Hai ricevuto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate per trasferimenti di denaro ritenuti sospetti? In questi casi, l’Ufficio presume che le somme movimentate – bonifici, prelievi, versamenti o trasferimenti esteri – rappresentino redditi non dichiarati o ricavi occultati. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero delle imposte, sanzioni elevate e, nei casi più complessi, segnalazioni penali per riciclaggio o autoriciclaggio. Tuttavia, non sempre l’accertamento è legittimo: con una difesa mirata è possibile dimostrare la lecita provenienza delle somme e ridurre sensibilmente le sanzioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta trasferimenti di denaro sospetti
– Se i movimenti bancari non trovano giustificazione nei redditi dichiarati
– Se vi sono bonifici esteri non segnalati nel quadro RW
– Se le somme trasferite appaiono sproporzionate rispetto alle dichiarazioni fiscali
– Se vengono rilevati versamenti di contanti non supportati da adeguata documentazione
– Se l’Ufficio presume l’esistenza di redditi in nero o di attività economiche occulte
Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione delle somme ritenute non giustificate
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Possibili verifiche estese su conti correnti, carte prepagate ed exchange di criptovalute
– Nei casi più gravi, segnalazioni alla Procura per riciclaggio, autoriciclaggio o dichiarazione infedele
Come difendersi dall’accertamento
– Dimostrare la provenienza lecita delle somme (donazioni, prestiti, rimborsi, risparmi accumulati)
– Produrre contratti, scritture private, estratti conto e altra documentazione bancaria a supporto
– Contestare l’automatica presunzione che ogni movimento costituisca reddito imponibile
– Evidenziare errori di calcolo, vizi di motivazione o carenze istruttorie nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione della contestazione per ridurre sanzioni e interessi
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento totale o parziale della pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i movimenti bancari e la documentazione oggetto di contestazione
– Verificare la legittimità della presunzione fiscale adottata dall’Agenzia delle Entrate
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e vizi procedurali
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio personale e familiare da contestazioni fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della provenienza lecita dei trasferimenti contestati
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: i trasferimenti di denaro, specie se ingenti o internazionali, sono tra i movimenti più monitorati dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e documentata per evitare conseguenze fiscali e penali molto gravi.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e penale tributario – spiega come difendersi in caso di accertamento fiscale per trasferimenti di denaro sospetti e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.
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Introduzione
Negli ultimi anni l’Amministrazione finanziaria italiana ha intensificato i controlli sui movimenti di denaro per contrastare l’evasione, sfruttando in modo mirato i dati bancari . Ciò significa che versamenti di denaro sospetti – ad esempio somme accreditate su conti bancari che non trovano giustificazione nelle dichiarazioni dei redditi – possono essere presumibilmente considerati dal Fisco come “ricavi in nero” sottratti a tassazione . Questa tendenza è di grande attualità (aggiornata a settembre 2025), poiché l’uso dei dati finanziari si è rivelato più efficace dei metodi presuntivi generali del passato (come il redditometro, in parte accantonato) nel far emergere basi imponibili nascoste .
Di conseguenza privati cittadini, imprenditori e professionisti si trovano sempre più spesso soggetti a verifiche sui conti correnti, con contestazioni di somme ritenute redditi non dichiarati . Queste contestazioni tipicamente riguardano trasferimenti di denaro “sospetti”, tra cui: versamenti in contanti sul conto, bonifici di origine ignota (specie se provenienti dall’estero), utilizzo anomalo di criptovalute o transiti di fondi da/verso l’estero non coerenti col profilo fiscale del contribuente. In tutti questi casi, il contribuente (dal punto di vista del debitore, ossia di chi subisce la contestazione) deve sapere come difendersi, facendo valere i propri diritti e fornendo le prove a supporto della legittima provenienza di tali somme.
In questa guida di livello avanzato – rivolta ad avvocati tributaristi, imprenditori e contribuenti esperti – esamineremo in dettaglio il quadro normativo italiano vigente e la giurisprudenza più recente in materia di accertamenti fiscali su movimenti finanziari sospetti, fornendo indicazioni pratiche su come preparare la propria difesa. Il linguaggio sarà giuridico ma divulgativo, con spiegazione dei concetti tecnici. Troverete inoltre tabelle riepilogative, una sezione di domande & risposte frequenti (FAQ) e simulazioni pratiche riferite al contesto italiano, il tutto dal punto di vista del contribuente che vede contestati trasferimenti di denaro. Le tematiche chiave includono: la presunzione legale applicata ai movimenti bancari e il relativo onere della prova; le normative di riferimento (ad es. art. 32 del DPR 600/1973 sugli accertamenti finanziari, art. 38 DPR 600/1973 sul redditometro, normativa antiriciclaggio, ecc.); le sentenze più recenti della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale; le strategie difensive (come giustificare versamenti tramite documenti che attestino risparmi, donazioni, prestiti, operazioni già tassate, ecc.); il procedimento tributario successivo (dall’avviso di accertamento al contraddittorio, dalla mediazione al ricorso in Corte di Giustizia Tributaria, fino all’eventuale contenzioso e alle misure cautelari); infine, le possibili conseguenze penali se le somme occultate configurano reati tributari. L’obiettivo è fornire una guida completa e aggiornata a settembre 2025 per difendersi al meglio in caso di accertamenti fiscali basati su trasferimenti di denaro considerati sospetti.
Normativa italiana e presunzioni nei movimenti finanziari
Alla base delle contestazioni fiscali sui movimenti di denaro vi è l’art. 32, comma 1, n. 2 del DPR 29 settembre 1973 n. 600. Questa disposizione, cardine in tema di accertamenti finanziari, attribuisce all’Amministrazione finanziaria ampi poteri di indagine sui conti bancari dei contribuenti e introduce una presunzione legale relativa a favore del Fisco . In sintesi, ogni movimento bancario non giustificato si presume riferibile a redditi imponibili non dichiarati, salvo prova contraria da parte del contribuente . La norma specifica, in particolare, due categorie di operazioni:
- Versamenti sul conto (accrediti) – comprese le somme versate in contanti, gli assegni incassati, i bonifici ricevuti, ecc. Tali versamenti non giustificati si presumono ricavi o compensi non dichiarati dal contribuente . La presunzione opera a meno che il contribuente dimostri di averli regolarmente inclusi nelle dichiarazioni dei redditi oppure che detti importi non costituiscono reddito (ad esempio perché si tratta di somme già tassate, esenti o di natura non imponibile) . In assenza di prova contraria, l’intero importo versato viene considerato reddito sottratto a tassazione.
- Prelevamenti dal conto (addebiti) – ossia le somme prelevate in contanti o trasferite altrove. Per i titolari di reddito d’impresa (es. imprenditori, società) i prelievi non giustificati nelle scritture contabili, eccedenti certe soglie (vedremo a breve quali), si presumono impiegati per acquisti “in nero” di beni/servizi destinati all’attività e, quindi, correlati a ricavi non dichiarati . In sostanza, il Fisco presume che un prelievo ingiustificato serva a finanziare spese occulte (acquisti fuori contabilizzazione) e che tali spese abbiano generato ricavi altrettanto occulti. Importante: per i lavoratori autonomi (professionisti) e i privati non esercenti impresa, oggi questa presunzione automatica sui prelevamenti non si applica (a seguito di interventi normativi e della Corte Costituzionale) .
Quella descritta è una presunzione legale relativa (iuris tantum): ammette dunque prova contraria da parte del contribuente . In concreto, spetta al contribuente dimostrare che i movimenti finanziari contestati non rappresentano redditi tassabili . D’altro canto, trattandosi di una presunzione prevista espressamente dalla legge, essa dispensa l’Amministrazione finanziaria dall’onere di ulteriori prove indiziarie . Il mero dato oggettivo del movimento bancario non giustificato è sufficiente a fondare l’accertamento, determinando un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente . La Corte di Cassazione ha chiarito che, quando l’Ufficio basa l’accertamento sulle verifiche dei conti correnti, “l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto attraverso i dati risultanti dai conti stessi”, con conseguente spostamento sul contribuente dell’onere di provare il contrario . In altre parole, basta che il Fisco rilevi versamenti non giustificati sul conto per presumere redditi evasi; spetterà poi al contribuente, con prova analitica per ciascun movimento, dimostrare che quelle somme non erano materia imponibile .
È fondamentale comprendere che tale meccanismo costituisce una deroga al principio generale secondo cui l’onere della prova spetta a chi contesta un fatto. Nel caso degli accertamenti bancari, il legislatore – per ragioni di contrasto all’evasione – ha voluto capovolgere le posizioni: inizialmente è il contribuente a dover giustificare le proprie movimentazioni, altrimenti il Fisco può legittimamente presumere l’esistenza di redditi nascosti . Naturalmente questa è una presunzione relativa (non “assoluta”): se il contribuente fornisce validi elementi a dimostrazione della non imponibilità delle somme, l’Ufficio dovrà prenderne atto e non potrà procedere alla tassazione di quei movimenti.
Soggetti interessati e ambito di applicazione
Un dubbio spesso sorto in passato era se la presunzione di cui all’art. 32 DPR 600/73 valesse unicamente per i soggetti obbligati a tenere scritture contabili (imprenditori e professionisti) o si estendesse anche ai privati cittadini con redditi non d’impresa. La formulazione normativa è ampia e, col tempo, giurisprudenza e prassi l’hanno estesa a tutti i contribuenti, sebbene con alcune differenze quanto ai prelievi. Oggi la situazione può essere così riassunta:
- Imprese (società e ditte individuali, cioè redditi d’impresa): piena applicazione della presunzione di legge per tutte le movimentazioni non giustificate. Dunque, per un imprenditore, i versamenti non registrati si presumono ricavi occulti; i prelievi non registrati si presumono acquisti in nero destinati all’attività produttiva . Va evidenziato che per le imprese il legislatore ha introdotto un limite quantitativo allo scattare della presunzione sui prelevamenti: non opera alcuna presunzione per i prelievi complessivi fino a 1.000 € giornalieri e 5.000 € mensili . In pratica, se un imprenditore effettua prelievi di modesta entità entro tali soglie, il Fisco non può presumere nulla su di essi. Solo oltre tali soglie i prelievi non giustificati diventano indizi di possibili vendite occulte e quindi possono essere imputati a ricavi non dichiarati . Questo correttivo, introdotto col D.L. 193/2016, ha lo scopo di evitare che anche piccoli prelievi personali vengano impropriamente equiparati a evasione fiscale. Nota: tali limiti riguardano solo i prelievi delle imprese; per i versamenti non esiste una soglia di tolleranza fissata dalla legge – in teoria anche un versamento di importo modesto, se del tutto immotivato, potrebbe essere contestato (nei fatti, comunque, l’Ufficio tende a ignorare movimentazioni di pochi euro, focalizzandosi su importi significativi).
- Lavoratori autonomi (professionisti): a seguito della storica sentenza n. 228/2014 della Corte Costituzionale, non si applica più la presunzione sui prelievi ai titolari di solo reddito di lavoro autonomo. La Consulta ha dichiarato illegittima l’estensione di tale presunzione ai professionisti, ritenendo irragionevole presumere che un avvocato, un medico o altro professionista effettuino prelevamenti dal conto per acquistare materie prime o merci da rivendere “in nero” (circostanza propria delle attività d’impresa, non delle professioni intellettuali) . Pertanto, dal 2014 i prelievi bancari dei professionisti non possono più essere automaticamente considerati ricavi occulti. Il legislatore nel 2016 ha recepito questa pronuncia eliminando dalla norma ogni riferimento ai “compensi” da lavoro autonomo per quanto concerne i prelevamenti . Resta invece pienamente applicabile anche ai professionisti la presunzione sui versamenti: ad esempio, un versamento non giustificato sul conto di uno studio legale si presume compenso professionale non dichiarato, al pari di come un versamento su conto di un’azienda si presume ricavo d’impresa non dichiarato . In sintesi, oggi il Fisco può presumere che ogni accredito bancario non spiegato di un lavoratore autonomo sia un compenso “in nero”, mentre non può più presumere che un suo prelievo sia un costo in nero (rimarrà eventualmente facoltà dell’Ufficio approfondire quei prelievi con metodi diversi, ma senza presunzione legale).
