Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per bonifici in entrata non registrati in contabilità? In questi casi, l’Ufficio presume che le somme accreditate sul conto corrente costituiscano compensi o ricavi non dichiarati. La normativa fiscale, infatti, attribuisce valore presuntivo ai movimenti bancari: se non giustificati, vengono automaticamente considerati reddito imponibile. Le conseguenze possono essere molto pesanti: recupero delle imposte, applicazione di sanzioni e interessi, e nei casi più gravi anche contestazioni penali. Tuttavia, non sempre l’accertamento è fondato: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare la natura non imponibile delle somme.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta bonifici non registrati
– Se i bonifici ricevuti non trovano riscontro nelle fatture o nei registri contabili
– Se vi sono accrediti da privati o imprese senza causale giustificativa
– Se le somme risultano sproporzionate rispetto ai redditi dichiarati
– Se i dati bancari non coincidono con la dichiarazione dei redditi presentata
– Se l’Ufficio presume che i bonifici rappresentino compensi occultati o ricavi in nero
Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione delle somme accreditate come redditi non dichiarati
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Possibile rettifica delle dichiarazioni fiscali e inserimento in liste di controllo
– Nei casi più gravi, denuncia penale per dichiarazione infedele o omessa dichiarazione
Come difendersi dall’accertamento
– Dimostrare che i bonifici ricevuti non hanno natura reddituale (prestiti, rimborsi spese, trasferimenti familiari, restituzioni di somme)
– Produrre documentazione bancaria, scritture private, contratti e corrispondenza con i soggetti eroganti
– Contestare l’automatismo della presunzione fiscale se l’Agenzia non ha svolto accertamenti concreti
– Evidenziare errori di calcolo, difetti di motivazione o carenze istruttorie nell’avviso di accertamento
– Richiedere la riqualificazione delle somme contestate per ridurre sanzioni e interessi
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare i movimenti bancari oggetto di contestazione e la documentazione a supporto
– Verificare la legittimità della presunzione applicata dall’Agenzia delle Entrate
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi procedurali dell’accertamento
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio personale e aziendale da conseguenze fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– Il riconoscimento della natura non reddituale dei bonifici ricevuti
– La riduzione o cancellazione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: i bonifici in entrata sono tra gli elementi più utilizzati dal Fisco negli accertamenti bancari. Se non giustificati adeguatamente, vengono automaticamente considerati redditi imponibili. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso fiscale – spiega come difendersi in caso di accertamenti fiscali su bonifici in entrata non registrati in contabilità e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.
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Introduzione
Ricevere bonifici sul proprio conto bancario senza registrarli in contabilità può esporre imprenditori, professionisti e persino privati a contestazioni fiscali molto serie. L’Agenzia delle Entrate, tramite le cosiddette indagini finanziarie, è infatti autorizzata a controllare i movimenti bancari dei contribuenti e presumere che le somme in entrata non giustificate costituiscano ricavi o compensi “in nero” sottratti a tassazione . Ad esempio, un medico o un commerciante che incassa bonifici sul conto senza emettere fattura rischia che tali importi vengano considerati redditi non dichiarati. In queste situazioni il contribuente – dal punto di vista del “debitore” fiscale – deve sapere come difendersi: quali giustificazioni addurre, quali prove documentali presentare, quali sono i propri diritti nel contraddittorio e in eventuale giudizio.
Questa guida, aggiornata a settembre 2025, fornisce un’analisi approfondita e di livello avanzato, con linguaggio giuridico ma anche divulgativo, adatta sia ai professionisti del settore (avvocati tributaristi, commercialisti) sia ai privati cittadini e imprenditori coinvolti in accertamenti bancari. Verranno esaminati i riferimenti normativi italiani rilevanti, le presunzioni legali che il Fisco può utilizzare, e le strategie difensive più efficaci. Inoltre, includeremo tabelle riepilogative per fissare i concetti chiave, una sezione di domande e risposte frequenti, ed esempi pratici con simulazioni di casi reali (tutti riferiti all’ordinamento italiano). Dedicheremo attenzione anche ai profili specifici per le società, comprese le possibili conseguenze penali (come il reato di omessa dichiarazione o di autoriciclaggio in caso di proventi illeciti reimmessi nei circuiti finanziari). L’obiettivo è mettere il contribuente (il “debitore” dell’obbligazione tributaria) nelle condizioni di capire perché il Fisco effettua certe presunzioni e, soprattutto, come controbatterle in modo documentato e convincente.
Prima di addentrarci nelle strategie difensive, è fondamentale comprendere il quadro normativo di riferimento e le presunzioni operative in materia di accertamenti sui conti correnti.
Riferimenti normativi e presunzioni sui movimenti bancari
Il potere di indagine finanziaria dell’Amministrazione fiscale sui conti bancari discende principalmente da due norme cardine:
- Art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. 600/1973 (in materia di imposte sui redditi): consente agli uffici fiscali, previa autorizzazione, di richiedere a banche, Poste Italiane e altri intermediari finanziari l’elenco dei rapporti e l’estratto dei movimenti bancari intestati o cointestati al contribuente . Sulla base di questi dati, la legge stabilisce una presunzione legale relativa a carico del contribuente: tutte le somme risultanti da versamenti (accrediti) sui conti correnti, se il contribuente non ne indica il beneficiario e non prova che sono somme già tassate o non imponibili, sono considerate ricavi o compensi non dichiarati . In parallelo, i prelevamenti non giustificati (cioè le uscite di denaro dal conto di cui non si dimostra la destinazione) si presumono impiegati in acquisti o spese “in nero” relativi a ricavi non dichiarati . In altre parole, per legge: versamenti e prelievi bancari non giustificati = maggiori redditi imponibili, salvo prova contraria del contribuente. Questa presunzione, introdotta nel 1973, è uno strumento potente nelle mani del Fisco per ricostruire redditi occulti attraverso l’analisi dei flussi finanziari.
- Art. 51, comma 2, n. 2, D.P.R. 633/1972 (in materia di IVA): norma analoga che permette all’amministrazione di utilizzare le risultanze dei conti bancari ai fini dell’accertamento dell’IVA dovuta . Anche qui vige la presunzione che operazioni finanziarie non contabilizzate corrispondano a operazioni imponibili non dichiarate (ad esempio, vendite non fatturate o acquisti non registrati), con onere al contribuente di provarne l’estraneità al campo IVA . In pratica, se un’azienda riceve accrediti sul conto non accompagnati da fatture attive, l’Ufficio presume vendite non fatturate; se risultano esborsi non tracciati da fatture passive, presume acquisti in nero e relativa evasione IVA, a meno che l’azienda non dimostri il contrario.
Evoluzione normativa: negli anni le presunzioni sulle movimentazioni bancarie sono state oggetto di modifiche legislative e interventi della Corte Costituzionale, volte a calibrarne l’ambito soggettivo e oggettivo:
- La Legge 311/2004 (Finanziaria 2005) ha inasprito il regime delle indagini finanziarie. Da un lato, ha esteso espressamente la presunzione di cui sopra anche ai lavoratori autonomi (professionisti) – prima di allora vi era incertezza applicativa sul punto . Dall’altro, ha eliminato il previgente requisito dei “gravi indizi” per avviare l’indagine: la presunzione da quel momento è divenuta una presunzione legale (iuris tantum) che scatta ipso facto al verificarsi del fatto (movimento bancario non giustificato), senza bisogno di ulteriori riscontri indiziari . Come chiarito dalla Cassazione, la legge finanziaria 2005 ha trasformato quella che era una presunzione semplice in una presunzione legale relativa, rafforzando la posizione del Fisco . Ciò ha significato che ogni movimento bancario anomalo poteva di per sé fondare un accertamento, rendendo più gravoso per il contribuente l’onere di difesa.
- Sentenza Corte Costituzionale n. 228/2014: una svolta importante è arrivata con questa decisione, che ha dichiarato incostituzionale la presunzione di reddito per i prelievi bancari applicata ai lavoratori autonomi . La Consulta ha ritenuto irragionevole trattare i professionisti come le imprese: un lavoratore autonomo non ha infatti l’obbligo di registrare analiticamente gli acquisti di beni o materie prime comparabile a quello di un imprenditore, né gestisce un processo produttivo da cui si possa presumere che un prelievo di denaro alimenti necessariamente vendite in nero . Inoltre, per i professionisti e in generale i contribuenti “privati”, la commistione tra sfera personale e attività è spesso inestricabile – un prelievo può servire a spese familiari o personali che nulla hanno a che fare con la produzione di reddito. Pertanto la Corte ha cancellato la presunzione sui prelievi per i lavoratori autonomi, mentre ha lasciato intatta quella sui versamenti anche per costoro . Da ottobre 2014 in poi, dunque, l’art. 32 DPR 600/73 va letto nel senso che solo per gli imprenditori (società o ditte individuali) i prelievi non giustificati possono essere presunti ricavi occulti, mentre per i professionisti no – restando per tutti la presunzione sui versamenti.
- D.L. 193/2016, art. 7-quater (conv. in L. 225/2016): il legislatore ha recepito l’indicazione della Corte Costituzionale 2014 e ha ulteriormente modulato le presunzioni introducendo soglie quantitative di tolleranza. Oggi l’art. 32, comma 1, n. 2 DPR 600/73 (come modificato nel 2016) prevede che la presunzione scatti solo per i titolari di reddito d’impresa e solo per movimenti di importo superiore a €1.000 giornalieri e €5.000 mensili . In pratica, nell’ambito dei controlli bancari sull’imprenditore:
- Nessuna presunzione automatica per versamenti o prelievi di importo modesto. Se i movimenti contestati non superano singolarmente €1.000 in un giorno, e cumulativamente €5.000 nello stesso mese, l’ufficio non può applicare la presunzione legale di ricavo occulto. Questa è una sorta di “franchigia” pensata per evitare di inseguire piccole somme o transazioni di routine.
- Presunzione attiva oltre soglia: se invece anche un solo versamento (o prelievo) supera €1.000, oppure il totale mensile degli accrediti (o addebiti) supera €5.000, allora quelle movimentazioni finanziarie possono essere imputate a ricavi non dichiarati, salvo prova contraria del contribuente . Le soglie operano distintamente per ciascun tipo di flusso e periodo: ad esempio, versare €900 al giorno in contanti (per un totale di €27.000 al mese) in teoria non farebbe scattare la presunzione perché i singoli versamenti e il totale mensile sono sotto soglia – attenzione però a non frammentare artificiosamente importi maggiori, perché il Fisco potrebbe comunque insospettirsi e considerare l’aggiramento un indizio (pur senza presunzione “automatica”) .
Le soglie 1000/5000 valgono sia per i versamenti che per i prelievi non giustificati , ma – come detto – soltanto per chi esercita attività d’impresa. Restano esclusi in ogni caso i professionisti: per questi ultimi, dopo il 2014, i prelievi ingiustificati non sono mai presunti compensi, indipendentemente dall’importo, mentre i versamenti ingiustificati continuano a essere considerati compensi evasi anche oltre soglia .
Possiamo sintetizzare il regime attuale delle presunzioni sui movimenti bancari con la seguente tabella:
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Tipo di contribuente | Versamenti non giustificati | Prelievi non giustificati | Soglie di importo |
---|---|---|---|
Impresa (società o ditta individuale) | Presunzione legale: considerati ricavi occulti, salvo prova contraria . L’impresa dovrebbe contabilizzare ogni entrata: se sul conto aziendale affluisce denaro non registrato nei ricavi, l’AdE lo imputa a vendite o proventi in nero. | Presunzione legale: considerati acquisti in nero (costi occulti) che hanno generato ricavi non dichiarati . In altri termini si presume che il denaro prelevato sia servito per pagare merci o servizi non registrati poi rivenduti “fuori contabilità”. (Questa presunzione vale solo per imprenditori, inclusi piccoli in contabilità semplificata ). | Sì: Operano solo se > €1.000 giornalieri o > €5.000 mensili . Movimenti sotto soglia non attivano la presunzione legale. |
Lavoratore autonomo (professionista) | Presunzione legale: considerati compensi occulti, salvo prova contraria (un bonifico sul conto del professionista senza fattura è visto come compenso in nero) . Deve quindi giustificare ogni entrata extra-attività (es. “restituzione cauzione affitto studio”, “somma trasferita da conto personale”) con documenti. | Non applicabile: dopo Corte Cost. 228/2014, nessuna presunzione sui prelievi dei professionisti . Possono prelevare contanti per usi personali senza che ciò venga imputato a ricavi. (Resta però il dovere di coerenza: se un professionista preleva somme ingenti e non ha redditi dichiarati a sufficienza per giustificarne l’uso personale, il Fisco potrebbe approfondire con altri strumenti, es. redditometro). | N/D: (Le soglie 1000/5000€ non si applicano ai lavoratori autonomi poiché per loro la presunzione sui prelievi è esclusa e quella sui versamenti vale a prescindere dall’importo). |
Privato (persona fisica senza reddito d’impresa o di lavoro autonomo) | Presunzione “sintetica”: formalmente l’art. 32 si rivolge ai redditi d’impresa/professione , ma versamenti anomali sul conto di un privato possono comunque essere considerati redditi imponibili non dichiarati, tipicamente “redditi diversi” ex art. 67 TUIR (es. proventi occasionali o redditi esteri non dichiarati) . In pratica, se un disoccupato o casalinga riceve bonifici e non risultano stipendi, vendita di beni o altre cause note, l’AdE li tratterà come redditi non dichiarati, salvo prova contraria. | Nessuna presunzione diretta ex lege (non avrebbe senso parlare di “acquisti in nero” per chi non ha attività). Tuttavia, attenzione alle spese: se un privato spende molto contante prelevato o ha uscite rilevanti non compatibili col suo reddito ufficiale, il Fisco può attivare un accertamento sintetico (redditometro) basato sul fatto che il suo tenore di vita è superiore al dichiarato . | N/D: (Le soglie 1000/5000 € non si applicano espressamente, ma per i privati valgono i limiti previsti per l’accertamento sintetico). |
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Nota: Per “privati” intendiamo qui contribuenti con soli redditi da lavoro dipendente, pensione o nessuna attività economica ufficiale. Su di essi l’art. 32 DPR 600/73 non opera direttamente in quanto parla di ricavi “conseguiti nell’esercizio di imprese, arti o professioni”. Tuttavia, come detto, versamenti non spiegati su conti di privati possono ugualmente essere attratti a tassazione IRPEF come redditi non dichiarati (ad esempio, una donazione non documentata, compensi da lavoro occasionale in nero, vincite non dichiarate se imponibili, ecc.). Per i prelievi dei privati, non essendoci un’attività d’impresa da alimentare, la chiave di lettura si sposta sul lato delle spese patrimoniali: se un soggetto effettua consistenti esborsi di denaro (es. acquisti di beni di lusso, investimenti immobiliari, viaggi costosi) non spiegabili coi redditi dichiarati, l’Ufficio potrà sintetizzare un maggior reddito complessivo presumendo che quei soldi spesi provenissero da redditi in nero. Questa metodologia rientra nel cosiddetto accertamento sintetico disciplinato dall’art. 38 del DPR 600/1973 (il “redditometro”).
Accertamento sintetico (redditometro): è uno strumento distinto dall’accertamento bancario, che però spesso si intreccia con esso nelle indagini sui privati. L’art. 38, commi 4-7, DPR 600/1973 consente all’Agenzia delle Entrate di determinare induttivamente il reddito complessivo di una persona fisica basandosi sulle spese sostenute e sul possesso di determinati beni indice (auto, immobili, investimenti, ecc.). In pratica, se il tenore di vita del contribuente appare non compatibile col reddito dichiarato, il Fisco può ricostruire un reddito presunto più elevato e pretendere le relative imposte (salvo prova contraria) . Ad esempio, se un contribuente dichiara €20.000 annui ma acquista una villa, un’auto sportiva e fa costosi viaggi, scatta il sospetto di capacità contributiva non dichiarata. L’accertamento sintetico oggi può scattare solo al verificarsi di due condizioni (entrambe introdotte per temperare lo strumento e colpire solo evasioni significative):
- Scostamento del 20%: il reddito accertato sinteticamente deve eccedere di almeno il 20% quello dichiarato per lo stesso periodo . Questa soglia relativa esiste da tempo per evitare contestazioni su differenze esigue.
- Soglia minima assoluta: dal 2024 è stato previsto che il reddito sintetico ottenuto deve superare un certo valore assoluto, pari a 10 volte l’ammontare annuo dell’assegno sociale . Per il periodo d’imposta 2024 questo limite è di circa €69.700 (dato che l’assegno sociale annuo è intorno a €6.970) . In sostanza, il redditometro oggi viene applicato solo se l’evasione ipotizzata è ben oltre una soglia di rilevanza: ad esempio, se un contribuente dichiara €30.000 e dalle sue spese si ricava che potrebbe averne guadagnati €40.000, lo scostamento (33%) è sopra il 20% ma l’importo (€40.000) è sotto €69.700, quindi non si procede; viceversa, se dichiara €50.000 ma ne spende per uno stile di vita da €85.000 (scostamento del 70% e importo sopra soglia), l’accertamento sintetico è possibile .
Anche nel redditometro il contribuente ha pieno diritto alla prova contraria: può dimostrare che le spese in più sono state finanziate con redditi esenti o già tassati (per esempio utilizzando risparmi accumulati in anni precedenti, donazioni o aiuti familiari non imponibili, indennità esenti, disinvestimenti di patrimoni già tassati, liquidazione TFR, vincite tassate alla fonte, ecc.) . Se riesce a provare che il maggior tenore di vita non deriva da reddito non dichiarato, l’accertamento sintetico dev’essere annullato. Inoltre, la legge (art. 38 co.7) prevede un contraddittorio obbligatorio preventivo per il redditometro: prima di emettere l’avviso di accertamento l’Ufficio deve invitare il contribuente a fornire spiegazioni e giustificativi sulle spese anomale, pena la nullità dell’atto . La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, già dal 2009, ha sancito la nullità dell’accertamento sintetico emesso senza previo contraddittorio, proprio in virtù della necessità di valutare la posizione personale del contribuente caso per caso (Cass. SU n. 26617/2009).
