Hai ricevuto un accertamento fiscale perché l’Agenzia delle Entrate ha rilevato incongruenze contabili e presume ricavi non dichiarati? In questi casi, l’Ufficio utilizza presunzioni basate su differenze nei registri, errori di quadratura, mancate registrazioni o dati incoerenti per ritenere che vi siano ricavi occulti. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero delle imposte, applicazione di sanzioni elevate e, in alcuni casi, contestazioni penali. Tuttavia, non sempre l’accertamento è legittimo: con una difesa ben documentata è possibile ridurre sensibilmente le pretese del Fisco o dimostrare la correttezza delle registrazioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate presume ricavi da incongruenze contabili
– Se vi sono differenze tra i registri IVA e le dichiarazioni fiscali presentate
– Se i saldi di cassa risultano negativi o incongruenti con i movimenti reali
– Se emergono discordanze tra i dati trasmessi da fornitori/clienti e quelli contabilizzati
– Se i movimenti bancari non trovano riscontro nelle scritture contabili
– Se l’Ufficio presume che le irregolarità contabili mascherino ricavi in nero
Conseguenze dell’accertamento fiscale
– Recupero a tassazione dei ricavi presunti come non dichiarati
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Possibile rettifica delle dichiarazioni fiscali e inserimento in liste di controllo
– Nei casi più gravi, denuncia penale per dichiarazione infedele o frode fiscale
Come difendersi dall’accertamento
– Dimostrare che le incongruenze contabili derivano da errori formali e non da ricavi occulti
– Produrre documentazione bancaria, registri integrativi, giustificativi e note di rettifica
– Contestare la validità delle presunzioni se non sono gravi, precise e concordanti
– Evidenziare errori di calcolo, vizi di motivazione o carenze istruttorie dell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione delle irregolarità come violazioni formali con sanzioni ridotte
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la contabilità e le scritture oggetto di contestazione
– Verificare la legittimità delle presunzioni utilizzate dall’Agenzia delle Entrate
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi procedurali
– Difendere l’impresa o il professionista davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da pretese fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o cancellazione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della natura formale delle incongruenze senza effetti sostanziali sul reddito
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: le incongruenze contabili sono spesso utilizzate dal Fisco come base per accertamenti induttivi. È fondamentale predisporre una difesa tecnica e documentata per evitare che errori formali vengano trasformati in ricavi presunti.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso fiscale – spiega come difendersi in caso di accertamenti per ricavi presunti da incongruenze contabili e quali strategie adottare per tutelare i tuoi interessi.
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Introduzione
Nel sistema tributario italiano, l’accertamento per ricavi presunti da incongruenze contabili è uno strumento con cui l’Amministrazione finanziaria ricostruisce in via indiretta il reddito di un contribuente quando emergono anomalie o irregolarità nei conti. In pratica, se la contabilità presenta incongruenze – ad esempio ricavi dichiarati troppo bassi rispetto ai costi, margini irrealisticamente esigui, movimenti finanziari non giustificati o altri indizi di operazioni “in nero” – il Fisco può presumere l’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati. Questo tipo di accertamento, basato su presunzioni anziché prove dirette, rappresenta un potente strumento in mano all’Agenzia delle Entrate e alla Guardia di Finanza, ma allo stesso tempo pone importanti questioni di tutela per il contribuente.
Chi subisce un accertamento su ricavi presunti spesso si trova in una posizione difensiva complessa: deve dimostrare che quelle presunzioni sono errate o che vi sono spiegazioni lecite alle incongruenze riscontrate. Scopo di questa guida – aggiornata a settembre 2025 con le più recenti novità normative e giurisprudenziali – è offrire una trattazione approfondita e organizzata su come funzionano questi accertamenti e soprattutto come difendersi efficacemente, sia in fase amministrativa (dinanzi all’ufficio accertatore) sia in fase contenziosa (dinanzi alle Corti di Giustizia Tributaria). Il taglio sarà operativo ma con linguaggio giuridico preciso, adatto a professionisti (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) ma comprensibile anche a imprenditori e privati interessati.
Cosa significa “ricavi presunti da incongruenze contabili”? In breve, significa che il Fisco ritiene che vi siano vendite o compensi non dichiarati basandosi su qualche squilibrio o anomalia nei dati contabili o finanziari del contribuente. Ad esempio, se un negozio dichiara vendite per 50.000 € ma risulta aver acquistato merci per 100.000 €, c’è un’incongruenza evidente: o parte della merce è rimasta invenduta (e allora dovrebbe risultare in magazzino), oppure le vendite sono in realtà maggiori di quelle dichiarate. Ancora, se un professionista dichiara solo 20.000 € di compensi annui ma nel suo conto corrente compaiono versamenti per 100.000 €, è chiaro che qualcosa non torna. In questi casi l’Ufficio può rettificare il reddito dichiarato utilizzando metodi induttivi, ossia inferendo il reddito effettivo sulla base di indizi e calcoli presuntivi.
Nel prosieguo della guida esamineremo dettagliatamente le diverse tipologie di accertamento presuntivo (dall’accertamento induttivo puro all’accertamento analitico-induttivo fino all’accertamento sintetico per le persone fisiche), i presupposti di legge di ciascuno, e le strategie difensive disponibili. Verranno presentati esempi pratici (casi di professionisti, commercianti e società di capitali) per illustrare concretamente come tali accertamenti vengono svolti e contestati. Inoltre, verrà dato rilievo ai più recenti orientamenti giurisprudenziali – ad esempio in tema di onere della prova, diritto alla deduzione dei costi presunti o obbligo di contraddittorio endoprocedimentale – che nel 2023-2025 hanno segnato importanti punti a favore dei contribuenti. Infine, una sezione Domande e Risposte affronterà i quesiti più frequenti, e alcune tabelle riepilogative forniranno un quadro sintetico delle principali informazioni (differenze tra tipi di accertamento, termini e strumenti difensivi, ecc.). L’obiettivo è offrire al debitore/contribuente una visione chiara dei propri diritti e dei passi da compiere per difendersi al meglio da un’accusa di ricavi “in nero” presunti.
Nota: La presente guida si riferisce esclusivamente alla normativa italiana ed è aggiornata alle disposizioni e sentenze note fino a settembre 2025. Le fonti normative e giurisprudenziali più rilevanti sono elencate in fondo al testo, per consentire ulteriori approfondimenti.
Tipologie di accertamento presuntivo e base normativa
Prima di addentrarci nelle strategie difensive, è fondamentale comprendere quali sono i tipi di accertamento presuntivo attraverso cui il Fisco può contestare ricavi non dichiarati sulla base di incongruenze. Il D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (disciplina dell’accertamento delle imposte sui redditi) prevede principalmente tre metodologie, spesso richiamate anche dalla giurisprudenza:
- Accertamento analitico-contabile (o accertamento ordinario): non è oggetto primario di questa guida, in quanto si basa su rettifiche puntuali di elementi reddituali con prove dirette (ad es. recupero di costi non deducibili o di ricavi omessi ma provati documentalmente). Non comporta ricostruzioni induttive ampie, bensì correzioni “analitiche” restando nelle scritture contabili attendibili. Se la contabilità è regolare e attendibile, l’Ufficio può comunque contestare singole voci ma senza discostarsi dal metodo analitico. Non c’è in questo caso una “presunzione” generalizzata di maggior reddito, ma solo aggiustamenti specifici.
- Accertamento analitico-induttivo* (detto anche misto o extracontabile parziale*): è un metodo intermedio, previsto dall’art. 39, comma 1, lett. d) del DPR 600/1973. Si applica quando la contabilità non è del tutto affidabile, presentando incompletezze, inesattezze o falsità parziali, tali però da non renderla completamente inutilizzabile. In queste situazioni, l’Amministrazione finanziaria non “butta via” interamente le scritture contabili, ma le integra o le rettifica usando presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti. In sostanza si colmano le lacune contabili tramite ragionamenti presuntivi robusti: ad esempio, riscontrando gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche dell’attività o dagli studi di settore/ISA, oppure scoprendo, durante un controllo incrociato, che alcuni ricavi non sono stati contabilizzati. È un accertamento “misto” perché parte dai dati contabili disponibili, ma li rettifica indirettamente** su singole poste o componenti reddituali.
- Accertamento induttivo puro* (detto anche extracontabile*): è previsto dall’art. 39, comma 2, del DPR 600/1973. Si applica nelle ipotesi più gravi, in cui la contabilità del contribuente è completamente inattendibile o inesistente. Tipici presupposti sono: omissione della dichiarazione fiscale; mancata tenuta o mancata esibizione delle scritture contabili obbligatorie; scritture talmente irregolari o infedeli da non consentire ricostruzioni attendibili. In tali casi estremi, l’Ufficio è autorizzato a prescindere in tutto o in parte dalle risultanze delle scritture (ossia può ignorare i libri contabili) e a determinare il reddito in modo induttivo puro, basandosi su qualsiasi elemento indiziario disponibile. Addirittura, la legge consente l’uso di indizi anche semplici, privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti invece per l’accertamento analitico-induttivo. Ciò significa che nell’induttivo puro l’Amministrazione ha mano libera nel desumere ricavi non dichiarati da elementi anche solo indiziari o mediamente plausibili**, data la totale sfiducia nelle scritture ufficiali.
- Accertamento sintetico del reddito (redditometro): disciplinato dall’art. 38, commi 4 e seguenti, DPR 600/1973, è uno strumento rivolto principalmente alle persone fisiche. Diversamente dai precedenti, non parte tanto da irregolarità contabili (spesso il contribuente persona fisica nemmeno tiene “contabilità” se non è imprenditore o lavoratore autonomo), bensì da una discrepanza tra il reddito dichiarato e il tenore di vita o la capacità di spesa dimostrata. In pratica l’ufficio determina in via sintetica il reddito complessivo del contribuente sulla base di spese sostenute, investimenti patrimoniali, incrementi di ricchezza o anche dati statistici sui consumi, e se risulta un reddito “sintetico” molto superiore al dichiarato (oltre certe soglie) presume che il contribuente abbia occultato base imponibile. Ad esempio, se una persona dichiara 20.000 € annui ma possiede ville, auto di lusso, barche, o sostiene spese ingenti per viaggi, assicurazioni, ecc., il redditometro può stimare un reddito ben più alto. Tecnicamente è anch’esso un accertamento induttivo, ma viene chiamato sintetico perché ricostruisce sinteticamente il reddito totale annuo, invece di analizzare voce per voce i conti. Su di esso torneremo diffusamente più avanti, anche alla luce delle modifiche normative intervenute nel 2024 (il cosiddetto “nuovo redditometro”).
Va sottolineato che tutti questi metodi rientrano negli “accertamenti presuntivi”, in quanto basati su presunzioni relative (semplici o legali) e inversioni dell’onere della prova: il Fisco non ha l’onere di provare direttamente l’evasione in ogni dettaglio, ma, una volta posti certi elementi di fatto (es. un forte scostamento, una contabilità inattendibile, spese ingenti incompatibili col reddito dichiarato), scatta la presunzione di maggior reddito e sarà il contribuente a dover fornire prova contraria. Questo meccanismo è legittimato da norme specifiche (es. art. 39 DPR 600/1973, art. 32 DPR 600/1973 per le indagini finanziarie, art. 38 DPR 600/1973 per il sintetico) e da consolidata giurisprudenza. La Corte di Cassazione, ad esempio, ha affermato che quando l’ufficio motiva l’atto impositivo indicando indici di inattendibilità contabile da cui deduce un maggior reddito, l’atto è assistito da presunzione di legittimità: l’ufficio non deve provare altro se non quei dati e il ragionamento deduttivo, mentre spetta al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni contestate o l’inesistenza del maggior reddito . Allo stesso modo, in ambito sintetico (“redditometro”), si è ribadito che l’Amministrazione è dispensata da ulteriori prove una volta accertati i fattori-indice di capacità contributiva (beni, spese, investimenti): a quel punto l’onere della prova si sposta interamente sul contribuente .
Nei capitoli che seguono esamineremo singolarmente l’accertamento induttivo puro, l’analitico-induttivo e il sintetico, evidenziando per ciascuno: i presupposti di avvio, le modalità di calcolo presuntivo dei ricavi, l’onere probatorio a carico delle parti, e le possibili strategie difensive (sia in sede di interlocuzione con l’ufficio, sia in contenzioso davanti al giudice). Saranno presentate simulazioni pratiche con esempi di casi reali o realistici, utili per comprendere l’approccio da tenere nelle diverse situazioni (ditta individuale con contabilità inattendibile, professionista con versamenti bancari sospetti, società di capitali con doppia contabilità, contribuente persona fisica soggetto a redditometro, etc.).
Accertamento induttivo “puro” (extracontabile)
L’accertamento induttivo puro è la forma più ampia e “libera” di accertamento basato su presunzioni. Scatta quando il rapporto di fiducia tra Fisco e contabilità del contribuente è completamente compromesso. In pratica, l’ufficio ritiene di non poter utilizzare le scritture contabili come base perché prive di attendibilità globale. I casi tipici in cui la normativa consente l’accertamento induttivo puro (ex art. 39 co.2 DPR 600/1973 per le imposte sui redditi, ed ex art. 55 DPR 633/1972 per l’IVA) includono:
- Omessa presentazione della dichiarazione dei redditi (o dichiarazione nulla): se il contribuente non dichiara affatto il proprio reddito, l’Agenzia ha carta bianca nel ricostruirlo come meglio crede, usando dati di cui disponga o che raccolga successivamente.
- Mancata tenuta delle scritture contabili obbligatorie o rifiuto di esibirle in caso di verifica: ad esempio, un imprenditore che non ha tenuto la contabilità di legge, oppure che durante un accertamento rifiuta di consegnare i registri all’ispezione, permette al Fisco di procedere induttivamente.
- Contabilità complessivamente inattendibile a causa di gravi irregolarità, falsificazioni o contraddizioni: ad esempio, libri mastruccci con evidenti manipolazioni, doppio registro (uno “ufficiale” e uno parallelo per l’evasione), errori contabili così diffusi e pesanti da inficiarne ogni credibilità. In tali casi si parla di inattendibilità “assoluta” dei dati contabili .
- Gravi omissioni o false indicazioni nei conti che hanno effetto a catena: la legge menziona “omissioni o false indicazioni” che inficiano radicalmente il bilancio. Ad esempio, se un’azienda occulta sistematicamente intere fatture di vendita o gonfia in modo abnorme i costi con fatture false, i dati di bilancio risultano stravolti e l’ufficio può ignorarli del tutto.
Quando ricorre una di queste condizioni, l’accertamento induttivo puro è legittimo. Ciò comporta che l’Amministrazione finanziaria può determinare il reddito d’impresa o di lavoro autonomo “a tavolino”, prescindendo dalle risultanze contabili. Come? Utilizzando elementi extraconatbili e indizi di qualsiasi genere. La norma consente espressamente l’uso di elementi indiziari anche se non dotati dei requisiti delle presunzioni qualificate . La Cassazione ha chiarito che in tal caso il Fisco può basarsi anche su indizi “non gravi, precisi e concordanti”, le cosiddette presunzioni supersemplici, proprio per la situazione di totale inattendibilità che rende impossibile prove dirette .
Alcuni esempi di criteri induttivi puri usati in concreto: – Media di redditività del settore: se l’azienda non ha dichiarato nulla o ha ricavi irrisori, l’ufficio può stimare i ricavi applicando al volume di acquisti dichiarati (o emergenti da fonti esterne) un coefficiente di ricarico medio del settore. Ad esempio, se un commerciante di abbigliamento ha registrato acquisti per 50.000 € ma dichiarato vendite per soli 60.000 € (markup 20%), a fronte di una redditività media di settore del 100%, l’ufficio può presumere che i ricavi effettivi siano 100.000 € (50k acquisti + 100% = 100k ricavi) . Un uso simile è stato visto nel caso di un materiale edile: la G.d.F. ha trovato acquisti “in nero” e l’Agenzia li ha valorizzati con un ricarico standard del 40%, ottenendo i ricavi non dichiarati . – Quantificazione da consumi di materie prime o energia: in mancanza di conti attendibili, si può ricostruire la produzione o le vendite partendo, ad esempio, dai consumi di elettricità, acqua, gas o materie prime. Se un panificio non ha registri validi, l’ufficio può prendere la quantità di farina acquistata o il consumo elettrico dei forni e, noti i parametri tecnici, stimare quanti chili di pane ha prodotto e venduto. – Documentazione extracontabile di terzi: spesso l’induttivo puro nasce da scoperte fatte presso terzi. Un caso classico: la Guardia di Finanza, indagando su un fornitore, trova una “contabilità in nero” dove sono annotati anche i nomi di clienti e vendite non fatturate. Se un cliente (contribuente accertato) appare in quei file con importi superiori a quanto egli ha contabilizzato, l’ufficio userà quella documentazione come base induttiva per contestargli ricavi non dichiarati . La giurisprudenza conferma pienamente la utilizzabilità di documenti rinvenuti presso terzi (anche in formato elettronico) per fondare l’inattendibilità della contabilità e quindi l’accertamento induttivo . In altre parole, se emergono “contabilità parallele” o appunti extra, anche non formali, riferibili al contribuente, queste possono prevalere sui libri ufficiali ai fini fiscali. – Discrepanze patrimoniali non spiegate: ad esempio, un forte aumento di patrimonio netto in azienda non coerente con gli utili dichiarati, oppure prelevamenti di denaro ingenti poi non rintracciati nelle casse aziendali. Tali elementi possono suggerire ricavi in nero poi utilizzati per finanziare quei movimenti.