- Privati non esercenti impresa o professione (es. lavoratori dipendenti, pensionati, studenti, ecc.): formalmente l’art. 32 DPR 600/73 non distingue, parlando in generale di dati bancari che possono essere posti a base degli accertamenti salvo prova contraria che non abbiano rilevanza reddituale . La giurisprudenza ha quindi progressivamente affermato che la presunzione sui versamenti si applica erga omnes, anche ai semplici privati . Ciò significa che, ad esempio, un insegnante o un impiegato che presenti movimenti bancari anomali rispetto al suo stipendio può subire un accertamento presuntivo, con il Fisco che ipotizzerà trattarsi di altri redditi (non dichiarati) – ad esempio, un secondo lavoro irregolare, affitti in nero, vincite non dichiarate o altre fonti occulte. Anche in questi casi l’onere della prova è invertito: spetta al contribuente provare la natura non imponibile di ogni accredito contestato . Di converso, per i prelievi effettuati da un privato cittadino (non imprenditore né professionista) non vi è una presunzione automatica di evasione – analogamente a quanto vale per i professionisti, un privato può prelevare denaro per esigenze personali senza che ciò configuri ex se evasione. Tuttavia, bisogna prestare attenzione: se quei contanti prelevati vengono in seguito versati sul conto o spesi per acquisire beni, quei successivi movimenti in entrata potrebbero essere oggetto di contestazione (il Fisco potrebbe chiedere: con quali redditi hai effettuato quella spesa o quel nuovo versamento? Vedi oltre).
Da quanto sopra, risulta chiaro che tutti i contribuenti – imprese, autonomi e privati – possono essere sottoposti a indagini finanziarie e incorrere nella presunzione legale sui versamenti non giustificati . Le differenze riguardano essenzialmente i prelievi, dove solo per le imprese vige ancora una presunzione (peraltro limitata da soglie minime), mentre per le altre categorie no. In ogni caso, quando si parla di “trasferimenti di denaro sospetti”, ci si riferisce primariamente a somme accreditate sui conti del contribuente (o su conti a lui riconducibili) senza una chiara spiegazione fiscale.
Va aggiunto inoltre che i poteri di indagine finanziaria del Fisco possono estendersi anche ai conti intestati a terzi, se vi è motivo di ritenere che siano utilizzati per veicolare redditi del contribuente sotto verifica. È pratica comune, ad esempio, esaminare conti cointestati con familiari o conti formalmente intestati a soci, amministratori o loro parenti in caso di imprese familiari e piccole società . Se dagli elementi raccolti emerge che tali conti di terzi sono stati usati come schermo (fittiziamente interposti) per accreditare redditi in realtà del soggetto verificato, l’Ufficio può imputare quelle movimentazioni al contribuente stesso . Ad esempio, la Cassazione ha confermato che in una società a conduzione familiare (come una S.a.s.) è lecito presumere che i versamenti sul conto personale di un socio di fatto celino ricavi non dichiarati della società: in un caso esaminato, i versamenti sul conto di un socio accomandante sono stati attribuiti alla S.a.s., poiché – pur non avendo quel socio poteri gestionali formali – fungeva di fatto da tramite per incassi non contabilizzati della società . Analogamente, versamenti su un conto intestato al coniuge o ai figli di un contribuente possono essere considerati dal Fisco come interposizione fittizia, se ad esempio il coniuge (o il figlio) non dispone di redditi propri e le somme versate sul suo conto provengono in realtà dall’attività (occulta) del contribuente medesimo . In tutte queste ipotesi, la presunzione legale si applica come se il conto fosse del contribuente, salvo che quest’ultimo fornisca la prova contraria (ad esempio dimostrando che il terzo intestatario aveva capacità reddituale autonoma o che le somme in questione nulla hanno a che vedere con il contribuente verificato) .
Tabella riepilogativa – Presunzioni fiscali sui movimenti bancari (art. 32 DPR 600/1973)
| Movimento bancario | Presunzione fiscale (salvo prova contraria) | Soggetti interessati | Note / Difesa | | ——————— | ———————————————– | ———————– | —————– | | Versamento (accredito) non giustificato – contanti versati, bonifico ricevuto, assegno depositato, ecc. | Reddito non dichiarato. L’importo viene presunto come ricavo d’impresa o compenso di lavoro autonomo occulto, ovvero altra entrata imponibile non dichiarata dal contribuente . | Tutti i contribuenti (imprese, autonomi, privati) | Il contribuente deve provare che la somma non costituisce reddito imponibile: ad es. perché era già tassata (es. reddito risparmiato), esente, una donazione legittima, un prestito, una vendita di beni personali non tassabile, ecc. La prova deve essere specifica per ciascun versamento (non basta un’affermazione generica) . In mancanza di prova, l’intero importo viene aggiunto al reddito imponibile. | | Prelievo (addebito) non giustificato – uscita di contante o bonifico in uscita privo di spiegazione nelle scritture. | Imprese: presunto acquisto “in nero” di beni/servizi, quindi correlativo ricavo non dichiarato (vendite occulte finanziate da quel costo non contabilizzato) . <br> Autonomi / Privati: nessuna presunzione legale automatica (dal 2014 in avanti non operativa per loro) . | Imprese (società e ditte individuali). <br> (Non applicabile a lavoratori autonomi e altri contribuenti dal 2014) | Soglia di tolleranza (solo imprese): nessuna presunzione per prelievi ≤ 1.000 € al giorno e ≤ 5.000 € al mese (DL 193/2016). Prelievi oltre soglia, se non giustificati, = indice di possibili acquisti in nero → il Fisco li può imputare a ricavi occulti equivalenti. <br> Difesa (imprese): dimostrare il beneficiario del pagamento o che la spesa non aveva natura inerente (es. prelievo usato per esigenze personali estranee all’attività) . Se il contribuente identifica precisamente a chi/che cosa è servito il denaro prelevato (e ciò non genera ricavi), la presunzione cade. <br> Autonomi/Privati: la legge esclude la presunzione sui loro prelievi (Corte Cost. 228/2014) , quindi l’Ufficio dovrebbe provare diversamente eventuali evasioni legate a uscite di cassa. |
Esempio pratico
Il Sig. Rossi (lavoratore dipendente) versa sul proprio conto bancario, in varie occasioni durante l’anno, un totale di 20.000 € in contanti. Non avendo egli dichiarato alcun reddito extra oltre allo stipendio, l’Agenzia delle Entrate gli notifica un accertamento presumendo che quei 20.000 € siano frutto di attività “in nero” (es. lezioni private retribuite in contanti, rivendita occulta di beni, ecc.). In base all’art. 32 DPR 600/73, infatti, ogni versamento non giustificato è reddito imponibile salvo prova contraria. A questo punto, Rossi deve difendersi dimostrando, se vero, l’origine non tassabile di quelle somme: ad esempio potrebbe esibire documentazione che provi che 15.000 € provengono da una donazione familiare (il padre gli ha regalato tale importo, con bonifico documentato o dichiarazione scritta) e i restanti 5.000 € sono frutto di risparmi accumulati negli anni precedenti su cui ha già pagato le imposte (magari prelevati tempo addietro dal suo conto stipendio e poi tenuti in casa). Se la prova è ritenuta sufficiente, l’accertamento per quella parte deve essere annullato.
Avvio dei controlli: segnalazioni bancarie e indagini finanziarie
Come fa l’Amministrazione finanziaria a scoprire trasferimenti di denaro sospetti? In genere l’innesco può derivare da diverse fonti informative, spesso incrociate tra loro:
- Archivio dei Rapporti Finanziari (Anagrafe dei conti): In Italia esiste dal 2012 una banca dati centralizzata, gestita da Banca d’Italia e SOGEI, che raccoglie periodicamente le informazioni di tutti i conti correnti, depositi e altri rapporti finanziari intestati a ciascun codice fiscale . Gli intermediari (banche, Poste, società finanziarie) trasmettono annualmente i dati aggregati di saldo e movimenti dei conti. Quest’Anagrafe – potenziata nel 2016 – consente al Fisco di individuare anomalie tra disponibilità finanziarie e redditi dichiarati, nonché di rintracciare trasferimenti verso l’estero . Ad esempio, se un contribuente dichiara 20.000 € annui ma il totale dei versamenti sul suo conto è di 80.000 €, l’anagrafe segnala uno scostamento significativo. Allo stesso modo, sono tracciati i bonifici da e verso l’estero. Gli analisti finanziari dell’Agenzia delle Entrate dispongono oggi di strumenti di data matching che incrociano i dati dei conti con molteplici altre banche dati (dichiarazioni fiscali, registri immobiliari, spese note, ecc.) per evidenziare situazioni anomale . La presenza di movimenti bancari di gran lunga eccedenti i redditi ufficiali, o di ingenti trasferimenti internazionali non spiegati, può far scattare un controllo fiscale mirato . È bene chiarire che l’Agenzia delle Entrate non può monitorare ogni conto corrente in tempo reale indiscriminatamente – servono autorizzazioni interne e motivazioni per accedere ai dettagli – ma grazie all’anagrafe dei conti essa dispone di indicatori sintetici per capire dove concentrare le verifiche . In pratica, i contribuenti con movimenti finanziari incoerenti rispetto alla loro posizione fiscale finiscono in liste selettive di potenziali evasori da sottoporre ad accertamento.
- Segnalazioni antiriciclaggio (operazioni sospette): Un altro canale di emersione dei trasferimenti sospetti è costituito dalle segnalazioni di operazioni sospette (SOS) effettuate dagli intermediari finanziari ai sensi del D.Lgs. 231/2007 (normativa antiriciclaggio). Banche, poste e altri operatori hanno l’obbligo di segnalare alla UIF (Unità di Informazione Finanziaria) transazioni che, per importo o modalità, facciano ipotizzare riciclaggio o finanziamento illecito. Non esiste una soglia fissa oltre la quale scatta automaticamente la segnalazione: essa dipende dal giudizio dell’operatore e da specifici indicatori di anomalia individuati dall’UIF . Ad esempio, fra gli indicatori aggiornati nel 2023 vi sono: il cliente che versa o trasferisce fondi provenienti da Paesi a fiscalità privilegiata mostrando riluttanza a fornire spiegazioni; operazioni incoerenti con il profilo economico del soggetto; frazionamento sospetto di importi; uso improprio di contanti, ecc. . Dal 1° gennaio 2023, è in vigore in Italia il limite di 5.000 € per i pagamenti in contanti tra privati, ma attenzione: questo è un limite legale ai fini amministrativi, non una soglia per le segnalazioni di riciclaggio . Infatti, le SOS possono scattare anche sotto tale importo se l’operazione appare anomala (viceversa, non tutte le operazioni oltre 5.000 € sono segnalate – p.es. un bonifico tracciato con causale chiara di pagamento fattura normalmente non è considerato sospetto). Esiste però una soglia specifica per segnalare prelievi/versamenti in contante frazionati: il D.Lgs. 231/2007 impone agli intermediari di segnalare movimenti in contante superiori a 10.000 € complessivi al mese, anche se suddivisi in più operazioni da almeno 1.000 € ciascuna . Dunque, se un soggetto preleva 3.000 € in contanti ogni settimana, la banca registra e segnala l’evento alla UIF. Come si collega ciò col Fisco? Dal 2017 è stato creato un ponte normativo tra antiriciclaggio e accertamenti tributari: l’art. 9, comma 9 del D.Lgs. 231/2007, modificato dal D.Lgs. 90/2017, stabilisce che i dati e le informazioni acquisiti nelle attività antiriciclaggio sono utilizzabili anche a fini fiscali . In pratica, la Guardia di Finanza – nell’ambito dei suoi compiti di polizia valutaria – può passare all’Agenzia delle Entrate le risultanze emerse da indagini finanziarie svolte per antiriciclaggio . Ciò avviene al termine delle verifiche AML (nel rispetto del segreto investigativo) e senza informare il cliente segnalato (vige infatti il divieto per la banca di comunicare al cliente l’avvenuta segnalazione, ex art. 48 D.Lgs. 231/2007) . Il risultato pratico è che un contribuente potrebbe scoprire di essere stato segnalato come “operazione sospetta” solo quando riceve un invito dall’Agenzia delle Entrate a fornire chiarimenti . Ad esempio, un bonifico di 50.000 € disposto verso un conto negli Emirati Arabi Uniti per acquistare un immobile potrebbe aver originato una segnalazione antiriciclaggio; qualche mese dopo, il contribuente riceve un invito al contraddittorio dall’Agenzia in cui gli viene chiesto di giustificare la provenienza e la natura fiscale di quella somma . Questo “doppio binario” (prima segnalazione bancaria, poi accertamento fiscale) è sempre più frequente e risponde alla strategia di colpire l’evasione internazionale intrecciata col riciclaggio . Da notare, però, che le informazioni bancarie acquisite via antiriciclaggio non godono automaticamente delle presunzioni legali dell’art. 32 DPR 600/73: la Cassazione ha chiarito che gli estratti conto ottenuti con poteri di polizia valutaria restano prove utilizzabili, ma non attivano di per sé la presunzione di ricavo occulto prevista dall’art. 32 . L’Ufficio dovrà quindi motivare l’accertamento basandosi su quegli elementi in modo induttivo semplice (cioè come indizi), senza l’automatismo legale – anche se in pratica la differenza è sottile, poiché, come visto, una volta in sede contenziosa il giudice tributario tende comunque a ritenere onere del contribuente spiegare i movimenti.