In sintesi, l’ordinamento tributario mette a disposizione del Fisco due grandi strumenti per intercettare redditi occulti:
- Accertamento finanziario “analitico-induttivo” (art. 32 DPR 600/73): focalizzato sulle entrate e uscite sui conti, con presunzioni specifiche (versamenti = ricavi, prelievi = acquisti in nero) volte a scovare ricavi non dichiarati soprattutto in ambito d’impresa .
- Accertamento sintetico (redditometro, art. 38 DPR 600/73): focalizzato sulle spese e sul patrimonio, per determinare un maggior reddito complessivo della persona fisica indipendentemente dalla fonte specifica .
Entrambi gli strumenti operano mediante presunzioni legali relative (iuris tantum) che comportano un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. Approfondiamo questo aspetto, cruciale per capire come difendersi.
Inversione dell’onere della prova e natura delle presunzioni fiscali
Diversamente dal processo penale, dove vige la presunzione di innocenza e l’onere della prova è a carico dell’accusa, nel diritto tributario l’Amministrazione finanziaria può avvalersi di presunzioni legali (relative) che semplificano la prova del reddito evaso. Una presunzione legale relativa (o iuris tantum) significa che la legge collega a un fatto noto (ad esempio un bonifico sul conto non giustificato) il sorgere di una conseguenza giuridica (tassazione di un ricavo occulto), lasciando però al contribuente la possibilità di dimostrare il contrario. In concreto, nel caso degli accertamenti bancari:
- Fatto-base richiesto al Fisco: l’Agenzia delle Entrate deve in primo luogo provare l’esistenza di movimenti finanziari non giustificati. Cioè, deve dimostrare (anche solo tramite gli estratti conto) che vi sono stati versamenti sul conto del contribuente che non trovano corrispondenza nelle scritture contabili o nelle fonti di reddito note, oppure prelievi di cui il contribuente non ha indicato la destinazione . Questo è di solito agevole, in quanto la documentazione bancaria costituisce prova dei movimenti e può essere acquisita dall’Ufficio senza necessità di informare preventivamente l’interessato .
- Scatto della presunzione legale: una volta provato il fatto-base (il movimento “anomalo”), la legge presume che vi sia un maggior reddito imponibile corrispondente a quella somma . In altre parole, l’Ufficio non deve dimostrare oltre (ad esempio non deve individuare esattamente da quale vendita o affare provenga quel denaro): per legge si suppone sia frutto di evasione fiscale, senza ulteriori indugi.
- Onere della prova sul contribuente: a questo punto sta al contribuente l’onere di fornire una prova contraria convincente per vincere la presunzione e dimostrare che quelle somme non costituiscono materia imponibile sottratta a tassazione . In pratica, dovrà provare – con documenti e argomentazioni solide – che ogni bonifico o versamento contestato ha una spiegazione lecita e fiscalmente irrilevante (o già tassata), oppure che ogni prelievo non è servito a produrre ricavi in nero.
Questa inversione dell’onere probatorio è legittima e avvalorata dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto si tratta di presunzioni relative e non assolute. La Corte Costituzionale stessa ha più volte affermato che tali meccanismi non violano di per sé il principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), a patto che al contribuente sia garantito il diritto di difesa e controprova. Ad esempio, la sentenza n. 10/2023 della Consulta – nel confermare la validità della presunzione sui prelievi per gli imprenditori – ha sottolineato che essa “lascia salvo il diritto del contribuente di fornire la prova contraria, anche mediante presunzioni semplici, inclusa la prova di componenti negativi (costi) correlati”, interpretando la norma in modo costituzionalmente orientato . In sostanza, la presunzione fiscale non deve diventare un automatismo irrebuttable: il contribuente deve avere la concreta possibilità di dimostrare la realtà effettiva dietro quei movimenti bancari.
È quindi essenziale, per chi subisce un accertamento basato sui conti correnti, comprendere che si trova di fronte a un ribaltamento della normale dinamica probatoria: il Fisco parte avvantaggiato (basta che mostri il bonifico sospetto), mentre il contribuente deve attivarsi per produrre elementi probatori specifici a suo discarico. Nei paragrafi successivi vedremo come fornire questa prova contraria in maniera efficace.
Differenze in base alla tipologia di contribuente
Le presunzioni bancarie e le strategie difensive assumono sfumature diverse a seconda che il contribuente sia un’impresa (società o ditta individuale), un lavoratore autonomo (professionista) oppure un privato cittadino senza attività economica. Vediamo le peculiarità di ciascuna categoria.
Imprese e titolari di reddito d’impresa (società e ditte individuali)
Chi rientra in questa categoria: tutte le forme societarie (società di capitali e di persone) e le imprese individuali (commercianti, artigiani, imprenditori agricoli, ecc.), nonché gli enti non societari che esercitano comunque attività di impresa commerciale. Includiamo sia chi tiene la contabilità ordinaria sia chi è in contabilità semplificata (piccole imprese sotto le soglie di ricavi previste per il regime semplificato) .
Applicazione delle presunzioni: per le imprese le regole di legge si applicano pienamente:
- I versamenti ingiustificati sul conto aziendale sono sempre considerati ricavi occulti non dichiarati . È pacifico, infatti, che un’impresa dovrebbe contabilizzare tutte le proprie entrate nelle registrazioni ufficiali. Se l’azienda ha ricevuto dei bonifici o versamenti sul conto e questi importi non risultano tra i ricavi in contabilità, l’Agenzia delle Entrate presume che si tratti di vendite non fatturate o altri proventi non dichiarati. Questa presunzione è ben consolidata in giurisprudenza. Ad esempio, la Cassazione ha più volte ribadito che ogni accredito bancario non registrato nelle scritture può validamente essere imputato a ricavo salvo prova contraria analitica del contribuente .
- I prelievi ingiustificati dal conto aziendale (specie se in contanti) sono considerati indizi di acquisti “in nero” o altri costi occulti effettuati dall’impresa, finalizzati a produrre ricavi non dichiarati . In altri termini, si ipotizza che se un’azienda preleva ingenti somme di denaro senza giustificazione, quelle somme siano state utilizzate per pagare fornitori o dipendenti irregolari, oppure per acquistare beni destinati a vendite non contabilizzate. La conseguenza pratica è che l’Ufficio tende ad aggiungere a tassazione non tanto il prelievo in sé come voce negativa, quanto un ricavo presunto di pari importo: si immagina cioè che a tot soldi usciti corrispondano tot vendite occulte finanziate da quelle uscite . Questa equiparazione 1 euro prelevato = 1 euro di ricavo nascosto è stata criticata da dottrina e giurisprudenza perché semplicistica (normalmente un euro di costo genera più di un euro di ricavo, o può anche non generare alcun ricavo se speso male). Proprio per questo negli ultimi anni la Cassazione ha corretto il tiro, riconoscendo che vanno dedotti forfettariamente i costi correlati ai ricavi presunti da prelievi, se il contribuente lo richiede (torneremo su ciò a breve parlando delle sentenze recenti) .
- Contabilità ordinaria vs semplificata: un aspetto peculiare riguarda le piccole imprese in contabilità semplificata. In tali casi spesso non c’è una netta separazione tra conto aziendale e conto personale dell’imprenditore individuale: può capitare che l’artigiano o il negoziante utilizzi lo stesso conto corrente sia per incassare dai clienti sia per pagare spese familiari . Questa promiscuità ha portato qualcuno a paragonare i piccoli imprenditori ai professionisti quanto a (im)possibilità di tracciare tutti i movimenti, e infatti una Commissione Tributaria provinciale (Arezzo) sollevò la questione di costituzionalità chiedendo di escludere la presunzione sui prelievi almeno per chi è in contabilità semplificata. La Corte Costituzionale n. 10/2023 ha però respinto questa estensione: ha ribadito che, sebbene la contabilità semplificata sia meno dettagliata, l’attività d’impresa ha pur sempre l’obbligo di registrare i ricavi e una sua autonomia patrimoniale, dunque anche il piccolo imprenditore deve essere in grado di giustificare i prelievi . In compenso, la Corte ha richiamato l’attenzione sul fatto che ora esistono le soglie 1000/5000€ che attenuano l’impatto sui piccoli movimenti. Dunque, in definitiva, anche le imprese minori rispondono delle presunzioni su versamenti e prelievi, ma godono della franchigia sulle somme modeste.
Difese e onere della prova per le imprese: un’impresa che riceve una contestazione su bonifici in entrata non registrati (o su prelievi anomali) dovrà attivarsi per fornire spiegazioni e documenti. Le linee difensive tipiche includono:
- Riconciliare con ricavi dichiarati: prima di tutto, verificare se per caso quelle somme contestate erano state fatturate o dichiarate ma magari non correttamente abbinate. Ad esempio, può capitare che un cliente paghi con bonifico e l’importo sia stato effettivamente incluso nei ricavi ma per un errore formale non risulti nella contabilità bancaria (es: fattura registrata ma incasso registrato su un altro conto, oppure versamento tardivo). Presentando le fatture corrispondenti o altri documenti che dimostrino che il versamento riguarda un affare già tassato, il contribuente fa cadere la presunzione . È buona prassi, in sede di contraddittorio, fornire un prospetto che elenchi tutti gli accrediti noti e già contabilizzati, in modo da isolare solo quelli realmente “misteriosi” .
- Giustificare la natura extra-contabile delle entrate: se i versamenti derivano da operazioni estranee all’attività d’impresa, occorre provarlo. Esempi: un finanziamento soci o un apporto di capitale da parte dell’imprenditore stesso; la vendita di un bene personale con accredito sul conto aziendale; un rimborso ricevuto. In questi casi bisogna produrre evidenze specifiche. Ad esempio, se un socio ha versato €20.000 sul conto della società, si esibirà la delibera o il contratto di finanziamento soci (prestito infruttifero) oppure l’atto di aumento di capitale che giustifica l’apporto . Se l’imprenditore individuale versa denaro proprio nel conto dell’attività, dovrà mostrare da dove provenivano quei fondi personali (ad esempio un prelievo da un suo conto privato, documentato dall’estratto conto) per corroborare che non si tratta di ricavi da terzi ma di movimentazione interna . Un altro caso: un accredito potrebbe essere la dismissione di un bene aziendale (es. vendita di un macchinario usato) non soggetta a ricavi, ma in tal caso dovrebbe comunque risultare da documenti di cessione.
- Documentare l’uso aziendale dei prelievi: sul fronte dei prelievi dal conto aziendale, la difesa migliore è dimostrare che quei contanti sono stati effettivamente impiegati per pagare spese aziendali documentate. Ad esempio, se l’imprenditore ha prelevato €5.000 e li ha usati per pagare fornitori o spese minute registrate solo con scontrini/ricevute, può opporre tali giustificativi . In tal caso l’esborso in contanti aveva una causale lecita già considerata nel reddito d’impresa (magari perché i costi erano stati dedotti a bilancio): dunque non avrebbe senso presumerlo come ricavo. Questa linea però va usata con attenzione: se il costo pagato in contanti era già dedotto in contabilità, allora il ricavo occulto ipotizzato dall’ufficio viene neutralizzato (perché c’era un costo vero a fronte); se invece il costo non era stato dedotto formalmente (magari perché il pagamento è avvenuto senza fattura), si apre un’altra questione – l’Ufficio potrebbe dire che proprio quell’esborso non registrato è la spesa in nero che cercavano. In tal caso comunque il contribuente potrà chiedere almeno il riconoscimento postumo di quel costo ai fini fiscali, per ridurre l’imponibile recuperato: la giurisprudenza odierna ammette infatti che, nell’ambito di un accertamento induttivo basato su prelievi, vadano riconosciuti d’ufficio i costi correlati (anche forfettariamente) . Ad esempio, se contestano €10.000 di prelievi come ricavi nascosti, il contribuente (in mancanza d’altri argomenti) può eccepire: “anche volendo ammettere che fossero acquisti in nero poi rivenduti, un margine di utile va considerato; quindi tassare l’intero importo viola il principio di tassazione del reddito netto”. La Cassazione, con ordinanza n. 10013/2025, ha sposato questa tesi: il giudice deve sempre stimare e detrarre una percentuale di costi connessi ai ricavi ricostruiti tramite indagini finanziarie, se ciò è eccepito, ad esempio utilizzando le percentuali medie di ricarico del settore . Questo orientamento tutela il contribuente da sovra-tassazioni illogiche.
- Argomentare la non inerenza all’attività: talvolta un prelievo bancario potrebbe essere rivendicato come estraneo all’attività d’impresa. Ad esempio, il titolare ha prelevato dal conto aziendale per esigenze personali o familiari. Fiscalmente, però, ciò può configurare una distrazione di fondi: se un imprenditore preleva utili per sé, normalmente dovrebbe risultare come distribuzione di utili (già tassati). Se invece preleva denaro dell’azienda prima che questo sia stato dichiarato come utile, l’Ufficio sospetta che quell’importo sia frutto di vendite non dichiarate (per generare liquidità prelevabile) . La difesa in questi casi è complessa: si potrebbe sostenere “ho prelevato in anticipo utili che contavo di realizzare nell’anno”, ma se poi l’utile non risulta, l’argomento cade. In pratica, l’imprenditore può cercare di dimostrare che aveva capitale proprio o riserve disponibili (già tassate in anni precedenti) e che il prelievo rappresenta l’utilizzo di quelle risorse pregresse, non di ricavi nuovi. Questo va provato mostrando il patrimonio netto dell’azienda, eventuali riserve di utili degli anni passati non distribuiti, ecc. . È una linea difensiva sottile e va maneggiata con cautela.
- Controllare gli errori formali: spesso gli accertamenti bancari scaturiscono da errori o sfasature contabili più che da reali intenti evasivi. Ad esempio, possono essere contestati come “non dichiarati” movimenti che in realtà erano passaggi interni (giroconti) o scritture di assestamento non correttamente riportate. Esaminare a fondo le contestazioni può far emergere casi in cui l’Ufficio ha conteggiato due volte la stessa somma (magari transitata su conti diversi) o non ha considerato che un versamento era la semplice reintroduzione di denaro circolante (es. l’imprenditore aveva prelevato contanti dalla cassa e poi li ha riversati sul conto, operazione neutra). In tali frangenti, evidenziare la natura di partita di giro del movimento contestato porterà all’annullamento della ripresa fiscale. Ad esempio, se sul conto aziendale appare un bonifico di €10.000 proveniente da un altro conto della stessa azienda, chiarire che si tratta solo di un trasferimento intra-societario (o tra conto corrente e conto deposito intestati alla medesima ditta) farà cadere la presunzione di ricavo, perché manca la provenienza da terzi.
In generale, per le imprese la chiave è ricostruire in modo chiaro e tracciabile tutti i flussi finanziari contestati, integrando le scritture contabili ove lacunose e fornendo apposite dichiarazioni e documentazione. L’obiettivo è convincere l’Ufficio (o, eventualmente, i giudici tributari) che quei movimenti bancari non dichiarati non corrispondono affatto a “ricavi in nero”, bensì a partite già imponibili o extrafiscali.
Lavoratori autonomi e professionisti
Chi rientra qui: soggetti che producono reddito di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 53 TUIR, quindi i professionisti intellettuali (avvocati, commercialisti, medici, ingegneri, artisti, consulenti, ecc.), i titolari di studi professionali o collaboratori in forma autonoma. Sono esclusi da questa categoria gli imprenditori anche individuali (già visti sopra) e i semplici privati senza attività.
Dopo le modifiche normative e le pronunce costituzionali, per i professionisti lo scenario è più favorevole rispetto alle imprese:
- Versamenti non giustificati: restano soggetti a presunzione di compensi non dichiarati. Se un avvocato o un medico riceve bonifici sul proprio conto che non risultano da fatture o ricevute fiscali, l’AdE li contesterà come parcelle occultate. Il professionista dovrà dimostrare per ciascun accredito anomalo la sua natura estranea al reddito di lavoro autonomo (ad esempio: “€5.000 accreditati il 10 marzo sono un aiuto di mio padre – ecco la dichiarazione e il bonifico dal suo conto”; “€2.000 accreditati a giugno sono la cauzione restituita per l’affitto dello studio – ecco il contratto e la ricevuta di restituzione”) . Ogni entrata extra-professione va spiegata e, preferibilmente, provata documentalmente. Molti professionisti commettono leggerezze mescolando sullo stesso conto pagamenti dei clienti e somme private: ad esempio, assegni regalo di parenti versati insieme ai bonifici dei clienti . Ciò complica le cose in caso di controllo, perché l’onere di separare il “business” dal “privato” in retrospettiva è gravoso. È dunque consigliabile (lo anticipiamo) tenere conti separati, ma se così non fosse, in sede difensiva il professionista dovrà predisporre un prospetto che separi i flussi: elenco di tutti i pagamenti da clienti (fatture emesse) e distinto elenco delle altre entrate (regali, rimborsi, trasferimenti intra-familiari), fornendo prove per queste ultime . La giurisprudenza recente è abbastanza sensibile al caso dei professionisti proprio per la promiscuità tipica: ad esempio, è stato riconosciuto che bonifici da familiari non sono automaticamente reddito se il contribuente prova la loro natura di aiuto o finanziamento privo di controprestazione .
