La Validità delle Presunzioni Semplici negli Accertamenti Fiscali e Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso di accertamento basato su presunzioni semplici? In questi casi, l’Agenzia delle Entrate utilizza indizi, dati e ricostruzioni presuntive per ritenere che il reddito dichiarato non corrisponda a quello effettivo. Le presunzioni semplici sono uno degli strumenti più usati nei controlli fiscali, ma la legge richiede che siano gravi, precise e concordanti. Se mancano questi requisiti, l’accertamento può essere contestato e annullato.

Quando l’Agenzia delle Entrate usa le presunzioni semplici
– Se vi sono incongruenze tra i redditi dichiarati e il tenore di vita del contribuente
– Se emergono differenze tra i movimenti bancari e le dichiarazioni fiscali
– Se le spese sostenute risultano sproporzionate rispetto ai redditi dichiarati
– Se i ricavi d’impresa appaiono inferiori a quelli stimati in base agli indici ISA o agli studi di settore
– Se l’Ufficio presume vendite in nero, compensi non dichiarati o ricavi occulti

Conseguenze degli accertamenti basati su presunzioni
– Recupero a tassazione dei redditi presunti non dichiarati
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Maggiore esposizione a controlli fiscali negli anni successivi
– Nei casi più gravi, contestazioni penali per dichiarazione infedele

Come difendersi dagli accertamenti presuntivi
– Contestare la mancanza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza delle presunzioni
– Dimostrare con prove concrete la legittimità dei redditi dichiarati
– Produrre documentazione bancaria, contrattuale e contabile che giustifichi entrate e uscite
– Evidenziare vizi di motivazione e difetti istruttori dell’accertamento
– Richiedere la rideterminazione del reddito accertato su basi più realistiche
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento totale o parziale della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare gli indizi utilizzati dall’Agenzia e verificarne la reale attendibilità
– Contestare l’utilizzo di presunzioni prive di fondamento o basate su semplici sospetti
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi procedurali dell’accertamento
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio personale e aziendale da pretese fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della correttezza dei redditi dichiarati
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: le presunzioni semplici non possono sostituire prove certe. Se l’accertamento non rispetta i requisiti di gravità, precisione e concordanza, può essere annullato in giudizio. È fondamentale predisporre una difesa tecnica e documentata per contrastare contestazioni ingiuste.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e penale tributario – spiega la validità delle presunzioni semplici negli accertamenti fiscali e come difendersi legalmente.

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Introduzione

Gli accertamenti fiscali basati su presunzioni sono un potente strumento nelle mani dell’Amministrazione finanziaria per contrastare l’evasione, ma rappresentano al contempo un’insidia per i contribuenti. In sostanza, una presunzione tributaria permette al Fisco di dedurre l’esistenza di materia imponibile non dichiarata (come redditi o ricavi “in nero”) a partire da indizi o fatti noti, in assenza di prove dirette . Da un lato questo facilita l’accertamento – l’ufficio può fondare la pretesa fiscale su elementi indiretti invece che su documentazione certa –; dall’altro lato aggrava la posizione del contribuente, che dovrà farsi carico di confutare l’assunto presuntivo dimostrando il contrario con idonee prove contrarie (documenti, riscontri contabili, e perfino testimonianze, oggi ammissibili per iscritto nel processo tributario) .

Questa guida, aggiornata a settembre 2025, analizza in dettaglio la validità delle presunzioni semplici negli accertamenti fiscali e fornisce indicazioni su come difendersi efficacemente. Verranno esaminate le diverse tipologie di presunzioni previste dall’ordinamento tributario italiano (legali e semplici), con i relativi riferimenti normativi, e gli orientamenti giurisprudenziali più recenti (fino al 2025).

Nozioni generali: presunzioni legali vs presunzioni semplici

Dal punto di vista giuridico, la presunzione è uno strumento probatorio disciplinato sia dal codice civile (artt. 2727-2729 c.c.) sia da leggi tributarie speciali. In generale, si distinguono due categorie principali di presunzioni :

  • Presunzioni legali: sono stabilite direttamente da una norma di legge. La legge attribuisce a determinati fatti noti un preciso significato ai fini fiscali vincolante per il giudice . Ad esempio, l’art. 32 del D.P.R. 600/1973 presume che i movimenti su conti correnti bancari non giustificati siano redditi imponibili sottratti a tassazione . Le presunzioni legali possono essere relative (iuris tantum), quando ammettono prova contraria da parte del contribuente, oppure assolute (iuris et de iure), quando non è ammessa alcuna prova contraria. Nel sistema fiscale le presunzioni assolute sono rarissime, mentre quelle relative sono diffuse e comportano un’inversione dell’onere della prova: il Fisco considera provato il fatto presunto (es. il carattere imponibile di un accredito bancario), lasciando al contribuente l’onere di dimostrare una diversa realtà (es. che quell’accredito non è un ricavo, ma un trasferimento già tassato o un prestito) .
  • Presunzioni semplici: non sono fissate da una specifica norma, ma risultano da un ragionamento induttivo svolto dall’ufficio accertatore (e poi valutato dal giudice) sulla base di indizi e fatti concreti . La legge limita l’uso delle presunzioni semplici al requisito che gli indizi su cui si fondano siano “gravi, precisi e concordanti” (art. 2729, co.1 c.c.) . In altre parole, da uno o più fatti noti il Fisco inferisce un fatto ignoto (ad esempio ipotizza ricavi in nero a partire da gravi incongruenze nei conti), ma solo se questi elementi indiziari convergono in modo univoco verso la medesima conclusione. La presunzione semplice, a differenza di quella legale, non è predeterminata dalla legge: è frutto di una valutazione caso per caso. Spetta quindi al giudice tributario vagliare la validità della presunzione semplice, verificando che gli indizi siano sufficientemente solidi e tra loro coerenti . Se ritiene soddisfatti tali requisiti, la presunzione diviene idonea prova nel processo, ferma restando la possibilità per il contribuente di fornire una prova contraria puntuale.
  • Presunzioni “super-semplici” (o presunzioni prive di requisiti): si tratta di un’ulteriore categoria, prevista in situazioni eccezionali, in cui la legge consente all’Amministrazione finanziaria di prescindere persino dai requisiti di gravità e precisione degli indizi. Un esempio è dato dall’accertamento d’ufficio in caso di mancata presentazione della dichiarazione: l’art. 39, comma 2 del D.P.R. 600/1973 autorizza il Fisco a determinare il reddito anche con presunzioni semplici prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza . In altri termini, se un contribuente non dichiara nulla, l’Ufficio può ricostruire il reddito imponibile basandosi su dati e percentuali forfettarie o altri elementi indicativi, senza l’obbligo di fornire indizi “pieni”. Questa è una forma di presunzione estremamente favorevole all’Amministrazione (talora definita presunzione “semplicissima” in dottrina), giustificata dalla totale assenza di collaborazione del contribuente. Resta comunque ferma la possibilità per quest’ultimo di contestare l’accertamento anche in tali casi, ad esempio dimostrando che la ricostruzione operata è irragionevole o errata nei presupposti.