Caratteristiche dell’accertamento induttivo puro da un punto di vista probatorio: – L’atto di accertamento sarà normalmente scarsamente dettagliato quanto a calcoli: spesso riporta che “dato il complesso di irregolarità riscontrate, il reddito viene determinato in X euro, sulla base di… (es. applicazione di una percentuale media, informazioni raccolte, ecc.)”. Non c’è l’obbligo di ricostruire puntualmente ogni fattura mancante, proprio perché la contabilità non è affidabile. L’Ufficio deve però indicare su quali elementi presuntivi si è basato, per dare modo al contribuente di comprendere il criterio. – È un accertamento molto invasivo: in pratica l’Erario ridisegna interamente il bilancio del contribuente. Questo può portare non solo a maggiori imposte, ma anche a sanzioni gravi e, se le cifre evase superano certe soglie penali, a segnalazioni per reati tributari (occultamento di ricavi oltre 100.000 €, ad esempio, può configurare il reato di dichiarazione infedele, DLgs 74/2000). Il contribuente deve esserne consapevole e agire di conseguenza anche per prevenire conseguenze penali (tema che esula da questa guida, ma da considerare). – Nonostante la “libertà” concessa al Fisco, esistono dei limiti: il principio di ragionevolezza e proporzionalità deve guidare la ricostruzione. La Cassazione ha affermato ad esempio che l’ufficio deve scegliere coefficienti e parametri concrete e coerenti col caso specifico, ed eventuali errori grossolani possono essere censurati dal giudice . Il giudice tributario, investito del ricorso, può ridurre il reddito accertato se ritiene che i criteri presuntivi usati dall’ufficio siano eccessivi o parziali . Perciò, il contribuente può far valere in giudizio l’eventuale inadeguatezza del campione o dei parametri utilizzati, ottenendo una rideterminazione più favorevole. – L’accertamento induttivo puro, una volta validamente effettuato, sposta interamente l’onere della prova sul contribuente: qualsiasi contestazione dell’Erario si presume fondata fino a prova contraria. Come detto, la Cassazione lo ribadisce: se l’ufficio motivatamente prescinde dalla contabilità e determina induttivamente, null’altro deve provare oltre gli indizi raccolti e il ragionamento fatto, mentre è compito del contribuente fornire elementi contrari .
Vediamo adesso come difendersi in queste circostanze estreme, prima con gli strumenti preventivi (fase amministrativa) e poi in sede contenziosa.
Difendersi da un accertamento induttivo puro: strategie
Trovarsi di fronte a un avviso di accertamento induttivo puro è certamente impegnativo, ma non significa arrendersi. Ecco alcune linee di difesa possibili dal punto di vista del contribuente (debitore):
1. Contestare i presupposti di legittimità dell’induttivo puro: la prima verifica da fare è se effettivamente ricorrevano le condizioni per ignorare del tutto la contabilità. Ad esempio: – Se l’ufficio motiva l’accertamento affermando che la contabilità era inattendibile, possiamo dimostrare che le irregolarità non erano così gravi o diffuse da giustificare lo scarto completo. Magari erano presenti solo errori formali o sporadici. In tal caso si può sostenere che semmai doveva applicarsi un accertamento analitico-induttivo (più limitato) e non quello puro. Si tratta di un vizio di metodo che, se accolto dal giudice, può portare all’annullamento (o alla conversione dell’accertamento in altro tipo, con diverso calcolo). – Se la motivazione è l’omessa dichiarazione, verificare che realmente non sia stata presentata la dichiarazione per quell’anno (ci sono stati casi di errori dell’ufficio nel ritenere omessa una dichiarazione magari inviata). Oppure, se la dichiarazione c’è ma l’ufficio la ignora ritenendola mendace, occorre discutere se effettivamente i dati dichiarati fossero falsi. – Se il presupposto è la mancata esibizione dei documenti in verifica, valutare se il contribuente aveva validi motivi (es. forza maggiore, documenti sequestrati altrove, ecc.) o se l’invito a esibire non è stato formulato correttamente. Qualora la mancata esibizione non sia imputabile a dolo o colpa grave, si può argomentare che l’uso dell’induttivo era eccessivo.
Queste difese puntano a far dichiarare illegittimo l’utilizzo del metodo induttivo puro, costituendo quindi eccezioni preliminari nel ricorso. Se accolte, l’atto impositivo può essere annullato integralmente per difetto di motivazione o violazione di legge.
2. Attaccare la quantificazione presuntiva del reddito: se non si riesce (o non conviene) negare il metodo induttivo in sé, la battaglia si sposta sul quantum. Bisogna cioè dimostrare che la ricostruzione fatta dall’ufficio è eccessiva, illogica o smentita in parte dai fatti. Alcune mosse utili: – Produrre dati e studi di settore alternativi: Se l’ufficio ha usato la redditività media del settore (ad es. ricarico 100%), possiamo cercare fonti che dimostrino come nel caso specifico il margine sia più basso. Ad esempio, se operiamo in un’area geografica depressa o trattiamo prodotti di qualità inferiore, la media nazionale potrebbe non applicarsi. Potremmo presentare una perizia di parte o statistiche di associazioni di categoria che mostrino un ricarico medio minore e chiedere al giudice di tenerne conto. Nel caso citato prima (materiale edile), ad esempio, la CTR Campania aveva ridotto il ricarico dal 40% al 15% ritenendolo più adeguato alle circostanze . (Successivamente la Cassazione ha cassato quella decisione ritenendo che la CTR avesse ridotto senza sufficiente prova – tornando al discorso che serve che il contribuente fornisca elementi oggettivi per giustificare un margine diverso ). – Dimostrare condizioni particolari dell’azienda: Ad esempio, se il Fisco presume ricavi in base agli acquisti di merce e al ricarico medio, possiamo dimostrare che una parte significativa della merce non è stata rivenduta (magari invenduto rimasto in magazzino, poi distrutto o deprezzato). La chiave è esibire documenti: inventari di magazzino, fotografie di merce invendibile, resoconti di furti o danneggiamenti, certificazioni di smaltimento per scadenza (pensiamo a generi alimentari scaduti). Questi elementi possono convincere che non tutta la merce acquistata ha generato vendite effettive. – Spiegare eventuali consumi anomali: Se l’ufficio ha usato un metodo indiretto (consumo di materie prime, utenze), portare spiegazioni: ad esempio, un’anomalia nei consumi elettrici potrebbe derivare da macchinari vecchi inefficenti, dispersioni, furti di energia subiti, ecc., e non da una produzione maggiore. – Verificare il periodo e la continuità: Il Fisco tende a presumere che l’evasione sia costante durante tutto l’anno o per più anni. Se però l’anomalia era limitata a un breve periodo (es. vendite non registrate solo in alcuni mesi per cause contingenti), sottolinearlo. Ad esempio, una gelateria può aver avuto un boom di vendite in un’estate eccezionalmente calda e poi molto meno in altri mesi: applicare la stessa media all’intero anno potrebbe sovrastimare i ricavi. Segmentare i periodi e mostrare l’andamento reale può ridurre il conteggio. – Costi correlati e reddito netto: In passato una notevole ingiustizia dell’accertamento induttivo puro era che venivano presunti ricavi aggiuntivi senza riconoscere alcun costo correlato, finendo per tassare un margine del 100%. Fortunatamente, grazie a recenti sviluppi (ne parleremo meglio nel prossimo paragrafo), oggi è possibile far valere il diritto a una deduzione forfettaria dei costi anche in sede di accertamento presuntivo. La Corte Costituzionale e la Cassazione hanno chiarito che anche chi subisce un accertamento induttivo ha diritto a vedersi riconosciuti, sia pure forfettariamente, i costi che presumibilmente ha sostenuto per produrre quei maggiori ricavi . Su questo punto cruciale torneremo a breve. In pratica, il contribuente può eccepire: “Ok, ammettiamo pure (per ipotesi) di aver venduto di più, ma per farlo avrò avuto dei costi – materia prima, spese varie – quindi il reddito imponibile va calcolato al netto di un ragionevole costo”. Questa difesa è oggi accolta nei principi di diritto e permette di ridurre l’imponibile presunto.
3. Sfruttare il contraddittorio preventivo: prima che l’accertamento diventi definitivo, il contribuente dovrebbe avere la chance di dialogare con l’ufficio e fornire spiegazioni. Nel caso di verifiche in loco (ad esempio un’ispezione della Guardia di Finanza in azienda), la legge prevede espressamente che debba essere rilasciato un Processo Verbale di Constatazione (PVC) e il contribuente ha 60 giorni di tempo per presentare osservazioni difensive prima che l’ufficio emetta l’avviso di accertamento (Statuto del Contribuente, art. 12, c.7). Questo diritto al contraddittorio è fondamentale e, per giurisprudenza consolidata, la sua violazione comporta la nullità dell’atto per i tributi “armonizzati” (IVA) se il contribuente prova che le sue osservazioni avrebbero potuto incidere . Per i tributi “non armonizzati” (es. imposte dirette) la Cassazione continua a ritenere (allo stato attuale, Set. 2025) che non vi sia obbligo generalizzato di contraddittorio negli accertamenti “a tavolino” , salvo i casi espressamente previsti da norme. Ciò significa che se l’indagine è avvenuta senza accesso (es. controlli incrociati d’ufficio) l’ufficio potrebbe emettere l’accertamento senza preavviso formale. Tuttavia, nulla vieta al contribuente di sollecitare un confronto: ad esempio presentando memorie, documenti, o chiedendo un incontro (anche tramite l’istituto dell’accertamento con adesione, che vedremo più avanti). Mostrare collaborazione e fornire spiegazioni dettagliate già in fase amministrativa può talvolta convincere l’ufficio a ridurre la pretesa o addirittura a soprassedere per ragioni di economicità. In ogni caso, se l’ufficio procede senza contraddittorio in situazioni in cui sarebbe stato doveroso (ad esempio post PVC senza attendere 60 giorni, in assenza di urgenza motivata), questo vizio va sollevato come motivo di ricorso. È vero che per ora la Cassazione distingue tra IVA (dove occorre la “prova di resistenza” ossia dimostrare cosa avremmo fatto valere ) e imposte dirette (dove l’assenza di invito al contraddittorio non fa automaticamente decadere l’atto), ma va detto che c’è un indirizzo in evoluzione: la Corte Costituzionale nel 2023 ha definito il contraddittorio un principio essenziale e ha invitato il legislatore a generalizzarlo . Inoltre, una recente sentenza di Cassazione (ord. n. 21271/2025) ha ribadito la regola attuale, ma il dibattito è aperto e un domani la disciplina potrebbe uniformarsi. Dunque, sempre meglio eccepire la violazione del contraddittorio: anche qualora non porti all’annullamento immediato, può predisporre il giudice a una visione più critica dell’operato dell’ufficio.
4. Documentare ogni fatto con prove contrarie: in giudizio, la difesa del contribuente dev’essere concreta. Ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., le presunzioni semplici su cui l’ufficio basa l’induttivo valgono come prova solo se sono gravi, precise e concordanti. Il contribuente può contrastarle presentando prova contraria. Questa prova può essere di vari tipi: – Documentale: è la più forte. Esempio: l’ufficio presume ricavi non dichiarati in base ad acquisti di merci; noi produciamo le bolle di reso o le attestazioni che parte di quelle merci è stata restituita al fornitore o distrutta per difetti. Oppure l’ufficio ci attribuisce vendite in nero basandosi su appunti trovati da un nostro fornitore; noi possiamo portare registri ufficiali o corrispondenza che dimostra che quegli appunti erano errati o non si riferivano a vendite ma magari a ordini poi annullati. – Testimonianze e dichiarazioni di terzi: nel processo tributario non è ammessa la testimonianza giurata, ma sono utilizzabili dichiarazioni scritte di terzi (ad esempio dichiarazioni sostitutive di atto notorio, lettere firmate) e possono essere ascoltati testi come informatori (anche se con minor forza probatoria). La Cassazione ha precisato che le dichiarazioni di terzi in ambito tributario hanno valore di semplici indizi . Dunque, se un familiare o un socio attesta qualcosa a nostro favore, il giudice valuterà con cautela, specie se c’è un rapporto di vicinanza. Sono però utili per corroborare altri elementi. Ad esempio, per giustificare merce mancante perché rubata, potremmo allegare la denuncia di furto (documento) e una dichiarazione del vigilante che conferma l’evento (indizio). – Presunzioni difensive: interessante novità giurisprudenziale è l’apertura verso la prova presuntiva contraria da parte del contribuente. In passato si riteneva che il contribuente dovesse provare in modo “rigoroso” e analitico i costi o le circostanze a suo favore (ad es. per vedere riconosciuti costi occulti doveva esibire fatture). Oggi, anche grazie alla Consulta, si ammette che il contribuente possa dedurre per presunzioni. La Cassazione nel 2025 ha affermato chiaramente che anche nell’induttivo puro e analitico-induttivo il contribuente imprenditore può opporre una prova presuntiva contraria, invocando una percentuale forfettaria di costi da detrarre dai ricavi presunti . Ciò significa che possiamo presentare in giudizio un ragionamento (suffragato magari da dati settoriali) del tipo: “Se l’ufficio mi imputa 100 di ricavi non dichiarati, tipicamente nel mio settore il margine lordo è del 30%, dunque quei ricavi implicherebbero ~70 di costi; pertanto il maggior reddito netto sarebbe 30, non 100”. Questa è una presunzione (non ho le fatture di quei costi occulti, per definizione), ma ora è ammissibile come difesa e il giudice deve tenerne conto, purché sia ragionevole e coerente . Approfondiremo questo aspetto cruciale nel paragrafo seguente.
5. Diritto alla deduzione forfettaria dei costi correlati ai ricavi presunti: è opportuno dedicarvi una sottosezione specifica, data l’importanza per la difesa.
Deduzione dei costi presunti: svolta della Corte Costituzionale n. 10/2023 e Cassazione 2025
Tradizionalmente, uno dei punti dolenti per il contribuente colpito da accertamento induttivo era che l’ufficio presumesse ricavi evasi senza considerare i relativi costi, tassando di fatto importi lordi. Ad esempio, se presumeva vendite non dichiarate per 50.000 €, tutto l’importo veniva aggiunto a reddito, anche se è impensabile aver venduto senza sostenere alcun costo (merce, manodopera, ecc.). Questa asimmetria era giustificata formalmente col fatto che, mancando fatture o prove dei costi, il contribuente non aveva diritto a dedurli (principio di derivazione e competenza: costi deducibili solo se certi e documentati). Ciò però creava una disparità: paradossalmente chi non teneva alcuna contabilità (evasore totale) beneficiava di alcune presunzioni a suo favore (ad esempio in ambito IVA si riconosce un pro-rata di detrazione forfettaria, o l’amministrazione a volte applicava coefficienti netti), mentre chi aveva una contabilità parziale doveva dimostrare tutto analiticamente.
Nel 2023-2025 è avvenuta una svolta. La Corte Costituzionale, sentenza n. 10/2023, ha affrontato la questione di costituzionalità del diverso trattamento tra accertamento induttivo puro e analitico-induttivo riguardo la deducibilità dei costi. Pur dichiarando inammissibile la specifica questione (per ragioni procedurali), la Consulta ha affermato principi importanti: ha evidenziato che è irragionevole e lesivo della capacità contributiva (art. 53 Cost.) negare al contribuente sottoposto ad accertamento presuntivo la possibilità di dedurre almeno forfettariamente i costi relativi ai maggiori ricavi presunti . Ha dunque sollecitato un’interpretazione costituzionalmente orientata che eviti disparità di trattamento.
Raccogliendo questo invito, la Corte di Cassazione ha cambiato rotta su un orientamento precedente. Con l’ordinanza n. 19574/2025 (Sez. Trib.), la Suprema Corte ha stabilito un principio innovativo e chiaro: in materia di accertamento dei redditi con metodo analitico-induttivo, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 10/2023, il contribuente imprenditore può sempre opporre prova contraria anche presuntiva, eccependo una percentuale forfettaria di costi di produzione, che vanno detratti dai maggiori ricavi presunti . In altre parole, viene riconosciuto un generale diritto alla deduzione forfettaria dei costi correlati ai ricavi non contabilizzati, in qualsiasi tipo di accertamento presuntivo. Non occorre più, quindi, presentare “pezze giustificative” di ogni costo (cosa impossibile, trattandosi per definizione di costi di operazioni non fatturate); è sufficiente basarsi su elementi ragionevoli (medie di settore, percentuali di margine solitamente applicate dall’azienda, ecc.) per quantificare in via equitativa tali costi.
Questo principio, oltre ad essere equo, armonizza il trattamento: prima, paradossalmente, chi subiva un induttivo puro (situazione estrema) otteneva spesso dall’ufficio stesso un abbattimento forfettario (ad esempio in prassi si considerava un 15-20% di margine e il resto costi), mentre chi subiva un analitico-induttivo (contabilità parziale) non aveva questa concessione. Ora la Cassazione dice: sarebbe illogico non riconoscere costi a chi ha tenuto in parte la contabilità, quando li si riconoscono (forfettariamente) a chi non l’ha tenuta affatto . Questo violerebbe il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). D’ora in avanti, quindi, ogni volta che l’ufficio presume ricavi occulti, il contribuente deve far valere la deduzione dei costi occulti corrispondenti, se non già riconosciuti.