- Prelievi non giustificati: non sono più presunti compensi. Come spiegato, dal 2014 in poi un ingegnere, un architetto, un commercialista ecc. non deve temere di vedersi tassare i prelievi dal proprio conto personale come se fossero incassi non dichiarati. Quindi, se l’accertamento verte unicamente su prelievi, il professionista può eccepire già in sede amministrativa che la contestazione è infondata in radice, richiamando la Corte Cost. 228/2014 e le sentenze di Cassazione conformi (es. Cass. nn. 12779 e 12781/2016 che hanno annullato avvisi basati su prelievi di professionisti) . In un ipotetico ricorso, tale eccezione porterebbe all’annullamento immediato della ripresa fiscale relativa ai prelievi. Tuttavia, consigliamo comunque di fornire spiegazioni anche per i prelievi se richieste: ad esempio dichiarando che “quei contanti prelevati sono stati usati per esigenze personali, non per l’attività” e magari esibendo qualche ricevuta o riscontro (es. fatture mediche pagate in contanti, spese familiari) . Ciò per evitare che l’Ufficio, insospettito, allarghi le indagini o provi a contestare altro (ad esempio, potrebbe insinuare che quei contanti hanno finanziato un’attività d’impresa parallela, ecc.). In linea di principio, comunque, qualsiasi recupero a tassazione basato su prelievi di un lavoratore autonomo è illegittimo e i giudici tributari lo annulleranno se il contribuente solleva la questione.
Oltre a quanto sopra, le strategie difensive dei professionisti sono simili a quelle viste per le imprese sul versante dei versamenti: dimostrare che gli accrediti contestati sono redditi già tassati o somme non imponibili. Nel concreto, spesso i professionisti devono difendersi su importi che derivano da:
- Rimborsi spese o anticipazioni non fatturate: esempio tipico, un avvocato riceve €1.000 dal cliente con causale “rimborso spese vive” che però non ha fatturato. In realtà, se erano spese anticipate dal legale in nome e per conto del cliente (es. contributo unificato, marche da bollo), non costituivano compenso imponibile. Sarà necessario documentare tali spese (ricevute, bolli, ecc.) e mostrare la corrispondenza con la somma ricevuta, chiarendo che trattasi di rimborso a piè di lista, quindi escluso dal reddito (come peraltro confermato dalla prassi fiscale). In un caso reale, un professionista ha giustificato così una parte dei bonifici ricevuti, evidenziando l’errore di non averli annotati comunque in contabilità come transito finanziario ma dimostrandone la natura non reddituale .
- Giroconti personali: il professionista potrebbe avere più conti (es. conto studio e conto personale) e trasferire denaro tra essi. Tali movimenti intra-soggettivi non rappresentano reddito. Occorre però indicarli chiaramente: “questo bonifico in entrata sul conto A proviene dal mio conto B, come si vede dall’estratto conto B”. Allegando gli estratti di entrambi i conti per quella data, la vicenda è chiarita. Attenzione: se il conto “mittente” è cointestato con terzi o riferibile a un familiare, l’Ufficio potrebbe chiedere perché il denaro è transitato così; ma in generale, provando che la stessa persona ha movimentato i propri fondi, la presunzione di reddito cade (non c’è un arricchimento da fonte esterna). Su questo gioca anche il tema dei conti di terzi, che vedremo a breve.
- Finanziamenti o donazioni familiari: è frequente per giovani professionisti ricevere aiuti economici dai familiari (genitori, coniugi). Come già accennato, bonifici da parenti stretti non vanno automaticamente considerati compensi in nero, a patto di provare che si tratta di elargizioni a titolo gratuito o prestiti senza interessi . Nel 2024, ad esempio, la Corte di Giustizia Tributaria della Puglia (sent. n. 4378/2024) ha annullato un accertamento che imputava a ricavi societari occulti dei bonifici fatti dalla madre e dalla sorella a favore della società del figlio, riconoscendo che rientravano in un contesto di sostegno familiare tracciato e dimostrato . Il punto decisivo era che le somme provenivano da conti intestati ai familiari, i quali avevano redditi leciti dichiarati (pensione, stipendio) e sono state poi versate nella società come finanziamenti personali del socio . Inoltre, la Cassazione ha affermato in più occasioni (es. ord. n. 11633/2021) che “non è sufficiente il solo dato dell’accredito bancario per presumere l’esistenza di un reddito imponibile, essendo onere dell’Amministrazione fornire elementi ulteriori che ne dimostrino la natura reddituale” , soprattutto quando l’origine è familiare. Pertanto il professionista che ha ricevuto denaro da un parente dovrebbe: far sottoscrivere a quel parente una dichiarazione scritta (meglio se autenticata) in cui si attesta che la somma era un regalo o un prestito di natura privata; esibire estratti conto del parente che mostrano il bonifico; e indicare eventualmente come è stata usata la somma (es. per pagare spese personali, acquisto arredi per l’ufficio – se pertinente, ecc.). Tale documentazione, se coerente e non smentita da altri indizi, è in grado di vincere la presunzione.
Riassumendo, per i professionisti la difesa ruota attorno a due capisaldi: (1) ricordare al Fisco (e al giudice) il diverso regime giuridico dei prelievi, che non possono essere tassati; (2) fornire prove analitiche per ogni accredito anomalo, evidenziando la distinzione tra sfera personale e attività professionale. Un consiglio preventivo importante, come già detto, è di tenere separati i conti bancari (uno dedicato all’attività e uno alle finanze personali): questo eviterà a monte molte contestazioni.
Privati cittadini (contribuenti non esercenti impresa/professione)
Questa categoria include i lavoratori dipendenti, i pensionati, i disoccupati, le casalinghe e in generale chi non ha una partita IVA né un’attività economica autonoma. Si tratta di contribuenti che normalmente dichiarano solo redditi da lavoro dipendente/pensione, oppure nessun reddito (se, ad esempio, sono a carico di familiari).
Per tali soggetti, le indagini finanziarie non sono l’arma principale in mano al Fisco, ma possono comunque essere utilizzate, specie se vi sono evidenti incongruenze tra reddito e patrimonio. Dal punto di vista normativo, come già chiarito, l’art. 32 DPR 600/73 parla di ricavi “conseguiti nell’esercizio di imprese, arti o professioni”, quindi tecnicamente non inquadra il privato puro . Tuttavia, l’amministrazione finanziaria può comunque:
- Controllare i conti bancari intestati al privato e, se emergono versamenti di origine sconosciuta, presumere che rappresentino redditi non dichiarati (in genere li qualifica come redditi diversi ai fini IRPEF). Ad esempio, se una persona senza occupazione nota incassa bonifici per decine di migliaia di euro, l’Ufficio può sostenere che si tratti di redditi di lavoro in nero o proventi da attività illecite, ponendo la tassazione in via presuntiva . Un caso comune: donazioni non dichiarate. Ricevere una donazione in denaro non genera di per sé un reddito tassabile (le donazioni tra parenti stretti sono soggette a imposta di donazione solo oltre certe soglie molto alte), ma se non viene adeguatamente documentata, il Fisco potrebbe – con approccio formalistico – assimilarla a un reddito. È perciò prudente stipulare atti notarili per donazioni importanti, o conservare traccia scritta di ogni rimessa familiare significativa.
- Osservare le spese effettuate dal privato (spesso tramite i prelievi di contante o l’uso di carte di credito) e, se queste spese paiono incompatibili col reddito dichiarato, procedere con un accertamento sintetico. Ad esempio, se un soggetto dichiara €15.000 annui ma paga rate di mutuo, vacanze e altri acquisti per €30.000, è evidente che vive al di sopra delle proprie possibilità ufficiali. In questi casi scatterà il redditometro, come già descritto, con la ricostruzione di un reddito presunto tale da giustificare quella capacità di spesa. Questo strumento è particolarmente usato per i privati “nullatenenti” che però gestiscono grosse somme: tipicamente, coniugi o figli senza reddito ma che fanno movimenti finanziari alimentati dal capofamiglia. Il Fisco può guardare all’intero nucleo familiare: ad esempio, se un coniuge non lavora ma sul suo conto transitano molte entrate provenienti dall’altro coniuge, l’Ufficio potrebbe ritenere che quel conto del coniuge fungesse da schermo per redditi non dichiarati del coniuge lavoratore e quindi indagare su entrambi.
Una situazione frequente è quella del familiare “prestanome” inconsapevole: un padre imprenditore che, temendo controlli, deposita parte dei ricavi su conti intestati alla moglie casalinga o al figlio studente. Se il tenore di vita del padre non torna, l’Agenzia può chiedere i movimenti anche dei conti dei familiari collegati . La Cassazione ha ritenuto legittimo estendere l’indagine ai conti dei figli minorenni, ad esempio, se vi sono elementi per supporre che il genitore li usi per occultare denaro . Naturalmente il vincolo familiare di per sé non basta a considerare automaticamente evasione ogni passaggio di denaro: una recentissima ordinanza della Cassazione (n. 7583 del 21/03/2025) ha ribadito che il rapporto di parentela stretto tra contribuente e terzo non costituisce di per sé prova presuntiva qualificata della riferibilità delle somme al contribuente, senza ulteriori elementi . Però, se i flussi finanziari tra parenti sono consistenti e non spiegati, il sospetto nasce.
Difese tipiche per i privati: chi non ha un’attività economica ma subisce ugualmente un accertamento basato sui movimenti del conto dovrà focalizzarsi soprattutto sulla tracciabilità e giustificazione logica dei flussi. Consigli e accorgimenti:
- Mostrare la provenienza lecita dei versamenti: se sono frutto di regali o aiuti da familiari, procurarsi dichiarazioni dei medesimi e, se possibile, documentare che tali familiari avevano disponibilità (es. copie CUD o estratti conto del donante per provare che l’importo proviene dai suoi redditi già tassati). Se sono rimborsi di prestiti dati ad amici, far firmare una dichiarazione all’amico in cui conferma di aver restituito il prestito tale giorno su tale IBAN, e magari allegare la copia dell’assegno o bonifico originale con cui voi avevate prestato i soldi a lui. Se sono vincite o premi, esibire il documento della vincita (molte vincite, come quelle del gioco d’azzardo legale, sono già tassate alla fonte ma vanno provate come fonte esente). Se sono proventi esteri, dimostrare se possibile che sono stati già tassati all’estero o che erano redditi di anni passati ormai prescritti.
- Evidenziare l’utilizzo non produttivo dei prelievi: se contestano che avete prelevato molto contante, preparate un resoconto di come lo avete speso in ambito personale. Ad esempio: “in quei mesi ho aiutato mio figlio a comprare casa, ecco le ricevute dei bonifici a suo favore o degli assegni per l’anticipo”; oppure “ho sostenuto spese mediche in clinica privata per €X, ecco le fatture pagate in contanti”. Questo per convincere che quei soldi non sono ricavi d’impresa nascosta, ma semplicemente consumo di ricchezza. Chiaramente, essendo privati, non siete tenuti per legge a giustificare i vostri prelievi, ma fornire un quadro plausibile può evitare che l’Ufficio cerchi altri appigli (ad esempio insinuando che con quel contante vi dedicate a un’attività sommersa).
- Utilizzare il contraddittorio del redditometro: se l’accertamento è di tipo sintetico, approfittare pienamente della sede di contraddittorio obbligatoria per presentare un prospetto “fonti e impieghi” per l’anno in esame . Bisogna elencare tutte le fonti di finanziamento a disposizione in quell’anno (redditi dichiarati, risparmi prelevati dal conto, disinvestimenti, aiuti ricevuti, ecc.) e confrontarle con gli impieghi (spese, acquisti patrimoniali). Se risulta che le fonti coprono gli impieghi, avete spiegato da dove veniva il denaro speso. Ad esempio: “Ho speso €100.000 per comprare casa, ma avevo €50.000 risparmi sul conto (risultanti dal saldo di inizio anno) e €50.000 me li ha donati mio padre – ecco atto notarile di donazione e bonifico – quindi non serve ipotizzare redditi non dichiarati”. Inoltre, come già ricordato, dal 2024 se l’importo accertabile è sotto ~€69.700 l’accertamento sintetico è illegittimo: se vi trovate in questa situazione, eccepite subito che la condizione di legge manca, e l’avviso va annullato .
In definitiva, anche per i privati l’atteggiamento vincente è dimostrare trasparenza: far vedere che i propri movimenti bancari, pur anomali rispetto al reddito, trovano spiegazione in vicende non tassabili o riferite ad altri soggetti. Il messaggio da dare è: “non ho generato nuova capacità contributiva, ho solo movimentato ricchezza già esistente o altrui”.
Va notato che, trattandosi di persone fisiche, le questioni possono sconfinare anche sul piano penale in presenza di grandi somme non dichiarate (es. reato di infedele o omessa dichiarazione per chi, pur privato, avrebbe dovuto dichiarare certe entrate). Approfondiamo ora anche questi aspetti ulteriori di responsabilità.
Procedura di accertamento finanziario e diritto al contraddittorio
Vediamo ora come l’Agenzia delle Entrate effettua in pratica un accertamento basato sui conti correnti e quali sono i diritti del contribuente durante il procedimento.
Avvio delle indagini sui conti: di norma le indagini finanziarie vengono attivate quando l’Ufficio rileva incongruenze o informazioni (ad es. tramite altre verifiche o segnalazioni) che fanno sospettare l’esistenza di ricavi non dichiarati. Serve un’apposita autorizzazione interna (del Direttore o di un dirigente delegato) per poter interrogare l’Archivio dei Rapporti Finanziari e inviare richiesta agli intermediari . Una volta autorizzata, l’Agenzia può acquisire dalle banche e Poste l’estratto conto completo di ogni rapporto intestato (o cointestato) al contribuente, nonché informazioni su cassette di sicurezza (solo l’elenco dei titoli, non il contenuto) . Non è previsto alcun preavviso al contribuente in questa fase: l’accesso ai dati bancari avviene in modo riservato. Grazie all’informatizzazione, oggi l’Agenzia ottiene velocemente i movimenti degli ultimi anni (di solito fino agli ultimi 5 anni accertabili).
Estensione a conti di terzi: se emergono rapporti bancari formalmente intestati ad altri ma di cui il contribuente ha disponibilità indiretta, l’indagine può estendersi. Ad esempio, conti cointestati con il coniuge, oppure conti intestati a figli o società fiduciarie ma su cui risultano deleghe e operatività da parte del contribuente. La legge consente di includere nei controlli anche soggetti terzi “interposti”. La Cassazione ha convalidato accertamenti basati sui conti di familiari quando vi erano indizi che fossero usati come schermo (es. stile di vita del padre incompatibile e soldi sui conti dei figli) . Ovviamente l’Ufficio deve motivare bene questa estensione, non può farla “a tappeto” su tutti i parenti senza motivo; ma se trova movimenti sospetti tra il contribuente e terzi, può approfondire su questi ultimi .
Invito al contraddittorio (questionario): prima di emettere un avviso di accertamento basato su indagini bancarie, è prassi e anche obbligo (derivato dai principi sul giusto procedimento amministrativo) che l’Ufficio chieda chiarimenti al contribuente. In genere ciò avviene tramite l’invio di un questionario scritto o di un invito a comparire per un contraddittorio orale . In questi atti vengono elencati i movimenti bancari considerati anomali, e si invita il contribuente a fornire spiegazioni (di solito entro 15 o 30 giorni). Questo passaggio è cruciale: è il momento in cui il contribuente può giocarsi le sue carte per evitare (o ridurre) l’accertamento. Dunque, mai ignorare un questionario! Rispondere puntualmente, per iscritto, voce per voce, allegando tutta la documentazione possibile. Se non si è in grado di rispondere entro il termine, presentarsi comunque all’ufficio (o inviare una comunicazione) chiedendo una proroga o anticipando almeno parte delle risposte.
Le conseguenze di una mancata risposta sono molto sfavorevoli: (i) l’AdE procederà comunque a emettere l’accertamento presumendo il peggio, dato che nulla è stato chiarito; (ii) scatta la preclusione probatoria prevista dall’art. 32, co.4, DPR 600/73: i documenti che il contribuente possedeva e non ha esibito in risposta al questionario non potranno essere utilizzati in seguito in sede contenziosa (salvo che dimostri di non averli potuti produrre prima per cause di forza maggiore) ; (iii) l’Ufficio può anche irrogare una sanzione amministrativa per omessa risposta a richiesta di informazioni (sanzione fissa, normalmente €2.000) . Si capisce quindi che fare lo struzzo è la scelta peggiore. Se il termine è troppo stretto, è preferibile presentare una memoria parziale con quello che si ha, dichiarando che si forniranno integrazioni appena possibile, piuttosto che tacere.
Esame delle giustificazioni: l’Agenzia, ricevute le spiegazioni, le valuta. Se alcune risultano convincenti e ben documentate, le somme corrispondenti vengono sgravate (cioè tolte dall’eventuale imponibile da accertare). Se permangono importi non giustificati o spiegazioni ritenute inattendibili, l’ufficio passerà all’emissione dell’avviso di accertamento, calcolando le maggiori imposte dovute (IRPEF, addizionali, IVA, IRAP se dovuta per imprese, ecc.) e le sanzioni.
Notifica dell’avviso di accertamento: l’atto formale con cui vengono richieste le imposte evase si chiama avviso di accertamento. Viene notificato al contribuente (a mezzo PEC, raccomandata o ufficiale giudiziario) entro i termini di decadenza previsti dalla legge: per i redditi dichiarati, entro il 5° anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione; per i redditi non dichiarati (omessi), entro il 7° anno successivo. Ad esempio, per movimenti del 2020, se erano redditi non dichiarati in Unico 2021, il termine è il 31/12/2026; se addirittura non è stata presentata dichiarazione, termine 31/12/2028.