- Scambio internazionale di informazioni finanziarie: In parallelo all’azione antiriciclaggio, dal 2017 è entrato a regime lo scambio automatico di informazioni fiscali tra Stati, secondo lo standard Common Reporting Standard (CRS) OCSE e le direttive UE DAC (Direttiva Administrative Cooperation). Oltre 100 Paesi nel mondo (inclusa l’Italia) si scambiano ogni anno i dati dei conti finanziari detenuti dai rispettivi residenti all’estero . Le banche e istituzioni finanziarie di ciascun Paese aderente forniscono all’autorità fiscale locale l’elenco dei conti intestati a non residenti (con saldo, movimenti, interessi, dividendi, ecc.), e tali dati vengono poi trasmessi allo Stato di residenza del titolare . L’Italia, recependo la direttiva UE 2014/107/UE, ha reso operativo il CRS dal 2017 (L. 95/2015 e DM 28/12/2015) . Al settembre 2025, l’Agenzia delle Entrate riceve informazioni finanziarie da ben 117 giurisdizioni estere , tra cui molti ex “paradisi fiscali” come Svizzera, San Marino, Monaco, Liechtenstein, Singapore, Hong Kong, Emirati Arabi, Cayman, etc. Ogni anno nuovi Paesi si aggiungono agli accordi (nel 2025, ad esempio, si sono aggiunti Armenia, Moldavia, Ucraina, Uganda…) . Questo flusso informativo massivo ha permesso di individuare migliaia di contribuenti italiani con attività finanziarie non dichiarate all’estero . Spesso il primo passo è l’invio di una lettera di compliance o di un questionario: ad esempio, il contribuente riceve una comunicazione dall’Agenzia che segnala l’esistenza di un conto bancario in Germania o in Svizzera a lui intestato, non risultante dal Quadro RW o da altre dichiarazioni, e lo invita a fornire chiarimenti (o a regolarizzare la posizione spontaneamente) . Se il contribuente ignora la lettera o non fornisce spiegazioni convincenti, l’Ufficio può procedere con un vero e proprio avviso di accertamento basato sui dati esteri: tipicamente recuperando a tassazione eventuali redditi di investimento non dichiarati (interessi, dividendi, plusvalenze) e irrogando sanzioni sia per omessa dichiarazione di redditi esteri sia per violazione degli obblighi di monitoraggio fiscale (Quadro RW). Inoltre, in caso di asset non dichiarati detenuti in Paesi “non collaborativi” (black list), si applicano presunzioni aggravate per legge: l’art. 12, co. 2 del D.L. 78/2009 prevede che l’intero ammontare degli investimenti o attività finanziarie non dichiarati in Stati a fiscalità privilegiata si presume costituito con redditi sottratti a tassazione in Italia, salvo prova contraria . Contestualmente scattano il raddoppio dei termini di accertamento (fino a 10 anni dopo il fatto) e il raddoppio delle sanzioni sia sull’imposta evasa (fino al 360% dell’imposta evasa, anziché 180% max) sia sulle violazioni monitoraggio (6-30% dell’importo non dichiarato, anziché 3-15%) . Si tratta di una presunzione legale pesantissima a carico del contribuente, che sposta su di lui l’onere di provare che quelle attività estere (conti, partecipazioni, trust, ecc.) non derivano da redditi non tassati in Italia . In assenza di prova contraria, il fisco può tassare l’intero valore trasferito o detenuto all’estero come se fosse reddito nascosto, con sanzioni proporzionali molto elevate . Questa disciplina sui paradisi fiscali rende particolarmente rischioso non dichiarare conti o fondi detenuti offshore: come sottolinea la stessa prassi, una volta scattata la presunzione, “se non si è in grado di smontarla, il contribuente è chiamato a dover tassare l’importo dell’investimento” oltre a pagare le relative sanzioni . È dunque fondamentale, per chi riceve un accertamento basato su dati esteri, attivarsi immediatamente per fornire ogni evidenza possibile a discolpa (es. documenti che mostrino che quel capitale estero proviene da redditi già tassati in Italia, o che si tratta di somme di origine donativa, eredità, risparmi leciti) o, se ormai tardivo, valutare una regolarizzazione mediante gli strumenti deflattivi disponibili.
Integrazione banche dati: Vale la pena notare che ormai le informazioni da segnalazioni antiriciclaggio e da scambi internazionali confluiscono anch’esse nei sistemi dell’Agenzia. L’Archivio finanziario italiano dispone di una “reportistica integrata” per ogni contribuente, che consente al funzionario di visualizzare anche l’elenco dei conti esteri comunicati via CRS, associati al codice fiscale in esame . In sostanza, l’analisi del profilo di un contribuente sospetto avviene a 360 gradi: si vedono i conti italiani (con saldi e movimenti aggregati), i conti esteri noti, le proprietà immobiliari, auto, barche, le spese rilevanti (es. spese con carte di credito, assicurazioni, utenze), e si incrociano tali elementi con i redditi dichiarati . Algoritmi di risk analysis segnalano possibili incongruenze (ad esempio, spese o incrementi patrimoniali non compatibili col reddito ufficiale) che poi vengono approfondite in sede di controllo umano . Ecco perché oggi anche operazioni relativamente “nuove” come le criptovalute non sfuggono all’attenzione: se un contribuente scambia euro per Bitcoin e poi rivende ottenendo accrediti in conto corrente, oppure se invia denaro a una piattaforma estera di trading, queste operazioni lasciano traccia e possono essere intercettate (per approfondimenti, si veda il focus sulle criptovalute più avanti).
In generale, il primo atto formale con cui il contribuente viene coinvolto è spesso un invito a comparire o a fornire dati (ex art. 32 DPR 600/73 o ex art. 5-bis D.Lgs. 218/1997) da parte dell’Agenzia delle Entrate. Si tratta di una sorta di “pre-accertamento” in cui l’Ufficio comunica al contribuente che sono emerse certe operazioni (es. bonifici esteri, versamenti ingenti) e lo invita a fornire documenti e spiegazioni prima di emettere un eventuale avviso di accertamento . In questo invito (che è obbligatorio in alcuni casi, ad esempio per accertamenti da redditometro o, per prassi, nei casi da scambio informazioni) vengono elencate le somme contestate e richieste specifiche giustificazioni: documentazione sulla provenienza dei fondi, la causale economica delle transazioni, prova che i redditi usati fossero già stati dichiarati, eventuale prova dell’investimento estero effettuato con quei soldi . È fondamentale rispondere con cura e completezza a tale invito (si vedrà in seguito la strategia difensiva), poiché da esso può dipendere l’esito del procedimento: in molti casi, se il contribuente fornisce chiarimenti convincenti e documentati, l’Ufficio può archiviare la pratica senza procedere oltre . Viceversa, una mancata risposta o spiegazioni insufficienti quasi certamente porteranno all’emissione di un avviso di accertamento.
Redditometro e controlli sui movimenti: differenze
Prima di addentrarci nelle strategie difensive, giova distinguere brevemente l’accertamento bancario (quello sin qui descritto, fondato sull’art. 32 DPR 600/73) dall’accertamento sintetico del reddito complessivo (il cosiddetto redditometro, art. 38 DPR 600/73). Entrambi gli strumenti mirano a far emergere redditi occulti, ma con meccanismi diversi:
- Accertamento bancario (induttivo finanziario): si basa su dati puntuali delle movimentazioni bancarie. Una volta acquisiti gli estratti conto, l’Ufficio individua i versamenti non giustificati e li contesta direttamente come redditi non dichiarati . È un accertamento induttivo “puro” fondato su una presunzione legale (come visto sopra): se il contribuente non fornisce spiegazioni credibili per ciascun versamento, l’importo viene semplicemente aggiunto al suo reddito imponibile . Non serve dimostrare un particolare tenore di vita, né utilizzare indici di spesa: basta il dato bancario in sé. Inoltre, l’accertamento bancario non richiede una deviazione minima tra reddito dichiarato e movimenti: anche un singolo versamento importante, riferito magari a un solo anno, può far scattare la rettifica (sempre entro i termini di decadenza previsti, di regola 31 dicembre del quinto anno successivo). Non è nemmeno obbligatorio, per legge, il contraddittorio preventivo (anche se, come detto, in prassi spesso l’Agenzia lo avvia soprattutto per movimenti esteri). In sintesi, è uno strumento “chirurgico” che colpisce specifici movimenti e attribuisce loro natura di ricavo imponibile salvo prova contraria.
- Accertamento sintetico “redditometro”: mira invece a ricostruire il reddito complessivo di un contribuente in base al suo intero profilo di spesa e incremento patrimoniale in un dato periodo . Viene condotto calcolando l’ammontare di spese certe (es. acquisto auto, mutuo, canoni, viaggi) e investimenti effettuati (casa comprata, investimenti finanziari, movimenti bancari in entrata e uscita, ecc.) e confrontandolo con il reddito dichiarato . Se risulta che il contribuente mantiene un tenore di vita non compatibile con i redditi dichiarati, il Fisco può presumere che esistano redditi non dichiarati a copertura di quella differenza . La legge tuttavia impone due condizioni per procedere con un redditometro (secondo la disciplina attuale, post riforma 2010-2011 e modifiche successive): (1) la ricostruzione sintetica deve eccedere di almeno il 20% il reddito dichiarato per due anni consecutivi (evitando così accertamenti per scostamenti minimi o di un solo anno), (2) è obbligatorio il contraddittorio preventivo: l’Ufficio deve convocare il contribuente e tener conto delle sue giustificazioni sulle spese prima di emettere l’accertamento . Ad esempio, se dal redditometro risulta che Tizio ha speso 50.000 € in un anno a fronte di 30.000 € dichiarati, l’Agenzia lo inviterà a spiegare come ha potuto: se Tizio dimostra che ha utilizzato risparmi pregressi già tassati o somme donate dai genitori (documentate), tali spiegazioni devono essere recepite e possono condurre all’archiviazione o a una riduzione dell’accertato . Solo se le spiegazioni sono assenti o inverosimili si procede a determinare sinteticamente un maggior reddito. In pratica, il redditometro guarda al complesso della capacità contributiva (include anche i versamenti in conto come elemento di ricchezza) , mentre l’accertamento bancario guarda ai singoli flussi finanziari in entrata. Oggi il redditometro è meno utilizzato, anche perché richiede di valutare molteplici voci e soffre di complessità (tant’è che la sua applicazione per gli anni più recenti è stata sospesa in attesa di nuovi decreti); viceversa, l’uso mirato dei dati bancari è diventato la via più immediata per l’Amministrazione . Entrambi gli strumenti però possono coesistere: ad esempio, se un grosso versamento bancario ha finanziato l’acquisto di un immobile, potrebbe rilevare sia come elemento di redditometro (incremento patrimoniale) sia come movimento bancario presunto reddito – in tal caso l’Ufficio sceglierà il metodo di accertamento più solido (spesso preferendo l’art. 32, che semplifica il proprio onere probatorio).