Implicazioni pratiche: Nella difesa, questo significa che: – In sede di contraddittorio con l’ufficio, possiamo già prospettare: “Se insistete a imputarmi 100 di ricavi non dichiarati, dovrete comunque togliere, poniamo, 70 di costi (per esempio costi pari al 70% in linea col mio ricarico storico)”. Ciò può ammorbidire la pretesa in fase amministrativa. – Nel ricorso in Commissione Tributaria (Corte di Giustizia Tributaria) inseriremo sempre un motivo dedicato alla “erronea determinazione del reddito per mancato riconoscimento dei costi correlati ai ricavi presunti”. Richiameremo l’ordinanza Cass. 19574/2025 e la sentenza Corte Cost. 10/2023 . Proporremo al giudice una quantificazione concreta: è consigliabile allegare elaborazioni (anche tramite un commercialista) che stimino tali costi occulti. Ad esempio: “sulla base dei bilanci degli anni precedenti, il costo del venduto incideva per l’80% sui ricavi; dunque, sui 50.000 € di ricavi non contabilizzati contestati, devono riconoscersi 40.000 € di costi, con conseguente riduzione dell’imponibile aggiuntivo a 10.000 €”. – Il giudice tributario è ora tenuto a valutare seriamente queste argomentazioni. Non può più liquidarle affermando semplicemente che i costi non sono documentati (argomento con cui spesso venivano rigettate le difese in passato). Se il contribuente ha fornito una base attendibile (percentuali medie di margine, dati di settore, ecc.), il giudice dovrebbe accoglierle o quantomeno riconoscere una riduzione d’ufficio, magari applicando un criterio equitativo. – Questa evoluzione riequilibra il contenzioso: il contribuente, da totalmente scoperto, ha ora un forte scudo per limitare il danno economico.
Va peraltro precisato che questa possibilità di deduzione presuntiva è strettamente legata alla quantificazione del reddito (e quindi al calcolo dell’imposta). Non significa che l’evasione venga “perdonata”, ma soltanto che viene determinata in misura corretta sul reddito netto. Le sanzioni amministrative restano (in percentuale dell’imposta evasa) e restano eventuali responsabilità penali (calcolate sul valore dell’imposta evasa, anch’essa inferiore se imponibile ridotto dai costi).
Esempio pratico: Una società di servizi, pur tenendo i registri IVA, viene sorpresa dalla Guardia di Finanza a svolgere alcune attività in nero (incassi non fatturati). L’ufficio ricostruisce maggiori ricavi per 200.000 € su base extracontabile (appunti trovati, intercettazioni, ecc.) e li aggiunge a tassazione. Nella determinazione dell’accertamento, però, non riconosce alcun costo correlato, sostenendo che mancano fatture di spesa a supporto. In giudizio, la società impugna l’atto e – oltre a contestare le presunzioni – sottolinea che quei servizi non possono essere stati erogati senza costi: produce documenti che mostrano che il margine medio nel settore è ad esempio il 40% (dunque i costi incidono al 60%). La Cassazione 19574/2025 conferma che ha diritto a farlo . Il giudice allora potrà determinare il reddito occulto imponibile in 80.000 € (il 40% di 200k) anziché 200.000 €. Ciò riduce sensibilmente le imposte dovute e le sanzioni.
In conclusione, per qualunque accertamento di tipo induttivo (puro o misto) dove vengano contestati ricavi non dichiarati, è fondamentale oggi impostare la difesa anche in termini di costi presunti: è un argomento tecnico-giuridico vincente che nessun difensore dovrebbe trascurare, pena lasciare sul piatto importi non dovuti.
Esempio pratico di accertamento induttivo puro e difesa
Per comprendere in modo concreto la dinamica di un accertamento induttivo puro e delle relative difese, consideriamo la seguente simulazione:
Scenario: Il sig. Rossi gestisce una piccola impresa individuale di vendita di elettronica. Negli ultimi due anni ha tenuto la contabilità in modo approssimativo; per il 2022 non ha proprio presentato la dichiarazione dei redditi (omissione), e per il 2023 ha presentato una dichiarazione ma nettamente incongruente rispetto ai movimenti reali. In ottobre 2024 la Guardia di Finanza effettua un controllo: scopre che Rossi non ha registrato numerose vendite (aveva un doppio registro: scontrini ufficiali e un quadernetto con annotazioni extra). Inoltre si riscontra che molti acquisti di merci risultano non corrispondere alle vendite dichiarate. La GdF sequestra il quadernetto e redige un PVC a fine verifica, evidenziando che la contabilità è infedele e inattendibile. Rossi non presenta osservazioni nei 60 giorni. Nel 2025 l’Agenzia delle Entrate emette un avviso di accertamento per gli anni d’imposta 2022 e 2023 basato su metodo induttivo puro: – Per il 2022 (anno senza dichiarazione) determina i ricavi presumendo un ammontare di 300.000 € (valutando acquisti di magazzino, versamenti sul conto corrente e spese personali di Rossi), e applica un utile stimato del 30%, ottenendo un reddito imponibile di 90.000 €. Calcola le imposte evase e relative sanzioni (al 100% dell’imposta, trattandosi di omessa dichiarazione). – Per il 2023 (anno con dichiarazione inattendibile) evidenzia dal quadernetto che Rossi ha effettuato vendite non fatturate per 150.000 € oltre i ricavi dichiarati. Non risultando costi specifici per queste vendite, l’ufficio aggiunge 150.000 € al reddito imponibile dichiarato di Rossi (come ricavi interamente netti non tassati).
Difesa: Il sig. Rossi, tramite un consulente legale-tributario, impugna gli avvisi. Le sue argomentazioni sono: 1. Contestazione dell’assenza di contraddittorio: per il 2023 l’accertamento è stato emesso sulla base del PVC senza attendere 60 giorni (supponiamo che l’ufficio abbia invocato un’urgenza generica). Rossi eccepisce la violazione dell’art. 12 c.7 L.212/2000, chiedendo l’annullamento dell’atto 2023. (Probabilmente questo motivo avrà successo relativo, dato l’orientamento restrittivo per imposte dirette, ma intanto è sollevato). 2. Quantificazione dei ricavi 2022: Rossi sostiene che i 300.000 € di ricavi presunti per il 2022 sono ipotetici e privi di base concreta. Porta in giudizio le evidenze che molti acquisti di merce 2022 in realtà erano rimasti invenduti e sono stati venduti solo nel 2023 (con tanto di elenco e documentazione di tali vendite tardive). Inoltre, mostra che nel 2022 ha chiuso per 3 mesi per ristrutturazione del negozio (documentata da permessi comunali e foto), quindi non poteva aver venduto così tanto. Chiede di ridurre la stima dei ricavi 2022, anche mediante CTU (Consulenza Tecnica) contabile se necessario. 3. Deduzione costi occulti: su entrambe le annualità, Rossi invoca la recente Cassazione: qualora fossero confermati maggiori ricavi (nel 2022 o 2023), chiede vengano riconosciuti costi forfettari almeno pari al 70%. A supporto allega i suoi bilanci degli anni precedenti (quando era in regola), da cui si vede che il costo del venduto incideva sistematicamente tra il 65% e il 75% dei ricavi. Dunque propone di considerare i costi nella media del 70%. In pratica, per il 2023, dei 150.000 € contestati, 105.000 sarebbero costi e solo 45.000 € costituirebbero nuovo reddito. 4. Prova contraria specifica su alcune vendite 2023: Rossi porta anche alcune email di clienti e testimonianze scritte che dimostrano come certi importi segnati nel quadernetto in realtà fossero ordini mai conclusi (il cliente aveva chiesto un preventivo, annotato, ma poi non ha comprato). Quindi quei ricavi non si sono realizzati davvero. 5. Richiesta di sospensione della riscossione: dato che l’importo accertato (soprattutto sul 2022) genera imposte e sanzioni per oltre 100.000 €, Rossi chiede al giudice la sospensione dell’atto, evidenziando che altrimenti dovrebbe chiudere l’attività per pagare.
Esito possibile: Il giudice, valutate le prove: – Potrebbe respingere l’eccezione sul contraddittorio (richiamando la giurisprudenza attuale per imposte dirette). – Sui ricavi 2022, potrebbe accogliere parzialmente la tesi di Rossi: riconoscere che la stima dei 300.000 € era esagerata e ridurla (ad esempio, ritenendo credibile la chiusura di 3 mesi, toglie un quarto e fa 225.000 €). – Sul 2023, il giudice verifica le email e dichiarazioni: scorpora, poniamo, 20.000 € di importi fittizi (ordini non conclusi). Quindi i ricavi non dichiarati reali diventano 130.000 € invece di 150.000. – Soprattutto, il giudice applica il principio di deduzione costi: accetta il 70% proposto (giustificato dai dati storici) e di conseguenza sul 2023 imputa reddito netto aggiuntivo di solo 39.000 € (il 30% di 130k). Sul 2022, se mantiene 225.000 € di ricavi presunti, calcola l’utile al 30% = 67.500 € di reddito (anziché 90.000). – Le sanzioni eventualmente vengono rideterminate sull’imposta evasa corrispondente a questi redditi ridotti. – Con queste riduzioni, è probabile che la soglia penale (se inizialmente superata) rientri sotto il limite, scongiurando anche il procedimento penale. – La sospensione può essere stata concessa inizialmente per evitare il fallimento dell’azienda durante il processo, vista la fondatezza di parte delle contestazioni di Rossi.
Questo esempio mostra come, partendo da una posizione di apparente totale soccombenza (contabilità inattendibile, presunzioni elevate), un contribuente possa comunque ridurre significativamente il danno grazie a una difesa ben strutturata: contestazione puntuale dei dati, raccolta di prove, utilizzo dei principi di diritto più aggiornati (costi forfettari), e ovviamente l’assistenza di professionisti competenti. Naturalmente, prevenire è meglio che curare: tenere la contabilità regolare e presentare le dichiarazioni avrebbe evitato a Rossi molte di queste difficoltà. Ma una volta in trincea, è fondamentale conoscere i propri diritti e le armi difensive disponibili.
Accertamento analitico-induttivo (misto)
Passiamo ora all’accertamento analitico-induttivo, che rappresenta la forma più comune di accertamento basato su presunzioni per i contribuenti che hanno presentato la dichiarazione e tenuto la contabilità, ma in modo non convincente o con dati antieconomici. È definito anche metodo misto perché mescola aspetti analitici (si guarda alle singole voci di bilancio) con aspetti induttivi (si usano presunzioni per rettificarle).
Presupposti: L’art. 39, comma 1, lett. d) DPR 600/1973 autorizza questo tipo di accertamento quando si riscontrano “incompletezze, falsità o inesattezze” in elementi indicati in dichiarazione, oppure gravi incongruenze tra i dati dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche dell’attività o da studi di settore/parametri . A differenza dell’induttivo puro, qui la contabilità non è da buttare integralmente: c’è un’apparenza di regolarità formale, ma alcuni dati non tornano, oppure alcune poste sono sospette. La giurisprudenza parla di inattendibilità “parziale” delle scritture . In concreto, i casi tipici sono: – Gravi incongruenze economiche: il contribuente dichiara un reddito o un volume d’affari molto inferiore a quello atteso in base ai benchmark del suo settore o in base ad altri indicatori. Ad esempio, un ristorante con 80 posti a sedere aperto 7 giorni su 7 dichiara incassi annui di soli 50.000 €: ciò significa in media circa 137 € al giorno di incasso, un importo palesemente insufficiente (meno di 2 € al giorno per coperto!). Oppure un professionista (dentista, avvocato, etc.) dichiara compensi modesti a fronte di spese elevate o di un numero di clienti/pazienti noto. Queste situazioni configurano anomalie di redditività, spesso definite come antieconomicità manifesta. L’ufficio può presumere che siano stati occultati ricavi per riallineare la posizione a un livello congruo. Cassazione ha confermato che anche con contabilità formalmente regolare, se emergono gravi incongruenze con dati logici o standard, l’Ufficio può procedere ad accertamento induttivo . – Margini o ricarichi irrisori: collegato al punto precedente, un indicatore frequente è il markup (ricarico) sulle vendite troppo basso. Esempio: un commerciante di abbigliamento dichiara di ricaricare la merce del 10%, quando normalmente il settore opera con ricarichi del 100% o più (acquisto a 50, vendo a 100). Un margine lordo troppo esiguo può far presumere che in realtà parte delle vendite non siano contabilizzate (si vendono a prezzo normale ma se ne dichiara solo una parte, dando l’impressione di vendere tutto sotto-costo). La Cassazione ha più volte ritenuto legittimo ricostruire i ricavi rideterminando il ricarico medio con criteri di settore, “salva la eventuale riduzione da parte del giudice in caso di campione inadeguato” . – Irregolarità contabili non gravissime ma numerose: ad esempio, errori nei registri IVA, incongruenze tra inventario di magazzino e contabilità, differenze tra fatture emesse e copia nel registro corrispettivi, omesse registrazioni isolate di fatture attive o acquisti, costi sproporzionati rispetto ai ricavi (a volte indice di fatture per operazioni inesistenti per abbattere l’utile). Singolarmente prese, queste irregolarità non invalidano tutta la contabilità, ma nel loro insieme insinuano il dubbio di dati falsati. L’Ufficio allora procede a rettifiche mirate: esclude costi ritenuti fittizi, oppure attribuisce ricavi ulteriori corrispondenti a quei costi. – Differenze tra dati bancari e contabili: se emergono versamenti sul conto corrente non giustificati dai ricavi dichiarati, ma l’impresa ha comunque una contabilità, si potrebbe (teoricamente) fare un accertamento bancario puro. Tuttavia, se la contabilità esiste e le incongruenze bancarie sono limitate, spesso l’ufficio ricorre all’analitico-induttivo: integra i ricavi con l’importo di quei versamenti non giustificati (presumendo siano ricavi in nero). Questo rientra tra le “altre verifiche” su dati e notizie raccolte, previste dalla norma . In verità, la presunzione legale sui movimenti bancari è così forte (ne parleremo dopo) che a volte si configura più come una prova legale, ma formalmente può ricadere nel quadro dell’accertamento analitico-induttivo se la contabilità non è del tutto inattendibile altrimenti.
Modalità operative: Nell’accertamento analitico-induttivo, l’ufficio tipicamente: – Analizza le singole voci di bilancio o dichiarazione: ad esempio rapporto costi/ricavi, valore delle rimanenze, incidenza dei vari costi. – Identifica uno o più indicatori anomali: margini troppo bassi, reddito negativo reiterato (impresa perennemente in perdita), indice di rotazione del magazzino illogico (merci che non ruotano), consumi fuori linea, ecc. – Utilizza presunzioni semplici per quantificare l’evasione: può essere un confronto col settore (es. studi di settore, ora Indici Sintetici di Affidabilità – ISA), oppure un raffronto con anni precedenti o con altri contribuenti similari, oppure un calcolo tecnico (es. data una materia prima principale, quante unità di prodotto finito avrebbero dovuto generare). L’importante è che tali presunzioni siano, come ripetuto, gravi, precise e concordanti per reggere in giudizio. – Mantiene nel provvedimento una motivazione dettagliata: a differenza dell’induttivo puro, qui l’ufficio di solito spiega abbastanza bene l’iter logico. Ad esempio: “Si riscontra un’incongruenza del 50% tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore UG40U: il contribuente ha dichiarato €50.000 a fronte di un ricavo puntuale stimato di €100.000. Tale scostamento è ritenuto grave (>10% soglia) e non giustificato, pertanto si accertano maggiori ricavi per €50.000”. Oppure: “Dall’analisi dei conti emerge un’incidenza del costo del venduto pari al 95% dei ricavi, valore anomalo rispetto alla media di settore del 70%. Si presume dunque l’occultamento di vendite per colmare la differenza. Applicando il ricarico medio 1,4 (40%) sul costo del venduto dichiarato (€200.000), i ricavi teorici risultano €280.000, rispetto ai €210.000 dichiarati: si accertano quindi €70.000 di ricavi non dichiarati”. Questa è la logica tipica esposta negli avvisi. – In alcuni casi, l’accertamento analitico-induttivo può comportare anche rettifiche di costi: ad esempio, l’ufficio potrebbe contestare che alcuni costi dedotti non sono inerenti o sono sopravalutati e, parallelamente, presumere ricavi. Spesso però il focus è sui ricavi.
Grado di prova e onere: Una volta che l’ufficio ha individuato indizi seri di evasione parziale e li ha formalizzati, l’atto gode – come detto – di una presunzione di legittimità. La Cassazione ha affermato che se l’ufficio motiva indicando gli elementi di inattendibilità e la loro idoneità a rivelare maggior reddito, null’altro deve provare; spetta al contribuente discolparsi mostrando la regolarità delle operazioni o l’assenza di capacità contributiva ulteriore . In pratica, “ti ho trovato queste incoerenze, quindi presumo che hai evaso X; se non è vero, dimostralo tu”. Si noti che qui la legge non offre presunzioni legali forti come nell’induttivo puro, ma di fatto la giurisprudenza attribuisce un peso rilevante alle presunzioni semplici in presenza di contabilità inattendibile. L’importante è che le presunzioni dell’ufficio soddisfino i requisiti di gravità, precisione e concordanza. Se sono labili o contraddittorie, il contribuente potrà farle cadere.
Ad esempio, un singolo elemento isolato potrebbe non bastare: la Corte di Cassazione ha ritenuto ad esempio che un modesto scostamento dagli studi di settore (entro il 10-15%) non costituisce di per sé grave incongruenza . Oppure se l’ufficio si basa su un solo anno anomalo mentre gli altri anni l’andamento era normale, si potrebbe sostenere che quell’anno può avere spiegazioni contingenti. Insomma, la difesa può attaccare la “concordanza” delle presunzioni (serve che più indizi portino coerentemente nella stessa direzione, non uno solo) o la “gravità” (scostamenti minimi non giustificano l’accertamento).