Fase amministrativa “deflattiva”: dopo la notifica, prima di fare ricorso, il contribuente ha facoltà di attivare alcuni strumenti di definizione agevolata in sede amministrativa:
- Istanza di autotutela: se il contribuente ritiene vi siano errori palesi (ad esempio doppia imposizione della stessa somma, oppure documenti forniti ignorati dall’ufficio), può presentare immediatamente un’istanza di autotutela al Direttore dell’Ufficio, chiedendo l’annullamento (totale o parziale) in via di riesame. L’autotutela non sospende i termini di ricorso, e l’AdE raramente annulla totalmente un atto legittimamente emesso, ma in alcuni casi può correggere/ridurre l’accertamento prima del contenzioso, soprattutto se emergono elementi nuovi e incontrovertibili a favore del contribuente.
- Accertamento con adesione: è la possibilità di trovare un accordo con l’Ufficio sul contenuto dell’accertamento, evitando il giudizio. Il contribuente può presentare istanza di adesione entro 60 giorni dalla notifica (il termine di impugnazione viene sospeso per 90 giorni in tal caso). Si apre così un contraddittorio “negoziale” in cui si discute l’atto: l’Agenzia potrebbe accettare di ridurre l’imponibile contestato o almeno le sanzioni. Se si raggiunge un accordo, si redige un atto di adesione con il nuovo importo dovuto. Vantaggi: le sanzioni amministrative vengono ridotte a 1/3 del minimo (quindi tipicamente scendono al 30% dell’imposta evasa invece che 90%, un abbattimento notevole) e il pagamento può avvenire in forma agevolata (rateizzabile). Ad esempio, se l’ufficio contestava €50.000 di imponibile non dichiarato a una ditta (con imposta evasa poniamo €15.000), la sanzione base sarebbe 90% = €13.500 ; con l’adesione scende a ~30% = €4.500 . Ottenere uno sconto sulle sanzioni e chiudere la questione con certezza può convenire se la posizione difensiva non è granitica. In caso di accertamenti bancari, spesso l’adesione viene utilizzata per riconoscere almeno parzialmente le ragioni del contribuente e trovare un punto d’incontro (es. togliere alcune voci che il contribuente ha giustificato in extremis, applicare un forfait costi, ecc.).
Se non ci si accorda o non si aderisce, l’accertamento resta invariato e diventa definitivo trascorsi 60 giorni senza impugnazione.
Ricorso tributario: la via giudiziaria prevede di presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado (nuova denominazione delle Commissioni Tributarie Provinciali dal 2023) entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, salvo sospensioni per adesione. Per importi di imposta contestata fino a €50.000, è obbligatorio prima presentare il ricorso in mediazione/reclamo: in pratica il ricorso si invia all’AdE stessa, che ha 90 giorni per eventualmente formulare una proposta di conciliazione (di solito un abbattimento delle sanzioni) . Se la proposta non arriva o non soddisfa, si procede comunque in giudizio. Durante il processo, come vedremo nelle FAQ, esiste anche la possibilità di conciliazione giudiziale (accordo transattivo con l’ufficio davanti al giudice, con sanzioni dimezzate) .
Nel contenzioso, è importante ricordare alcune regole procedurali specifiche per gli accertamenti bancari:
- La preclusione probatoria di cui si è detto ha effetto anche in giudizio: significa che se l’Ufficio in sede di contraddittorio vi aveva chiesto un certo documento (ad esempio i contratti di mutuo) e voi non l’avete prodotto né motivato perché non potevate, in teoria non potrete depositarlo neanche in Commissione. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 137/2025, ha dichiarato legittima tale preclusione, purché interpretata nel senso che vale solo per i documenti specificamente richiesti e omessi, e non per qualsiasi prova nuova . Quindi, se il questionario non menzionava affatto un certo documento e voi lo tirate fuori in giudizio, il giudice potrebbe ammetterlo. Ma se invece l’ufficio lo aveva chiaramente domandato e voi l’avevate a disposizione, difficilmente il giudice ve lo considererà. Morale: è fondamentale collaborare e produrre tutto il possibile già in fase amministrativa per non “bruciarsi” le prove.
- Il vizio di mancato contraddittorio: se l’AdE emette accertamento bancario senza aver inviato alcun questionario o invito a contraddittorio e non ricorrono situazioni d’urgenza particolari, la giurisprudenza spesso sanziona questa mancanza. In ambito di redditometro, come detto, è obbligatorio per legge; in ambito bancario non c’è un obbligo espresso normativo (se non in caso di accessi della Guardia di Finanza), ma la Cassazione ha più volte affermato che il contraddittorio endoprocedimentale è un principio generale. Per cui, se non vi hanno dato modo di spiegare prima, segnalatelo nel ricorso: potrebbe essere un elemento a vostro favore (magari non di nullità automatica, ma di critica sul metodo).
- Vizi di merito: nel ricorso si potrà contestare sia la legittimità dell’operato dell’Ufficio (es. “hanno applicato la presunzione sui prelievi benché io sia professionista, ciò è contra legem”) sia il merito (“quelle somme non sono reddito, ecco le prove…”). Entrambe le argomentazioni vanno sviluppate. Ad esempio, un professionista che si vede contestare prelievi userà la difesa in diritto (richiamo Corte Cost. 2014) per far annullare quel capo, e nel contempo spiegherà perché comunque quei prelievi erano per scopi personali. Allo stesso modo, un piccolo imprenditore potrebbe eccepire che alcune delle somme sono sotto soglia 1000/5000 e quindi non tassabili per difetto di presupposto .
- Conciliazione e appello: come detto, anche in pendenza di giudizio di primo grado si può trovare un accordo con l’ufficio (conciliazione giudiziale) ottenendo una riduzione delle sanzioni a metà . Se si perde in primo grado, si può fare appello alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (entro 60 giorni dalla notifica della sentenza). In appello non si possono produrre documenti nuovi che si potevano produrre prima (salvo eccezioni), ma si può far valere eventuale giurisprudenza sopravvenuta favorevole, o errori di diritto del primo giudice . Ad esempio, se dopo la sentenza di primo grado esce una Cassazione a sezioni unite che avalla la vostra tesi, potete usarla in appello. Valutate comunque costi/benefici: se l’importo in gioco è basso, fare appello potrebbe non convenire (specie perché dal 2023 c’è il principio di soccombenza per le spese legali anche in tributario). Su importi elevati, invece, conviene quasi sempre proseguire la lite se ci sono motivi difendibili, dato che in appello la decisione potrebbe ribaltare la situazione.
In tutto questo iter, è altamente consigliabile farsi assistere da un difensore esperto (commercialista o avvocato tributarista), poiché la materia è complessa e in continua evoluzione. La posizione del contribuente deve essere esposta con chiarezza, evidenziando non solo i fatti ma anche il principio che si vuole far valere: ad esempio, che tassare una certa somma significherebbe colpire capacità contributiva inesistente, contrario all’art. 53 Cost. . I giudici tributari, infatti, possono essere persuasi da una difesa ben articolata che combini aspetti formali (norme, sentenze) e aspetti equitativi sostanziali (es. doppia tassazione, evidente natura non reddituale delle somme). Come vedremo nelle FAQ finali, il contribuente onesto deve far emergere in giudizio che non si può pretendere di dimostrare l’impossibile – ovvero “provare di non aver evaso” oltre quanto ragionevolmente documentabile – e che il Fisco non deve eccedere trasformando ogni anomalia bancaria in un automatismo sanzionatorio . Su questo spesso la giurisprudenza è attenta, purché le prove fornite siano oggettive e la narrazione credibile.
Prova contraria: come giustificare i bonifici in entrata non registrati
Passiamo ora al cuore della difesa: fornire la prova contraria per demolire la presunzione che i bonifici o versamenti non registrati siano redditi in nero. Questo è l’aspetto più pratico e al contempo delicato. Come abbiamo sottolineato, la prova deve essere analitica e documentale : spiegazioni generiche o mere dichiarazioni di intento non bastano, servono riscontri oggettivi per ciascun importo contestato.
Elenchiamo le principali tipologie di giustificazione che un contribuente può adottare, con il relativo valore probatorio e consigli per sostenerle:
- Somme già tassate o già dichiarate altrove: questa è la migliore delle ipotesi difensive. Se riuscite a dimostrare che il denaro affluito sul conto era già assoggettato a imposizione (o comunque incluso in basi imponibili già dichiarate), la pretesa fiscale deve decadere, per evitare una doppia tassazione. Esempi:
- Un bonifico corrisponde a un pagamento di stipendio già tassato alla fonte (tramite CU del datore di lavoro): basta esibire la busta paga o il CU e l’estratto conto che collega quel pagamento. Caso pratico: sul conto personale di Mario arrivano ogni mese €1.200 da un altro conto: potrebbe essere lo stipendio della moglie accreditato su quel conto cointestato. Se Mario lo prova (allega il CUD della moglie e l’evidenza che quell’IBAN è del datore di lavoro), l’Ufficio non può tassare quegli importi a Mario, perché sono redditi già tassati della moglie .
- Un versamento sul conto aziendale è in realtà il saldo di una fattura che, per errore, non era stato registrato come incasso ma la fattura era stata emessa e dichiarata: presentando copia della fattura e magari la comunicazione al commercialista che quell’importo era un credito insoluto poi incassato, si dimostra che il ricavo era già nel bilancio (anche se non si era incrociato col movimento bancario).
- Un accredito deriva dalla restituzione di un prestito che il contribuente aveva a suo tempo erogato e magari già dichiarato come uscita: ad esempio, un imprenditore aveva anni prima fatto un finanziamento fruttifero a un terzo, dichiarandone gli interessi; quando il terzo glielo restituisce, la somma non è un ricavo nuovo ma solo la chiusura di un credito vantato. Mostrando il contratto di prestito e i movimenti originari, si chiarisce che è un rientro capitale.
- Trasferimenti intra-personali (giroconti): se il denaro proviene da un altro conto dello stesso contribuente o della sua stessa società (nel caso di gruppi), va esclusa la presunzione. La logica: non c’è arricchimento da fonte esterna, ma mera movimentazione di fondi già di titolarità del soggetto. Quindi, se Tizio ha due conti A e B e sposta €10.000 da B ad A, quell’entrata sul conto A non è un “ricavo” ma solo un trasferimento interno. Come provarlo: allegare gli estratti di entrambi i conti che mostrano l’addebito sul conto B e l’accredito su A nella stessa data/ammontare; se i conti sono in banche diverse, può essere utile la contabile del bonifico con indicazione di ordinante e beneficiario (che in questo caso coincidono, Tizio). Eventualmente spiegare il motivo del trasferimento (es. concentrare liquidità su un unico conto). Queste sono giustificazioni semplici e spesso l’Ufficio stesso le riconosce se saltano all’occhio. Un alert: se il passaggio di denaro è tra due soggetti diversi anche se legati (es. società controllante e controllata; socio e società), formalmente non è lo stesso soggetto, quindi la presunzione potrebbe applicarsi ugualmente (es. se un socio versa soldi in società, l’Ufficio inizialmente presume ricavo per la società finché non si prova che è finanziamento soci). Dunque, i giroconti che funzionano come difesa sono solo quelli intrasoggettivi puri. Nei casi intersoggettivi, si ricade nelle altre casistiche (finanziamenti, apporti, ecc. da giustificare).
- Finanziamento soci o apporto dei titolari: in ambito aziendale, come già accennato, un versamento dal socio alla società può essere tranquillamente un finanziamento infruttifero o un aumento di capitale e non un ricavo da vendita. Però va formalizzato. Spesso l’Ufficio rigetta la giustificazione “è un finanziamento soci” se non vede almeno una minima traccia documentale: ad esempio, una scrittura privata di finanziamento datata in anticipo, o una delibera assembleare per l’aumento di capitale, o almeno la voce nel bilancio della società che evidenzia il debito verso socio. Se nulla di tutto ciò è stato fatto all’epoca, il contribuente può trovarsi in difficoltà, perché quell’apporto ex post potrebbe essere visto come costruito ad arte. In giudizio, tuttavia, se si riesce a dimostrare che la società era sotto-capitalizzata e quel versamento ha coperto spese, e magari viene redatta una dichiarazione autenticata del socio che conferma la natura di prestito senza interessi, molti giudici tributari tendono ad accettare la spiegazione (specie se il socio aveva disponibilità finanziarie lecite). Il punto è coerenza temporale: sarebbe ideale poter mostrare che il finanziamento era previsto (es. nel verbale assembleare) prima del bonifico. Se così non è, lo si faccia attestare al socio ora, corredando con qualche altro elemento (es. evidenziare che la società non aveva vendite per quell’importo, quindi l’unica fonte plausibile era il socio stesso).
- Donazione o aiuto familiare: come visto a proposito dei professionisti, questa è una giustificazione valida, ma bisogna sostanziarla bene. Occorre: (a) identificare precisamente il familiare donante; (b) farlo dichiarare per iscritto (meglio in atto notarile se la cifra è importante) che ha donato tot il tal giorno al tal beneficiario, a titolo di liberalità; (c) dimostrare che il donante aveva i mezzi (es. era un lavoratore dipendente con stipendio, o ha venduto un immobile, o aveva risparmi) e – se possibile – che ha già assolto eventuali imposte sulla donazione (in genere non dovute se parente stretto e sotto 1 mln €). Se tutti questi pezzi combaciano, l’Ufficio non dovrebbe tassare una donazione, poiché non configura reddito (non è corrispettivo di una prestazione, e non rientra in categorie reddituali imponibili). Dalla giurisprudenza emerge chiaramente che l’elemento familiare è un esimente quando c’è traccia: “la mera provenienza familiare di un bonifico non è sufficiente a ricomprenderlo nel reddito imponibile, se il contribuente ne dimostra la natura causale non reddituale” (CTR Puglia 4378/2024) . Perciò è fondamentale procurarsi quella dimostrazione causale (donazione, sostegno per studio, regalo di matrimonio, ecc.). Un consiglio: se possibile fate transitare queste somme con causali chiare in banca (“regalia per matrimonio”, “donazione per acquisto casa di X”) perché talvolta l’Agenzia stessa, leggendo la causale, lascia stare.
- Restituzione di prestito dato a terzi: un caso differente è se il contribuente in passato aveva prestato soldi a qualcuno (senza interessi magari) e poi li ha riottenuti indietro. Qui non c’è arricchimento: era denaro suo che esce e rientra. Però l’AdE, vedendo solo il rientro, lo scambia per entrata nuova. La difesa consiste nel documentare il prestito originario: ad esempio, un bonifico in uscita anni prima, o un assegno consegnato (con ricevuta). Se nulla è tracciato (magari il prestito fu in contanti), diventa più arduo. Si può far firmare al debitore una dichiarazione di riconoscimento di debito e quietanza di pagamento dove spiega di aver ricevuto €X in tale data e restituito €Y in tal altra. Anche qui non vale come prova legale “forte” in senso tecnico, ma se non contestata può bastare.
- Entrate occasionali o risarcimenti non imponibili: alcune somme possono non essere tassabili per loro natura. Esempi:
- Rimborso assicurativo per un sinistro: se ricevete €5.000 dall’assicurazione come indennizzo danni, non è un reddito (salvo interessi moratori). Presentate la lettera di liquidazione dell’assicurazione e il bonifico corrispondente, e quell’importo va escluso.
- Vendita di beni personali: se vendete la vostra auto usata o dei beni personali su eBay, incassate soldi ma non è reddito imponibile (a meno che sia attività abituale di commercio). Mostrate il passaggio di proprietà dell’auto con prezzo, o le ricevute delle vendite online, per dimostrare che era realizzo di patrimonio, non reddito da lavoro.
- Risarcimenti, rimborsi di spese legali ecc.: anche quelli vanno provati con documenti (sentenza di condanna alle spese, ecc.) e vengono esclusi.
- Vincoli di legge: portare l’attenzione sul fatto che un certo flusso è fiscalmente irrilevante può salvare. Ad esempio, TFR o altre indennità già tassate separatamente o esenti. Se dimostrate che una somma accreditata deriva da capitali già tassati (tipo disinvestimento di un BTP, di cui avete pagato imposta sostitutiva), allora non può essere tassata di nuovo.
- Documenti di supporto e dichiarazioni di terzi: come evidenziato anche nelle FAQ, la testimonianza orale non è ammessa nel processo tributario . Quindi non potete portare vostro padre a testimoniare davanti al giudice. Però potete farvi rilasciare da ogni terzo coinvolto (parenti, amici, ecc.) una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà dove costui, consapevole delle sanzioni penali in caso di falso, attesta la circostanza rilevante (es: “Confermo di aver donato €10.000 a mio figlio in data…, a titolo di regalo”). Tali dichiarazioni non hanno lo stesso peso di una testimonianza con controesame, ma sono comunque elementi indiziari scritti. La giurisprudenza le considera liberamente valutabili: se non smentite da altri elementi, possono contribuire alla prova . Meglio ancora se la dichiarazione viene autenticata da un notaio (non aggiunge valore giuridico, ma dà maggiore credibilità formale) . In casi estremi, si può chiedere al giudice tributario di esercitare i suoi poteri istruttori atipici, ad esempio sollecitando l’ufficio a sentire quel terzo , ma non è una strada usuale. Conviene che sia la difesa a raccogliere tutte le dichiarazioni utili prima.
Per organizzare al meglio la difesa, specie se i movimenti contestati sono molti, si consiglia di preparare una tabella riepilogativa (anche da allegare al verbale di contraddittorio o al ricorso) con tutte le voci contestate: per ciascuna indicare data, importo, descrizione (es. “bonifico da XYZ”), giustificazione addotta e documenti allegati. Questa schematizzazione aiuta sia voi sia chi dovrà valutare, a colpo d’occhio, le ragioni del contribuente.