Onere della prova e valutazione delle presunzioni nel processo tributario

Un aspetto cruciale legato alle presunzioni è la ripartizione dell’onere probatorio nel contenzioso tributario. In linea generale, spetta all’Amministrazione finanziaria provare i fatti costitutivi della maggiore pretesa impositiva, salvo che intervenga una presunzione legale a suo favore che ne agevoli la prova invertendo l’onere sul contribuente. Con una presunzione legale (es.: movimenti bancari ex art. 32), l’Ufficio fornisce il presupposto e tocca al contribuente dimostrare il contrario . Con le presunzioni semplici, invece, l’Ufficio deve presentare indizi solidi: secondo la Cassazione, l’accertamento tributario può fondarsi anche su presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti, “senza necessità che l’Ufficio fornisca prove certe” . Pertanto, se l’Ufficio ha fornito indizi validi, il giudice tributario di merito dovrà valutare, singolarmente e nel loro insieme, tali elementi presuntivi e solo se li ritiene dotati di gravità, precisione e concordanza considererà idoneo il quadro indiziario, dando poi ingresso alla valutazione delle prove contrarie offerte dal contribuente .

Nel 2022 il legislatore è intervenuto sul punto introducendo nell’art. 7 del D.Lgs. 546/1992 (disciplina del processo tributario) il comma 5-bis. Tale norma ha previsto esplicitamente che il giudice deve considerare in modo organico tutte le presunzioni offerte dall’Ufficio e accertarsi che siano sufficienti e circostanziate ai fini probatori. Questa novità ha suscitato inizialmente dubbi interpretativi circa un possibile aggravio degli oneri probatori a carico dell’Amministrazione. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha chiarito che “l’art. 7, co.5-bis […] non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti, ma è coerente con […] assegnare all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale” . In altri termini, la riforma non ha introdotto criteri probatori più gravosi a carico del Fisco, ma ha solo ribadito concetti già vigenti. In sostanza, non ha abrogato l’uso delle presunzioni semplici, ma ha rimarcato che esse devono essere oggetto di attento scrutinio da parte del giudice, il quale deve valutarne la convergenza e la qualità probatoria complessiva. Rimane fermo che in assenza di una presunzione legale che sposti l’onere, spetta al Fisco provare i fatti su cui si basa l’accertamento, mentre il contribuente può limitarsi a contestarne la fondatezza evidenziando lacune o fornendo controprove. D’altro canto, in presenza di una presunzione legale (es. movimenti bancari ex art. 32), il contribuente dovrà attivarsi per superarla presentando prove contrarie convincenti.

Nota: Va segnalato, infine, che nell’ordinamento tributario italiano non vige un principio generale di inutilizzabilità delle prove acquisite illegittimamente, salvo specifici divieti di legge. La Corte di Cassazione ha infatti affermato che «non esiste […] nell’ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite», principio che vale solo nel processo penale . In altri termini, l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti per l’accertamento fiscale non ne comporta l’inutilizzabilità in mancanza di una specifica previsione contraria . Ciò significa che, nel contesto degli accertamenti fiscali, anche elementi probatori raccolti in maniera irregolare potrebbero essere utilizzati dall’Ufficio, a meno che una norma non ne sancisca espressamente il divieto. Questo orientamento (consolidato in Cassazione sin dal 2001) incide indirettamente sulle presunzioni: il contribuente non potrà eccepire, in via generale, la nullità di un’indagine finanziaria o documentale solo perché svolta contra legem sperando di far cadere la presunzione basata su di essa, salvo ricorrano specifiche tutele (es. violazione del domicilio fiscale o della privacy bancaria, che in alcuni casi hanno portato all’annullamento degli atti).

Tipologie di accertamenti “presuntivi” e casi tipici

Le presunzioni possono entrare in gioco in vari tipi di accertamento fiscale, soprattutto quando la contabilità ufficiale del contribuente risulta inattendibile o il suo tenore di vita appare incoerente col reddito dichiarato. Di seguito esaminiamo le principali forme di accertamento basate (in tutto o in parte) su presunzioni, con esempi pratici e riferimenti normativi.

Accertamento analitico-contabile (metodo ordinario)

Prima di affrontare gli strumenti presuntivi, è utile richiamare il metodo ordinario di accertamento, quello analitico-contabile. In tal caso l’Amministrazione verifica voce per voce i dati dichiarati (ricavi, costi, rimanenze, ecc.) sulla base delle scritture contabili regolarmente tenute . Se la contabilità è formalmente corretta e attendibile, prevale il principio della sua fedeltà fino a prova contraria . L’Ufficio può dunque rettificare il reddito dichiarato solo individuando specifiche irregolarità o omissioni documentate (ad es. ricavi non contabilizzati comprovati da fatture o movimentazioni, costi indebiti perché privi di documentazione, duplicazioni, ecc.) . In assenza di tali riscontri certi, i libri contabili regolari fanno fede. L’onere di provare eventuali maggiori ricavi incombe sull’Amministrazione finanziaria.