Novità normative (Studi di settore e ISA): In passato, un frequentissimo caso di accertamento analitico-induttivo era basato sugli Studi di Settore: se un’impresa o un lavoratore autonomo risultava “non congruo” (cioè dichiarava ricavi inferiori al minimo stimato dallo studio per la sua classe di attività) e lo scostamento era grave (inizialmente >20%, poi soglie variabili), l’ufficio poteva emanare accertamento presuntivo. Dal 2019 circa, gli Studi di Settore sono stati sostituiti dagli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA), che funzionano diversamente (assegnano un punteggio da 1 a 10). Un punteggio basso non determina automaticamente un accertamento, ma può far scattare verifiche. Attualmente (2025) non esiste un automatismo di legge per accertare sulla base del solo ISA basso; tuttavia un ISA gravemente insufficiente, combinato magari con altri indizi, può essere usato come supporto. Inoltre, la normativa 2023-2024 (delega fiscale e d.lgs. attuativi) sta ridefinendo gli strumenti induttivi: come visto, per il redditometro (che è un tipo di accertamento sintetico) è stata introdotta una doppia soglia. Nulla esclude che anche per le imprese si fissino criteri più oggettivi per definire la “grave incongruenza” (ad es. una % di scostamento standard). Per ora, resta un concetto relativamente elastico, riempito dalla giurisprudenza caso per caso.
Vediamo ora come difendersi efficacemente quando arriva un accertamento analitico-induttivo, ossia quando il Fisco ci contesta ricavi non dichiarati basandosi su incongruenze parziali o presunte anomalie economiche.
Difendersi da un accertamento analitico-induttivo: strategie
La difesa in caso di accertamento analitico-induttivo ha molti punti in comune con quella dell’induttivo puro, ma ci sono alcune peculiarità, poiché qui la discussione si concentra su singoli aspetti contabili e sulla loro interpretazione. Ecco le principali strategie dal lato del contribuente:
1. Fornire spiegazioni logiche per le incongruenze: Spesso l’ufficio presume evasione semplicemente perché “i conti non tornano” rispetto a un modello standard. Il contribuente però potrebbe avere buone ragioni economiche per quei dati anomali. È fondamentale articolare queste spiegazioni già in sede amministrativa (rispondendo a questionari, inviti al contraddittorio, ecc.) e poi riprenderle nel ricorso: – Prezzi più bassi per strategia commerciale: ad esempio, se l’ufficio contesta margini troppo bassi, possiamo dimostrare che deliberatamente si è adottata una politica di prezzi aggressiva (magari per entrare su un mercato o per liquidare stock). Documentare con listini, volantini pubblicitari di saldi, campagne sconto, etc. Se l’azienda ha venduto sottocosto alcuni prodotti per trainarne altri (logica di marketing), occorre spiegarlo. – Errori di stima dell’ufficio: se si è basato su studi di settore, possiamo contestare che quelli standard non tengono conto di qualche peculiarità nostra: per esempio, uno studio di settore per ristoranti presume tot coperti medi, ma il nostro locale ha avuto metà sala chiusa per lavori per mesi, o situato in zona poco trafficata. Oppure produce piatti di nicchia a basso margine per scelta etica (ecco un motivo di antieconomicità che però può essere volontario e documentabile). – Circostanze eccezionali nell’anno in questione: malattie del titolare, chiusure forzate (pensiamo a calamità naturali, o più recentemente ai lockdown Covid, che hanno impattato i conti ma forse l’ISA non li coglie appieno), perdita di un grande cliente, concorrenza spietata che costringe a ribassi… Ogni fatto specifico dev’essere portato come giustificazione. Idealmente con riscontri: es. se abbiamo subito un furto di merce (che spiega un ammanco di magazzino), allegare la denuncia ai carabinieri; se una malattia ci ha impedito di lavorare tot mesi, allegare certificati medici, ecc. – Ristrutturazioni o investimenti: Può capitare che un’impresa spenda molto in un anno per rinnovare locali o attrezzature, andando in perdita o con margini ridottissimi. L’ufficio vede costi alti e ricavi bassi e pensa a evasione, ma in realtà i costi erano reali (investimenti) e i ricavi non sono saliti subito. Presentare le fatture di questi investimenti e mostrare che l’anno successivo magari i ricavi sono aumentati (quindi era una fase di rilancio). – Clientela/mercato particolare: Ad esempio, un professionista può avere tariffe volutamente basse (es. un avvocato che assiste fasce deboli, o un medico che fa molti interventi pro-bono); oppure un commerciante vende prodotti prossimi a scadenza con forte sconto. Se la nostra marginalità è inferiore alla media perché puntiamo sul volume o su un certo segmento, spiegare il modello di business. Magari allegare qualche analisi di settore che evidenzi diversi posizionamenti di prezzo (non tutti applicano i ricarichi standard). – Inesattezze dei calcoli fiscali: Verificare se l’ufficio ha compiuto errori aritmetici nel rifare i conti. Non è raro: a volte sbagliano a considerare l’IVA (es. prendono importi ivati per netti o viceversa), oppure duplicano qualche voce. Bisogna ricostruire e controllare ogni passo. Se si trova un errore, segnalarlo può minare la credibilità dell’intero accertamento.
2. Attaccare la “gravità” e “concordanza” delle presunzioni: Come accennato, per legge le presunzioni semplici valgono solo se gravi, precise e concordanti. La difesa può puntare su: – Scostamento non grave: Se l’ufficio non ha rispettato eventuali soglie normative (ad esempio, per gli studi di settore c’era la previsione della “grave incongruenza” e la prassi individuava alcune soglie percentuali), possiamo dire che la divergenza è modesta. Ad esempio, Cassazione ha annullato accertamenti dove lo scostamento era inferiore al 20% ritenendolo non grave di per sé . Anche con ISA, se uno ha punteggio 6 (non ottimo ma neanche pessimo), e magari altri indicatori buoni, si può argomentare che non c’è situazione così allarmante da presumere evasione. – Presunzioni isolate o contraddittorie: Se l’ufficio mette insieme più indizi, vedere se davvero vanno tutti nella stessa direzione. A volte potrebbero essercene alcuni a favore del contribuente: es. margine basso (indizio di possibili ricavi occultati) ma contemporaneamente spese personali altrettanto basse (indice che forse non aveva poi tanti soldi extra). Oppure lo studio di settore sfavorevole ma l’andamento pluriennale dell’azienda mostra ricavi costanti (forse lo studio sopravvaluta quel contribuente?). Far emergere eventuali incoerenze nella ricostruzione accusatoria. – Volume dell’evasione illogico: se l’ufficio presuppone che l’impresa abbia occultato, poniamo, il 50% dei ricavi per più anni, chiedersi: è plausibile? Il contribuente come avrebbe finanziato quell’attività occulta (comprare merci in nero? pagare dipendenti in nero? E se sì, quei costi dove sono finiti)? Se si trovano incongruenze (ad es. non risultano acquisti occulti per coprire quelle vendite, e supporre che i fornitori abbiano dato metà merce in nero è pure grave), evidenziarlo. Cioè, cercare di dimostrare che per generare quei ricavi occulti ci sarebbero dovute essere altre tracce (che non ci sono) – questo può ridurre la solidità della presunzione. – Confronti con anni diversi: se l’ufficio prende un anno isolato, noi possiamo far vedere che l’anno prima e dopo i margini erano simili e dichiarati – quindi perché proprio quell’anno dovrebbe esserci evasione? I giudici danno peso anche alla continuità: se un contribuente ha sempre dichiarato in linea con studi di settore tranne un anno dove, poniamo, c’è stata crisi economica nel settore, quell’anno anomalo potrebbe essere genuino (e la presunzione di evasione indebolita).
3. Portare prove contrarie materiali: Oltre alle spiegazioni verbali, servono documenti e riscontri. Alcune possibili prove: – Inventari di magazzino: se contestano che avremmo dovuto vendere di più dato l’acquistato, esibire l’inventario di fine anno (se fatto diligentemente) che mostra giacenze elevate. E magari foto del magazzino pieno a fine anno. Se quelle giacenze poi risultano vendute l’anno dopo, evidenziarlo. – Libri e registri ausiliari: a volte il contribuente tiene registri interni più analitici (es. registri di produzione, contabilità industriale) non obbligatori ma utili per spiegare i numeri. Se esistono, tirarli fuori per far vedere ad esempio tassi di scarto, rese, ecc. – Corrispondenza con clienti/fornitori: per giustificare perché certi costi sono alti o ricavi bassi, possono tornare utili lettere/email. Esempio: lettere di clienti che chiedono sconti extra per problemi, o di fornitori che aumentano i prezzi (così margini si riducono). – Expert opinions: nel caso di questioni tecniche (p.es. quanti pezzi si ottengono da un kg di materia prima), presentare una relazione di un perito o tecnico del settore, o letteratura tecnica, che avvalori la nostra tesi (ad esempio: “nella produzione artigianale di ceramica c’è un tasso di scarto del 30%, quindi se l’ufficio non lo considera sovrastima i pezzi vendibili”). – Testimonianze scritte di clienti/dipendenti: se utile, farsi fare dichiarazioni da persone esterne. Ad esempio, se l’ufficio contesta che un ristorante avrebbe dovuto incassare di più, prendere dichiarazioni da alcuni dipendenti che attestano che spesso la sala era mezza vuota per via di lavori in strada che ostacolavano l’accesso, etc. Non è prova certa, ma corrobora la nostra versione.
4. Non dimenticare la questione costi presunti anche qui: Anche nell’analitico-induttivo, vale quanto detto prima: se ci imputano ricavi in più e non li hanno già “nettalizzati”, dobbiamo chiedere i costi forfettari. Anzi, la Cassazione 19574/2025 riguarda proprio un caso analitico-induttivo . Dunque, includere sempre nel ricorso la domanda subordinata: “Qualora Codesta Corte ritenesse fondato (in tutto o in parte) l’accertamento dei maggiori ricavi, si chiede, in virtù dei principi espressi dalla Corte Cost. 10/2023 e Cass. 19574/2025, il riconoscimento di costi forfettari in misura congrua (tot% o da determinarsi in via equitativa)”. Fornire i parametri per quantificarli, come visto. Questo tutelerà il contribuente da una tassazione sul lordo.
5. Valutare l’accertamento con adesione*: negli accertamenti analitico-induttivi, spesso l’Agenzia invia *prima un invito al contraddittorio o un invito all’adesione. È una opportunità per chiudere la vicenda con un accordo, pagando qualcosa ma con sanzioni ridotte a 1/3. Se le presunzioni del Fisco hanno qualche fondamento e il contribuente non ha prove schiaccianti contrarie, può essere saggio tentare un’adesione. In sede di adesione si può contrattare: ad esempio far presente le proprie giustificazioni, e spesso gli uffici sono disposti a uno “sconto” sui maggiori ricavi. Ad esempio, a fronte di 100 di ricavi presunti, accettare 50 con sanzioni ridotte. Bisogna calcolare pro e contro: se la nostra posizione difensiva in giudizio è debole, l’adesione evita almeno il rischio di una condanna piena e delle spese di giudizio. Inoltre, non preclude in alcun modo di utilizzare poi eventuali ravvedimenti operosi su altri periodi o di regolarizzare l’annualità successiva. L’importante è che il contribuente non subisca passivamente: se ritiene di avere ragione piena, può rifiutare l’adesione e combattere in giudizio; se invece riconosce un errore o vuole chiudere velocemente, l’adesione è uno strumento deflattivo utile (tenendo presente che bisogna avere liquidità per pagare quanto concordato, di solito in un massimo di 8 rate trimestrali).
Esempio pratico di accertamento analitico-induttivo e difesa
Scenario: La ditta Bianchi & C. (s.n.c.) gestisce un negozio di calzature. Nel 2022 dichiara ricavi per €120.000 con un utile modesto (€5.000, pari a margine netto del 4%). L’Indice ISA di affidabilità è basso (punteggio 4) a causa di ricavi valutati insufficienti per il numero di addetti e la zona commerciale. L’Agenzia avvia un controllo “a tavolino”: confronta i dati della ditta con le medie del settore calzature. Emerge che: – Il ricarico dichiarato (rapporto prezzi di vendita su costi di acquisto) risulta solo del ~20%, mentre statisticamente i negozi di calzature applicano ricarichi del 100-150%. – L’indice di rotazione del magazzino appare molto basso: la ditta a fine 2022 ha indicato rimanenze per €80.000, a fronte di acquisti annui per €100.000 e vendite €120.000, segno che gran parte delle merci non si è venduta. – Il punteggio ISA 4 è accompagnato da indicatori specifici: “Costo del venduto su Ricavi” fortemente fuori soglia (eccessivo) e “Durata delle scorte” molto elevata.
L’Ufficio convoca i sigg. Bianchi spiegando queste incongruenze. La ditta giustifica: “Abbiamo avuto difficoltà nelle vendite perché nel 2022 il negozio accanto in galleria ha chiuso e quel lato del centro commerciale ha avuto un calo di traffico; inoltre abbiamo acquistato molto stock a fine 2022 per approfittare di sconti del fornitore, quindi ci è rimasta molta merce invenduta che venderemo nel 2023 con calma.” Forniscono dati di un contatore ingressi che mostra il calo di visitatori nella galleria.
L’ufficio però non ritiene sufficienti le spiegazioni e nel 2024 emette un avviso di accertamento analitico-induttivo per il 2022, in cui: – Considera gravi incongruenze i suddetti indicatori (menziona art. 39 c.1 lett d). – Applica un ricarico del 100% sugli acquisti dell’anno (€100.000) ottenendo ricavi teorici €200.000. Detratti i €120.000 dichiarati, contesta €80.000 di ricavi non dichiarati. – Ricalcola il reddito d’impresa incrementandolo di €80.000 (in pratica presuppone costi invariati). – Calcola maggiori imposte IRES/IRAP e IVA sui €80.000 (IVA presunta omessa su vendite non fatturate) con sanzioni.
La società Bianchi impugna l’accertamento avanti la Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria).
Difesa della società Bianchi: 1. Assenza di contraddittorio preventivo IVA: la contestazione include IVA. La società eccepisce che l’ufficio avrebbe dovuto formalmente invitarla a esporre le proprie ragioni prima dell’atto. Non avendo ricevuto un invito formale (c’è stato un incontro informale ma nessun verbale), ritiene violato lo Statuto (art. 12 c.7) e fa valere che per l’IVA questa violazione comporta nullità, almeno a condizione di dimostrare le ragioni che avrebbe addotto. Quindi ribadisce in ricorso tutte le giustificazioni fornite (afflusso calato, scorte aumentate per promozione fornitori, ecc.), per dimostrare che se ascoltata avrebbe potuto convincere l’ufficio . 2. Spiegazione dell’antieconomicità: dettagliata: allega una relazione del consulente di marketing che documenta il calo di ingressi in galleria (dati contatore: -30% affluenza nel 2022 rispetto al 2021); allega anche la comunicazione del grande magazzino adiacente che ha chiuso i battenti a metà 2022, impoverendo l’area. Questo per motivare la flessione di vendite. 3. Prova sulle rimanenze: produce l’inventario analitico al 31/12/2022 che mostra 1.000 paia di scarpe in giacenza. Nel primo semestre 2023, dopo un cambio di posizione nel centro commerciale, ne hanno vendute molte (presentano fatture/registri del 2023 per mostrare che la merce 2022 era effettivamente in stock, non venduta in nero). Questo serve a sostenere che non c’erano ricavi nascosti: era proprio merce invenduta, venduta l’anno successivo. 4. Contesta il metodo del ricarico standard: argomenta che applicare 100% a tutti gli acquisti è semplicistico: alcune merci erano fuori moda e vendibili solo con forti sconti (allega prove di saldi al 50% fatti nel 2023 su collezioni 2022). Inoltre, evidenzia che quell’anno hanno venduto più all’ingrosso (scarpe a altri piccoli rivenditori) con margini minori rispetto alla vendita al dettaglio. Di ciò fornisce copia di alcune fatture di vendita B2B 2022 con margine <30%. 5. Richiede deduzione costi occulti: in via subordinata, qualora fossero confermati (in tutto o in parte) ricavi non contabilizzati, chiede l’applicazione di costi presunti. Nel loro caso, sostengono un margine lordo storico intorno al 35%. Dunque, su €80.000 di ricavi contestati, chiedono di considerare €52.000 di costi, e quindi tassare solo €28.000 di maggior utile. Citano Cass. 19574/2025. 6. Sanzioni non dovute su IVA per incertezza normativa: come ulteriore linea, dicono che finché c’è stata la moratoria sugli studi di settore (2010-2011) le divergenze non venivano sanzionate, e che comunque la materia è complessa; chiedono quantomeno la non applicazione di sanzioni per incertezza oggettiva (questo spesso non passa, ma tentano).
Esito possibile: Il giudice potrebbe: – Rilevare che effettivamente l’ufficio non ha formalizzato il contraddittorio. Per l’IVA, applicando la giurisprudenza, potrebbe dire: non nullità automatica, ma vediamo le prove di resistenza. Le ragioni addotte dai Bianchi sembrano concrete (chiusura negozio vicino, calo affluenza, saldi successivi). Se il giudice le ritiene convincenti, potrebbe annullare l’atto almeno nella parte IVA per violazione del contraddittorio, o comunque tenerne conto nel merito. – Sul merito, potrebbe dare ragione parziale alla società: riconoscere che una parte delle giacenze era reale. Magari non crede che tutta la differenza sia giustificata, ma potrebbe ridurre i ricavi occultati. Ad esempio, invece di €80.000, stimare che in realtà forse una certa quota di vendite 2022 è mancata per problemi oggettivi e ridurre l’evaso a €40.000. – Tenendo conto di Cass. 24482/2014 , è legittimo l’induttivo anche con contabilità regolare, ma la società qui ha offerto spiegazioni plausibili. Il giudice potrebbe rifarsi ad altre sentenze in cui l’antonomalità viene ritenuta superata da giustificazioni logiche e considerare non provata la totalità dell’evasione ipotizzata. – Costo presunto: se rimane un importo di ricavi occulti (diciamo €40k), il giudice applicherà il principio costituzionale: concederà un abbattimento costi. La società ha un margine lordo del 35%, quindi costi 65%. Su €40k, toglierà €26k di costi, tassando €14k. – Potrebbe infine, valutando il quadro, annullare le sanzioni per mancanza di dolo grave, visto che c’è stata collaborazione e alcune ragioni. Oppure mantenerle ridotte sul nuovo importo. – In conclusione, la società che rischiava €80k di imponibile occulto e relative tasse+IVA e sanzioni, se la potrebbe cavare con un’aggiunta imponibile minima e magari solo una multa simbolica.
