Accertamento Fiscale Per Spese Di Formazione Contestate: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per spese di formazione non riconosciute? In questi casi, l’Ufficio presume che i costi sostenuti per corsi, master, workshop o aggiornamenti professionali non siano deducibili o detraibili, ritenendoli non inerenti o documentati in maniera insufficiente. Le conseguenze possono essere pesanti: recupero delle imposte, sanzioni elevate e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare la legittimità delle spese e ridurre sensibilmente l’impatto delle sanzioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le spese di formazione
– Se i costi non sono supportati da fatture, ricevute fiscali o documentazione adeguata
– Se i corsi non sono ritenuti inerenti all’attività svolta dal contribuente
– Se le spese appaiono sproporzionate rispetto ai ricavi o alle dimensioni dell’impresa
– Se vengono rilevate incongruenze tra i contratti formativi e i pagamenti effettuati
– Se l’Ufficio presume che le spese abbiano natura personale e non professionale

Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione delle somme ritenute indeducibili o non detraibili
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Rettifica delle dichiarazioni fiscali e dei bilanci
– Possibile perdita di benefici fiscali legati a crediti d’imposta per la formazione

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’inerenza delle spese di formazione rispetto all’attività professionale o imprenditoriale
– Produrre fatture, contratti, programmi dei corsi e attestati di partecipazione
– Contestare l’esclusione delle spese se finalizzate all’aggiornamento tecnico o all’acquisizione di competenze utili all’attività
– Evidenziare errori di calcolo, difetti istruttori o vizi di motivazione nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione delle spese per ottenere un trattamento fiscale più favorevole
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione fiscale e contrattuale relativa alle spese di formazione
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta applicazione delle norme fiscali
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e vizi procedurali
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio personale e aziendale da conseguenze fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La deducibilità o detraibilità parziale delle spese contestate
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: le spese di formazione sono frequentemente oggetto di contestazione da parte del Fisco, soprattutto se non adeguatamente documentate o se giudicate non inerenti. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscale per professionisti e imprese – spiega come difendersi in caso di contestazioni per spese di formazione e quali strategie adottare per tutelare i tuoi interessi.

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Introduzione

Le spese di formazione – come corsi di aggiornamento, master, convegni e altri percorsi formativi – possono rappresentare un investimento importante per professionisti e imprese. Tuttavia, in sede di accertamento fiscale, l’Agenzia delle Entrate può contestarne la deducibilità dal reddito imponibile, mettendo in dubbio l’inerenza (cioè la correlazione con l’attività svolta) o addirittura l’effettiva esistenza di tali costi. Questa guida – aggiornata a settembre 2025 – affronta in modo approfondito il tema delle spese di formazione contestate dal Fisco e illustra come difendersi efficacemente, dal punto di vista del contribuente (professionista, imprenditore o società).

Esamineremo innanzitutto il quadro normativo di riferimento in Italia, distinguendo tra regole per professionisti e per imprese, con cenni ai casi particolari (ad esempio corsi universitari, master, corsi all’estero vs. in Italia, incentivi come il credito d’imposta Formazione 4.0). Approfondiremo poi il concetto di inerenza e l’onere della prova in contenzioso, richiamando le più recenti sentenze e orientamenti giurisprudenziali. Saranno evidenziati i casi tipici di contestazione (spesa ritenuta non inerente, costi di formazione considerati inesistenti o documentazione carente, ecc.) e forniti consigli pratici su come difendersi – dalla predisposizione della documentazione probatoria, alle strategie processuali (istanze, adesione, ricorso), fino alla gestione di eventuali profili penali se le contestazioni configurano reati tributari.

Non mancheranno tabelle riepilogative delle regole di deducibilità per categoria di contribuente, oltre a domande e risposte frequenti (FAQ) che affrontano dubbi pratici (es. “La mia azienda può dedurre il master universitario di un dipendente?”, “Che documenti conservare per evitare contestazioni?”, “Cosa fare se l’ente formatore era una società fittizia?”, “Come incide pagare subito le somme contestate?”).

Nota: Tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate sono riportate in fondo alla guida nella sezione Fonti. Si raccomanda di consultarle per ulteriori approfondimenti. I contenuti tengono conto delle ultime novità fino a settembre 2025, incluse pronunce di merito e di legittimità recentissime, per offrire un quadro aggiornato.

Che cosa sono le spese di formazione e perché il Fisco le contesta

Prima di addentrarci nelle norme, definiamo cosa si intende per spese di formazione in ambito fiscale. Si tratta in generale dei costi sostenuti per migliorare le competenze professionali e tecniche di imprenditori, lavoratori autonomi, amministratori o dipendenti di un’azienda. Rientrano in questa categoria, ad esempio:

  • Corsi di aggiornamento professionale e corsi di formazione continua (anche obbligatori per legge, come quelli su sicurezza sul lavoro, privacy, ecc.).
  • Master universitari e altri corsi di alta formazione o specializzazione (sia in Italia che all’estero).
  • Convegni, congressi, seminari e workshop attinenti all’attività svolta.
  • Corsi di addestramento e riqualificazione del personale (es. formazione tecnica su nuove tecnologie, training on the job, corsi per neoassunti).

Insomma, tutte le spese volte ad “elevare il grado di professionalità” di chi opera nell’attività rientrano nelle spese di formazione . In un’impresa moderna, queste spese sono spesso indispensabili per rimanere competitivi e al passo con il progresso tecnologico e normativo. Dal punto di vista civilistico, tali costi sono generalmente considerati costi di periodo, da imputare a Conto Economico nell’esercizio in cui sono sostenuti, salvo rari casi di capitalizzazione come oneri pluriennali (ad es. per start-up) secondo il principio contabile OIC 24 .

Perché vengono contestate dal Fisco? L’Agenzia delle Entrate, in sede di verifica, potrebbe contestare queste spese essenzialmente per due motivi:

  1. Contestazioni di inerenza: l’Ufficio ritiene che la formazione non sia inerente all’attività esercitata, ossia non sufficientemente collegata allo scopo di produrre reddito. In tal caso, la spesa verrebbe considerata indeducibile perché estranea o solo marginalmente utile rispetto all’oggetto dell’impresa o della professione svolta. Un esempio frequente: un’azienda deduce i costi per un corso dal contenuto molto generico o non attinente al suo core business – il Fisco potrebbe sostenere che tali costi non abbiano nessuna connessione funzionale con i ricavi d’impresa e negarne la deduzione. Analogamente, per un professionista, la partecipazione a un convegno non pertinente alla sua disciplina potrebbe essere disconosciuta.
  2. Contestazioni sulla reale esistenza o regolarità: l’Ufficio sospetta che le spese di formazione siano in realtà fittizie o indebite. Ciò può accadere in vari scenari: ad esempio, la formazione non sarebbe mai avvenuta (fatture per “corsi fantasma” o mai frequentati), oppure i costi sarebbero stati gonfiati o documentati in modo irregolare (fatture incomplete, carenza di registri di presenza, ecc.). In casi estremi, si potrebbe configurare l’ipotesi di operazioni inesistenti con uso di fatture false per creare costi artificiali e abbattere il reddito: si tratterebbe allora di un’evasione deliberata, con possibili risvolti penali (dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti, ex art. 2 D.Lgs. 74/2000). Più spesso, però, le contestazioni non implicano una frode conclamata ma riguardano irregolarità sostanziali: spese magari effettivamente sostenute, ma non deducibili per legge (per difetto di inerenza o superamento di limiti normativi).

Va detto che per le imprese (soggette a imposta sul reddito d’impresa, IRES o IRPEF) non esiste un tetto quantitativo annuo prefissato per la deducibilità delle spese di formazione, a differenza di quanto accadeva per i professionisti (come vedremo fra poco). In teoria, dunque, un’azienda può dedurre integralmente i costi per corsi di aggiornamento, workshop, training del personale e così via, purché siano rispettati due requisiti fondamentali:

  • Inerenza all’attività svolta (dev’esserci attinenza con l’oggetto sociale o con l’impresa esercitata).
  • Documentazione adeguata e regolare (fatture o ricevute intestate correttamente, conservazione di programmi, attestati di partecipazione, registri delle presenze, ecc.).

Se questi requisiti mancano, l’Amministrazione finanziaria potrebbe contestare i costi come indeducibili per difetto di inerenza o per carenza probatoria. Ad esempio, se una SRL edile deducesse spese per un costoso corso di yoga destinato ai dipendenti di cantiere senza alcuna finalità aziendale dimostrata, l’Ufficio probabilmente eccepirebbe l’estraneità di tali costi all’attività d’impresa e recupererebbe a tassazione l’importo dedotto.

Per i professionisti (lavoratori autonomi), fino a qualche anno fa la normativa fiscale imponeva limiti stringenti alla deducibilità di queste spese: prima del 2017, i costi per partecipare a convegni, corsi di aggiornamento, master, congressi ecc. erano deducibili soltanto al 50% del loro ammontare (inclusi viaggio e soggiorno) . Inoltre, le spese di vitto e alloggio relative a tali eventi subivano un’ulteriore limitazione (75% del costo e comunque entro il 2% dei compensi annui) . Dal 2017 questa disciplina è cambiata in senso favorevole al contribuente: oggi il professionista può dedurre integralmente le spese di formazione, entro però un plafond annuo di 10.000 euro. Se si supera tale soglia, l’eccedenza diviene indeducibile. Vedremo nel dettaglio queste regole nel paragrafo seguente. Resta inteso che, anche per il professionista, vale il requisito generale di inerenza: il corso deve avere attinenza con la professione esercitata (es.: un dentista può dedurre un corso di gestione dello studio dentistico o di marketing sanitario, ma difficilmente un corso di tutt’altra materia).

Riassumendo, le contestazioni fiscali sulle spese di formazione vertono quasi sempre sulla mancanza di inerenza (spesa ritenuta non correlata all’attività) oppure sulla mancanza di prova (spesa non sufficientemente documentata o ritenuta fittizia). Nel primo caso, la difesa del contribuente consisterà nel dimostrare concretamente l’utilità del corso per l’attività svolta; nel secondo caso consisterà nel provare la reale effettuazione della formazione (esibendo tutta la documentazione disponibile). Nei prossimi paragrafi vedremo quali sono le normative di riferimento e gli strumenti a disposizione del contribuente per far valere le proprie ragioni.

Normativa sulla deducibilità delle spese di formazione (professionisti vs imprese)

Le regole fiscali sulle spese di formazione variano a seconda della categoria di reddito del contribuente. Dobbiamo distinguere in particolare tra:

  • Professionisti e lavoratori autonomi (reddito di lavoro autonomo, ex art. 53-54 TUIR).
  • Imprese individuali e società (reddito d’impresa, ex art. 55 e segg. TUIR per IRPEF, art. 81 e segg. TUIR per IRES).
  • Altri soggetti particolari, come enti non commerciali o contribuenti in regime forfetario.

Vediamo separatamente queste situazioni, anche mediante una tabella riepilogativa:

Tabella – Deducibilità delle spese di formazione per tipologia di contribuente

SoggettoNormativa di riferimentoTrattamento fiscale spese di formazioneNote / Condizioni
Libero professionista <br>(lavoratore autonomo titolare di partita IVA, non in regime forfetario)Art. 54, comma 5 TUIR <br>(come modificato da L. 81/2017 “Jobs Act Autonomi”)Deducibilità integrale entro €10.000 annui per spese di iscrizione e partecipazione a master, corsi di formazione e aggiornamento professionale, convegni e congressi (nel plafond sono incluse anche le spese di viaggio e soggiorno). <br> Indeducibilità dell’eccedenza oltre €10.000.– Fino al 2016: deducibili solo al 50% (anche vitto/alloggio) e con ulteriori limiti per vitto/alloggio (75% del costo e max 2% compensi) . Dal 2017 la deduzione è al 100% entro il tetto annuo.<br> – La spesa deve essere inerente all’attività professionale esercitata e documentata (fattura intestata al professionista, attestati, ecc.).<br> – I professionisti in regime forfetario non possono dedurre analiticamente questi costi (il forfait include già una quota spese).
Impresa (ditte individuali in contabilità ordinaria, società di persone e di capitali)Artt. 109 e 110 TUIR (principi generali di competenza e inerenza per il reddito d’impresa). <br> N.B.: Non esiste un articolo specifico come il 54 per i professionisti; si applicano i criteri generali delle spese per servizi.Deducibilità integrale dei costi di formazione dei dipendenti, amministratori e dell’imprenditore stesso, senza limiti quantitativi annui, purché le spese siano inerenti all’attività d’impresa e correttamente documentate. Rientrano qui i costi per corsi di aggiornamento tecnico, addestramento del personale, formazione manageriale, ecc., che l’impresa sostiene nell’interesse della propria attività.– Non è prevista una soglia massima di deduzione annua (a differenza dei professionisti). Tuttavia, costi eccessivi o anomali rispetto ai ricavi aziendali potrebbero destare sospetti di antieconomicità e far scattare verifiche sull’inerenza. <br> – Inerenza: la formazione deve avere attinenza con l’oggetto sociale o l’attività effettivamente esercitata. Costi estranei o meramente voluttuari sono indeducibili. <br> – Documentazione: necessario conservare fatture/ricevute intestate all’azienda, programmi del corso, registri presenze, attestati, ecc., per provare che il corso si è effettivamente svolto e con contenuto utile all’impresa. <br> – Profili particolari: se la spesa di formazione produce benefici pluriennali, si veda oltre il tema dell’ammortamento (art. 108 TUIR).
Impresa che usufruisce del Credito d’imposta Formazione 4.0 <br>(in vigore per il 2018-2022, con proroghe)L. 205/2017, art.1 commi 46-56 e succ. modifiche; <br> D.M. 4/5/2018 (criteri attuativi MISE); <br>ATTENZIONE: prorogato fino al 2022, attualmente scaduto salvo nuove proroghe.Doppio beneficio fiscale: le spese di formazione 4.0 restano deducibili secondo le regole ordinarie (vedi riga precedente) e danno diritto a un credito d’imposta pari a una percentuale di tali costi (dal 30% al 70%, variabile secondo l’anno, dimensione azienda e tipo di formazione). In pratica l’impresa deduce il costo nel reddito e recupera anche parte di esso come credito fiscale.– Il credito d’imposta Formazione 4.0 spetta solo per corsi con specifiche caratteristiche tecnologiche (ambiti Industria 4.0) e richiede una serie di adempimenti formali stringenti: p.es. accordo sindacale di coinvolgimento dei dipendenti (obbligatorio fino al 2019), registri delle presenze firmati, relazione finale sui risultati, certificazione dei costi da parte di revisore, indicazione del credito nella dichiarazione dei redditi. <br> – Esclusioni: i corsi obbligatori per legge (es. sicurezza D.Lgs.81/2008) non danno diritto al credito, sebbene le relative spese siano comunque deducibili come costi ordinari. <br> – Contestazioni frequenti: l’Agenzia può revocare (recuperare) il credito se mancavano i requisiti formali o se i corsi non rientravano tra quelli agevolabili, applicando anche una sanzione elevata perché il credito indebito è considerato “inesistente” (fino al 100%–200% dell’importo). In caso di revoca del credito, il costo resta deducibile solo se realmente inerente e documentato.
Ente non commerciale <br>(es. associazione, fondazione che svolge anche formazione)Art. 143 TUIR (disciplina attività istituzionale) e art. 109 TUIR (eventuale attività commerciale).Dipende dall’attività: se la formazione rientra nell’attività istituzionale dell’ente (non commerciale), i relativi costi non sono oggetto di deduzione fiscale perché non c’è reddito d’impresa da abbattere – semplicemente riducono l’avanzo/disavanzo istituzionale. Se invece l’ente svolge attività commerciale vendendo corsi a terzi, allora le spese di formazione diventano costi d’impresa deducibili secondo le regole ordinarie (inerenza, documentazione) e i ricavi corrispondenti sono imponibili.– Spesso gli enti non profit ottengono contributi pubblici per finanziare progetti formativi: se tali contributi sono correlati a costi non deducibili ai fini IRAP, possono non essere imponibili IRAP (art. 11 c.3 D.Lgs. 446/97). La Cassazione ha ad es. stabilito che l’esenzione IRAP per contributi a enti di formazione spetta solo se il contributo copre costi indeducibili per IRAP. <br> – Abusi: in passato alcune associazioni sono state usate come schermi per emettere fatture di corsi fittizi (sfruttando magari regimi IVA agevolati o minori controlli) al fine di creare costi falsi. La Guardia di Finanza con il Progetto Ercole ha attenzionato queste fattispecie. Dunque la presenza di un ente non profit come fornitore della formazione non esime l’azienda committente dal provare la realtà e inerenza dei corsi ricevuti.