(Esempio): Si immagini un’azienda con contabilità regolare. La Guardia di Finanza effettua una verifica e non riscontra irregolarità sostanziali, ma solo lievi errori formali. L’Agenzia non potrà procedere ad accertare maggiori ricavi basandosi su semplici sospetti: dovrà rinvenire prove concrete, come vendite non dichiarate evidenziate da un confronto incrociato di fatture, oppure costi dedotti indebitamente senza pezze giustificative. In mancanza di tali evidenze, ogni rettifica sarebbe illegittima.

Accertamento analitico-induttivo (contabilità inattendibile e indizi di ricavi in nero)

Quando, pur esistendo una contabilità, questa presenta anomalie o incongruenze tali da minarne in parte l’attendibilità, la legge consente un accertamento analitico-induttivo (art. 39, co. 1, lett. d, D.P.R. 600/1973) . In questo scenario, l’Ufficio non ignora del tutto le scritture, ma le rettifica integrandole con dati extrapolati da indizi e calcoli presuntivi. Tipicamente ciò avviene quando alcune poste contabili risultano poco credibili o anti-economiche. Un caso classico è quello di un’impresa che dichiara margini di guadagno irrisori o addirittura perdite a fronte di un volume di costi elevato: se questa palese antieconomicità non è giustificata da cause oggettive, il Fisco può presumere l’esistenza di ricavi non dichiarati (o di costi fittizi) per rettificare il reddito . La Cassazione definisce infatti l’antieconomicità un “parametro di sostenibilità” del reddito dichiarato, la cui marcata presenza è considerata indice di evasione fiscale . In tali casi, pur senza contabilità completamente irregolare, è legittimo un accertamento basato su presunzioni semplici (gravi, precise e concordanti) ex art. 39 co.1 lett. d), che rettifichi i ricavi dichiarati perché inverosimili secondo logica economica .

Dal punto di vista probatorio, l’accertamento analitico-induttivo mantiene natura iuris tantum: il fisco trae inferenze sfavorevoli, ma il contribuente può ancora difendersi dimostrando che i dati anomali hanno in realtà spiegazioni lecite. Ad esempio, un margine di profitto apparentemente impossibile potrebbe dipendere da eventi straordinari (merci invendute per eventi calamitosi, svendite sottocosto per cessazione attività, errori di contabilizzazione poi corretti, ecc.). Il giudice dovrà valutare se le giustificazioni fornite sono plausibili e sufficienti a escludere la pretesa evasiva. In mancanza di spiegazioni convincenti, però, comportamenti aziendali antieconomici rendono legittima la ricostruzione presuntiva dei ricavi omessi.

(Esempio): Una società commerciale dichiara per vari anni ricavi annuali di 100.000 € a fronte di acquisti per 95.000 €, ottenendo utili minimi (5%) o addirittura perdite. I margini risultano ben al di sotto della media di settore (ad es. margini attesi del 30%). Se l’imprenditore non fornisce spiegazioni (come l’essere in fase di start-up, o pratiche di dumping per conquistare clientela, ecc.), l’Agenzia delle Entrate potrà presumere che in realtà parte dei ricavi non siano stati contabilizzati. Potrà ad esempio applicare un coefficiente di ricarico del 30% sui costi dichiarati, stimando ricavi reali per 123.500 € e quindi ricavi non dichiarati per 23.500 €. Il contribuente potrà contestare portando elementi che spieghino l’anomalia (es. il settore era in crisi, vendite promozionali eccezionali, ecc.). Se però tali prove non convincono, il giudice potrà confermare l’accertamento presuntivo basato sull’antieconomicità gestionale.

Accertamento induttivo “puro” o extracontabile

Si parla di accertamento induttivo puro (detto anche “extracontabile”) quando l’Ufficio prescinde completamente dalle scritture contabili del contribuente e determina il reddito con metodi induttivi liberi, basandosi su dati e notizie raccolti altrove (art. 39, co. 2 D.P.R. 600/1973) . Questo è lo strumento più drastico, riservato ai casi in cui la contabilità risulti inattendibile nel suo complesso o addirittura inesistente. La norma elenca infatti presupposti tassativi per procedere in questo modo, ad esempio :

  • omessa presentazione della dichiarazione annuale dei redditi;
  • mancata tenuta delle scritture contabili obbligatorie o loro sottrazione a verifica;
  • irregolarità gravi e diffuse nella contabilità (false indicazioni, doppie fatture, vendite “in nero” documentate, ecc.) tali da renderla globalmente inaffidabile;
  • altre violazioni analoghe che compromettano integralmente i libri.

In presenza di tali condizioni, il Fisco è autorizzato a ignorare del tutto i dati contabilizzati e a ricostruire il reddito con ogni mezzo logico: può utilizzare percentuali medie di ricarico, consumi di materie prime, dati bancari, confronti con studi di settore, e così via . Ad esempio, se in un maglificio la Guardia di Finanza scopre che manca il registro di magazzino, impedendo di valutare le rimanenze, ciò di per sé giustifica l’accertamento induttivo puro . In tal caso l’Agenzia potrebbe stimare la produzione tessile in base ai chilogrammi di filato acquistati (presumendo tot capi prodotti per kg) e ricavare il reddito presunto da lì.

Non è richiesto, nell’induttivo puro, che ogni maggior ricavo ricostruito sia supportato da uno specifico indizio grave: una volta provata l’assoluta inattendibilità della contabilità, la legge consente presunzioni anche “super-semplici” (senza requisiti di precisione) pur di determinare un imponibile ragionevole . Naturalmente, la stima deve avere un criterio razionale e rispettare il principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost.: ricostruzioni arbitrarie o manifestamente sproporzionate sarebbero illegittime . Il contribuente, dal canto suo, può contestare l’accertamento extracontabile dimostrando ad esempio che le basi di calcolo usate dal Fisco sono errate o che ha elementi a discarico. Ma in assenza di errori macroscopici, l’induttivo puro offre al Fisco un ampio margine di manovra probatoria e rende molto difficile per il contribuente fornire una prova contraria esaustiva, proprio perché la ricostruzione si fonda su dati di massima.