In sintesi: l’accertamento sui movimenti bancari è più “semplice” per il Fisco (basta il dato del versamento non giustificato), mentre l’accertamento sintetico è più olistico ma richiede confronto con il contribuente e soglie di scostamento. Dal punto di vista difensivo, molte giustificazioni possono valere in entrambi i casi – ad esempio provare che le spese/versamenti sono stati coperti da redditi non tassabili come donazioni o utilizzo di risparmi – ma l’accertamento bancario lascia meno margine se non si hanno pezze giustificative solide per ogni singolo importo.
Come difendersi: strategie e onere della prova del contribuente
Dinanzi a un accertamento fiscale basato su trasferimenti di denaro sospetti, la strategia difensiva del contribuente deve puntare a fornire la prova contraria alla presunzione di occultamento di redditi. Abbiamo visto che l’onere probatorio, in questi casi, grava in gran parte sul contribuente: deve dimostrare che le somme contestate non costituiscono materia imponibile. Ciò richiede un lavoro accurato di raccolta documentale e argomentazione giuridica, idealmente già in fase pre-contenziosa (durante il contraddittorio con l’Ufficio) e, se necessario, da affinare poi in fase di ricorso.
Ecco alcune linee guida difensive e tipologie di giustificazioni comunemente accettate, da adattare al caso specifico:
- Somme già tassate o provenienti da redditi dichiarati: È la prima e più immediata difesa. Se il contribuente può collegare il versamento sospetto a redditi sui quali ha già pagato le imposte, l’accertamento deve decadere su quella parte. Ad esempio: un soggetto potrebbe aver depositato sul conto nel 2025 dei risparmi accumulati da stipendi percepiti negli anni precedenti (già tassati alla fonte come dipendente). Oppure un imprenditore individuale potrebbe aver versato in conto i proventi di vendite regolarmente fatturate e dichiarate, ma incassate in contanti. Come provarlo? Occorre esibire estratti conto, ricevute o documenti che mostrino la traccia finanziaria originaria: p.es. l’estratto del conto stipendio dal quale si vede il prelievo di contante mesi prima, di importo corrispondente, poi rientrato sul conto; oppure le copie delle fatture e degli scontrini attestanti che quell’importo versato era stato incassato da operazioni fiscalmente registrate. In mancanza di traccia bancaria (es. risparmi tenuti in casa), si può comunque dedurre dai flussi: se una persona aveva redditi leciti molto superiori al suo tenore di vita degli anni passati, è plausibile che abbia accumulato e poi reimmesso liquidità. Questo ragionamento va però sostenuto da quantificazioni (magari con una perizia o una situazione patrimoniale personale evidenziando l’avanzo di reddito negli anni) – e non è detto che basti, ma aiuta a creare dubbio . In sintesi, dimostrare che i fondi versati derivano da redditi già noti al Fisco sposta la vicenda sul piano “non mi stai occultando nuovo reddito, ma reimpiegando reddito vecchio già tassato”.
- Donazioni o aiuti familiari: Molto spesso i contribuenti giustificano versamenti significativi invocando donazioni ricevute da parenti. Ad esempio, genitori che aiutano i figli con somme di denaro, magari per acquistare casa o avviare un’attività, oppure altri familiari che regalano denaro in occasioni particolari. Fiscalmente, una donazione tra parenti stretti non genera reddito imponibile per il beneficiario (può semmai rilevare l’imposta sulle donazioni oltre certe soglie, ma non è reddito IRPEF) e dunque è una spiegazione lecita. Ma attenzione: deve trattarsi di una vera donazione, non di uno stratagemma ex post. È fondamentale poter esibire qualche riscontro: ad esempio, un bonifico con causale “regalo” o “donazione” fatto dal familiare; oppure un atto di donazione (se l’importo era molto elevato, oltre certe soglie la forma dell’atto pubblico è raccomandata); o almeno una dichiarazione scritta firmata dal donante che confermi di aver dato lui quella somma a titolo di regalo. Inoltre, è opportuno mostrare che il donante aveva la capacità finanziaria per elargire quel denaro: altrimenti il Fisco potrebbe sospettare che il familiare sia solo un prestanome e che il denaro in realtà provenga dal contribuente stesso. In pratica, se si sostiene che “mio padre mi ha donato 50.000 €”, è bene produrre copia dell’estratto conto del padre da cui risulta l’uscita di 50.000 €, magari prelevati dai suoi redditi o risparmi leciti, e il contestuale ingresso sul conto del figlio (con evidenza della correlazione temporale) . Anche eventuali dichiarazioni sostitutive di atto notorio del donante possono aiutare. L’ideale, ove possibile, è formalizzare sempre le donazioni significative per atto notarile (anche per ragioni civilistiche): quel documento notarialmente registrato costituirà prova quasi incontestabile. Per donazioni di minore importo, un semplice bonifico con descrizione chiara costituisce già un buon elemento. Ricordiamo che le donazioni tra parenti in linea retta (genitori-figli, nonni-nipoti) godono di franchigia di 1.000.000 € ai fini dell’imposta di donazione, quindi generalmente non vi sono imposte se sotto tale soglia; tra fratelli la franchigia è 100.000 €, etc. – ma questo è un aspetto diverso dal nostro (che è sul reddito).
- Restituzioni di prestiti o finanziamenti: Un’altra giustificazione frequente è che il versamento in conto rappresenti la restituzione di un prestito precedentemente concesso dal contribuente a terzi, oppure la restituzione di capitale investito. Ad esempio, Tizio potrebbe aver prestato 10.000 € all’amico Caio qualche anno fa, e Caio glieli restituisce ora con un assegno o bonifico: quell’entrata non è un nuovo reddito, bensì la mera restituzione di un proprio capitale. Allo stesso modo, un socio che versa denaro alla propria società (finanziamento soci) e poi lo riceve indietro, sta solo recuperando il capitale. Per sostenere questa difesa, servono prove del rapporto di mutuo o finanziamento: idealmente un contratto di prestito o scrittura privata firmata all’epoca in cui il denaro uscì, o altre evidenze (assegno o bonifico originario consegnato al debitore, dichiarazioni del debitore che confermano il prestito, e poi il movimento di rientro). Importante: se gli importi sono consistenti, il prestito andava preferibilmente formalizzato per iscritto all’inizio, non dopo essere stati scoperti (una scrittura di comodo retrodatata ha scarso valore e può aggravare la posizione se considerata falsa). Ma anche in mancanza di un contratto, il contribuente può provare la natura restitutoria allegando ad esempio una corrispondenza (email, messaggi) intercorsa col debitore che parla del debito e della restituzione, o una dichiarazione del debitore, o documenti contabili se il debitore è una società. Se il prestito era fruttifero (con interessi), occorre aver dichiarato gli eventuali interessi come redditi di capitale; se era infruttifero, meglio specificato. Questa giustificazione è spesso plausibile soprattutto se c’è coerenza: es. il contribuente mostra di aver prelevato (o comunque sborsato) la somma X anni fa e di riaverla ora; oppure se un contratto notarile (come un mutuo registrato) lo attesta. Caso tipico: un genitore presta soldi a un figlio per comprare casa, poi il figlio ottiene un mutuo dalla banca e restituisce il prestito al genitore, il quale versa quindi sul proprio conto la somma ricevuta indietro – documentando queste fasi, si chiarisce che quel versamento non è un reddito ma la restituzione di un proprio credito.
- Movimenti tra conti propri o trasferimenti interni: Può sembrare banale, ma va sempre verificato se il versamento contestato non sia altro che un trasferimento di fondi tra due conti dello stesso contribuente. Ad esempio, un contribuente sposta 20.000 € dal suo conto deposito al suo conto corrente e la banca riporta l’entrata di 20.000 sul c/c: questa è un’operazione neutra, semplice giroconto. In teoria il Fisco non dovrebbe contestarla (poiché lo stesso art. 32 esclude la doppia imposizione su somme già dichiarate, e in questo caso non c’è arricchimento economico, è solo un cambio di conto). Tuttavia, nella pratica può accadere che – specialmente se i due conti hanno intestazioni diverse o se uno è cointestato – l’Ufficio fraintenda l’operazione. La difesa qui consiste nel dimostrare l’origine identica: presentare estratti conti evidenziando che l’addebito su un conto corrisponde cronologicamente e quantitativamente all’accredito sull’altro. Una semplice evidenza bancaria sarà sufficiente a chiarire l’equivoco. N.B.: se i conti sono di soggetti diversi (es. marito-moglie), allora non è trasferimento tra stessi soggetti ma potrebbe configurare donazione o altro – vedere i casi sopra.
- Utilizzo di somme detenute in casa (“materasso”): Molti contribuenti, specie in passato, detengono liquidità fuori dal sistema bancario (contanti in casa, cassette di sicurezza). Il successivo versamento di tali contanti sul conto risulta “sospetto” perché non se ne vede la provenienza. Si può tentare di difendersi sostenendo che si tratta di risparmi accumulati nel tempo e custoditi personalmente. Questa difesa purtroppo è tra le più deboli, perché manca tracciabilità. È consigliabile adoperarla solo se vi sono elementi di supporto: ad esempio, far notare che nei mesi o anni precedenti ci furono prelievi di simile importo non seguiti da spese note, il che potrebbe far dedurre che il contribuente abbia conservato quel contante. Oppure portare testimoni (per quanto il contenzioso tributario scritto raramente li ammette) o altre evidenze che diano credibilità (es. un estratto di cassetta di sicurezza che mostra il deposito di contanti anni prima, poi chiusa e versato il contenuto). Caso frequente: piccoli imprenditori che accumulavano nero e lo tenevano in cassaforte per anni; al momento di cessare l’attività o per altre necessità, versano quei contanti – in giudizio spesso sostengono la tesi del “fondo cassa pregresso”. Alcune Commissioni Tributarie hanno talvolta accolto parzialmente tali tesi se supportate da presunzioni semplici (es. calcoli sullo storico degli incassi). Ma in generale è rischioso fare troppo affidamento su questa linea: senza documenti a conforto, è parola del contribuente contro la presunzione di legge, e quest’ultima tendenzialmente prevale. Meglio allora, ove possibile, “trasformare” questa giustificazione in una delle precedenti: ad esempio, se i soldi in casa provenivano da redditi già tassati (risparmi) lo si dica esplicitamente; se provenivano da somme donate da familiari in passato, meglio farli figurare come donazione; se erano proventi occultati e si vuole in qualche modo sanare, valutare strumenti come il ravvedimento (se ancora possibile) o l’adesione.
- Vendita di beni personali non tassabile: Se la somma versata proviene dalla vendita di un bene personale del contribuente (un’auto usata, mobili, oggetti d’arte, oro, ecc.), potrebbe non configurare reddito imponibile. In Italia, infatti, la cessione di beni personali non aventi natura di investimento normalmente non genera plusvalenza tassabile (fa eccezione la vendita di oggetti d’arte o da collezione in certi casi, o di immobili entro 5 anni dall’acquisto, ecc.). Per esempio, se un privato vende la propria auto usata per 15.000 € e versa l’assegno ricevuto, quella somma non è un reddito di lavoro o d’impresa. Tuttavia, bisogna provare l’origine: esibire il contratto di vendita del bene, il passaggio di proprietà, la ricevuta di pagamento. Si deve evidenziare che la vendita è avvenuta a valori di mercato ragionevoli (se uno dichiara di aver venduto un orologio usato a 50.000 € deve mostrare documenti congrui, altrimenti il Fisco sospetterà di nuovo un escamotage). Se la vendita ha generato un effettivo guadagno rispetto al prezzo di acquisto, bisogna verificare se ricade in fattispecie tassabili (ad es. vendita di terreni edificabili, o di partecipazioni qualificate): in tal caso la plusvalenza andava dichiarata. Ma per la maggior parte dei beni mobili usati, non c’è imposizione. Dunque, presentando atto di vendita e prova del pagamento, si sostiene che l’accredito in conto è solo conversione di un bene in denaro.