Spiegazione delle regole sopra riportate:

  • Professionisti (art. 54 TUIR): dal 2017 in poi, possono dedurre al 100% i costi di formazione fino a 10.000 € l’anno. Questo include sia le quote di iscrizione ai corsi/master, sia le spese accessorie di viaggio e soggiorno. Prima della riforma del 2017 (Legge 81/2017), la deduzione era limitata al 50% e senza tetto massimo , con ulteriori restrizioni su vitto e alloggio (75% e 2% dei compensi) . La riforma ha quindi ampliato la deducibilità, introducendo però un massimale assoluto di importo. Esempio: un avvocato che nel 2025 sostiene complessivamente €8.000 tra master e convegni può dedurre l’intero importo. Se invece spende €12.000, potrà dedurne solo €10.000, mentre i €2.000 eccedenti resteranno indeducibili. In sede di dichiarazione dei redditi, c’è un rigo specifico (es. quadro RE) dove indicare le spese di formazione e calcolare l’eventuale eccedenza non deducibile. Naturalmente, qualunque somma si voglia dedurre deve riferirsi ad attività formative coerenti con la professione: la Circolare Agenzia Entrate n. 35/E del 20/09/2012 ha chiarito che la deducibilità al 50% (all’epoca vigente) si applicava anche ai corsi di formazione continua obbligatoria per iscritti ad albi professionali (introdotta dal D.P.R. 137/2012), e che sono deducibili anche i corsi svolti all’estero, purché debitamente documentati (fattura e ricevuta del bonifico di pagamento). Questi principi restano validi anche ora che la percentuale è 100%: i corsi all’estero sono ammessi, ma il professionista deve conservare fatture intestate a sé e prova del pagamento tracciabile, con eventuale traduzione dei documenti se non in lingua italiana.
  • Imprese (art. 109 TUIR e principio di inerenza): per le società e gli imprenditori, le spese di formazione rientrano nelle spese per servizi deducibili nell’esercizio di competenza (principio di competenza economica, art. 109 comma 1 TUIR), a condizione che siano inerenti all’attività ed effettivamente sostenute (principio di certezza e determinabilità, art. 109 comma 5 TUIR). Non c’è un articolo ad hoc nel TUIR che parli di “spese di formazione” per le imprese: tali costi non sono citati tra le spese specificamente disciplinate (come invece le spese di rappresentanza, pubblicità, ricerca in art. 108 TUIR). Dunque, valgono le regole generali: il costo è deducibile se correlato in maniera oggettiva all’esercizio dell’impresa e se non è espressamente escluso da qualche norma. In altre parole, serve una correlazione concreta tra il corso e l’attività aziendale, tale per cui si possa ragionevolmente dire che quella spesa è sostenuta nell’interesse dell’impresa, per migliorarne i prodotti, i servizi, l’efficienza o la redditività futura. Più avanti approfondiremo il concetto di inerenza con la giurisprudenza. Anticipiamo però che l’antieconomicità (cioè l’apparente eccesso di costo rispetto ai benefici) non è di per sé motivo di indeducibilità, ma può costituire un “indice rivelatore” di non inerenza se il contribuente non riesce a giustificare il perché di quella spesa. Sul piano quantitativo non esistono soglie: un’azienda potrebbe teoricamente spendere anche somme ingenti in formazione e dedurle, se ciò è giustificato dall’attività (si pensi a grandi imprese che investono molto in training del personale). Tuttavia, importi anomali (ad esempio spese di formazione pari a una percentuale molto alta del fatturato, o corsi costosissimi per piccole imprese) attireranno l’attenzione del Fisco, il quale potrebbe contestare la deduzione a meno che l’azienda dimostri in modo convincente l’utilità e necessarietà di quel investimento formativo. Esempio: una SRL di software spende €50.000 per certificare i propri 5 tecnici su un nuovo linguaggio di programmazione: questo costo, se ben documentato (fatture dell’ente formatore, attestati di certificazione ottenuti dai tecnici, prova che la società offriva servizi su quel nuovo linguaggio), è altamente inerente e dovrebbe essere integralmente deducibile. Viceversa, una piccola ditta individuale commerciale che deduce €30.000 di corsi motivazionali generici per il titolare, senza alcuna spiegazione, rischia contestazioni.
  • Formazione con beneficio di credito d’imposta (Formazione 4.0): negli anni recenti (periodo 2018-2022) molte imprese hanno fruito del credito d’imposta Formazione 4.0, un incentivo previsto dalla Legge 205/2017 (Legge di Bilancio 2018) per favorire la formazione dei dipendenti sulle tecnologie rilevanti per la “quarta rivoluzione industriale” (big data, cloud, intelligenza artificiale, ecc.). Il bonus consisteva in un credito pari al 30% (o più, fino al 70% per piccole imprese in certi casi) delle spese ammissibili. Tali spese – ad esempio il costo del docente esterno, o il costo orario del personale interno in formazione – rimangono comunque deducibili come normali costi d’esercizio. Ciò significa che l’azienda ha un doppio vantaggio: deduzione + credito. Attenzione: il rovescio della medaglia è che i requisiti formali per il credito erano molto puntuali, e molte verifiche fiscali recenti si sono concentrate proprio sul controllo di questi crediti. Le contestazioni tipiche in quest’area sono due: (a) corsi che in realtà non avevano i requisiti tecnologici richiesti (es. un corso di office automation di base spacciato per corso 4.0) oppure (b) mancato rispetto degli obblighi documentali (mancanza dell’accordo sindacale, registri presenze assenti o incompleti, assenza di certificazione dei costi, ecc.). In caso di irregolarità, l’Agenzia delle Entrate procede a revocare il credito d’imposta e a recuperarne l’importo aumentato di sanzioni, trattandolo come “credito inesistente” se i controlli automatizzati non potevano rilevare il problema. La sanzione per crediti d’imposta inesistenti è molto pesante (dal 100% fino al 200% del credito indebito, ex art. 13 comma 5 D.Lgs. 471/1997). L’azienda in questi casi si vede quindi annullare il bonus e comminare la sanzione; tuttavia, i costi sottostanti, se effettivi e inerenti, restano deducibili nel reddito imponibile. Ad esempio, se un’azienda ha incluso anche un corso obbligatorio sulla sicurezza nel calcolo del credito 4.0, quel pezzo di credito verrà recuperato perché la legge esclude i corsi obbligatori dal bonus. Ciò non toglie che il costo del corso sicurezza resti un normale costo deducibile (era obbligatorio per legge, dunque sicuramente inerente). In sintesi, nel contenzioso può capitare che il credito d’imposta sia perso ma la deduzione della spesa venga comunque ammessa se il contribuente prova che il corso si è svolto davvero ed era inerente.
  • Enti non commerciali: quando un ente senza scopo di lucro eroga formazione come parte della propria mission istituzionale (es. un’associazione culturale che organizza corsi per i soci), non parliamo di deduzione di costi in un reddito d’impresa, perché l’attività istituzionale non genera reddito tassabile. Le relative spese non hanno rilevanza ai fini IRES (semmai andranno rendicontate nei bilanci interni dell’ente) e spesso l’ente può ricevere contributi pubblici a copertura. Se invece l’ente svolge un’attività commerciale vendendo corsi sul mercato (magari affiancando all’attività istituzionale un’attività rilevante fiscalmente), allora quell’attività diventa assimilabile a un’impresa: i ricavi (quote pagate dai partecipanti ai corsi) saranno imponibili, e i costi correlati (docenti, materiale didattico, affitto aule, ecc.) deducibili secondo le regole generali. Particolarità: alcune norme in materia di IRAP prevedono che certi contributi pubblici erogati a enti non profit per finanziare costi non deducibili ai fini IRAP possano essere esclusi da tassazione IRAP (principio di correlazione costi-indeducibilità/contributi-esenzione, art. 11 co.3 D.Lgs. 446/97). La Cassazione, ad esempio, con la sentenza n. 17177/2022, ha negato l’esenzione IRAP a un contributo pubblico ricevuto da un ente di formazione (ENFAP) perché quel contributo copriva costi che invece erano deducibili ai fini IRAP, non rientrando strettamente in un’attività non commerciale. In generale queste situazioni vanno esaminate caso per caso. Qui basti sapere che un ente non profit utilizzato per emettere fatture di formazione fasulle espone sia l’ente che l’azienda committente a gravi rischi: la GdF e l’Agenzia sono ben consapevoli di questo stratagemma (classificato come abuso o frode fiscale) e pretendono rigore probatorio assoluto: se si scopre che l’ente era una “cartiera” (società fantasma che emetteva solo fatture), i costi verranno disconosciuti e scatterà la denuncia per fatture false. Il committente potrà salvarsi da sanzioni penali solo dimostrando di essere in buona fede (non a conoscenza della frode) e, sul piano tributario, magari ottenendo l’esclusione delle sanzioni amministrative se prova di aver operato con la dovuta diligenza (es. verificando che l’ente era accreditato, che i pagamenti furono tracciati, ecc.).

Ammortizzare le spese di formazione pluriennali: evoluzione normativa e giurisprudenziale

Un aspetto tecnico da considerare è come trattare fiscalmente una spesa di formazione che abbia effetti pluriennali. Il Testo Unico (TUIR) contiene una disposizione, l’art. 108 comma 1 e comma 3, riferita alle “spese relative a più esercizi”. In sintesi:

  • L’art. 108, comma 1 TUIR include alcune categorie di oneri che per loro natura generano utilità protratte nel tempo (come le spese di pubblicità e propaganda, le spese di ricerca e sviluppo, le spese di rappresentanza) e consente di dedurle integralmente nell’esercizio o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei successivi, ma non oltre il quarto (per pubblicità e propaganda) o oltre il quinto (per la ricerca, secondo prassi). Ad esempio, una spesa di ricerca scientifica può essere dedotta tutta subito oppure suddivisa in fino a 5 anni.
  • L’art. 108, comma 3 TUIR recita: “Le spese relative a più esercizi, diverse da quelle [di cui ai commi precedenti], sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio”. Ciò significa che per qualunque altra spesa “pluriennale” non espressamente disciplinata, la deduzione deve avvenire pro quota in base al principio di competenza temporale. La norma però non specifica criteri rigidi di ripartizione: lascia una discrezionalità tecnica all’impresa, nei limiti di un piano di ammortamento che l’azienda stessa deve predisporre e seguire. In pratica, l’impresa decide in quanti anni ammortizzare quella spesa pluriennale, purché sia un criterio ragionevole e costante, e deduce ogni anno la quota corrispondente.

La domanda è: le spese di formazione del personale rientrano tra quelle “pluriennali” da ammortizzare (art. 108 comma 3) oppure no? Storicamente c’è stato dibattito. La posizione iniziale dell’Amministrazione finanziaria – risalente anche a interpretazioni ministeriali degli anni ‘90 – era che sì, i costi di formazione (aggiornamento professionale dei dipendenti e dell’imprenditore) dovessero essere trattati come spese a utilità pluriennale, quindi deducibili secondo l’art. 108 comma 3, ovvero in più esercizi. In questo senso, veniva negata l’equiparazione con le “spese di ricerca” del comma 1. La conseguenza era che il Fisco si attendeva di vedere i costi di formazione frazionati su più anni, in base a un piano di ripartizione, e non dedotti tutti immediatamente. Se un’azienda deduceva in un solo esercizio un grosso costo di formazione, l’Ufficio poteva contestare la violazione del principio di competenza e recuperare parte della deduzione, spalmando il costo sugli esercizi successivi.

La giurisprudenza di legittimità però ha espresso un orientamento diverso e più favorevole ai contribuenti già dagli anni 2000. In particolare, la Corte di Cassazione con sentenza n. 3871/2002 affermò che è facoltà dell’imprenditore scegliere se dedurre il costo di formazione in un unico esercizio oppure frazionarlo in più esercizi (fino a un massimo di quattro, secondo l’allora analogia con le spese di ricerca/pubblicità). La Corte ritenne infatti che le spese per l’aggiornamento professionale, sia dell’imprenditore che dei dipendenti, potessero rientrare nell’alveo delle “spese per studi e ricerche” di cui all’art. 108, comma 1 TUIR. Il ragionamento fu il seguente: l’espressione “studi” è ampia e abbraccia tutti gli esborsi finalizzati al potenziamento dell’impresa tramite accrescimento delle conoscenze (“energie intellettuali”) di chi vi opera, senza distinguere se tali studi riguardino il miglioramento dell’organizzazione aziendale o la competenza del personale. Dunque, anche i corsi di formazione del personale sarebbero assimilabili a spese per studi (di cui al comma 1) e beneficerebbero del trattamento più flessibile: deduzione immediata oppure spalmata fino a 5 (all’epoca dicevano 4) anni, a scelta del contribuente.

In altre pronunce coeve (Cass. 5193/2000; Cass. 3413/2002), la Suprema Corte ribadì in sostanza questo concetto. Questa interpretazione andava in disaccordo sia con la tesi del Fisco sia con la posizione dei principi contabili: il principio contabile OIC 24, infatti, consente la capitalizzazione delle spese di formazione solo in casi particolari, cioè se sostenute da un’azienda nuova o per una nuova attività (c.d. costi di impianto/ampliamento o costi di start-up). In tutti gli altri casi, secondo OIC 24, i costi di formazione vanno considerati costi di periodo e imputati integralmente a conto economico nell’anno di sostenimento . Quindi OIC 24 scoraggia l’attivazione nell’attivo patrimoniale di “costi di formazione” salvo che si tratti appunto di formare il personale prima dell’inizio di una nuova attività aziendale. Tale impostazione contabile era più vicina alla linea del Fisco (non frammentare il costo su troppi anni, a meno di start-up).

Negli anni successivi, la questione è rimasta sullo sfondo finché recentemente è tornata alla ribalta. Alcuni casi di verifica hanno riguardato imprese che avevano spesato subito costi di formazione di importo elevato, e l’Agenzia ha sostenuto che invece andavano dedotti in più anni. La Cassazione è intervenuta di nuovo nel 2022 e 2024, con esiti non del tutto allineati alla giurisprudenza 2000-2002. In particolare:

  • La Cassazione, sez. V, sent. n. 10271 del 30/03/2022 (richiamata da commenti su Il Sole 24 Ore e Eutekne) avrebbe affermato che la capitalizzazione dei costi di formazione è possibile ma in un “sentiero stretto”, cioè solo quando ricorrono effettivamente i presupposti di utilità futura concreta. Ciò lascia intendere che in generale i costi di formazione vanno spesati nell’anno salvo casi eccezionali. Probabilmente la Corte, in quella pronuncia, ha rigettato il ricorso di un’azienda che pretendeva di dedurre in un solo anno un costo formativo di natura invece pluriennale, imponendo un ammortamento. (Nota: Non avendo il testo completo, citiamo il commento: “Formazione del personale, sentiero stretto per la capitalizzazione dei costi. La sentenza 10271/2022 della Cassazione chiede che le spese … [resto del titolo non visibile]”).
  • Più di recente, la Cassazione, ord. 7/10/2024 n. 26216 ha espressamente affrontato la questione, ritenendo legittimo l’ammortamento delle spese di formazione tecnica del personale secondo i criteri contabili OIC 24. Nell’ordinanza si legge (in sintesi): benché OIC 24 non obblighi ad attivare tali costi per via dell’alto grado di aleatorietà, l’art. 108 TUIR ne impone comunque la deducibilità in quote costanti secondo competenza, trattandosi di spese pluriennali residuali, e comporta la loro deducibilità in 5 anni secondo l’ammortamento civilistico. In sostanza, la Cassazione 2024 ha stabilito che un certo costo di formazione (nella specie, tecnico e per ricerca di personale) andava dedotto in 5 anni, equiparandolo a un onere pluriennale da ammortizzare in base all’art. 108, e non tutto in uno. Questa pronuncia ha destato qualche critica per l’ambiguità e l’apparente contraddizione con OIC 24 e con precedenti di legittimità. Sta di fatto che segnala un orientamento più rigido: se il corso genera benefici duraturi, il Fisco può esigere la spalmatura quinquennale.

