Fatture Da Cartiera Palese: Come Una Società Può Dimostrare La Buona Fede Nel Contenzioso Tributario

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per utilizzo di fatture provenienti da una cartiera palese? In questi casi, l’Ufficio presume che la società abbia dedotto costi e detratto IVA da operazioni inesistenti, in quanto la controparte non era un’impresa reale ma una semplice “cartiera”. Le conseguenze possono essere molto pesanti: recupero delle imposte, sanzioni fino al 200% e contestazioni penali per dichiarazione fraudolenta. Tuttavia, se l’impresa è in buona fede, è possibile difendersi dimostrando la regolarità dei controlli effettuati e l’effettiva esecuzione delle operazioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le fatture da cartiera palese
– Se la società fornitrice non ha struttura, personale o mezzi per svolgere l’attività dichiarata
– Se l’impresa risulta priva di sede reale o è stata costituita solo per emettere fatture fittizie
– Se i pagamenti risultano anomali, circolari o non coerenti con l’operazione
– Se emergono incongruenze tra fatture emesse e attività effettivamente svolte
– Se l’Ufficio presume che la società committente fosse consapevole della natura fittizia del fornitore

Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione dei costi dedotti e dell’IVA detratta
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Inserimento della società in liste di controllo fiscale per anni successivi
– Denuncia penale per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti

Come dimostrare la buona fede della società
– Documentare la regolarità dei contratti, ordini e corrispondenza commerciale con il fornitore
– Produrre prove dell’effettiva esecuzione delle prestazioni o consegna dei beni (documenti di trasporto, rapporti di intervento, certificazioni)
– Dimostrare la tracciabilità dei pagamenti effettuati con mezzi bancari
– Contestare la presunta conoscenza della natura fittizia del fornitore
– Evidenziare di aver svolto controlli ragionevoli sulla controparte (visure camerali, DURC, certificazioni fiscali)
– Richiedere la riqualificazione della contestazione per ridurre le sanzioni

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione commerciale e fiscale relativa alle operazioni contestate
– Valutare la legittimità della contestazione e la possibilità di dimostrare la buona fede della società
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi formali dell’accertamento
– Difendere la società davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio aziendale e dei soci da conseguenze sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– Il riconoscimento della buona fede della società, con esclusione delle sanzioni
– La riduzione significativa delle somme dovute
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: nelle contestazioni da cartiera, il Fisco tende ad attribuire automaticamente la consapevolezza della frode alla società che ha utilizzato le fatture. È fondamentale dimostrare la buona fede e l’adozione di cautele adeguate per difendersi in modo efficace.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e penale tributario – spiega come una società può dimostrare la buona fede nel contenzioso tributario in caso di contestazioni per utilizzo di fatture da cartiera palese.

👉 La tua società è stata accusata di aver utilizzato fatture da cartiera? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo la tua posizione, verificheremo la legittimità della pretesa e costruiremo la strategia difensiva più efficace per proteggere i tuoi interessi.

Introduzione

Le “fatture da cartiera” sono fatture emesse da società fittizie – le cosiddette società cartiere – create appositamente per generare documenti contabili falsi o per operazioni inesistenti . Tali fatture hanno l’unico scopo di consentire ad altre imprese di abbattere indebitamente il carico fiscale, tramite costi fittizi o crediti IVA inesistenti. Nel gergo tributario si parla di cartiera palese quando ci si trova di fronte a una società di comodo la cui natura fittizia è manifestamente evidente: ad esempio, quando presenta numerosi indizi di inesistenza sostanziale, quali mancanza di struttura aziendale, di dipendenti o di attività economica reale .