- Rendite finanziarie esenti o già tassate alla fonte: Un altro scenario: il contribuente potrebbe aver incassato somme da investimenti finanziari che non sono soggette a ulteriore tassazione. Ad esempio, un rimborso di titoli di Stato (BOT, BTP) – gli interessi su titoli di Stato sono soggetti a imposta sostitutiva a monte e non vanno in dichiarazione; oppure la liquidazione di un’assicurazione sulla vita dopo almeno 5 anni – esente da imposta; o il rimborso di un finanziamento a un’impresa estera; o redditi di capitale già tassati per imposta sostitutiva (cedole, dividendi percepiti con ritenuta a titolo d’imposta). Se l’Agenzia vede un grosso versamento da banca ma scopre che è, ad esempio, l’accredito della liquidazione di una polizza vita decennale, non può tassarlo come reddito occulto perché è un provento fiscalmente esente (o già tassato all’origine). Quindi, la difesa consisterà nel produrre la documentazione dell’intermediario: ad es. il prospetto della banca o assicurazione che indica la natura di quel pagamento e l’eventuale ritenuta già applicata. In questi casi, spesso la contestazione può essere frutto di un malinteso (magari l’Ufficio non aveva colto l’origine). Chiarito ciò, dovrebbe decadere.
- Operazioni societarie, rimesse di capitale: Nel caso di imprenditori o soci, un versamento sul conto della società o dell’imprenditore può essere originato da operazioni societarie legittime: apporti di capitale, finanziamenti soci, compensazioni tra soci e società, ecc. Qui è cruciale distinguere ciò che è fonte di reddito da ciò che è movimento patrimoniale. Esempio: un socio versa 100.000 € sul conto della sua S.r.l. come aumento di capitale sociale; poi la società restituisce 100.000 € al socio l’anno dopo per riduzione di capitale – questi flussi, se correttamente deliberati, non sono reddito imponibile né per la società (il conferimento non è ricavo) né per il socio (la restituzione del proprio capitale non è dividendo). Tuttavia, se non si dimostrano le delibere e le scritture contabili relative, il Fisco potrebbe scambiare quel versamento iniziale come ricavo “non fatturato” della società e la successiva uscita come distribuzione occulta di utili. Difesa: fornire copia delle delibere assembleari di aumento/riduzione capitale, registri societari, contratto di finanziamento soci, movimento contabile in bilancio, ecc. Ogni apporto o prelievo di risorse tra soci e società deve emergere chiaramente come atto patrimoniale nelle scritture. Se ciò è fatto, i verificatori non potranno riqualificarlo come ricavo (salvo abusi particolari). In sintesi, contestazioni su versamenti societari vanno respinte dimostrando che trattasi di apporti di capitale o finanziamenti leciti documentati, e non di vendite o ricavi occulti .
In generale, qualunque sia la giustificazione, è fondamentale presentarla in modo chiaro, analitico e supportato da documenti. Conviene predisporre uno schema (magari in forma tabellare) che abbini ad ogni singolo movimento contestato la relativa spiegazione e i riferimenti probatori. Ad esempio:
- “Versamento di €50.000 il 10/07/2023 sul c/c n.1234” – Spiegazione: proviene da donazione del padre (v. bonifico allegato del 05/07/2023 da conto padre, Causale “donazione per acquisto casa”; v. dichiarazione scritta del padre allegata). Padre disponeva di redditi risparmiati (v. suo CUD) adeguati a tal fine.
- “Versamento di €7.500 il 02/02/2023 sul c/c n.5678” – Spiegazione: restituzione parziale prestito fatto a Mario Rossi – v. contratto di mutuo del 2019 allegato, art. 2, e bonifico di restituzione ricevuto il 02/02/2023 da M.Rossi.
- “Versamento di €10.000 il 05/05/2023 sul c/c n.5678” – Spiegazione: costituito da risparmi personali in contanti (già tassati) accumulati; v. estratto c/c ottobre 2022 con prelievo €10.000, poi custoditi e reintrodotti; v. prospetto spese/redditi 2020-22 che mostra capacità di risparmio.
Presentando un quadro dettagliato, si facilita il lavoro di chi dovrà valutare (funzionario o giudice) e si dimostra buona fede e trasparenza. Inoltre, è importante rispondere tempestivamente all’“invito al contraddittorio” (quando presente) allegando già tutta la documentazione in nostro possesso . Spesso, come rilevato dalla prassi, l’Agenzia delle Entrate è disposta a chiudere il caso in via amministrativa se il contribuente dimostra in modo convincente la tracciabilità delle somme, la loro legittima provenienza (da redditi dichiarati o esenti), la finalità lecita dell’operazione e il rispetto di eventuali obblighi dichiarativi (es. monitoraggio RW) . In caso contrario, si dovrà passare al livello successivo, cioè l’impugnazione dell’avviso dinanzi al giudice tributario.
Un ulteriore consiglio: la pianificazione preventiva. Se si prevede di ricevere o effettuare movimenti ingenti di denaro, conviene predisporre per tempo la documentazione. Ad esempio, se un figlio deve ricevere 100.000 € dai genitori per un acquisto, meglio far fare un bonifico con causale chiara o un atto scritto di liberalità in anticipo, e magari far transitare i fondi su conti nominativi (evitare troppi contanti). Se si vendono beni di famiglia, conservare i contratti. Se si detengono risparmi in casa e si vogliono depositare, può essere saggio versarli in modo graduale e annotare la provenienza, o dichiararli spontaneamente (c’è chi lo fa allegando una nota in dichiarazione). Queste accortezze non eliminano il controllo, ma facilitano enormemente la difesa successiva. Come si suol dire, melius prevenire quam curare.
Infine, ricordiamo che in sede contenziosa il contribuente ha la possibilità di far valere ogni elemento di difesa, anche nuovo. Se qualcosa è emerso tardi o non è stato considerato in fase amministrativa, lo si può ancora produrre al giudice tributario (il processo tributario consente la produzione documentale anche oltre la fase precontenziosa, fino a 20 giorni prima dell’udienza di primo grado per i documenti, e generalmente in appello se giustificato). È chiaro però che prima si forniscono le prove, meglio è: far cambiare idea all’Ufficio in contraddittorio può evitare un lungo contenzioso.
Procedimento tributario: dagli avvisi di accertamento al ricorso
Se le spiegazioni fornite al Fisco non sono accolte o se il contribuente viene direttamente colpito da un atto impositivo, occorre seguire il percorso del procedimento tributario per far valere le proprie ragioni. Di seguito descriviamo le principali tappe e gli strumenti a disposizione, dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta).
- Invito al contraddittorio o questionario iniziale: Come anticipato, in molti casi l’Agenzia invia un invito a comparire (ex art. 5-bis D.Lgs. 218/1997) o un questionario ex art. 32 DPR 600/73, prima di emettere l’accertamento . Questo atto non è un provvedimento definitivo ma un’occasione per il contribuente di chiarire. La legge prevede il contraddittorio obbligatorio per alcune tipologie di accertamento (es. sintetico, o nei casi di indagini finanziarie per operazioni estere secondo talune circolari), mentre in altri è facoltativo; tuttavia, la prassi è in evoluzione verso una maggiore cooperazione preventiva. Cosa fare: rispondere per iscritto entro il termine dato (di solito 15 giorni per un questionario, o 30 giorni per un invito ex 5-bis, prorogabili) allegando i documenti giustificativi e, se si partecipa di persona, esporre con chiarezza le proprie argomentazioni. Se dall’invito emerge una proposta di adesione (vedi oltre) o una possibile definizione bonaria, valutarla attentamente con un esperto.
- Avviso di accertamento: È l’atto con cui l’Ufficio determina maggiori imposte ritenute dovute (IRPEF, IRES, IVA, ecc.), applica sanzioni e richiede il pagamento. Nel contesto di versamenti sospetti, l’avviso elencherà i movimenti contestati, li qualificherà come ricavi non dichiarati in specifici periodi d’imposta, e calcolerà le imposte evase più interessi e sanzioni (le sanzioni per redditi non dichiarati – infedele dichiarazione – vanno dal 90% al 180% dell’imposta evasa, raddoppiate se paradisi fiscali, come visto). L’avviso di accertamento va notificato (generalmente via PEC o attraverso messo notificatore) entro i termini di decadenza previsti: tipicamente entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui andava presentata la dichiarazione (ad es. redditi 2019, accertamento entro fine 2025), estendibili a sette anni in caso di omessa dichiarazione, e raddoppiati in presenza di reati tributari o attività estere occultate (quindi fino a 10 anni, o 14 se omessa dichiarazione con estero) . Cosa fare: appena ricevuto, l’avviso va esaminato attentamente. Il contribuente ha 60 giorni di tempo dalla notifica per decidere come reagire. Le opzioni sono: accettare e pagare (anche a rate); oppure attivare strumenti deflativi (adesione, mediazione) per ridurre sanzioni o trovare un accordo; oppure presentare ricorso al giudice tributario. Durante questi 60 giorni, la riscossione è sospesa (non possono ancora iscrivere a ruolo le somme, salvo situazioni di particolare urgenza con provvedimenti ad hoc). Entro lo stesso termine, se necessario, si può presentare istanza di accertamento con adesione che sospende ulteriormente di 90 giorni i termini per il ricorso.
- Accertamento con adesione: È uno strumento deflattivo del contenzioso previsto dal D.Lgs. 218/1997. Consente al contribuente di chiedere un incontro all’Ufficio per cercare un accordo sull’accertamento, prima di fare ricorso. Si presenta un’istanza di adesione (entro 60 giorni dall’avviso); l’Agenzia convocherà il contribuente (di norma entro 30 giorni) per avviare la discussione. Nel caso di versamenti bancari, l’adesione può servire a transigere sulle motivazioni e sull’ammontare: ad esempio, il contribuente fornisce ulteriori prove non valutate e l’Ufficio può riconoscere la non imponibilità di alcune somme, riducendo il recupero su altre e magari concordando a metà strada. Se si raggiunge un accordo, si formalizza un atto di adesione in cui il contribuente accetta i nuovi importi. Il vantaggio è che le sanzioni vengono ridotte a 1/3 del minimo previsto (invece che restare al 90%-180%, scendono a 30% circa). Inoltre si evita il giudizio. Se l’adesione fallisce (nessun accordo) o non viene attivata, si procede oltre. Nota: L’istanza di adesione, come detto, sospende i termini per fare ricorso per 90 giorni, dando più tempo per trattare.
- Reclamo e mediazione obbligatoria: Per le controversie di valore relativamente basso, la legge prevede una fase amministrativa obbligatoria detta reclamo-mediazione (art. 17-bis D.Lgs. 546/92). Fino al 2023 il limite di valore era 50.000 € (ossia per accertamenti che richiedono fino a 50mila € tra imposte, interessi e sanzioni); dal 2023 in avanti tale soglia potrebbe essere elevata (ci sono state proposte di aumento a 100.000 €, da verificare nelle normative vigenti esatte a settembre 2025). In tali casi, prima di adire il giudice il contribuente deve presentare un reclamo all’ente impositore (Agenzia Entrate) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto, contenente anche una proposta di mediazione eventualmente. L’ufficio ha 90 giorni per rispondere. Se accoglie parzialmente o totalmente il reclamo, si chiude con annullamento o mediazione (in caso di accordo la sanzione è ridotta al 35% del minimo per legge). Se trascorrono i 90 giorni senza accordo, il reclamo produce automaticamente gli effetti di un ricorso giurisdizionale e la causa prosegue innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Tributaria Provinciale). In pratica, per importi sotto soglia, non si può saltare questa fase: il ricorso vero e proprio va notificato comunque, ma indirizzato come “reclamo” all’ufficio; solo poi, decorso il termine, lo si deposita in Commissione. Per l’accertamento di movimenti bancari, spesso i valori contestati superano i 50k€, ma qualora fossero sotto, il contribuente deve tener conto di questa procedura obbligatoria.
