Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per omessa ritenuta d’acconto su prestazioni professionali? In questi casi, l’Ufficio presume che il committente – società, ente o professionista – non abbia operato la ritenuta prevista dalla legge al momento del pagamento del compenso. Le conseguenze possono essere molto gravi: responsabilità solidale tra sostituto e percettore, recupero delle imposte, sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare la correttezza degli adempimenti o ridurre sensibilmente le sanzioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’omessa ritenuta d’acconto
– Se il committente non ha applicato la ritenuta IRPEF sui compensi pagati a professionisti
– Se non è stata effettuata la certificazione unica (CU) al percettore
– Se mancano i versamenti delle ritenute tramite modello F24
– Se emergono incongruenze tra i compensi corrisposti e i dati dichiarati dal sostituto d’imposta
– Se l’Ufficio presume un pagamento “lordo” senza l’applicazione della ritenuta
Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione delle ritenute non operate né versate
– Applicazione di sanzioni dal 30% al 200% delle imposte non trattenute
– Interessi di mora sulle somme dovute
– Responsabilità solidale del sostituto d’imposta per le ritenute non versate
– Nei casi più gravi, denuncia penale per omesso versamento di ritenute certificate
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare che le ritenute sono state correttamente operate e versate nei termini
– Produrre F24, CU e altra documentazione contabile a supporto
– Contestare l’omissione se si tratta di prestazioni escluse dall’obbligo di ritenuta
– Evidenziare errori di calcolo, difetti istruttori o vizi di motivazione dell’accertamento
– Richiedere la riduzione delle sanzioni in caso di irregolarità formali o ravvedimento operoso
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i contratti e i pagamenti oggetto di contestazione
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta applicazione della normativa fiscale
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e vizi procedurali dell’accertamento
– Difendere il committente o il professionista davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da richieste fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione delle sanzioni tramite ravvedimento o riqualificazione della violazione
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della correttezza degli adempimenti fiscali
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: l’omessa ritenuta d’acconto è tra le contestazioni più frequenti nei rapporti con professionisti e collaboratori. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata per evitare conseguenze economiche e legali pesanti.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni per omessa ritenuta d’acconto su prestazioni professionali e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.
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Introduzione
La ritenuta d’acconto sulle prestazioni professionali è un meccanismo fiscale in base al quale il committente (detto sostituto d’imposta) trattiene una percentuale del compenso dovuto al professionista (detto sostituito) e la versa allo Stato come acconto delle imposte sul reddito del professionista stesso. Ad esempio, un’azienda che paga la parcella di un consulente deve trattenere generalmente il 20% (al netto dell’IVA) e versarlo al Fisco entro il giorno 16 del mese successivo.
La ritenuta d’acconto ha lo scopo di agevolare la riscossione delle imposte, anticipando all’Erario parte del tributo dovuto dal professionista e assicurando che il gettito fiscale non dipenda solo dall’autodichiarazione del contribuente. Il committente funge dunque da “esattore” per conto dello Stato, e in virtù di questa posizione di garanzia gode di specifici obblighi e responsabilità.
Quando il committente omette di effettuare la ritenuta dovuta sul compenso di un lavoratore autonomo – ad esempio pagando l’intero importo concordato senza trattenere nulla – oppure effettua la ritenuta ma omette di versarla all’Erario, si configura una violazione tributaria grave. L’Agenzia delle Entrate può contestare tale inadempimento notificando un avviso di accertamento (anche immediatamente esecutivo) per il recupero dell’imposta non versata, oltre a interessi e sanzioni, e nei casi più significativi possono scattare anche conseguenze penali. In questa guida esamineremo come difendersi da una contestazione per omessa ritenuta d’acconto su compensi professionali, analizzando il quadro normativo italiano (aggiornato a settembre 2025), i diritti del contribuente e le strategie difensive sia in fase amministrativa che nel contenzioso tributario.
Quadro normativo di riferimento
Per inquadrare correttamente la problematica, è utile richiamare brevemente le principali norme italiane che disciplinano la ritenuta d’acconto e le conseguenze in caso di omesso versamento:
- D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, artt. 23-30: Istituiscono l’obbligo di operare le ritenute alla fonte su varie categorie di redditi. In particolare, l’art. 25 del DPR 600/1973 riguarda i compensi per lavoro autonomo e altre prestazioni d’opera: i soggetti indicati (es. imprese, enti e professionisti con P.IVA) che corrispondono compensi a lavoratori autonomi devono operare, all’atto del pagamento, una ritenuta del 20% a titolo di acconto sull’IRPEF dovuta dal percipiente, con obbligo di rivalsa. La norma precisa che nessuna ritenuta va operata sui compensi corrisposti nell’esercizio di imprese (quindi se il prestatore d’opera agisce come impresa commerciale e non come lavoratore autonomo). Inoltre, se il compenso è corrisposto a soggetti non residenti, l’art. 25, c.2 prevede una ritenuta a titolo d’imposta del 30% sulla parte imponibile, salvo eccezioni (prestazioni svolte interamente all’estero o compensi a stabili organizzazioni in Italia di non residenti, che non richiedono ritenuta). In sintesi, la legge individua chi è tenuto a fungere da sostituto d’imposta, quando applicare la ritenuta e in che misura.
- D.Lgs. 9 luglio 1997 n. 241: Introduce la riscossione unificata tramite modello F24 per tributi e contributi. Stabilisce le scadenze periodiche per il versamento delle ritenute (generalmente il giorno 16 del mese successivo a quello in cui sono state operate, salvo eccezioni). Inoltre, impone l’obbligo di certificazione annuale (oggi Certificazione Unica, ex CUD) delle somme corrisposte e delle ritenute operate, da consegnare al percipiente entro il 16 marzo dell’anno successivo, nonché la presentazione della dichiarazione annuale dei sostituti d’imposta (modello 770) entro i termini di legge (normalmente entro il 31 ottobre). L’omessa presentazione del modello 770 costituisce violazione sanzionabile amministrativamente e, se l’imposta non dichiarata supera certe soglie, integra reato (si veda oltre).
- D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 471, artt. 13 e 14: Disciplina le sanzioni amministrative tributarie in caso di omessi versamenti. L’art. 13 (come modificato dal 2024) riguarda le sanzioni per omesso versamento di tributi in generale: prevede una sanzione del 25% per ogni importo non versato alle scadenze prescritte (in precedenza era il 30%, percentuale ridotta dal 1° gennaio 2024 per favor rei) . È prevista una riduzione alla metà (quindi 12,5%) se il pagamento avviene con ritardo non superiore a 90 giorni, con ulteriore riduzione su base giornaliera per i ritardi fino a 15 giorni (c.d. ravvedimento sprint) . L’art. 14 del D.Lgs. 471/97 riguarda invece la mancata effettuazione delle ritenute alla fonte: chi omette di operare, in tutto o in parte, una ritenuta dovuta è soggetto a una sanzione amministrativa pari al 20% dell’ammontare non trattenuto. Importante: dopo la riforma del 2015 (D.Lgs. 158/2015), le due sanzioni operano in modo alternativo e non si cumulano. In caso di ritenuta non effettuata (e quindi inevitabilmente non versata), si applica solo la sanzione del 20% (omessa ritenuta) e non anche quella per omesso versamento, evitando una duplicazione sanzionatoria. Questa interpretazione, già affermata dalla Cassazione (es. Cass. n. 25278/2015) è stata recepita nel testo vigente dell’art. 14.
- Legge 27 luglio 2000 n. 212 (Statuto del Contribuente), art. 7: Stabilisce l’obbligo di motivazione degli atti tributari. Ogni avviso di accertamento deve indicare chiaramente i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche alla base della pretesa fiscale, nonché gli eventuali documenti probatori utilizzati (allegandone copia se non già noti al contribuente), a pena di nullità. Questa norma generale è fondamentale per verificare possibili vizi dell’atto impositivo: ad esempio motivazione insufficiente o contraddittoria, mancata allegazione di documenti richiamati, ecc. (questioni che affronteremo più avanti nella parte difensiva).
- D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, art. 35: Riguarda la riscossione delle imposte mediante sostituto d’imposta. In particolare, questo articolo (prima e dopo le modifiche introdotte nel tempo) disciplina la responsabilità solidale tra sostituto e sostituito per il pagamento dell’imposta. In base all’interpretazione ormai consolidata (v. Cass., Sez. Un., 12/04/2019 n. 10378), se il sostituto d’imposta non ha effettuato affatto le ritenute dovute, il Fisco può rivolgersi anche direttamente al percipiente per il pagamento del tributo, configurandolo come coobbligato in solido. Al contrario, se le ritenute sono state operate dal sostituto ma non versate, il percipiente (che ha ricevuto il compenso al netto della ritenuta) non può essere chiamato a pagare di nuovo tali somme in sede di riscossione coattiva. Questo importante principio – introdotto espressamente dall’art. 35 DPR 602/73 e confermato dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 2019 – sarà approfondito più avanti, perché incide sulla difesa sia del sostituto sia dell’eventuale sostituito in buona fede.
- D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, artt. 5 e 10-bis: Rilevano per i profili penali. L’art. 10-bis punisce penalmente l’omesso versamento di ritenute certificate per importi superiori a una certa soglia (oggi €150.000 annui) da parte del sostituto d’imposta. La formulazione vigente (come modificata dal 2015 e corretta dalla Corte Costituzionale nel 2022) limita il reato ai casi in cui le ritenute risultano dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti (Certificazioni Uniche) e non vengono versate entro la scadenza (30 giorni dal termine di presentazione del modello 770). L’art. 5 invece sanziona l’omessa presentazione del modello 770 del sostituto d’imposta, quando l’ammontare delle ritenute non dichiarate supera una soglia (€50.000); dal 2015 è stato introdotto il comma 1-bis che tipicizza tale condotta come reato (dichiarazione omessa) nei casi più gravi. Approfondiremo anche questi aspetti, tenendo conto delle novità normative (come il D.Lgs. 87/2024 sulla non punibilità per crisi di liquidità) e delle pronunce più recenti.
Oltre a queste, vanno richiamate le norme generali sulla riscossione e il processo tributario (per la fase esecutiva e contenziosa), che citeremo man mano. In fondo alla guida è disponibile un elenco riepilogativo di tutte le fonti normative e giurisprudenziali menzionate.
Obblighi del sostituto d’imposta nelle prestazioni professionali
Prima di esaminare le violazioni e le possibili difese, riepiloghiamo gli obblighi fondamentali che la legge impone al committente (sostituto d’imposta) quando paga compensi a un lavoratore autonomo o professionista:
- Applicare la ritenuta alla fonte: al momento di pagare il compenso, il committente deve trattenere l’importo della ritenuta d’acconto previsto (in genere il 20% sul compenso imponibile, se il percipiente è un professionista residente e non opera in forma di impresa). L’obbligo scatta solo se il committente riveste il ruolo di sostituto d’imposta per legge. Ciò include normalmente: imprese (società, ditte individuali), enti e associazioni, professionisti titolari di partita IVA, pubbliche amministrazioni, ecc. Non sono tenuti a operare ritenute i privati consumatori (es. un cittadino che paga una prestazione occasionale senza essere imprenditore) e, come detto, non si opera ritenuta se il compenso è pagato a un soggetto che agisce come impresa (es. società di consulenza) anziché come lavoratore autonomo. In pratica, se il prestatore emette fattura come società o ditta commerciale, il pagamento avverrà al lordo (nessuna ritenuta) poiché tali redditi saranno tassati come reddito d’impresa. Viceversa, se la fattura proviene da un professionista individuale (iscritto a un Albo o comunque con reddito di lavoro autonomo) il committente applicherà la ritenuta d’acconto del 20%.
