preventivi con il Fisco

Nell’incertezza applicativa del diritto tributario, specialmente in ambito transnazionale, un ruolo fondamentale è giocato dall’interpello – lo strumento mediante il quale il contribuente può chiedere formalmente all’Amministrazione finanziaria un parere vincolante sulla corretta applicazione di una norma fiscale al proprio caso concreto (art. 11 L. 212/2000, Statuto del Contribuente). Esistono varie tipologie di interpello; qui ci concentreremo sull’interpello internazionale, noto anche come ruling internazionale, e altri accordi preventivi in materia cross-border.

6.1 Categorie di interpello rilevanti

  • Interpello “ordinario” (interpretativo): riguarda la generalità dei tributi. Il contribuente presenta un quesito all’Agenzia Entrate esponendo un caso concreto e la norma fiscale di dubbia interpretazione. L’Agenzia risponde entro 90 giorni fornendo la propria interpretazione, che vincola l’Amministrazione (ma non il contribuente, che può anche non seguire il parere, a suo rischio). In ambito internazionale, un interpello ordinario può ad esempio vertere sull’applicazione di una clausola di convenzione contro le doppie imposizioni, oppure sulla qualificazione di un reddito estero (se dividendo o reddito diverso) ai fini dell’applicazione del credito per imposte estere. Tuttavia, l’interpello ordinario non è ammesso su questioni di fatto o su casi in cui c’è già iniziata attività di controllo. Ad esempio, non posso chiedere con interpello ordinario “ho la residenza in UK secondo me, confermate che non devo dichiarare in Italia?”: l’Agenzia dichiarerebbe inammissibile la richiesta, perché concerne un accertamento di fatto.
  • Interpello probatorio: l’istituto dell’interpello può essere usato in alcuni casi per dimostrare la sussistenza di particolari requisiti ed evitare applicazione di norme antielusive. Un esempio tipico era l’interpello per disapplicare la disciplina CFC: se una società controllata estera in Paese a bassa fiscalità ha requisiti di esclusione (es. svolge effettiva attività economica), il contribuente può chiedere all’Agenzia di non applicare la tassazione per trasparenza. Oppure l’interpello per dimostrare che una controlled foreign company produce principalmente attivi non infragruppo, ecc. Questi interpelli sono regolati dall’art. 11, co. 2, dello Statuto e da normative speciali (es. DM 21.11.2001 per black list, oggi superato).
  • Interpello anti-abuso: introdotto col D.Lgs. 128/2015, consente di sottoporre all’Agenzia uno schema operativo potenzialmente elusivo (ai sensi dell’art. 10-bis Statuto) chiedendo se costituisce abuso oppure no. È utile per operazioni societarie straordinarie, riorganizzazioni internazionali, ecc., dove si vuole la certezza che il Fisco non le requalifichi. Ad esempio: una fusione tra società sorelle estere, con soci italiani, può essere considerata esterovestizione? Il contribuente potrebbe chiederlo prima di agire.
  • Accordi preventivi per imprese con attività internazionale (il Ruling internazionale vero e proprio): disciplinati dall’art. 31-ter del DPR 600/1973 (introdotto dal 2015), consentono alle imprese multinazionali di stipulare accordi vincolanti con l’Agenzia delle Entrate su vari temi: transfer pricing (criteri di calcolo prezzi di trasferimento infragruppo), attribuzione di utili/perdite a stabile organizzazione, valutazione preventiva circa la presenza di stabile organizzazione in Italia o all’estero, dividendi, interessi, royalty infragruppo (trattamento ai fini ritenute), e altre componenti transfrontaliere . Questi accordi – simili agli APA (Advance Pricing Agreements) di altri ordinamenti – hanno durata pluriennale (di solito 5 anni) e impegnano entrambe le parti: l’impresa ad operare secondo i termini concordati, l’Amministrazione a non effettuare rettifiche se l’impresa rispetta l’accordo. Ad esempio, un’azienda italiana con consociate in vari Paesi può concordare con l’Agenzia la metodologia di transfer pricing da applicare sui beni scambiati infragruppo; finché la applicherà, non subirà contestazioni su quel fronte . Questi ruling sono molto utili per evitare l’insorgere di doppie imposizioni e liti lunghe. L’Italia li ha potenziati negli ultimi anni: la citata Circolare 7/E del 2020 ha snellito le procedure. Vi rientra ora anche la definizione in ambito di Patent Box (regime agevolativo su redditi da beni intangibili, ora trasformato in deduzione maggiorata).
  • Interpello nuovi investimenti: introdotto dal D.Lgs. 147/2015 (decreto internazionalizzazione), art. 2, consente agli investitori (anche esteri) che intendono effettuare in Italia investimenti significativi (oltre 20 milioni €) con ricadute occupazionali di presentare un’istanza all’Agenzia esponendo il piano di investimento e chiedendo un parere su vari profili fiscali dello stesso (anche più imposte). È uno strumento per dare certezza e attrarre investimenti chiarendo a priori il trattamento tributario. Ad esempio, una multinazionale che vuole aprire uno stabilimento in Italia può chiedere come verranno tassati eventuali contributi pubblici, quali regimi fiscali potrà sfruttare (impatriati, credito d’imposta), se configurano aiuti di Stato, ecc., e ottenere un riscontro ufficiale.

In generale, gli interpelli internazionali e accordi preventivi mirano a instaurare una tax compliance cooperativa: meno contrapposizione e più dialogo preventivo. L’Italia ha sposato questo approccio e lo sta estendendo: esiste anche un regime di adempimento collaborativo (cooperative compliance) per grandi contribuenti, dove l’azienda concorda un monitoraggio costante col Fisco su tutte le operazioni significative, in cambio di verifiche più rapide e niente sanzioni se si rispettano gli accordi. Questo regime (istituito dal D.Lgs. 128/2015) è allineato con standard OCSE di enhanced relationship.