L’utilizzo di fatture da cartiera configura una grave violazione tributaria, con risvolti sia fiscali che penali. In sede di accertamento fiscale, l’Amministrazione Finanziaria tende a disconoscere i costi e l’IVA relativi a tali fatture, sostenendo che le operazioni sottostanti non sono genuine. Ciò comporta per la società destinataria delle fatture (il cessionario) un recupero a tassazione delle somme dedotte o detratte e l’irrogazione di pesanti sanzioni amministrative . Inoltre, se l’importo dell’evasione supera certe soglie, l’utilizzatore di fatture false rischia l’incriminazione per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000), punito con la reclusione da 4 a 8 anni . Anche chi le emette (la società cartiera e i suoi amministratori di fatto o di diritto) commette reato ai sensi dell’art. 8 D.Lgs. 74/2000, integrando la emissione di fatture false.

Tuttavia, esiste una linea difensiva importante per la società che, pur avendo contabilizzato fatture emesse da una cartiera, sia estranea alla frode: dimostrare di aver agito in buona fede e con la dovuta diligenza professionale, ignara della natura fittizia del fornitore. In altre parole, il contribuente può provare di non aver saputo né potuto sapere, usando l’ordinaria diligenza, che il proprio fornitore fosse una cartiera coinvolta in una frode IVA. La dimostrazione della buona fede è cruciale per neutralizzare le contestazioni del Fisco: se riesce, può evitare le sanzioni amministrative e, in ambito penale, escludere la sussistenza del dolo di evasione necessario per una condanna .

Questa guida esamina in dettaglio come una società può provare la propria buona fede nel contenzioso tributario riguardante fatture da cartiera. Verranno analizzati il quadro normativo e giurisprudenziale aggiornato a luglio 2025, con riferimenti alle più recenti sentenze della Corte di Cassazione e ai principi sanciti dalla Corte di Giustizia UE. Si darà risalto alla ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente , alle strategie difensive efficaci e agli elementi probatori utili a comprovare la massima diligenza del contribuente. Saranno inoltre illustrati i risvolti penali del fenomeno, con esempi pratici in settori ad alto rischio (edilizia, commercio, logistica, etc.), e fornite risposte a domande frequenti. Infine, verranno presentate tabelle riepilogative per sintetizzare i punti chiave – come le differenze tra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, il confronto tra prove richieste al Fisco e al contribuente, e il quadro sanzionatorio – il tutto dal punto di vista del debitore (cioè della società destinataria delle fatture contestate).

Obiettivo: offrire una guida avanzata, di taglio pratico ma rigoroso, che consenta a professionisti, imprenditori e loro difensori di orientarsi nella difesa contro contestazioni fiscali di “frode carosello”. La trattazione è aggiornata alle ultime novità normative e giurisprudenziali (inclusi i principi espressi da Cassazione nel 2024-2025), presentata con linguaggio giuridico ma divulgativo, per mettere a fuoco come provare la buona fede ed evitare sanzioni indebite quando si scopre che un fornitore era una cartiera.

Fatture false e società “cartiere”: definizioni e tipologie

Per affrontare correttamente la problematica, è innanzitutto necessario capire che cosa si intende per “fattura da cartiera” e quali tipi di operazioni inesistenti possono presentarsi. In ambito fiscale italiano, si distinguono due categorie principali di fatture false :