- Versare le ritenute nei termini: il sostituto d’imposta deve versare le somme trattenute al Fisco tramite modello F24 entro la scadenza mensile prevista. Di regola, per compensi pagati in un certo mese, la ritenuta va versata entro il 16 del mese successivo (se il 16 è festivo o sabato, slitta al giorno lavorativo immediatamente successivo). Il versamento avviene indicando l’apposito codice tributo (ad es. 1040 per “ritenute su redditi di lavoro autonomo”) e l’anno di riferimento. Il rispetto della tempistica è cruciale: un versamento tardivo, anche di pochi giorni, comporta già una violazione (omesso versamento) sebbene sanabile con ravvedimento. In alcune ipotesi particolari ci sono scadenze diverse – ad esempio sui redditi di lavoro dipendente il sostituto può avere acconti periodici – ma per le ritenute sui professionisti la regola generale è il versamento mensile.
- Certificare e dichiarare le ritenute: entro il 16 marzo di ogni anno, il sostituto deve rilasciare al professionista percettore la Certificazione Unica (CU) attestante i compensi pagati e le ritenute effettuate nell’anno precedente. Inoltre, entro la scadenza annuale (di solito 31 ottobre) deve presentare all’Agenzia delle Entrate il modello 770, che riepiloga tutte le ritenute operate e versate nell’anno d’imposta precedente. La mancata presentazione del modello 770 è soggetta a sanzione amministrativa (sanzione fissa da €250 a €2.000, aumentabile se erano dovute imposte) e, come detto, se comporta l’occultamento di imposte sopra €50.000 può costituire reato (omessa dichiarazione dei sostituti). La mancata consegna della CU al percipiente può anch’essa essere sanzionata (sanzione di €100 per ogni certificazione omessa o tardiva).
In sintesi, il committente-sostituto d’imposta agisce come “collecting agent”: trattiene una parte del compenso del professionista e la deve girare allo Stato. Se adempie correttamente a tali obblighi, il professionista potrà poi scomputare quella ritenuta come credito d’imposta nella propria dichiarazione dei redditi. Se invece il sostituto non adempie, il sistema prevede meccanismi per tutelare l’Erario (sanzioni, interessi, obbligazioni in solido) e, al contempo, per evitare per quanto possibile che il professionista subisca un doppio prelievo.
Violazione: omessa ritenuta d’acconto su compensi professionali
Quando si configura la violazione? Si ha omessa ritenuta d’acconto nel caso in cui il committente, pur essendovi tenuto, non effettua la ritenuta sul compenso corrisposto al professionista. Ciò può accadere per varie ragioni, ad esempio:
- Il committente ignora l’obbligo o lo applica erroneamente, pagando il compenso al lordo senza trattenuta.
- Vi è stata una valutazione errata sulla natura del compenso: ad esempio si riteneva che il pagamento non fosse soggetto a ritenuta perché riferito a un’attività d’impresa, mentre invece era un reddito di lavoro autonomo.
- Il professionista ha dichiarato di essere in un regime fiscale che esenta dalla ritenuta, e il committente – fidandosi – non l’ha applicata, ma tale esenzione si è rivelata non spettante.
Vediamo quest’ultimo caso più nel dettaglio, perché è frequente nella prassi: i professionisti in regime forfettario o in passato nel regime dei minimi godono per legge dell’esonero dalla ritenuta d’acconto sui compensi (pagano infatti un’imposta sostitutiva forfettaria). Tuttavia devono a tal fine dichiarare sulla fattura di essere nel regime agevolato e di chiedere la non applicazione della ritenuta (richiamando l’art. 1, c. 67 L. 190/2014, come modificato). Se il professionista ha i requisiti, il committente è legittimato a non operare alcuna ritenuta. Se però il professionista non aveva titolo per aderire a quel regime (es. ha sforato i limiti di reddito, o la sua attività non era ammessa), allora formalmente la ritenuta sarebbe stata dovuta. In tal caso che succede? La Cassazione ha chiarito che la responsabilità primaria ricade sul percettore che si è indebitamente avvalso del regime di esonero: il Fisco può quindi esigere dal professionista le imposte non trattenute in via di accertamento a suo carico (essendo egli sostituito “non avente titolo” all’esenzione). Tuttavia, il committente non è del tutto esonerato, poiché resta obbligato in solido quale sostituto: in pratica l’Amministrazione finanziaria potrebbe comunque richiedere il pagamento al sostituto d’imposta, specie se il professionista non adempie spontaneamente. Per questo è fondamentale che il committente raccolga e conservi la dichiarazione del professionista sul proprio status fiscale (es. autocertificazione di adesione al regime forfettario): ciò potrà costituire una difesa in caso di contestazione, quantomeno per dimostrare la buona fede del sostituto e tentare di riversare la pretesa d’imposta sul vero debitore (il percipiente). In ogni caso, in presenza di una falsa dichiarazione del professionista, questi potrà subire sia il recupero dell’imposta in sede di accertamento della sua IRPEF personale, sia sanzioni per indebita fruizione di regime fiscale.
Un’altra situazione di omessa ritenuta può verificarsi nei rapporti con l’estero. Ad esempio, un’azienda italiana paga un compenso a un professionista non residente per una consulenza. La regola interna (art. 25, c.2 DPR 600/73) prevede ritenuta del 30% a titolo d’imposta su compensi a non residenti, se la prestazione è territorialmente rilevante in Italia. Se però la prestazione è stata svolta all’estero (nessun beneficio prodotto in Italia) oppure il professionista estero ha una base fissa o stabile organizzazione in Italia (che viene tassata direttamente), la ritenuta non è dovuta . Inoltre intervengono le Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni: ad esempio, molte convenzioni (come quella Italia-Francia ) stabiliscono che i compensi professionali sono tassati solo nel Paese di residenza del prestatore, a meno che egli disponga di una base fissa nell’altro Paese. In tali casi convenzionali, il committente italiano non deve applicare la ritenuta del 30%. Nella pratica però, per fruire dell’esenzione convenzionale il soggetto estero deve fornire una documentazione idonea (certificato di residenza fiscale estera e dichiarazione di applicabilità del trattato) prima del pagamento. Se il committente omette la ritenuta senza aver raccolto le prove necessarie, l’Agenzia delle Entrate potrebbe contestare l’omissione, e spetterà poi al contribuente far valere in difesa la clausola convenzionale per ottenere l’annullamento o lo sgravio dell’atto. In sintesi, nei rapporti esteri la valutazione preventiva è cruciale: in caso di dubbio, molti preferiscono operare la ritenuta del 30% e lasciare al professionista estero la possibilità di chiedere rimborso all’Erario italiano (procedura lunga ma tutelante per il sostituto). Se invece si sceglie di non applicarla perché non dovuta, occorre avere elementi solidi da esibire in caso di controllo.
Conseguenze dell’omessa ritenuta: Dal punto di vista sostanziale, quando una ritenuta dovuta non viene effettuata, l’imposta corrispondente rimane comunque dovuta all’Erario. In teoria, sia il sostituto sia il sostituito sono obbligati al pagamento di tale somma, ciascuno secondo il proprio ruolo:
- Il sostituto d’imposta (committente) è obbligato per legge a versare l’importo che avrebbe dovuto trattenere. La sua è un’obbligazione propria, autonoma rispetto all’obbligazione fiscale del percipiente. L’Agenzia delle Entrate, venuta a conoscenza dell’omissione (es. tramite controlli incrociati tra dichiarazioni del percipiente e 770 del sostituto, oppure da verifiche fiscali), può emettere un avviso di accertamento nei confronti del sostituto per recuperare l’ammontare della ritenuta non operata (equiparandolo a una imposta non versata).
- Il sostituito (professionista) dal canto suo rimane il soggetto passivo originario dell’imposta sul proprio reddito. Se il committente non ha trattenuto nulla, il professionista incassa il compenso lordo ed è tenuto comunque a dichiararlo integralmente e a pagarci sopra l’IRPEF dovuta in sede di dichiarazione annuale. Se il professionista adempie a questo obbligo, versando tutta la sua imposta, il Fisco non subisce alcuna perdita di gettito; in tal caso, dovrebbe evitare di riscuotere di nuovo la medesima imposta dal sostituto, per non creare una doppia imposizione. Questo principio di “neutralità” è stato affermato anche giurisprudenzialmente: occorre evitare che la stessa imposta venga incassata due volte dallo Stato. Nella prassi, tuttavia, l’Agenzia può inizialmente pretendere il pagamento al sostituto inadempiente anche se il sostituito ha già tassato il compenso, salvo poi gestire l’eventuale rimborso o credito in capo a quest’ultimo. Un sostituto d’imposta ben difeso potrà dunque eccepire, in sede di contenzioso, che l’imposta è stata già assolta dal percipiente, chiedendo quantomeno lo sgravio della quota d’imposta (restando le sanzioni per l’omissione). Attenzione: perché il professionista possa aver pagato il dovuto, è necessario che non abbia scomputato alcun credito di ritenuta – non essendo stata operata, infatti, egli non poteva riportare alcun importo a titolo di ritenuta subita (lo scomputo è consentito solo per ritenute effettivamente operate: cfr. art. 22 TUIR). Dunque se ha versato la sua IRPEF integralmente, quell’importo comprende anche la quota che il sostituto avrebbe dovuto trattenere.
- Se invece il professionista non ha dichiarato né versato le imposte su quel compenso (magari confidando nel fatto che avrebbe dovuto pensarci il sostituto, oppure per dolo evasivo), l’Erario si trova di fronte a un’omissione totale. In tal caso, come accennato, la legge consente di rivalersi su entrambi i soggetti: il Fisco potrà legittimamente esigere il pagamento tanto dal sostituto (per violazione degli obblighi di ritenuta) quanto dal sostituito (per imposta evasa su reddito non dichiarato). Frequentemente l’Ufficio preferirà colpire il sostituto, più facile da aggredire (sovente un’azienda strutturata), ma nulla vieta che vengano emessi avvisi di accertamento paralleli: uno al professionista per il reddito sottratto a tassazione, e uno al committente per la ritenuta non versata. L’importo di imposta è il medesimo, ma viene richiesto a due soggetti in forza di due titoli diversi; naturalmente, una volta che uno paga, si estingue il debito per l’altro (principio della solidarietà nel debito d’imposta).
Riassumendo: l’omessa ritenuta crea una situazione delicata in cui il committente rischia di dover pagare l’importo non trattenuto (oltre a sanzioni e interessi), e il professionista rischia di vedersi tassare il compenso senza poter detrarre alcun acconto. Il sistema tende a proteggere il professionista incolpevole (che subisce già il danno di non aver avuto il versamento a suo credito) e a sanzionare il committente inadempiente. Infatti, come vedremo subito, se la ritenuta era stata operata ma non versata, il professionista non può essere chiamato a pagare due volte (Cass. SU 10378/2019); se la ritenuta non è stata proprio operata, il Fisco può chiedere il pagamento al professionista, ma comunque farà valere anche la responsabilità del committente.
Sanzioni e interessi per omessa ritenuta
Sul piano amministrativo-tributario, l’omessa effettuazione della ritenuta d’acconto comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie proporzionali e il calcolo di interessi di mora sulle somme versate in ritardo. Esaminiamo in dettaglio queste voci.
Sanzione amministrativa pecuniaria: come già anticipato, la violazione consiste nel non aver trattenuto un importo dovuto a titolo di ritenuta. La sanzione applicabile è disciplinata dall’art. 14, c.1, D.Lgs. 471/97, che stabilisce una sanzione del 20% dell’ammontare non trattenuto. Ad esempio, se un committente avrebbe dovuto trattenere €1.000 e non l’ha fatto, sarà soggetto a €200 di sanzione (20% di 1.000). Questa è la sanzione base, che l’Ufficio applicherà nell’atto di accertamento. Occorre ribadire che non si cumula anche la sanzione per omesso versamento (ex art. 13) su quello stesso importo: la Cassazione ha chiarito che l’omessa effettuazione e il conseguente omesso versamento costituiscono un’unica condotta sanzionabile, da punire con la sola sanzione da omessa ritenuta. La duplicazione di sanzioni (20% + 30%) che talvolta in passato veniva contestata è oggi esclusa sia dalla normativa vigente (dopo il 2016) sia dalla giurisprudenza univoca. Pertanto, in caso di ritenuta non operata, la sanzione massima complessiva è il 20% dell’imposta non trattenuta.