6.2 Vantaggi dell’interpello internazionale

  • Certezza e pianificazione: ottenere un responso prima di intraprendere un’operazione consente di conoscerne l’esatto impatto fiscale e di scegliere consapevolmente. Le aziende multinazionali, in particolare, detestano l’incertezza fiscale: un ruling risolve questo problema.
  • Riduzione del contenzioso: se c’è l’accordo preventivo, difficilmente si finirà in lite in seguito su quell’argomento. Si evita quindi di investire risorse in cause tributarie estenuanti.
  • Vincolatività reciproca: mentre l’interpello ordinario vincola solo l’Agenzia verso il contribuente istante, gli accordi preventivi vincolano entrambe le parti. Questo significa che anche se cambia idea l’Ufficio, non può retrocedere dall’accordo per il passato; e dal canto suo l’impresa non può discostarsi da quanto pattuito (pena decadenza dei benefici e recupero). Si crea insomma un quadro di regole certe.
  • Riduzione dei rischi di doppia imposizione: soprattutto nei transfer pricing e nella determinazione degli utili di stabile organizzazione, un APA con l’Italia può essere bilaterale o multilaterale, cioè coinvolgere anche le amministrazioni degli altri Stati interessati. In tal modo, tutte le giurisdizioni concordano il trattamento e non ci saranno tassazioni duplicative. Questo è fondamentale: basti pensare a due Paesi che tassano entrambi lo stesso reddito di branch perché non d’accordo su come allocarlo – un accordo congiunto risolve il dilemma.
  • Immagine di compliance: per un’azienda, dichiarare di essere in regime di cooperative compliance o di avere concluso ruling con l’Agenzia è anche un segnale positivo verso gli stakeholder (banche, partner, autorità di vigilanza). Indica che l’azienda vuole fare le cose in regola ed evitare zone grigie.

6.3 Limiti e considerazioni pratiche

Non tutto è interpellabile. Oltre ai casi di inammissibilità già detti (quesiti generici, situazioni in contenzioso, fatti già avvenuti su cui è iniziata verifica), va considerato il tempo: gli interpelli ordinari richiedono risposta in 90 giorni (se silence, vale l’interpretazione del contribuente, silenzio-assenso). Ma un accordo preventivo può richiedere anche mesi o anni di negoziazione, specie se multilaterale. Ad esempio, un APA sui transfer pricing può comportare diversi incontri tra l’azienda e l’Ufficio Accordi Internazionali dell’Agenzia, scambio di documenti, aggiustamenti. Dunque serve pianificare per tempo: non si può pretendere di firmare un contratto internazionale domani e avere un ruling sul suo trattamento in pochi giorni.

Gli interpelli inoltre non sono pubblici (vengono però pubblicate in forma anonima le risposte ad interpello ordinario di interesse generale, e i principi derivanti dai ruling vengono talvolta riassunti in circolari). Quindi un contribuente può contare su quello che lui ha ottenuto, ma non fare affidamento su quello di altri formalmente (anche se conoscere gli orientamenti aiuta, perché l’Agenzia tende a essere coerente con i propri precedenti).

In materia internazionale, gli interpelli più comuni riguardano: – Applicazione di convenzioni: es. chiedere se un certo ente estero si qualifica o meno come “beneficiario effettivo” di interessi per l’art. 11 di un trattato (ci sono stati interpelli su beneficial ownership).
– Esistenza di stabile organizzazione: società estera che opera in Italia tramite un contratto di appalto e personale saltuario, può chiedere se configura una stabile organizzazione in Italia.
– Regime degli impatriati o dei nuovi residenti: se un contribuente trasferisce la residenza in Italia e vuole optare per il regime neo-domiciliati (flat tax €100k su esteri), può chiedere conferma dei requisiti. (Questo è un interpello sui nuovi investimenti se patrimonio rilevante).
Interpello sul rimpatrio di capitali: ancorché non c’entri con la norma specifica, alcuni hanno tentato di chiedere all’Agenzia “posso ancora aderire a voluntary disclosure?” quando i termini erano scaduti – ovviamente l’Agenzia ha risposto di no, non essendoci norma (si veda risposta interpello 956-xx/2018). Insomma, non tutto può essere risolto con interpello se manca una base giuridica.

In sintesi, l’interpello internazionale è un’arma di difesa preventiva molto potente, ma va maneggiata con competenza. Un avvocato tributarista potrà redigere l’istanza nel modo più efficace (esponendo chiaramente i fatti, la soluzione proposta e la giurisprudenza a sostegno), e condurre il contraddittorio con gli Uffici centrali. Spesso, nel caso di grandi gruppi, il processo di accordo è quasi “negoziale”: l’Agenzia può proporre aggiustamenti o chiedere impegni al contribuente (es. in un APA sui prezzi, chiedere clausole di revisione se cambia scenario di mercato). Avere chi conosce la materia è determinante per non accettare patti troppo sfavorevoli o per convincere il Fisco della bontà della propria impostazione.

Per un privato o piccola impresa, l’interpello internazionale da valutare più comunemente è quello anti-abuso: ad esempio, prima di trasferire la propria società in un certo Paese, si potrebbe chiedere se l’operazione è legittima o se sarà considerata elusiva. Oppure, se si costituisce un trust estero, si potrebbe chiedere come verrà tassato un certo evento (anche se qui l’Agenzia spesso risponde rinviando ai principi generali, non può “avallare” in astratto uno schema che potrebbe nascondere altro).

7. Cooperazione Amministrativa Internazionale

Il capitolo finale riguarda il contesto più ampio in cui si inseriscono tutte le tematiche sopra: la crescente cooperazione tra le amministrazioni fiscali dei diversi Paesi. Questa cooperazione si sostanzia in varie forme: scambio di informazioni, assistenza nella notifica di atti e nella riscossione, audit congiunti, procedure amichevoli per risolvere doppie imposizioni, fino alla partecipazione a iniziative sovranazionali (OCSE, UE) per armonizzare norme e contrastare fenomeni di evasione globale. Vediamo gli aspetti salienti, con particolare riferimento all’Italia.

7.1 Scambio di informazioni fiscali

Scambio su richiesta: esiste da decenni, sulla base degli articoli delle Convenzioni contro le doppie imposizioni (art. 26 Modello OCSE) e di specifici Trattati bilaterali o multilaterali. Consente a uno Stato di chiedere ad un altro informazioni detenute da quest’ultimo (es. dati bancari, elenchi di soci, ecc.) rilevanti per un’indagine fiscale. L’Italia ne ha fatto uso soprattutto verso paesi prima considerati “non collaborativi”. Negli anni 2009-2015 sono stati firmati TIEA (Tax Information Exchange Agreement) con vari paradisi fiscali, che consentono richieste mirate. Ad esempio, prima del CRS, se l’Agenzia sospettava un conto a Bahamas intestato a un italiano, doveva avviare una rogatoria/TIEA per ottenere i dettagli.