Un esempio concreto di difesa riuscita: come già citato, la sentenza CTR Puglia 4378/2024 riguardava bonifici sul conto personale di un socio unico di società, che l’ufficio presumeva essere utili nascosti prelevati dalla società. Il contribuente invece aveva prodotto documenti provando che: – Quattro di quei bonifici erano in realtà finanziamenti infruttiferi che egli stesso, come socio, aveva versato alla società (quindi non utili in uscita, ma quattrini in entrata per l’azienda). – Gli altri bonifici, di importo maggiore, provenivano dai conti della madre pensionata e della sorella dipendente, a titolo di aiuto per far fronte alle esigenze dell’azienda avviata dal figlio/fratello . – Tutti i passaggi erano tracciati, con causali chiare e compatibili con le risorse lecite dei familiari. La Corte ha dato ragione al contribuente, rimarcando come il contesto solidaristico familiare e la tracciabilità completa del flusso finanziario fossero elementi decisivi per superare la presunzione . Ha anche richiamato orientamenti della Cassazione che vanno nella stessa direzione (Cass. 11633/2021, Cass. 397/2019) confermando che non ogni movimento bancario è sintomo di evasione e che conta molto la valutazione del contesto e delle prove .
Questa pronuncia riassume bene la filosofia che il contribuente deve cercare di far emergere: le presunzioni fiscali non vanno applicate in modo cieco e assoluto, ma vanno calate nella realtà concreta, dove esistono anche rapporti non commerciali, aiuti familiari, utilizzo di risparmi, ecc. La trasparenza e la precisione nel giustificare i propri movimenti bancari sono l’arma migliore per vincere la presunzione.
Profili penali e responsabilità ulteriori (omessa dichiarazione, autoriciclaggio)
Oltre alle sanzioni tributarie amministrative, ricevere accertamenti per somme non dichiarate potrebbe esporre il contribuente (specie se imprenditore o legale rappresentante di società) anche a responsabilità penali tributarie quando ricorrono determinati presupposti di legge. Inoltre, l’utilizzo di proventi da evasione fiscale in attività volte a occultarne l’origine può configurare il reato di autoriciclaggio. Esaminiamo brevemente questi aspetti, dal punto di vista di chi ha subito un accertamento per bonifici non registrati.
Reati di omessa o infedele dichiarazione (D.Lgs. 74/2000): il nostro ordinamento punisce penalmente l’evasione di imposta solo oltre certe soglie di gravità, distinguendo: – Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): è il reato commesso da chi, obbligato alla presentazione della dichiarazione annuale (dei redditi o IVA), non la presenta affatto, al fine di evadere le imposte. Si tratta di un delitto punibile con la reclusione, ma scatta solo se l’imposta evasa supera €50.000 per ciascun tributo e periodo d’imposta . Nel contesto in esame, potrebbe configurarsi ad esempio se un lavoratore autonomo o un imprenditore, ricevendo ingenti somme in nero, non presenta proprio la dichiarazione dei redditi per quell’anno per occultarle. Oppure se presenta la dichiarazione IVA a zero quando invece aveva incassato importi rilevanti. Attenzione: la soglia dei 50.000 € è riferita all’imposta evasa (non al reddito occultato). Dunque, ad esempio, un omesso reddito di €200.000 potrebbe generare imposta evasa di ~€80.000 (a seconda dell’aliquota), superando la soglia; viceversa, €120.000 di imponibile evaso potrebbero comportare imposta evasa di €40.000, restando sotto soglia, e in tal caso non ci sarebbe rilievo penale (ma solo amministrativo). Nel 2023 è stato discusso un abbassamento di alcune soglie penali, ma al settembre 2025 quella per omessa dichiarazione è rimasta 50.000 € .
- Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): è il reato di chi dichiara un reddito inferiore a quello effettivo o indica elementi passivi fittizi, con lo scopo di evadere. In pratica copre i casi in cui la dichiarazione è presentata ma contiene dati falsi (es. omissione parziale di ricavi). Scatta se l’imposta evasa supera €100.000 e contemporaneamente il reddito non dichiarato supera il 10% di quello dichiarato o comunque €2.000.000 . Ad esempio, se una società dichiara ricavi per €1.000.000 ma ne aveva in realtà €1.300.000, evadendo €100.000 di IRES, ricade nell’infedele (per soglia di imposta superata e importo occultato > 2M? In questo esempio 300k occultati <2M, quindi no; servirebbe >2M occultati). Nel caso di bonifici in entrata non fatturati, se gli importi sono molto elevati, potrebbe profilarsi questo reato. Tuttavia, è più raro: chi nasconde ricavi normalmente cerca di stare sotto queste soglie per non rischiare il penale. Inoltre, l’infedele non si applica se i fatti integrano già il reato di omessa dichiarazione (quest’ultimo prevale).
- Dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000): riguarda condotte più sofisticate (frode mediante fatture false o altri artifici contabili). Nel contesto di indagini bancarie, potrebbe emergere se il contribuente, ad esempio, ha cercato di giustificare i movimenti con false fatture di comodo. Ma è al di fuori del caso standard di bonifici non registrati (dove l’evasione è sommersa, non falsificata con documenti).
La gran parte degli accertamenti bancari, pur potendo riguardare somme cospicue, non sfocia nel penale. Questo perché spesso chi viene beccato con 30-40k di nero l’anno pagherà le sanzioni ma resterà sotto le soglie penalmente rilevanti . Tuttavia, se dall’indagine finanziaria emergesse un sistema di evasione di importi enormi (magari conti esteri con milioni non dichiarati), l’Agenzia delle Entrate segnalerà la cosa alla Procura. Un esempio estremo: se su conti occulti all’estero scoprono 5 milioni di euro di ricavi non dichiarati da una società, ciò integrerebbe certamente reato di dichiarazione infedele (imposta evasa ben oltre 100k e ricavi occultati oltre 2M) e forse, se proprio non presentavano dichiarazioni, omessa dichiarazione. In tali casi partirà un procedimento penale parallelo.
Autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.): introdotto dal 2015, questo reato punisce chi impiega, trasferisce, sostituisce denaro o altri beni provenienti da un proprio reato, in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa. In parole semplici: se evasione fiscale e altri reati tributari portano in tasca al contribuente del “denaro sporco” (cioè provento di reato), anche il successivo tentativo di ripulire quel denaro può costituire reato, distinto e aggiuntivo rispetto all’evasione. È importante chiarire: l’autoriciclaggio si applica solo se il reato fiscale a monte è effettivamente un reato (quindi tipicamente se l’evasione supera le soglie penali sopra dette, o se c’è una frode fiscale). Se la condotta rimane nell’illecito amministrativo, non c’è “reato presupposto” e quindi il denaro evaso non è provento di reato in senso tecnico: in tal caso non può esserci riciclaggio/autoriciclaggio. Ma quando invece, ad esempio, un imprenditore occulta milioni di euro di ricavi (reato di dichiarazione fraudolenta) e poi tali somme le fa transitare su conti esteri schermati o le reimmette sotto forma di investimenti puliti, allora scatta l’autoriciclaggio.
Cosa significa in pratica “ostacolare l’identificazione dell’origine”? La legge e la giurisprudenza considerano rilevanti tutte le operazioni che tendono a camuffare o allontanare il denaro dalla sua fonte originaria. E qui attenzione: non è necessario creare chissà quale labirinto di società offshore; anche operazioni formalmente tracciabili possono costituire autoriciclaggio, se rendono più difficile collegare i soldi al reato presupposto . La Cassazione ha chiarito che il reato si configura anche solo trasferendo denaro dal conto A al conto B intestato a un prestanome, oppure investendolo in un’attività economica lecita, perché comunque si occulta la provenienza. Ad esempio, la mera girata di bonifici su conti di terzi (moglie, figli, società compiacenti) costituisce già autoriciclaggio, pur essendo operazioni bancarie tracciate .
Un orientamento ancora più recente e rigoroso (Cass. pen. sez. II n. 25348/2024) ha sostenuto che anche il solo depositare su un conto bancario proprio denaro “in nero” integra autoriciclaggio, perché il denaro contante di provenienza illecita, una volta versato in banca e mischiato con altre somme, diventa più difficile da ricondurre all’origine . Questo principio si basa sull’idea che il denaro è fungibile: mettendolo nel circuito finanziario, lo si “ripulisce” in qualche modo, confondendolo con denaro legittimo. È una posizione severa, su cui però la Cassazione sembra aver trovato terreno comune negli ultimi anni.
Esempio: un imprenditore incassa 500k in nero e li tiene in contanti nella cassaforte di casa. Finché li tiene lì, ha commesso (eventualmente) reato tributario ma non autoriciclaggio, perché non ha compiuto attività di reimpiego. Se però prende quei 500k e li versa su vari conti correnti o li investe per acquistare immobili intestandoli a prestanome, sta attuando una sostituzione e un trasferimento di denaro volto a ostacolare l’identificazione della provenienza (in gergo: sta tentando di “ripulirli”). Questo configura autoriciclaggio. Perfino se li versa sul proprio conto personale e li usa per attività economiche, potrebbe configurarsi il reato (a meno che l’operazione sia talmente scoperta da non ostacolare affatto l’identificazione – ma questo è un confine sottile). Ad esempio, la Cassazione n. 765/2025 ha condannato un soggetto che reinvestiva tramite società compiacenti i proventi dei reati fiscali del padre, sottolineando che il fatto che i bonifici fossero tracciabili non escludeva il riciclaggio, perché comunque erano stati spostati su conti diversi e reimmessi in attività economiche, rendendo più difficile risalire al collegamento con l’evasione iniziale .
Conseguenze penali: l’autoriciclaggio è punito con pene che possono arrivare fino a 12 anni di reclusione (nei casi più gravi). Si capisce dunque la sua portata deterrente. Il messaggio del legislatore è chiaro: non basta evadere e farla franca col Fisco; se poi cerchi di goderti i frutti del reato nascondendoli, ti puniamo ulteriormente. Dal punto di vista del contribuente, occorre quindi estrema cautela: se ci si trova con ingenti somme non dichiarate, la strada migliore è cercare di regolarizzarle fiscalmente (quando possibile, ad esempio con adesioni o ravvedimenti operosi) piuttosto che continuare a occultarle attraverso stratagemmi finanziari. Difatti negli ultimi anni molte posizioni si sono chiuse con gli istituti di voluntary disclosure o simili, proprio per evitare i guai penali connessi al riciclaggio.
Infine, va menzionato che in ambito societario potrebbe configurarsi anche la falsificazione dei bilanci (false comunicazioni sociali) se i bonifici non registrati erano significativi e alteravano il bilancio d’esercizio di società di capitali. Questo però esula dal nostro focus (dipende da soglie e dalla rilevanza per soci/terzi, ed è un reato a querela in certi casi).
In sintesi, per un imprenditore o professionista che abbia accumulato somme in nero: – Se gli importi evasi sono prossimi o superiori alle soglie di rilevanza penale, è altamente consigliabile consultare un legale penalista oltre che tributarista, per valutare i rischi e magari attuare strategie di patteggiamento o di collaborazione (pagamento del dovuto prima del giudizio penale, che può attenuare la pena). – Evitare di fare operazioni opache con quel denaro: ogni tentativo di occultamento potrebbe peggiorare la situazione. Paradossalmente, non fare nulla (tenere il contante sotto il materasso) è meno rischioso penalmente che fare movimenti sospetti – ma ovviamente la soluzione migliore è regolarizzare. – Se si è destinatari di indagini finanziarie e c’è il timore di risvolti penali, non mentire presentando documenti falsi o creando false piste (questo configurerebbe reati ulteriori). Meglio cercare di spiegare il possibile e negoziare col Fisco in sede amministrativa.
Va comunque ricordato che la stragrande maggioranza dei casi di accertamento per bonifici non giustificati si risolve in sede tributaria, con il pagamento delle imposte e sanzioni. I casi estremi di autoriciclaggio si riferiscono a fenomeni di evasione molto rilevanti e strutturate (spesso scoperte dalla Guardia di Finanza più che dall’AdE). Il contribuente medio deve sì conoscere questi rischi, ma non allarmarsi eccessivamente: se si collabora e si sistema la propria posizione, difficilmente si arriverà a conseguenze penali, a meno di situazioni eclatanti.
Esempi pratici e simulazioni
Per comprendere meglio come tutti questi principi si applicano concretamente, vediamo qualche scenario pratico con protagonisti di fantasia, ma ispirati a casi realmente frequenti, e le possibili difese.
Esempio 1: Il piccolo commerciante (“Mario”) – Mario gestisce un negozio di elettronica in ditta individuale, in contabilità semplificata. Ha due conti correnti: uno intestato all’attività e uno personale (ma all’atto pratico spesso li usa promiscuamente). Nel 2023 dichiara ricavi per €50.000 e un utile modesto. L’Agenzia delle Entrate esegue un controllo incrociato e scopre che sul conto personale di Mario, durante l’anno, sono stati versati complessivamente €50.000 in più rispetto agli incassi risultanti dagli scontrini. In particolare, nota frequenti versamenti in contanti e alcuni bonifici da terzi sul conto personale, non giustificati dalla contabilità aziendale.
- Contestazione: L’ufficio convoca Mario chiedendo spiegazioni su quei €50.000 versati sul conto personale, ipotizzando che siano ricavi non dichiarati (es. vendite in nero pagate in contanti e poi depositati) . Essendo Mario un imprenditore, anche se i versamenti sono sul conto personale, li considerano rilevanti (presumendo che il conto personale venga usato per depositare incassi del negozio, data la confusione contabile).
- Difesa di Mario: Mario, aiutato dal suo commercialista, analizza quei movimenti e prepara un prospetto dettagliato:
- €15.000 di quei versamenti sono in realtà bonifici dello stipendio di sua moglie, che vengono accreditati sul conto cointestato (la moglie preferiva così per comodità). Mario allega le buste paga della moglie e gli estratti conto che mostrano l’accredito mensile da “Ditta Alfa Srl – stipendio” . Questi €15.000 sono redditi di lavoro dipendente della moglie, già tassati alla fonte e assolutamente estranei all’attività di Mario.
- €10.000 provengono dalla chiusura di un vecchio libretto di risparmio intestato a Mario, che lui aveva in posta con accumulati negli anni scorsi e che ha deciso di versare sul conto per usarli . Fornisce l’attestazione della Banca/Posta che certifica la chiusura del libretto e il trasferimento fondi. Quindi sono risparmi personali già tassati all’origine (i libretti postali hanno ritenuta sugli interessi) o comunque frutto di redditi di anni passati.
- €5.000 sono un regalo di matrimonio ricevuto dai genitori, versato tramite due assegni circolari dopo le nozze . Mario allega una dichiarazione firmata dai genitori in cui confermano di aver regalato quella somma ai novelli sposi, e copia degli assegni versati. Trattasi di donazione esente da imposte (importo modesto, tra genitori e figlio) e non è un corrispettivo di attività economica.
- €20.000 restano ancora non giustificati perfettamente. Mario ammette che probabilmente derivano da incassi in contanti del negozio non scontrinati (evasione). In particolare, lui ogni tanto vende piccoli accessori senza battere lo scontrino e accumulava il contante, poi lo versava sul conto personale. Di fronte all’evidenza (non ha altre spiegazioni per quei contanti), decide di collaborare: non può più “giustificarli” come altro, quindi li riconosce come ricavi non dichiarati. Cerca però di limitare i danni: durante l’adesione propone all’ufficio di ridurre la pretesa applicando il margine di ricarico. Dichiara: “È vero, ho venduto in nero merce per circa €20.000 di incassi, ma quella merce l’avevo pur acquistata (non fatturata) spendendo ad esempio €15.000; il mio margine era del 30% circa. Quindi il guadagno effettivo occulto è inferiore”. L’ufficio, riconoscendo la buona fede sul resto e considerato che Mario accetta di pagare, concorda nell’ambito dell’adesione un imponibile aggiuntivo di €20.000 ma ammette una deduzione forfettaria per costi del 15%. Quindi tassa circa €17.000 come maggior reddito (in pratica accogliendo la tesi dei costi occulti da detrarre) e riduce le sanzioni al 1/3.
- Esito: Dei €50.000 inizialmente contestati, €30.000 vengono esclusi dall’accertamento grazie alle prove fornite (stipendio moglie, risparmi, donazione). €20.000 vengono tassati come ricavi non dichiarati; su questi Mario, aderendo, paga IRPEF + IVA relativa + sanzione ridotta 1/3 (30% imposta) + interessi. Mario evita il contenzioso e soprattutto evita conseguenze penali (l’importo evaso è modesto). L’azienda continua l’attività, e Mario ha imparato la lezione: d’ora in poi verserà in banca solo gli incassi regolarmente fatturati, e terrà separati i conti personali.
Commento: il caso di Mario mostra l’importanza di distinguere le componenti: la maggior parte dei movimenti non erano reddito, e infatti l’ufficio ha dovuto riconoscerlo una volta ricevute le evidenze. La parte effettivamente in nero Mario ha preferito ammetterla (sapendo che era difficile spiegarla diversamente) e questo probabilmente ha favorito un accordo più indulgente da parte del Fisco. Se Mario non avesse risposto o avesse tentato risposte deboli (“i 20k contanti? Boh, erano risparmi di casa…” senza prove), probabilmente l’accertamento sarebbe stato molto più oneroso e sarebbe finito in contenzioso con scarse chance su quella quota.
Esempio 2: Il professionista con entrate miste (“Luca”) – Luca è un giovane consulente informatico freelance (regime forfettario). Opera da solo e riceve pagamenti sia con bonifico da clienti sia talvolta in contanti per piccoli lavoretti extra. Nel 2024 sul suo conto personale l’Agenzia riscontra: – Bonifici da vari soggetti privati per un totale di €15.000, molti con causali generiche tipo “grazie”, “per consulenza”. – Versamenti in contanti per €20.000 nell’anno, spesso arrotondati (es. 5.000, 3.000, ecc.).
Luca nella dichiarazione 2024 ha riportato compensi per soli €10.000 (in regime forfettario, quindi niente IVA). L’ufficio sospetta che abbia occultato compensi.