Se invece la ritenuta era stata regolarmente trattenuta al professionista ma poi non versata entro i termini, la violazione non è “omessa ritenuta” bensì “omesso versamento di ritenute”. In tal caso (tipico per ritenute su dipendenti, ma potrebbe occorrere anche per compensi a terzi) la sanzione ricade sotto l’art. 13 D.Lgs. 471/97, oggi pari al 25% dell’importo non versato. Questa situazione però esula dall’oggetto principale di questa guida, che riguarda l’omessa ritenuta su prestazioni professionali (dove nella maggior parte dei casi la ritenuta non è stata né operata né versata). Abbiamo comunque richiamato il quadro normativo perché talvolta l’Ufficio potrebbe contestare alternativamente l’una o l’altra fattispecie a seconda di come configura l’omissione. Ad esempio, se in dichiarazione il sostituto ha indicato la ritenuta ma poi non l’ha versata, si configurerà come omesso versamento (25%); se non l’ha proprio indicata, come omessa ritenuta (20%).
Riduzioni sanzionatorie: va evidenziato che le sanzioni sopra indicate sono importi “pieni” applicati dall’ente impositore in caso di accertamento. Esistono però vari istituti che consentono di ridurre le sanzioni in misura anche significativa, sia prima che dopo la notifica dell’atto, a seconda dei comportamenti del contribuente. Ne anticipiamo alcuni (che verranno ripresi in dettaglio nelle sezioni successive):
- Ravvedimento operoso: è lo strumento principale per sanare spontaneamente una violazione con sanzioni ridotte (vedi sezione dedicata). Consente, pagando prima di essere contestati, di applicare una percentuale sanzionatoria molto inferiore (in base al ritardo). Ad esempio, se il committente si ravvede entro 90 giorni dall’omissione, la sanzione del 20% si riduce a circa il 2,22% (pari a 1/9 del 20%); entro 1 anno, circa il 2,5% (1/8 del 20%), e così via. In tabella più avanti forniremo un riepilogo delle aliquote ridotte.
- Acquiescenza all’accertamento: se il contribuente non presenta ricorso e paga entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento, può beneficiare della riduzione della sanzione ad 1/3 (pagando quindi solo il 33% della sanzione irrogata). Questo secondo l’art. 15, c.2 D.Lgs. 218/1997. Ad esempio, su una sanzione di €200, pagandola in acquiescenza si riduce a circa €66, oltre ovviamente al tributo e interessi.
- Accertamento con adesione: se il contribuente instaura la procedura di adesione con l’Ufficio (discussione e definizione bonaria dell’accertamento), la sanzione concordata viene ridotta ad 2/3 del minimo (riduzione di 1/3) ai sensi dell’art. 2, c.5 D.Lgs. 218/97. Ciò è simile all’acquiescenza in termini di esito sanzionatorio, ma avviene tramite un contraddittorio prima del ricorso.
- Conciliazione giudiziale: se la causa viene conciliata in sede contenziosa (ossia si trova un accordo in giudizio, generalmente con rideterminazione dell’imposta), le sanzioni sono ulteriormente ridotte. In base all’art. 48 del D.Lgs. 546/92, la conciliazione in primo grado comporta l’applicazione delle sanzioni al 40% del minimo previsto (quindi riduzione del 60%), mentre in secondo grado la riduzione è al 50% del minimo. Esempio: su sanzione base €200, in conciliazione in CTP si pagherebbero €80; in CTR €100.
Questi meccanismi offrono opportunità di alleggerire la penalità, ma ognuno ha condizioni e tempi propri (ravvedimento solo prima che l’ufficio contesti, acquiescenza/adesione subito dopo, conciliazione durante il processo, ecc.), che vedremo tra poco.
Interessi moratori: accanto alle sanzioni, il contribuente deve corrispondere gli interessi legali sul pagamento tardivo delle ritenute. Gli interessi sono calcolati giorno per giorno dal giorno successivo alla scadenza originaria fino al giorno del pagamento effettivo. Il tasso di interesse è il tasso legale annuale, che può variare di anno in anno su base di decreto ministeriale. Ad esempio, il tasso legale era estremamente basso (0,01%) nel 2020, è salito all’1,25% nel 2022 e al 5% annuo nel 2023; per il 2024 il tasso è stato ulteriormente aggiornato (al momento intorno al 6% annuo). Gli interessi, pur non avendo natura sanzionatoria, possono incidere in modo significativo se il ritardo è lungo e il tasso è elevato (come nel contesto inflattivo recente). Ad esempio, su €1.000 dovuti con due anni di ritardo al tasso medio del 5%, maturano circa €100 di interessi. Va sottolineato che gli interessi non sono riducibili con gli istituti deflativi: vanno sempre pagati per intero, salvo rare ipotesi di condono interessi.
Sintesi: in caso di contestazione, il committente si vedrà quindi richiedere: (i) l’importo della ritenuta non operata (a titolo di imposta), (ii) la sanzione amministrativa del 20% su tale importo (salvo riduzioni se si aderisce/paga subito), e (iii) gli interessi legali maturati dal momento in cui avrebbe dovuto versare la ritenuta (normalmente dal 16 del mese successivo al pagamento originario) fino alla data di pagamento o iscrizione a ruolo. L’atto emesso (spesso un avviso di accertamento immediatamente esecutivo) conterrà queste voci con dettaglio di calcoli. Nella sezione esempi pratici, proporremo un calcolo esemplificativo.
Strumenti di regolarizzazione “in bonis” (compliance e ravvedimento)
Prima che si arrivi alla fase di accertamento formale, il contribuente ha la possibilità di prevenire o sanare l’irregolarità dell’omessa ritenuta attraverso alcuni strumenti di compliance fiscale. L’obiettivo ideale è regolarizzare spontaneamente la violazione, beneficiando di sanzioni ridotte, ed evitare (o attenuare) le ben più pesanti conseguenze di un accertamento d’ufficio.
Ravvedimento operoso
Il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97) è il mezzo principale con cui un contribuente che ha commesso una violazione può porvi rimedio di propria iniziativa, pagando il dovuto con una sanzione ridotta proporzionalmente alla tempestività del ravvedimento. Si può ricorrere al ravvedimento a condizione che la violazione non sia già stata constatata (ad esempio, non sia già stato notificato un avviso di accertamento o anche solo un “avviso bonario” relativo a quella violazione).
Per sanare l’omessa ritenuta tramite ravvedimento, il sostituto deve effettuare: (i) il versamento dell’importo della ritenuta non versata (inclusa la quota che avrebbe dovuto trattenere) utilizzando l’F24 con il codice tributo appropriato e indicando l’anno di riferimento originario; (ii) il pagamento degli interessi legali maturati dal giorno successivo alla scadenza originaria fino al giorno del versamento ravveduto; (iii) il pagamento della sanzione ridotta calcolata in base al tempo trascorso. Quest’ultima si versa cumulativamente col tributo (solitamente sommandola all’F24, con specifico codice tributo “ravvedimento”).
Le misure della sanzione ridotta sono determinate dall’art. 13 D.Lgs. 472/97. Riportiamo le principali soglie applicabili al nostro caso (violazione di omesso versamento/omessa ritenuta):
- Ravvedimento sprint: se il pagamento avviene entro 15 giorni dalla scadenza, la sanzione ordinaria (20% in questo caso) è ridotta a 1/15 per ogni giorno di ritardo. In termini percentuali, questo equivale a circa 0,067% al giorno sul tributo dovuto (per capirci: 1/15 del 20% = 1,333%, diviso 15 giorni = ~0,089% al giorno; ma va considerata la norma più generale sul 15% per i primi 15 giorni, recentemente abbassata in proporzione al 12,5%, vedi nota). In pratica, ad esempio, un ritardo di 10 giorni comporta una sanzione di circa 0,9% (dieci volte 0,09%). Nota: Il calcolo esatto è un po’ tecnico perché nel 2023 è cambiata la misura di riferimento (scesa dal 30% al 25%), comunque l’importante è capire che entro 2 settimane la sanzione è quasi simbolica (fra l’1% e l’1,5% del tributo).
- Ravvedimento breve: se il pagamento avviene dal 16° giorno fino a 30 giorni dalla scadenza, si applica una sanzione pari a 1/10 del minimo. Considerando che il “minimo” per l’omessa ritenuta è 20%, 1/10 equivale a 2%. Quindi dal giorno 16 al giorno 30 la sanzione è circa il 2% fisso.
- Ravvedimento entro 90 giorni: se si paga oltre 30 giorni ma entro 90 giorni dalla scadenza originaria (o, se la scadenza è il 16 del mese, entro 90 giorni da fine mese di riferimento, secondo alcune interpretazioni), la sanzione è ridotta a 1/9 del minimo. 1/9 di 20% = 2,22% circa. (Se considerassimo il vecchio 30%, 1/9 era 3,33%, ma restiamo sul dato aggiornato al 20%).
- Ravvedimento entro 1 anno: se il pagamento avviene entro 1 anno dalla violazione (ossia, ad esempio, entro il 16 gennaio dell’anno successivo per una ritenuta non fatta a dicembre), la sanzione è 1/8 del minimo. 1/8 di 20% = 2,5%.
- Entro 2 anni: sanzione 1/7 del minimo = ~2,86%.
- Oltre 2 anni: sanzione 1/6 del minimo = 3,33%.
- Dopo accertamento: una volta notificato un atto di liquidazione o accertamento, il ravvedimento non è più ammesso per quella violazione. A quel punto, come detto, si può solo sperare nelle riduzioni da adesione, acquiescenza o conciliazione, ma il ravvedimento “pentito” non è applicabile.
Di seguito una tabella riepilogativa semplificata del ravvedimento operoso per omessa ritenuta (sanzione base 20%):
Momento del ravvedimento | Sanzione ridotta (su imponibile) |
---|---|
Entro 15 giorni dalla scadenza | ~0,1% per giorno di ritardo (max ~1,5%) |
Dal 16° al 30° giorno | 2% (fisso) |
Dal 31° al 90° giorno | 2,22% circa |
Entro 1 anno dalla violazione | 2,5% |
Oltre 1 anno e entro 2 anni | ≈2,86% |
Oltre 2 anni (fino a notifica accert.) | 3,33% |
Dopo notifica accertamento | Nessun ravvedimento possibile |
Nota: Le percentuali sopra sono arrotondate e riferite alla normativa attuale (aliquota base 20% per omessa ritenuta, 25% per omesso versamento). In caso di ravvedimento di ritenute operate ma non versate (sanzione base 25%), le aliquote ridotte sarebbero leggermente diverse (es. ~0,0833% al giorno per primi 15 gg, 2,5% entro 90 gg, 3,125% entro 1 anno, ecc. – come da D.Lgs. 471/97 modificato).
Come si vede, il ravvedimento è estremamente conveniente se attuato subito: l’ordinamento premia chi regolarizza spontaneamente prima di subire un controllo. Conviene quindi, appena ci si accorge dell’errore (o se si riceve una semplice comunicazione di anomalia), correre ai ripari con ravvedimento per risparmiare sulle sanzioni.