Scambio spontaneo: le autorità possono inviare informazioni ad un altro Stato se ritengono possano essergli utili, anche senza richiesta. Ciò avviene ad esempio se durante un audit in Francia emergono fatture false verso una società italiana: i francesi avvisano spontaneamente l’Italia così che possa indagare.

Scambio automatico: è la vera rivoluzione recente. Consiste nel trasferimento periodico e sistematico di interi set di dati tra amministrazioni. Il caso più eclatante è il citato Common Reporting Standard (CRS), standard OCSE recepito nell’UE con la Direttiva DAC2 e a livello globale con un accordo multilaterale (MCAA CRS). Dal 2017 in poi, oltre 100 Paesi (Italia inclusa) scambiano annualmente i dati sui conti finanziari detenuti da non residenti . Le banche, assicurazioni e altri intermediari devono comunicare alle loro autorità fiscali tutti i conti intestati (o cointestati, o con beneficiari effettivi) a soggetti esteri, con saldo di fine anno e movimenti salienti . Le autorità poi incrociano e inviano tali elenchi ai Paesi di residenza dei titolari. L’Italia, per esempio, nell’ultima tornata ha ricevuto dati da circa 90 giurisdizioni: Svizzera, San Marino, Montecarlo, Singapore, UAE, isole varie, tutti ormai inviano informazioni. Quali dati? Nome, indirizzo e codice fiscale del titolare, numero del conto, saldo al 31/12, importo totale di interessi, dividendi, proventi finanziari accreditati nell’anno, e in alcuni casi il massimo saldo raggiunto . Vengono comunicati anche i valori di riscatto di polizze assicurative e i valori di trust/fondi se equiparabili a conti finanziari. La soglia è bassissima (in genere >1$ di saldo) quindi praticamente tutto. Ogni 30 giugno gli intermediari italiani inviano i dati all’Agenzia Entrate, che entro settembre li scambia con gli altri Stati.

Impatto del CRS: ha di fatto posto fine al segreto bancario tradizionale . Paesi un tempo impenetrabili come Svizzera, Lussemburgo, Cayman, hanno aderito. Certo, la qualità dei dati inizialmente poteva essere disomogenea, ma sta migliorando. L’Italia ha integrato questi flussi nei propri sistemi di controllo, producendo liste selettive di soggetti a rischio. Già nel 2018-2019 partirono le prime lettere di compliance a chi risultava con conti esteri non dichiarati. Oggi siamo alla fase più matura: l’incrocio è pressoché automatico, e se un contribuente presenta dichiarazione priva di quadro RW mentre risulta titolare di conti esteri comunicati, il controllo scatta quasi immediatamente .

Eccezioni: come detto, gli Stati Uniti non aderiscono al CRS. Hanno il loro FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act), con accordi bilaterali, ma questi prevedono che l’Italia invii agli USA i dati dei conti di cittadini americani in Italia, e viceversa gli USA dovrebbero fare lo stesso. In realtà, gli USA adempiono solo parzialmente (forniscono aggregate data, non puntuali, e solo su conti di certe dimensioni). Quindi di fatto un cittadino italiano può ancora sperare di tenere un conto a Miami non segnalato. Tuttavia, il vento sta cambiando: pressioni OCSE e UE mirano a includere anche gli USA nello scambio integrale (c’è una proposta DAC8 che includerebbe scambio su conti crypto e cooperazione più stretta con paesi come USA). E non va dimenticato che se l’Italia ha un sospetto concreto può sempre fare richiesta specifica: l’IRS spesso collabora, specie se ci sono risvolti penali.

Altri scambi automatici (Direttive DAC): l’UE ha ampliato l’ambito: – DAC1 (2011/16/UE): scambio automatico di 5 categorie (redditi da lavoro, compensi dirigenti, pensioni, proprietà immobiliare, redditi immobiliari). Francamente, meno rilevante del CRS.
– DAC3: scambio automatico dei ruling preventivi e accordi di prezzo di trasferimento concessi dagli Stati membri a multinazionali. Dopo gli scandali “LuxLeaks”, dal 2017 un ruling fiscale accordato ad Apple in Irlanda o Fiat in Lussemburgo viene comunicato in sintesi a tutti gli altri Stati UE, per trasparenza .
– DAC4: scambio dei country-by-country report delle multinazionali (fatturati, utili, tasse pagate per ogni paese), per monitorare spostamenti di base imponibile.
– DAC6: introduzione della segnalazione obbligatoria di schemi di pianificazione fiscale aggressiva (i cosiddetti meccanismi transfrontalieri potenzialmente elusivi). Dal 2020, intermediari (avvocati, consulenti) devono notificare all’Agenzia Entrate se architettano per un cliente uno schema con caratteristiche di possibile elusione internazionale; l’Agenzia scambia tali informazioni con le altre. Ciò significa che, ad esempio, se uno studio legale italiano assiste un cliente in un trasferimento di residenza in un paradiso con strumenti particolari (tipo riacquisto di perdite, o pagamenti circolari), potrebbe doverlo segnalare.
– DAC7: scambio di informazioni sulle piattaforme digitali (AirBnB, Uber, Amazon marketplace): le piattaforme comunicano alle autorità i redditi generati da venditori e host, e questi dati vengono condivisi tra Stati, per tassare redditi da economia digitale.
– DAC8 (in arrivo): includerà con tutta probabilità lo scambio di informazioni sulle criptovalute (sul modello del Crypto-Asset Reporting Framework elaborato dall’OCSE). L’Italia peraltro col DL 73/2022 ha già imposto agli operatori crypto domestici di registrarsi e segnalare clienti e saldi.

Per il contribuente italiano debitore: lo scenario è chiaro: nascondersi all’estero è sempre più difficile. Prima o poi, ogni conto bancario o investimento emergerà in qualche database condiviso. Un avvocato consulente, dunque, oggi deve anzitutto mettere in guardia il cliente: non esistono più i “paradisi fiscali” segreti di una volta (salvo forse usare contanti o oro, ma anche lì ci sono normative antiriciclaggio stringenti). La cooperazione internazionale rende concretamente possibile ciò che era utopia 20 anni fa: l’Agenzia delle Entrate italiana può conoscere il saldo di un conto alle Cayman di un residente, e può pure chiedere a Cayman di riscuotere una multa per suo conto.