In pratica, al 2025, conviene adottare un approccio prudente: se la spesa di formazione sostenuta è molto elevata e chiaramente destinata a produrre effetti su più esercizi, è opportuno valutarne un ammortamento su più anni. Questo per evitare contestazioni su base art. 108. Ad esempio, un’azienda che finanzia un costoso MBA biennale al proprio dirigente (dunque un investimento formativo che dispiegherà effetti negli anni) potrebbe decidere di dedurre il costo in quote su due o più esercizi, piuttosto che tutto nell’anno di pagamento. Ciò riduce il rischio che l’Ufficio ricalcoli la deduzione. Attenzione: se invece l’azienda deduce tutto subito e l’Agenzia in accertamento rettifica imponendo l’ammortamento quinquennale, il problema è che le quote “eccedenti” dell’anno verificato potrebbero andare perse se gli anni successivi sono decaduti. Questa situazione complessa può generare contenzioso. Per fortuna la maggior parte delle spese di formazione nelle PMI non raggiunge importi tali da sollevare questa problematica: corsi di qualche migliaio di euro vengono normalmente spesati per competenza nell’anno, e difficilmente contestati sul piano temporale. Le dispute su art. 108 emergono per costi ingenti (decine o centinaia di migliaia di euro in formazione) o per politiche aggressive (dedurre in un solo colpo costi che l’azienda stessa aveva capitalizzato a bilancio).

In sintesi, sul tema deduzione immediata vs frazionata possiamo affermare: la legge non definisce in modo chiaro se i costi di formazione vadano capitalizzati; spetta all’impresa valutare se siano di utilità pluriennale. La Cassazione in passato ha permesso al contribuente di scegliere (assimilando a spese di ricerca), ma più di recente tende a dire che se è plausibile la pluriennalità, devi frazionare in 5 anni. Dunque, un contribuente prudente, d’accordo col suo consulente, valuterà caso per caso la strategia fiscale più solida, tenendo presente che dedurre subito dà un vantaggio di cassa ma può attirare controlli, mentre ammortizzare allunga la fruizione ma rispetta il principio di competenza come visto dall’Agenzia.

Inerenza e onere della prova: principi chiave per la difesa

Il concetto di inerenza è centrale in tutto il contenzioso sulle spese di formazione. È necessario comprenderlo bene, perché quasi sempre la possibilità di difendere con successo la deduzione di un costo formativo dipende dal dimostrare la sua inerenza. Inoltre, in caso di processo tributario, entra in gioco il tema dell’onere della prova: chi deve provare cosa, tra contribuente e Fisco, riguardo all’inerenza o all’effettiva esistenza della spesa contestata.

Il principio di inerenza: cos’è e come si valuta

In diritto tributario italiano, l’inerenza è un principio generale (non esplicitamente definito in un articolo di legge, se non in riferimento all’IVA) che regola la deducibilità dei costi d’impresa. In termini semplici, un costo è inerente all’impresa se è sostenuto per l’attività dell’impresa stessa, ovvero se c’è correlazione tra quel costo e i ricavi o l’attività economica esercitata. La Cassazione lo definisce una “correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa”, da valutarsi qualitativamente e non in base a criteri quantitativi. Ciò significa che non è indispensabile che la spesa generi uno specifico ricavo, né che sia economicamente proporzionata ai ricavi; conta invece che la spesa abbia una logica economica nell’ambito dell’attività esercitata.

Ad esempio, se un’azienda spende 5.000 € per formare un dipendente su una nuova normativa ambientale che riguarda la produzione, quella spesa è inerente anche se magari nel breve termine non genera profitti, perché è finalizzata a migliorare la compliance e l’efficienza. Non serve un immediato vantaggio economico: basta la “potenzialità di utilità nell’attività”. La Cassazione ha più volte sottolineato che “ai fini dell’inerenza non occorre un rapporto causale diretto tra costo e ricavo secondo un parametro di utilità, ma un nesso qualitativo più ampio”. In altre parole, la spesa deve rientrare nell’ambito delle scelte imprenditoriali volte a mantenere o accrescere la capacità produttiva o competitiva dell’azienda.

Va però chiarito che l’inerenza non è un concetto soggettivo arbitrario: non basta che l’imprenditore dichiari di aver ritenuto utile una spesa. È richiesto un minimo di obiettività nella correlazione. Se la spesa è palesemente estranea (es: corso di cucina per i dipendenti di un’azienda meccanica, senza alcun progetto di diversificazione in quel settore), l’inerenza manca. Se invece la spesa ha una possibile attinenza ma non evidente, spetterà al contribuente esplicitare e provare tale attinenza. Ad esempio, la partecipazione del titolare a un costoso master in business administration può essere inerente se l’azienda è piccola e lui intende applicare quelle conoscenze nella gestione aziendale; però, dovrà magari dimostrare come tale formazione si traduce in miglioramenti aziendali (piani di business sviluppati, nuove strategie implementate grazie al master, ecc.), altrimenti il Fisco potrebbe considerarla un arricchimento personale del titolare scollegato dall’impresa.

Antieconomicità e congruità del costo: un argomento spesso tirato in ballo dal Fisco (soprattutto in passato) è: “anche se il costo è astrattamente inerente, è troppo elevato rispetto ai benefici, quindi è antieconomico e non deducibile”. Ebbene, la giurisprudenza attuale esclude che l’antieconomicità di per sé sia un motivo di indeducibilità: “l’antieconomicità o incongruità di una spesa non escludono di per sé l’inerenza”. Tuttavia, come già accennato, un costo fortemente antieconomico può costituire indizio di difetto di inerenza e autorizzare il Fisco ad approfondire. La Cassazione (ordinanza n. 33568/2022) ha chiarito che se un costo appare sproporzionato, l’Amministrazione può utilizzarlo come elemento sintomatico di non inerenza, ma se il contribuente fornisce una spiegazione plausibile e documentata del perché quel costo è stato sostenuto e di come si ricollega all’attività, allora spetta al Fisco, a quel punto, provare ulteriori elementi contrari per disconoscerlo. Questo si collega al tema dell’onere della prova, di cui diremo tra poco.

In concreto, per le spese di formazione, l’inerenza si valuta guardando a: contenuto del corso (materia trattata, competenze insegnate) e soggetto partecipante (chi ha fruito della formazione e qual è il suo ruolo nell’attività). Saranno evidentemente inerenti i corsi su materie direttamente connesse all’oggetto sociale o alla professione esercitata. Saranno più dubbie le formazioni trasversali o generiche, che però possono ugualmente essere inerenti se ben spiegate nel contesto aziendale. Ad esempio, un corso di lingua estera: per un’impresa che esporta può essere altamente inerente formare il personale in inglese; per un piccolo artigiano che opera solo sul mercato locale potrebbe sembrare non necessario, a meno che egli provi di avere intenzione di espandersi all’estero o di avere fornitori esteri.

Un caso peculiare è l’istruzione universitaria o post-universitaria finanziata dall’azienda: se una società paga un master MBA al proprio amministratore, tale spesa può essere inerente perché migliorare le capacità manageriali del dirigente giova alla società. Ma se la società paga, poniamo, la laurea in architettura al figlio del titolare che in azienda non svolge mansioni tecniche, quell’esborso verrà visto come estraneo (un arricchimento personale del figlio) e probabilmente contestato. In casi del genere, l’Agenzia può persino riqualificare la spesa come un compenso in natura o un dividendo al socio, con relative conseguenze: non deducibilità per la società e tassazione in capo al percettore come reddito diverso. La Cassazione ha affermato in linea generale che rimborsi spese o erogazioni ai familiari soci non giustificati da reali esigenze aziendali configurano utili occultati. Dunque, se un’azienda vuole dedurre un percorso formativo per un socio o un familiare, deve dimostrare in modo particolarmente rigoroso che quel percorso aveva un ritorno concreto per l’attività (ad esempio, il familiare lavora effettivamente in azienda e il corso lo abilita a un ruolo utile per l’impresa). Altrimenti, il rischio di vedersi contestare la non inerenza (e magari il costo come “beneficio extracontabile” ai soci) è elevato.

Onere della prova in caso di contestazione: chi deve dimostrare cosa?

Nel diritto tributario vige il principio generale che il contribuente ha onere di provare i presupposti delle deduzioni che egli effettua, mentre l’Amministrazione ha l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa impositiva. Questo principio discende dall’art. 2697 del Codice Civile, richiamato anche nei giudizi tributari: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Nella pratica degli accertamenti su costi contestati, si è sviluppata una giurisprudenza specifica:

  • Se il Fisco contesta l’esistenza di un costo (sospettando sia falso), inizialmente deve fornire elementi, anche presuntivi, che indicano la possibile falsità. Ad esempio, l’Ufficio può sostenere che il fornitore del corso è inesistente (una cartiera) oppure che i dipendenti interrogati hanno negato di aver partecipato al corso, ecc. Questi elementi costituiscono un principio di prova da parte dell’Amministrazione. Raggiunta questa soglia, l’onere probatorio si sposta sul contribuente, il quale deve dimostrare l’effettiva esistenza e inerenza del costo contestato. E qui entra in gioco quanto già detto: non basta esibire la fattura o avere le scritture contabili in regola – occorre portare prove aggiuntive che il servizio di formazione è stato realmente erogato. Come osserva la Cassazione, la regolarità formale (fattura, pagamento) da sola non è sufficiente a ribaltare la presunzione di inesistenza di un’operazione, se l’Ufficio ha mostrato indizi gravi di frode. Servono pezze giustificative sostanziali: ad esempio, contratti col fornitore, registri firme dei partecipanti, dispense del corso, testimonianze, materiale didattico, foto degli eventi formativi, e così via, tutto ciò che può provare che il corso c’è stato davvero e con contenuti attinenti. Se il contribuente riesce a fornire una prova convincente, allora la bilancia probatoria pende a suo favore e vincerà il giudizio. Se invece non riesce, la contestazione verrà confermata.
  • Se il Fisco non mette in dubbio l’esistenza della spesa ma la sua inerenza, l’onere di provare l’inerenza è praticamente tutto a carico del contribuente sin dall’inizio. In effetti, la deduzione di un costo è considerata una agevolazione rispetto al principio di tassazione del reddito lordo, quindi sta a chi la chiede (il contribuente) dimostrare di averne diritto. La Cassazione in molte pronunce ribadisce che “la sola fattura non basta, il contribuente deve provare che il costo era funzionale all’attività d’impresa” . Dunque, se la contestazione AdE è “costo non inerente”, il contribuente dovrà portare in giudizio ogni elemento possibile per convincere che invece lo era (giustificazioni economiche, documenti societari che deliberano la formazione, risultati ottenuti grazie ad essa, sentenze analoghe pro-contribuente, etc.).

Una novità normativa sul riparto dell’onere della prova: il D.Lgs. 156/2015, integrando l’art. 7 del D.Lgs. 546/1992 (sul processo tributario), ha introdotto il comma 5-bis che recita: “nel processo tributario le parti hanno l’onere di fornire la prova delle proprie pretese”. Alcuni commentatori avevano interpretato ciò come un riequilibrio a carico del Fisco (cioè che l’Ufficio debba provare di più, non potendo contare solo sulle presunzioni). Tuttavia, la Cassazione – da ultimo con l’ordinanza n. 16493 del 13/06/2024 – ha chiarito che questa norma non è innovativa in senso sostanziale e non ha efficacia retroattiva. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che l’art. 7 c.5-bis non ha introdotto nuove “presunzioni legali” a carico del Fisco, ma rinvia ai principi generali: se non ci sono presunzioni legali che invertano l’onere, rimane valido lo schema tradizionale. Quindi, di fatto nulla cambia: rimane utilizzabile la normale logica delle presunzioni semplici. Perciò, in tema di operazioni inesistenti o costi fittizi, il Fisco può sempre procedere per presunzioni (es. prova che il fornitore è inesistente, deducendone che anche il costo lo è) e il contribuente deve controbattere con prove contrarie.

Un caso frequente è quello in cui un’azienda scopre solo a posteriori che il proprio fornitore di formazione era una “scatola vuota” e che forse i corsi non sono stati svolti secondo i crismi. Il contribuente magari era in buona fede e ha anche ottenuto qualcosa (es. del materiale didattico) ma l’Ufficio gli contesta l’intero costo come inesistente. In tale scenario, non basta dire “non ne sapevo nulla”: in sede tributaria conta il fatto oggettivo che il costo sia fittizio o meno. Quindi, o si riesce a provare che i corsi si sono svolti davvero (magari con un docente diverso o con modalità diverse ma c’è stata una prestazione reale), oppure quantomeno si può puntare a evitare le sanzioni dimostrando la propria diligenza (es. l’azienda scelse quel fornitore perché risultava accreditato, pagò con bonifico, ecc.). Spesso, se emerge che l’azienda cliente non era consapevole della frode, in ambito penale la sua posizione viene archiviata o non punita, ma fiscalmente comunque le tocca pagare le imposte su quel costo indeducibile.

Riepilogando l’onere della prova: nel processo tributario relativo a spese di formazione contestate, il contribuente si trova quasi sempre nella posizione di dover dimostrare attivamente la propria buona ragione. L’Agenzia può limitarsi a produrre qualche indizio (una dichiarazione di un verificatore, dati che mostrano anomalie) e questo è sufficiente a far scattare a carico del contribuente la necessità di provare il contrario. Non bisogna aspettarsi che il giudice tributario applichi un “dubbio pro contribuente” come avviene nel penale: se la prova resta incerta o lacunosa, generalmente la spunta il Fisco. È quindi cruciale prepararsi a livello probatorio nel miglior modo possibile (vedremo oltre una lista di documenti utili).

Casi tipici di contestazione e strategie di difesa

Dopo aver inquadrato le regole generali, esaminiamo i casi pratici più frequenti in cui le spese di formazione vengono contestate dal Fisco, indicando per ciascuno le possibili strategie di difesa dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta).

1. Contestazione di difetto di inerenza (il Fisco dice: “il corso non serviva all’attività”)

Scenario: L’Agenzia delle Entrate, a seguito di controllo, sostiene che uno o più corsi di formazione dedotti non siano inerenti all’attività economica svolta. Ciò capita spesso con corsi dal contenuto generico, o apparentemente estraneo al core business, oppure con corsi destinati a persone che non si capisce che ruolo abbiano nell’organizzazione.

Esempio tipico: Una S.r.l. che produce mobili ha dedotto €5.000 di spese per far frequentare a due impiegati un corso intitolato “Public Speaking e Yoga per il benessere aziendale”. L’Ufficio, vedendo la descrizione del corso, afferma che non è correlato alla produzione di mobili né alle mansioni degli impiegati, considerandolo semmai un’attività ricreativa. Quindi emette avviso di accertamento recuperando quei €5.000 a tassazione come costi indeducibili per difetto di inerenza.