  • Fatture oggettivamente inesistenti: documenti che attestano operazioni (cessioni di beni o prestazioni di servizi) mai avvenute nella realtà . In questo caso, la transazione è totalmente fittizia: i beni non sono stati ceduti, i servizi non sono stati resi, e l’unica cosa reale è la carta (da qui il termine cartiera). Un esempio classico è l’emissione di fatture per beni mai consegnati, al solo scopo di creare costi fittizi. Dal punto di vista sostanziale, la società acquirente non ha ricevuto nulla: se ha contabilizzato tali fatture, lo ha fatto per simulare costi e ottenere indebiti vantaggi fiscali. Buona fede? In situazioni di questo tipo è quasi impossibile invocare la buona fede dell’acquirente, poiché se un’operazione non è mai avvenuta il cessionario non può non essersene accorto (non ha ricevuto beni o servizi) . Di conseguenza, nei casi di operazioni oggettivamente inesistenti, la giurisprudenza esclude in radice la buona fede: l’utilizzo di fatture “di pura carta” implica per definizione la consapevolezza del contribuente, rendendo inapplicabile ogni esimente soggettiva.
  • Fatture soggettivamente inesistenti: documenti in cui l’operazione sottostante è avvenuta realmente, ma tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura . In pratica, il bene o servizio è stato effettivamente ceduto, però il fornitore indicato (cedente) non è il vero esecutore della prestazione. Tipicamente, la società cartiera si interpone fittiziamente tra il vero fornitore e l’acquirente finale: emette fattura all’acquirente, ma non è stata essa a effettuare la fornitura. Questa categoria comprende i casi di frodi carosello (ad es. società filtro che interponendosi in catene di vendita omettono di versare l’IVA) e fenomeni come le cooperative di comodo nel settore della manodopera. Qui la buona fede del cessionario può entrare in gioco: l’acquirente ha ricevuto i beni/servizi, quindi potrebbe non aver avuto percezione immediata dell’irregolarità, soprattutto se la cartiera era ben camuffata. La contestazione fiscale, in tali ipotesi, verte sul fatto che l’emittente fattura non aveva sostanza economica (mancando di strutture, personale, adempimenti fiscali, ecc.) e fungeva solo da schermo per evadere l’IVA.

Una società cartiera in senso proprio è dunque un’“impresa fantasma” costituita al solo scopo di emettere fatture false . Caratteristiche tipiche di queste entità sono: nessuna attività commerciale effettiva, nessun dipendente né organizzazione aziendale, sede legale fittizia o presso prestanome, omesso versamento di imposte, amministratori nullatenenti o prestanome (talora irreperibili, anziani, disoccupati) . Le cartiere spesso non presentano le dichiarazioni fiscali e non versano l’IVA incassata , rendendosi inadempienti sistematicamente. Possono essere costituite a catena (frode carosello) o singolarmente. Il fine ultimo è consentire all’utilizzatore finale di detrarre l’IVA e dedurre costi senza che l’Erario ne incassi il corrispettivo, poiché la cartiera scompare o risulta insolvibile.

Esempio tipico: nella frode carosello, la società A (cartiera) vende beni alla società B (beneficiaria finale) emettendo fattura con IVA. B paga (spesso ad un prezzo anormalmente basso) e detrae l’IVA. La società A, invece di versare l’IVA incassata allo Stato, sparisce o dichiara fallimento. Spesso i beni provengono da un fornitore estero o da un altro soggetto che vende ad A senza IVA (ad esempio intra-UE); A rivende a B con IVA ma non la versa. B ottiene merce a prezzo ridotto (grazie all’IVA evasa) e credito IVA. Questo schema è altamente illegale: viola la normativa IVA e configura reati tributari gravi.

Il legislatore ha approntato specifiche norme per contrastare tali fenomeni. Ad esempio, l’art. 21, comma 7, D.P.R. 633/1972 stabilisce che se viene emessa fattura per operazioni inesistenti (incluse le ipotesi in cui in fattura sono indicati corrispettivi o imposte superiori al reale), l’IVA è comunque dovuta per l’intero importo indicato in fattura . Questo significa che la cartiera emittente resta debitrice dell’IVA indicata, anche se la transazione è falsa: è una norma antielusiva volta a impedire che, tramite fatture di comodo, si possa generare credito IVA senza versamenti effettivi. Inoltre, l’art. 60-bis, D.P.R. 633/1972 prevede la responsabilità solidale del cessionario nel pagamento dell’IVA quando acquista beni a prezzi inferiori al valore normale e il cedente non versa l’imposta, salvo prova che il prezzo inferiore è dovuto a cause oggettive estranee a intenti evasivi . Questa norma è rivolta proprio a contrastare le vendite “sotto costo” tipiche delle frodi IVA, responsabilizzando anche l’acquirente in certe condizioni.