7.2 Assistenza al recupero crediti tributari e alle verifiche

Mutua assistenza alla riscossione: L’UE si è dotata della Direttiva 2010/24/UE (recepita con D.Lgs. 149/2012) che permette alle amministrazioni di riscossione dei vari Stati membri di operare l’una per l’altra. Se un cittadino italiano ha una cartella esattoriale non pagata e possiede una villa in Francia, l’Agenzia delle Entrate Riscossione può chiedere alle autorità francesi di eseguire il pignoramento su quella villa secondo le regole francesi e riversare il ricavato all’Italia. Viceversa, se un tedesco ha debiti col fisco tedesco ma risiede in Italia, Ader eseguirà per conto della Germania. Tale meccanismo in UE è ormai rodato: vengono scambiate centinaia di richieste l’anno. Fuori dall’UE, servono accordi bilaterali: l’Italia ne ha con pochi (es. con Svizzera c’è un trattato dal 2020 per assistenza su crediti fiscali futuri limitatamente a imposte diverse dall’IVA per ora). L’OCSE ha la Convenzione Multilaterale sulla mutua assistenza (L. 19/2016 per l’Italia) che include anche la riscossione, ma richiede accordo ad hoc tra le parti interessate. In ogni caso, trasferirsi all’estero pensando di sfuggire alle cartelle italiane è un azzardo: se si rimane in UE, sicuramente l’Italia può inseguire. Fuori UE, dipende dal paese: in alcuni casi ci si può rifugiare, ma se poi si rimettono piede in Europa scattano fermi e sequestri.

Cooperazione nelle verifiche: Esiste la possibilità di verifiche fiscali simultanee (due o più Stati concordano di verificare ciascuno sul proprio territorio un contribuente con interessi comuni e si scambiano i risultati) e perfino presenza di funzionari stranieri durante controlli locali (un funzionario italiano può assistere a un audit in Germania su un’azienda italiana con sede lì, e viceversa – su autorizzazione). Queste facoltà, previste dalle convenzioni e dalla direttiva UE, sono usate per i casi più complessi (grandi frodi IVA intracomunitarie, multinazionali con contabilità spezzata su sedi in vari paesi). Il contribuente potrebbe quindi trovarsi di fronte a squadre miste di verificatori in cui c’è anche l’osservatore estero che prende nota. Ciò avviene soprattutto per frodi IVA tipo carousel dove più paesi sono vittime dell’evasione e collaborano strettamente (c’è un network chiamato Eurofisc a livello europeo per questo).

Scambio di informazioni finanziarie e antiriciclaggio: A latere del CRS, esistono altri canali cooperativi. Ad esempio, il regolamento UE 2018/1672 prevede la condivisione tra Stati delle segnalazioni di movimenti di contante sopra €10.000 alle frontiere (se fermano uno con 50k cash a Chiasso, la dogana italiana lo segnala e può avvisare anche altri). Le Unità di Informazione Finanziaria (UIF) antiriciclaggio condividono le SOS (segnalazioni operazioni sospette) di rilevanza transnazionale. Così, se uno sposta fondi dall’Italia a Singapore e la banca segnala sospetto, la UIF italiana può allertare quella di Singapore per monitorare.

Cooperazione giudiziaria: infine, quando l’amministrazione fiscale scopre reati tributari, entra in gioco anche la cooperazione giudiziaria internazionale (Interpol, Europol per latitanti, rogatorie penali per sequestri all’estero, mandati d’arresto europei). Non sono temi strettamente fiscali, ma da debitore fiscale si può rapidamente diventare indagato penale, e se si tenta di rifugiarsi altrove bisogna considerare che i mandati di arresto europei funzionano molto bene. Il caso di noti evasori estradati è esemplificativo.

7.3 Procedura amichevole (MAP) e Arbitrato Internazionale

Un diverso aspetto della cooperazione amministrativa è quello difensivo a tutela del contribuente: evitare la doppia imposizione giuridica (lo stesso reddito tassato due volte da due Stati). Quando succede, ad es. in caso di rettifiche di transfer pricing (l’Italia aumenta i ricavi di una consociata italiana di una multinazionale e dunque quei ricavi sono tassati anche all’estero dalla capogruppo) oppure in caso di disallineamento su residenza o stabile organizzazione, la Mutual Agreement Procedure (MAP) prevista da convenzioni fiscali e dalla Convenzione Arbitrale UE 90/436 consente alle autorità competenti degli Stati coinvolti di consultarsi e trovare un accordo su chi rinuncia a che cosa. Il contribuente avvia la MAP presentando istanza in uno dei due Stati, e poi le autorità dialogano (senza la sua presenza diretta) per risolvere. Se l’accordo si trova, di solito si traduce in uno sgravio in uno dei due paesi, riportando la tassazione in equità.

Con la Direttiva UE 2017/1852 è stato rafforzato questo meccanismo: oggi se entro 2 anni le autorità non trovano l’accordo, il contribuente può chiedere un arbitrato vincolante, con una commissione indipendente che decide la ripartizione del reddito contestato. L’arbitro emette una decisione che gli Stati devono accettare, togliendo il contribuente dal limbo. L’Italia ha recepito ciò col D.Lgs. 49/2020 e infatti sta conducendo vari casi di arbitrato su questioni di doppia imposizione intra-UE.

Questa è cooperazione buona, nel senso che serve a evitare ingiustizie. Spesso chi ha un problema internazionale serio (es. doppia residenza con doppia tassazione) può percorrere la MAP anche senza aspettare fine del contenzioso nazionale: è procedura separata e indipendente dal contenzioso interno, e un buon avvocato può gestirle in parallelo (tenendo sospeso magari il ricorso mentre la MAP va avanti, perché se risolve, il ricorso perde oggetto).

Esempio: una società italiana subisce un audit e la GdF contesta che alcune royalties pagate alla sua consociata tedesca sono gonfiate, quindi riduce il costo deducibile in Italia (tassando di più in Italia). Ciò significa che quelle royalties hanno scontato piena tassazione in Germania presso la consociata, e ora in parte sono tassate di nuovo in Italia negando la deduzione: doppia imposizione. L’azienda, oltre a fare ricorso, attiva una MAP Italia-Germania. Dopo negoziato, i due Fisci concordano: l’Italia mantiene un certo recupero, ma la Germania accetta di esentare la porzione corrispondente di royalties dal reddito della consociata (o di concedere un rimborso d’imposta in Germania). Così l’azienda nel complesso non paga due volte. Il risultato viene formalizzato e l’Agenzia italiana notifica un provvedimento di rimodulazione dell’accertamento in conformità all’accordo. Il problema si risolve senza attendere anni di cause.