- Ricorso in Commissione Tributaria (Corte di Giustizia Tributaria di primo grado): È l’atto introduttivo del contenzioso vero e proprio. Va notificato all’ente impositore entro 60 giorni dall’avviso (o dall’esito negativo della mediazione, se applicabile) e successivamente depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria competente, entro 30 giorni dalla notifica. Nel ricorso si devono indicare i motivi per cui si ritiene illegittimo l’accertamento: qui si articolano in punto di diritto e di fatto tutte le contestazioni (es. violazione di legge, mancanza di contraddittorio, difetto di motivazione, errata valutazione delle prove, ecc.) e si richiede formalmente l’annullamento (totale o parziale) dell’atto. Dal punto di vista difensivo, il ricorso in materia di versamenti bancari contestati punterà su due fronti: (a) vizi procedurali dell’operato dell’Ufficio (se ce ne sono) – ad esempio, mancata attivazione del contraddittorio obbligatorio, uso di dati bancari acquisiti irritualmente, motivazione carente dell’atto, calcoli sbagliati, decadenza dei termini, ecc. – e (b) merito della pretesa, ossia fornire al giudice tutte le prove e ragioni per cui quei movimenti non sono redditi evasi. Il giudice tributario di primo grado (collegio di 3 giudici, salvo cause di modesto valore dove può essere monocratico) esaminerà il caso e deciderà con sentenza. Tempi: un processo tributario può durare da alcuni mesi a oltre un anno in primo grado, a seconda del carico della sede. Durante il processo, se l’importo accertato è elevato, l’Ufficio potrebbe iscrivere a ruolo una parte (di norma 1/3 delle imposte accertate, dopo 60 giorni) da riscuotere in pendenza di giudizio. Il contribuente può però chiedere alla Commissione la sospensione della riscossione, dimostrando sia il fumus boni iuris (motivi fondati del ricorso) sia il periculum in mora (danno grave e irreparabile da pagare subito). La Corte può sospendere in tutto o in parte la riscossione fino alla sentenza, evitando esecutività immediata (pignoramenti, fermi, etc.). Nel merito, in udienza la difesa può depositare memorie, documenti (fino a 20 gg prima) e svolgere arringa orale. La decisione può confermare l’accertamento, annullarlo o annullarlo parzialmente (ad esempio accogliendo le giustificazioni solo per alcune somme e non per altre). In caso di soccombenza parziale, spesso non si applicano spese di giudizio; in caso di soccombenza totale, il giudice può condannare la parte soccombente a rifondere le spese legali dell’altra (ma non è automatico, soprattutto nel tributario spesso si compensano).
- Appello (Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado): Sia il contribuente sia l’Agenzia possono appellare la sentenza di primo grado se sfavorevole, entro 60 giorni dalla notifica della stessa (o 6 mesi se non notificata). L’appello si propone innanzi alla Corte di secondo grado (ex Commissione Regionale). Il giudizio di appello è prevalentemente di merito ma tende a limitare nuove prove: è importante aver già prodotto tutto prima. La Corte d’Appello tributaria riesaminerà il caso e emetterà una nuova sentenza. I tempi possono essere simili o un po’ più lunghi del primo grado. In appello, la riscossione di solito diventa esecutiva per 2/3 delle imposte contestate (salvo ulteriore sospensione). L’esito dell’appello può confermare la prima sentenza o riformarla.
- Ricorso per Cassazione: È il terzo e ultimo grado, ammesso solo per motivi di diritto (violazioni di legge o vizi di motivazione della sentenza d’appello). Non si rivedono i fatti né si possono portare nuove prove. Il ricorso va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di secondo grado. La Cassazione (Sezione Tributaria) deciderà se la sentenza d’appello è giuridicamente corretta o va cassata. I tempi qui sono lunghi (anche 2-3 anni). Se la Cassazione accoglie il ricorso, può decidere nel merito (raro) o rinviare a una Corte di appello perché riesamini con i principi corretti. Se lo rigetta, la controversia finisce lì. Durante l’attesa, dopo l’appello la riscossione diventa definitiva (salvo diversa sospensione in Cassazione che è però rara).
- Strumenti deflattivi in corso di causa: Anche dopo aver avviato il ricorso, esistono possibilità di chiudere bonariamente la controversia con riduzione di sanzioni. Ad esempio, la conciliazione giudiziale: fino alla prima udienza (o in appello, fino all’udienza di trattazione) le parti possono accordarsi su una cifra transattiva e stipulare un verbale di conciliazione, che comporta sanzioni ridotte al 50% del minimo. Nel caso di incertezza su alcune componenti, potrebbe convenire chiudere in conciliazione per evitare rischi e ulteriori spese. Nel 2023 è stata prevista anche la possibilità di definizione agevolata delle liti pendenti in Cassazione (c.d. tregua fiscale), pagando una percentuale dell’importo in causa a seconda degli esiti dei precedenti gradi: ad esempio, liti con valore sotto 50mila € e contribuente vittorioso nei primi gradi potevano chiudersi pagando il 5%. Queste normative variano nel tempo, ma vale la pena tenerle d’occhio perché, se applicabili, consentono di chiudere definitivamente la vicenda fiscale con esborso ridotto, a fronte della rinuncia a proseguire il giudizio.
In ogni caso, nel decidere se impugnare o meno un accertamento per movimenti finanziari, il contribuente (meglio, il suo difensore di fiducia) deve fare un’analisi costo-beneficio: qual è la probabilità di successo e quanta parte delle somme contestate si possono giustificare con elementi concreti? Se le prove sono solide, conviene andare avanti nel contenzioso; se invece la posizione è oggettivamente molto compromessa (es. depositi ingenti in contanti di cui non si ha traccia alcuna), potrebbe essere sensato cercare un accordo in adesione per ridurre le sanzioni e chiudere il debito prima che maturino interessi e spese. Dal punto di vista del debitore, inoltre, è importante gestire la situazione finanziariamente: se le somme sono elevate, considerare piani di rateazione (l’Agente della riscossione – ex Equitalia, ora Agenzia Entrate Riscossione – concede fino a 72 rate ordinariamente, o 120 rate in casi di comprovata difficoltà). La rateazione può essere chiesta anche dopo aver presentato ricorso, senza pregiudicare la causa, purché non si sia ottenuta sospensione (attenzione: a volte la giurisprudenza ha discusso se chiedere rate equivalga ad acquiescenza; in generale no, la Cassazione ha chiarito che la rateazione non impedisce di proseguire il ricorso, se viene formulata come cautelativa).
Fase/Atto | Caratteristiche | Termini per il contribuente | Strumenti difensivi |
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Invito al contraddittorio / Questionario (pre-accertamento) | Richiesta di spiegazioni prima di emettere l’accertamento. Elenca movimenti sospetti e chiede documenti giustificativi. | Termine indicato dall’ufficio (spesso 15–30 gg, prorogabili con motivo). | Presentare per iscritto tutte le prove e spiegazioni. Partecipare a eventuale incontro. Obiettivo: convincere l’ufficio ad archiviare o ridurre la pretesa. (NB: se ignorato, l’ufficio procede con accertamento presuntivo). |
Avviso di accertamento | Atto impositivo motivato che quantifica imposte, sanzioni e interessi dovuti. Notificato al contribuente. | 60 gg dalla notifica per pagarlo (90 gg se dall’estero) o attivare difesa. Entro 60 gg si può anche presentare istanza di adesione (sospende i termini per ricorso di +90 gg). | – Accertamento con adesione: facoltativo, riduce sanzioni a 1/3 se accordo. – Reclamo-mediazione: obbligatorio se valore ≤ €50.000 (soglia 2025). Reclamo entro 60 gg, attesa 90 gg. – In mancanza di accordo: predisporre ricorso giurisdizionale. |
Ricorso in Commissione Tributaria (primo grado) | Si propone contro l’avviso (o esito reclamo) davanti al giudice tributario. Controversia decisa da giudici togati. | 60 gg dalla notifica atto. Se adesione: 60 gg dal verbale di mancato accordo. Se reclamo: 30 gg dopo i 90 gg senza esito. Ricorso notificato ad AE entro il termine e depositato entro 30 gg successivi. | – Sospensione riscossione: da chiedere nel ricorso (fumus + periculum). – Produzione prove: fino a 20 gg prima dell’udienza. – Difesa tecnica obbligatoria se valore > €3.000 (avvocato o commercialista abilitato). |
Sentenza di primo grado | Decide sui motivi del ricorso: può annullare, confermare o ridurre l’accertamento. È esecutiva per le somme ivi determinate. | Entro ~30 gg dalla pubblicazione, AE può richiedere pagamento delle somme dovute (detratto eventuale 1/3 già riscosso). | – Se sfavorevole: valutare appello. – Se favorevole: attendere eventuale appello della controparte. |
Appello (secondo grado) | Giudizio di merito di secondo grado, davanti alla Corte di Giustizia Tributaria regionale. | 60 gg dalla notifica sentenza di primo grado (o 6 mesi se non notificata). | – Ribadire difese ed errori del primo giudice. – Possibile chiedere sospensione esecutività (per i 2/3 residui). – Se sfavorevole: possibile ricorso in Cassazione. |
Cassazione (terzo grado) | Giudizio di sola legittimità (errori di diritto, non di fatto). | 60 gg dalla notifica della sentenza di appello. | – Non ammessi nuovi documenti né rivalutazione dei fatti. – Possibile istanza di sospensione (raramente concessa). – Sentenza definitiva, salvo rinvio. |
Domande frequenti (FAQ)
D: L’Agenzia delle Entrate può controllare liberamente i conti correnti di chiunque?
R: Non in maniera indiscriminata. L’Agenzia delle Entrate ha accesso all’Archivio dei rapporti finanziari (che contiene saldi e movimenti aggregati di tutti i conti), che può usare per analisi di rischio generali. Però per ottenere i dettagli dei movimenti bancari di uno specifico conto deve avviare una “indagine finanziaria” formale, autorizzata dal Direttore regionale o da un suo delegato, nell’ambito di un procedimento di accertamento. In pratica deve esserci un motivo (ad esempio incongruenze rilevate, o selezione in base ad analisi, o segnalazioni) e viene emanato un provvedimento che viene inviato alle banche per ottenere gli estratti conto. Non può “spiare” senza criterio tutti i conti per curiosità – sarebbe una violazione dello statuto del contribuente e della privacy. Detto ciò, i poteri istruttori sono molto ampi una volta attivati: le banche hanno l’obbligo di fornire all’Amministrazione tutte le informazioni sui rapporti finanziari del contribuente oggetto di indagine (anche conti cointestati o deleghe su conti altrui) . Quindi, se ci sono sospetti concreti, il Fisco può ottenere e scrutinare ogni dettaglio dei movimenti.
D: Esiste una soglia sotto la quale i versamenti non vengono contestati?
R: Formalmente no, per i versamenti non c’è alcuna soglia di legge (diverso è per i prelievi delle imprese, che hanno la franchigia di 1.000 € giornalieri/5.000 € mensili ). Ciò significa che, in teoria, anche 500 € versati potrebbero essere contestati. In pratica però l’Amministrazione adotta criteri di economicità: piccole somme occasionali di solito non innescano accertamenti, sia perché non conviene allocare risorse per importi irrisori, sia perché a volte esistono tolleranze interne (ad es. non si contestano differenze sotto una certa percentuale del reddito dichiarato). Ad esempio, se uno studente versa 200 € del regalo della nonna, è altamente improbabile un accertamento. Viceversa, versamenti che nell’insieme superano di molto il reddito noto attireranno attenzione . Un’indicazione: se gli accrediti bancari annui superano il doppio/triplo del reddito dichiarato, il rischio di controllo cresce esponenzialmente. In sintesi, non c’è un “minimo non contestabile” sancito per legge, ma buon senso e soglie operative fanno sì che micro-versamenti non vengano usualmente perseguiti.
D: I prelievi in contanti dal mio conto personale possono essere considerati reddito?