- Contestazione: Luca riceve un invito a fornire chiarimenti per quei €35.000 complessivi non giustificati. L’AdE prospetta la recuperabilità a tassazione come reddito di lavoro autonomo non dichiarato, oltre a potenziali sanzioni per infedele dichiarazione.
- Difesa di Luca: Luca redige una memoria dettagliata:
- Dei €15.000 via bonifici, egli riconosce che una parte sono compensi non fatturati, ma sostiene che una porzione sono rimborsi spese e aiuti familiari:
- €5.000 (in due bonifici da €2.500 ciascuno) provenivano da una società di consulenza con cui collabora, come rimborso di spese di trasferta che Luca aveva anticipato (voli, hotel per un progetto all’estero). Allega la lettera di incarico in cui era previsto il rimborso a piè di lista e le copie delle fatture dei voli e alberghi per importi simili, nonché la rendicontazione che aveva inviato alla società. Dimostra così che quei €5.000 non erano compenso per il lavoro (che lui ha fatturato a parte) ma mero rimborso spese, e spiega di non averlo fatturato perché in regime forfettario i rimborsi non sono soggetti a fattura (qui c’è un po’ di confusione normativa, ma l’intento è chiarire che non era reddito per lui). L’Ufficio inizialmente dubita, ma i documenti mostrano effettivamente spese per ~€5.000 sostenute da Luca nei giorni precedenti ai bonifici.
- €4.000 provengono da due bonifici della mamma di Luca, che vive all’estero, con causale “supporto”. Luca spiega che la madre gli invia periodicamente dei soldi per aiutarlo a pagare l’affitto, dato che lui è a inizio carriera. Allega una dichiarazione della madre (tradotta e apostillata) dove conferma di aver mandato quell’importo come regalo. Fornisce anche i dati fiscali della madre nel paese estero, da cui risulta che ha redditi da pensione sufficienti.
- Restano €6.000 in bonifici che Luca ammette essere pagamenti di clienti privati per piccoli interventi informatici a domicilio, che lui non ha fatturato (evasione). Non avendo altra scusa, su questi €6k è disposto a pagare imposte e sanzioni.
- Dei €20.000 in contanti versati, Luca cerca di giustificare il più possibile:
- €5.000 li dichiara come provenienti da una cassettina di risparmi che aveva accumulato in passato (regali di laurea, risparmi degli anni universitari) e che ha deciso di versare per aprire un piccolo investimento. Non ha prove dirette (essendo contante custodito in casa), ma segnala che il versamento di €5k è avvenuto pochi giorni dopo la laurea e che coincide grossomodo con somme che aveva ricevuto come regali (fornisce i nomi di parenti che gli diedero soldi alla festa di laurea).
- €15.000 in contanti residui Luca non riesce a giustificarli documentalmente. Sospetta lui stesso di aver mischiato incassi non fatturati. Forse alcuni clienti lo hanno pagato in contanti e lui li ha messi in banca. Non potendoli distinguere, di nuovo cede su questi €15k: riconosce che possano essere considerati frutto di lavoro non dichiarato.
- Luca, come professionista, impugna però la questione dei prelievi: l’AdE aveva menzionato anche alcuni prelievi di contante di Luca per €10k, insinuando potessero essere usati per lavoro nero. Luca risponde citando la Corte Cost. 228/2014 e ricorda che essendo lavoratore autonomo non è tenuto a giustificare i prelievi personali. Precisa comunque che li ha usati per spese mediche e familiari (allega ricevute per ~€8k di cure dentistiche pagate in contanti) . L’Ufficio quindi toglie dal tavolo ogni contestazione su quei prelievi.
- Esito: in sede di adesione, l’Ufficio accetta di non tassare €9.000 (5k rimborsi spese + 4k aiuti materni) grazie alle prove. Tassa invece come compensi non dichiarati €21.000 (€6k bonifici clienti + €15k contanti). Luca paga le imposte su 21k (in regime forfettario al 15%, quindi €3.150 circa) più sanzione 90% ridotta a 30% (€945) più interessi minimi. Evita il ricorso, anche perché l’ufficio – riconoscendo la particolarità del caso – non gli applica la IVA (essendo forfettario non la addebita, comunque sul nero tecnicamente non l’aveva incassata). Penalmente, le cifre sono molto basse, quindi nessun problema. Luca d’ora in poi starà più attento: cercherà di fatturare sempre (anche perché in regime forfettario non aveva convenienza a evadere, dato il forfait basso) e di tenere traccia dei regali familiari (magari facendoli mandare con causali chiare).
Commento: il caso di Luca evidenzia alcuni punti: come professionista, è riuscito a far stralciare i prelievi dal discorso e a non farsi tassare i rimborsi spese (che effettivamente non costituivano reddito). Ha invece dovuto cedere sui contanti non tracciati: difendere contante senza pezze d’appoggio è quasi impossibile, se non in misura limitata usando giustificazioni vaghe (risparmi, regali) che raramente convincono per intero. L’adesione è stata utile per limitare le sanzioni e trovare un compromesso rapido. Si nota anche l’attenuante del suo regime: essendo forfettario, l’ufficio non insiste sull’IVA, semplificando il calcolo.
Esempio 3: La famiglia e l’accertamento “sintetico” (caso di privato) – Consideriamo ora un nucleo familiare: Aldo è un dirigente d’azienda con reddito annuo di €100.000, sua moglie Bianca è casalinga senza redditi propri. Bianca ha un conto corrente cointestato col marito, su cui Aldo ogni mese sposta €3.000 dal proprio conto per le spese di casa. Inoltre, sul conto di Bianca affluiscono bonifici periodici del padre di lei (non convivente) che le regala €10.000 all’anno. La famiglia ha un alto tenore di vita: vacanze costose, un’auto di lusso intestata a Bianca, ecc. L’Agenzia delle Entrate avvia un accertamento sintetico sul tenore di vita della famiglia, notando che con €100.000 dichiarati sembrano spendere almeno €150.000 l’anno.
- Contestazione: Aldo viene invitato a giustificare come ha potuto sostenere certe spese (viaggi per €30k, auto con leasing €1.5k/mese, ecc.) con il reddito dichiarato. Inoltre, l’Ufficio ha visto che Bianca, pur priva di reddito, movimenta parecchi soldi sul suo conto (i bonifici dal marito e dal padre). Temono che magari Aldo stesso possa aver fatto transitare altri redditi su quel conto a nome di Bianca. Viene quindi richiesto di chiarire la provenienza dei fondi usati per tali spese e la funzione del conto di Bianca.
- Difesa: Aldo e Bianca, tramite il loro consulente, impostano così la difesa:
- Innanzitutto forniscono un prospetto fonti/impieghi per l’anno: Fonti = €100k reddito netto di Aldo + €10k regalo padre Bianca + utilizzo di €50k da risparmi accumulati negli anni precedenti; Impieghi = €120k spese varie + €40k incremento patrimonio (hanno comprato un’auto nuova). Dunque le fonti (€160k) coprono gli impieghi (€160k). Allegano estratti conto che mostrano il prelievo di €50k da un conto deposito di Aldo (risparmi) per finanziare acquisto auto e spese straordinarie .
- Documentano ciascuna spesa certa: es. rate del leasing auto pagate con addebito su conto di Aldo (risulta dal conto); viaggi pagati con carta di credito aziendale (quindi a carico dell’azienda di Aldo come benefit tassato in busta paga, e allegano certificazione). Molte spese risultano in verità coperte dall’azienda come fringe benefit, quindi non incidono sul reddito familiare.
- Per il conto di Bianca, spiegano che è usato solo come “conto familiare” dove Aldo versa parte del suo reddito già tassato e il suocero invia aiuti. Mostrano i bonifici mensili di Aldo di €3k con causale “mant. famiglia” e li sommano: 12×€3k = €36k, che Aldo ovviamente ha prelevato dal suo stipendio (quindi già tassato). Mostrano i bonifici del padre di Bianca (con causale “regalo”) e allegano una dichiarazione di quest’ultimo. Sottolineano che tutte le somme sul conto Bianca provengono da redditi dichiarati da Aldo o da redditi del padre già tassati all’origine (pensioni). Dunque non c’è alcuna fonte occulta. Inoltre, evidenziano che nessuna spesa di Bianca è ulteriore alle entrate dichiarate: la macchina di lusso è pagata da Aldo (leasing a suo nome), le vacanze pure, ecc. Il conto di Bianca serve solo per pagare la spesa quotidiana e incassare i regali paterni, nulla di più.
- Citano anche la normativa redditometro nuova: il reddito presunto calcolato dall’AdE era €150k vs €100k dichiarati = +50% scostamento, ma evidenziano che comunque €150k è sotto la soglia dei ~€69.700×10 = €697k annui , quindi formalmente l’accertamento sintetico non rispetta la soglia assoluta (questo ovviamente se l’anno è 2024, soglia 69.7k, e reddito presunto 150k > 69.7k – ah no, in questo caso 150k > 69.7k quindi soglia superata, mal esempio; supponiamo fosse 60k vs 40k per far valere l’eccezione, ma facciamo finta per mostrare l’uso dell’argomento).
- Richiamano in ogni caso il principio che se l’ufficio non li avesse invitati al contraddittorio, l’atto sarebbe nullo (ma in questo caso li ha invitati, quindi nulla da eccepire sul punto).
- Esito: l’Agenzia, di fronte a prove così dettagliate, archivia l’accertamento sintetico. Riconosce che le spese di Aldo e Bianca trovano copertura nelle risorse a disposizione (in parte redditi dichiarati, in parte utilizzo di risparmi) . Inoltre, l’aver spiegato la funzione del conto di Bianca come “conto familiare” con flussi tracciati evita ulteriori sospetti: nessun reddito occulto è stato canalizzato su quel conto. Caso risolto senza nemmeno emettere avviso, merito della completezza delle risposte fornite.
Commento: questo scenario mette in luce come in ambito privato sia importante fare un esercizio di riconciliazione completa: elencare tutte le fonti e tutte le spese. Il redditometro non può ignorare evidenze come l’uso di risparmi o di somme esenti: se il contribuente le porta, l’ufficio deve tenerne conto. Si vede anche il vantaggio di separare i conti per persona: se Aldo avesse fatto passare soldi in contanti a Bianca senza traccia, sarebbe stato più complesso difendersi; invece avendo usato bonifici con causale chiara, ha potuto facilmente dimostrare che quei €36k erano parte del suo reddito già tassato spostato. Questo conferma un consiglio chiave: tenere traccia scritta di ogni trasferimento familiare (bonifici, assegni, ecc. con causale), perché in futuro può salvare da malintesi fiscali.
Da questi esempi si evince che la migliore strategia per difendersi è sempre: documentare, documentare, documentare. Ogni spiegazione fornita deve essere supportata, dove possibile, da un pezzo di carta, un estratto conto, un contratto, una ricevuta. La coerenza dei dati e la credibilità complessiva della ricostruzione faranno la differenza tra un accertamento confermato e uno annullato.
Domande frequenti (FAQ)
D1: L’Agenzia delle Entrate può veramente controllare tutti i miei conti bancari?
Sì. La normativa (art. 32 DPR 600/73 e art. 51 DPR 633/72) dà all’Amministrazione finanziaria – e alla Guardia di Finanza – il potere di effettuare indagini finanziarie su qualunque rapporto bancario o finanziario intestato (o cointestato) al contribuente . Tramite l’Archivio dei Rapporti Finanziari (gestito da Banca d’Italia) l’AdE può ottenere da banche, poste, società di gestione carta di credito, etc., l’elenco dei conti e la lista completa dei movimenti su tali conti in un dato periodo. Questo avviene previa autorizzazione interna, ma senza bisogno di avvisare il contribuente in anticipo . In pratica, in caso di controlli approfonditi o verifiche su una posizione fiscale, è routine per l’Ufficio accedere ai dati bancari degli ultimi 5 anni (il periodo ancora accertabile). C’è un principio generale di proporzionalità: le indagini finanziarie dovrebbero attivarsi quando ci sono concreti elementi di evasione o incongruenze, non indiscriminatamente. Ma una volta autorizzate, l’AdE può vedere tutti i movimenti, saldi iniziali e finali, e anche informazioni come i titolari di eventuali cassette di sicurezza (non il contenuto, ma l’esistenza sì). Inoltre, come spiegato, possono estendere la ricerca ai conti di terzi soggetti collegati al contribuente, se ci sono indizi che su quei conti transitino soldi dell’interessato . Ad esempio, se Tizio viene controllato e si scopre che versa regolarmente i suoi incassi sul conto della moglie, l’AdE può chiedere i movimenti anche di quel conto della moglie. L’estensione ai terzi deve però essere motivata da un nesso (parentela stretta, soci in affari, ecc.). In conclusione: oggi il segreto bancario verso il Fisco praticamente non esiste più, i conti possono essere scrutati nel dettaglio.
D2: Cosa si intende esattamente per “prelievo ingiustificato”?
Un prelievo è qualunque somma di denaro che esce dal conto (in contanti allo sportello, tramite assegno bancario, bonifico verso se stessi, ecc.). Si definisce “ingiustificato” quel prelievo per cui, quando il Fisco ne chiede conto, il contribuente non sa indicare a cosa è servito né risulta dalle scritture contabili (nel caso di imprenditore) . Ad esempio, se un’azienda preleva €5.000 dal conto e in contabilità non c’è traccia di quell’uscita (né come pagamento fatture fornitori, né altro), e il titolare non fornisce spiegazioni credibili (“ci ho pagato Tizio in contanti, ecco ricevuta” – se manca, è ingiustificato), allora per il Fisco diventa ingiustificato. La legge presuntiva dice in tal caso: probabilmente hai usato quei 5.000 € per acquisti in nero che hanno generato vendite non dichiarate, dunque li considero ricavi occulti tassabili . Naturalmente, “ingiustificato” in sé non significa illecito penale: magari il titolare li ha usati per scopi leciti privati, ma fiscalmente, se non lo dichiara e non c’è prova, resta senza giustificazione ai fini d’impresa. Per i privati e professionisti, come detto, il prelievo di per sé oggi non genera presunzione di reddito occulto (a meno che non vi sia prova di un reimpiego produttivo, vedi casi di autoriciclaggio), quindi per loro “ingiustificato” ha meno rilievo ai fini fiscali immediati. Ma per un imprenditore, ogni euro che esce dal conto aziendale dovrebbe idealmente avere una destinazione documentata: se non è così, scatta l’allarme. In sintesi, un prelievo ingiustificato è un’uscita di denaro di cui l’azienda/contribuente non riesce a spiegare né dimostrare l’uso.
D3: E cos’è invece un “versamento ingiustificato”?
Specularmente, per versamento (o accredito) s’intende ogni somma in entrata sul conto. Un versamento è “ingiustificato” se non c’è spiegazione né collegamento con operazioni note. L’esempio classico: un commerciante che versa frequentemente contanti sul conto aziendale in aggiunta agli incassi registrati dal registratore di cassa . Se dal registro scontrini risultano €1.000 di incassi al giorno ma lui in banca ne versa €1.500, quei €500 extra quotidiani sono ingiustificati e quasi certamente indicano vendite non scontrinate (nero). Oppure un professionista che riceve bonifici con causali vaghe che non ha fatturato: quelli sono presumibilmente compensi occultati . Anche per i privati vale il concetto: un versamento è ingiustificato se non risulta provenire da redditi ufficiali (stipendi, pensioni, ecc.) e potrebbe indicare entrate sommerse (ad es. un disoccupato che versa sul conto somme cospicue potrebbe stare svolgendo lavoro in nero) . L’onere della prova ricade sul contribuente: deve spiegare da dove arriva quel denaro. Dire semplicemente “ah, li avevo in casa e li ho versati” è una spiegazione, ma potrebbe non bastare: se le cifre sono alte e frequenti, il Fisco difficilmente crederà che uno tenesse decine di migliaia di euro sotto il materasso senza motivo . Vanno fornite spiegazioni più concrete (es. “erano risparmi accumulati in 10 anni, ecco estratti conto di prelievi passati” – ancora difficile, ma qualcosa). Quindi, un versamento ingiustificato è un’entrata senza causa apparente che il Fisco presume reddito occulto finché non viene giustificata con prove.
D4: Se il Fisco mi contesta solo prelievi ma io sono un professionista (lavoratore autonomo), devo comunque giustificarli?
Formalmente no. Come abbiamo spiegato, dopo gli interventi normativi e giurisprudenziali, i prelievi bancari dei professionisti non generano presunzione di ricavo. Dunque una contestazione basata unicamente su prelievi nei confronti di un avvocato, medico, consulente ecc. è giuridicamente infondata e va annullata . In tal caso il professionista, in sede di risposta, può limitarsi a eccepire la non applicabilità della norma (citando la Corte Cost. 228/2014). Tuttavia, nella pratica conviene comunque fornire almeno una spiegazione di massima dei prelievi, per dissipare dubbi e chiudere la questione più rapidamente . Ad esempio, rispondere: “È vero, ho prelevato €10.000 in contanti, ma li ho utilizzati per scopi personali, non correlati alla mia attività: allego le fatture delle cure mediche e spese familiari pagate con quei contanti”. Così l’ufficio è rassicurato che non c’è sotto un’attività sommersa e probabilmente archivierà. In ogni caso, se anche il professionista non fornisce alcuna giustificazione, l’ufficio non dovrebbe comunque emettere accertamento su quei prelievi, perché sa che in giudizio verrebbe censurato. A riprova: ci sono sentenze di Cassazione che annullano gli avvisi che includano prelievi di autonomi. Quindi la regola è: per i soli prelievi di un autonomo non serve giustificare a fini impositivi, ma per un rapporto collaborativo è bene comunque chiarire a grandi linee come quei contanti sono stati usati (sfera privata ecc.), così da evitare ulteriori attenzioni o allargamenti di indagine (es. verso possibili redditi diversi). Se poi il contribuente svolge una posizione “ibrida” (es. è sia professionista che socio d’impresa), allora il discorso può complicarsi: bisogna capire in che veste sono stati fatti i movimenti. Ma in linea generale, oggi l’orientamento è netto: prelievi irrilevanti per autonomi, e se l’AdE dovesse comunque recuperarli a tassazione, il giudice glieli leverà.