Questa dimensione cooperativa è importante per un avvocato: saper valutare quando conviene cercare soluzione tramite MAP invece che (o oltre a) litigare in Commissione Tributaria. Spesso nelle questioni transfrontaliere complesse, la Commissione può anche decidere a favore del fisco italiano non comprendendo appieno la logica internazionale; invece via MAP si parla fisco a fisco con comprensione reciproca dei principi OCSE, ecc. Ovviamente dipende dai casi.

7.4 Quadro normativo di riferimento

Per completezza, ecco un riepilogo delle principali fonti normative che disciplinano la cooperazione amministrativa fiscale cui l’Italia partecipa:

  • Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni (circa 100 trattati firmati dall’Italia) – art. 26 Scambio informazioni, art. 25 Procedura amichevole (MAP), eventuale protocollo arbitrato.
  • Convenzione multilaterale del Consiglio d’Europa-Ocse (Strasburgo 1988) sulla mutua assistenza amministrativa in materia fiscale (inclusi scambio info e aiuto riscossione) – l’Italia l’ha resa esecutiva con L. 19/2016. Viene costantemente aggiornata per includere nuovi aderenti (ora oltre 130 Paesi).
  • Direttive UE sulla cooperazione: Dir. 2011/16/UE (DAC1) e successive modifiche (DAC2…DAC7) – recepite nel DPR 600/73 art. 31-bis e seguenti, e nei regolamenti attuativi nazionali. Implementate operativamente da Sogei e dall’Agenzia.
  • Regolamento UE 904/2010 (cooperazione in materia di IVA) e Reg. 389/2012 (cooperazione accise): prevedono scambi info e squadra antifrode in ambito imposte indirette.
  • Direttiva 2010/24/UE (assistenza al recupero crediti) – recepita con D.Lgs. 149/2012 e regolamento di attuazione MEF.
  • Legge 58/2019 art. 9 ratifica l’Accordo Italia-Svizzera 2016 su scambio info e assistenza recupero (dal 2020 attivo).
  • Accordi FATCA: Italia-USA accordo 2014 ratificato con L.95/2015 – prevede scambio info su conti finanziari secondo FATCA.
  • MLI (Multilateral Instrument): convenzione multilaterale BEPS per modificare le convenzioni bilaterali, che include anche disposizioni sull’assistenza mutua e sull’arbitrato obbligatorio in alcuni casi. Italia l’ha ratificata con L.118/2018. Molte convenzioni italiane ora prevedono arbitrato automatico se la MAP non risolve in 2 anni (implementazione BEPS Action 14).
  • Regime Adempimento Collaborativo: D.Lgs. 128/2015 e provv. Agenzia 2016 – non cooperazione tra Stati ma cooperazione Fisco-contribuente. Attualmente soglia di accesso: fatturato > €1 mld (ora ridotta a 100 mln in via sperimentale).

In conclusione, la cooperazione internazionale è la grande cornice: chi pianifica mosse fiscali transfrontaliere oggi deve tener conto che le barriere tra fiscali nazionali sono quasi sparite. Il Fisco italiano può contare su “alleati” all’estero per avere informazioni e riscuotere, e viceversa deve aiutare gli altri (quindi un soggetto estero che pensa di far sparire imponibili in Italia può trovarsi con l’Agenzia italiana a passare dati al suo Paese d’origine).

Dal lato del contribuente onesto, ciò è positivo: c’è più trasparenza, meno discriminazioni, e strumenti per evitare doppie tassazioni. Dal lato dell’evasore, è un incubo: l’offshore banking segreto è morto. Dal lato del consulente/avvocato, significa dover operare in rete: conoscere non solo la legge italiana ma avere quantomeno nozioni di standard internazionali, e spesso interfacciarsi con colleghi e autorità di altre giurisdizioni.

8. Domande Frequenti (FAQ)

D: Avvocato tributarista o commercialista? A chi rivolgersi per questioni di fiscalità internazionale?
R: Idealmente ad entrambi, in team. Il dottore commercialista è esperto nella contabilità, nella compilazione delle dichiarazioni e in generale nella consulenza fiscale ordinaria, e spesso conosce bene le normative tributarie interne. L’avvocato tributarista è indispensabile quando si affrontano questioni controverse, interpelli, contenziosi, o pianificazioni complesse che toccano profili legali (patti, trust, estero). Per la fiscalità internazionale serve chi sappia interpretare trattati, diritto UE e normativa estera, quindi un tributarista specializzato. In molti casi la soluzione migliore è uno studio associato con entrambe le figure: l’avvocato imposta la strategia legale e difensiva, il commercialista cura gli aspetti dichiarativi e contabili. Se dovete sceglierne uno solo, valutate la natura del problema: per predisporre un quadro RW o calcolare l’imposta su uno stipendio estero può bastare un buon commercialista; per decidere se aprire una società in Olanda e come fare, meglio un avvocato tributarista esperto in tax planning internazionale.

D: Cos’è esattamente l’esterovestizione e cosa si rischia se il Fisco la contesta?
R: L’esterovestizione è la falsa residenza all’estero di un soggetto che in realtà opera e risiede stabilmente in Italia . Si ha per una società quando apre sede legale in un altro Paese ma la sua amministrazione e attività si svolgono in Italia; per una persona fisica quando si iscrive all’AIRE o dichiara domicilio estero ma di fatto continua a vivere prevalentemente in Italia . Se il Fisco contesta l’esterovestizione e vince la causa, le conseguenze sono: – Recupero di tutte le imposte dovute in Italia sui redditi mondiali del soggetto per gli anni non prescritti, con sanzioni per omessa/infedele dichiarazione (dal 90% al 180% del maggiore tributo).
– Possibile denuncia penale per omessa dichiarazione (art.5 D.Lgs.74/2000) se ad esempio una società estera avrebbe dovuto presentare dichiarazione in Italia in quanto residente e non l’ha fatto . Per le persone fisiche, se gli importi evasi superano le soglie di punibilità, scatta dichiarazione infedele/omessa. Inoltre, se l’esterovestizione è considerata uno stratagemma fraudolento a fini esecutivi (per sfuggire a tasse), può integrarsi il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte .
Interessi di mora su tutte le somme dovute, dal giorno in cui andavano versate.
Segnalazione nella banca dati centralizzata: una società scovata come esterovestita finisce nelle liste ad alto rischio, e così pure la persona fisica, con possibili controlli anche su chi ha interagito con essa (es. clienti, fornitori).