R: No, se sei un privato o un lavoratore autonomo, i prelievi non giustificati di per sé non fanno scattare la presunzione di ricavo occulto . Questo dal 2014, in seguito alla sentenza costituzionale che ha escluso l’estensione ai professionisti e privati. Se invece sei un imprenditore (ditta individuale o società), sì: per te i prelievi ingiustificati oltre soglia vengono presunti utilizzati per acquisti in nero e quindi attraggono a tassazione ricavi equivalenti . Ma anche in tal caso, la soglia di tolleranza di 1.000 € al giorno / 5.000 al mese ti protegge per prelievi di piccolo taglio . Esempio: un commerciante che preleva 2.000 € al giorno per 10 giorni consecutivi senza giustificarli nelle scritture rischia grosso (quei 20.000 € potrebbero essergli contestati come ricavi non dichiarati); un avvocato che fa lo stesso formalmente non subisce la presunzione per legge, anche se rimane uno scenario che potrebbe destare curiosità del Fisco se poi quei soldi ricompaiono in qualche versamento.
D: Ho ricevuto un bonifico di 10.000 € da mio padre dall’estero. Devo dichiararlo nei redditi?
R: No, una donazione o liberalità da parte di un familiare non costituisce un reddito imponibile per chi la riceve, né c’è obbligo di dichiararla nei redditi IRPEF. Tuttavia, ci sono due aspetti da considerare: (1) Se il trasferimento viene dall’estero, andrebbe valutato l’obbligo di monitoraggio fiscale: se ad esempio tuo padre ti ha accreditato i soldi su un conto estero a te intestato, dovresti indicare quel conto e importo nel Quadro RW (investimenti/attività estere) salvo che il conto sia stato chiuso entro fine anno. Se invece te li ha bonificati su un tuo conto italiano, nulla da dichiarare in RW. (2) L’imposta sulle donazioni: tra padre e figlio c’è franchigia di 1 milione di euro, quindi 10.000 € sono esenti e non c’è bisogno di formalità (sopra certe cifre comunque è consigliato l’atto pubblico). Attenzione però: dal punto di vista dei controlli fiscali, 10.000 € ricevuti sul conto potrebbero – in assenza di indicazioni – far sorgere domanda al Fisco. È buona pratica poter dimostrare che trattasi di regalo del padre: conservare la disposizione di bonifico con causale “donazione” o farsi scrivere una dichiarazione dal papà. Così, in caso di verifica, esibirai prova che non è un tuo reddito occulto ma un aiuto familiare (e il Fisco dovrebbe accettarlo, perché non tassabile).
D: Se il Fisco mi contesta dei versamenti e io non riesco a provare nulla, cosa rischio esattamente?
R: In assenza di prova contraria, lo scenario è che gli importi versati vengano considerati redditi non dichiarati e tassati. Ciò comporta: tassazione integrale delle somme con le aliquote dovute per quell’anno (IRPEF o IRES a seconda dei casi, più eventuale IVA se il Fisco ritiene fossero corrispettivi di operazioni imponibili, ipotesi più rara e complessa) . Inoltre, vengono applicate sanzioni amministrative per infedele dichiarazione: ordinariamente dal 90% al 180% dell’imposta evasa (e se più annualità o importi alti, stanno più verso il 120-150%) . E si aggiungono gli interessi moratori (circa il 3-4% annuo a seconda dei periodi). Ad esempio, se ti contestano 50.000 € come ricavi 2021 non dichiarati, e su questi l’IRPEF dovuta sarebbe 15.000 €, le sanzioni potranno essere intorno a 13.500 € (90%) fino a 27.000 € (180%), diciamo realisticamente ~20.000 €, più interessi; totale da pagare ~35.000 € oltre al tributo originale. Inoltre, se l’importo evaso di imposta supera certe soglie, ci può essere un profilo penale: il reato di dichiarazione infedele scatta se l’imposta evasa supera 100.000 € e il reddito non dichiarato supera il 10% di quello dichiarato (con soglia minima 3 milioni di €); il reato di omessa dichiarazione se ometti del tutto di dichiarare imponibili per oltre 50.000 € d’imposta evasa. Nel caso di soli versamenti non dichiarati, il reato può configurarsi se veramente ingenti. Qualora scatti, la sanzione penale (reclusione) si aggiunge ma può essere evitata pagando tutto prima del dibattimento (causa estintiva per alcuni reati tributari con pagamento integrale). In ogni caso, il rischio principale è economico: l’accertamento si traduce in cartelle esattoriali, pignoramenti, ipoteche se non paghi. Il patrimonio personale è aggredibile per soddisfare il credito erariale. Quindi, non provare nulla significa dover pagare imposte + sanzioni salate su somme magari già spese.
D: Ignorare l’invito o il questionario iniziale è una buona strategia per prendere tempo?
R: No, al contrario! Ignorare un invito al contraddittorio è altamente sconsigliato. Non presenta vantaggi, perché l’Ufficio in assenza di risposta procederà comunque a emettere l’accertamento sulla base degli elementi a sua disposizione. Anzi, potresti precluderti la chance di chiarire qualche equivoco. Rispondere, anche se non hai tutte le prove subito, ti permette di mostrare collaborazione e magari ottenere una proroga. Se resti silente, il Fisco presume che non hai nulla da eccepire o che non possiedi giustificazioni. Inoltre, più avanti in giudizio, i giudici potrebbero guardare negativamente la tua mancata collaborazione preventiva (anche se non è formalmente una rinuncia ai diritti). Quindi: rispondi sempre. Se proprio hai bisogno di più tempo per raccogliere documenti, contatta l’Ufficio e chiedi una proroga motivata – spesso viene concessa. Prendere tempo può essere fatto legalmente presentando istanza di adesione una volta ricevuto l’avviso (così guadagni 90 giorni), non tacendo in prima battuta.
D: La Guardia di Finanza può venire a casa o in azienda per controllare queste cose?
R: Sì, se parliamo di verifiche fiscali sul campo, la Guardia di Finanza (o l’Agenzia stessa) può eseguire accessi, ispezioni e perquisizioni presso la sede del contribuente o altri luoghi, con le dovute autorizzazioni. Tuttavia, per contestare movimenti bancari di solito non c’è bisogno di un accesso fisico: si lavora sui documenti bancari. La GdF potrebbe intervenire nei casi più complessi, specialmente se correlati a reati (riciclaggio, frodi) o contesti di evasione internazionale (paradisi fiscali, esterovestizione). In tali situazioni, possono per esempio sequestrare documenti, computer, corrispondenza per trovare evidenze sull’origine dei fondi. Se la domanda è: possono bussare senza preavviso per controllare i conti?, la risposta è che normalmente prima hanno già i dati dagli istituti di credito; se vengono di persona è perché c’è un’attività di verifica più ampia in corso. In ogni caso, i poteri della GdF in verifica permettono di cercare qualsiasi documento contabile, scritture private, hard disk, anche nell’abitazione (con decreto magistrato se è un locale ad uso promiscuo) allo scopo di ricostruire basi imponibili nascoste.
D: Perché dovrei pagare un avvocato o un commercialista? Non posso difendermi da solo?
R: Dipende. Nel processo tributario, la difesa tecnica (avvocato, commercialista o esperto iscritto al relativo albo) non è obbligatoria per controversie di valore inferiore a €3.000 (importo del tributo al netto interessi e sanzioni). In quei piccoli casi uno potrebbe presentare ricorso personalmente. Ma per importi superiori, la legge impone il patrocinio di un abilitato. A parte l’obbligo formale, in una materia così complessa – soprattutto quando si tratta di contestare presunzioni legali e interpretare norme tributarie e sentenze – è altamente consigliabile farsi assistere da un professionista esperto in diritto tributario. Un avvocato tributarista o un commercialista con esperienza saprà quali argomentazioni giuridiche sollevare (anche di legittimità costituzionale o comunitaria se serve), come impostare la produzione documentale e come dialogare con l’ufficio. Inoltre conosce gli istituti deflattivi (adesione, conciliazione) e può ottenere risultati migliori (ad esempio negoziare una riduzione in adesione). Considera anche che emotivamente difendere se stessi può portare a errori (mancanza di obiettività, o al contrario arrendevolezza). Un professionista costa, ma spesso fa risparmiare importi ben maggiori ottenendo annullamenti o riduzioni dell’accertamento.
D: Ho sentito che è uscita una legge sulla “tregua fiscale” nel 2023: posso usarla per sanare questi versamenti non dichiarati?
R: La cosiddetta “tregua fiscale” introdotta con la Legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) ha previsto vari strumenti: il ravvedimento speciale, la definizione agevolata delle liti pendenti, lo stralcio mini-cartelle, ecc. Nel tuo caso (somme non dichiarate derivanti da versamenti bancari) si potevano percorrere due strade se ne avevi i requisiti temporali: 1. Ravvedimento operoso speciale per dichiarazioni 2021 (redditi 2020) e antecedenti, pagando imposta + sanzione ridotta 1/18 + interessi, entro il 31/03/2023. Ciò avrebbe permesso di dichiarare spontaneamente i redditi non inclusi allora. Se però il controllo era già partito (es. avevi ricevuto il questionario) non era più utilizzabile su quelle somme specifiche. 2. Definizione agevolata delle liti: se avevi già una causa pendente su un avviso per quei movimenti, potevi chiuderla pagando una percentuale se avevi vinto nei gradi precedenti (es. 90%, 40%, 15% o 5% a seconda dei casi) o solo imposte senza sanzioni se avevi perso. Ma questo presuppone che tu avessi già impugnato l’atto e fossi in giudizio all’1/1/2023.
Quindi, la tregua fiscale offriva opportunità, ma molto caso-specifiche. Al momento (settembre 2025) non vi sono nuovi condoni generalizzati, e non puoi aspettarti di evitare sanzioni future confidando in sanatorie. Se già ti è arrivato l’accertamento, devi usare gli strumenti ordinari (adesione, ricorso). Se non ti è ancora arrivato ma temi possa arrivare, puoi valutare un ravvedimento operoso ordinario (paghi sanzione 90% ridotta a 1/8 = 11,25% per omissione di redditi, se lo fai prima di notifica accertamento) per integrare le dichiarazioni passate: in pratica, presentare ora una dichiarazione integrativa per quell’anno includendo quei redditi e pagare il dovuto. Questo però è fattibile solo se l’Ufficio non ti ha già contestato formalmente nulla (se c’è già PVC della GdF o invito formale, il ravvedimento è precluso su quella materia).
D: Le criptovalute rientrano in questi controlli? Se ho convertito crypto in euro e li ho versati in banca, possono tassarmeli?
R: Sì, le criptovalute sono diventate un’area di attenzione sia per antiriciclaggio sia per il fisco. Dal punto di vista fiscale, la Legge di Bilancio 2023 (L.197/2022) ha introdotto una disciplina specifica per le cripto-attività definendole giuridicamente e prevedendo che le plusvalenze da crypto per persone fisiche siano tassate al 26% come redditi diversi . Fino al 2022 si applicava un criterio per analogia con le valute estere (tassabili solo se il controvalore superava 51.645 € per più di 7 giorni): ora questa regola è stata superata e dal 2023 ogni guadagno in cripto è imponibile al 26%, con una esenzione solo fino a €2.000 di plusvalenze annue (ma attenzione: la soglia di esenzione è stata abolita dal 2025, quindi i guadagni del 2025 in poi andranno tassati senza franchigia) . Quindi, se hai convertito Bitcoin in euro realizzando un profitto, quel profitto va dichiarato e tassato. Se invece hai semplicemente cambiato in euro senza guadagnarci (ad esempio hai comprato 1 BTC a 30k e rivenduto a 30k), non c’è plusvalenza. Ma dovrai poterlo dimostrare con documentazione di acquisto/vendita. Dal lato antiriciclaggio, gli exchange di criptovalute e gli operatori sono stati equiparati ai finanziari: devono segnalare operazioni sospette e la GdF ha reparti specializzati in analisi blockchain. Dunque, se hai portato un grosso importo da crypto al sistema bancario, la banca potrebbe averlo segnalato come anomalo (specie se l’origine non era chiara) . La Cassazione peraltro ha affermato che i pagamenti in criptovaluta non escludono gli obblighi fiscali: ad esempio se un’azienda fosse pagata in Bitcoin per eludere l’IVA, commette comunque reato; la cripto va valorizzata in euro e tassata . Quindi in un controllo, trovarsi accrediti da conversione crypto non giustificati può portare ad accertamento. Come difendersi: documentare tutto il ciclo: quantità di crypto possedute, date di acquisto e vendita, valore iniziale e finale. Se le plusvalenze sono di anni recenti (2023-24) e non le hai dichiarate, potresti rimediare col ravvedimento o con la speciale regolarizzazione cripto del 2023 (c’era la possibilità di dichiarare attività crypto possedute fino al 2021 pagando una sanzione ridotta del 3.5% del valore + 0.5% di sanzione RW) . Se ti contestano crypto non dichiarate, potrai invocare magari l’incertezza normativa (fino al 2022 effettivamente c’era confusione), ma dal 2023 la normativa è chiara. E se la provenienza è lecita (es. trading regolare) ma non dichiarata, la soluzione sarà regolarizzare e pagare le imposte dovute, magari cercando riduzioni di sanzioni in adesione.