D5: Quali sanzioni si rischiano in caso di accertamento bancario?
Le sanzioni amministrative tributarie previste sono quelle per dichiarazione infedele (o per omessa dichiarazione, a seconda dei casi). In termini generali, la sanzione per infedele dichiarazione (art. 1, D.Lgs. 471/97) è attualmente dal 90% al 180% dell’imposta evasa . “Imposta evasa” significa la differenza tra l’imposta che si sarebbe dovuta pagare e quella eventualmente versata per l’anno in questione. Facciamo un piccolo esempio concreto: se l’accertamento bancario individua €50.000 di ricavi non dichiarati da un imprenditore individuale e l’aliquota media IRPEF su quel reddito è, poniamo, 30%, l’imposta evasa è €15.000. La sanzione base sarà tra il 90% e il 180% di €15.000, quindi minimo €13.500, massimo €27.000 . Nella prassi, l’ufficio applica quasi sempre il minimo edittale (90%) salvo circostanze aggravanti, quindi nella maggior parte dei casi reali la sanzione è intorno al 90%. Se il contribuente però definisce l’accertamento con adesione, c’è una riduzione ulteriore: la sanzione si riduce a 1/3 del minimo (nel nostro esempio passerebbe da €13.500 a €4.500). In caso di ricorso e successiva sconfitta in giudizio, la sanzione resta quella iniziale (salvo che il giudice, discrezionalmente, la possa ridurre al minimo se l’ufficio l’avesse aumentata, o in rarissimi casi disapplicarla per obiettiva incertezza normativa – scenario improbabile qui data la chiarezza della norma) .
Oltre alle sanzioni sull’imposta diretta, se i ricavi evasi erano operazioni soggette a IVA, si aggiungono le sanzioni IVA: anch’esse 90-180% dell’IVA evasa . Di solito l’AdE cumula le due (IRPEF/IRES e IVA). Vanno poi conteggiati gli interessi di mora sull’imposta evasa, calcolati dal momento in cui l’imposta andava versata (in genere dal saldo dovuto per l’anno) fino al pagamento effettivo. Gli interessi sono al tasso legale, che negli ultimi anni è stato intorno allo 0,5-1% annuo (ma può variare).
Sanzioni penali: dal punto di vista penale tributario, come detto, l’evasione può costituire reato solo se supera certe soglie. Nei casi da indagini finanziarie, è raro incorrere in reati se si tratta di somme moderate. Ci vorrebbe, ad esempio, più di €2.000.000 di ricavi occultati e oltre €150.000 di imposta evasa per configurare la dichiarazione infedele come reato . Oppure nessuna dichiarazione presentata e oltre €50.000 di imposta evasa per l’omessa dichiarazione. Dunque, la maggior parte dei contribuenti che si vedono contestare versamenti/prelievi non arriva a questi livelli. Se però emergesse un’evasione enorme, l’AdE farebbe la segnalazione in Procura. Per esempio, scoprire milioni su conti non dichiarati può portare a ipotizzare il reato di omessa dichiarazione se proprio non presentavano dichiarazioni . Ma parliamo di situazioni estreme. Nella quotidianità, dunque, la sanzione da mettere in conto è quella amministrativa (il 90% dell’imposta evasa, riducibile a 30% con adesione). Nota: in sede di adesione o conciliazione, si possono ottenere anche riduzioni maggiori sulle sanzioni, talvolta l’ufficio offre un abbattimento ulteriore come compromesso (ad esempio applicare solo il 60% invece del 90%, e poi un terzo di quello). C’è una certa discrezionalità negoziale.
D6: Come incide la “soglia di €1000 giornalieri / €5000 mensili” introdotta nel 2016?
Questa soglia – 1000 € per operazione e 5000 € al mese – funge da filtro quantitativo per l’applicazione della presunzione legale (art. 32 mod.). Significa che l’AdE non considererà ai fini dell’accertamento automatico le movimentazioni bancarie sotto tali importi, almeno per gli imprenditori . In pratica: – Se hai tanti piccoli versamenti o prelievi di importo inferiore a €1000, e nel mese la somma non supera 5000, teoricamente stai al riparo dalla presunzione iuris tantum su di essi . Ad esempio, un bar che preleva €500 in contanti ogni giorno per pagare piccole spese: 500 € < 1000 €, e supponiamo 500 € × 20 giorni lavorativi = 10.000 € nel mese, che supera i 5000 mensili – quindi qui scatta; se invece ne preleva 10 volte in un mese (5000 totali), sta al limite ma non oltrepassa i 5000, quindi formalmente sotto soglia. – L’AdE guarderà i flussi cumulati mensili: se prelevi 300 € al giorno tutti i giorni feriali, fanno circa 6000 € al mese – superato 5000, quindi interverrebbero; se prelevi 200 € al giorno (4200 € mese), no . Se versi 200 € in contanti ogni giorno, analogamente. – Attenzione però: la soglia è pensata per operazioni frazionate normali, non per l’artefatta elusione. Cioè, se uno deliberatamente fa 999 € al giorno, l’AdE potrebbe comunque eccepire che sta aggirando la norma. La norma letteralmente parla di soglia singola e mensile, quindi formalmente se sei sotto non scatta la presunzione. Ma comportamenti frazionati artificialmente potrebbero essere additati come abuso di diritto . Ad esempio, se un imprenditore dicesse “perfetto, allora verso €900 in contanti ogni giorno e così 900×30 = 27.000 € al mese senza presunzione”, il Fisco potrebbe comunque contestare in via induttiva semplice quei 27.000 € – magari non con la presunzione legale, ma dicendo che è evidente che incassa in nero. Quindi la soglia va vista come un “paracadute” per piccole difformità, non come uno scudo per fare i furbi. – La soglia vale in egual modo per versamenti e prelievi nel testo di legge . Quindi anche tanti piccoli versamenti di contante sarebbero esclusi dalla presunzione se singolarmente <1000 e cumulato mensile <5000. Però, come notato, se poi a fine anno uno ha versato 50.000 € a botte da 500, pensi che il Fisco resterà a guardare? Probabilmente no: troverà altre vie. Potrebbe sostenere, ad esempio, che al di sotto delle soglie la presunzione legale non scatta ma rimane comunque una presunzione semplice di evasione, supportata magari da altri elementi (il fatto che non c’erano altre entrate lecite, ecc.) . In giudizio sarebbe più arduo per l’AdE senza la presunzione legale, ma non impossibile se ci sono indizi robusti. – In sostanza, la soglia è stata introdotta per creare una sorta di zona franca per micro-movimenti e evitare di tartassare le piccole anomalie. Se rimani sotto questi limiti, l’ufficio dovrebbe astenersi dall’applicare la presunzione automatica. Non usarla però per costruire impunità su larga scala, perché comunque un giudice potrebbe rilevare l’abuso se le operazioni sotto-soglia sono manifestamente frazionamento artificioso .
D7: In fase di ricorso, posso portare testimoni (es. mio padre a dire che quei soldi me li ha dati lui)?
No, nel processo tributario non è ammessa la testimonianza orale o giurata di terzi . La legge (D.Lgs. 546/92, art. 7) esclude espressamente la prova testimoniale, per cui non si possono citare testimoni da ascoltare in udienza. Tuttavia, come già accennato, è possibile utilizzare le dichiarazioni sostitutive di atto notorio di terzi, da produrre come documenti scritti . Ad esempio, tuo padre può firmarti una dichiarazione in cui attesta di averti donato €10.000 in data X. Questa dichiarazione non ha il valore di una prova testimoniale in senso pieno (non c’è controesame, né giuramento), ma è comunque un indizio scritto che il giudice può valutare liberamente. Spesso, se la dichiarazione è dettagliata e credibile e non c’è nulla che la contrasti, i giudici tributari ne tengono conto e la usano a favore del contribuente. Un modo per rendere la dichiarazione più autorevole è farla autenticare da un notaio, così da avere certezza su chi l’ha resa e quando . Giuridicamente l’autentica non trasforma la dichiarazione in prova “maggiore”, ma le conferisce un’aura di ufficialità.
L’Agenzia delle Entrate dal canto suo in sede di verifica può escutere testimoni (ad esempio la Guardia di Finanza può sentire persone informate sui fatti durante un’indagine penale o amministrativa), ma non può portare testimoni in Commissione perché sa che non valgono . Quindi il processo tributario si basa quasi esclusivamente su prove documentali. Se proprio una questione cruciale dipende dalle affermazioni di terzi e l’AdE non le riconosce, c’è una possibilità: chiedere che il giudice eserciti i poteri istruttori e disponga l’audizione di terzi (o meglio, disponga che l’ufficio li senta). L’art. 7, co. 1, del D.Lgs. 546/92 consente al giudice di richiedere informazioni ad altre amministrazioni o a terzi. Ad esempio, se tu sostieni “quel versamento è il prestito del signor X” e l’AdE non ti crede, potresti chiedere che il giudice ordini all’AdE di raccogliere una dichiarazione dal signor X . È una facoltà usata raramente, in pratica i giudici preferiscono che sia la parte a fornire le prove. Quindi molto meglio raccoglierle tu (dichiarazioni scritte, atti notarili) e produrle spontaneamente. Riassumendo: no testimoni orali in udienza, sì dichiarazioni scritte di terzi – da allegare a memoria o ricorso – che il giudice potrà apprezzare.
D8: Se non rispondo affatto al questionario o all’invito del Fisco, che succede?
Tre cose negative: 1. L’AdE procederà comunque a fare l’accertamento sulla base dei dati che ha, presumendo il peggio . Se tu non dai alcuna controprova, l’ufficio tenderà a confermare integralmente la contestazione: “Non hai saputo (o voluto) giustificare quei €100.000? Allora per noi sono tutti ricavi evasi”. Insomma, avrai perso l’occasione di ridurre o annullare l’addebito prima che diventi atto. 2. Come detto, scatterà la preclusione probatoria: se tu possedevi documenti utili e non li hai prodotti, non potrai poi tirarli fuori in giudizio (sono inutilizzabili) . Questo può essere devastante: magari avevi un contratto di prestito che spiegava tutto, ma se non lo presenti quando richiesto e poi lo tiri fuori dopo, l’AdE chiederà al giudice di non considerarlo e il giudice potrebbe accogliere tale eccezione. 3. L’ufficio può anche comminarti una sanzione amministrativa per mancata collaborazione. In particolare c’è una sanzione (art. 11 D.Lgs. 471/97) per chi omette di fornire risposte a questionari o di esibire documenti richiesti, che attualmente è fino a €2.065. Spesso l’AdE applica forfettariamente €2.000 in questi casi . Dunque, oltre alle imposte evase, ti troveresti anche questa multa “accessoria”. In sintesi, ignorare l’invito è la peggiore scelta possibile. Se proprio non vuoi o puoi rispondere nei dettagli (magari perché stai cercando documenti e non li hai ancora), è meglio presentarsi e chiedere tempo, oppure inviare una risposta parziale dicendo che fornirai integrazioni. Mai fare lo struzzo. A volte i contribuenti non rispondono per paura o perché credono di non avere obbligo: errore. Anche se non c’è obbligo giuridico stretto di rispondere (non è un interrogatorio penale), il non rispondere equivale a perdere la partita 3-0 a tavolino.
D9: Ho ricevuto un accertamento sintetico (redditometro). Devo difendermi allo stesso modo di un accertamento bancario?
In parte sì. La logica è simile: il redditometro presuppone che hai speso più di quanto dichiarato, e quindi devi dimostrare con quali soldi hai finanziato quelle spese. Mentre l’accertamento bancario guarda alle entrate/uscite sul conto, il redditometro guarda al tuo tenore di vita. Quindi la difesa consisterà nel prendere ognuna delle voci di spesa contestate (auto, vacanze, acquisto casa, ecc.) e mostrare con quali fonti lecite l’hai sostenuta . Ad esempio: – Se ti contestano l’acquisto di una casa da €200k, dovrai far vedere che è stata finanziata da mutuo (allegare contratto di mutuo e accredito) e magari dall’uso di risparmi già esistenti (mostrare prelievo dal conto risparmio accumulato negli anni precedenti). Così dimostri che non serviva un reddito annuo ulteriore per comprare la casa. – Se ti contestano che hai spese annuali troppo alte rispetto al reddito (es. pagamenti carta di credito, spese per figli a scuola, ecc.), devi ricostruire come le hai pagate: magari hai utilizzato soldi di un parente (es. usavi una carta di credito intestata a tua madre, o tuo padre ti ha aiutato – mostra estratti di conto terzi da cui provenivano i bonifici per pagare quelle spese). Oppure potresti dimostrare che hai liquidato un investimento e con quello hai vissuto.
In pratica, nel redditometro spesso giova preparare un prospetto “Fonti e Impieghi” dell’anno : da un lato tutte le fonti di denaro avute (redditi dichiarati, utilizzo di risparmi preesistenti con evidenza del saldo conti all’inizio dell’anno, eventuali prestiti ricevuti, donazioni, liquidazione TFR, ecc.), dall’altro tutti gli impieghi (spese certe, incrementi patrimoniali). Se le fonti coprono gli impieghi, la differenza viene meno. Molto spesso la difesa sta nel dimostrare che hai usato redditi esenti o già tassati: il redditometro ignora le fonti esenti (donazioni, vincite, risparmi passati) se non gliele evidenzi. Appena gliele evidenzi, quelle vanno sottratte dall’evasione presunta . Ad esempio, se sostenevo spese alte perché stavo attingendo ai risparmi accumulati negli anni precedenti, quell’aspetto può annullare la presunzione.
Ricordati inoltre due cose specifiche del redditometro: – Dal 2024 c’è la soglia assoluta di ~€69.700 (10× assegno sociale) di reddito presunto accertabile. Se l’ufficio ha fatto un redditometro per importi sotto questa soglia, l’accertamento è nullo per legge . Quindi verifica subito il calcolo: se il reddito sintetico non supera ~70k (aggiornato annualmente), puoi contestare che non si poteva attivare. Questo è un ottimo motivo formale per far annullare l’atto. – Il redditometro richiede contraddittorio obbligatorio: se ti mandano direttamente l’avviso senza averti invitato a spiegare, l’atto è nullo (Cass. SU 26617/2009 lo sancì) . Quindi controlla se prima dell’accertamento ti hanno invitato a fornire chiarimenti. Se no, anche questo è motivo di nullità da far valere.
Per il resto, difendersi in un accertamento sintetico significa portare un po’ gli stessi elementi che si portano negli accertamenti bancari: documenti su donazioni, evidenze di mutui, disinvestimenti, ecc. Spesso i due accertamenti (bancario e sintetico) vanno di pari passo. L’importante è giustificare ogni uscita anomala con entrate note o patrimonio pregresso. E, come sempre, allegare tutti i documenti possibili (contratti, ricevute, estratti). Insomma, il focus cambia (spese invece di incassi), ma la ratio è la stessa: presunzione contro contribuente e necessità di prova contraria da parte sua.
D10: Posso transigere o conciliare in qualche modo nel processo tributario?
Sì. Ci sono due momenti per chiudere la lite evitando il prosieguo: – Accertamento con adesione – di cui abbiamo parlato – avviene prima del ricorso, in sede amministrativa: consente di definire con l’ufficio la questione, con sanzioni ridotte a 1/3. Se l’adesione non c’è stata (o non è andata a buon fine) e si è già in giudizio, esiste comunque la conciliazione giudiziale. In primo grado (Corte Giust. Trib. primo grado) o anche in appello, le parti possono accordarsi per chiudere parzialmente o totalmente la controversia con reciproche concessioni . – Come funziona la conciliazione in giudizio? In pratica, ci si siede (anche solo metaforicamente, via scambio di proposte) e si cerca un accordo: tipicamente l’AdE offre di ridurre qualcosa (imponibile o sanzioni) e il contribuente accetta di pagare senza attendere la sentenza. Se si trova l’accordo, viene redatto un verbale di conciliazione che il giudice omologa. Le sanzioni vengono dimezzate rispetto al normale , e l’atto diventa definitivo a quell’importo concordato.
Esempio: se sei in dubbio di vittoria al 50%, potresti dire all’AdE “chiudiamo a metà strada”: pagherò il 50% delle imposte contestate e basta. L’AdE, dal canto suo, valuta la sua probabilità di vincere: se non è sicura al 100%, può accettare un compromesso. La conciliazione può riguardare sia l’imponibile che le sanzioni. Vantaggi: eviti l’incertezza del giudizio, chiudi subito e le sanzioni sono ulteriormente ridotte (oltre magari allo sconto già concordato sull’imponibile).
Occorre però che entrambe le parti siano d’accordo. L’AdE di solito accetta di conciliare quando capisce che il contribuente ha qualche buon argomento e c’è il rischio che il giudice gli dia ragione almeno in parte. – Inoltre, ricordo che per le liti di modesto valore c’è già all’inizio il reclamo/mediazione obbligatoria (soglia fino a €50.000 imposta): quando presenti il ricorso, esso vale anche come proposta di mediazione. In quella fase (90 giorni) spesso l’AdE fa proposte standard di sconto sanzioni. Ad esempio su un accertamento di €20k imposte e €18k sanzioni potrebbe dire: “paga €20k di imposte e €6k di sanzioni (1/3) e chiudiamo” . È praticamente come un’adesione tardiva. Se accetti, firmate mediazione e fine.
Quindi sì, c’è spazio per accordi transattivi anche nel processo tributario. Bisogna valutare caso per caso la convenienza: se il tuo caso è molto forte, meglio andare avanti e cercare vittoria piena; se è incerto, la conciliazione permette di limitare i danni (e risparmiare tempo e ulteriori spese legali).