Difesa: In questi casi, è fondamentale dimostrare concretamente l’attinenza del corso all’attività dell’azienda. Il contribuente deve articolare perché ha ritenuto utile quel corso: ad esempio, potrebbe spiegare che il corso in questione mirava a migliorare le capacità comunicative (public speaking) e il benessere psico-fisico (yoga antistress) dei dipendenti, allo scopo di aumentarne l’efficienza commerciale e ridurre l’assenteismo per stress. Se supporta questa tesi con evidenze (report interni, miglioramento in qualche KPI dopo il corso, testimonianze aziendali) acquista credibilità. Dal punto di vista giuridico, può citare la giurisprudenza che afferma che “l’inerenza non richiede un beneficio economico immediato, basta una potenzialità di utilità”. Nel nostro esempio, l’azienda potrebbe argomentare che investire sul benessere dei dipendenti è funzionale a lungo termine alla produttività, quindi inerente. Ci si può avvalere anche di precedenti favorevoli: se esistono sentenze di Commissioni Tributarie che in casi analoghi hanno riconosciuto l’inerenza (ad es. una sentenza che ha ritenuto inerenti i costi per attività di team building aziendale), citarle a sostegno.

Un altro punto chiave è mostrare che le conoscenze acquisite hanno avuto un impiego pratico nell’attività. Se si riesce a provare, ad esempio, che dopo il corso di public speaking gli impiegati formati hanno cominciato a fare presentazioni efficaci ai clienti aumentando le vendite, l’inerenza diventa palese. In mancanza di risultati misurabili, si può puntare sul concetto di crescita professionale: la formazione dei dipendenti su soft skills può rientrare tra le scelte gestionali insindacabili dell’imprenditore, soprattutto se l’azienda la giustifica come investimento sul capitale umano. La Cassazione tutela infatti l’autonomia decisionale dell’imprenditore: le scelte di gestione non possono essere sindacate nel merito dal Fisco, salvo che siano manifestamente estranee all’oggetto sociale. In sintesi, la linea difensiva sarà: dimostrare che il corso, pur non specifico sulla produzione di mobili, aveva comunque l’obiettivo di migliorare aspetti (comunicazione, benessere) rilevanti per la gestione aziendale, e quindi è inerente. Allegare magari il programma dettagliato del corso per evidenziare i moduli utili (es. tecniche di comunicazione aziendale). Se possibile, produrre un parere tecnico (es. di un consulente del lavoro o di un coach aziendale) che attesti la rilevanza di tali competenze per la particolare azienda. Questo può convincere il giudice tributario che la spesa aveva una sua ratio economica.

La giurisprudenza in tema di inerenza è piuttosto favorevole su questo fronte: ad esempio ha chiarito che l’assenza di un vantaggio immediato non preclude l’inerenza. Nel dubbio, conviene sempre tentare la difesa nel merito: come osservato, “la legge e la giurisprudenza sono abbastanza favorevoli: l’inerenza non richiede un beneficio immediato, basta che il corso abbia potenzialità di utilità nell’attività”. Purché si convinca il giudice di ciò, ci sono buone probabilità di successo. Quindi, la raccomandazione è di argomentare nel merito: preparare una memoria difensiva dettagliata su come le conoscenze acquisite nel corso sono state o possono essere applicate in azienda, magari allegando documentazione interna.

2. Contestazione di operazione inesistente (il Fisco dice: “il corso in realtà non si è tenuto”)

Scenario: L’Agenzia ritiene che i costi di formazione dedotti siano fittizi, ossia che i corsi non siano mai stati svolti oppure che la fattura sia stata artificiosamente gonfiata. Ciò avviene spesso quando il fornitore dei corsi è risultato essere una società inattiva o inesistente (la cosiddetta “cartiera”), oppure quando, durante un controllo, emergono indizi di frode (ad esempio, nessuno in azienda sa nulla di questi corsi, mancano completamente registri e attestati, le fatture provengono da enti “sospetti”). In questi casi, oltre al recupero fiscale, il Fisco potrebbe trasmettere atti alla Procura per indagare su frode fiscale (dichiarazione fraudolenta mediante fatture false, reato punito dall’art. 2 D.Lgs. 74/2000).

Esempio tipico: Un’impresa ha portato in deduzione €100.000 di fatture per corsi di informatica destinati ai dipendenti, emesse da un’associazione culturale. La GdF scopre che tale associazione era un mero “guscio” che emetteva fatture senza svolgere vera attività formativa (magari forniva solo qualche dispensa generica). I dipendenti sentiti non ricordano alcun corso specifico. L’Agenzia contesta l’intero importo come operazione inesistente.

Difesa: Se l’accusa è di costo inesistente, il contribuente è in posizione delicata. Come visto, l’orientamento giurisprudenziale stabilisce che una volta che il Fisco fornisce presunzioni gravi di inesistenza, spetta al contribuente provare l’effettiva esistenza della prestazione. Dunque, la difesa si baserà sul presentare qualunque elemento provi che i corsi in qualche modo sono stati erogati. Ad esempio: esibire email di convocazione ai corsi inviate ai dipendenti, eventuali materiali didattici forniti, slide, dispense, qualunque evidenza che il fornitore abbia svolto almeno parte dell’attività formativa. Se si riesce a reperire partecipanti disposti a testimoniare che almeno una parte del corso si è svolta (anche se magari meno ore di quelle fatturate), può aiutare. Importante anche mostrare la buona fede dell’azienda: dimostrare che all’epoca quella associazione culturale appariva legittima (magari era accreditata per la formazione presso la Regione, aveva un sito web, ecc.), e che l’azienda cliente ignorava la natura fraudolenta. Questo può servire almeno ad escludere le sanzioni amministrative per concorso in frode, invocando l’art. 6 comma 5-bis D.Lgs. 472/97 (esclusione sanzioni se il contribuente dimostra che non aveva consapevolezza della falsità delle fatture, avendo agito con diligenza). Nel caso in esame, se l’impresa dimostra di aver scelto quell’ente perché compariva in elenchi ufficiali di enti formatori, di aver pagato tutto con mezzi tracciati, di aver preteso regolare fattura, ecc., può sperare in clemenza sanzionatoria.

Tuttavia, per salvare la deduzione del costo bisogna provare l’effettiva utilità ricevuta. Se il corso proprio non c’è stato, non c’è molto da fare: quel costo non può restare deducibile. Si può valutare se riclassificarlo come illecito del dipendente o dell’amministratore (ad esempio, se chi ha organizzato la frode era interno all’azienda – ma questa è più materia penale/risarcitoria). Ai fini tributari, purtroppo, se non c’è stata prestazione, la deduzione è illegittima. Il focus difensivo si sposta allora sulla riduzione del danno: cercare di ottenere almeno la non punibilità penale e magari la riduzione delle sanzioni amministrative. Come? Utilizzando l’istituto del ravvedimento operoso speciale per i reati tributari: l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede la non punibilità per dichiarazione fraudolenta o infedele se il contribuente paga integralmente il debito tributario (imposte, interessi, sanzioni) prima dell’apertura del dibattimento penale. Quindi, se ci si accorge di una situazione del genere (costi falsi), conviene pagare il dovuto al Fisco il prima possibile, in modo da estinguere il reato. Nel caso di 100k di fatture false, pagare tutto potrebbe “salvare” gli amministratori da condanne che altrimenti sarebbero pesanti (oltre 100k di imposta evasa per frode significa potenzialmente >4 anni di reclusione). Se si paga e si patteggia, spesso la pena viene sospesa e nessuno va in carcere. Da notare: l’art. 13 richiede di pagare tutte le pendenze fiscali dell’imputato, non solo quelle oggetto di quel procedimento, per avere la non punibilità. Questo può essere un onere notevole, ma va valutato a fronte del rischio penale.

In parallelo, nel processo tributario, se il pagamento è avvenuto, il contribuente potrebbe tentare una strategia conciliativa: far presente che ha già versato tutto (magari con sanzioni ridotte se aderito), quindi invitare l’Ufficio a chiudere il contenzioso. Spesso, dopo aver incassato, l’Agenzia è più disponibile a una conciliazione in appello, magari riducendo ulteriormente le sanzioni. In ogni caso, se la prova della prestazione è carente, difficilmente il giudice tributario darà ragione al contribuente.

Riassumendo: per difendersi da contestazioni di operazioni inesistenti occorre prevenire (ne parleremo ancora nella sezione successiva sui documenti da conservare e sulle cautele) oppure, se già scoppiate, pagare e transare per limitare i danni. Raramente conviene intestardirsi a fare causa su costi chiaramente fasulli, perché le chance di vincere sono scarse e si rischia pure il penale.

3. Contestazione per carenza di documentazione (il Fisco dice: “mancano i registri firme, quindi il corso forse non c’è stato”)

Scenario: Questa è una variante più “soft” del caso precedente. L’Agenzia non afferma esplicitamente che la spesa sia falsa, ma evidenzia che la documentazione è lacunosa e quindi presume che il corso possa non essere stato svolto regolarmente. Ad esempio, l’azienda ha una fattura per un corso ma non ha conservato né il registro delle presenze né l’attestato finale di partecipazione. In sede di verifica, l’azienda magari esibisce solo il contratto col formatore e qualche slide. L’Ufficio, constatando l’assenza di pezze giustificative usuali, mette in dubbio l’effettività e contesta la deduzione.

Difesa: Qui la difesa è più agevole rispetto al caso di frode conclamata, perché non c’è l’ombra di un reato ma solo un’insufficienza probatoria. Il contribuente può correre ai ripari cercando di raccogliere ex post tutto ciò che è possibile: per esempio, contattare i partecipanti al corso (dipendenti) e ottenere dichiarazioni scritte in cui attestano di aver partecipato e cosa hanno fatto; ricostruire il calendario delle lezioni; se il formatore esiste ancora, farsi rilasciare un attestato tardivo o almeno una conferma scritta che il corso si svolse in certi giorni con tot ore e tot persone. Insomma, fornire al giudice anche tardivamente quei riscontri che non si erano conservati prima. Il giudice tributario, a differenza di quello penale, tende ad ammettere anche prove formate dopo (non c’è un rigido divieto, anche se ovviamente la loro attendibilità sarà valutata con cautela).

Un contributo difensivo può venire dal sostenere che nessuna norma tributaria impone esplicitamente di tenere registri firme per dedurre un costo. Cioè, il contribuente può argomentare: “è vero, non ho il registro firme, ma la legge fiscale non obbliga a questo adempimento, io ho la fattura e il pagamento, quindi ho già la prova del costo”. Questa linea poggia sul fatto che l’art. 109 TUIR chiede spese certe e determinabili, documentate, ma non specifica le modalità interne di documentazione. Tuttavia, attenzione: se c’è di mezzo il credito d’imposta Formazione 4.0, in quel caso i registri firme erano espressamente richiesti dalla normativa secondaria (DM 4/5/2018), quindi la mancanza di registro preclude il credito. Ma qui stiamo parlando di deduzione del costo: per la deduzione in sé, non c’è un DM che imponga registri. Quindi, l’azienda può dire: “ho altri mezzi per provare che il corso è avvenuto, la mancanza del registro non significa automaticamente che non c’è stato”.

Certamente, la difesa migliore è portare almeno un attestato finale (anche prodotto in copia digitale se l’originale è smarrito) o lettera del docente, ecc. In mancanza totale di riscontri, si rischia di perdere: come detto, nel dubbio il giudice potrebbe considerare la spesa indimostrata e dar ragione al Fisco, visto che il beneficio del dubbio non opera a favore del contribuente in tributario. Però se si forniscono dichiarazioni precise e dettagliate, magari unite a elementi oggettivi (e-mail di convocazione mandate mesi/anni prima – se recuperabili dai server; copie di materiali didattici timbrati dal fornitore; fotografie scattate durante il corso; ecc.), allora si può convincere la Commissione che il corso è stato tenuto e quindi la spesa è reale.

Best practice: In questa difesa entra in gioco anche il concetto di diligenza nella tenuta documentale. Un’azienda che mostra di aver comunque conservato tutto il possibile (contratti, slide, ecc.) e spiega perché manca quel determinato documento (es. “il registro era stato consegnato al referente che poi è deceduto e non lo troviamo”) può fare appello alla ragionevolezza del giudicante. Resta comunque un fatto: di solito, se mancano completamente registri e attestati, significa che la gestione amministrativa è stata carente. Il giudice potrebbe concludere che, pur non provando la falsità assoluta, la carenza di prova va a sfavore del contribuente (onus probandi non assolto).

Per evitare di trovarsi in questa situazione, approfondiremo a breve quali documenti bisogna sempre conservare per sostenere le spese di formazione.

4. Contestazione di qualificazione (il Fisco dice: “non era una spesa di formazione deducibile, ma un beneficio personale/compenso occulto”)

Scenario: In alcuni casi limite, l’Ufficio potrebbe sostenere che la spesa, pur effettivamente sostenuta e relativa a un corso, non doveva essere imputata a costo dell’azienda perché è in realtà un vantaggio personale per qualcuno. Si ha allora una riqualificazione: da costo deducibile a utilità a favore di socio o amministratore, con conseguente indeducibilità e, eventualmente, tassazione in capo al percettore. È il caso ad esempio della azienda familiare che paga un master universitario al figlio del titolare: l’Agenzia potrebbe dire che quel master non c’entra con l’impresa ma serve solo al figlio per farsi il curriculum, configurando un’uscita di utili non dichiarati.

Esempio tipico: La Alfa S.p.A., operante nel settore commerciale, sostiene per il figlio del presidente (neolaureato in economia) le spese di un prestigioso MBA negli USA, pagando €50.000. Il figlio in azienda non aveva ancora un ruolo definito (non era formalmente dipendente né aveva deleghe operative, anche se era nel CDA senza compenso). L’azienda deduce i €50.000 come “costo di formazione del personale”. In verifica, il Fisco contesta che non c’è inerenza, e inoltre suggerisce che si tratta di un utilizzo di risorse aziendali per scopi personali. Potrebbe configurarla come compenso in natura al presidente (padre) o come dividendo occulto al figlio socio.

Difesa: Queste situazioni sono difficili da difendere se effettivamente l’operazione era fatta più nell’interesse del figlio che dell’azienda. Tuttavia, ci si può provare impostando la difesa su due livelli: 1. Sulla deducibilità: argomentare che la formazione del figlio rientrava in un percorso di successione manageriale dell’azienda, quindi era orientata a dotare la società di un futuro dirigente più competente. Se, ad esempio, esiste un verbale del Consiglio di Amministrazione che approva il finanziamento del master in quanto “investimento sul management futuro”, presentarlo. Se il figlio poi, dopo il master, ha effettivamente assunto un ruolo di responsabilità in azienda, evidenziarlo: ciò dimostra che la spesa ha avuto un ritorno aziendale (il figlio è diventato ad es. direttore finanziario applicando le conoscenze acquisite). In mancanza di evidenze così forti, almeno sostenere che il figlio era già parte dell’organico (anche se non formalmente assunto) e che il master era finalizzato a fargli acquisire competenze utili all’azienda (marketing, management internazionale, ecc.), dunque non è stato un regalo fine a sé stesso ma aveva un nesso con l’attività aziendale.

  1. Sulla riqualificazione come compenso/dividendo: contestare questa impostazione, sottolineando che nessuna somma è stata erogata direttamente al socio, ma il pagamento è andato alla business school (fornitore terzo). Giuridicamente, un dividendo è distribuzione di utili ai soci: qui invece i soldi sono stati spesi dall’azienda. Un compenso in natura al presidente? Possibile se il presidente avesse un obbligo di mantenimento del figlio – ma così non è, quindi la spesa non ha arricchito direttamente il presidente. In sostanza si può provare a sostenere che non si configura un arricchimento personale tassabile, bensì al limite una spesa non inerente (già sanzionata con l’indeducibilità). Si può citare che la Cassazione in caso di rimborsi spese a soci non documentati ha parlato di compensi occulti, ma qui c’è documentazione (la fattura del master) e la destinazione è formativa.

Questa linea è però sottile. Onestamente, se gli elementi fattuali depongono per un’utilità privata, è arduo convincere che fosse aziendale. Si può eventualmente concordare in sede di adesione un esito di compromesso: l’ufficio rinuncia a fare rilievi ai soci (tassazione per loro), e il contribuente accetta la ripresa come indeducibile per la società con sanzione ridotta. In questo modo si chiude la vicenda sul piano della società senza aprire fronti su IRPEF soci.