D: Trasferire i soldi su conti esteri mi mette al sicuro dal Fisco italiano?
R: Assolutamente no. Era forse così decenni fa, ma oggi con lo scambio di informazioni CRS e accordi globali, i conti esteri vengono segnalati all’Italia automaticamente (salvo in pochissimi paesi non aderenti, tipo alcuni “paradisi” che però spesso sono rischiosi per altri motivi). Se un residente italiano sposta capitali su un conto svizzero o di San Marino, l’Agenzia italiana lo verrà a sapere nell’anno seguente . L’idea di portare all’estero per non far vedere è ormai sorpassata. Inoltre, come visto, se l’estero è un paradiso fiscale non collaborativo, si finisce dalla padella alla brace: scattano presunzioni durissime che ti costringono a provare che non hai evaso . Piuttosto, trasferire soldi all’estero senza dichiararli peggiora le cose. Diverso è il caso di chi trasferisce la residenza fiscale all’estero (espatrio): se lo fai legittimamente, iscrivendoti all’AIRE e vivendo davvero fuori, allora i redditi successivi non saranno tassati in Italia (salvo quelli di fonte italiana). Ma se rimani residente in Italia, i tuoi redditi ovunque prodotti sono imponibili qui. E sappi che trasferirsi in un paese black list comporta la presunzione inversa: sarai considerato comunque residente in Italia salvo prova contraria (vale per le persone fisiche iscritte all’AIRE in paesi a fiscalità privilegiata). Quindi, portare soldi fuori non li sottrae ai controlli – anzi, può accentuarli.
D: La contestazione di “esterovestizione” societaria cos’è e come incide?
R: L’esterovestizione è la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società che in realtà ha direzione/gestione in Italia . Se il Fisco contesta che una tua società estera è in realtà residente in Italia (perché amministrata di fatto dall’Italia), allora tutti i redditi di quella società verranno tassati in Italia come se la società fosse italiana . In più, l’esterovestizione è considerata un’evasione grave: l’Agenzia recupera IRES, IVA, IRAP evitate, con sanzioni fino al 240% , e può partire un procedimento penale per omessa dichiarazione dei redditi societari. Tipicamente viene contestata se la società estera è in un paradiso fiscale o comunque a bassa tassazione e gli amministratori/decision maker sono italiani operanti dall’Italia . Per esempio, la classica LTD UK o LLC Delaware amministrata via computer dall’Italia. Se ti contestano questo, devi difenderti mostrando che la società è realmente gestita all’estero: sedi, uffici, personale fuori, amministratori che operano lì, assemblee tenute all’estero, etc . È molto complessa come difesa, serve documentare la sostanza economica estera. Spesso l’Agenzia usa anche una presunzione legale (art. 73 co.5-bis TUIR): se una società estera è controllata da soggetti italiani e controlla a sua volta società italiane, ed ha board in maggioranza di italiani, si presume residente in Italia salvo prova contraria . Quindi attenzione a certi schemi. In sintesi: l’esterovestizione, se confermata, porta a far rientrare forzosamente quei capitali e redditi nell’imponibile italiano, con sanzioni e rischi penali. Dal punto di vista del debitore, vuol dire trovarsi magari con anni di redditi societari da pagare in Italia tutti insieme. Di fronte a un accertamento del genere, è indispensabile ricorrere subito con un legale specializzato, perché ci sono anche questioni di diritto UE (libertà di stabilimento) che vanno sollevate – in qualche caso la Cassazione ha dato ragione ai contribuenti quando il trasferimento all’estero era in un Paese UE e non meramente fittizio.
D: Quanto dura in tutto questo iter?
R: Purtroppo i tempi possono essere lunghi. Una verifica sui conti può avvenire anni dopo i fatti (hanno fino a 5 anni, o più se estero). Una volta notificato l’accertamento, se fai ricorso, tra primo e secondo grado passano facilmente dai 2 ai 5 anni. La Cassazione altri 2-3 anni. Quindi dal versamento contestato al giudizio finale potrebbero volerci anche 8-10 anni in casi complessi. Durante questo tempo, se non ottieni sospensioni, potresti dover pagare in parte (ad esempio 1/3 dopo il ricorso, e un altro 1/3 dopo l’appello). Se vinci, ti rimborseranno, ma intanto hai avuto esborso. C’è anche da dire che se fai adesione o transazioni, può chiudersi molto prima (in pochi mesi). Dunque la durata dipende anche dalla strategia difensiva scelta.
D: Se perdo in via definitiva devo pagare anche l’avvocato dello Stato?
R: Il giudice tributario può regolare le spese di lite. Spesso in primo grado, se il contribuente perde su tutta la linea, viene condannato a pagare le spese legali all’Agenzia (di solito qualche migliaio di euro, secondo parametri forensi). Se vince o se la soccombenza è reciproca, le spese vengono compensate (ognuno le proprie). In appello e Cassazione simile. Diciamo che non è automatico dover pagare le spese di controparte, ma succede. Quindi oltre al danno la beffa. Tuttavia, notiamo che nelle cause per accertamenti bancari, se il contribuente riesce a dimostrare almeno parzialmente le sue ragioni, spesso i giudici annullano parzialmente l’atto e compensano le spese (nessuno paga spese all’altro). Insomma, pagherai certamente i tuoi di professionisti, e possibilmente (ma non sicuramente) anche una parte delle spese dell’Agenzia se perdi del tutto.
D: Dopo aver pagato tutto, mi possono fare altri controlli per gli stessi movimenti?
R: In linea di massima no, ne bis in idem: una volta definito un accertamento su certe somme per un certo anno, quel capitolo è chiuso. L’Agenzia non può tassare due volte la stessa cosa. Attenzione però: potrebbero esserci riflessi su altri tributi. Ad esempio, se ti hanno tassato come ricavo un versamento e tu paghi, e quell’importo avrebbe dovuto avere anche IVA, te la potrebbero richiedere separatamente (di solito lo fanno nello stesso atto, ma ipoteticamente potrebbero emettere avviso IVA a parte). Oppure, se era un reddito di partecipazione, potrebbero rettificare il socio. Ma in generale, per lo stesso anno e soggetto, una volta accertato e pagato, finisce lì. Se hai definito in adesione, l’adesione preclude futuri accertamenti su quella materia. Se hai vinto in giudizio, il giudicato ti tutela per quelle somme (ma non impedisce che ti controllino altri aspetti). Quindi per stare tranquilli: rispondi all’accertamento e definiscilo, e conserva tutti gli atti; se mai (rarissimo) arrivasse un’altra contestazione analoga, potrai opporre che è già stata definita.
Conclusioni
Affrontare un accertamento fiscale basato su trasferimenti di denaro sospetti è un compito complesso, che richiede competenza tecnica, organizzazione delle prove e tempestività. Dal punto di vista del contribuente “debitore” chiamato a giustificare quelle somme, è essenziale comprendere che la legge gli impone un ruolo attivo: non basta negare, occorre dimostrare. La preparazione preventiva (documentare sempre origine e destinazione dei fondi) è la migliore difesa; ma se ormai l’accertamento è in corso, bisogna impiegare tutti gli strumenti a disposizione – dal contraddittorio iniziale fino alle vie giudiziarie – per far valere le proprie ragioni.
Questa guida ha illustrato normative e sentenze aggiornate a settembre 2025, evidenziando come la giurisprudenza più recente (Cassazione 2024-2025) tenda da un lato a confermare l’efficacia delle presunzioni del Fisco (facilitando l’onere probatorio dell’Ufficio) ma dall’altro afferma importanti paletti a tutela del contribuente: ad esempio la non applicabilità delle presunzioni ai professionisti per i prelievi , la necessità di indizi seri per contestare esterovestizioni anche con presunzioni , o il dovere di attivare il contraddittorio prima di certi accertamenti sintetici . Conoscere queste pronunce aiuta a impostare una difesa tecnica mirata, che magari non annullerà integralmente la pretesa, ma potrà ridurla in modo significativo (talora anche solo convincendo l’Ufficio a transigere con sanzioni ridotte).
In conclusione, la difesa del contribuente in materia di movimenti finanziari contestati deve poggiare su: approfondita conoscenza delle norme (anche antiriciclaggio e internazionali), accurata ricostruzione fattuale supportata da prove, e utilizzo accorto delle procedure (non trascurando soluzioni transattive quando opportune). Solo così si potrà affrontare con successo il complesso iter di un accertamento fiscale per trasferimenti di denaro sospetti, evitando di pagare più del dovuto e tutelando al meglio il proprio patrimonio e la propria attività.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati trasferimenti di denaro considerati sospetti? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati trasferimenti di denaro considerati sospetti?
Vuoi sapere cosa rischi e come difenderti in modo efficace?
👉 Prima regola: dimostra la provenienza lecita e tracciabile delle somme, distinguendo tra redditi imponibili, semplici movimenti patrimoniali o trasferimenti familiari.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Bonifici e versamenti bancari senza giustificazione apparente;
- Prelievi o rimesse di contante considerate ricavi occulti;
- Movimenti di denaro tra conti personali e conti aziendali;
- Accrediti da soggetti esteri non dichiarati;
- Trasferimenti familiari (es. donazioni, aiuti) non documentati.
📌 Conseguenze della contestazione
- Presunzione di reddito imponibile delle somme non giustificate;
- Recupero delle imposte e applicazione di sanzioni;
- Interessi di mora sulle somme accertate;
- Rischio di contestazioni penali per riciclaggio o autoriciclaggio in caso di importi elevati;
- Maggiori controlli fiscali e bancari negli anni successivi.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- La somma trasferita era un vero reddito o un semplice movimento patrimoniale?
- È possibile provare che si trattava di un prestito, una donazione o un rimborso?
- I trasferimenti esteri erano già tassati o soggetti a regole convenzionali?
- L’Agenzia delle Entrate si basa su prove concrete o solo su presunzioni?
- Sono stati rispettati i termini di decadenza dell’accertamento?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Estratti conto bancari con causali dei movimenti;
- Contratti di prestito o donazione registrati;
- Documentazione fiscale estera e convenzioni contro le doppie imposizioni;
- Atti notarili e scritture private;
- Prove di rimborsi spese o movimentazioni interne familiari.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la tracciabilità e la liceità delle somme contestate;
- Contestare la presunzione di reddito imponibile se non vi era incremento patrimoniale reale;
- Evidenziare che i trasferimenti derivavano da rapporti familiari, ereditari o patrimoniali;
- Richiedere annullamento in autotutela per contestazioni basate su errori;
- Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
- Difesa penale mirata in caso di contestazioni gravi (riciclaggio, evasione internazionale).
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza i movimenti bancari e la documentazione collegata;
📌 Valuta la legittimità della contestazione e individua i margini difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste nei giudizi fiscali e nei procedimenti penali;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura dei trasferimenti di denaro.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e diritto bancario;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su trasferimenti di denaro e accertamenti finanziari;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Gli accertamenti fiscali su trasferimenti di denaro sospetti non sempre sono fondati: spesso derivano da presunzioni, errori di interpretazione o mancanza di documentazione.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la provenienza lecita delle somme, evitare la riqualificazione come redditi occulti e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.
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