Esempio di ravvedimento: Tizio S.r.l. avrebbe dovuto trattenere €2.000 a un consulente nel luglio 2025 ma non lo ha fatto. Si accorge a novembre 2025 dell’errore. Poiché sono passati meno di 90 giorni dalla scadenza (16 agosto -> entro metà novembre), può ravvedersi pagando: €2.000 di imposta, interessi (supponiamo 5% annuo su 3 mesi ≈ €25) e sanzione ridotta 2,22% di 2.000 = €44,4. Totale circa €2.069. Se non si ravvede e arriva un accertamento, rischierà di pagare €2.000 + interessi maturati (più al lungo) + €400 di sanzione (20%). Si comprende dunque l’importanza del ravvedimento.
Collaborazione e altre forme di autotutela
Negli ultimi anni l’Amministrazione finanziaria adotta un approccio orientato alla compliance: spesso, prima di emettere un accertamento formale, invia al contribuente delle comunicazioni di irregolarità o lettere di compliance segnalando possibili omissioni, così da invitare alla regolarizzazione spontanea. Nel caso delle ritenute, una tipica situazione è la seguente: il professionista nella propria dichiarazione indica un certo reddito e nessuna ritenuta subita (perché il committente non gliel’ha fatta), mentre il committente magari presenta un 770 incoerente, oppure non lo presenta affatto. L’Agenzia incrocia i dati e può inviare al committente una comunicazione chiedendo spiegazioni sul perché non risulta versata la ritenuta su quella transazione. Se si riceve una simile comunicazione pre-accertamento, è fortemente consigliabile cogliere l’opportunità per regolarizzare subito (magari tramite ravvedimento) o per chiarire l’equivoco (ad es. dimostrando che il compenso era escluso da ritenuta). Rispondere proattivamente può evitare l’iscrizione formale a ruolo con sanzioni piene.
Un altro strumento da menzionare è l’autotutela amministrativa: il contribuente può presentare un’istanza all’ufficio competente chiedendo l’annullamento (totale o parziale) di un atto impositivo manifestamente errato o illegittimo. Ad esempio, se riceve un avviso di accertamento per omessa ritenuta ma sa di non doverla applicare per legge (caso classico: compenso a società di capitali, quindi esente ex art. 25 DPR 600/73), potrà produrre documenti all’Agenzia evidenziando l’errore e chiedere l’annullamento in autotutela. L’amministrazione, se riconosce l’errore, può annullare o rettificare d’ufficio l’atto (art. 2-quater D.L. 564/94, art. 68 DPR 287/92); tuttavia, l’esercizio dell’autotutela è discrezionale e non sospende i termini per il ricorso. Quindi, è buona norma comunque predisporre il ricorso nel dubbio. L’autotutela è invece doverosa da parte dell’ufficio in caso di atti nulli ex lege (cioè vizi così gravi da renderli inesistenti), ma queste situazioni estreme sono rare e di solito si fanno comunque valere in giudizio.
Infine, vale la pena ricordare la possibilità di chiedere la rateazione degli importi dovuti. Se il contribuente intende pagare (per esempio in adesione o acquiescenza) ma ha difficoltà di liquidità, può domandare un pagamento dilazionato: per gli avvisi esecutivi è prevista la rateazione fino a 8 rate trimestrali (o 16 se importo > €5.000), ex art. 15-bis DPR 602/73. Pagare a rate non evita né interessi né sanzioni, ma consente di gestire meglio l’esborso. Tuttavia, attenzione: in ambito penale, la rateizzazione del debito non evita il reato di omesso versamento, che richiede il pagamento integrale entro certi termini per la non punibilità (vedi oltre).
Procedimento di accertamento e fasi del contenzioso
Vediamo ora come si sviluppa tipicamente la contestazione da parte del Fisco e quali sono i passi per difendersi in sede amministrativa e, se necessario, davanti al giudice tributario.
Accertamento e atto impositivo
Quando l’Agenzia delle Entrate rileva un’omessa ritenuta (ad es. tramite controlli automatici o una verifica fiscale), procede in genere all’emissione di un avviso di accertamento nei confronti del sostituto d’imposta. Si tratta di un atto formale, motivato, con cui l’ufficio recupera a tassazione l’importo della ritenuta non versata, applica le relative sanzioni e liquida gli interessi. Dal 2011 in poi, la gran parte degli accertamenti in materia di imposte dirette ha natura di “atto impositivo esecutivo” (ex art. 29 DL 78/2010): ciò significa che, decorsi 60 giorni dalla notifica senza pagamento né impugnazione, l’atto vale anche come titolo per la riscossione coattiva (evitando la successiva cartella esattoriale). In pratica, nell’avviso viene intimato il pagamento entro 60 giorni; se il contribuente non paga né fa ricorso, l’atto diviene definitivo ed esecutivo e potrà essere affidato all’Agente della Riscossione per attivare pignoramenti, fermi, ipoteche ecc.
Talvolta, l’ufficio potrebbe emettere due atti separati: uno per il recupero del tributo (ritenuta non fatta) e uno – contestuale – per l’irrogazione della sanzione. Questo accadeva più frequentemente in passato. Oggi è più comune emettere un atto unico contenente sia l’imposta che la sanzione (gli “avvisi di accertamento con sanzioni incorporate”). Se vi fossero due atti, il contribuente dovrà stare attento a impugnare entrambi, se intende contestare sia il merito che la sanzione.
All’interno dell’atto, per legge (Statuto contribuenti, art. 7, citato sopra) devono essere spiegati i presupposti di fatto (ad es. “in data X Tizio Srl ha pagato fattura n.5 di Caio per €10.000 senza applicare ritenuta 20%”) e le ragioni giuridiche (“ciò costituisce violazione dell’art. 25 DPR 600/73, sanzionata dall’art. 14 Dlgs 471/97”). Devono inoltre essere indicati gli elementi di prova su cui si fonda la pretesa: spesso saranno i dati delle dichiarazioni (es. il confronto tra 770 del sostituto e dichiarazione del percipiente), oppure verbali di verifica se c’è stato un controllo in azienda. Se l’accertamento scaturisce da un Processo Verbale di Constatazione (PVC) della Guardia di Finanza o AE, deve essere richiamato e allegato. In mancanza di adeguata motivazione o di allegazione degli atti citati (non già conosciuti dal contribuente), l’accertamento può essere affetto da vizio di legittimità e quindi annullabile dal giudice.
Una volta notificato l’atto (a mezzo PEC o raccomandata AR), il contribuente ha 60 giorni di tempo per reagire: o paga (anche avvalendosi delle riduzioni sanzioni 1/3 in acquiescenza) o presenta ricorso alla Commissione Tributaria/Corte di Giustizia Tributaria. Durante questi 60 giorni l’atto non è ancora esecutivo; dal giorno 61 in poi, se non sospeso, l’Agenzia può iscrivere a ruolo 1/3 delle somme (nelle more del giudizio di primo grado) come previsto dall’art. 15-bis DPR 602/73. È quindi importante, se si fa ricorso, valutare anche se chiedere la sospensiva dell’atto (sospensione cautelare) altrimenti si dovrà pagare quel terzo provvisoriamente.
Difesa in fase amministrativa: adesione e mediazione
Prima di arrivare in tribunale, ci sono due possibili percorsi amministrativi per definire la controversia: l’accertamento con adesione e (fino al 2023) il reclamo-mediazione.
Accertamento con adesione: Il contribuente può presentare all’ufficio, entro il termine per ricorrere (60 gg), un’istanza di accertamento con adesione (D.Lgs. 218/97) per tentare una definizione concordata. L’istanza sospende i termini di impugnazione per 90 giorni. Si instaura un contraddittorio: il contribuente espone le sue ragioni all’ente (anche solo per chiedere una riduzione sanzioni) e l’ufficio può formulare una proposta. Se si raggiunge un accordo, si redige un atto di adesione con l’importo concordato (di solito l’imposta rimane intera, ma possono essere riconosciute ragioni parziali al contribuente ad es. su parte delle ritenute non dovute; le sanzioni sono ridotte ad 1/3 per legge). Una volta firmato l’atto e versato quanto dovuto (o la prima rata) entro 20 giorni, la questione si chiude e non è più impugnabile. L’adesione può essere vantaggiosa se si riconosce l’errore e si punta solo a ottenere la riduzione delle sanzioni, oppure se ci sono margini per negoziare (es. evitare la segnalazione penale se si paga subito sotto soglia). Se invece l’ufficio è poco disponibile o la pretesa è infondata, l’adesione rischia di far perdere tempo: in assenza di accordo nei 90 giorni, bisognerà fare ricorso (con una proroga del termine di ricorso di 90 gg, attenzione a rispettarlo). Nel nostro caso, l’adesione potrebbe portare ad esempio a un’intesa in cui l’azienda riconosce di dover versare la ritenuta ma l’ufficio magari rinuncia a parte delle sanzioni (comunque ridotte per legge), oppure riconosce la non debenza per alcune fatture se il contribuente porta argomenti validi (es. compensi a soggetti esteri esenti da trattato).
Reclamo-mediazione: Questo era uno step un tempo obbligatorio per le liti di valore contenuto, ma è stato abrogato a partire dal 2024. In breve, fino agli atti notificati entro il 2023, se la controversia aveva valore fino a €50.000, il ricorso costituiva anche reclamo: veniva trasmesso all’ufficio legale AE che poteva proporre una mediazione. In caso di accordo, le sanzioni erano ridotte del 35% (poi 40%) del minimo. Dal 4 gennaio 2024 però, con il D.Lgs. 156/2023 attuativo della riforma del processo tributario, il reclamo-mediazione è stato eliminato. Pertanto, per gli avvisi di accertamento notificati da tale data, il contribuente può ricorrere direttamente in Commissione (oggi Corte di Giustizia Tributaria) senza passare dalla mediazione preventiva. Rimane comunque possibile la conciliazione in giudizio (come visto prima) e l’istituto dell’adesione in sede amministrativa.
Ricorso in Commissione Tributaria (Corte di Giustizia Tributaria)
Se non si è definito prima, il contribuente deve presentare entro 60 giorni dall’atto (o dalla fine della sospensione per adesione) il ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (dal 2023 denominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado). Il ricorso è un atto difensivo scritto, da notificare all’ufficio che ha emesso l’accertamento (via PEC o raccomandata), contenente i motivi per cui si contesta la legittimità e/o il merito della pretesa fiscale. Nel nostro caso, i motivi di ricorso potrebbero riguardare ad esempio:
- Vizi formali dell’atto: mancanza o insufficienza di motivazione (violazione art.7 Statuto); mancata indicazione del responsabile del procedimento; vizio di firma (es. l’atto è firmato da funzionario senza delega valida – ricordiamo la vicenda delle firme dei dirigenti decaduti, Corte Cost. n.37/2015); notifica irregolare dell’atto; omessa indicazione delle modalità di calcolo di sanzioni/interessi, etc. Questi vizi se fondati possono portare all’annullamento in toto dell’accertamento, indipendentemente dal merito.
- Vizi sostanziali (di merito): errore nel presupposto d’imposta. Ad es.: la ritenuta in realtà non era dovuta (ad es. perché il compenso era verso un soggetto in regime forfettario valido, o verso una società di capitali, o prestazione estera non tassabile in Italia); oppure l’importo preteso è errato (magari hanno calcolato il 20% su tutta la fattura comprensiva di spese anticipate o contributi non soggetti a ritenuta); oppure ancora l’ufficio ha ignorato che il percipiente ha già versato le imposte (ciò potrebbe essere motivo per annullare la pretesa d’imposta per insussistenza di danno erariale, anche se formalmente l’obbligo del sostituto resta). Un altro esempio: se l’accertamento arriva dopo troppo tempo, potrebbe essere decaduto (prescrizione del potere accertativo). Le ritenute omesse seguono i termini dell’imposta relativa: per IRPEF, l’accertamento deve essere notificato entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui si doveva versare (salvo casi di omessa dichiarazione dove si estende al settimo). Dunque, una ritenuta omessa nel 2018 andava contestata entro fine 2023 (quinto anno dopo il 2018); se notificata nel 2024 sarebbe tardiva e quindi nulla per decadenza.