Va detto che se invece l’azienda riesce a dimostrare che la persona formata era effettivamente una risorsa aziendale e che il corso è stato sfruttato a vantaggio dell’impresa, allora la deducibilità può essere difendibile. Ad esempio: Alfa S.p.A. dimostra che il figlio, anche se non formalmente dipendente, collaborava attivamente come direttore marketing da tempo, e che dopo l’MBA è tornato e ha lanciato con successo una nuova linea di business internazionale. In tal caso, c’è inerenza concreta e l’accertamento può essere ribaltato, presentando queste prove al giudice. Una Commissione potrebbe ritenere che, data la specificità del caso (figlio operante nell’azienda), l’investimento formativo fosse giustificato e non un mero benefit personale.

Conclusione su questo punto: evitare situazioni promiscue. Se un’impresa intende pagare studi ai figli dei titolari, è bene formalizzare con contratti di formazione o di lavoro, e motivare la cosa con delibere che ne evidenzino l’interesse sociale. Altrimenti, in contenzioso la si pagherà cara perché l’onere della prova dell’inerenza in questi casi è quasi proibitivo.

5. Contestazioni relative al Credito d’imposta Formazione 4.0 (corso ammissibile o no, rispetto degli adempimenti)

Scenario: L’accertamento può riguardare non solo la deducibilità del costo, ma anche la spettanza di un credito d’imposta formazione. Gli scenari tipici: l’Agenzia contesta che certi corsi inseriti nel credito non erano eleggibili (ad es. erano formazione “ordinaria” o non tecnologica), oppure che mancano documenti obbligatori (registro, relazione finale, certificazione). In questi casi, l’oggetto del contendere principale è il credito (che comporta recupero di imposta se revocato). Tuttavia, spesso l’Ufficio contesta contestualmente anche la deducibilità se ritiene i corsi non effettuati. Più comunemente però, se un corso non era ammissibile al credito 4.0, resta comunque un costo deducibile sul reddito (come già spiegato). Quindi qui la difesa riguarda più la conservazione del credito.

Esempio tipico: La Beta S.r.l. ha fruito di €30.000 di credito formazione 4.0 nel 2020. In verifica, l’Agenzia rileva che tra i corsi rendicontati ve n’erano alcuni obbligatori (sicurezza sul lavoro) e che manca la relazione finale firmata dal docente. Decide di revocare parte del credito (diciamo €5.000 riferiti ai corsi obbligatori) e applicare la sanzione del 100%. Beta fa ricorso.

Difesa: Sul credito d’imposta la normativa è precisa: i corsi obbligatori per legge erano esclusi dal beneficio (art. 3 DM 4/5/2018), quindi se Beta li ha inseriti non c’è scampo: quel credito non spettava. Dovrà restituirlo. La sanzione però potrebbe essere contestabile: se Beta ad esempio ha interpretato erroneamente la norma in buona fede, potrebbe chiedere la sanzione del 30% (credito non spettante) invece del 100% (credito inesistente), sostenendo che l’errore era riconoscibile dai controlli automatici (in realtà è arduo, perché in dichiarazione non era distinguibile la tipologia di corso, quindi l’AdE non poteva accorgersene subito – quindi tecnicamente è credito inesistente). Sulle carenze documentali (mancanza di relazione finale): Beta può provare a sanarle in extremis fornendo ora una relazione dettagliata, sperando che la Commissione la accetti come comunque attestante l’attività svolta. Ma formalmente la norma la richiedeva entro il periodo d’imposta. Dunque la difesa migliore è puntare su ragioni procedurali: ad esempio, se la contestazione è arrivata oltre i termini (ma in genere per crediti sono 8 anni, come visto), oppure cercare di dimostrare che la mancanza di quel documento non inficia la realtà della formazione svolta (magari avevano già il registro firme e la certificazione del revisore, e la relazione era poco più di un riepilogo). In definitiva, le cause sul credito 4.0 spesso vedono soccombere i contribuenti se non hanno seguito pedissequamente le regole. Si può tentare una conciliazione riducendo la sanzione, oppure invocare l’applicazione retroattiva di norme di favore se ce ne sono state (ad esempio proroghe che hanno alleggerito requisiti per PMI, ecc.).

Nel contesto di questa guida, l’importante è capire che le contestazioni sul credito 4.0 non implicano automaticamente che il costo sia fittizio. Un corso può essere reale e inerente ma non agevolabile; in tal caso, come già detto, il credito va restituito ma il costo rimane dedotto. Il contribuente potrà eventualmente accettare ciò, rinunciando al credito ma difendendo la bontà del costo.

Corsi obbligatori nel credito: se il contenzioso riguarda quelli, la difesa è praticamente impossibile perché la legge li escludeva espressamente – nulla da eccepire. Al più si può discutere se quel corso era effettivamente obbligatorio per legge o no (ci sono zone grigie: es. corsi su normative ambientali, sono obbligatori? Dipende…). Se Beta S.r.l. riesce a dimostrare che il corso contestato non era propriamente obbligatorio ma volontario (magari su un tema non strettamente richiesto dalle norme), potrebbe recuperare la spettanza del credito su quello. È questione di definizioni e va affrontata con perizia tecnica e normativa.

Come prepararsi e difendersi: consigli pratici, procedura e strumenti

In questa sezione forniamo consigli pratici su come agire quando si subisce un accertamento per spese di formazione contestate. Si parte dalle precauzioni preventive (come documentare le spese) fino alle scelte da fare durante il procedimento (adesione vs ricorso, ecc.), passando per l’utilizzo degli strumenti deflativi e la gestione di eventuali aspetti penali.

Documentazione da conservare per evitare (o vincere) le contestazioni

Una regola aurea per chi deduce spese di formazione è: conservare tutto il possibile riguardo a quei corsi. La documentazione è l’arma principale di difesa. Ecco un elenco dei documenti e prove che idealmente andrebbero raccolti e mantenuti in archivio per ogni attività formativa:

  • Contratto o convenzione col fornitore del corso: un documento sottoscritto in cui si dettagliano oggetto del corso, durata, numero di partecipanti, costi, modalità di svolgimento. Questo prova l’accordo formativo.
  • Programma dettagliato del corso (brochure, syllabus, calendario delle lezioni): con indicazione degli argomenti trattati, dei docenti, delle ore previste. Serve a dimostrare il contenuto e la pertinenza delle materie insegnate.
  • Fatture e ricevute di pagamento: naturalmente le fatture (intestate correttamente all’azienda o al professionista) e le evidenze dei pagamenti (bonifici, assegni, ricevute) vanno conservate con cura. Sono il primo riscontro di esistenza del costo.
  • Registro delle presenze: un foglio firme, preferibilmente giornaliero, dove ogni partecipante firma per attestare la presenza a ogni sessione, così come il docente. Questo è cruciale per i corsi lunghi; per convegni di un giorno spesso non c’è, ma avere almeno un attestato di partecipazione con firma va bene.
  • Materiale didattico distribuito: dispense, slide, esercitazioni, eventuali test finali o project work prodotti durante il corso. Conservare copie di tutto questo fornisce evidenza tangibile dell’attività svolta (es: se ho le dispense, vuol dire che il corso c’è stato ed erano gli argomenti trattati).
  • Attestati individuali di partecipazione: al termine di ogni corso, far rilasciare un attestato per ciascun partecipante, recante nome, cognome, titolo del corso, ente formatore, durata (ore) e firma del responsabile dell’ente. Questo è il documento che spesso chiude il fascicolo e viene chiesto al partecipante per ottenere crediti formativi o solo come ricordo. Per il Fisco è una prova che Tizio ha effettivamente seguito il corso X per Y ore.
  • Documentazione accessoria: email di convocazione o iscrizione al corso (per dimostrare la corrispondenza intercorsa col fornitore e l’organizzazione logistica), eventuali foto scattate durante le lezioni o gli workshop (se non riservate – ovviamente foto di gruppo al corso possono essere utili), eventuali report finali sull’esito della formazione (alcuni enti rilasciano una relazione sui risultati raggiunti).
  • Nel caso di crediti d’imposta: tutti i documenti specificamente richiesti dalla normativa agevolativa. Ad esempio, per Formazione 4.0: la comunicazione/accordo sindacale iniziale che coinvolgeva il personale, la certificazione del revisore sui costi del personale formazione, l’eventuale relazione tecnica sui contenuti tecnologici svolti, e come già detto registro e attestati. Mantenere anche una copia della dichiarazione dei redditi dove il credito è stato indicato (RU), per completezza.

Tutta questa documentazione andrebbe archiviata in un fascicolo dedicato per ogni corso o evento formativo. Così, in caso di verifica, l’azienda può presentare un dossier completo che spesso disarma il verificatore: davanti a firme, attestati, programmi, è difficile per l’Agenzia sostenere che il corso era finto. Molte contestazioni infatti nascono proprio perché mancano registri o attestati, facendo sorgere il sospetto che la formazione sia finta. Non dare adito a dubbi è la migliore strategia.

Per quanto tempo conservare? I documenti fiscali vanno tenuti fino a scadenza dei termini di accertamento (in genere 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione). Ma consigliamo di mantenere questi fascicoli almeno 8-10 anni, perché: (a) se c’è una violazione penale (fatture false), il termine raddoppia a 10 anni; (b) per i crediti d’imposta, spesso la legge consente recuperi fino a 8 anni dall’utilizzo del credito. Quindi, prudenzialmente, 10 anni è la soglia sicura. Ad esempio, i documenti di un corso svolto nel 2018 (dichiarazione 2019) dovrebbero essere conservati almeno fino al 31/12/2028 (10 anni dopo il 2018) se c’è mezzo un credito, o 31/12/2025 se no – ma meglio allinearsi a 2028 per stare tranquilli.

Come reagire a un PVC o avviso di accertamento su spese di formazione

Immaginiamo che, nonostante tutte le cautele, arrivi la contestazione. Di solito l’iter è: se c’è stata verifica in azienda, viene rilasciato un Processo Verbale di Constatazione (PVC) che include tra i rilievi quello sulle spese di formazione indebitamente dedotte. Oppure, se il controllo è a tavolino, potreste ricevere direttamente un avviso di accertamento senza PVC previo (ciò può avvenire soprattutto se parliamo di controllo formale o da ufficio su documenti inviati).

Caso 1: Ricevo un PVC che mi contesta queste spese. Cosa fare nei 60 giorni? – Il PVC è una grande opportunità perché apre la fase del contraddittorio endoprocedimentale ex art. 12 c.7 L.212/2000 (Statuto del contribuente). Dal giorno della notifica/consegna del PVC, il contribuente ha 60 giorni per presentare osservazioni e richieste all’Ufficio. In questi atti scritti (memoria difensiva) si possono controdedurre punto per punto ai rilievi del PVC. Questo è il momento di “sparare le proprie cartucce”: fornire spiegazioni, allegare documenti che magari i verificatori non avevano visto, citare prassi o sentenze a proprio favore. È fondamentale non ignorare mai un PVC: presentare osservazioni è un diritto e dovere, perché l’Agenzia è tenuta per legge a valutarle prima di emettere l’atto finale (salvo casi eccezionali di urgenza/frode in atto, che qui non ricorrono di solito).

Quindi la difesa in questa fase consiste nel predisporre una memoria dettagliata: ad esempio, si chiariscono eventuali malintesi (es. “i verificatori hanno scritto che mancava l’attestato, ma in realtà eccolo in allegato” oppure “hanno ritenuto non inerente il corso X, ma spieghiamo perché invece era utile…”). È utile allegare tutto ciò che può far ricredere l’Ufficio almeno in parte: se si convincono a togliere il rilievo o a ridurre la rettifica, meglio. Anche se spesso si pensa che “tanto hanno già deciso”, non è sempre così: molte volte le osservazioni portano a uno sgravio parziale o alla riduzione delle sanzioni in sede di atto finale, oppure inducono il funzionario a riconsiderare alcuni aspetti. Inoltre, presentare osservazioni scritte è utile anche in vista del contenzioso: dimostra la buona fede e soprattutto permette di cristallizzare la vostra difesa già prima dell’avviso, costringendo l’Ufficio a prenderne atto. Se poi ignorano argomenti solidi, questo potrà essere sottolineato in ricorso.

Quindi, in pratica dopo un PVC entro 60 giorni bisogna: analizzarlo attentamente con un fiscalista, raccogliere controprove, scrivere la memoria (da inviare con raccomandata A/R o PEC e da protocollare). Questo è il primo step difensivo cruciale.

Durante questi 60 giorni, si può anche valutare se sussistono i presupposti per evitare l’accertamento aderendo subito: talvolta, dopo il PVC, il contribuente può proporre una sorta di adesione anticipata. Ad esempio, se l’evidenza è sfavorevole (corsi fittizi), uno potrebbe in sede di osservazioni già manifestare la volontà di pagare, chiedendo la definizione agevolata delle sanzioni. Dipende dalla situazione. L’importante è comunque non restare passivi.

Caso 2: Arriva direttamente un Avviso di Accertamento. – Se non c’è PVC o i 60 giorni sono trascorsi, ci si trova di fronte all’atto impositivo. A questo punto le opzioni sono:

  • Adesione all’accertamento (accertamento con adesione, D.Lgs. 218/97): entro 30 giorni dalla notifica dell’avviso si può presentare istanza di adesione e aprire un dialogo con l’Ufficio, sospendendo i termini per ricorrere. L’adesione è una procedura di tipo “transattivo” in cui si cerca un accordo sulla tassazione dovuta. Se si trova un accordo, si pagherà il tributo concordato con sanzioni ridotte a 1/3 (quindi notevole sconto sulle penali). L’adesione chiude la questione senza processo.
  • Ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria): entro 60 giorni (o 90 se c’è sospensione feriale) dalla notifica dell’avviso, presentare ricorso presso la Commissione competente. Se l’importo in contestazione (imposta+interessi+eventuali sanzioni) non supera €50.000, il ricorso è preceduto da una fase di reclamo-mediazione obbligatoria (art. 17-bis D.Lgs. 546/92): in pratica il ricorso viene esaminato da un ufficio di mediazione dell’Agenzia e si può giungere a conciliazione, con riduzione sanzioni a 1/3. Se la mediazione fallisce, si va avanti col giudizio.

Cosa conviene fare? Aderire o ricorrere? – Dipende dalla forza del vostro caso e da valutazioni economiche. In generale, l’adesione ha il vantaggio di chiudere presto e con sanzioni ridotte, ma implica accettare (in tutto o in parte) la pretesa. Il ricorso dà la chance di annullamento totale ma con tempi lunghi e costi (avvocato, contributo unificato) e incognite. Dunque:

  • Se siete sicuri di avere ragione – ad esempio avete prove granitiche che i corsi si sono svolti e che l’accertamento è infondato – può valere la pena fare ricorso fino in fondo. In caso di vittoria, non pagherete nulla (né imposta né sanzione) e potreste anche farvi rimborsare le spese legali dal Fisco (il giudice spesso liquida un importo a favore del contribuente vincitore).
  • Se la situazione è incerta o con qualche punto a sfavore (es. mancanze documentali, o dubbi sull’inerenza), forse è prudente cercare un accordo in adesione o mediazione. Così ottenete l’abbattimento delle sanzioni (a un terzo) e magari l’Ufficio potrebbe riconoscere qualcosa (es. dedurre almeno una parte del costo). A volte il funzionario in adesione è disposto a compromessi che in giudizio non sarebbero scontati (es. “Ok, le riconosciamo la metà del costo come inerente e togliamo la sanzione sull’altra metà”).
  • Importo in ballo: va considerato il valore economico. Se le somme sono modeste (es. 2-3 mila euro di imposta), fare ricorso può costare quasi di più in termini di parcella e tempo: il gioco potrebbe non valere la candela. Viceversa, per cifre molto grosse, il risparmio in sanzioni ottenuto con una conciliazione potrebbe essere di decine di migliaia di euro – da valutare seriamente.