(Esempio): Un ristorante non ha tenuto il registro dei corrispettivi né il libro inventari, e la verifica fiscale appura inoltre che molti scontrini non venivano emessi. L’Agenzia procede in via induttivo pura: basandosi sugli acquisti di cibo e bevande, stima il numero di coperti serviti e calcola i ricavi presunti applicando un prezzo medio a pasto. Determina così un reddito non dichiarato di 50.000 €. Il ristoratore impugna l’atto sostenendo che parte dei cibi acquistati è andata sprecata per black-out elettrici (merce deperita) e che i prezzi medi applicati erano inferiori a quelli standard. Se riesce a provare almeno in parte queste circostanze (esibendo documenti sulla merce avariata, listini applicati più bassi), potrebbe ottenere una riduzione della pretesa. In caso contrario, l’accertamento extracontabile verrà con ogni probabilità confermato integralmente.

Accertamento sintetico del reddito delle persone fisiche (Redditometro ed “Evasometro”)

Figura 1: Rappresentazione grafica dell’incrocio dei dati finanziari e di spesa per il calcolo dell’evasometro (strumento di accertamento sintetico evoluto introdotto dal 2024).

L’accertamento sintetico, disciplinato dall’art. 38 del D.P.R. 600/1973, è lo strumento con cui l’Amministrazione finanziaria determina induttivamente il reddito complessivo di una persona fisica basandosi sulle manifestazioni di capacità contributiva riscontrate, anziché sulle risultanze della dichiarazione dei redditi. In altre parole, attraverso il cosiddetto redditometro il Fisco ricostruisce il reddito presunto di un contribuente partendo dalle spese sostenute, dal tenore di vita, dagli investimenti e dall’incremento patrimoniale emersi in un dato periodo. È una tipica presunzione legale relativa: una volta che l’Ufficio accerta la presenza di determinati elementi indicativi di capacità contributiva (le cosiddette spese-indice, ad esempio l’acquisto di beni di lusso, il possesso di immobili o auto di grossa cilindrata, elevati pagamenti con carte, viaggi costosi, etc.), scatta l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente . In pratica, la legge consente di presumere che il contribuente abbia avuto redditi non dichiarati tali da finanziare quelle spese. Se il reddito dichiarato ufficialmente è molto inferiore a quello calcolato in via sintetica, spetta al contribuente dimostrare che il maggior reddito presunto in realtà non esiste o esiste in misura inferiore .

La normativa prevede specifiche soglie di tolleranza prima di far scattare un accertamento sintetico, proprio per evitare contestazioni eccessivamente capziose. Ad esempio, già da tempo è stabilito che il reddito accertato sinteticamente debba eccedere di almeno un 20% quello dichiarato (per almeno due periodi d’imposta) perché vi sia imposizione. Inoltre, a partire dal 2024, il tradizionale redditometro è stato sostituito da un sistema più mirato noto come “evasometro” . Il Decreto Legislativo n. 108/2024 ha introdotto un doppio requisito: l’accertamento scatta solo se si verificano entrambe le seguenti condizioni :

  • uno scostamento di almeno +20% tra il reddito dichiarato dal contribuente e quello ricostruito tramite le spese e le altre informazioni patrimoniali note;
  • una differenza assoluta superiore a €70.000 (pari a circa dieci volte l’assegno sociale annuo) tra il reddito dichiarato e quello presunto calcolato dal Fisco .

Queste soglie puntano a filtrare i casi di potenziale evasione rilevante, evitando di attivare accertamenti per scostamenti minimi o marginali. Il nuovo evasometro adotta inoltre tecniche avanzate di analisi dati, incrociando in modo massivo informazioni finanziarie e fiscali (anche a livello internazionale), per concentrare l’attenzione sui contribuenti con profilo di rischio elevato . Ad esempio, sono monitorati i soggetti con grandi movimenti di denaro verso l’estero, con debiti fiscali oltre 50.000 €, con “partite IVA apri e chiudi” sospette, con anomale cessazioni di attività e altre situazioni indicative. L’obiettivo dichiarato è ridurre i falsi positivi (accertamenti verso chi in realtà non nasconde redditi, finanziando invece le spese con risparmi o redditi esenti) e concentrare le risorse sui veri evasori.

Dal punto di vista del contribuente, l’accertamento sintetico impone di giustificare le spese effettuate in eccesso rispetto ai redditi dichiarati. Fondamentale è la fase di contraddittorio preventivo: l’Agenzia delle Entrate, prima di emettere l’atto, deve invitare il contribuente a fornire spiegazioni e prove sul proprio tenore di vita e sulle fonti di finanziamento delle spese (questo confronto è obbligatorio ed è causa di nullità dell’atto se omesso, vista la natura ampiamente presuntiva dello strumento). In sede di contraddittorio, il contribuente potrà esibire documentazione e chiarimenti per dimostrare, ad esempio, che le uscite anomale sono state coperte con redditi già tassati o esenti – come disinvestimenti di risparmi, indennità non imponibili, vincite o donazioni – e non da redditi “in nero”. Cruciale è comprendere che, secondo la Cassazione, tale prova contraria non richiede di correlare ogni singola spesa a uno specifico introito: è sufficiente provare di aver avuto a disposizione, nel periodo d’imposta, entrate lecite aggiuntive tali da poter ragionevolmente finanziare il proprio livello di spesa . Ad esempio, se Tizio nel 2024 ha dichiarato 30.000 € ma ha acquistato un’auto da 50.000 €, potrà difendersi dimostrando che nello stesso anno ha realizzato una plusvalenza esente vendendo titoli azionari per 40.000 €, oppure che disponeva di risparmi accumulati negli anni precedenti. Non è necessario provare che proprio quei 40.000 € siano stati utilizzati per pagare l’auto: basta documentare il possesso e la disponibilità di tali somme extra, non soggette a tassazione, rendendo verosimile che siano servite a sostenere le spese contestate . La Cassazione (ord. n. 4731/2025) ha recentemente cassato una decisione di merito che pretendeva la prova “diabolica” di collegare ogni euro speso a uno specifico flusso finanziario, chiarendo che un simile onere “non è previsto dalla legge” e finirebbe per vanificare il diritto di difesa del contribuente .