Questo esempio evidenzia l’importanza di documentare tutte le ragioni economiche che possono spiegare dati contabili altrimenti sospetti. In un contenzioso su accertamento induttivo “chi vince la battaglia delle spiegazioni” spesso determina l’esito: se il contribuente convince il giudice che le sue anomalie erano dovute a cause reali e non a evasione, l’accertamento crolla o si ridimensiona molto. Pertanto, conoscere bene il proprio business e saperlo raccontare con numeri e prove è la chiave. Il commercialista e l’avvocato difensore devono raccogliere tutte le informazioni dall’imprenditore per costruire una narrazione alternativa credibile opposta a quella presuntiva del Fisco. Quando ci si riesce, i risultati in giudizio possono essere decisamente positivi.
Indagini finanziarie e presunzioni sui conti bancari
Un capitolo a parte merita il tema delle indagini finanziarie e delle presunzioni bancarie, spesso strettamente intrecciato con gli accertamenti induttivi (puri o analitici). Le incongruenze contabili infatti emergono di frequente dall’analisi dei conti correnti bancari del contribuente. La legge (art. 32, comma 1, n.2, DPR 600/1973 per le imposte sui redditi e art. 51 DPR 633/1972 per IVA) attribuisce all’Amministrazione finanziaria un potere di indagine sui conti e, soprattutto, prevede una presunzione legale a suo favore: tutti i versamenti trovati sui conti del contribuente si presumono ricavi (o comunque redditi imponibili) se il contribuente non è in grado di provarne la natura non tassabile; analogamente, tutti i prelevamenti dal conto si presumono utilizzati per acquisti in nero o pagamenti non registrati (quindi possono indicare ricavi non dichiarati), tranne prova contraria. Questa presunzione è relativa (iuris tantum) ma molto incisiva: è stata definita una vera “inversione dell’onere della prova” in materia tributaria, elevata al rango di prova legale semplice (ossia non richiede gravità e concordanza, ma scatta automaticamente al mero riscontro del movimento bancario) .
Tale presunzione subì però una importante limitazione ad opera della Corte Costituzionale, sentenza n. 228/2014, che dichiarò incostituzionale l’art. 32 nella parte in cui estendeva la presunzione ai prelevamenti fatti dai lavoratori autonomi (professionisti) . La Consulta ritenne irragionevole presumere che un prelievo sul conto di un avvocato o un medico, di per sé, generi compensi non dichiarati: a differenza dell’impresa, il professionista non ha costi di acquisto merci rivendute, quindi i prelievi potrebbero essere semplicemente usi personali di redditi già dichiarati. Dopo quella sentenza, la norma è stata emendata eliminando le parole “o compensi” per i lavoratori autonomi. Oggi dunque la situazione è: – Imprese (ditte individuali, società): la presunzione legale vale sia per i versamenti che per i prelevamenti non giustificati. Qualunque entrata sul conto di un’azienda, non registrata, è considerata ricavo in nero salvo prova contraria; qualunque uscita di denaro, non giustificata da costi registrati, è considerata utilizzata per acquisti “in nero” o per altri impieghi che hanno generato ricavi non dichiarati. – Lavoratori autonomi (professionisti): la presunzione vale solo per i versamenti sul conto non giustificati, non per i prelievi. Cioè se un avvocato ha versamenti bancari ulteriori rispetto ai compensi fatturati, deve spiegarli (sennò sono compensi nascosti); invece se ha prelevato 5.000 € in contanti dal conto, il Fisco non può più presumere che li abbia usati per pagare collaboratori in nero o simili – potrebbe averli semplicemente spesi per fini personali.
NB: Questa distinzione è rilevante dal 2014 in poi. Tuttavia, attenzione: per le annualità precedenti al 2014, alcuni contenziosi sono ancora pendenti. La Cassazione ha chiarito che la sentenza 228/2014 ha portata retroattiva (come tutte le dichiarazioni di incostituzionalità) per i casi non definiti. Quindi anche un professionista che avesse un accertamento ante-2014 basato su prelevamenti può oggi ottenere l’annullamento di quella parte invocando la pronuncia della Consulta.
Nel contesto dell’accertamento induttivo, i dati bancari spesso forniscono gli indizi chiave: – Si scoprono versamenti sui conti del contribuente (o dei soci, o conti personali in caso di impresa individuale) per importi consistenti che non trovano corrispondenza nei ricavi dichiarati. Tipico: bonifici ricevuti da soggetti non clienti ufficiali, o assegni versati, o tanti piccoli versamenti in contanti (segnale di vendite al minuto non battute). L’ufficio li somma e dice: “Ecco i tuoi ricavi non dichiarati”. – Si rilevano prelievi ingenti in contanti senza giustificazione. Per imprese, l’ufficio li interpreta come denaro usato per acquisti non registrati (magari da fornitori che accettano contanti senza fattura) che poi si suppone abbiano generato vendite in nero. Ad esempio, se un ristoratore preleva in un anno €50.000 in contanti dal conto aziendale e non li giustifica, il Fisco potrebbe stimare che li ha spesi per comprare cibo “fuori fattura” e, applicando il ricarico del locale, presumere che ci siano tot ricavi corrispondenti. Per i professionisti, come detto, questo ragionamento non è più lecito post-2014.
Come difendersi su questa materia? L’onere della prova, in forza di presunzione legale, è esplicitamente a carico del contribuente. Ciò significa che in sede sia amministrativa che contenziosa, spetterà a lui giustificare uno per uno i movimenti bancari contestati.
Ecco alcuni consigli difensivi: – Tracciare origine dei versamenti: per ogni entrata sul conto considerata estranea ai ricavi dichiarati, bisogna cercare di individuare la fonte. Se erano incassi effettivi non fatturati, la situazione è difficile, ma a volte quei versamenti potrebbero essere: – Trasferimenti da altri conti propri: ad esempio un bonifico dalla propria controparte di conto cointestato col coniuge, o da un libretto di risparmio. In tal caso, dimostrare che non è un ricavo, ma solo spostamento di denaro già posseduto. Servono estratti conto del conto di origine e documentazione che collega. – Finanziamenti o apporti dei soci: molto frequente nelle società. Un socio versa soldi propri in azienda (magari in contanti) per coprire perdite o spese. Se il Fisco li vede, li scambia per ricavi. Difesa: esibire delibere o scritture private di finanziamento soci, o almeno far fare ai soci una dichiarazione in tal senso. Ancora meglio se c’è traccia contabile (mastrino “finanziamento soci”). Attenzione: l’Agenzia spesso contesta questi finanziamenti se il socio non dimostra di avere la provvista (vogliono vedere la sua dichiarazione dei redditi, se aveva risparmi). Quindi prepararsi: se i soci erano persone fisiche con redditi bassi, dire che forse erano risparmi accumulati in anni (non facile). – Prestiti o donazioni di terzi: talvolta i versamenti sono aiuti di familiari, rimesse dall’estero di parenti, prestiti tra amici. In tal caso, far produrre a chi ha dato i soldi una dichiarazione scritta (meglio ancora un atto di prestito/donazione con data certa se esiste). Anche qui, il terzo deve idealmente dimostrare di aver avuto quei soldi (es. l’anziano padre li aveva sul conto, li ha ritirati e dati al figlio – presentare estratti del padre). – Rimborsi, indennizzi, disinvestimenti: se sul conto aziendale entrano soldi da un’assicurazione (risarcimento danni), o dal liquidare un fondo investimento intestato all’azienda, o dalla vendita di un bene strumentale, questi non sono ricavi di vendita. Vanno però documentati: es. lettera assicurazione, contratto di vendita bene, ecc. – Errori contabili già corretti: a volte alcune somme sono state inizialmente non registrate ma poi “sistemate” con scritture di assestamento. Verificare se magari quei versamenti erano già stati rilevati come ricavi in contabilità (magari un incasso di credito registrato altrove). – Giustificare i prelievi (per le imprese): qui è più arduo, perché la presunzione è contro di noi. Possibili difese: – Mostrare che i prelievi sono serviti a pagare spese personali non deducibili del titolare (per un’impresa individuale). Ad esempio: “ho prelevato 10.000 € per comprare un’auto personale usata, ecco il passaggio di proprietà”. Il problema è che nelle imprese la distinzione patrimonio aziendale/personale è meno netta, ma si può sostenere che l’imprenditore individuale con quel prelievo si è semplicemente pagato un dividendo/tolto utile (cosa lecita). Bisogna però che l’azienda avesse utili o riserve per giustificarlo. – Dimostrare che i prelievi sono stati poi versati su altro conto (circolazione di cassa) o utilizzati per pagare spese che compaiono nei conti. Es: prelevo 5.000 € e il giorno dopo pago una fattura ad un fornitore in contanti di uguale importo (sul conto non appare, ma se posso documentare la quietanza del fornitore, spiego quel prelievo). – In alcuni casi, invocare che i prelievi, se modesti e compatibili con le esigenze di cassa, potrebbero costituire anticipo al titolare o fondo cassa. Ma serve che non siano troppi e troppo alti rispetto al volume d’affari. – Ultima ratio: ricordare ai giudici che la presunzione sui prelievi, pur valida per le imprese, resta una presunzione semplice in termini di logica: se il contribuente offre una spiegazione credibile e l’Ufficio non la contraddice con prove, il giudice potrebbe accoglierla. Ad esempio, Cassazione ha sostenuto comunque che la presunzione non toglie al giudice il compito di valutare caso per caso la plausibilità della giustificazione . Quindi se un imprenditore dice “quei contanti li ho usati per pagare i lavori di ristrutturazione di casa mia, fatti in nero” – paradossalmente ammettendo un’irregolarità extra-fiscale ma non generatrice di reddito – potrebbe smentire l’ipotesi del Fisco che fossero destinati a materie prime in nero. Non è una “prova” canonica, ma il giudice potrebbe credergli se supportato da ad esempio foto della casa ristrutturata e testimonianza dell’amico che ha eseguito i lavori. È un campo minato, ma in mancanza di meglio, ogni spiegazione può aiutare.
Ricapitolando: di fronte a contestazioni su movimenti bancari, la difesa deve essere minuziosa: preparare un prospetto con tutte le operazioni evidenziate dall’ufficio e, accanto a ciascuna, mettere la propria spiegazione e le prove allegate. Spesso non tutte le voci riusciranno a essere giustificate, ma ogni operazione “salvata” è un pezzo di reddito presunto che cade. Bisogna essere consapevoli che il giudice tributario tende a dare molto peso ai dati bancari: se restano versamenti inspiegati di grossa entità, difficilmente ci assolverà per quella parte. Tuttavia, convincere il giudice su almeno una parte delle giustificazioni può condurre a ridurre l’accertamento. A volte si riesce a spuntare anche annullamenti totali in situazioni estreme: se l’ufficio opera in maniera acritica (somma tutti i movimenti senza tener conto di nulla) e la difesa evidenzia errori macroscopici (doppi conteggi, accrediti già tassati, ecc.), il giudice può invalidare l’intera metodologia.
Un ultimo consiglio: autotutela preventiva. Se si sa di aver ricevuto fondi particolari (es. donazioni) o finanziamenti soci, conviene documentarli già nell’anno in corso con atti scritti, e possibilmente registrarli in contabilità (i finanziamenti soci vanno registrati nel passivo). Inoltre, tenere un memoriale dei movimenti bancari straordinari può aiutare: ad anni di distanza, ricordarsi cos’era un versamento di 7.584 € può essere arduo. Annotare su un prospetto “in data X versati contanti provenienti dalla vendita moto usata” e conservare eventuale atto, sarà prezioso in caso di verifica.
Accertamento sintetico delle persone fisiche (redditometro)
Veniamo ora all’accertamento sintetico del reddito complessivo, il cosiddetto redditometro. Questo strumento mira a combattere l’evasione dei contribuenti persone fisiche non basandosi sulle scritture contabili (spesso assenti per lavoratori dipendenti o rentiers), ma tramite l’analisi del tenore di vita e della capacità di spesa. In pratica, se una persona fisica manifesta (con le sue proprietà e spese) una ricchezza incompatibile col reddito dichiarato, il Fisco può determinare un reddito sintetico presunto e chiedere le imposte su quella differenza, a meno che il contribuente provi che la ricchezza deriva da fonti esenti o già tassate.
Base normativa: Art. 38, commi 4-7, DPR 600/1973. Negli ultimi anni questa norma ha subito modifiche significative: – Fino al 2011: il redditometro originario (introdotto negli anni ‘80) considerava certi beni-indice (es. auto di cilindrata elevata, barche, ecc.) a cui associava un reddito presunto forfettario. Era un sistema un po’ grossolano (se hai un’auto da 3000cc, presumiamo che guadagni almeno X). – Dal 2010-2011: fu introdotta una nuova versione basata su una metodologia più analitica: non solo beni posseduti, ma tutte le spese sostenute dal contribuente nel periodo d’imposta. L’idea: se hai speso 50.000 € nell’anno tra mantenimento casa, auto, viaggi, etc., difficilmente puoi aver guadagnato 20.000 € come dichiari. Questa versione fu implementata con il D.M. 24 dicembre 2012 (redditometro di seconda generazione), ma generò controversie (anche per questioni di privacy e metodo statistico). – Stop e riforma (2018-2024): Nel 2018 l’applicazione del redditometro fu sospesa per i periodi dal 2016 in poi, in attesa di nuovi criteri. Nel 2024 il MEF ha emanato un nuovo DM (7 maggio 2024) riattivando il redditometro per gli anni dal 2016 in avanti , introducendo una metodologia rivista e più focalizzata sui casi di grande scostamento . Nel frattempo, il legislatore delegato con D.Lgs. 5 agosto 2024 n.108 ha modificato l’art. 38 DPR 600: ora per procedere sinteticamente serve doppia condizione: che il reddito sintetico ecceda di almeno il 20% quello dichiarato (soglia relativa, invariata) e che ecceda di almeno 10 volte l’assegno sociale annuo (soglia assoluta, circa 70.000 € all’anno attuali). Questo per concentrare i controlli sui redditi medio-alti ed escludere i casi di scostamenti piccoli o redditi bassi . Ad esempio, se dichiaro 20.000 € e il Fisco stima io ne abbia 30.000 (scostamento 50% = >20%, ma reddito sintetico 30k < 70k, quindi niente accertamento). Se invece dichiaro 30.000 e me ne attribuiscono 80.000 (scostamento 167%, reddito sintetico 80k > 70k, quindi scatta). – Prova contraria: la legge (anche prima della riforma) prevede espressamente che il contribuente possa giustificare la differenza di reddito indicando che dipende da redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo d’imposta (es. vincite al gioco esenti, donazioni ricevute, utilizzo di risparmi accumulati in anni precedenti già tassati, ecc.). Se le spiegazioni reggono, l’accertamento dev’essere ridimensionato o annullato. Il nuovo D.Lgs. 108/2024 ha ulteriormente precisato ed elencato le prove contrarie ammissibili, fornendo maggiore chiarezza su come dimostrare che le spese sono state finanziate .
Funzionamento pratico: L’accertamento sintetico parte di solito da un’analisi delle spese note del contribuente: – Spese certe: acquisti di beni mobili registrati (auto, moto, barche), acquisto o leasing di immobili, spese per mutuo, assicurazioni, contributi previdenziali, iscrizioni a club, viaggi pagati con mezzi tracciabili, etc. Sono tutti dati che il Fisco raccoglie tramite l’Anagrafe Tributaria (comunicazioni di banche, assicurazioni, ecc.) . – Spese per elementi posseduti: per alcuni beni di cui uno dispone, se non c’è il dato di spesa effettiva, si stima una spesa presunta di mantenimento (ad es. per un’abitazione di tot mq in città X, spesa presunta annua di Y; per un’auto di cilindrata Z, spesa minima di mantenimento W). Il DM allega tabelle (tabella A e B) con queste soglie di spesa minima per vari beni e nuclei familiari . – Investimenti patrimoniali: acquisto di titoli, incrementi di patrimonio (se compro casa, quello in genere appare come spesa certa). – Spese per consumi: questa è la parte più delicata. Il redditometro versione 2012 prevedeva anche le spese medie ISTAT per generi di consumo (alimentari, abbigliamento) in base alla composizione familiare e area geografica, attribuendole al contribuente salvo prova di spesa diversa . Ciò fu molto criticato (presunzioni generalizzate non sempre calzanti al caso concreto). Il nuovo indirizzo pare volersi concentrare su spese effettive e non stimare tutto col metodo statistico . Tuttavia, restano voci minori dove si può presumere una spesa minima di “sussistenza” se nulla risulta (es. se uno risulta non aver speso nulla per cibo, gliene imputano comunque una minima). – Doppia annualità: la legge prevedeva (pre-riforma) che l’accertamento sintetico potesse farsi se la differenza >20% sussiste per almeno due anni su un triennio. Credo che la riforma abbia eliminato il vincolo della doppia annualità, ma su questo dettaglio va verificato. (In alcuni casi recenti, la Cassazione ha detto che comunque l’ufficio deve guardare a un arco di più anni per vedere se c’è coerenza, specialmente se la spesa è stata fatta attingendo a risparmi degli anni precedenti).