Una strategia spesso adottata è quella di presentare comunque ricorso entro i termini per non precludersi la difesa, e contestualmente tenere aperta la porta della conciliazione. Ovvero: depositate ricorso (magari anche “forte” nei toni per mostrare all’Ufficio che avete argomenti validi), dopodiché l’Ufficio, leggendo il ricorso, se lo trova convincente, potrebbe contattarvi per un accordo. La conciliazione si può fare fino alla prima udienza o addirittura in appello. Quindi nulla vieta di iniziare il contenzioso e poi accordarsi. Questa opzione protegge il contribuente nel caso in cui l’Ufficio non voglia transigere: almeno avete il processo avviato e potete far valere le vostre ragioni davanti ai giudici.

In sintesi: se il diritto è chiaramente dalla vostra parte, proseguite col ricorso; se l’esito è incerto e le sanzioni potenzialmente elevate, valutate di trattare. Ogni caso è a sé, quindi è importante farsi consigliare dal professionista di fiducia, il quale potrà anche stimare le probabilità di vittoria.

Nota: quando si presenta ricorso, se l’importo è alto, l’Agenzia iscrive a ruolo 1/3 delle imposte accertate (e relative sanzioni ridotte). Può essere opportuno chiedere alla Commissione la sospensione dell’esecuzione per evitare di pagare subito tale importo provvisorio, soprattutto se si tratta di somme ingenti che mettono in difficoltà la liquidità. Per ottenere la sospensione bisogna dimostrare sia il fumus boni iuris (cioè che il ricorso non è campato in aria e ha chance di vittoria, magari allegando già prove convincenti) sia il periculum in mora (il danno che patireste dal pagamento immediato, es. crisi di liquidità). Nei casi di spese di formazione false con importi alti e sanzione 100%, non è raro chiedere sospensione, perché l’esborso potrebbe altrimenti essere devastante per la società. La sospensione può essere concessa con ordinanza motivata dal giudice tributario.

Aspetti penali: come gestire (e mitigare) i rischi di reato tributario

Quando le contestazioni fiscali sulle spese di formazione assumono un carattere di frode o falsità, scatta il possibile coinvolgimento penale. I reati potenzialmente configurabili sono principalmente due:

  • Dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000): se si sono utilizzate fatture false per spese mai avvenute, indipendentemente dall’importo. Pena da 4 a 8 anni di reclusione (soglie di punibilità: non ve ne sono di imposta evasa, basta l’uso di fatture false, ma dopo la riforma del 2019 vi è soglia di €100.000 oltre la quale scatta l’arresto obbligatorio in flagranza ecc.).
  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): se le spese indebite non sono con fatture false, ma ad esempio si tratta di costi non inerenti inseriti dolosamente per evadere. Scatta però solo se l’imposta evasa supera €100.000 e gli elementi attivi sottratti a tassazione superano il 10% del totale o comunque 2 milioni. Pena fino a 3 anni (ora elevata a 4 anni, con soglia a 100k invece di 50k, dopo DL 124/2019).
  • Indebita compensazione (art. 10-quater) se parliamo di crediti d’imposta non spettanti sopra soglie (€50k). Ma per Formazione 4.0, se eccedente 50k annui, in teoria potrebbe configurarsi.
  • Emessa fatture false (art. 8) per chi eventualmente dall’altra parte produce i documenti.

Ora, come anticipato, esiste uno strumento chiave: l’esonero da pena per pagamento integrale (art. 13 D.Lgs. 74/2000). Se un contribuente si vede indagato per aver dedotto false spese di formazione, la mossa più efficace è pagare tutto il dovuto al Fisco il prima possibile (idealmente prima dell’eventuale rinvio a giudizio). In questo modo, il reato di dichiarazione fraudolenta o infedele viene dichiarato estinto dal giudice penale. L’importante è che il pagamento sia integrale (imposte, interessi, sanzioni amministrative) e tempestivo (prima del dibattimento). Se è dopo l’inizio del dibattimento, non c’è esonero ma solo una circostanza attenuante. Inoltre, come detto, bisogna regolarizzare tutti i debiti fiscali eventualmente collegati, non solo quello specifico (per evitare che uno spenga un incendio e ne lasci accesi altri).

Nella pratica, di fronte a una contestazione grave (es. fatture false per decine di migliaia di euro), conviene attivare subito il proprio legale e commercialista per quantificare il dovuto e concordare con l’Agenzia un pagamento. A volte si può chiedere un breve piano di rate (entro l’inizio del dibattimento), ma l’importante è l’impegno a estinguere. Spesso la Procura e i difensori concordano i tempi perché il pagamento avvenga e poi si procede magari a patteggiamento con pena sospesa. Per l’imputato, infatti, pagare conviene: meglio un esborso economico oggi che una condanna penale domani con rischio di interdizioni, incandidabilità ecc.

Fortunatamente, come osserva anche AvvocatiCartelle (Studio Monardo), i casi di effettiva carcerazione per false spese di formazione sono rari e legati a frodi massive organizzate. Il singolo contribuente incensurato che collabora, paga e magari patteggia, di regola non va in prigione. Il rischio di dover scontare una pena esiste se uno ignora del tutto il problema: se non paga nulla, affronta il processo, perde e aveva evaso molto, allora la condanna può essere eseguita (specie dopo l’inasprimento pene del 2019, che rende più difficile rimanere sotto i 2 anni sospendibili). Quindi, ancora una volta: attivarsi per riparare è la chiave.

Un altro aspetto: se il contribuente è una società, i reati fiscali sono a carico delle persone (amministratori, rappresentanti) non della società. Però la società può essere chiamata in causa come responsabile civile o subire sequestri preventivi sui beni (fino a concorrenza del profitto del reato, cioè imposte evase). Dunque, pagando il debito tributario, si liberano anche eventuali sequestri e ipoteche penali.

Infine, se dovesse malauguratamente capitare una perquisizione o indagine penale in corso (ad es. la GdF che indaga sulle false fatture di corsi), è fondamentale collaborare attraverso il legale, fornire le stesse prove di buona fede che usereste nel tributario (ad esempio, se avete elementi di aver creduto genuinamente al fornitore, portateli all’attenzione degli inquirenti). Spesso, come detto, chi è cliente inconsapevole di una frode più grande viene poi prosciolto o vede derubricata la posizione. L’importante è dimostrare di non aver avuto dolo (intenzione di evadere), ma di essere stato vittima di un raggiro del fornitore. Ci sono casi di archiviazione per contribuenti che hanno mostrato di aver controllato il fornitore nei registri, di non avere legami con esso, ecc. Naturalmente, ciò non salva dal pagare le tasse evase, ma almeno evita la macchia penale.

Impugnare o lamentarsi dei danni subiti per un accertamento illegittimo: si può chiedere risarcimento?

Molti contribuenti, quando vincono un contenzioso, chiedono se possono ottenere anche un risarcimento per il tempo e i fastidi subiti dall’accertamento ingiusto. Purtroppo, nel processo tributario non è previsto il risarcimento del danno da atto impositivo illegittimo. La soddisfazione del contribuente vittorioso consiste nell’annullamento dell’atto e, se richiesto, la rifusione delle spese di lite (ossia un rimborso delle spese legali). I giudici tributari possono condannare l’Ufficio a pagare le spese processuali al contribuente vincitore, ed è la via più diretta per essere almeno ristorati del costo dell’avvocato.

Un risarcimento per danno morale o stress non è contemplato nel contenzioso tributario. Solo in casi eccezionali, se l’azione del Fisco è stata particolarmente vessatoria o scorretta (ad esempio, un accanimento ingiustificato, sequestri illegittimi di beni…), si potrebbe tentare un’azione separata (civile) contro l’Agenzia per danni da responsabilità aquiliana. Ma è molto difficile vincerla, perché la Pubblica Amministrazione gode di una sorta di immunità salvo colpa grave. Bisognerebbe provare un comportamento abnorme dell’Ufficio. In pratica, queste cause sono rarissime e con esito incerto.

Quindi, in caso di vittoria, accontentatevi di aver evitato di pagare ingiustamente. Se avete subito danni specifici (es. un fermo amministrativo illegittimo su un macchinario vi ha fatto perdere un contratto), teoricamente potreste chiedere i danni in sede civile, ma preparatevi a un lungo iter e a dover provare la colpa grave del funzionario. Nella generalità dei casi, è poco praticabile.

Conviene piuttosto concentrarsi, in caso di annullamento totale in primo grado, sul farsi liquidare le spese: quando depositate memorie finali, chiedete al giudice di condannare l’Agenzia alle spese di giudizio, depositando magari una nota spese (parcella). Spesso i giudici tributari, se vedono che l’atto era chiaramente infondato, assegnano qualche migliaio di euro di spese a favore del contribuente. Non copre magari tutto il disagio, ma è qualcosa.

Prevenire future contestazioni analoghe

Supponiamo che abbiate chiuso la vicenda (per accordo o vittoria). Come evitare di rivivere lo stesso incubo in futuro? Ecco alcuni suggerimenti di compliance fiscale preventiva:

  • Fare tesoro degli errori passati: Se la contestazione era dovuta a una mancanza (es. registri firme assenti), assicuratevi che d’ora in poi quei documenti vengano sempre prodotti e conservati. Se il problema era l’inerenza dubbia, d’ora in poi prima di iscrivervi a un corso costoso chiedetevi (e chiedete al consulente) se è realmente deducibile, così da evitare sorprese. In altre parole, migliorate i vostri sistemi interni di controllo.
  • Interpello all’Agenzia: In caso di dubbio preventivo su una spesa di formazione, potete utilizzare lo strumento dell’interpello ordinario (art. 11 L.212/2000). Ad esempio, ponete il quesito: “sono un libero professionista, intendo iscrivermi a un master XY in un’area attinente/affine alla mia attività, posso dedurre le relative spese come aggiornamento professionale?”. Se l’Agenzia (tramite Direzione regionale) risponde affermativamente, siete al sicuro: quella risposta vincola l’Amministrazione sulle vostre future dichiarazioni (purché rispettiate le condizioni esposte). L’interpello non si può fare per questioni di fatto o per chiedere valutazioni di inerenza troppo soggettive, ma se ben impostato (focalizzato su interpretazione normativa) può aiutare. Ad esempio, potete chiedere se una certa tipologia di corso rientra tra quelli deducibili al 100% ex art. 54. Certo, non si può interpello per ogni cosa minore, ma su casi dubbi e costosi conviene farlo. La risposta scritta dell’Agenzia vi “blinda” a livello fiscale.
  • Seguire pedissequamente le circolari esplicative sugli incentivi: se accedete a crediti d’imposta o bonus formazione, leggete attentamente le guide e circolari (MISE, Agenzia) e fatevi una checklist di tutti gli adempimenti richiesti, spuntandoli man mano. Ad esempio: accordo sindacale fatto? Sì. Registro firme? Sì. Relazione del docente? Sì, ecc. In questo modo evitate di perdere bonus per banalità.
  • Investire in formazione interna sulla compliance fiscale: suona ironico, ma spendere soldi per formare chi si occupa di amministrazione sui corretti comportamenti fiscali è essa stessa una spesa di formazione (deducibile!) che vi aiuterà a non incorrere in problemi. Ad esempio, organizzare un corso per il proprio personale amministrativo su “come documentare correttamente le spese aziendali” può evitare errori futuri. Un piccolo costo che previene grossi esborsi.
  • Audit interni volontari: se sapete di essere finiti nel mirino in passato, potreste fare una cosa in più: dopo aver chiuso la vertenza, per i periodi successivi fate controllare da un consulente esterno le vostre pratiche di deduzione spese di formazione. Una sorta di “tagliando fiscale” preventivo. Così, se emergono criticità, potete correggerle (es. non dedurre un costo borderline) prima che le noti il Fisco. Questo dimostra anche un cambio di atteggiamento e può farvi dormire più sereni.
  • Mantenere un profilo prudente nei periodi successivi: È probabile che, se siete stati oggetto di un accertamento su questo tema, finirete su una sorta di lista di attenzione interna dell’Agenzia. Significa che le vostre dichiarazioni dei prossimi anni potrebbero essere monitorate con più attenzione, specie se operate in un settore dove le frodi sono diffuse. E se c’è stato un procedimento penale, i vostri dati affluiranno in banche dati investigative, potenzialmente inserendovi in successive analisi di rischio GdF. Non esiste una “blacklist” ufficiale, ma ufficiosamente chi ha avuto contestazioni viene tenuto d’occhio. Dunque, per qualche anno, conviene evitare comportamenti aggressivi: ad esempio, non includete nei crediti d’imposta spese dubbie, a meno che siate certissimi di rispettare i requisiti. Se avete definito pagando la contestazione, l’Agenzia sa che avete ammesso l’addebito, quindi sarà ancora più vigilante. Se invece avete vinto in giudizio con annullamento, siete in parte “riabilitati” agli occhi del Fisco, ma ciò non toglie che possano rifare controlli se vedono altre anomalie. Quindi, rigore assoluto nella gestione fiscale futura: trasparenza, evitare spese anomale, e se ci sono, corredarle fin da subito di un dossier probatorio, come se doveste mostrarle l’indomani a un verificatore.

In definitiva, l’esperienza insegna che prevenire è meglio che curare. Una volta sperimentato un accertamento su spese di formazione, conviene implementare misure interne perché non riaccada. Il sistema offre anche strumenti (interpello, adesioni, ecc.) per gestire in modo proattivo la fiscalità, usateli a vostro vantaggio.

Domande frequenti (FAQ)

D: Cosa si intende esattamente per “false spese di formazione professionale”?
R: Si tratta di costi relativi a corsi, master, aggiornamenti professionali che vengono dichiarati al Fisco ma in realtà non sono legittimi. Può trattarsi di spese completamente inventate – ad esempio corsi mai tenuti, documentati solo da fatture false – oppure di spese reali ma non deducibili per legge (perché non inerenti all’attività o perché prive dei requisiti previsti). In pratica rientrano in questa categoria sia le operazioni inesistenti (fittizie) sia le irregolarità sostanziali in materia di deduzioni (cioè costi utilizzati impropriamente per abbattere le tasse). L’Agenzia delle Entrate, nei propri atti, non usa il termine “false” ma parla di “spese di formazione indebitamente dedotte” o di “crediti d’imposta formazione non spettanti”. Noi colloquialmente diciamo “false spese di formazione” per indicare tutte quelle situazioni in cui i costi dichiarati non trovano riscontro legittimo nella realtà economica del contribuente. Ad esempio, se un professionista deduce costi per un master che in realtà non ha mai frequentato, quella è una falsa spesa di formazione. Se un’azienda deduce il costo di un corso che però non ha nulla a che vedere con la sua attività (es. un corso di giardinaggio per un’impresa di software, senza ragioni particolari), è una spesa “indebitamente dedotta” per difetto di inerenza.

D: La mia azienda ha davvero svolto i corsi, ma l’Agenzia li contesta perché sostiene che non servivano all’attività: posso difendermi?
R: Sì, certamente. In questo caso non parliamo di frode, ma di inerenza della spesa. Come abbiamo discusso, può succedere che il Fisco giudichi un corso “non inerente” – magari perché il contenuto appare troppo generico o lontano dal core business aziendale. La difesa consisterà nel dimostrare concretamente l’attinenza del corso all’attività d’impresa. Ci sono vari modi: potete spiegare in dettaglio come le conoscenze acquisite siano state (o possano essere) applicate in azienda, mostrare documenti che provano un miglioramento nei processi o nei risultati grazie a quel corso, oppure che il corso era comunque utile per la crescita professionale dei dipendenti e quindi, indirettamente, dell’impresa. La legge e la giurisprudenza, come detto, vi sono abbastanza favorevoli sul principio: l’inerenza non richiede un vantaggio immediato o direttamente quantificabile, basta che il corso abbia una potenzialità di utilità nell’attività. Se riuscite a convincere il giudice di questo (magari supportati da precedenti sentenze analoghe a favore dei contribuenti), avete buone probabilità che la contestazione venga annullata. Quindi vale assolutamente la pena difendersi, argomentando nel merito. Se necessario, potete anche chiamare un consulente tecnico in giudizio (o produrre una perizia di parte) che certifichi la rilevanza di quelle competenze per il vostro settore; questo può dare autorevolezza alla tesi difensiva. In sintesi: se i corsi ci sono stati e l’unico dubbio è la loro utilità, presentate al giudice tutto ciò che dimostra che avevano una logica economica nell’impresa. Non limitatevi a concetti astratti: portate esempi concreti di benefici o spiegazioni dettagliate sul perché quell’argomento formativo era importante. Spesso, con una buona preparazione del caso, i giudici tributari riconoscono l’inerenza di spese che l’Ufficio in prima battuta non aveva compreso.