Se il contribuente fornisce spiegazioni convincenti e documentate, l’Ufficio dovrà prenderle in considerazione e, se del caso, ridurre o annullare la pretesa. In caso contrario, si procederà con l’emissione dell’avviso di accertamento sintetico. Anche dopo l’emissione, restano comunque possibili tutele: il contribuente può adire strumenti deflativi (es. accertamento con adesione, tentando un accordo per ridurre sanzioni ed evitare il giudizio) oppure ricorrere direttamente al giudice tributario per far valere le proprie ragioni in contenzioso.

(Esempio): Il sig. Rossi dichiara €40.000 di reddito nel 2024. Dalle banche dati, l’Agenzia rileva che nello stesso anno ha sostenuto spese per circa €130.000 (acquisto di un’auto di lusso, rate di mutuo, viaggi all’estero, ristrutturazione di casa). Dopo aver invitato Rossi a chiarire la discrepanza, emerge che il contribuente aveva ricevuto in donazione dai genitori €100.000 qualche anno prima, attingendo proprio a tali risorse per le spese. Rossi produce gli atti notarili e gli estratti conto che attestano la donazione e la presenza di quel denaro sul conto. Queste prove dimostrano che l’elevato tenore di vita è stato finanziato da disponibilità patrimoniali pregresse, e non da redditi occulti. L’Ufficio, preso atto, archivia (o comunque ridimensiona) l’accertamento. Se invece Rossi non avesse fornito spiegazioni adeguate, l’evasometro avrebbe segnalato il caso per un accertamento formale, data la doppia condizione di scostamento: +225% (130k vs 40k) e +90.000 € rispetto al dichiarato, ben oltre le soglie di tolleranza. In mancanza di giustificazioni, l’Agenzia avrebbe presumibilmente accertato un maggior reddito di circa €90.000, sul quale calcolare imposte evase e sanzioni.

Presunzioni basate su indagini finanziarie e movimenti bancari

Un’altra fonte frequente di presunzioni fiscali è costituita dai controlli bancari. L’art. 32 del D.P.R. 600/1973 (per le imposte sui redditi) e l’omologo art. 51 del D.P.R. 633/1972 (IVA) autorizzano l’Amministrazione a ottenere informazioni sui conti correnti e rapporti finanziari del contribuente e stabiliscono una presunzione legale (iuris tantum) in base alla quale:

  • tutti i versamenti (accrediti) sul conto, se il contribuente non ne indica la provenienza, si presumono ricavi o compensi non dichiarati;
  • tutti i prelevamenti dal conto, se il contribuente non ne giustifica la destinazione, si presumono costi in nero che hanno finanziato ricavi anch’essi non dichiarati (in quanto, ragiona il Fisco, perché qualcuno ritira del denaro se non per pagare fornitori o spese non emerse in contabilità?).

Questa doppia presunzione bancaria è potentissima: sposta completamente l’onere della prova sul contribuente, il quale deve fornire per ciascuna movimentazione non giustificata un’idonea spiegazione, pena la tassazione dell’importo come reddito sottratto . Le soglie di applicazione sono minime: anche versamenti di piccola entità possono essere contestati (non esiste una “franchigia” di tolleranza per i versamenti) , mentre per i prelevamenti la norma prevede un limite (attualmente €1.000 giornalieri o €5.000 mensili, per evitare di considerare rilevanti piccoli prelievi frazionati) .

Attenzione: dal 2014 una parte di questa disciplina è stata dichiarata incostituzionale. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 228/2014, ha infatti dichiarato illegittima la norma nella parte in cui estendeva tale presunzione anche ai lavoratori autonomi (professionisti) , ritenendola arbitraria. Oggi, dunque, la regola dei prelievi non giustificati vale unicamente per i soggetti esercenti attività d’impresa, mentre per i professionisti e i privati l’Ufficio non può più presumere ricavi occulti dai prelevamenti ex lege. Resta ferma invece per tutti la presunzione sui versamenti: ogni accredito ingiustificato, a prescindere dal soggetto, è considerato dal Fisco un potenziale ricavo in nero. Ciò non toglie che, nella pratica, prelievi anomali o molto ingenti effettuati da un privato possano comunque destare sospetti e indurre l’Ufficio a ulteriori approfondimenti; semplicemente, non c’è più una presunzione legale automatica a supporto, e l’eventuale accertamento dovrà essere costruito con presunzioni semplici (indizi) o altri elementi.

Onere della prova: la presunzione bancaria opera come inversione dell’onere probatorio a favore del Fisco. Come sottolineato dalla Cassazione, una volta acquisiti i dati bancari spetta al contribuente provare analiticamente che quei movimenti non hanno natura imponibile . Non basta una giustificazione generica (“era un prestito”, “trasferivo fondi tra miei conti”): occorre documentare puntualmente la provenienza di ogni versamento (esibendo magari il contratto di mutuo o la quietanza del prestito ricevuto, la copia dell’assegno con cui un familiare ha donato la somma, ecc.) . Dichiarazioni di terzi o spiegazioni vaghe difficilmente superano la presunzione, che per giurisprudenza costante richiede una prova contraria “analitica” per ciascun movimento . Se il contribuente omette di giustificare anche solo parte degli importi, l’accertamento verrà confermato per la quota corrispondente .