Procedura garantista: Già da anni, per prassi e poi per norme, è richiesto che prima di emettere un accertamento sintetico l’ufficio inviti il contribuente a fornire spiegazioni (invito al contraddittorio). Questa garanzia è ancora più rilevante che negli altri accertamenti, perché qui solo il contribuente può chiarire da dove arrivano i soldi che spende. Infatti, una circolare storica (Circ. Agenzia Entrate 24/E/2013) sanciva che il redditometro deve essere attuato con un contraddittorio obbligatorio e che l’ufficio deve tenere conto delle risposte. Oggi questo è sostanzialmente recepito: con la riforma processuale del 2022, l’assenza di contraddittorio in un redditometro è certamente motivo di nullità (essendo IVA coinvolta se spese soggette, e in ogni caso perché è un atto “a tavolino” dove l’invito è previsto da norma speciale).
Difendersi nel merito: Le contestazioni in un redditometro tipicamente dicono: “Secondo i dati a nostra disposizione, nell’anno X hai avuto spese per €100.000, a fronte di un reddito dichiarato di €30.000. Pertanto, salvo giustificazioni, riteniamo che il tuo reddito effettivo fosse almeno €100.000 (o comunque significativamente superiore al dichiarato).” Come può il contribuente replicare? – Dimostrare che alcune spese non sono state sostenute da lui o in quell’anno: per es. se contestano un acquisto di immobile, ma quell’immobile è stato pagato in parte dai genitori, o con un mutuo (già considerato?), ecc. O se includono spese che in realtà sono di un familiare a carico che però aveva propri redditi esenti. – Dimostrare che le spese sono state finanziate con redditi esenti o già tassati*: questa è la linea principale. Esempi classici: – Uso di *risparmi accumulati in anni precedenti. Se uno aveva capitali (da redditi dichiarati degli anni scorsi, o derivanti da vendite di beni, liquidazioni, eredità…), può averli utilizzati. Occorre provare la disponibilità pregressa: estratti conto a fine anno, etc., che mostrino che uno aveva liquidità. La Cassazione riconosce la validità della prova per tabulas che il patrimonio personale aumentato in un anno proveniva da disinvestimenti o conti esistenti . – Eredità o donazioni ricevute: se un parente ci ha regalato soldi, questo è reddito esente (donazione tassata solo con imposta di registro modica). Servono atti notarili di donazione, o almeno dichiarazione di successione per l’eredità, per quantificare. – Vincite o premi esenti: es. vincita al lotto (esente), risarcimenti danni (spesso esenti da IRPEF), borsa di studio esente, etc. Presentare documenti (ricevute vincita, ecc.). – Redditi soggetti a ritenuta a titolo d’imposta: esempi: interessi bancari già tassati alla fonte, cedole di titoli di Stato esenti, ecc. Se hai vissuto di interessi su BOT già tassati, puoi aver speso di più di quanto dichiari come reddito IRPEF. Dimostrare con documenti bancari l’ammontare di questi redditi esenti. – Alienazione di beni: se hai venduto un immobile, incassato 200.000 €, e li hai spesi per comprare un altro bene, il redditometro potrebbe conteggiare l’acquisto ma tu mostri che i soldi venivano dalla vendita (operazione patrimoniale non tassabile ai fini reddito, se prima casa o trascorsi 5 anni, ecc.). Contratto di compravendita a supporto. – Contestare le spese presunte: se il Fisco ha usato spese medie ISTAT (meno probabile ora), si può contestare che le tue spese effettive erano minori. Ad esempio, se ti imputano 10.000 € annui di alimentari perché famiglia di 4 persone, potresti portare scontrini, ricevute o una contabilità familiare che attesti che in realtà spendi 6.000 € (magari perché hai l’orto e autoproduci cibo!). Oppure se stimano spesa per mantenimento auto, portare prove che quell’auto era ferma (bollo non pagato? revisioni saltate?). – Nucleo familiare e splitting delle spese: chiarire se alcune spese le ha sostenute il coniuge o altri familiari con reddito proprio. Ad esempio, spesa per vacanze: magari l’ha pagata il figlio lavoratore e il padre (accertato) era solo beneficiario. Incontrando l’ufficio si può far presente e portare estratto conto del figlio che ha pagato. – Errori di imputazione temporale: verificare che le spese attribuite siano davvero dell’anno X. A volte contratti rogiti vicini a fine anno generano confusioni. Se hai comprato casa in dicembre 2021 ma il grosso l’hai pagato a gennaio 2022, dovrebbero imputare spesa nel 2022. Quindi controllare e far correggere eventuali errate attribuzioni. – Doppioni o calcoli sbagliati: come sempre, controllare che l’Agenzia non abbia contato due volte la stessa cosa. Ad esempio, se hai comprato auto nuova dando in permuta la vecchia + soldi, devono considerare solo la differenza spesa, non l’intero valore auto nuova. Se non l’hanno fatto, segnalarlo.
Procedura in contraddittorio: Di solito prima di emettere l’avviso, l’ufficio manda un questionario dettagliato o invito a comparire, allegando un prospetto con tutte le spese note e chiedendo spiegazioni. Bisogna rispondere per iscritto e/o verbalmente, entro 60 giorni, fornendo tutta la documentazione possibile delle circostanze sopra elencate. A valle, l’ufficio formulerà (si spera) un accertamento tenendo conto di alcune spiegazioni accettate e contestando il resto.
Onere della prova in giudizio: come evidenziato dalla Cassazione, una volta che il Fisco dimostra le spese sostenute (o i beni posseduti), è il contribuente che deve provare che non sono indice di maggior reddito . Questo è un tipico caso di onere probatorio a carico del contribuente, ma mitigato dalla possibilità di prova contraria ampia. Le dichiarazioni di terzi (es. genitori che attestano di aver dato soldi) sono ammesse ma hanno valore indiziario , per cui è meglio corredarle con evidenze oggettive (movimenti bancari, etc.). La Cassazione ha anche aggiunto che il giudice deve valutare l’attendibilità di tali dichiarazioni (valutano se i testimoni sono parenti stretti, quindi interessati) .
Limiti: Il redditometro non colpisce redditi d’impresa o di lavoro autonomo direttamente, ma solo il reddito complessivo della persona. Quindi se Tizio ha un’impresa, l’accertamento sintetico è una strada alternativa (non possono sommare i due per stesso anno se riguardano la stessa base). In genere l’Agenzia sceglie: se è un imprenditore, di solito usano gli accertamenti analitico-induttivi in capo all’azienda; il redditometro lo usano per persone con redditi dichiarati modesti ma elevato tenore che non hanno una contabilità su cui intervenire (es. nullatenenti con Ferrari, dipendenti con yacht, etc.).
Attualità 2025: Come detto, la nuova normativa ha reintrodotto il redditometro per gli anni dal 2016 in poi, ma l’attuazione è in corso di assestamento (il decreto 2024 è stato subito sospeso per ulteriori approfondimenti a seguito di polemiche politiche ). Ci si aspetta che entro il 2025 il MEF reintroduca il redditometro in forma “mirata”: colpire i casi macroscopici, tutelando situazioni familiari particolari e rispettando la privacy. Ad esempio, potrebbero escludere dal conteggio alcune spese sensibili (già nel DM 2012 si decideva di non considerare spese per cure mediche, per evitare di stimare redditi su chi spende molto in sanità).
Difesa in giudizio: è molto importante presentare al giudice in modo chiaro le prove documentali che i fondi usati per le spese contestate provenivano da fonti non tassabili. Il giudice non annullerà l’accertamento solo perché “non è detto che abbia guadagnato in nero”, vuole vedere evidenze concrete di dove ha preso i soldi. Se ad esempio su €100k di spese noi documentiamo: – €30k provenienti da un vecchio conto risparmi, – €20k da una donazione dello zio, – €10k da vincite, – €15k da rimborso assicurativo, – il residuo €25k potrebbe dire: ok, per 75k hai provato fonti esenti, per 25k no, quindi su 25k paghi le tasse (magari arrotondando su equità). È quindi spesso una questione di quantificare e ridurre l’imponibile sintetico, se non si può azzerare.
Esempio pratico di difesa redditometro: Il sig. Verdi dichiara redditi per €20.000 annui come piccolo commerciante. Però risulta che nel 2022 ha comprato una barca da 8 metri (costo €50.000) e ha una villa di proprietà con piscina (manutenzione stimata €10.000/anno) e due auto di grossa cilindrata (costo mantenimento €8.000/anno). Il Fisco stima una capacità di spesa di almeno €80.000. Verdi in contraddittorio spiega: – La barca l’ha pagata vendendo un terreno agricolo ereditato (allega atto di vendita €60.000, esente da IRPEF). – La villa è ereditata dai genitori, non ha spese di mutuo (la manutenzione effettiva la fa lui stesso, spende poco). – Una delle due auto è aziendale (dedotta in parte nei costi d’impresa) e l’altra è in realtà intestata a lui ma usata dal fratello, il quale gli dà soldi per mantenerla (dichiarazione del fratello e bonifici periodici €500/mese). – Presenta estratto conto dove a inizio 2022 aveva €40.000 risparmi, a fine 2022 rimasti €5.000 (quindi ha attinto €35.000 di risparmi per spese generali). Alla fine, l’Agenzia magari riconosce quasi tutto e annulla l’accertamento, o in giudizio il giudice vede che non c’è materia imponibile ulteriore (perché spese tutte coperte da fonti non reddituali).
Insomma, la difesa nel redditometro è un po’ come un rendiconto finanziario personale: spiegare entrate e uscite. È un esercizio complesso ma vincente se il contribuente è trasparente e ha documentazione. Al contrario, chi mente (es. dice “me li ha dati papà” ma poi papà non conferma o non li aveva) rischia grosso: i giudici non hanno remore ad avallare l’accertamento se le giustificazioni appaiono artificiose.
Strumenti difensivi nella fase amministrativa e contenziosa
Dopo aver analizzato le varie tipologie di accertamento presuntivo e le relative strategie di merito, è utile riepilogare i principali strumenti procedurali a disposizione del contribuente per difendersi efficacemente, distinguendo tra la fase amministrativa (pre-contenzioso) e la fase del contenzioso tributario vero e proprio.
Fase amministrativa (prima dell’impugnazione)
In questa fase l’obiettivo è ridurre o evitare l’emissione dell’avviso di accertamento, o comunque preparare il terreno per una difesa migliore in seguito. Gli strumenti e iniziative includono:
- Contraddittorio endoprocedimentale: come già sottolineato, consiste nel replicare alle contestazioni prima che l’atto sia emesso. Se la verifica è avvenuta con accesso (GdF in azienda), sfruttare i 60 giorni dal PVC per inviare osservazioni scritte che smontino le presunzioni dei verificatori. Se l’ufficio invia un invito a comparire o questionario, rispondere in modo accurato e documentato, eventualmente presentandosi di persona (col proprio consulente) per spiegare. Tutto ciò può indurre l’ufficio a archiviare il caso o a ridimensionarlo. Inoltre, mette a verbale le nostre difese, che saranno poi valutate dal giudice (e la loro eventuale mancata considerazione dall’ufficio può esserci utile in giudizio).
- Istanze di autotutela: se ci si rende conto che l’ufficio sta per commettere un errore palese (es. sta conteggiando due volte una cosa o applicando una norma sbagliata), inviare subito un’istanza di autotutela con spiegazione. L’autotutela è il potere dell’amministrazione di annullare o correggere atti illegittimi o infondati di propria iniziativa. In realtà difficilmente un ufficio accoglie autotutela prima ancora di emanare l’atto (semplicemente ne terrà conto, forse, nel definire l’atto). Ma presentarla può essere utile per far emergere errori grossolani e segnalare che siamo vigili.
- Accertamento con adesione: previsto dal D.Lgs. 218/1997, è un importantissimo strumento deflattivo. Può essere attivato dopo il ricevimento di un P.V.C. o di un avviso di accertamento (ma prima di impugnarlo). Si formalizza presentando un’istanza di adesione all’ufficio; a quel punto i termini per fare ricorso si sospendono per 90 giorni e si instaura una trattativa con l’ufficio. Nel contraddittorio dell’adesione, il contribuente può portare nuovi elementi, chiedere riduzioni, transigere su alcuni punti. Se si trova un accordo, si sottoscrive un atto di adesione che fissa l’imponibile concordato e le imposte dovute, con sanzioni ridotte a 1/3 delle minime (molto conveniente rispetto al 100% o più normale). Poi si paga quanto dovuto (rateizzabile in max 8 rate trimestrali). Se la trattativa fallisce, l’adesione si chiude senza esito e il contribuente ha ancora 60 giorni per ricorrere (gli originali 60 + la sospensione di 90). Quando conviene aderire? Quando le pretese dell’ufficio hanno una base parzialmente solida e il rischio in giudizio è elevato. Nell’ambito presuntivo, ad esempio, se il contribuente non ha documentazione per difendersi e l’ufficio propone di togliere qualcosa ma mantenere un certo imponibile, potrebbe essere opportuno accettare per chiudere lì la vicenda evitando sanzioni piene e ulteriori spese. Viceversa, se si ritiene di avere ottime prove per annullare l’atto, meglio non aderire e andare in giudizio. È una valutazione caso per caso, dove pesa anche l’aspetto psicologico del contribuente (alcuni preferiscono pagare qualcosa purché finire presto, altri vogliono combattere per principio).
- Reclamo e mediazione tributaria: per gli atti di valore contestato fino a €50.000, è obbligatorio, prima di giungere in giudizio, presentare un reclamo-mediazione all’ufficio (art.17-bis D.Lgs. 546/92). In pratica, il contribuente deposita il ricorso presso l’Agenzia delle Entrate stessa, formulando eventualmente una proposta di mediazione (es. accettare un certo imponibile minore). L’ufficio locale, entro 90 giorni, può accogliere parzialmente o integralmente il reclamo (annullando/riducendo l’atto) oppure proporre una mediazione (rideterminazione con sanzioni ridotte al 35% del minimo) . Se il contribuente la accetta, la controversia si chiude; se non c’è accordo, il ricorso prosegue automaticamente in Commissione Tributaria. La mediazione è simile all’adesione ma avviene su un binario un po’ diverso (e solo per liti minori). Nelle questioni di principio (es: “non ho evaso nulla, voglio annullamento totale”) di solito la mediazione non va a buon fine; ma se la questione è quantitativa, tentare una mediazione può portare a un buon compromesso (risparmiando tempo e spese).
- Rateizzazione prima del ricorso (acquiescenza): se il contribuente ritiene di non voler fare ricorso, può avvalersi dell’istituto dell’acquiescenza all’accertamento (sempre D.Lgs.218/97): significa pagare entro 60 giorni e ottenere la riduzione delle sanzioni ad 1/3 (simile all’adesione, ma senza contrattazione). In pratica è come dire: non litigo, però datemi lo sconto sanzioni. Questa scelta va valutata se l’atto è “chiuso”, ovvero se l’ufficio non intende scendere a patti e il contribuente preferisce evitare contenziosi.
- Sospensione della riscossione in via amministrativa: se l’accertamento diventa definitivo (dopo i 60 giorni senza ricorso né adesione), o se è esecutivo (gli avvisi odierni lo sono – possono essere iscritti a ruolo 1/3 subito anche se si ricorre), il contribuente può chiedere all’Agente della riscossione o all’ufficio di sospendere la riscossione in attesa dell’esito del ricorso se ci sono validi motivi (ad esempio, errore evidente nell’atto). Spesso però l’ente nega la sospensione amministrativa e allora bisogna chiedere quella giudiziale.
In sintesi, nella fase pre-contenziosa il contribuente ha chance di negoziare un esito più favorevole (adesione, mediazione) o di mettere in luce elementi che magari l’ufficio non conosceva (contraddittorio). È sempre consigliabile, quando possibile, tentare il dialogo: anche solo per capire meglio la posizione avversaria e tarare la successiva difesa. Tuttavia, non si deve nemmeno cedere a compromessi troppo svantaggiosi per paura del processo: bisogna valutare razionalmente, magari col parere di un legale esperto, le probabilità di vittoria e i costi/benefici.
Fase del contenzioso (ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria)
Se la fase amministrativa non ha risolto la questione in modo soddisfacente, il contribuente può presentare ricorso contro l’avviso di accertamento (o atto equivalente) entro 60 giorni dalla notifica (salvo sospensioni per adesione/mediazione). La controversia entra così nella fase giurisdizionale davanti alle Corti di Giustizia Tributaria (di primo e secondo grado, ex Commissioni tributarie) e, eventualmente, fino in Cassazione.
Principali aspetti e strumenti in questa fase:
- Redazione del ricorso e motivi: il ricorso introduttivo deve contenere i motivi di fatto e di diritto per cui si chiede l’annullamento/riforma dell’atto. Nel caso di accertamenti presuntivi, i motivi tipici saranno: violazione di legge (es. se l’ufficio ha applicato norme presuntive in assenza dei presupposti, o non ha rispettato lo Statuto del contribuente), vizio di motivazione (se l’atto non spiega adeguatamente il calcolo e gli indizi, anche se su questo le soglie di annullabilità sono alte: serve motivazione del tutto mancante o apparente), errata valutazione dei fatti (contestazione del merito delle presunzioni: qui si inseriscono tutte le argomentazioni di inattendibilità delle prove dell’ufficio e presentazione delle proprie prove contrarie). È cruciale che il ricorso sia dettagliato e supportato da documenti. Allegare fin da subito tutta la documentazione probatoria (o indicarla se voluminosissima) è la chiave nel tributario, perché il giudice decide tendenzialmente sugli atti scritti depositati.