D: Ho usato un ente di formazione esterno che dopo è risultato essere una “cartiera” (società fantasma): rischi per me?
R: Purtroppo sì, ci sono rischi. Se l’ente era una cartiera, l’Agenzia presumerà che i corsi erano inesistenti, e quindi le vostre fatture verranno considerate false. Dovrete affrontare sia il recupero delle imposte con sanzioni, sia – sopra certe soglie – un possibile procedimento penale per dichiarazione fraudolenta (uso di fatture per operazioni inesistenti). Tuttavia, se voi ignoravate in buona fede la natura fraudolenta del fornitore, potete difendervi su due fronti: 1. In sede tributaria, provando per quanto possibile l’effettiva esecuzione dei corsi (se almeno in parte sono stati svolti) o almeno dimostrando la vostra diligenza e buona fede. Ad esempio, potreste esibire documenti che mostrano che l’ente appariva regolare (certificazioni, accreditamenti) e che avete pagato tramite bonifico su conto intestato all’ente. Questo non salverà la deduzione del costo se i corsi non ci sono stati, ma potrebbe aiutarvi a evitare le sanzioni amministrative per comportamento gravemente colposo. L’Agenzia talvolta, riconoscendo la buona fede, può limitarsi a recuperare le imposte senza applicare sanzioni (o applicandole al minimo) – è difficile ma ci sono stati casi. 2. In sede penale, dimostrando l’assenza di dolo da parte vostra, cioè che non eravate consapevoli di partecipare a una frode. Dovrete far emergere di aver adottato tutte le cautele ordinarie (verifica del fornitore, controllo dei documenti, etc.) e di essere stati ingannati. Se effettivamente avete elementi di buona fede (pagamenti tracciati, scelta del fornitore per referenze o convenzioni ufficiali, corrispondenza in cui l’ente vi sembrava legittimo), spesso in fase penale la posizione del “cliente inconsapevole” viene archiviata o si conclude con un proscioglimento.

Resta però il problema fiscale: se non si riesce a provare che i corsi si sono davvero svolti attraverso altri mezzi, le imposte dovrete comunque pagarle (non basta dire “pensavo fosse tutto regolare”). In sintesi, rischiate di dover restituire i benefici fiscali ottenuti (imposte risparmiate con quelle deduzioni o crediti), ma potete cercare di evitare le sanzioni amministrative e i guai penali dimostrando la vostra buona fede e cooperazione. Questo implica consegnare tutti i documenti, non ostacolare le indagini, eventualmente costituirsi parte lesa contro l’ente fraudolento. Spesso il fisco distingue tra il promotore della frode e i “clienti” inconsapevoli: questi ultimi se pagano il dovuto e non hanno recidive, evitano punizioni penali e magari ottengono sanzioni ridotte. L’importante è muoversi rapidamente: appena scoprite la situazione, attivate consulenti legali e fiscali per regolarizzare e difendervi.

D: Quali documenti dovrei conservare per evitare contestazioni sulle spese di formazione?
R: Come dettagliato nella sezione dedicata, dovreste conservare tutto il possibile. In particolare: – le fatture o ricevute di pagamento dei corsi (intestate correttamente alla vostra azienda o, se siete professionista, a voi);
– i contratti o accordi firmati con l’ente formatore (che specificano cosa, come, quando si farà formazione);
– i programmi dettagliati dei corsi (brochure, syllabus) con indicazione degli argomenti e della durata;
– i registri di presenza con firme giornaliere di partecipanti e docenti;
– eventuali test finali svolti o project work prodotti durante la formazione;
– le relazioni o report finali rilasciati dal formatore (alcuni fornitori forniscono un report sull’andamento del corso);
– gli attestati individuali consegnati ai partecipanti (con nome del partecipante, titolo del corso, ore svolte, firma dell’ente).

Inoltre, conservate email di convocazione, eventuali fotografie delle sessioni (se appropriate, es. foto di gruppo alla consegna attestati), materiale didattico distribuito (slide, dispense). Tutto può servire come prova. Se la normativa di un bonus richiede documenti specifici (es. la certificazione del revisore per i costi nel credito Formazione 4.0), assicuratevi di averli e conservarli anche oltre i termini obbligatori.

In pratica, l’ideale è tenere un fascicolo completo per ogni attività formativa, contenente ogni traccia. In caso di verifica, vi basterà esibire quel fascicolo affinché il verificatore abbia evidenza concreta che il corso c’è stato davvero e con le modalità indicate. Spesso, come detto, le contestazioni nascono proprio perché mancano registri o attestati, facendo sorgere il sospetto che la formazione sia finta. Non date spazio a dubbi: archiviate tutto in modo ordinato almeno finché i termini di accertamento non sono scaduti (meglio tenerli 8-10 anni, considerando i possibili controlli prolungati se ci sono crediti d’imposta). Per ricapitolare, i documenti imprescindibili sono: contratto corso, programma, fattura, pagamento, registro presenze, attestati finali. Con questi difficilmente avrete problemi; aggiungendo materiale extra (slide, foto) vi blindate quasi totalmente.

D: L’Agenzia può contestare spese di formazione sostenute anni fa? Quando scade la possibilità di accertamento?
R: I termini di accertamento “ordinari” per le imposte dirette (IRPEF, IRES) e per l’IVA sono di norma entro il quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (art. 43 DPR 600/73, art. 57 DPR 633/72). Ad esempio, se avete presentato la dichiarazione dei redditi 2020 (anno imposta 2019) nel 2020, l’ultimo giorno utile per l’accertamento su quell’anno è il 31 dicembre 2025. Quindi, in generale, l’Agenzia ha 5 anni dopo la dichiarazione per controllarvi su quelle spese.

Tuttavia, ci sono eccezioni importanti: – Se viene riscontrato un fatto penalmente rilevante (ad esempio l’uso di fatture false, reato ex art. 2 D.Lgs. 74/2000), il termine di accertamento raddoppia a 10 anni. Questo è previsto dall’art. 43 co.3 DPR 600/73. Quindi, per spese di formazione che configurino frode, l’Agenzia ha più tempo. Se avete inserito fatture false nel 2019, possono accertarvi fino al 2029. – Per i crediti d’imposta c’è una disciplina speciale: spesso gli atti di recupero dei crediti indebitamente utilizzati possono essere notificati entro 8 anni dall’utilizzo del credito. Questo perché i crediti “inesistenti” sfuggono ai normali controlli automatizzati e la legge concede più tempo (art. 27 DL 185/2008). Quindi, per prudenza, conservate la documentazione e siate pronti a difendere spese/crediti fino a 8-10 anni indietro se c’è stata una fruizione significativa di crediti. Ad esempio, un credito formazione 4.0 utilizzato nel 2018 potrebbe essere recuperato fino al 2026.

Dopo tali termini, scatta la decadenza: l’Ufficio non può più emettere avvisi per quell’annualità. Ricordate però una cosa: se avete presentato una dichiarazione integrativa a vostro favore riportando un credito (ad es. avete integrato nel 2022 la dichiarazione 2021 per aggiungere un credito formazione 4.0 non indicato prima), il termine di controllo potrebbe decorrere da quella integrativa. Caso complesso ma da tenere a mente: ogni volta che presentate documenti successivi, i termini possono allungarsi. In generale, considerando possibili proroghe e sospensioni (come quelle Covid che ci sono state), conviene tenere i documenti almeno 10 anni per essere tranquilli.

D: È vero che pagando subito quanto richiesto posso evitare il processo penale?
R: Sì, in molti casi è vero. La normativa (art. 13 D.Lgs. 74/2000) prevede che se l’imputato provvede al pagamento integrale del debito tributario (imposta evasa + interessi + sanzioni amministrative) prima dell’inizio del dibattimento penale, i reati di dichiarazione fraudolenta, infedele e indebita compensazione vengono dichiarati estinti. Quindi, se vi contestano penalmente di aver evaso tramite false spese di formazione, avete un forte incentivo a saldare il dovuto al Fisco il prima possibile. Una volta dimostrato al giudice penale che il debito col Fisco è stato azzerato, egli dovrà non punirvi (o al massimo emettere una sentenza di estinzione del reato). Ad esempio, in caso di utilizzo di fatture false oltre 100k € (art. 2), pagarne le conseguenze tributarie vi salverebbe da una condanna potenzialmente molto pesante.

Attenzione: ciò vale solo se pagate tutto (anche eventuali altri debiti fiscali pendenti, non solo quello oggetto del procedimento). Inoltre, il pagamento deve avvenire prima del dibattimento: il pagamento tardivo (dopo l’avvio del processo) non evita la punibilità ma costituisce solo un’attenuante. Dunque, per massimizzare la tutela, è consigliabile – compatibilmente con le risorse – pagare spontaneamente già in fase di indagine (o comunque prima che si arrivi a giudizio). Spesso il vostro legale può concordare con la Procura tempi congrui per farlo, ad esempio ottenendo un rinvio dell’udienza preliminare per consentire il versamento. Ovviamente resta a vostro carico il dover trovare le somme: ma bisogna considerare il trade-off tra un esborso economico e il rischio di una condanna penale (con casellario, interdizioni, ecc.). Molti scelgono giustamente di pagare per evitare conseguenze penali. Va aggiunto che se pagate subito, ciò giova anche nel procedimento tributario: l’Agenzia potrà essere più propensa a valutare positivamente un’adesione o una conciliazione, avendo incassato il dovuto.

Quindi sì, confermo: in presenza di reati tributari contestati, l’uscita di sicurezza è pagare. Ci sono ormai molti esempi di imprenditori che, pagando il dovuto, hanno ottenuto l’archiviazione o la non doversi procedere. Resta solo l’amarezza di aver versato somme e sanzioni, ma la libertà personale e la fedina penale sono salve.

D: Cosa devo fare se ricevo un Processo Verbale di Constatazione (PVC) che mi contesta queste spese?
R: Come spiegato, il PVC vi offre la possibilità di intervenire prima che l’accertamento diventi definitivo. Dal giorno in cui vi notificano/consegnano il PVC, avete 60 giorni per presentare all’Agenzia delle Entrate delle osservazioni e richieste scritte, cioè una memoria difensiva. In questi atti potete contestare punto per punto le risultanze del PVC: ad esempio, spiegare circostanze che i verificatori hanno travisato, fornire documenti che non erano stati esibiti in verifica, citare prassi o sentenze a vostro favore. L’Agenzia è tenuta per legge (Statuto del contribuente art.12 c.7) a valutare quanto scrivete prima di emettere l’avviso di accertamento (fanno eccezione solo situazioni di particolare urgenza o frodi in atto, che non sono il nostro caso).

Dunque, non ignorate mai un PVC: coinvolgete subito un fiscalista e preparate una risposta dettagliata. Anche se pensate “tanto hanno già deciso”, spesso le memorie portano a sgravare almeno in parte la pretesa, o a far riconsiderare sanzioni. Inoltre, presentare osservazioni vi tornerà utile in seguito: dimostra la vostra buona fede e vi permette di aver già impostato la difesa (il che può scoraggiare l’ufficio dal fare errori grossolani o dall’inasprire la posizione). In sintesi, dopo un PVC: analizzatelo a fondo, raccogliete controprove, e inviate entro i 60 giorni una memoria (via PEC o raccomandata, assicurandovi che arrivi e sia protocollata). Nel frattempo, potete anche valutare se ci sono i presupposti per un’eventuale definizione agevolata se prevista (in alcuni periodi vi sono state definizioni facoltative dei PVC con sanzioni ridotte). Ma la cosa più importante è far sentire la vostra voce entro quei 60 giorni.

La memoria dovrebbe concentrarsi su: chiarire eventuali errori materiali nel PVC, fornire documenti mancanti (se nel PVC dicono “non esibito attestato”, allegatelo ora se lo avete), spiegare l’inerenza dei corsi contestati con argomenti tecnici, richiamare eventualmente interpelli risolti a favore, circolari, sentenze di Cassazione pertinenti. Più sarà precisa e ben argomentata, maggiori le chance di influire sul successivo avviso (magari facendogli abbandonare qualche rilievo).

D: Conviene aderire all’accertamento o fare ricorso?
R: Dipende dalla forza del vostro caso e da considerazioni economiche, temporali e di rischio. Proviamo a schematizzare:

  • Aderire (accertamento con adesione) o conciliare: conviene se volete chiudere la questione rapidamente riducendo le sanzioni al minimo (1/3 del minimo). Con l’adesione evitate le incognite del giudizio e le lungaggini, però accettate la pretesa fiscale (magari con qualche sconto). In pratica pagherete l’imposta (o la parte concordata) e una sanzione ridotta. Questo ha senso se non siete sicuri di vincere in giudizio. Ad esempio, se ci sono irregolarità formali, o la prova non è granitica, aderendo ottenete un abbattimento sanzioni e magari l’ufficio in sede di adesione accoglierà parzialmente le vostre ragioni (spesso in adesione sono disposti a compromessi). Quindi se il vostro caso è “grigio”, l’adesione vi dà certezza e limita il danno.
  • Ricorrere in Commissione Tributaria: conviene se siete convinti di avere ragione e avete buone prove. Come detto, se siete sicuri – ad es. avete prove solide che i corsi si sono svolti e la contestazione è palesemente infondata – può valere la pena fare ricorso, perché c’è chance di annullamento totale. In caso di vittoria non pagherete né imposta né sanzione, e potreste ottenere il rimborso delle spese legali. D’altro canto, se perdete, pagherete tutto e in più avrete speso per il processo. Quindi bisogna valutare realisticamente le probabilità di successo. Se la Commissione vede la questione come dubbia, l’esito è incerto.

Una buona strategia è anche quella di presentare ricorso (così non perdete il termine di 60 giorni) e parallelamente mantenere aperta la porta della conciliazione. Come dicevamo, una volta che l’Ufficio legge il vostro ricorso ben argomentato, potrebbe essere più disponibile a un accordo. Spesso, quando vedono argomenti seri, preferiscono evitare il giudizio e vi propongono una conciliazione favorevole. Quindi, l’aver presentato ricorso non preclude di aderire dopo: potete sempre fare una conciliazione giudiziale (anche in udienza) con sanzioni a 1/3.

Riassumendo il consiglio pratico: valutate la forza del vostro caso. Se pensate di avere oltre 70-80% di probabilità di vincere, propendete per il ricorso; se scendiamo al 50-60% o meno, forse è meglio negoziare e limitare i danni. Considerate anche l’aspetto economico: per importi piccoli potrebbe non valere la pena imbarcarsi in un contenzioso lungo (a meno che siate avvocati di mestiere e quindi i costi per voi siano bassi). Per importi molto alti, anche un accordo che vi faccia risparmiare sanzioni può farvi risparmiare decine di migliaia di euro, quindi va considerato seriamente. Incertezza alta e sanzioni elevate di solito portano a trattare, mentre ragione dalla vostra e principio importante da affermare portano a litigare in giudizio. Ogni situazione però va pesata con consulenti esperti.

D: Dopo una contestazione del genere, la mia posizione fiscale sarà considerata a rischio per il futuro?
R: Diciamo che sicuramente finirete su una sorta di “lista di attenzione”. Se l’Agenzia delle Entrate ha rilevato che avete dedotto costi falsi o indebiti, è probabile che nei successivi periodi d’imposta i vostri dati di bilancio e dichiarazione saranno monitorati con maggiore attenzione. Ciò può tradursi in una maggiore probabilità di ulteriori controlli o ispezioni negli anni successivi, specie se operate in settori dove le frodi sono diffuse o se il pattern di spesa si ripete. Inoltre, se vi è stato un procedimento penale, i vostri dati confluiranno nelle banche dati investigative, e la Guardia di Finanza potrebbe includervi in future analisi di rischio.