Nel ricorso si possono chiedere sia l’annullamento totale sia quello parziale (ad esempio, annullare le sanzioni ma non il tributo, o viceversa). In materia di ritenute, ad esempio, la Cassazione ha affermato che si può contestare separatamente la sola sanzione rispetto al tributo se il tributo non viene recuperato (tipo se l’imposta è già stata pagata dal sostituito e l’ufficio inspiegabilmente pretendeva solo sanzioni). In genere però nell’accertamento classico sono messi insieme.
Depositato il ricorso, si instaura la causa tributaria. Da qui in poi valgono le regole del processo tributario: l’Agenzia resisterà con proprie controdeduzioni, si farà l’udienza, ecc. Dal 2023 il processo tributario ha introdotto la possibilità di giudice monocratico per le cause fino a €3.000, ma per importi tipici di ritenute (spesso più alti) giudicherà un collegio. Il contribuente può chiedere in ricorso la sospensione cautelare dell’atto se vi è pericolo di danno grave e se il ricorso appare fondato: il giudice deciderà in un’ordinanza separata se sospendere la riscossione fino alla sentenza.
La sentenza di primo grado potrà confermare, annullare in tutto o in parte l’atto. Se annulla tutto, l’Agenzia potrà fare appello; se conferma o riduce, il contribuente potrà appello se interessato.
Gradi successivi e definizione del giudizio
La sentenza della Commissione Provinciale/Corte di Giustizia di primo grado può essere impugnata con appello davanti alla Commissione Regionale (ora Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado). L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. In appello si possono rivedere sia questioni di fatto che di diritto. La fase di secondo grado in genere è l’ultima che esamina il merito della vicenda. Ad esempio, se in primo grado si discuteva se la ritenuta era dovuta o no, il giudice di appello riesaminerà le prove e gli argomenti e deciderà confermando o riformando la decisione.
Dopo la sentenza di appello, è ammesso ricorso per Cassazione soltanto per motivi di legittimità (errori di diritto o vizi di motivazione). La Corte di Cassazione non rivede i fatti, ma può cassare la sentenza se ad esempio ha violato una norma (es. erronea interpretazione dell’art. 64 DPR 600/73 sulla solidarietà, o dell’art. 7 Statuto su motivazione, etc.). In materia di ritenute d’acconto ci sono stati diversi interventi della Cassazione – alcuni li abbiamo già citati – a sezioni semplici e unite, segno della complessità di certe questioni. Se la Cassazione accoglie il ricorso, di solito rinvia a un nuovo esame alla Commissione regionale. Notare che dal 2023 il contribuente, se vince totalmente nei primi due gradi, non può più essere appellato dall’Amministrazione in Cassazione: è stato introdotto il principio della soccombenza qualificata (l’AE può ricorrere in Cassazione solo se ha vinto almeno parzialmente in appello). Questo potrebbe diminuire il contenzioso di legittimità.
In ogni fase, resta possibile la conciliazione della controversia, specie se mutate le condizioni (ad esempio, il contribuente nel frattempo ha pagato il tributo, restano solo le sanzioni, e si punta a ridurle transando). La conciliazione in appello, come detto, prevede sanzioni al 50% del minimo.
Profili penali e casi collegati
Per completezza, trattiamo brevemente i profili penali legati all’omesso versamento di ritenute, anche se nel caso di omessa ritenuta su compensi professionali può essere meno frequente l’integrazione di reati.
La norma cardine è l’art. 10-bis del D.Lgs. 74/2000, che punisce con la reclusione da 6 mesi a 2 anni “chiunque non versa, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta, ritenute dovute sulla base delle certificazioni rilasciate ai sostituiti, per un ammontare superiore a €150.000 per ciascun periodo d’imposta”. Analizziamo gli elementi:
- Soggetto attivo: il sostituto d’imposta (es. datore di lavoro, committente).
- Condotta: omesso versamento di ritenute certificate. Ciò significa che deve aver trattenuto le ritenute (risultano dalle CU consegnate ai percipienti) ma non le ha versate al Fisco. Dopo l’intervento della Corte Costituzionale n. 175/2022, è stato chiarito che il reato riguarda solo le ritenute effettivamente certificate, non quelle solo dichiarate nel 770 o tantomeno quelle mai operate. Dunque, omessa ritenuta in senso stretto (non operare affatto la trattenuta) di norma non ricade nell’art. 10-bis, perché in quel caso non c’è stata certificazione.
- Soglia di punibilità: oltre €150.000 annui di ritenute non versate. Sotto tale soglia non vi è reato (ma restano le sanzioni amministrative).
- Termine rilevante: il mancato versamento deve protrarsi oltre la scadenza della dichiarazione annuale (770) relativa. In pratica, per le ritenute 2025 il termine è il 31 ottobre 2026; se entro quella data il sostituto non versa >150k di ritenute certificate, scatta il reato.
Nel contesto di compensi professionali, l’art. 10-bis potrebbe venire in gioco se un’azienda ha operato ritenute su molti professionisti e non le ha versate, superando la soglia. Ma se l’azienda ha omesso proprio di operare le ritenute (pagando lordo), non c’è certificazione e quindi non questa fattispecie. Bisogna però fare attenzione: esistono altre norme penali tributarie che potrebbero eventualmente essere contestate in situazioni estreme, ad esempio la dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) al professionista che non abbia dichiarato i compensi, oppure ipotesi di reato di indebita compensazione se si fossero usati crediti inesistenti in F24 al posto di versare ritenute, ecc. Ma rimaniamo sull’omesso versamento.
Un’altra disposizione è l’art. 5, comma 1-bis D.Lgs. 74/2000: omessa dichiarazione del sostituto d’imposta. Questa si configura se non viene presentato il modello 770 quando l’ammontare delle ritenute non dichiarate supera €50.000. Ad esempio, un datore di lavoro che non presenta affatto il 770 per coprire ritenute non versate >50k, commette reato. Anche qui, se non c’è stata ritenuta, probabilmente non c’è nemmeno obbligo di dichiarazione (o sarebbe a zero), quindi l’applicazione è perlopiù ai casi di ritenute operate e non dichiarate.
La pena per l’omesso versamento di ritenute (art. 10-bis) è relativamente contenuta (reclusione fino a 2 anni, niente multa). È comunque un reato penale a tutti gli effetti, con implicazioni reputazionali e possibilità di misure cautelari (specie se correlato ad altri illeciti).
Cause di non punibilità: una caratteristica di questo reato è la possibilità di estinzione pagando il debito tributario. Infatti, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede che il pagamento integrale delle ritenute dovute prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado estingue il reato. Ciò incentiva il ravvedimento tardivo anche in extremis (magari dopo l’inizio dell’indagine ma prima del processo). Inoltre, di recente (D.Lgs. 87/2024, attuativo della delega fiscale) è stata introdotta un’ulteriore causa di non punibilità: la non punibilità in caso di crisi di liquidità non imputabile all’imprenditore. In sostanza, se l’omesso versamento è dovuto a causa di forza maggiore o a una situazione di illiquidità aziendale comprovata e non evitabile, il fatto non è punibile penalmente. Si tratta di una novità del 2024 che recepisce indicazioni della Consulta e mira a non criminalizzare chi, pur volendo pagare, non ha potuto per cause oggettive (purché poi abbia adempiuto appena possibile, o comunque abbia subito conseguenze come fallimento etc.). Ovviamente l’onere della prova di questa esimente grava sulla difesa e l’applicazione concreta andrà valutata caso per caso.
Esempio penale: Alfa S.p.A. nel 2023 trattiene ritenute per €200.000 sui compensi a decine di consulenti, ma – in crisi di liquidità – non le versa. Nel 2024 consegna comunque le CU ai professionisti (che avranno credito in Unico). A fine 2024 Alfa fallisce e non ha ancora versato nulla. Qui scatta il reato ex art. 10-bis (importo >150k, ritenute certificate e non versate). L’organo fallimentare o il legale rappresentante potranno evitare la condanna solo se pagheranno quei €200k prima del dibattimento (improbabile, essendo fallita), oppure invocando la causa di non punibilità per forza maggiore (se dimostrano che il mancato versamento era dovuto a circostanze indipendenti dalla volontà, ad es. il mancato incasso di crediti di pari importo per insolvenze dei clienti, ecc., anche qui non semplice). In parallelo, dal lato tributario quell’omesso versamento genera sanzione amministrativa 25% e iscrizione a ruolo per la società (che magari resterà insoluta in procedura concorsuale).
Conclusione sulla rilevanza penale: per il tema specifico di omessa ritenuta su prestazioni professionali, possiamo dire che: – Se la ritenuta non è stata proprio applicata, non ricade direttamente nel reato di cui sopra (che richiede ritenute dichiarate/certificate). Il committente in questo caso rischia “solo” le conseguenze amministrative (a meno che la vicenda non sia parte di una frode più ampia). – Se invece la ritenuta era stata fatta (caso non del tutto attinente al nostro titolo, ma ipoteticamente: il committente trattiene al professionista e non versa), allora oltre alle sanzioni entra in gioco il reato se soglia superata. In tal caso la strategia difensiva del debitore sostituto sarà quella di pagare quanto prima il dovuto per evitare il processo penale, oppure documentare le cause di forza maggiore secondo la nuova normativa.
Esempi pratici e simulazioni
Per rendere più concreto il quadro esposto, presentiamo qualche simulazione numerica di situazioni tipiche, mostrando il calcolo di imposte, sanzioni e interessi, nonché le possibili scelte difensive del contribuente.
Esempio 1: Ritenuta omessa su compenso a professionista italiano
Scenario: Beta S.r.l. (società di consulenza) nel 2022 ha pagato €10.000 + IVA al professionista Rossi per una prestazione occasionale di consulenza, senza applicare la ritenuta d’acconto del 20% (Rossi non era in regime forfettario, quindi la ritenuta sarebbe stata dovuta). L’errore viene scoperto dall’Agenzia delle Entrate tramite controllo incrociato: Rossi nella dichiarazione 2023 ha indicato €10.000 di reddito e nessuna ritenuta subita, mentre Beta S.r.l. nel 770/2023 non ha riportato quel compenso. Nel luglio 2024 l’Agenzia notifica a Beta S.r.l. un avviso di accertamento per omessa ritenuta.
Importi contestati:
– Imposta (ritenuta non versata): €2.000 (cioè il 20% di 10.000). Beta deve versarla in solido col signor Rossi. Nota: Rossi, dal canto suo, avendo dichiarato tutto il reddito e pagato le relative imposte IRPEF, non ha evaso nulla; quindi l’Erario su quei €10.000 ha già incassato l’IRPEF di Rossi (supponiamo, ad aliquote progressive, circa €2.300). In teoria, se Beta pagasse ora €2.000, lo Stato incasserebbe il doppio dell’acconto. Rossi avrebbe diritto a un credito/rimborso di pari importo. Tuttavia l’Agenzia – nell’atto a Beta – legittimamente richiede i €2.000, perché formalmente spettavano a Beta come sostituto. Sarà Beta eventualmente a far presente (in ricorso) che Rossi ha già pagato.
– Sanzione amministrativa: €400, pari al 20% di 2.000 (sanzione piena per omessa ritenuta).
– Interessi: calcolati dal 16 gennaio 2023 (data in cui Beta avrebbe dovuto versare la ritenuta di dicembre 2022) fino a luglio 2024. Tasso legale 2023 = 5%; tasso 2024 = 5% fino ad aumento (ipotizziamo 5%). Circa 18 mesi di ritardo. Interessi ≈ €2.000 * 5% * 1.5 = €150 (circa).