In sintesi: fiscalmente si paga tutto come se non si fosse mai espatriati, con sanzioni salate; penalmente si rischiano condanne (fino a 6 anni di reclusione per omessa dichiarazione, ad esempio) e confisca dei beni equivalenti alle imposte evase. Il fenomeno è considerato evasione e trattato severamente . Meglio dunque non cedere a consigli facili di spostare sedi fittizie: se non c’è una reale sostanza all’estero, quasi sicuramente il gioco verrà scoperto.

D: Un trust può proteggere i miei beni dai creditori (banche, Fisco)?
R: Il trust protegge i beni in molte situazioni, grazie alla segregazione patrimoniale: i beni conferiti non appartengono più a te, e i creditori successivi del disponente non possono pignorarli . Ad esempio, se istituisci un trust familiare e poi vieni citato in giudizio per un risarcimento, chi ottiene la sentenza contro di te non può aggredire i beni ormai in trust. Tuttavia, attenzione ai limiti: – I creditori con cause preesistenti possono agire in revocatoria entro 5 anni ; se riescono, il trust viene reso inefficace verso di loro (possono pignorare comunque i beni come se fossero ancora tuoi). Se il trust è gratuito (di solito sì), non serve nemmeno provare la malafede del trustee o beneficiari, basta dimostrare che avevi debiti e che sapevi di danneggiare i creditori .
– Se il trust è creato dolosamente per frodare il Fisco su cartelle esistenti, potresti commettere reato (art.11 D.Lgs.74/2000). E in ogni caso l’Agenzia delle Entrate può chiedere al giudice di revocare il trust, spesso con successo se il debito era anteriore e il trust privo di altra giustificazione .
– Anche i creditori successivi, se provano che il trust è stato creato in frode (ad esempio un trust auto-dichiarato dove tu disponente sei anche trustee e beneficiario, quindi continui a usare i beni come prima), possono attaccarlo sostenendo che è simulato. La Cassazione ha definito fraudolento il trust autodestinato dove il disponente non perde realmente controllo . In tali casi, un giudice può dichiarare che il trust è fittizio e permettere l’esecuzione sui beni.
– Esiste inoltre l’art. 2929-bis c.c.: se costituisci un trust (o fai una donazione) quando hai già un debito scaduto, il creditore munito di titolo esecutivo può bypassare la causa revocatoria e pignorare subito i beni donati/ in trust . Questo avviene ad esempio con le banche o il Fisco, che spesso utilizzano 2929-bis per colpire immobili messi in trust recentemente.

Quindi, un trust ben congegnato prima che sorgano problemi e con finalità legittime offre ottima protezione (molti casi di trust non sono scalfiti da creditori). Invece, un trust “dell’ultima ora” o palesemente scudo personale creato a debiti già conclamati reggerà poco. Un discorso simile vale per il fondo patrimoniale ma con efficacia ancora minore: per i debiti fiscali il fondo offre scudo quasi nullo , mentre il trust (specie se gestito da terzo indipendente e magari estero) rende più difficile la vita ai creditori. In sintesi: trust sì, ma vanno pianificati per tempo e con genuinità, non come occultamento affrettato.

D: Ho ricevuto una cartella esattoriale molto alta e sto valutando di trasferirmi all’estero e intestare tutto a una società straniera. Può funzionare?
R: È una mossa estremamente rischiosa e potenzialmente controproducente. Elenchiamo perché: – Se la cartella è definitiva (cioè il debito è certo e liquido) ed è di importo elevato, il solo fatto di trasferire residenza all’estero per sfuggire al pagamento può integrare reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte se contestualmente compi atti dispositivi sui beni (intestare tutto a società estera, venderli a parenti, ecc.). Le pene arrivano a 4-6 anni di reclusione per somme oltre 200k€.
– L’Italia ha strumenti per inseguirti: se rimani in UE, con la direttiva sul recupero crediti fiscali, Equitalia (Agenzia Entrate Riscossione) chiederà allo Stato estero di procedere contro di te . Esempio: ti sposti in Spagna, iscrivi lì un’auto di lusso; l’Italia può chiedere alla Spagna di pignorare quell’auto per saldare la tua cartella. Analogamente per stipendi, immobili, conti.
– Anche fuori UE, molti paesi collaborano: con Svizzera c’è accordo, con San Marino pure. I paradisi caraibici in teoria no, ma viverci non è semplice e inoltre potresti essere estradato per reati tributari (se considerati anche reati nel paese rifugio, es. evasione > soglie potrebbe rientrare in frode).
– Intestare i beni a una società estera di cui comunque sei proprietario non aiuta molto: se la società estera è una tua controllata, il Fisco può dichiararla interposta e considerare i beni comunque tuoi, oppure agire per revocatoria se li hai trasferiti sotto valore. Inoltre, se la società è UE, può arrivare una richiesta di recupero anche a lei (è un tuo alter ego).
– In alcuni casi l’espatrio può sospendere il decorso di termini o ridurre benefici: ad esempio, per debiti con il Fisco italiano, perdere la residenza fa decadere da piani di rateazione agevolata e porta all’immediata riscossione integrale.
– Fattore umano: vivere da esule finanziario non è facile. Non potrai tornare in Italia se non rischiando misure, né transitare in paesi con cui l’Italia collabora (che sono quasi tutti). I tuoi familiari in Italia potrebbero subire iscrizioni ipotecarie su beni cointestati o indagini sul loro tenore di vita se pare sostenuto ancora da te dall’estero.

Insomma, la “fuga” può sembrare attraente ma nel 2025 è quasi una leggenda metropolitana. Salvo piccole somme e casi isolati, per debiti ingenti con l’Erario conviene molto di più trovare un accordo (rateizzare, chiedere saldo e stralcio se sei nullatenente, o usare strumenti come la composizione crisi da sovraindebitamento se applicabile). Nei casi estremi, dichiara fallimento se sei imprenditore e libera i debiti con l’esdebitazione, piuttosto che latitare all’estero. Un buon avvocato ti aiuterà a esplorare soluzioni legali: ad esempio, talvolta il Fisco accetta transazioni se capisce che non recupererà mai tutto (c’è l’istituto della transazione fiscale nel codice della crisi). Tentare la sorte espatriando ti esporrebbe a troppi fronti – e se hai ancora beni in Italia, stai certo che li perderai comunque.