In concreto, vi conviene adottare un profilo prudente: dopo una contestazione, migliorate i vostri sistemi interni di compliance, documentate ancora meglio ogni spesa, e – se possibile – evitate di fruire di crediti d’imposta “sensibili” per un po’, a meno che non siate certi di rispettare tutti i requisiti. Non esiste una blacklist ufficiale tipo “non possiamo più dedurre formazione”: potete ovviamente continuare a investire in formazione, ma dovrete essere più rigorosi nel giustificarla. Ufficiosamente, i contribuenti con precedenti contestazioni vengono tenuti d’occhio. Detto ciò, se la contestazione si chiude a vostro favore (annullamento in giudizio), ciò in parte vi “riabilita” agli occhi del Fisco, nel senso che potranno ritenere che in quell’occasione avevate ragione e magari non siete malintenzionati. Invece, se avete definito pagando, l’amministrazione registra il dato che avete ammesso l’addebito (seppur con ravvedimento/adesione). Quindi sì, un po’ di “bersaglio fiscale” rimane. Ma potete mitigarlo mantenendo una condotta fiscale trasparente e in regola, così da non dare appigli in futuro. Col tempo, se non fate altri passi falsi, la vostra posizione tornerà “normale”. In sintesi: dopo essere stati scottati, adottate pratiche esemplari (come dicevamo: archiviazione documenti, magari interpello su spese anomale, ecc.). Così, anche se vi controlleranno ancora, troveranno tutto in ordine e probabilmente lasceranno perdere.

D: Le spese per corsi obbligatori (es. sicurezza sul lavoro) possono essere contestate o escluse dal bonus Formazione 4.0?
R: Le spese per la formazione obbligatoria per legge (tipo i corsi sulla sicurezza D.Lgs. 81/2008, corsi antincendio, corsi privacy GDPR, ecc.) sono normalmente deducibili come costi di lavoro, perché inerenti (anzi, imposti dalla normativa, quindi inevitabili). Su quello non c’è discussione: nessun Ufficio vi contesterà mai come indeducibile un corso obbligatorio per legge, sarebbe illogico (lo stesso TUIR all’art. 109 prevede che sono deducibili i costi necessari a produrre reddito: un corso obbligatorio è per definizione necessario, pena sanzioni se non lo fate). Dunque tali spese non verranno contestate come indeducibili in sé.

Tuttavia, la normativa del credito Formazione 4.0 (che era un incentivo per formazione su tecnologie innovative) le escludeva espressamente dal novero dei corsi agevolabili. In altri termini, il bonus era riservato alla formazione aggiuntiva su materie Industry 4.0, non alla formazione obbligatoria che l’azienda deve comunque fare per legge. Quindi, se avete incluso corsi obbligatori nel calcolo del credito d’imposta, l’Agenzia li contesterà come non ammissibili al bonus (pur restando deducibili nel reddito). In sede di difesa, su questo non c’è molto da fare: la legge era chiara che i corsi obbligatori non danno diritto al credito. L’unica cosa da verificare è se il corso contestato fosse effettivamente obbligatorio per legge o no (a volte c’è dibattito: es. un corso su norme ambientali specifiche è obbligatorio? Dipende dalla situazione). Se riuscite a sostenere che non era “formazione obbligatoria ordinaria” ma parte di un percorso formativo volontario, allora potreste ribaltare la contestazione e includerlo nel bonus. Ma se era un corso di sicurezza standard, quel pezzo di credito verrà legittimamente revocato – c’è poco da fare. In sintesi: – Dedurre i costi di corsi obbligatori va bene e non comporta alcuna sanzione o rischio (sono inerenti di default). – Ma non contateli nei crediti d’imposta innovativi (Formazione 4.0), perché la legge li escludeva e l’Agenzia se li vede dentro ve li toglie.

Quindi il consiglio: fate pure i corsi obbligatori (dovete farli!), deducete i costi come normali spese, ma quando calcolate l’eventuale credito Formazione 4.0, teneteli fuori. Se per errore l’avete fatto, preparatevi a restituire quella parte di bonus.

D: In caso di processo tributario, chi ha l’onere della prova sulle spese contestate?
R: Questo è cruciale. In via generale vale l’art. 2697 c.c.: chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne sono fondamento. Per le imposte, significa che l’Amministrazione finanziaria, se ritiene simulato un costo, deve fornire elementi (anche presuntivi) che ne indicano la falsità; a quel punto tocca al contribuente dimostrare la reale esistenza e deducibilità di quel costo. La Cassazione ha chiarito che quando il Fisco prova – anche solo tramite presunzioni gravi, precise e concordanti – l’inesistenza dell’operazione, non basta al contribuente esibire le fatture o tenere le scritture contabili regolari: deve provare con altri elementi che il servizio c’è stato davvero. In pratica, l’onere della prova in casi di spese di formazione contestate grava fortemente sul contribuente. L’Agenzia deve almeno fornire un principio di prova (es. “il fornitore è risultato inesistente” o “i dipendenti hanno negato il corso”), dopodiché voi dovete contro-provare che il corso c’è stato ed era legittimo. Se la bilancia probatoria pende a vostro favore, vincete; altrimenti no.

Un’eccezione sarebbe se l’Agenzia applicasse una presunzione legale (non in questo campo specifico, ma ipoteticamente se ci fosse una norma che dice che certe spese si presumono finte salvo prova contraria): in tal caso si invertirebbe subito l’onere a vostro carico. Ma nel tema formazione non ci sono presunzioni legali di inesistenza – è tutto basato su prove di fatto. Quindi sappiamo la regola: l’Ufficio porta indizi, il contribuente deve portare evidenze contrarie. Ricordate anche che, se qualcosa non è documentato, difficilmente il giudice potrà darvi ragione per “beneficio del dubbio” – nel tributario quel concetto è sfumato rispetto al penale, e spesso la mancanza di prova da parte del contribuente significa soccombenza. Dunque è fondamentale documentare e provare tutto il provabile. In conclusione: in giudizio spetta a voi convincere il giudice che quei costi sono reali e inerenti. L’Agenzia vince facile se voi non producete evidenze forti. Per questo insistiamo tanto sulla raccolta di prove (registri, attestati, ecc.): perché vi spetta l’onere di dimostrare la fondatezza della deduzione.

D: Quali sono le sanzioni penali effettive in caso di condanna? Si rischia il carcere?
R: Abbiamo parlato delle sanzioni penali “astratte” (fino a 8 anni per frode, 5 anni per indebita compensazione, 4 anni per infedele, ecc., poi aumentate nel 2019). In caso di condanna, però, la pena concreta viene determinata dal giudice considerando attenuanti, rito prescelto, ecc. Facciamo qualche scenario: per un contribuente incensurato che avesse, poniamo, dedotto 200k € di costi falsi, è plausibile un patteggiamento attorno a 2 anni di reclusione (pena sospesa, niente carcere) se paga il dovuto. Se invece non paga nulla e va a dibattimento e viene riconosciuto colpevole di frode oltre 100k, potrebbe prendere anche 3-4 anni e in quel caso sì, c’è il rischio concreto di detenzione (oltre i 2 anni di solito non si concede la sospensione condizionale se non c’è stato almeno un pagamento parziale). Quindi il rischio carcere esiste in teoria per le condotte più gravi e ostinate (cioè senza ravvedimento). Nella prassi, casi di effettiva carcerazione per false spese di formazione emergono solo quando c’è dietro una frode più ampia: ad esempio, un’organizzazione che sistematicamente faceva false fatture per milioni – lì i promotori possono finire in carcere. Il singolo contribuente che si trova una contestazione fiscale di entità non enorme, se si attiva per riparare e utilizza il patteggiamento, di rado vede la galera. Inoltre, come accennato, il recente innalzamento di alcune soglie (100k imposta evasa per infedele, ad esempio) e la non punibilità post-pagamento rendono ancora meno frequente il carcere per il contribuente collaborativo. Quindi: tecnicamente il rischio carcere c’è oltre certe soglie, ma concretamente chi collabora e non persevera nella frode può quasi sempre evitare la reclusione. Diverso sarebbe ignorare del tutto il problema: se uno non paga, va a processo, perde e aveva evaso molto, allora sì – la pena può essere eseguita. Soprattutto dopo la riforma 2019 che ha inasprito le pene e reso più difficile rimanere sotto i 2 anni. In definitiva, se siete arrivati al punto di una condanna potenziale, fate di tutto per patteggiare e saldare il dovuto: in tal modo, la pena starà quasi sicuramente entro i 2 anni con sospensione e non farete un giorno di carcere.

D: Se vinco in commissione e l’accertamento viene annullato, posso chiedere i danni per il fastidio subito?
R: In linea di massima, no, non direttamente. Nel processo tributario non è previsto il risarcimento del danno per l’accertamento illegittimo; al più, come detto, potete ottenere la rifusione delle spese legali se il giudice le liquida a vostro favore. Solo in casi eccezionali, se l’azione del Fisco è stata particolarmente negligente o vessatoria, si potrebbe ipotizzare un’azione separata per danni, ma è molto difficile da vincere perché l’Amministrazione gode di una certa immunità salvo colpa grave. Quindi, realisticamente, la vostra soddisfazione consisterà nell’aver evitato di pagare ingiustamente e magari nell’esservi fatti rimborsare l’onorario dell’avvocato.

Diverso è se, a seguito di un errore grave dell’ufficio, avete subito un danno concreto e dimostrabile (es. un fermo amministrativo di beni che vi ha fatto perdere contratti, oppure un blocco del rimborso IVA che vi ha causato insolvenze…). In teoria lì un risarcimento sarebbe ipotizzabile, ma occorre un procedimento civile contro l’AdE non semplice. Spesso bisogna dimostrare la violazione di norme di legge da parte del funzionario ed un danno quantificato. Non molte aziende intraprendono questa strada, a meno che il danno sia stato milionario e abbiano voglia di un lungo contenzioso contro lo Stato.

In definitiva, puntate a farvi riconoscere le spese di giudizio (onorario dell’avvocato, spese di perizia) nella sentenza: la Commissione può condannare l’ufficio a pagarvele, ed è la via più diretta per essere almeno ristorati delle spese affrontate. Per i danni morali o da stress, purtroppo, non c’è rimedio giuridico codificato nel contenzioso tributario in sé. Si può giusto scrivere ai giornali o segnalare il caso al Garante del contribuente, ma risarcimenti monetari non se ne vedono quasi mai.

D: Dopo aver chiuso la vicenda, posso prevenire future contestazioni analoghe?
R: Sì, facendo tesoro dell’esperienza. Ad esempio, se vi hanno contestato mancanza di registri firme, d’ora in poi non dimenticateli mai. Se il problema era l’inerenza, valutate con un fiscalista prima di iscrivervi a un costoso corso se effettivamente è deducibile, così da evitare sorprese. Potete anche, per maggiore sicurezza, usare lo strumento dell’interpello all’Agenzia: presentare un interpello prospettando, ad esempio, “intendo fare questo master, posso dedurlo come aggiornamento professionale?” – se l’Agenzia risponde affermativamente, siete blindati (purché rispettiate condizioni). Certo, non si può interpellare per tutto, ma su casi dubbi conviene.

In ambito di crediti d’imposta, seguite pedissequamente le circolari esplicative: fate una checklist di tutti gli adempimenti richiesti e assicuratevi di rispettarli. Inoltre, investite un po’ in formazione interna sulla compliance fiscale: ad esempio, far fare un corso al proprio amministrativo su come documentare correttamente le spese (paradossalmente, è una “spesa di formazione” che vi eviterà grane!). Infine, mantenete un rapporto di fiducia con consulenti e revisori: se sapete di essere sotto la lente per un precedente, fate magari eseguire una verifica volontaria a un consulente esterno sulle vostre prossime deduzioni, così da far emergere e correggere eventuali criticità prima che arrivi il Fisco.

In sostanza, la prevenzione si basa su due pilastri: documentare meglio e chiedere prima (consulenza/interpello) anziché rischiare dopo. Se adottate queste misure, ridurrete drasticamente la possibilità di rivivere un accertamento sullo stesso tema.

In conclusione, affrontare un accertamento su spese di formazione contestate è impegnativo, ma – come abbiamo visto – con la conoscenza dei propri diritti, una solida preparazione documentale e l’assistenza di professionisti esperti, è possibile difendersi efficacemente, come dimostrano anche le ultime pronunce dei giudici tributari. Ogni caso ha le sue peculiarità: vanno valutate con cura e va scelta la strategia più adatta, senza farsi sopraffare dall’asimmetria di potere iniziale tra Fisco e contribuente. Il sistema comunque offre strumenti per ripristinare l’equilibrio – usateli a vostro vantaggio. E soprattutto, fate della correttezza fiscale un punto di forza: investire in una gestione trasparente delle spese di formazione vi permette non solo di evitare sanzioni, ma anche di beneficiare delle agevolazioni previste senza timore, contribuendo alla crescita professionale vostra e dei vostri collaboratori in modo sicuro e duraturo.

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate spese di formazione professionale ritenute non deducibili o non detraibili? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate spese di formazione professionale ritenute non deducibili o non detraibili?
Vuoi sapere cosa rischi e come predisporre una difesa efficace?

👉 Prima regola: dimostra la connessione diretta tra la formazione seguita e la tua attività professionale o aziendale, oltre alla corretta documentazione dei pagamenti.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Spese di corsi, master o seminari considerate non inerenti all’attività;
  • Corsi all’estero ritenuti privi di legame con l’attività dichiarata;
  • Costi di formazione qualificati come spese personali e non professionali;
  • Mancanza di documentazione fiscale (fatture, ricevute, attestati);
  • Errata imputazione della spesa (tutta in un anno invece che ripartita).

📌 Conseguenze della contestazione

  • Indeducibilità della spesa o esclusione della detrazione;
  • Recupero delle imposte con relative sanzioni;
  • Interessi di mora sulle somme accertate;
  • Rischio di contestazioni per false fatturazioni se la spesa è ritenuta simulata;
  • Maggiori controlli fiscali negli anni successivi.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Il corso o la formazione erano realmente collegati all’attività svolta?
  • La fattura è intestata correttamente al professionista o all’impresa?
  • Il pagamento è tracciabile e dimostrabile (bonifico, carta, assegno)?
  • L’Agenzia contesta per mancanza di inerenza o per difetto di forma documentale?
  • Sono stati rispettati i limiti di deducibilità previsti dal TUIR?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Fatture e ricevute dei corsi di formazione;
  • Contratti e programmi didattici dei corsi;
  • Attestati di partecipazione;
  • Estratti conto bancari e prove dei pagamenti;
  • Documentazione che dimostri il collegamento tra formazione e attività (CV, incarichi professionali).

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la connessione tra spesa e attività professionale con prove documentali;
  • Contestare la riqualificazione della spesa come personale quando ha natura professionale;
  • Evidenziare la correttezza formale dei pagamenti e della documentazione;
  • Richiedere annullamento in autotutela se i documenti erano già depositati;
  • Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
  • Difesa penale mirata se viene ipotizzata l’emissione di fatture false.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la natura delle spese di formazione e la loro documentazione;
📌 Valuta la legittimità della contestazione e i punti di forza difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, in procedimenti penali;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire in modo sicuro e conforme le spese di formazione.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e difesa di professionisti e imprese;
✔️ Specializzato in contestazioni su costi e deducibilità delle spese di formazione;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Gli accertamenti fiscali sulle spese di formazione non sempre sono fondati: spesso si basano su presunzioni di non inerenza o su errori formali.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la legittimità delle spese, salvaguardare i benefici fiscali e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro le contestazioni fiscali sulle spese di formazione inizia qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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