Riassumendo, le fatture da cartiera rappresentano operazioni “irreali” sotto il profilo fiscale. La distinzione tra oggettive e soggettive è fondamentale: solo nelle seconde vi è margine perché l’acquirente si dichiari ingannato (ha comunque ricevuto qualcosa) e quindi possa tentare di provare la propria buona fede. Nelle fatture oggettivamente false, invece, la difesa può solo puntare a negare la falsità (dimostrando che l’operazione era reale); diversamente, la pretesa fiscale è destinata a prevalere, data l’evidenza della consapevolezza fraudolenta quando nulla è stato fornito.

Di seguito, ci concentreremo principalmente sulle ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, in cui la partita probatoria e la dimostrazione della buona fede del contribuente assumono un ruolo centrale nel contenzioso tributario. In tali casi, infatti, la contestazione fiscale non riguarda la materiale esecuzione della prestazione (che c’è stata), bensì la fittizietà del fornitore e la consapevolezza dell’acquirente di partecipare a un meccanismo di evasione. Vediamo quindi come si articola l’onere della prova in questi casi e quali sono i parametri per valutare la buona fede.

Onere della prova nelle operazioni con fatture da cartiera

Uno snodo cruciale nel contenzioso su fatture da cartiera è la ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente. In generale, in base al principio civilistico dell’art. 2697 c.c., chi afferma un fatto (in questo caso l’inesistenza dell’operazione e la mala fede del contribuente) deve provarlo. Nei casi di frode tramite fatture, questo principio ha trovato una declinazione specifica nella giurisprudenza di legittimità, consolidatasi in numerose pronunce della Corte di Cassazione, specie negli ultimi anni.

La “doppia prova” a carico del Fisco: fornitore fittizio e consapevolezza del cessionario

La Cassazione ha più volte affermato che, in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, il Fisco ha un duplice onere probatorio iniziale . In particolare, l’Amministrazione finanziaria che contesta l’uso di fatture da cartiera deve provare due elementi essenziali:

  1. Profilo oggettivo – Fittizietà del fornitore: dimostrare che il fornitore indicato in fattura è un soggetto inesistente sotto il profilo sostanziale, cioè una “cartiera” priva di reale operatività . In altre parole, il Fisco deve provare che l’azienda fornitrice non aveva la capacità economica o strutturale di effettuare l’operazione, risultando un mero schermo. Ciò può essere fatto attraverso elementi quali: mancanza di sedi e strutture idonee, assenza di personale, inadempimenti fiscali, rappresentanti legali prestanome, etc. (vedremo nel dettaglio più avanti i campanelli d’allarme di una cartiera). Se l’Amministrazione prova che il cedente è fittizio, ha soddisfatto il primo onere.
  2. Profilo soggettivo – Consapevolezza del cessionario: provare che il contribuente acquirente (cessionario) era consapevole o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza, del fatto che l’operazione si inseriva in una frode . Questo significa dimostrare che la società acquirente sapeva o, data la sua esperienza e attenzione dovuta, avrebbe dovuto sapere che il fornitore era fittizio e che quindi la transazione faceva parte di un meccanismo evasivo dell’IVA . La prova della consapevolezza può essere data anche tramite presunzioni semplici, basate su elementi oggettivi e specifici tali da far risultare evidente che un operatore economico onesto avrebbe avuto quantomeno il sospetto di una frode in corso . Ad esempio, se emergono una serie di anomalie macroscopiche (fornitore privo di struttura, prezzi fuori mercato, pagamenti anomali, ecc.), l’Ufficio può sostenere che la società acquirente “avrebbe dovuto sapere” la natura fittizia dell’operazione.