- Richiesta di sospensione giudiziale: L’impugnazione dell’atto non sospende automaticamente la riscossione delle somme (per gli atti emessi dal 2011 in poi, l’accertamento è esecutivo: dopo 60 giorni l’Agenzia può iscrivere a ruolo un terzo del tributo a titolo provvisorio). Per evitare di dover pagare durante il processo, il contribuente può presentare un’istanza di sospensione dell’esecuzione al Presidente della sezione tributaria, solitamente contestuale al ricorso. Deve provare grave e irreparabile danno (es. che pagare lo manderebbe in crisi di liquidità irreversibile) e fumus boni iuris (i motivi di ricorso non sono pretestuosi, c’è parvenza di fondatezza). Nei casi di accertamenti presuntivi molto elevati, se il contribuente ha modeste capacità finanziarie, spesso la sospensione viene concessa (il danno sarebbe dover versare cifre ingenti che poi magari verrebbero restituite anni dopo). La sospensione inibisce l’attività di riscossione coattiva finché la causa pende in primo grado (o fino a sentenza, a seconda). Se negata, si può rifare istanza in appello eventualmente.
- Fase istruttoria: nel processo tributario non c’è una vera discovery come nel civile, ma il contribuente può depositare memorie aggiuntive (entro certi termini) per replicare a controdeduzioni dell’ufficio, e per portare eventuali nuove prove che emergessero. È ammessa la prova testimoniale solo in forma di dichiarazioni rese fuori dal giudizio (scritti di terzi, come visto). Non c’è esame di testimoni in udienza. Si possono però chiedere informazioni alla PA (in questo contesto raramente rilevante) o CTU (consulenza tecnica d’ufficio) se la controversia lo necessita (es. per ricostruire redditi in base a scritture mal tenute, a volte i giudici nominano un perito contabile). Spesso però i giudici tributari decidono sulla base degli atti documentali senza ulteriori approfondimenti.
- Discussione in udienza: le parti possono comparire all’udienza pubblica e illustrare sinteticamente la causa. È importante enfatizzare i punti chiave: nel nostro caso, ad esempio, far notare eventuali violazioni di diritto (mancato contraddittorio, ecc.), ma soprattutto guidare il collegio attraverso i documenti chiave che provano la nostra versione (es: “Signori giudici, come da doc. 5, il bonifico di €50.000 proveniva dal conto del padre, quindi non è un ricavo occulto…”). Spesso le cause tributarie vengono decise in camera di consiglio senza vera discussione: per questo è fondamentale che tutto sia già chiaro e documentato negli scritti.
- Sentenza di primo grado: può dare ragione piena al contribuente (annullando l’atto, a volte con condanna alle spese a carico dell’ufficio), ragione parziale (annullamento parziale, es. riduce imponibile ma non annulla tutto), oppure rigettare il ricorso. In caso di accoglimento parziale, di solito le spese vengono compensate o ridotte.
- Appello: sia il contribuente che l’ufficio possono appellare la decisione di primo grado se sfavorevole. L’appello va presentato entro 60 giorni dalla notifica della sentenza. Nelle controversie con valore sotto €3.000 non è ammesso appello da parte dell’Agenzia (limite introdotto per ridurre contenzioso bagatellare). Nel giudizio di appello (Corte di Giustizia Trib. di secondo grado) si possono portare nuovi documenti (è in parte un “novum iudicium” anche se le domande devono essere quelle già poste).
- Pagamenti in pendenza di giudizio: Attenzione, se in primo grado il contribuente perde, per fare appello deve versare le somme dovute per effetto della sentenza impugnata (se la sentenza conferma l’atto intero, va versato in genere il 50% del tributo accertato, oltre a quello già versato come 1/3; se la sentenza riduce, si paga quanto da essa stabilito). Questo è un meccanismo di “condono provvisorio” per scoraggiare appelli meramente dilatori. Si può chiedere in appello la sospensione dell’esecutività della sentenza (cioè di non pagare nel frattempo) se ci sono gravi motivi.
- Ricorso in Cassazione: dopo l’appello, la parte soccombente (o parzialmente) può ricorrere in Cassazione solo per motivi di diritto (violazione di legge o vizi di motivazione della sentenza di appello entro limiti molto stringenti). Non si rivedono i fatti: quindi, ad esempio, se il giudice di merito ha ritenuto attendibile una certa prova del contribuente e annullato l’atto, è difficile ribaltare in Cassazione perché è valutazione di fatto. Ma se ci sono questioni di principio – es. la portata di una presunzione legale, l’applicazione del contraddittorio – allora la Cassazione può intervenire e dire l’ultima parola. Negli anni recenti ci sono state diverse pronunce di legittimità importanti su questi temi, come abbiamo visto (Cass. SU 24823/2015 su contraddittorio, Cass. su costi forfettari 2025, etc.). Per il ricorso in Cassazione, è obbligatorio farsi assistere da un avvocato abilitato alle giurisdizioni superiori.
- Esecutività e riscossione: la legge ora prevede che dopo la sentenza di appello, se ancora non definitiva (pende Cassazione), intanto l’esito di appello è esecutivo. Ciò significa che se il contribuente vince in appello, l’amministrazione deve rimborsargli quanto eventualmente pagato (con interessi); se perde, deve pagare il resto dovuto. Se poi la Cassazione ribalta tutto, si faranno ulteriori conguagli. È un meccanismo un po’ complicato ma serve a evitare che si arrivi a fine terzo grado con tutto congelato.
Costi del contenzioso: Da valutare anche questo nella strategia difensiva. Impugnare un accertamento comporta costi: – Il contributo unificato per il ricorso (dipende dal valore della lite, potrebbe essere qualche centinaio di euro per liti di medio valore). – L’onorario di professionisti (se ci si avvale di avvocato e/o commercialista). – Eventuali spese di CTU se disposte (di solito a carico di chi perde, ma il giudice può anche metterle provvisorie). – Possibile condanna alle spese in caso di soccombenza (anche se in tributario spesso si compensano le spese, ma con le riforme recenti la condanna sta diventando più comune, soprattutto se c’è soccombenza totale).
Per contro, se si vince, si può chiedere la rifusione delle spese (che il giudice liquiderà con criterio di solito equitativo). La rifusione copre in parte i costi legali ma raramente al 100%. Quindi economicamente, fare causa conviene se le somme in ballo sono significative e/o la probabilità di vincere è alta. Per liti piccole, a volte il gioco non vale la candela e per questo c’è la soglia dei 50k per mediazione, etc., per provare a chiudere prima.
Casi particolari: Nel corso del giudizio potrebbero intervenire: – Definizioni agevolate: il legislatore ogni tanto propone “pace fiscale” o condoni. Ad esempio, definizione delle liti pendenti pagando un certo % del dovuto. Il contribuente valuterà se aderire (se ha perso in primo grado potrebbe pagare una percentuale bassa ed evitare rischi in appello). Questi strumenti sono variabili e vanno colti se appaiono. – Transazione fiscale: è rarissima in cause tributarie, ma in appello è possibile proporre una conciliazione giudiziale (con sanzioni ridotte al 50%). Ci vuole accordo di entrambe le parti. Spesso dopo un primo grado, le parti a volte preferiscono accordarsi evitando il rischio Cassazione. È facoltativa.
In conclusione, la fase contenziosa è tecnica e scandita da termini precisi e regole procedurali. Affidarsi a professionisti competenti è essenziale per navigarla con successo, specialmente in casi complessi come gli accertamenti induttivi che mescolano aspetti fattuali (dati contabili, perizie) e aspetti giuridici (interpretazione di presunzioni, diritti del contribuente). Un avvocato tributarista esperto saprà enfatizzare i punti di diritto favorevoli (nullità per vizi procedurali, eccezioni di costituzionalità se del caso, giurisprudenza di legittimità rilevante) mentre un commercialista potrà supportare sul piano tecnico-contabile (ricostruzioni alternative, relazioni di congruità, ecc.). Spesso il team ideale è avvocato + commercialista che collaborano, specie in contenziosi di alto valore.
Di seguito, presentiamo due tabelle riepilogative utili: la prima sui vari tipi di accertamento e relative caratteristiche/difese, la seconda sugli strumenti difensivi e i loro effetti.
Tabella 1: Tipologie di accertamento presuntivo – presupposti e difese
Metodo di accertamento | Presupposti principali | Caratteristiche | Difese chiave del contribuente |
---|---|---|---|
Induttivo “puro” (extracontabile) | – Contabilità inesistente o totalmente inattendibile (omessa dichiarazione, libri non tenuti o falsi gravi) <br> – Omissioni/false indicazioni radicali nei dati contabili (art.39 c.2 DPR 600/73)<br> – Gravi violazioni formali ripetute | – L’Ufficio prescinde dalle scritture contabili <br> – Determina reddito con qualsiasi dato (anche indizi non gravi) <br> – Ampio uso di coefficienti, medie di settore, indagini terze<br> – Onere prova spostato sul contribuente <br> – Deducibilità costi forfettari ammessa (per equità) | – Negare condizioni per induttivo puro (se irregolarità non così gravi)<br> – Contestare la quantificazione: parametri troppo alti, situazione particolare (portare dati concreti aziendali)<br> – Fornire prova contraria anche presuntiva: es. margine inferiore, costi occultati da dedurre <br> – Sfruttare contraddittorio per spiegare anomalie prima dell’atto<br> – Eccepire eventuale mancato rispetto procedure (PVC, ecc.) |
Analitico-induttivo (misto) | – Contabilità formalmente tenuta, ma con dati inattendibili parziali<br> – Gravi incongruenze ricavi/costi rispetto a caratteristiche attività (es. ricavi dichiarati molto inferiori a studi di settore/ISA) <br> – Inesattezze o falsità riscontrate su alcune voci (es. costi fittizi, differenze inventariali) | – L’Ufficio rettifica alcune poste di reddito usando presunzioni semplici (gravi, precise, concordanti) <br> – Mantiene valida il resto della contabilità “sana”<br> – Tipico per antieconomicità (margini esigui, perdite perenni) e disallineamenti con dati terzi<br> – Onere prova poi sul contribuente di dimostrare regolarità operazioni | – Spiegare le incongruenze con ragioni economiche: crisi di settore, politiche sconto, eventi eccezionali (documentarli!)<br> – Dimostrare dati reali: es. fornire inventari per giustificare magazzino, contratti per provare prezzi bassi volutamente<br> – Contestare presunzioni deboli: scostamenti lievi non gravi, medie non applicabili al caso<br> – Chiedere riconoscimento costi sui ricavi presunti (nuovo orientamento) <br> – Utilizzare accertamento con adesione se opportuno per ridurre sanzioni con accordo |
Sintetico (redditometro) | – Persona fisica con spese patrimoniali/di consumo nettamente superiori al reddito dichiarato (scostamento >20% per almeno 2 anni, ora anche >10x assegno sociale) <br> – Dati su spese certe (es. acquisti case, auto) o indice di ricchezza (proprietà di beni di lusso) <br> – Non importa contabilità (riguarda reddito complessivo PF) | – Determina reddito presunto = spese sostenute + risparmi incrementati nell’anno <br> – Considera spese note + spese stimate per beni posseduti <br> – Doppia soglia dal 2024: >20% e sopra €~70k reddito sintetico <br> – Obbligo di invito al contraddittorio prima dell’atto (diritto al contraddittorio molto forte qui) | – Dimostrare fonti non tassabili che hanno finanziato le spese: es. utilizzo di risparmi pregressi, donazioni, eredità, vincite esenti <br> – Documentare tutte le spese: eliminare errori (spese attribuite due volte o a persona sbagliata)<br> – Provare che alcune spese sono state sostenute da terzi (es. familiari) o con redditi già tassati (es. TFR, redditi soggetti a cedolare, etc.)<br> – Contestare eventuali spese presunte non aderenti al caso reale (dimostrare consumi effettivi minori, stile di vita frugale su certe voci)<br> – Eccepire violazione contraddittorio se l’ufficio non ha ascoltato le giustificazioni (specie per IVA su redditi determinati) |
Tabella 2: Strumenti difensivi e deflattivi – fase pre-contenziosa e contenziosa
Strumento / Fase | Descrizione | Effetto sulle sanzioni e riscossione | Note |
---|---|---|---|
Contraddittorio endoprocedimentale (pre-atto) | Replica alle contestazioni prima dell’emissione avviso (es. memorie dopo PVC, risposta a questionario, comparizione su invito) | – (non direttamente sulle sanzioni, ma può evitare l’atto o farlo ridurre) <br> Riscossione: n/a (atto non ancora emesso) | Fondamentale: presentare per iscritto osservazioni e documenti. Se ignorate dall’ufficio, può essere motivo di ricorso (per IVA certamente, per imposte dirette principio in evoluzione) . |
Accertamento con adesione (post-notifica avviso o PVC) | Procedura di negoziazione con l’ufficio: si concorda imponibile e imposte dovute. | Sanzioni ridotte a 1/3 del minimo ; <br> Riscossione: l’adesione sospende 60gg ricorso + 90gg trattativa; poi pagamento importi concordati (rate fino a 8 trimestri). | Istanza entro 60gg da notifica atto (o 30gg da PVC). Se adesione perfezionata, si chiude la lite. Se fallisce, si ricorre (60gg riprendono). Conveniente se si vuole evitare processo e c’è margine per ottenere sconto imponibile. |
Reclamo/Mediazione (ricorso < €50k) | Ricorso va prima presentato all’Ente impositore come reclamo; l’ente può accogliere o proporre mediazione entro 90gg. | Se mediato accordo: sanzioni ridotte al 35% del minimo (agevolazione mediazione). <br> Riscossione: sospesa durante 90gg. | Obbligatorio per liti minori. L’ufficio spesso in accertamenti presuntivi difende l’atto, ma potrebbe offrire riduzione se la posizione contribuente è in parte fondata. |
Ricorso e processo tributario (1° grado) | Impugnazione avanti Giustizia Tributaria entro 60gg dall’atto (o esito negativo mediazione). Si avvia giudizio. | Sanzioni piene in sentenza se atto confermato (giudice può ridurre/excludere sanzioni se ricorrente aveva buona fede). <br> Riscossione: Atto esecutivo – l’AdE può esigere 1/3 imposte dopo 60gg. Possibile chiedere sospensione giudiziale al giudice (in caso di grave danno e fumus) per evitare pagamento fino a sentenza . Pagato 1/3, il resto sospeso ex lege fino esito 1° grado. | Necessaria assistenza tecnica (se valore > €3.000). Il giudice decide su legittimità e merito. Fondamentale depositare prove a sostegno delle tesi difensive. Sentenza può annullare, ridurre o confermare accertamento. |
Appello (2° grado) | Impugnazione sentenza di 1° grado entro 60gg. Riesame da parte Corte Giust. Trib. reg. | Sanzioni: adeguate all’esito in appello (se imponibile ridotto/aumentato). <br> Riscossione: se contribuente ha perso in 1° grado, deve versare quanto dovuto dopo la sentenza (tipicamente altri 1/3) per poter appellare. Possibile chiedere sospensione esecutività sentenza in appello. Se vince contribuente in 1°, l’AdE rimborsa quanto riscosso provvisoriamente. | In appello non si possono introdurre nuovi motivi, ma si possono produrre nuovi documenti e prove se pertinenti. L’appello rivede sia fatti che diritto (entro limiti dei motivi d’appello). |
Ricorso in Cassazione (legittimità) | Impugnazione in Corte di Cassazione per violazione di legge o vizi motivazione sentenza d’appello. | Sanzioni: come da esito finale. <br> Riscossione: la sentenza d’appello è esecutiva. Se contribuente perde in appello, deve pagare il residuo dovuto. Se Cassazione poi ribalta, si ha diritto a rimborso. Viceversa, se contribuente aveva vinto e incassato rimborso, e Cassazione ribalta a sfavore, dovrà restituire. | Serve avvocato cassazionista. Cassazione non rivaluta i fatti, quindi le presunzioni in sé raramente sono oggetto (a meno di errori giuridici: es. onere della prova mal applicato, principio presunzioni legali disatteso, ecc.). Cassazione può confermare, cassare con rinvio, o cassare senza rinvio (raramente definisce nel merito se servono accertamenti fatti). |
Conciliazione giudiziale (in corso di processo) | Le parti possono accordarsi in qualsiasi fase del processo (1° o 2° grado) per chiudere parzialmente o totalmente la lite. | Sanzioni ridotte al 50% del minimo (se conciliazione in 1° grado) o 60% (se in appello). <br> Riscossione: si versa quanto concordato, stop ulteriori atti. | Poco usata se non in appello avanzato, quando entrambe le parti vogliono evitare rischi Cassazione. Va formalizzata con istanza congiunta e decreto del giudice che estingue la lite. |
Domande frequenti sull’accertamento presuntivo (FAQ)
D: In cosa consiste esattamente una “grave incongruenza” nei ricavi che giustifica un accertamento?
R: Non esiste una definizione aritmetica unica. In generale, per “grave incongruenza” si intende uno scostamento molto significativo tra quanto dichiarato e quanto atteso in base a parametri oggettivi. Ad esempio, ricavi dichiarati inferiori del 30-40% (o più) rispetto agli studi di settore/ISA applicabili, oppure un indice di ricarico o di redditività anomalo rispetto alla media (come un margine lordo del 10% in un settore dove tutti operano al 50%). La Cassazione ha chiarito che lo scostamento deve essere notevole e ingiustificato per essere definito “grave” . Inoltre deve perdurare o essere supportato da più elementi concordanti. Ad esempio, uno scostamento del 5-10% in un solo anno di crisi probabilmente non è grave incongruenza; uno scostamento del 30% costante per più anni lo è. Molte circolari dell’Agenzia avevano indicato una soglia indicativa del 10% (per studi di settore) o 33% (per parametri), ma oggi si valuta caso per caso.
D: Se la mia contabilità è formalmente regolare, possono farmi un accertamento induttivo lo stesso?