– Totale atto: €2.000 + €400 + €150 = €2.550 circa, salvo arrotondamenti.
Opzioni difensive per Beta S.r.l.:
1. Beta riconosce di aver sbagliato e decide di pagare senza fare causa, per chiudere subito. In tal caso, conviene usufruire dell’acquiescenza entro 60 gg: pagando tributo + interessi (€2.150) e 1/3 della sanzione (€133 invece di 400), totale intorno a €2.283. Beta paga e la vicenda si chiude. Rossi a questo punto potrebbe avere un credito di imposta di €2.000 (perché ora risulterebbe la ritenuta versata a suo nome): se Rossi lo reclama, Beta potrebbe coordinarsi con lui (in pratica Rossi potrebbe fare istanza di rimborso o usare il credito in dichiarazione successiva). In ogni caso Beta ha evitato la lite.
2. Beta ritiene ingiusto pagare dato che Rossi ha già pagato l’IRPEF sul compenso. Beta presenta quindi ricorso chiedendo l’annullamento dell’imposta per violazione del principio di divieto di doppia imposizione, e in subordine l’annullamento/riduzione delle sanzioni per buona fede. In giudizio Beta proverà (magari con una dichiarazione di Rossi o documenti) che Rossi ha incluso i €10.000 nel reddito 2022 e pagato le imposte. Un giudice potrebbe essere sensibile a questo argomento: c’è giurisprudenza (Cass. 8903/2021) che legittima il recupero al percipiente o sostituto per evitare imposte evase, ma quando l’imposta è stata comunque assolta, imporre un secondo pagamento al sostituto appare un indebito arricchimento per l’Erario. È possibile quindi che la Commissione annulli la quota imposta €2.000 (ritenendo eventualmente dovuta solo la sanzione per l’inosservanza). Beta però deve essere consapevole che la lettera della legge è a sfavore: l’obbligo del sostituto è autonomo, e formalmente la violazione c’è stata a prescindere dal fatto che Rossi abbia pagato la sua IRPEF. Dunque l’esito non è garantito. Se Beta perde, dovrà pagare l’intero importo (magari con interessi legali di mora aggiuntivi per il ritardo).
3. Beta valuta un approccio intermedio: presenta istanza di accertamento con adesione entro 60 gg. In sede di adesione evidenzia all’ufficio che Rossi ha pagato, e propone di chiudere pagando solo una sanzione simbolica. È difficile che l’ufficio rinunci integralmente ai €2.000 (che per legge dovrebbe riscuotere comunque), però potrebbe ridurre la sanzione a 1/3 (133 €) e magari non applicare ulteriori interessi. Se trovano un accordo, Beta pagherebbe ad esempio €2.000 + €150 interessi + €133 sanzione = €2.283, come nell’acquiescenza. Se l’ufficio è rigido e chiede tutto, Beta tornerà alle opzioni 1 o 2.
4. Qualunque sia la strada, Beta può poi rivalersi civilmente su Rossi: infatti l’art. 64 DPR 600/73 conferisce al sostituto diritto di rivalsa sul sostituito. Significa che se Beta paga al Fisco €2.000 che avrebbe dovuto trattenere a Rossi, può chiedere a Rossi di restituirglieli (perché di fatto Rossi li ha incassati in più nel 2022). Rossi potrebbe controbattere che lui quei €2.000 li ha già versati come IRPEF e che Beta semmai dovrebbe attivarsi per farglieli avere come credito. La questione di rivalsa in questi casi è intricata, ma tenete presente che la legge tutela il percettore “incolpevole”: Rossi potrebbe sostenere un danno (ha pagato tasse piene e ora Beta gli chiede soldi) e citare Beta per il danno da inadempienza fiscale. In pratica, convenienza pratica: Beta difficilmente otterrà qualcosa da Rossi, ma in teoria il diritto c’è. Viceversa, se Rossi non avesse dichiarato il reddito e Beta paga per lui, allora Beta avrebbe sicuramente diritto di rivalsa su di lui per l’imposta e le sanzioni pagate (questo avviene, ad esempio, quando il Fisco fa un accertamento direttamente al lavoratore per IRPEF evasa e questi poi fa causa al datore per farsi rifondere la quota che il datore avrebbe dovuto versare: situazioni non semplici).
Esempio 2: Omessa ritenuta con professionista in regime forfettario irregolare
Scenario: Il sig. Verdi, libero professionista, fattura nel 2023 a Delta S.r.l. €5.000, dichiarando in fattura di aderire al regime forfettario e quindi “ritenuta d’acconto non applicata ai sensi dell’art. 1 c.67 L.190/2014”. Delta S.r.l., ricevuta la fattura, non trattiene alcuna ritenuta e paga €5.000 netti a Verdi. Nel 2025, un controllo rivela che in realtà Verdi non aveva diritto al forfettario (magari perché aveva sforato il limite di ricavi già nel 2022, perdendo il regime nel 2023). Quindi quel compenso doveva essere assoggettato a ritenuta. L’Agenzia potrebbe procedere così: da un lato, emette un accertamento verso Verdi per recuperare le imposte IRPEF ordinarie sul 2023 (togliendogli i benefici del 15% forfettario); dall’altro, potrebbe contestare a Delta S.r.l. l’omessa ritenuta su quel pagamento.
Importi in gioco: €5.000 al 20% = €1.000 di ritenuta non operata. Sanzione 20% = €200. Interessi su un paio d’anni ~ €50.
Verdi nel frattempo avrà dichiarato quei 5.000 nel forfettario pagando €750 di imposta sostitutiva. Con l’accertamento, dovrà pagare la differenza con l’IRPEF ordinaria (supponiamo €1.500, quindi altri €750, più sanzioni per infedele).
Difesa di Delta S.r.l.: In questa situazione, Delta S.r.l. ha agito in buona fede seguendo la dichiarazione di Verdi. Il D.P.R. 600/73 art. 64 permette la rivalsa solo se la ritenuta viene effettuata, altrimenti no; però qui c’è stata una sorta di “errore indotto” dal percipiente. Delta potrebbe presentare memorie all’Agenzia evidenziando la dichiarazione di Verdi e chiedendo in autotutela l’annullamento dell’atto per carenza di colpevolezza. Non c’è però una norma che esenti formalmente Delta: l’obbligo di ritenuta era condizionato dalla veridicità della dichiarazione di Verdi, ma se questa era falsa, l’Amministrazione ha titolo per pretendere il pagamento dall’uno o dall’altro. In giurisprudenza tuttavia si è affermato (Cass. n. 2496/2016, etc.) che in casi simili il soggetto che ha indebitamente fruito di un regime agevolato risponde in solido del tributo non versato dal sostituto, proprio in forza dell’art. 28, c.7-ter D.P.R. 600/73 (norma che richiama il principio solidaristico). Quindi è più probabile che il Fisco punti a recuperare l’imposta direttamente da Verdi (che gliela deve come IRPEF ordinaria evasa) e lasci a Delta eventualmente la sanzione per non aver applicato la ritenuta.
Se Delta riceve comunque l’atto, in ricorso potrà invocare l’esimente dell’errore scusabile: c’era una dichiarazione formale del contribuente, che la legge prevede proprio di fornire al sostituto, e Delta l’ha rispettata. Si potrebbe argomentare che manca il dolo o la colpa nella violazione tributaria (principio di colpevolezza art. 5 D.Lgs. 472/97) e chiedere l’annullamento delle sanzioni. Forse l’imposta di per sé potrebbe essere confermata dal giudice (perché oggettivamente non versata), ma se Verdi già la paga con il suo accertamento, Delta potrebbe ottenere quantomeno di non dover pagare di nuovo quei €1.000. In pratica, o si coordinano le cose evitando doppia pretesa, oppure Delta rischia un contenzioso tecnicamente complesso ma con buone ragioni equitative.
Morale: sempre farsi rilasciare l’autodichiarazione del professionista forfettario/minimi e conservarla; in caso di contestazioni, questo documento sarà la base della difesa per dimostrare la buona fede del sostituto.
Esempio 3: Omessa ritenuta su compenso estero con Convenzione
Scenario: Gamma S.p.A. nel 2025 paga €20.000 a un consulente residente negli USA per una serie di webinar rivolti al personale di Gamma. Il consulente svolge il lavoro interamente dagli Stati Uniti. Gamma, ritenendo che la prestazione non sia tassabile in Italia (perché svolta all’estero e perché la Convenzione Italia-USA stabilisce che i compensi professionali sono imponibili nello Stato di residenza del prestatore in assenza di base fissa in Italia), non applica la ritenuta del 30%. Nel 2026 l’Agenzia, esaminando i movimenti esteri di Gamma, contesta che avrebbe dovuto trattenere €6.000 (30% di 20k) a titolo d’imposta, in base all’art. 25 c.2 DPR 600/73.
Importi: Imposta pretesa €6.000; sanzione 20% = €1.200; interessi ~ €300. Totale €7.500 circa.
Possibili difese: Gamma S.p.A. impugna l’accertamento sostenendo che il compenso non era imponibile in Italia in virtù della Convenzione Italia-USA (che, similmente alla Convenzione Francia citata, all’art. 14 prevede la tassazione nel Paese di residenza salvo base fissa in quello della fonte) . Gamma dovrà fornire prova che: il consulente non aveva base fissa in Italia; la prestazione è stata svolta fuori dal territorio italiano (log di connessioni, contratti, ecc. per dimostrare che il servizio di webinar è stato erogato dall’estero). Inoltre, dovrà esibire il certificato di residenza fiscale USA del consulente per il 2025 e l’attestazione che questi dichiara il reddito negli USA. Con tali elementi, Gamma potrà far valere l’art. 14 della Convenzione Italia-USA come norma sovraordinata che deroga alla normativa interna (che altrimenti avrebbe imposto la ritenuta).
C’è da considerare però un aspetto procedurale: la prassi fiscale italiana richiede che per disapplicare la ritenuta alla fonte in base a Convenzione il sostituto abbia una documentazione formale preventiva. Gamma aveva richiesto il certificato ma gli è arrivato dopo? Oppure non l’aveva proprio? Se Gamma non aveva formalizzato nulla, l’Ufficio potrebbe dire: “dovevi comunque trattenere e far semmai chiedere rimborso al consulente”. In effetti, l’art. 26-quater DPR 600/73 prevede che il non applicare ritenute per convenzione va subordinato a specifiche procedure (tipo modulo da presentare all’ufficio locale). Non tutti lo fanno però.
In giudizio, se Gamma porta il certificato di residenza e la Convenzione, un giudice potrebbe riconoscere l’esenzione (applicando direttamente il trattato, che ha forza di legge). Dunque l’imposta di €6.000 non sarebbe dovuta. Con l’imposta cadrebbe anche la sanzione (nessuna violazione se il tributo non era dovuto). Resterebbe da discutere forse una sanzione formale se l’ufficio volesse multare Gamma per non aver presentato un interpello o modulo per esonero ritenuta (ma non c’è una sanzione specifica, al limite rischiava la sanzione se avesse applicato erroneamente una convenzione poi non spettante).
Se Gamma perdesse in CTP (perché magari il giudice non si convince della prova territoriale), potrebbe sempre pagare in appello o conciliare. Ma data la somma non altissima, conviene investire sulla difesa convenzionale. Il consulente USA ovviamente dovrebbe dichiarare quel reddito negli USA, altrimenti la vicenda potrebbe complicarsi in scambio info, ma questo esula dal rapporto di Gamma con l’AE.