D: Cosa devo fare se ho un conto all’estero? È illegale tener soldi fuori Italia?
R: Avere patrimoni all’estero non è illegale, purché: 1. Se sei residente fiscale in Italia, dichiari al Fisco i redditi che da essi derivano (interessi, dividendi, plusvalenze, affitti ecc.), e
2. Indichi tali attività nel quadro RW della dichiarazione annuale (monitoraggio fiscale), pagando le eventuali imposte patrimoniali dovute (IVAFE per conti e investimenti esteri, IVIE per immobili esteri).

In altre parole, puoi liberamente aprire conti in Svizzera o acquistare casa in Francia, ma devi mantenere la trasparenza verso il Fisco italiano. Il quadro RW serve solo a segnalare l’esistenza e consistenza dell’attività estera, non comporta tassazione di per sé (a parte appunto IVIE/IVAFE che sono aliquote modeste: 0,2% su investimenti finanziari, 0,76% su immobili al valore catastale estero). L’importante è farlo: l’omissione di RW porta sanzioni pesanti come detto .

Tieni conto inoltre che: – Dal 2017 l’Agenzia Entrate verosimilmente conosce già il tuo conto grazie al CRS . Se non lo dichiari, scatta un allarme di anomalia . Quindi meglio mettersi in regola spontaneamente, se hai dimenticato di farlo finora.
– Non c’è anonimato: anche se il conto è intestato a una società offshore di cui sei beneficiario effettivo, la banca estera è obbligata a segnalare te come UBO (ultimate beneficial owner) e quindi l’Italia lo verrà a sapere .
– Se il conto estero è cointestato con un non residente (es. tuo fratello che vive in Canada), tu devi dichiarare la parte di tua spettanza. Se non c’è una divisione formale, l’Agenzia presume 50/50.
– Attenzione anche alle criptovalute detenute su exchange esteri o wallet: dal 2023 vanno dichiarate in RW come fossero depositi esteri (e anche se la normativa è ancora in evoluzione, l’Agenzia ha chiarito quest’obbligo). Presto i grandi exchange forniranno dati alle autorità (UE DAC8 in arrivo).

In conclusione: tenere soldi all’estero è lecito, tenerli nascosti no. Se non l’hai mai fatto, puoi valutare di regolarizzare il passato con un ravvedimento (eventualmente assistito da un fiscalista) per evitare guai futuri. Le sanzioni da ravvedimento saranno minori di quelle che prenderesti se ti scoprono (cosa molto probabile oggi). E dormirai più tranquillo.

D: Cos’è lo scambio automatico di informazioni (CRS) e riguarda anche i piccoli conti?
R: Il Common Reporting Standard (CRS) è un accordo globale per cui oltre 100 Paesi si scambiano ogni anno i dati dei conti bancari e finanziari dei non residenti . Riguarda tutti i conti, anche di modesta entità (non c’è un’esenzione per importo, se non per conti dormienti sotto 1.000 $). Quindi sì, anche un conto con 5.000 € in Francia viene segnalato. In pratica, le banche entro il 30 giugno di ogni anno trasmettono al proprio fisco locale l’elenco dei clienti non residenti con i saldi al 31 dicembre precedente e gli eventuali interessi maturati . Questi elenchi vengono incrociati e inviati agli Stati di residenza. L’Italia riceve così dati da decine di paesi (tutti quelli UE, più Svizzera, principati, isole, etc.) e li usa per controlli . L’obiettivo è combattere l’evasione internazionale: prima chi teneva soldi in Svizzera poteva pensare di farla franca, oggi la Svizzera ogni anno comunica i nominativi e i saldi degli italiani con conti lì.

Cosa fa l’Agenzia con questi dati? Incrocia con le dichiarazioni: – Se vede che hai un conto e non hai compilato RW, potrebbe mandarti una lettera di compliance o avviare direttamente un accertamento per omessa dichiarazione di investimenti esteri.
– Se risultano interessi/dividendi esteri e tu non li hai dichiarati nel tuo quadro RL/RT, te li contesteranno come redditi evasi.
– Se i saldi sono molto alti rispetto ai redditi dichiarati, possono insospettirsi per redditi non dichiarati accumulati (evasione pregressa) e starti addosso, magari chiedendo prove sull’origine di quei fondi.

Inoltre con CRS l’Italia invia i dati dei conti degli stranieri in Italia ai loro paesi. Quindi riguarda tutti in reciproco.

Gli unici conti non interessati dal CRS sono quelli in paesi che non aderiscono (pochi: USA – che però come spiegato scambia qualcosa via FATCA – e alcuni paesi del Golfo o dell’Asia centrale). Ma su questi Stati comunque esistono altri mezzi (ad esempio, se hai un conto negli Emirati e stai in Italia, l’Italia può chiedere info tramite la convenzione OCSE che gli Emirati han firmato e un accordo bilaterale di scambio firmato nel 2015).

In breve: il CRS ha reso trasparente il patrimonio finanziario all’estero . Non importa se è piccolo o grande: salvo importi davvero irrisori (pochi centesimi di interessi, conti sotto soglie minime di rilevazione – in alcuni paesi non segnalano conti <1.000$, ma altri li segnalano lo stesso), l’informazione viene scambiata. Perciò devi assumere che l’Agenzia delle Entrate sa già dei tuoi conti esteri. Se hai sempre dichiarato tutto, nessun problema. Se hai omesso qualcosa, meglio correre ai ripari.