R: Sì. La regolarità formale dei conti (registri tenuti, bilanci depositati) non è una garanzia assoluta. Se emergono dati extracontabili o analisi economiche che mostrano incongruenze, l’Agenzia può rettificare il reddito anche con contabilità regolare . Si tratterà di un accertamento analitico-induttivo, non di quello “puro” che richiede irregolarità gravi. Ma ad esempio, se dichiaro utili bassissimi ogni anno e l’azienda sopravvive in perdita costante (cosa antieconomica), l’ufficio può presumere che parte dei ricavi sfugga. Ovviamente dovrà motivare l’atto spiegando queste incongruenze. In sintesi: conti in ordine ma numeri inverosimili possono comunque portare ad un accertamento per ricavi presunti.
D: Possono usare i movimenti sul mio conto corrente personale per accertare la mia ditta individuale?
R: Sì. Per legge (art. 32 DPR 600/73) i conti correnti intestati al contribuente – persona fisica o impresa – possono essere investigati e i movimenti non giustificati diventano presunzione di ricavi. Se hai una ditta individuale, tu e l’azienda siete lo stesso soggetto, quindi i tuoi conti personali sono rilevanti. In pratica, spesso l’Agenzia guarda tutti i conti riferibili al contribuente (anche cointestati con familiari). Versamenti inspiegati su un conto personale del titolare possono essere imputati a ricavi non dichiarati dell’impresa. Discorso diverso per una società: in teoria conta il conto societario, ma l’ufficio può controllare anche i conti dei soci e amministratori; se trovano accrediti ai soci (non giustificati da utili dichiarati o altro) possono ipotizzare utili extra distribuiti, ecc. Quindi, di fatto, i conti personali entrano in gioco. Sarà poi fondamentale fornire spiegazioni per separare ciò che è reddito dell’impresa da ciò che magari è altro (es. un prestito ricevuto a titolo personale, non un ricavo di vendita).
D: Ho ricevuto un avviso di accertamento basato sugli studi di settore per anni passati: ora che ci sono gli ISA, posso contestare la validità?
R: L’entrata in vigore degli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità) dal 2019 non rende automaticamente illegittimi gli accertamenti basati sugli Studi di Settore per annualità precedenti. Per gli anni fino al 2015 (ultimo anno di applicazione effettiva degli studi) resta valida la normativa dell’epoca: l’ufficio poteva accertare se c’era grave incongruenza ai sensi dell’art. 62-sexies D.L. 331/93. In giudizio però si può utilizzare la giurisprudenza maturata: la Cassazione richiede che lo scostamento non sia “qualsiasi” ma significativo e che l’ufficio abbia svolto il contraddittorio con il contribuente (cogliendo eventuali sue giustificazioni) . Se ciò non è avvenuto, si può eccepire. Dunque, il fatto che gli studi siano stati superati dagli ISA può essere usato politicamente per dire che erano strumenti imperfetti; ma sul piano legale ciò che conta è se l’accertamento è stato condotto rispettando le regole all’epoca vigenti. Ad esempio, per il 2015 l’ufficio doveva invitare al contraddittorio e rilevare uno scostamento importante (superiore al 10% di norma). Se non l’ha fatto, il contribuente può far leva su questo per farsi annullare l’atto.
D: L’Agenzia delle Entrate mi ha proposto di definire con adesione riducendo un po’ i maggiori ricavi. Se firmo, poi posso impugnare?
R: No. L’Accertamento con adesione è una forma di definizione stragiudiziale e irrevocabile. Firmando l’atto di adesione, il contribuente riconosce i maggiori imponibili concordati; in cambio ottiene la riduzione sanzioni e rateazione. Ma rinuncia a impugnare l’atto (difatti l’accertamento non viene nemmeno emesso, o se emesso viene sostituito dall’atto di adesione). Dunque, se aderisci non puoi poi cambiare idea e fare ricorso: l’adesione una volta perfezionata (firma + pagamento prima rata) chiude definitivamente la partita per quell’anno e imposta. Quindi occorre aderire solo se si è convinti dell’accordo raggiunto. Se l’ufficio “propone” informalmente e non sei convinto, puoi sempre non aderire e andare avanti col ricorso. Esiste per la verità una finestra in cui il contribuente può recedere: dopo aver firmato ma prima di pagare, l’adesione non è perfezionata – in teoria potresti decidere di non pagare e impugnare l’originario avviso (ma bisogna fare attenzione ai termini). Meglio non firmare se non si è sicuri.
D: In caso di accertamento, a chi spetta dimostrare l’evasione o la correttezza dei conti?
R: In generale, negli accertamenti presuntivi l’onere della prova iniziale è del Fisco, ma una volta forniti indizi seri, si sposta sul contribuente. Più in dettaglio: l’Agenzia deve avere elementi per poter emettere l’atto (non può inventare ricavi a caso). Questi elementi possono essere presunzioni (es. studi settore, conti bancari, incongruenze varie). Se l’ufficio rispetta i requisiti di legge (presunzioni semplici ma con gravità, oppure presunzioni legali come i versamenti bancari), allora si forma una presunzione di evasione. A quel punto, sta al contribuente provare il contrario. Ad esempio, la Cassazione dice: trovato un indice di inattendibilità e fatta la ricostruzione, “null’altro l’ufficio deve provare” e “grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni” . Quindi, concretamente in giudizio il contribuente diventa attore nel dover dimostrare fatti a sua difesa (ciò invertendo il normale onere probatorio civile). In materia tributaria questo è ammesso in virtù delle presunzioni legali relative. Ovviamente, se il contribuente porta prova contraria convincente, l’onere può ribaltarsi di nuovo e l’Ufficio dovrà eventualmente replicare o fornire ulteriori elementi. Ma se il contribuente non prova nulla, la presunzione regge da sola come prova. Dunque: all’inizio prova l’ufficio l’indizio, poi prova il contribuente la smentita.
D: Se in giudizio vinco (annullano l’accertamento), ho diritto a un risarcimento per i danni o le spese subite?
R: In linea di massima, l’ordinamento non prevede un risarcimento per il fatto di aver subito un accertamento infondato. Si ha diritto però al rimborso di quanto eventualmente pagato in pendenza di giudizio (imposte, sanzioni, interessi versati a titolo provvisorio) con interessi. Inoltre, il giudice può condannare l’Agenzia delle Entrate a rifondere le spese di lite (onorari del difensore, contributo unificato, ecc.) se il contribuente vince completamente. Spesso però le Commissioni disponevano la compensazione (ognuno paga le proprie spese) soprattutto in caso di questioni controverse. Dal 2023 la legge (art. 15 cpc applicabile) tende a richiedere la condanna alle spese della parte soccombente, quindi è più probabile ottenere il pagamento delle spese legali. Per danni ulteriori (es. un accertamento ingiusto mi ha fatto perdere un finanziamento, o mi ha causato stress), è molto difficile ottenere qualcosa: bisognerebbe intentare una causa per risarcimento danni da atto impositivo illegittimo, ma giurisprudenza e legge sono molto protettive verso l’Erario salvo casi di malafede o colpa grave dell’ufficio (art. 7 Statuto Contribuente prevede responsabilità solo in quei casi). Pertanto, nella pratica, no, non c’è un risarcimento generale se vinci – la tua soddisfazione sarà non dover pagare le imposte non dovute e farti restituire i soldi eventualmente versati, più al massimo le spese processuali.
D: La Guardia di Finanza in verifica mi ha contestato delle irregolarità, ma l’accertamento dell’Agenzia è arrivato diverso (importi maggiori!). Possono fare così?
R: Sì, è possibile. Il Processo Verbale di Constatazione (PVC) redatto dalla Guardia di Finanza non vincola l’Agenzia delle Entrate, che effettua l’accertamento. L’ufficio può valutare diversamente i fatti emersi. Ad esempio, se la GdF aveva calcolato maggiori ricavi per 50.000 €, l’ufficio esaminando magari altre banche dati o valutando diversamente i documenti, potrebbe quantificarli in 80.000 €. In genere l’Agenzia segue il PVC, ma non è obbligata. Ciò che conta è che motivi l’atto esplicitando su quali elementi si basa (spesso riprende il PVC GdF e aggiunge considerazioni). Dal punto di vista difensivo, se c’è discrepanza, potrai far notare che lo stesso organo verificatore aveva stimato meno: a volte i giudici tengono conto di queste difformità a favore del contribuente, specie se l’ufficio non spiega bene perché ha aumentato. Ad esempio: GdF magari prudenzialmente aveva riconosciuto dei costi, l’Agenzia no; questo può essere contestato come illogico (e oggi con la deducibilità costi presunti è sicuramente un punto da sollevare). In sintesi: possono discostarsi, ma devono motivare.
D: Dopo l’accertamento, rischio anche sanzioni penali?
R: Dipende dall’entità dell’evasione accertata. Le sanzioni penali tributarie (DLgs 74/2000) scattano se vengono superate certe soglie di imposta evasa o di ricavi non dichiarati. Ad esempio, per la dichiarazione infedele (art.4 DLgs 74/2000) la soglia attuale è imposta evasa > €100.000 e ricavi non dichiarati > 10% del dichiarato o comunque > €2 milioni. Per omessa dichiarazione (art.5) la soglia è imposta evasa > €50.000. Quindi, se l’accertamento presuntivo determina un’evasione molto grande, l’ufficio può trasmettere notizia alla Procura. In concreto: se contestano, poniamo, €1.000.000 di ricavi non dichiarati con €250.000 di imposte evase, c’è sicuramente il profilo penale. Se invece contestano €100.000 di ricavi, imposta evasa 27.000 €, non supera soglia penale. Va detto che in casi di accertamento induttivo puro da omessa dichiarazione, spesso la soglia si supera facile e scatta la denuncia. Mentre accertamenti analitici-induttivi di solito hanno importi minori (non sempre). La difesa tributaria e quella penale viaggiano separate: una sentenza tributaria che annulla l’accertamento può favorire il contribuente anche in sede penale (perché dimostra che forse non c’era evasione), ma tecnicamente i due giudizi sono autonomi. È però da sapere che se c’è un procedimento penale, a certe condizioni la definizione transattiva col fisco (pagamento di imposte e sanzioni) può estinguere il reato. Ad ogni modo, in questa guida ci siamo concentrati sul versante tributario-amministrativo; se c’è rischio penale è fondamentale coinvolgere anche un avvocato penalista tributarista per coordinare la difesa su entrambi i fronti.
D: Quanto possono andare indietro a controllare? C’è un limite di anni?
R: Sì, ci sono i termini di decadenza dell’accertamento. In generale l’Agenzia deve notificare l’avviso di accertamento entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione (o settimo anno se la dichiarazione era omessa). Ad esempio, per l’anno d’imposta 2019 (dichiarazione presentata nel 2020) il termine è il 31/12/2025. Se però la dichiarazione era omessa o nulla, per il 2019 il termine diventa 31/12/2027. Questi termini sono stati allungati di un anno dalla legge di bilancio 2016; per annualità precedenti (tipo 2015 e prima) i termini erano 4 e 5 anni rispettivamente. Attenzione: se c’è un processo penale pendente, i termini possono raddoppiare (norma del raddoppio termini in caso di reato tributario, oggi applicabile se la denuncia penale è inviata entro termini ordinari). Ma in sintesi: 5 anni è la regola attuale per dichiarazioni presentate. Dunque il 2025 vedrà accertamenti fino al 2020, il 2026 fino al 2021, e così via. Quindi non possono farti un accertamento ora per l’anno 2014, ad esempio, perché decaduto (salvo casi di reati scoperti tardi, ma tralasciamo).
D: Cosa significa che il giudice tributario decide “in base al libero convincimento”?
R: Significa che, diversamente da un processo penale dove vige l’“oltre ogni ragionevole dubbio”, nel tributario il giudice valuta le prove con criterio prudenziale ma libero. Può ritenere sufficienti le presunzioni dell’ufficio se non adeguatamente contrastate, oppure dare peso maggiore a una prova del contribuente se la trova convincente. In altre parole, non esistono “prove legali” (eccetto le presunzioni legali tipo i versamenti bancari) e può formarsi un convincimento anche solo su indizi . Tuttavia, devono essere spiegati in motivazione. Questo incide sulla nostra difesa: dobbiamo cercare di rendere il convincimento del giudice favorevole, fornendogli quanti più elementi obiettivi possibile. Se rimane un dubbio, spesso purtroppo nelle liti tributarie il dubbio gioca a sfavore del contribuente (non vige il principio penalistico del favor rei in dubbio). Ma con la riforma del 2022 è stato introdotto il principio che se la materia è complessa e incerta, le sanzioni possono essere disapplicate dal giudice (principio di buona fede). Quindi il giudice potrebbe – nel dubbio – mantenere la pretesa d’imposta ma togliere le sanzioni, riconoscendo che la questione non era chiara. È una magra consolazione, ma è qualcosa.
Conclusione: Difendersi da un accertamento fondato su ricavi presunti è possibile ed è un diritto del contribuente. Come abbiamo visto, richiede un approccio proattivo, sia nella fase di confronto con il Fisco, sia – se necessario – davanti ai giudici tributari. Il contribuente (e i professionisti che lo assistono) deve combinare una profonda conoscenza della propria situazione economica con la padronanza degli strumenti giuridici a tutela (dalle norme sul contraddittorio, alle pronunce favorevoli sulle prove presuntive).
Negli ultimi anni l’evoluzione normativa e giurisprudenziale ha fornito nuovi argomenti difensivi: si pensi alla possibilità di vedersi riconosciuti costi anche in mancanza di pezze d’appoggio , o al consolidamento del diritto al contraddittorio anche per accertamenti “a tavolino” (in prospettiva futura). Questi sviluppi bilanciano un sistema che altrimenti vedrebbe il contribuente sempre soccombente di fronte a qualsiasi presunzione.
Dal punto di vista pratico, il punto di vista del debitore deve sempre essere: analizzare i fatti, raccogliere prove e non lasciarsi intimorire. Un verbale di constatazione o un avviso di accertamento per ricavi presunti non è una condanna definitiva, ma un’affermazione che va messa alla prova. Molti accertamenti di questo tipo, quando scrutinati dai giudici, vengono annullati o ridotti, perché magari l’ufficio aveva semplificato troppo o ignorato spiegazioni ragionevoli.
Certo, arrivare preparati è importante: mantenere quanto più possibile tracciabilità e documentazione delle proprie operazioni, anche informali, è la miglior prevenzione. Ad esempio, se si riceve un prestito da un parente, formalizzarlo; se si vendono beni usati, conservare traccia; se si hanno cali di attività, documentarne i motivi (foto, articoli di giornale, qualsiasi cosa). Tutto ciò può sembrare eccessivo, ma nel momento del controllo fiscale fa la differenza tra il poter dimostrare la verità oppure rimanere in balìa di calcoli presuntivi sfavorevoli.
In definitiva, la difesa dall’accertamento induttivo è un esercizio di trasparenza e chiarezza: portare alla luce i fatti reali che spiegano quelle “incongruenze” solo apparenti. Quando il contribuente è onesto e organizzato, spesso ha dalla sua la forza dei fatti concreti, che possono vincere sulle presunzioni. E nei casi di reale evasione, esistono comunque margini per negoziare e limitare danni (come adesione, ravvedimenti, ecc.), giungendo a una chiusura meno traumatica.
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Vuoi sapere cosa rischi e come impostare una difesa efficace?
👉 Prima regola: dimostra che le irregolarità rilevate sono errori formali o tecnici e non veri ricavi occultati.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Differenze tra registri IVA, corrispettivi e dichiarazioni fiscali;
- Movimenti di magazzino incoerenti con i ricavi registrati;
- Incongruenze tra estratti conto bancari e contabilità;
- Scostamenti dagli indici ISA o dai parametri di settore;
- Mancata quadratura tra bilanci, libri giornale e registri obbligatori.
📌 Conseguenze della contestazione
- Presunzione di ricavi occultati sulla base delle incongruenze rilevate;
- Recupero delle imposte sui presunti maggiori ricavi;
- Sanzioni per dichiarazione infedele;
- Interessi di mora sulle somme accertate;
- Possibili contestazioni penali se i maggiori imponibili superano determinate soglie.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Le incongruenze derivano da errori materiali, arrotondamenti o differenze di registrazione?
- I movimenti di magazzino e le scritture contabili sono coerenti con la reale attività?
- I flussi bancari erano correttamente imputati (ricavi vs. rimborsi o trasferimenti interni)?
- Le presunzioni dell’Agenzia sono fondate su dati oggettivi o su ricostruzioni statistiche?
- Sono stati rispettati i termini e le procedure di legge per l’accertamento?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Registri IVA vendite e acquisti;
- Estratti conto bancari con causali dei movimenti;
- Inventari e documentazione di magazzino;
- Bilanci e libri contabili ufficiali;
- Dichiarazioni fiscali e prospetti di riconciliazione.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la natura di errori formali senza impatto sostanziale sui ricavi;
- Contestare le presunzioni di ricavi occulti prive di riscontri concreti;
- Fornire documentazione che spieghi le differenze contabili (note di credito, storni, rettifiche);
- Eccepire vizi di motivazione o calcoli errati nell’accertamento;
- Richiedere annullamento in autotutela se le prove erano già agli atti;
- Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
- Difesa penale mirata in caso di contestazioni rilevanti per dichiarazione fraudolenta.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza i registri contabili e le incongruenze rilevate;
📌 Verifica la fondatezza delle presunzioni dell’Agenzia;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta nei procedimenti fiscali e, se necessario, penali;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione contabile chiara e inattaccabile.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e accertamenti fiscali;
✔️ Specializzato in difesa contro presunzioni di ricavi occulti da errori contabili;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Gli accertamenti fiscali per ricavi presunti da incongruenze contabili non sempre sono fondati: spesso si basano su errori materiali, differenze di registrazione o presunzioni prive di riscontri concreti.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale natura delle anomalie, ridurre drasticamente sanzioni e interessi ed evitare conseguenze penali.
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