Nota: se invece il consulente fosse venuto in Italia per alcune attività legate alla prestazione, la convenzione potrebbe non aiutarlo (potrebbe configurarsi una base fissa temporanea). In tal caso Gamma avrebbe dovuto operare la ritenuta e poi il consulente americano avrebbe chiesto semmai un rimborso parziale. La fiscalità internazionale è complicata: è sempre opportuno, quando si pagano soggetti esteri, consultare un fiscalista e magari procedere con istanze di interpello se la somma è grande, per evitare di trovarsi nel mezzo di dispute tra Erario e non residente.
Esempio 4: Violazione con profili penali
Scenario: Omega S.r.l., con 100 collaboratori a partita IVA, nel 2023 versa in grave crisi di liquidità. Per fronteggiare le spese immediate, decide deliberatamente di non versare alcuna delle ritenute d’acconto sui compensi dei suoi consulenti per l’intero anno 2023, pur avendole regolarmente trattenute dalle fatture (i consulenti ricevono il netto). A fine 2023, dal modello 770 risulta che Omega ha trattenuto e non versato ritenute per €300.000. L’azienda sperava in una ripresa nel 2024 per pagare, ma così non avviene e anzi fallisce a metà 2024. Nel frattempo l’Agenzia delle Entrate segnala il caso alla Procura per il reato di omesso versamento ex art. 10-bis D.Lgs. 74/2000 (superata la soglia di €150k). L’amministratore di Omega viene indagato penalmente.
Aspetti tributari: l’AE notificherà a Omega (o al curatore fallimentare) un avviso per omesso versamento ritenute (sanzione 25%). L’importo sarebbe: imposta €300k, sanzione 25% = €75k (ma ridotta a metà 12,5% su quelle entro 90gg se parte versate? In ogni caso, essendo fallita, pagherà poco o nulla, lo stato dovrà insinuarsi al passivo). I consulenti per fortuna hanno tutti le loro CU e useranno le ritenute come crediti: l’Erario perderà il gettito se Omega non paga (perché i professionisti scaleranno crediti che l’erario non ha incassato). Qui vediamo la ratio del 10-bis: punire queste condotte che “tradiscono” la fiducia.
Difesa penale: l’amministratore potrà cercare di evitare la condanna se paga integralmente i €300k prima del processo (improbabile, c’è fallimento) oppure dimostra che davvero non poteva fare altrimenti (es. incassi azzerati, impossibilità di accedere al credito, ecc.). La riforma 2024 permette di invocare cause non imputabili. Se riesce a provarlo (non facile), potrebbe ottenere un proscioglimento. Altrimenti rischia la condanna penale. Nota: se avesse potuto racimolare almeno i €300k e versarli entro settembre 2024, avrebbe estinto il reato (il dibattimento magari non era ancora iniziato). Ma non ci è riuscito.
Morale: la scelta di usare le ritenute come cassa è pericolosissima: da un lato rovina i professionisti (che subiscono il mancato versamento), dall’altro espone penalmente gli amministratori. Meglio sarebbe stato attivarsi con banche o accordi con l’Erario (dilazioni) perché le soglie penali oggi sono alte ma, come visto, superarle non è impossibile in aziende medio-grandi.
Domande frequenti (FAQ)
D: Cosa si intende esattamente per “omessa ritenuta d’acconto”?
R: Si intende il mancato adempimento dell’obbligo, da parte del sostituto d’imposta, di trattenere una somma a titolo di acconto d’imposta sul compenso pagato a un percipiente. In pratica, il committente paga il compenso per intero al lordo, mentre doveva pagarlo al netto trattenendo ad esempio il 20%. È diverso dal semplice “omesso versamento”: nell’omessa ritenuta proprio non si effettua il prelievo sul compenso. Spesso comunque le due cose coincidono (chi non trattiene, ovviamente non versa nulla). Tecnicamente, la violazione è omessa ritenuta se non hai operato il taglio sul pagamento; è omesso versamento se avevi operato il taglio ma non hai poi versato allo Stato.
D: Un privato cittadino che paga un professionista è tenuto a fare la ritenuta?
R: No, se il committente è un privato non titolare di partita IVA e agisce al di fuori di attività d’impresa, non è sostituto d’imposta. Ad esempio, se un cittadino fa aggiustare casa e paga un geometra libero professionista €1.000, non deve trattenere nulla (pagherà €1.000 + IVA). Sarà poi il geometra a dichiarare e pagare tutte le imposte. La ritenuta d’acconto, per la natura stessa, riguarda soggetti che la legge individua come sostituti: imprese, enti, professionisti con P.IVA, pubbliche amministrazioni, condomìni per certe prestazioni, ecc. (art. 23 e 25 DPR 600/73). Dunque i privati consumatori non hanno questi obblighi.
D: Ho scoperto di non aver fatto una ritenuta dovuta qualche mese fa. Posso ancora sistemare senza sanzioni?
R: Puoi sistemare con sanzioni molto ridotte usando il ravvedimento operoso, come spiegato sopra. Azzerare del tutto la sanzione purtroppo no, non è possibile (la sanzione minima per legge, seppur ridotta, rimane, salvo casi di errore scusabile in giudizio). Però se sei entro 90 giorni, pagheresti circa il 2% di sanzione, che è quasi nulla rispetto al 20%. Quindi conviene assolutamente farlo. Oltre i 90 giorni la sanzione sale un po’ (vedi tabella ravvedimento), ma sempre meglio che aspettare un accertamento. Ricorda che se l’ufficio ti notifica già qualcosa (anche solo una comunicazione di irregolarità con richiesta di pagamento), il ravvedimento “perdona-sanzioni” non è più applicabile.
D: L’Agenzia delle Entrate può chiedere al professionista (sostituito) di pagare le ritenute che non ha ricevuto?
R: Sì, può. Se il sostituto d’imposta non ha proprio fatto la ritenuta, il professionista ha incassato il lordo e dunque deve pagare la sua IRPEF su quell’importo. Se non l’ha fatto, il Fisco può notificargli un accertamento IRPEF per redditi non dichiarati. In quel contesto, sarà il professionista a dover pagare imposta, sanzioni (per infedele dichiarazione) e interessi. Questo è coerente col principio di solidarietà: l’obbligazione d’imposta originaria è la sua, il sostituto era solo un meccanismo di prelievo. Dunque non c’è una norma che impedisca all’AE di colpire il percettore. Anzi, Cassazione ha più volte detto: se la ritenuta è saltata, il Fisco può colpire il sostituito in solido. Chiaramente, se il professionista dimostra di aver dichiarato e pagato tutto, allora no, in quel caso non gli si chiede niente (non c’è imposta evasa). Quindi dipende: se il percipiente è “incolpevole ma diligente” (ha pagato le tasse), di solito non verrà disturbato; se è “inadempiente” (non ha pagato IRPEF su quei redditi), rischia un accertamento su di lui. Va aggiunto che se il professionista si vede arrivare un accertamento IRPEF perché il sostituto non ha fatto ritenuta, può rivalersi civilmente sul sostituto: è come un danno che subisce perché ha pagato più tasse di quanto doveva (o paga sanzioni per colpa del sostituto). Quindi il committente farebbe bene, per correttezza, a intervenire prima lui.
D: L’avviso di accertamento che ho ricevuto presenta un calcolo di sanzioni del 20% e del 30% sommati. È corretto?
R: No, non è corretto. Come detto, dal 2016 non si sommano più le sanzioni di omessa ritenuta (20%) e di omesso versamento (30%). Si applica solo una delle due. La Cassazione aveva già chiarito l’ingiustizia del cumulo per la stessa somma, e il legislatore ha modificato l’art. 14 di conseguenza. Quindi se davvero l’ufficio ha sommato 20%+30%, l’atto è illegittimo per errore di diritto e va impugnato. Potrebbe però darsi che si tratti di due contestazioni diverse su somme diverse (es. per alcune fatture ritenuta non operata -> 20%, per altre ritenuta operata ma non versata -> 25%): in tal caso il cumulo è materiale ma su basi differenti. Occorre leggere bene. Se è un errore, facile vittoria in ricorso o anche in autotutela mostrando la norma aggiornata.
D: Quali sono i possibili vizi di nullità dell’accertamento che posso sfruttare in ricorso?
R: Ci sono vari possibili vizi formali o procedurali da verificare: la motivazione è uno (come detto, deve spiegare bene fatti e norme); la firma dell’atto (deve essere un dirigente o funzionario delegato: in passato molti atti furono annullati perché firmati da figure decadute, vicenda “Dirigenti illegittimi”, Corte Cost. 37/2015 – oggi è più raro ma sempre controllare la delega); la notifica (se non è stata fatta secondo legge, es. indirizzo PEC errato, è annullabile); la tempistica (notificato oltre i termini di decadenza, come spiegato, di solito 5 anni); l’eventuale contraddittorio (per le imposte sui redditi non c’è obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo, Cass. SU 24823/2015, ma se c’è stato PVC si dovevano attendere 60 gg prima dell’atto per far presentare memorie, art. 12 c.7 L.212/2000). Un altro vizio potrebbe essere la mancata indicazione della possibilità di definire con sanzioni ridotte: per legge l’atto che irroga sanzioni deve informare il contribuente che può pagarle ridotte a 1/3 entro 60 gg (art. 17 D.Lgs. 472/97). Se manca questa indicazione, secondo alcune Commissioni l’atto sanzionatorio è nullo o quantomeno la sanzione non può poi essere aumentata. Insomma, conviene far esaminare l’atto ad un tributarista esperto per trovare eventuali vizi “procedurali”: a volte permettono di vincere il ricorso senza entrare nel merito.
D: Ho pagato tutto il dovuto dopo aver ricevuto la notifica del reato 10-bis (oltre 150k). Verrò comunque punito penalmente?
R: No, se hai pagato integralmente le ritenute certificate dovute prima dell’apertura del dibattimento penale, il reato si estingue per condotta riparatoria (art. 13 D.Lgs. 74/2000). Ciò comporta usualmente anche l’archiviazione o il proscioglimento. Attenzione però: il pagamento deve essere totale di imposta, sanzioni e interessi; se hai solo un accordo di rateizzazione, non basta per evitare la condanna (Cass. pen. 48375/2018). Bisogna pagare tutto e subito (o nei tempi dati dal GIP eventualmente). Inoltre, da quest’anno, se dimostri che il mancato versamento era dovuto a cause di forza maggiore (es. crisi grave non imputabile) potresti ottenere la non punibilità anche senza aver pagato, ma è un percorso da valutare col legale, introdotto dal D.Lgs. 87/2024. In sintesi, pagando per intero stai al sicuro; se non puoi pagare, punta a documentare le cause e in estremis valuta patteggiamenti o altre strategie con l’avvocato.
D: Ci sono state sentenze importanti della Corte Costituzionale su questo tema?
R: Sì, la più rilevante di recente è la sentenza n. 175/2022 della Corte Costituzionale. Questa decisione ha dichiarato incostituzionale – e quindi eliminato – un pezzo della norma penale (art. 10-bis) che includeva anche le ritenute “dovute sulla base della dichiarazione” tra quelle rilevanti per il reato. In parole più semplici, ha stabilito che solo le ritenute risultanti dalle certificazioni consegnate ai percipienti possono portare al reato, escludendo i casi in cui le ritenute erano solo indicate nel 770 o non effettivamente certificate. Ciò ha ristretto l’ambito del penale, tutelando maggiormente i sostituti che non avevano formalizzato le ritenute verso i percipienti (comunque restano sanzionabili amministrativamente). Un’altra sentenza storica, ma in ambito amministrativo, è la n. 37/2015 sul difetto di qualifica dei dirigenti AE: portò all’annullamento di migliaia di accertamenti firmati da funzionari decaduti – è sempre citata come monito a controllare chi firma gli atti. Quanto al contraddittorio endo-procedimentale, la Corte Cost. nel 2015 (sent. 132 e 271) e la CGUE hanno detto che per i tributi “non armonizzati” (come IRPEF) non c’è obbligo generale di contraddittorio salvo specifiche previsioni. Dunque, in tema ritenute IRPEF, non potrai far annullare l’atto solo perché non ti hanno sentito prima, salvo tu rientri in un caso normato (che però qui non c’è, diversamente da IVA/dazi).