(Esempio): L’Agenzia rileva sul conto di un commerciante una serie di versamenti per totali 200.000 € in un anno, nonostante egli abbia dichiarato ricavi per solo 120.000 €. Inoltre ci sono prelievi non spiegati per 50.000 €. Il contribuente viene convocato: egli prova, con bonifici e contratti, che 80.000 € versati provenivano da rimborsi di un finanziamento ottenuto da una società collegata, e che 20.000 € erano il ricavato di vendita di un’auto usata di famiglia (operazioni non imponibili). Restano però €100.000 senza giustificazione: per questi, l’Ufficio presume ricavi in nero e li aggiunge al reddito tassabile. Quanto ai prelievi, essendo soggetto d’impresa, su 50.000 € non giustificati viene applicata la presunzione di acquisti “in nero” corrispondenti a vendite non dichiarate per pari importo.

Data la rigidità di questo meccanismo, la difesa del contribuente richiede un lavoro meticoloso di raccolta prove. Bisogna ricostruire il flusso finanziario di ogni movimento contestato, eventualmente anche riliquidando la contabilità per includervi ciò che era stato omesso (se fiscalmente irrilevante) e dimostrare la coerenza tra i conti e le dichiarazioni. Qualora alcune somme non possano essere documentate (ad es. prelievi utilizzati per spese personali in contanti di cui non si ha traccia), conviene evidenziare almeno che non riguardavano ricavi: spesso si cerca di dimostrare che servivano per spese private o donazioni a terzi, nel tentativo di farle qualificare come ambito “extra-fiscale”. Tuttavia, queste strategie non sempre funzionano, poiché il giudice potrebbe ritenere non provato che i contanti prelevati non siano rientrati in attività economiche.

Da notare che la giurisprudenza più recente ha introdotto qualche correttivo equilibratore a favore del contribuente. In particolare, è stato riconosciuto che per i soggetti imprenditori si possa tenere conto anche di eventuali costi correlati ai ricavi bancari presunti. Ad esempio, la Cassazione ha ammesso che l’imprenditore, come contro-presunzione, possa invocare l’applicazione di una percentuale di costo medio (redditività) sugli importi versati, così da tassare solo il margine di utile effettivo . Ciò mitiga la “doppia presunzione” in base alla quale ogni euro versato sarebbe tutto profitto: considerando una percentuale di costi (desumibile dal settore o da altri elementi), si può dedurre che una parte di quei versamenti servì a coprire spese dell’attività, e solo la restante quota è reddito imponibile. Si tratta di un approccio ancora in evoluzione, ma segnala l’attenzione dei giudici a non oltrepassare i limiti della ragionevolezza nella quantificazione del reddito presunto.

Un ulteriore limite all’uso disinvolto delle presunzioni bancarie riguarda i conti intestati a terzi (familiari, soci, prestanome). La Cassazione ha stabilito che l’Amministrazione non può automaticamente imputare al contribuente movimenti rilevati su conti di altri soggetti, a meno di provare che questi ultimi erano nella sua effettiva disponibilità (ad esempio conti cointestati, deleghe con utilizzo sistematico, movimenti finanziari chiaramente riconducibili all’attività del contribuente) . In assenza di tali elementi, un accertamento basato su conti altrui è illegittimo: non basta la mera relazione personale (parentela, convivenza) per estendere la presunzione. Questo principio tutela da indebite “contaminazioni”: ciascuno risponde solo dei propri conti, salvo prova di una interposizione fittizia di persone.

Presunzione di distribuzione degli utili occulti ai soci (società a ristretta base)

Nel campo delle imposte sui redditi vige un’ulteriore presunzione, sviluppata dalla giurisprudenza, che interessa le società di capitali a ristretta base (pochissimi soci, spesso legati da vincoli familiari o da rapporti di fiducia). In tali casi la Cassazione ha più volte affermato che eventuali utili extrabilancio (ricavi in nero non dichiarati dalla società) si presumono distribuiti proporzionalmente ai soci stessi . Si tratta di una presunzione legale relativa di origine giurisprudenziale: non è espressamente codificata da una norma, ma è talmente consolidata da essere applicata come regola di giudizio. La ratio risiede in una massima di esperienza: in una piccola società, i soci (spesso amministratori o comunque consapevoli dell’andamento aziendale) tenderanno verosimilmente a dividere tra loro gli utili occulti anziché lasciarli inutilizzati nelle casse sociali .

Gli effetti pratici sono notevoli: il Fisco, una volta accertati maggiori ricavi a livello societario (tassati in capo alla società per IRES e, se del caso, IVA), può immediatamente imputarli anche ai soci come dividendi nascosti percepiti nel medesimo periodo, ai fini IRPEF. Non è necessario che l’Amministrazione provi effettivi flussi di denaro dai conti sociali ai soci, né altre evidenze contabili del passaggio . La presunzione si fonda infatti sulla struttura stessa della compagine sociale: pochi soci, spesso un unico socio che detiene il 100%, implicano un controllo totale sulle risorse dell’ente e la possibilità di spartirsi gli utili occulti senza formalità tracciabili .

Come sempre, trattandosi di presunzione iuris tantum, è ammessa la prova contraria da parte del contribuente-socio. Tuttavia, fornire tale prova non è affatto semplice. Il socio deve dimostrare di non aver ricevuto quegli utili, ad esempio provando che la somma in questione è rimasta nelle casse sociali e impiegata in qualche attività dell’azienda (reinvestimento, accantonamento a riserva occulta per futuri investimenti, ecc.) . Si comprende la difficoltà: spesso questa viene definita una “prova diabolica”, perché implica dimostrare un fatto negativo (“non ho preso quel denaro”) in un contesto opaco. La mera assenza di evidenze di versamenti sul conto personale del socio non basta, dato che per definizione, trattandosi di utili in nero, non vi saranno tracciamenti ufficiali. Soprattutto nei casi di socio unico, la presunzione è così forte che il socio non può limitarsi a una generica negazione: dovrà portare elementi concreti che facciano ritenere plausibile che quei proventi extracontabili siano rimasti nell’alveo societario o siano stati altrimenti destinati altrove senza suo coinvolgimento . Ad esempio, potrebbe cercare di dimostrare che tali somme sono state impiegate per pagare in nero dipendenti o fornitori (il che comunque configurerà altre violazioni, ma almeno supporta la tesi che il socio non se ne è avvantaggiato personalmente).