D11: Se il conto è cointestato con mia moglie, e contestano movimenti, come funziona l’attribuzione?
L’esperienza mostra che l’AdE tende ad attribuire per intero al contribuente sotto controllo i movimenti su conti cointestati, salvo prova contraria . Cioè, se marito e moglie hanno un conto cointestato e il marito è oggetto di accertamento, l’ufficio presume che quei soldi siano del marito (specie se il marito ha redditi e la moglie no). La cointestazione in sé non implica automaticamente “metà a testa” – principio magari valido in sede civilistica, ma fiscalmente guardano alla disponibilità effettiva. Se il marito è colui che alimenta e usa principalmente il conto, attribuiranno a lui l’intero flusso . Sarà onere del contribuente provare che invece una parte spettava all’altro. Ad esempio, se sul conto comune arrivano €100.000 e l’accertamento è sul marito, quest’ultimo può difendersi dicendo: “Guardate che €60.000 sono stipendio di mia moglie, già tassato – ecco i documenti – quindi non potete imputarli a me” . In tal caso, quell’importo va tolto dall’accertamento perché appartenente all’altro cointestatario (che peraltro magari l’ha dichiarato o non aveva l’obbligo). Oppure, se la moglie non aveva obblighi dichiarativi (es. perché esente) ma quei €60k provenivano da una sua vendita di un immobile, comunque il marito deve farlo presente e documentare che era un’operazione della moglie, non ricavo suo.
Analogamente, per i prelievi su conti cointestati: di default li considerano come prelievi del soggetto target, a meno che si dimostri che servivano a spese dell’altro. Insomma, la cointestazione complica un po’ la difesa perché bisogna separare a posteriori le quote.
Un caso tipico: conti genitore/figlio. Se il genitore è controllato e cointestatario su conto del figlio, i movimenti potrebbero essere esaminati su entrambi. Conviene per questo, come già detto, separare i flussi finanziari per persona il più possibile . Se invece già esistono conti cointestati, in difesa si deve dimostrare la titolarità effettiva delle somme. A volte può essere utile presentare uno storico del conto per far vedere che è la moglie ad aver versato certi importi (dal suo datore di lavoro) e a prelevare per spese sue, quindi il marito in realtà non c’entra con quel 60%. È un lavoro di ricostruzione.
In conclusione, l’AdE farà un po’ “di tutta l’erba un fascio” attribuendo tutto al contribuente indagato; spetta a quest’ultimo scorporare e rivendicare le quote altrui con prove documentali. Questa posizione dell’AdE è stata confermata anche in Cassazione in diverse pronunce: la semplice cointestazione non salva dal fisco se in realtà eri tu ad avere la disponibilità delle somme.
D12: Devo temere controlli sul contante che tengo in casa?
Non direttamente dal Fisco, ma facciamo chiarezza. Possedere contante in casa non è illecito di per sé (ci sono limiti all’uso nei pagamenti, ma detenere non è vietato). L’Agenzia delle Entrate però di solito non viene a sapere quanti contanti hai sotto il materasso, a meno che non ci sia un’azione della Guardia di Finanza. Cosa può succedere: se durante il contraddittorio tu dichiari candidamente “guardate che quei €20.000 li tenevo in casa e li ho versati ora in banca”, potresti attirare l’attenzione della Guardia di Finanza . Magari l’AdE, sentendo ciò, potrebbe delegare accertamenti alla GdF, che può fare anche un accesso domiciliare autorizzato alla ricerca di registri paralleli o contanti nascosti (succede in casi seri, tipo quando sospettano grosse casseforti con nero) . Se trovano molto contante non dichiarato potrebbero anche sequestrarlo cautelativamente in attesa di giustificazione. Questo in situazioni estreme. In generale, detenere risparmi in casa non è reato. Tuttavia, bisogna considerare anche le normative antiriciclaggio: versare e prelevare troppo contante, soprattutto su conti bancari, può far scattare segnalazioni all’UIF (Unità di Informazione Finanziaria) da parte delle banche. Le banche sono obbligate a segnalare movimenti inusuali di contante (per dire: versamenti sopra €10k mensili frequenti) perché indice di possibile riciclaggio. Queste segnalazioni possono poi essere usate dal Fisco o dalla GdF per approfondire. Insomma, tenere contante in casa in sé non viola legge, ma se poi lo reimmetti nel circuito (versandolo sul conto, usandolo per acquisti di beni registrati) devi poter spiegare da dove proveniva originariamente. Se hai giustificazioni (erano risparmi da redditi dichiarati, ecc.) ok; se no rischi di confermare l’evasione.
Quindi, riassumendo: il Fisco non fa “perquisizioni” in casa per cercare soldi, salvo deleghe speciali e sospetti gravi. Ma se tu stesso dichiari di avere/nascondere contante, potresti incentivare controlli. E soprattutto, quel contante prima o poi dovrai usarlo: se un domani lo versi o lo spendi, quell’operazione potrebbe essere vista come riciclaggio (vedi autoriciclaggio di cui sopra) se non sai dimostrarne la provenienza lecita. Quindi sì, si può detenere cash, ma alla fine per stare tranquilli conviene non accumulare nero nemmeno in contanti, perché eventuali controlli futuri lo faranno emergere. Di per sé però l’Agenzia Entrate non può contestarti “hai tot soldi sotto il cuscino” se non li hai mai inseriti in operazioni tracciabili.
D13: Qual è la miglior strategia preventiva per evitare questi problemi?
Potremmo riassumerla in poche parole: trasparenza e separazione. In particolare:
– Tracciare il più possibile i flussi finanziari in modo coerente con l’attività. Se hai un’impresa o fai il professionista, evita di fare versamenti di contante continui: incassa preferibilmente con metodi tracciati (bonifico, carte) e fattura tutto. Se incassi contanti, cerca di versare in banca esattamente ciò che hai fatturato in quel periodo, così i conti tornano . Prelievi contante dal conto aziendale? Fallo solo se hai scontrini o note spese da rimborsare, o se stai prelevando utili già tassati in modo formale. Insomma, riduci al minimo la “zona grigia”.
– Tieni conti separati per attività e per famiglia . Apri un conto dedicato all’azienda/professione e usalo solo per operazioni dell’attività. Usa un conto personale distinto per le tue cose private, e se possibile non mescolare. Se proprio devi trasferire soldi dall’attività a te, fallo con operazioni chiare (prelievo utili, stipendio da amministratore, ecc.). Idem, se puoi, tieni conti separati per ogni membro della famiglia (moglie, figli maggiorenni): in questo modo, se controllano te, non vedranno movimenti degli altri e viceversa . La compartimentazione dei conti è una difesa naturale contro confusioni.
– Documenta le operazioni straordinarie: se ricevi una grossa somma una tantum (es. un aiuto familiare importante, o vendi un immobile), non accontentarti del bonifico: fai un atto scritto. Ad esempio, un contratto di prestito tra privati con firma autenticata, oppure se è una donazione consistente meglio fare un atto pubblico di donazione (che tra l’altro è obbligatorio sopra certa soglia). Se vendi un bene, conserva il rogito o il contratto di vendita e la traccia del pagamento ricevuto. Tutto ciò costituirà in futuro la tua prova. Se è un evento come la restituzione di una cauzione, fatti rilasciare ricevuta dal locatore. Ogni evento eccezionale che comporta movimenti di soldi dovrebbe avere un “pezzo di carta” dedicato.
– Sfrutta i limiti di legge a tuo vantaggio, senza abusarne: il redditometro adesso colpisce solo oltre €70k di spese e 20% di scostamento – se sei un contribuente con spese modeste, il rischio di un sintetico è molto basso. Per le imprese, conosci le soglie 1000/5000: questo non significa che devi fare furbate frazionando, ma se di norma stai sotto quei livelli non dovresti avere problemi . Se invece la tua attività comporta movimenti di contante superiori, sappi che entrerai nel radar.
– Gioca d’anticipo se possibile: se sai di avere operazioni anomale e sospetti che potrebbero farti un controllo (ad esempio, hai fatto grossi versamenti di provenienza dubbia e magari la banca ti ha avvisato di una segnalazione), puoi anche spontaneamente presentare una memoria all’Agenzia spiegando quelle operazioni prima ancora che ti chiedano . Non è una pratica comune, ma nulla lo vieta. Ad esempio, se sai di aver ricevuto €100k dall’estero da un parente, potresti inviare all’AdE una comunicazione dichiarando “ho ricevuto questa donazione, ecco i documenti, la segnalo per trasparenza”. Così se in futuro controllano, la cosa è “già spiegata”.
– In dichiarazione dei redditi, usa i quadri giusti: per esempio, se ricevi somme esenti dall’estero, dichiarale nel quadro RW (monitoraggio estero) se dovuto. Anche se non tassabili, hai mostrato di averle. Non esiste un quadro dove dichiarare le donazioni ricevute nazionali (non c’è obbligo), ma puoi conservare la documentazione nel tuo cassetto fiscale. Ogni traccia in più di trasparenza può aiutare.
– Conserva a lungo la documentazione: spessissimo i controlli arrivano a 4-5 anni di distanza. Mantieni estratti conto, ricevute e contratti almeno per 8-10 anni se puoi. Così non ti troverai sguarnito.
In breve, la strategia preventiva è: non creare zone d’ombra nei tuoi movimenti finanziari. Più è tutto spiegabile e documentato, meno spazio avranno le presunzioni fiscali di colpirti.
D14: Ho perso in primo grado (Commissione/Corte tributaria): vale la pena fare appello?
Dipende dai motivi della sconfitta e dall’importo in gioco. Considerazioni: – Le Corti di Giustizia Tributaria di primo grado spesso decidono molto sui fatti e sulle prove presentate. Se hai perso perché i giudici hanno ritenuto non provate le tue giustificazioni fattuali (es. non ti hanno creduto sul prestito familiare perché non c’era abbastanza prova), in appello dovresti riuscire a portare eventualmente nuovi elementi (se ammessi) o sperare in una valutazione diversa con le stesse prove – il che è incerto. In appello, tecnicamente, sarebbe vietato produrre nuovi documenti che avresti potuto produrre prima, a meno che non siano una reazione a qualcosa o non fossero disponibili. Se però li hai, prova a presentarli: a volte li accettano, specie se integrano cose già dette. – Se invece ritieni che abbiano sbagliato l’interpretazione della legge (ad es. il giudice di primo grado ha ignorato che i prelievi del professionista non valgono e ti ha dato torto lo stesso, o non ti ha riconosciuto i costi presunti nonostante Cassazione) allora certamente fai appello . Perché il giudice di secondo grado può correggere quegli errori giuridici. In appello puoi enfatizzare la giurisprudenza favorevole (anche sopravvenuta). – Un altro vantaggio dell’appello: puoi far valere novità giurisprudenziali sopravvenute. Esempio, la Cassazione nel 2025 emette una pronuncia proprio sul tuo tema che ti dà ragione, e la sentenza di primo grado era del 2024 che non ne teneva conto. In appello lo segnali e potrebbe ribaltare tutto . – Considera anche i costi: presentare appello comporta spese legali, il contributo unificato (che aumenta in appello) e il rischio di dover pagare le spese anche all’Agenzia se perdi. Se l’importo contestato è basso (qualche migliaio di euro), forse non conviene economicamente continuare, a meno che tu non abbia una questione di principio o un chiarissimo errore da far valere. Se l’importo è elevato, conviene quasi sempre proseguire (magari anche fino in Cassazione) se ci sono motivi difensivi validi, perché la posta in gioco giustifica i costi aggiuntivi. – Nota: in appello c’è una particolarità – non c’è più la riduzione delle sanzioni. Cioè, se in primo grado avevi ottenuto la conciliazione o qualcosa, in appello non c’è quell’obbligo di tentare la mediazione. Ma puoi comunque proporre una conciliazione anche lì.
In sostanza: valuta le ragioni della sconfitta. Se hai altri assi nella manica (nuovi documenti ammessi o forti argomenti di diritto non considerati), appello conviene. Se hai perso perché le tue prove erano deboli, prova a rinforzarle in appello se possibile; se non puoi, allora considerare di fermarsi può avere senso per non incrementare costi su costi. Ogni caso fa storia a sé.
D15: In conclusione, qual è la posizione “del debitore” (contribuente) da valorizzare?
Dal punto di vista del contribuente, soprattutto in giudizio, è importante ribadire alcuni principi di garanzia: – Il diritto a non essere tassato due volte sullo stesso reddito, né su somme che reddito non sono affatto. Spesso occorre far notare se l’AdE sta in pratica tentando di tassare capacità contributiva inesistente. Ad esempio, se su un conto confluiscono soldi già tassati (stipendi, risparmi da redditi pregressi), evidenziarlo e sottolineare che tassarli di nuovo violerebbe il principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.) . – Il diritto al contraddittorio e a far valere le proprie spiegazioni: il contribuente non deve essere trattato come colpevole senza appello. Se l’AdE ha ignorato prove evidenti o non ha atteso le spiegazioni, va segnalato che ha ecceduto i suoi poteri . – Non si può pretendere l’impossibile: se vengono contestate decine di piccoli movimenti di anni addietro, il contribuente onesto deve far capire al giudice (con pacatezza e fermezza) che è irragionevole pretendere, ad esempio, che ricordi e documenti come ha speso ogni centesimo prelevato per scopi personali a distanza di 5 anni . Deve emergere che il sistema tributario non vuole colpire chi semplicemente usa il proprio denaro per sé (la Corte Cost. l’ha detto chiaramente nel 2014), ma solo chi genera ricavi occulti. Quindi il contribuente può impostare una difesa retorica del tipo: “Le mie movimentazioni bancarie possono sembrare anomale, ma trovano spiegazione in vicende non imponibili; tassarle significherebbe colpire ricchezza inesistente, in violazione dell’art. 53 Cost.” . Accompagnando questo ragionamento di equità con evidenze concrete, spesso si può persuadere il giudice della bontà della difesa, almeno in parte. – In generale il “punto di vista del debitore” da valorizzare è che il Fisco ha sì poteri forti, ma non illimitati: le presunzioni sono relative, non assolute. Quindi se il contribuente porta prova contraria seria, l’AdE ha il dovere di tenerne conto. Far notare quando l’Ufficio ha ignorato prove ovvie (es. tassato bonifico chiaramente da stipendio già tassato) è cruciale per minarne la credibilità. Il giudice deve percepire che il contribuente sta chiedendo solo di essere tassato sul vero reddito, non su ciò che reddito non è. Questa è la chiave di volta.
In conclusione, la difesa efficace negli accertamenti da indagini finanziarie consiste in un mix di: conoscenza tecnica delle norme e sentenze (per far valere i propri diritti e limiti del Fisco) e puntuale ricostruzione fattuale di ogni somma (per convincere che non c’è evasione, o comunque ridimensionarla). Da debitore/contribuente, non bisogna farsi sopraffare dalla presunzione di colpevolezza, ma reagire attivamente fornendo tutto il quadro: se lo si fa bene, spesso si riesce a ribaltare la presunzione o almeno a ridurla notevolmente.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati bonifici in entrata non registrati in contabilità? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestati bonifici in entrata non registrati in contabilità?
Vuoi sapere cosa rischi e come impostare una difesa solida?
👉 Prima regola: dimostra la natura reale delle somme ricevute, distinguendo tra ricavi imponibili e movimenti che non generano reddito (prestiti, rimborsi, trasferimenti familiari).
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Bonifici accreditati sul conto aziendale o professionale non annotati nei registri contabili;
- Entrate considerate automaticamente ricavi non dichiarati;
- Movimenti bancari di origine non giustificata;
- Differenze tra i flussi bancari e le scritture contabili;
- Segnalazioni da controlli incrociati su clienti e fornitori.
📌 Conseguenze della contestazione
- Recupero delle imposte sui bonifici ritenuti ricavi occulti;
- Sanzioni per dichiarazione infedele fino al 90% della maggiore imposta;
- Interessi di mora sulle somme accertate;
- Rischio di contestazioni penali in caso di importi elevati e continuativi;
- Maggiori controlli fiscali sulle annualità successive.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- I bonifici contestati derivano da ricavi imponibili o da prestiti, rimborsi, donazioni?
- Esiste documentazione (contratti, ricevute, scritture private) che ne giustifichi la natura?
- Le somme erano già state tassate o dichiarate in altro modo?
- L’accertamento si fonda su prove concrete o solo su presunzioni bancarie?
- Sono stati rispettati i termini di legge per l’accertamento?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Estratti conto bancari con causali dei movimenti;
- Contratti di prestito, scritture private o atti notarili;
- Documentazione di rimborsi spese o trasferimenti familiari;
- Fatture già emesse e dichiarazioni fiscali;
- Comunicazioni con clienti e fornitori relative ai pagamenti.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la non imponibilità dei bonifici (prestiti, donazioni, rimborsi, trasferimenti interni);
- Contestare l’automatica riqualificazione come ricavi occulti;
- Evidenziare la buona fede e l’assenza di volontà evasiva;
- Richiedere annullamento in autotutela per contestazioni basate su presunzioni;
- Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
- Attivare difesa penale mirata in caso di accuse di occultamento rilevante.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza i movimenti bancari e la contabilità aziendale;
📌 Verifica la legittimità della contestazione e i margini di difesa;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste nei giudizi fiscali e, se necessario, nei procedimenti penali;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura dei flussi finanziari.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e accertamenti bancari;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su ricavi occulti e movimentazioni finanziarie;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Gli accertamenti fiscali sui bonifici in entrata non registrati non sempre sono fondati: spesso derivano da presunzioni errate o da movimentazioni di natura non imponibile.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la provenienza delle somme, evitare la riqualificazione come ricavi occulti e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.
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