D: Che rapporto c’è tra la sanzione amministrativa tributaria e il reato penale? Devo pagarle entrambe?
R: Il rapporto è di cumulo ma non di sovrapposizione. Cioè, se commetti il fatto, potresti subire sia la sanzione amministrativa (che è di natura tributaria, pecuniaria) sia la sanzione penale (reclusione) se ricorrono i presupposti. Non c’è “ne bis in idem” tra sanzioni tributarie e penali perché vengono considerate di natura diversa (una afflittiva-amministrativa, l’altra criminale). Solo in un caso c’è coordinamento: se definisci la parte tributaria con un condono, questo può avere effetti sul reato. Ad esempio, la definizione agevolata (c.d. condono) delle ritenute non versate estinguerebbe la punibilità penale, perché verrebbe meno il debito (Cass. 30829/2022 ha confermato effetti del condono sul reato). Ma al di fuori di condoni, pagare la sanzione amministrativa (o litigarla) non ti esime dalla risposta penale. Dunque bisogna gestire entrambe. In pratica, se sei nei guai per >150k, ti troverai a dover sistemare la parte fiscale (per ridurre danni economici) e parallelamente difenderti nel penale: due binari separati. L’unica “comunicazione” è appunto la causa di non punibilità se paghi tutto.
D: In sintesi, cosa devo fare se ricevo una contestazione per omessa ritenuta d’acconto?
R: Verificare subito alcuni punti: (1) se davvero la ritenuta era dovuta (controlla la natura del percettore, il regime, etc.); (2) se l’atto è stato notificato regolarmente e dentro i termini; (3) calcolare se l’importo preteso è corretto (imposta, sanzioni, interessi); (4) verificare eventuali vizi formali. Poi, valuta se hai elementi per un ricorso vincente (ad es. ritenuta non dovuta per legge o vizio insanabile) oppure se è meglio definire pagando con sconto sanzioni. Spesso conviene, se l’importo non è enorme, aderire o fare acquiescenza per chiudere con 1/3 delle sanzioni. Se invece la pretesa è sbagliata o sproporzionata, prepara un buon ricorso (magari facendoti assistere da un tributarista). Non ignorare l’atto: dopo 60 giorni diventa definitivo e poi sarà duro rimediare. E se hai realmente sbagliato, considera di ravvederti per altre eventuali posizioni simili non ancora contestate, per limitare danni futuri.
Tabelle riepilogative finali
Per comodità, riportiamo alcune tabelle riassuntive che condensano le informazioni chiave emerse.
Tabella A – Principali differenze per tipologia di rapporto e obbligo di ritenuta:
Situazione rapporto | Sostituto d’imposta? | Ritenuta da applicare |
---|---|---|
Prestazione tra aziende/società | Sì (società = sostituto) | No (reddito d’impresa, niente ritenuta) |
Prestazione da professionista a società/impresa | Sì (impresa = sostituto) | Sì – 20% a titolo d’acconto IRPEF |
Prestazione tra professionisti (entrambi P.IVA) | Sì (professionista pagante = sostituto) | Sì – 20% a titolo d’acconto (se prestatore = lavoro autonomo) |
Prestazione verso privato senza P.IVA | No | No (nessun obbligo di ritenuta) |
Professionista in regime forfettario (dichiarato) pagato da sostituto | Sì (sostituto c’è) | No – esonerato con dichiarazione percettore |
Pagamento di provvigione ad agente/rappresentante (ditta individuale) | Sì | Sì – 23% su 50% provvigione (aliquota partic. agenti) |
Compenso a professionista non residente per attività in Italia (no base fissa) | Sì | Sì – 30% a titolo d’imposta (salvo convenzione) |
Compenso a professionista non residente per attività all’estero | Sì | No – fuori campo (art. 25 c.2 esclude prest. estero) |
Compenso a società estera per servizi (stabile organizzazione in Italia?) | Sì | Se senza stabile org.: 30% su parte imponibile (salvo convenzione). Con stabile org.: No (fattura come impresa locale). |
Tabella B – Sanzioni e obblighi in caso di omissione:
Violazione | Sanzione amministrativa | Note/Responsabilità |
---|---|---|
Omessa effettuazione ritenuta (non trattenuta) | 20% dell’importo non trattenuto | Non cumulabile con 25%. Sostituto obbligato al tributo + interessi. Sostituito coobbligato per l’imposta. |
Ritenuta effettuata ma omesso versamento | 25% dell’importo non versato (dal 2024, era 30%) | Ridotta a 12,5% se versata entro 90gg . Sostituito non responsabile (ha già pagato subendo trattenuta). |
Omessa presentazione modello 770 (sostituto) | Ammenda €250 – €2.000 (sanzione fissa) + (eventuale 120-240% imposte non versate se si qualifica come dichiarazione omessa) | Se imposte evase > €50.000 → reato art.5, c.1-bis D.Lgs.74/2000 (dichiarazione omessa). |
Certificazione Unica omessa/tardiva | €100 per ciascuna certificazione omessa o corretta oltre termine (senza riduzione) | Non punibile se consegna entro 60gg con motivo valido. Incide su prova reato 10-bis (niente CU = niente reato). |
Reato penale omesso versamento art.10-bis | Reclusione 6 mesi – 2 anni (se > €150k, ritenute certificate) | Estinguibile con pagamento integrale prima del dibattimento. Non punibile se cause forza maggiore (dal 2024). |
Tabella C – Iter di difesa e riduzione sanzioni:
Fase/Strumento | Descrizione | Beneficio sulle sanzioni |
---|---|---|
Ravvedimento operoso (prima di atto) | Pagamento spontaneo tributo+interessi+sanzione ridotta | Sanzione ridotta variabile (da ~0,1%/die a max 3,33%) – v. Tabella ravvedimento sopra. |
Autotutela (richiesta annullamento) | Istanza all’ufficio per annullare atto viziato/errato | Può annullare totalmente l’atto (nessuna sanzione dovuta) – a discrezione ufficio. |
Accertamento con adesione | Procedura di accordo con ufficio prima del ricorso | Sanzioni ridotte a 2/3 (≈66%) del minimo (riduzione di 1/3). |
Acquiescenza (pagamento senza ricorso) | Pagamento entro 60gg di imposta e interessi | Sanzioni ridotte a 1/3 (≈33%) del minimo (risparmio 67%). |
Ricorso in CTP/CGT I grado | Impugnazione dell’atto davanti al giudice tributario | Possibile annullamento totale (sanzioni azzerate se atto nullo o infondato) oppure parziale. Se soccombente: paga sanzione intera (o come da sentenza). |
Conciliazione giudiziale (in corso di causa) | Accordo transattivo in primo o secondo grado | Sanzioni al 40% del minimo in 1° grado, 50% in 2° grado. |
Appello (CGT II grado) | Secondo grado di giudizio tributario | Idem come sopra: possibilità conciliazione (50%). Se vittoria contribuente: sanzioni eliminate o ridotte come da sentenza. |
Cassazione | Ricorso per legittimità (non riguarda quantificazione salvo errori di diritto) | – (In Cassazione non si rideterminano sanzioni, si decide su legalità). |
Conclusione
La materia delle ritenute d’acconto, e in particolare le contestazioni per omesso versamento o omessa applicazione, è assai articolata. Abbiamo visto che dalla prospettiva del committente (debitore d’imposta in qualità di sostituto) esistono molteplici strumenti per difendersi: dalla prevenzione tramite ravvedimento e compliance, alla contestazione dei vizi formali dell’atto, fino al merito sostanziale (ad esempio dimostrando che l’imposta era già stata assolta dal percipiente o che la ritenuta non era dovuta per legge).
Il consiglio principale è di agire tempestivamente: appena ricevuta la contestazione, valutare se sanare con le riduzioni previste o se vi sono valide ragioni di ricorso. Ogni caso concreto può presentare sfumature specifiche (basti pensare ai rapporti con l’estero o ai casi di regimi fiscali particolari), per cui è opportuno farsi assistere da un professionista qualificato.
Dal punto di vista normativo, è fondamentale essere aggiornati alle ultime novità (come le modifiche sanzionatorie entrate in vigore nel 2024 e gli interventi della Cassazione e della Corte Costituzionale fino al 2025) per impostare la migliore strategia difensiva. Speriamo che questa guida – con approfondimenti normativi, esempi pratici, tabelle e Q&A – fornisca un utile strumento di orientamento per chi si trova ad affrontare una contestazione per omessa ritenuta d’acconto su prestazioni professionali, aiutandolo a comprendere i propri diritti e le scelte possibili per difendersi efficacemente.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata l’omessa applicazione o versamento della ritenuta d’acconto su compensi corrisposti a professionisti o collaboratori? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata l’omessa applicazione o versamento della ritenuta d’acconto su compensi corrisposti a professionisti o collaboratori?
Vuoi sapere cosa rischi e come difenderti in modo efficace?
👉 Prima regola: chiarisci se l’obbligo di sostituto d’imposta era effettivamente tuo e dimostra l’eventuale regolarità dei versamenti già effettuati.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Pagamento di compensi a professionisti senza trattenuta della ritenuta d’acconto;
- Errato calcolo della ritenuta o mancato versamento all’Erario;
- Utilizzo di collaborazioni occasionali riqualificate come lavoro autonomo abituale;
- Mancata presentazione del modello F24 con il codice tributo corretto;
- Disallineamenti tra certificazioni uniche (CU) e dichiarazione 770.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero della ritenuta non versata, anche se il professionista ha dichiarato il reddito;
- Sanzioni amministrative proporzionate all’imposta non trattenuta;
- Interessi di mora sulle somme dovute;
- Rischio di responsabilità solidale tra sostituto e sostituito;
- Possibili profili penali in caso di omissioni rilevanti e dolose.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Sei effettivamente tu il soggetto obbligato alla ritenuta d’acconto?
- Il professionista ha già dichiarato e versato le imposte su quel reddito?
- L’omissione riguarda un errore formale (codice tributo, ritardo) o sostanziale (mancata trattenuta)?
- Sono stati rispettati i termini di decadenza per la contestazione?
- L’Agenzia ha motivato in modo chiaro l’accertamento?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Fatture e ricevute dei professionisti;
- Certificazioni uniche (CU) rilasciate;
- Modelli F24 relativi ai versamenti delle ritenute;
- Dichiarazione 770 degli anni contestati;
- Eventuali prove che il professionista ha già dichiarato e pagato le imposte.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare che la ritenuta è stata correttamente trattenuta e versata;
- Contestare la duplicazione se il professionista ha già assolto l’imposta;
- Evidenziare la natura di errore meramente formale e chiedere la riduzione delle sanzioni;
- Richiedere annullamento in autotutela se i versamenti risultavano già agli atti;
- Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
- Difesa penale mirata se l’accusa riguarda omesso versamento doloso.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza la documentazione fiscale e i rapporti con i professionisti;
📌 Verifica la legittimità della contestazione e i margini difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste nei procedimenti davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una corretta gestione delle ritenute d’acconto.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e contenzioso fiscale;
✔️ Professionista per la difesa contro contestazioni su ritenute d’acconto e obblighi di sostituto d’imposta;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni per omessa ritenuta d’acconto non sempre sono fondate: spesso derivano da errori formali o da duplicazioni di imposte già versate dal professionista.
Con una difesa mirata puoi ridurre drasticamente sanzioni e interessi, dimostrare la tua correttezza e tutelarti anche da eventuali profili penali.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni su ritenute d’acconto inizia qui.