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24536 del 17/09/2025, ha di recente ribadito la legittimità di questo meccanismo presuntivo e la necessità di prove rigorose per vincerlo . In quel caso una s.r.l. a socio unico aveva occultato parte dei ricavi: il giudice di merito aveva annullato l’imputazione ai fini IRPEF del socio per mancanza di evidenze di trasferimenti monetari. La Cassazione ha invece censurato quella decisione, ricordando che non occorrono tracce bancarie degli utili in nero e che il socio, avendo il totale controllo dell’ente, non può esimersi se non provando in modo chiaro che i maggiori utili sono rimasti in azienda o attribuiti ad altri soggetti . Nel caso specifico, la difesa del socio non aveva fornito alcuna prova concreta in tal senso, per cui la presunzione ha prevalso confermando la tassazione a suo carico.

Va segnalato che ultimamente si intravede un orientamento più indulgente verso i soci di minoranza o estranei alla gestione. In alcune pronunce si è riconosciuto che, se un socio riesce a dimostrare di non aver avuto alcuna ingerenza né conoscenza della gestione societaria, la presunzione di distribuzione potrebbe essere ritenuta superata per la sua quota . Ad esempio, se Tizio è socio al 20% ma completamente estraneo all’amministrazione (socio di capitale puro) e prova di non aver mai percepito utili né partecipato agli affari, potrebbe ottenere di non vedersi attribuiti pro-quota gli utili occulti, eventualmente concentrando la tassazione in capo ai soci amministratori effettivi. Si tratta però di spiragli applicativi, possibili solo in situazioni ben documentate: la regola generale rimane quella della presunzione di distribuzione a tutti i soci, proporzionalmente, e la difesa del socio “incolpevole” è un percorso in salita che richiede prove molto solide.

(Esempio): Alfa S.r.l. (due soci, 60% e 40%) sottrae imponibile dichiarando 100.000 € in meno di ricavi. Il Fisco notifica un avviso alla società per il maggior reddito IRES e IVA, e parallelamente rettifica il reddito personale dei due soci attribuendo loro utili extra per 60.000 € e 40.000 € rispettivamente. I soci impugnano sostenendo che il denaro non è mai uscito dalle casse aziendali. L’indagine bancaria in effetti non trova bonifici o assegni a loro favore. Tuttavia, la società non riesce a indicare dove siano finiti quei 100.000 € (cassa ufficiosa? spese sottotraccia?). Il giudice, in applicazione della presunzione, darà ragione al Fisco: in mancanza di una diversa destinazione provata, è logico ritenere che i due soci – date le quote e il controllo che avevano – si siano divisi l’utile occulto. Solo se, poniamo, il socio di minoranza documentasse che il socio di maggioranza ha prelevato in nero l’intera somma per sé (magari attraverso fatture false a se stesso), potrebbe sperare di evitare la propria tassazione, dirottando l’intero reddito occulto sull’altro (ipotesi che comunque vedrebbe quest’ultimo tassato per l’intero importo).

Domande frequenti (FAQ)

D: Quando un contribuente rischia un accertamento basato su presunzioni?
R: Ogni volta che, durante un controllo, emergono difformità o anomalie tra quanto dichiarato e quanto risulta dai fatti. Ad esempio, se vengono scoperti versamenti bancari non giustificati, se il tenore di vita (spese, acquisti) appare incongruente con il reddito dichiarato, se la contabilità presenta irregolarità gravi o omette documentazione, l’Ufficio può fondare l’accertamento su presunzioni . In breve, la presunzione scatta quando i dati ufficiali del contribuente non appaiono attendibili e il Fisco dispone di indizi concreti di imponibile non dichiarato.

D: Qual è la differenza tra presunzione legale e presunzione semplice?
R: La presunzione legale è espressamente prevista da una norma tributaria e vincola il giudice: stabilisce che da un certo fatto noto si deve inferire un dato fiscale (salvo prova contraria, se è iuris tantum). Esempio: l’art. 32 D.P.R. 600/1973 presume che i versamenti bancari non giustificati siano redditi occulti . La presunzione semplice, invece, non è fissata da una norma rigida ma nasce da un ragionamento del Fisco basato su indizi vari; il giudice la valuta liberamente, a patto che gli indizi siano gravi, precisi e concordanti . In sostanza, la presunzione legale ha fonte normativa e spesso inverte l’onere della prova (obbligando il contribuente a discolparsi), mentre la presunzione semplice richiede al Fisco di costruire un quadro indiziario robusto che convinca il giudice caso per caso.

D: Cosa si intende per “presunzioni super-semplici” e quando si applicano?
R: Si tratta di presunzioni ancora più “deboli”, utilizzabili in casi eccezionali quando il contribuente non ha nemmeno presentato dichiarazione o la contabilità è completamente inattendibile. In tali situazioni (art. 39, co. 2 D.P.R. 600/1973), l’Ufficio può determinare il reddito anche con presunzioni prive dei requisiti di gravità e precisione , ad esempio applicando parametri forfettari o medie di settore. È un potere induttivo molto ampio, giustificato dalla mancanza totale di collaborazione del contribuente. Va però usato nel rispetto della ragionevolezza: stime puramente arbitrarie verrebbero annullate in giudizio .

D: Come funziona l’onere della prova nel processo tributario in presenza di presunzioni?
R: In generale, nel processo tributario l’Agenzia delle Entrate deve provare i fatti su cui si basa l’accertamento, a meno che una presunzione legale non sposti l’onere sul contribuente. Con una presunzione legale (es. i versamenti bancari ex art. 32), l’Ufficio fornisce la base (il fatto noto) e tocca al contribuente dimostrare il contrario . Con le presunzioni semplici, invece, l’Ufficio deve presentare indizi solidi: se li produce e risultano convincenti, starà poi al contribuente fornire elementi di prova contraria efficaci in giudizio . La recente riforma del 2022 (art. 7, co. 5-bis D.Lgs. 546/92) non ha introdotto criteri probatori più gravosi a carico del Fisco, ma ha solo ribadito concetti già vigenti . In sintesi, senza presunzioni legali vale la regola che “chi afferma prova” (onere al Fisco), mentre con una presunzione legale è il contribuente a dover fornire la prova contraria per smentire l’assunto del Fisco.