D: Conviene costituire una società all’estero per pagare meno tasse?
R: Conviene solo se c’è un’effettiva ragione economica-operativa per avere l’attività in quel Paese e se puoi sostenerne i costi e le implicazioni. Aprire società in paesi a fiscalità favorevole (Irlanda, Estonia, Emirati, ecc.) può ridurre il carico fiscale, ma presenta queste criticità: – Se continui in realtà a svolgere l’attività dall’Italia, con clienti italiani e la gestione fatta da qui, la società estera rischia di essere qualificata come residente in Italia per sede di direzione (esterovestizione) . Risultato: dovresti comunque pagare le tasse italiane (oltre a quelle eventualmente minori pagate fuori) e prendi sanzioni.
– Una società estera comporta oneri amministrativi e legali nell’altro Stato: devi conoscere le leggi locali, tenere una contabilità lì, probabilmente nominare un referente o agent sul posto, magari depositare bilanci in lingua locale, pagare un commercialista in loco. Questi costi possono superare il risparmio d’imposta se l’attività non è di dimensioni significative.
– Dal punto di vista commerciale, può destare sospetti o diffidenza in partner e banche se capiscono che è uno schema artificioso. Ad esempio, una banca italiana potrebbe non aprire il conto a una società bulgara se l’amministratore vive in Italia, perché pensa a possibili implicazioni fiscali e di compliance.
– Bisogna considerare le norme CFC italiane: se tu persona fisica controlli una società estera in paradiso fiscale (tax rate effettivo < metà di quello italiano) e quella società non ha una vera attività economica con personale e attrezzature proprie, allora l’Italia ti tassa per trasparenza gli utili di quella società (art. 167 TUIR). Quindi i profitti della società estera verrebbero comunque aggiunti al tuo reddito personale italiano.
– Sul breve termine potresti avere benefici (nessuna ritenuta su profitti che lasci all’estero, nessuna contribuzione Inps se non hai stabile in Italia, ecc.), ma sul lungo termine se vuoi godere di quei profitti in Italia, dovrai distribuirli come dividendi a te e probabilmente li pagherai (magari con credito per imposte già pagate fuori, ma se erano zero fuori, qui paghi il 26% come persona fisica su dividendo estero). Se invece non li distribuisci, rimangono bloccati lì.

Quando ha senso allora? Quando l’operatività in quel Paese è reale: ad es. apri una filiale produttiva in Polonia perché lì produci a costi inferiori e vendi sui mercati dell’Est; la tassazione polacca (19%) è un po’ più bassa dell’Italia (24% + IRAP), hai vantaggi logistici veri e il Fisco non può dire niente perché c’è sostanza. Oppure se decidi di trasferirti tu stabilmente all’estero e avviare lì il business, allora sì: se sposti la vita a Dubai e apri una società a Dubai da cui eroghi servizi globali, avrai zero tasse a Dubai legalmente. Ma devi trasferirci davvero la vita (vedi discorso residenza). Altro esempio: hai un progetto innovativo e trovi investitori in UK, crei una ltd a Londra dove c’è l’ecosistema adatto; pagherai 19% UK corporate tax, e se reinvesti utili ok, se li porti in Italia come dividendi pagherai differenza (ma UK-Italia c’è convenzione). In questi casi è la realtà economica che guida la scelta, il risparmio fiscale è conseguenza.

Se invece l’unico motivo è “pago meno tasse”, stai attento: il confine con l’abuso del diritto è labile. Le autorità ormai individuano facilmente schemi artificiali (shell companies in Estonia con CEO che vive in Puglia…). Puoi incorrere in rettifiche pesanti.

In sintesi, aprire società estere conviene solo con un business plan solido dietro. Consulta sempre un esperto prima: lui potrà dirti se quell’assetto rischia di essere contestato. A volte si può ottenere un interpello anti-abuso per chiedere conferma che l’operazione è lecita. Se l’Agenzia risponde che la considera elusiva, ti conviene non farla affatto.

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👉 Prima regola: valuta la specializzazione e l’esperienza concreta dell’avvocato in materia di fiscalità internazionale, convenzioni contro le doppie imposizioni e contenzioso tributario.


⚖️ Quando serve la consulenza tributaria internazionale

  • Gestione di redditi esteri e applicazione delle convenzioni contro la doppia imposizione;
  • Investimenti in società, immobili o strumenti finanziari fuori dall’Italia;
  • Pianificazione fiscale internazionale e utilizzo di holding o trust;
  • Contenziosi con l’Agenzia delle Entrate su redditi esteri o quadro RW;
  • Accertamenti legati a stabili organizzazioni, prezzi di trasferimento o flussi finanziari esteri.

📌 Rischi senza un’adeguata assistenza

  • Doppia imposizione dei redditi (in Italia e all’estero);
  • Sanzioni fiscali per omessa o infedele dichiarazione;
  • Interessi di mora su imposte non versate;
  • Maggiori controlli futuri da parte dell’Agenzia delle Entrate;
  • Rischio di contestazioni penali per evasione o riciclaggio internazionale.

🔍 Criteri per scegliere l’avvocato giusto

  • Specializzazione specifica in diritto tributario internazionale;
  • Esperienza in contenziosi su redditi esteri, quadro RW e trust;
  • Conoscenza delle convenzioni internazionali e dei meccanismi di credito d’imposta;
  • Capacità di assisterti anche in ambito penale-tributario;
  • Esperienza pratica con investitori, professionisti e imprese con attività transfrontaliere.

🧾 Documenti da predisporre per una consulenza efficace

  • Dichiarazioni fiscali italiane ed estere;
  • Certificazioni dei redditi e imposte già pagate fuori Italia;
  • Contratti di investimento o di partecipazione societaria;
  • Estratti conto bancari e documentazione finanziaria;
  • Atti notarili, trust o strumenti di pianificazione patrimoniale.

🛠️ Vantaggi di una consulenza specializzata

  • Corretta pianificazione fiscale internazionale;
  • Prevenzione di accertamenti e contestazioni;
  • Riduzione delle imposte grazie all’applicazione delle convenzioni;
  • Difesa contro accertamenti già in corso;
  • Tutela penale in caso di indagini per evasione o riciclaggio.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i tuoi redditi e investimenti esteri;
📌 Verifica l’applicabilità delle convenzioni internazionali;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura e trasparente della fiscalità internazionale.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto tributario internazionale;
✔️ Professionista per la difesa contro contestazioni fiscali su redditi e patrimoni esteri;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

La consulenza tributaria internazionale è fondamentale per chi ha redditi, patrimoni o società oltre confine: scegliere un avvocato esperto può fare la differenza tra pagare imposte doppie o difendersi efficacemente.
Con una difesa mirata puoi tutelare i tuoi interessi in Italia e all’estero, prevenire contestazioni e ridurre rischi fiscali e penali.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: il tuo alleato nella difesa e pianificazione della fiscalità internazionale.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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