D: Quali strumenti difensivi ha il contribuente contro un accertamento fondato su presunzioni?
R: In primo luogo, ha diritto a un contraddittorio con l’Ufficio: può presentare memorie, documenti e spiegazioni già in fase amministrativa (ad es. giustificando i movimenti bancari, documentando che certe spese sono state finanziate con redditi esenti, ecc.). È fondamentale raccogliere e produrre tutta la documentazione possibile: contratti, fatture, estratti conto, ricevute, per dimostrare la provenienza di entrate o la natura delle spese contestate . Dal 2023 è ammessa anche la testimonianza scritta nel processo tributario, che può essere utilizzata per supportare le proprie tesi (ad esempio, dichiarazioni giurate di terzi che confermano un prestito o una donazione ricevuta). Se l’accertamento appare infondato o eccessivo, il contribuente può presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (già Commissione Tributaria) chiedendo l’annullamento, eventualmente assistito da un professionista. In sede contenziosa, cercherà di evidenziare le lacune del quadro presuntivo del Fisco (indizi non così gravi o contraddittori) e di rafforzare le proprie controprove. In alternativa, può valutare strumenti come l’accertamento con adesione: negoziando con l’Ufficio una definizione bonaria, talvolta si riesce a ottenere un consistente sconto su sanzioni e maggior imposta, evitando i rischi del giudizio.

D: Cosa succede se il giudice accerta che le presunzioni del Fisco non erano valide?
R: Se in giudizio emerge che le presunzioni utilizzate dall’Ufficio non rispettano i requisiti di legge – ad esempio, gli indizi non erano così univoci, oppure manca del tutto una base logica – il giudice tributario annullerà in toto o in parte l’accertamento. In pratica, la pretesa fiscale cade per la parte fondata su elementi presuntivi insufficienti . Ad esempio, se un accertamento redditometrico è stato emesso senza instaurare il contraddittorio con il contribuente o basandosi su spese-indice poi smentite, l’atto impositivo verrà annullato. Allo stesso modo, una rettifica fondata su sole congetture (indizi non graviprecisi) verrà cassata dal giudice. In presenza invece di presunzioni solide, l’accertamento verrà confermato e il contribuente dovrà pagare le imposte evase più interessi e sanzioni (tipicamente salate, dal 90% al 180% dell’imposta non versata). Va ricordato che, se l’importo evaso supera le soglie penali, l’esito del giudizio tributario può avere riflessi anche sul piano penale (reato di dichiarazione infedele o omessa).

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate basato su presunzioni semplici (spese, indici, incongruenze) e non su prove dirette? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate basato su presunzioni semplici (spese, indici, incongruenze) e non su prove dirette?
Vuoi sapere quando queste presunzioni sono valide e come puoi difenderti?

👉 Prima regola: le presunzioni semplici hanno valore solo se sono gravi, precise e concordanti. Se mancano questi requisiti, l’accertamento può essere annullato.


⚖️ Quando scattano le contestazioni basate su presunzioni

  • Differenze tra redditi dichiarati e spese sostenute (redditometro, indagini finanziarie);
  • Incrementi patrimoniali non giustificati;
  • Scostamenti dagli indici di settore, dagli ISA o dai margini medi di mercato;
  • Movimenti bancari considerati automaticamente ricavi non dichiarati;
  • Anomalie contabili o irregolarità formali elevate a prova di evasione.

📌 Conseguenze dell’accertamento

  • Ripresa a tassazione dei redditi ritenuti non dichiarati;
  • Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele;
  • Interessi di mora sulle somme recuperate;
  • Rischio di ulteriori accertamenti negli anni successivi;
  • Possibili contestazioni penali se i maggiori imponibili superano le soglie di rilevanza.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Le presunzioni utilizzate dall’Agenzia sono realmente gravi, precise e concordanti?
  • L’accertamento contiene una motivazione concreta o solo formule generiche?
  • Esistono documenti che giustificano le spese o i movimenti bancari contestati?
  • I redditi dichiarati erano congrui rispetto alla reale capacità contributiva?
  • Sono stati rispettati i termini e le procedure di legge per l’accertamento?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Estratti conto bancari con causali dei movimenti;
  • Contratti di mutuo, leasing o finanziamenti;
  • Giustificativi di spese sostenute da terzi (es. familiari);
  • Bilanci, registri IVA e scritture contabili;
  • Perizie e relazioni tecniche per dimostrare la congruità dei valori dichiarati.

🛠️ Strategie di difesa

  • Contestare la mancanza dei requisiti legali delle presunzioni;
  • Dimostrare con documenti l’origine lecita dei fondi o la natura non imponibile delle somme;
  • Evidenziare che errori formali non possono essere equiparati a evasione;
  • Richiedere l’annullamento in autotutela se l’accertamento si basa solo su presunzioni generiche;
  • Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
  • Difesa penale mirata in caso di contestazioni per dichiarazione fraudolenta.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza le presunzioni utilizzate nell’accertamento;
📌 Verifica la legittimità e la solidità degli indizi raccolti dall’Agenzia;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce strategie preventive per ridurre i rischi di accertamenti presuntivi.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e accertamenti fiscali;
✔️ Specializzato in difesa contro accertamenti basati su presunzioni semplici;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le presunzioni semplici negli accertamenti fiscali hanno valore solo se rispettano i requisiti di gravità, precisione e concordanza. In caso contrario, possono essere annullate.
Con una difesa mirata puoi dimostrare l’insufficienza delle prove, ridurre drasticamente sanzioni e interessi ed evitare conseguenze penali.

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  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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