Questa impostazione è stata chiaramente espressa, tra le altre, dalla Cassazione n. 9588/2019, che ha sancito il principio secondo cui l’Amministrazione deve provare sia la fittizietà del fornitore sia la consapevolezza del contribuente . In tale sentenza si legge che “l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare: a) sotto il profilo oggettivo, che il fornitore indicato in fattura è inesistente; b) sotto il profilo soggettivo, che il contribuente era consapevole che l’operazione si inseriva in uno schema di evasione IVA” . Solo dopo questa prova, può eventualmente trasferirsi l’onere al contribuente di dimostrare la propria estraneità.

Quindi, inizialmente il “peso” della prova grava sul Fisco. È importante sottolineare che la prova della consapevolezza non richiede una dimostrazione di dolo intenzionale esplicito (non occorre provare un accordo fraudolento esplicito tra acquirente e cartiera); è sufficiente, come detto, una prova anche presuntiva che il contribuente “sapesse o avrebbe dovuto sapere” dell’evasione, ove avesse usato l’ordinaria diligenza . Questo standard deriva dalla giurisprudenza unionale (principio “knew or should have known” affermato dalla Corte di Giustizia UE in varie sentenze, ad es. C-277/14 del 22 ottobre 2015 e precedenti in materia di detrazione IVA).

Come può il Fisco fornire tale prova? Tramite una serie di indizi concordanti (presunzioni gravi, precise e concordanti, ex art. 2729 c.c.) che dipingano un quadro di frode evidente. Esempi di elementi probatori utilizzati dall’Amministrazione finanziaria, confermati dalla Cassazione , includono:

  • Incapacità operativa del fornitore: dimostrare che il fatturante non aveva mezzi né struttura per eseguire la prestazione fatturata (ad es., sede sociale fittizia in un appartamento, nessun capannone o attrezzatura necessaria all’attività dichiarata, totale assenza di dipendenti o di mezzi aziendali) .
  • Anomalie nella consegna e nei pagamenti: es. la merce risulta consegnata direttamente da un soggetto terzo (esportatore estero) al cessionario finale, bypassando la società interposta; oppure pagamenti effettuati anticipatamente all’estero, o flussi finanziari strani (il cessionario paga il fornitore fittizio in ritardo solo dopo aver incassato dai propri clienti, schema tipico per sfruttare l’IVA non versata) .
  • Inadempimenti fiscali del fornitore: la cartiera non versa mai l’IVA sulle vendite, non presenta dichiarazioni, è gestita da persone nullatenenti. Ciò suggerisce che la scomparsa dell’IVA è parte del piano fraudolento e che l’acquirente, se avesse verificato, avrebbe trovato traccia di queste irregolarità .
  • Prezzi anormalmente bassi (“prezzi vili”): il bene/servizio è rivenduto al cessionario a prezzo inferiore al normale di mercato . Ciò è economicamente irrazionale per un fornitore onesto (perderebbe denaro), ma spiegabile se il “guadagno” deriva dall’IVA evasa. Prezzi troppo bassi avrebbero dovuto insospettire l’acquirente diligente .
  • Mancanza di normali relazioni commerciali: rapporti solo tramite e-mail/telefono, nessun contatto personale o visita presso la sede del fornitore, nonostante i volumi ingenti . Un’azienda sana con cui si fanno affari importanti di solito ha una struttura visibile e rapporti diretti: la totale impersonalità è sospetta.
  • Coinvolgimento del cessionario stesso in irregolarità: se, oltre tutto, l’acquirente presenta proprie violazioni (ad esempio non presenta le proprie dichiarazioni fiscali, come nel caso esaminato dallo Studio ITAXA ), questo indebolisce la credibilità della sua buona fede.

Tali elementi, se “gravi, precisi e concordanti”, possono costituire prova presuntiva valida . La Cassazione ha approvato l’uso di indizi plurimi come questi per dimostrare sia la frode oggettiva (fornitore fantasma) sia la colpevole negligenza/consapevolezza del contribuente . Ad esempio, la Cass. n. 27566/2018 ha affermato che se il Fisco presenta un quadro indiziario schiacciante di frode, “non assumono rilievo la regolarità formale della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di un vantaggio economico nella rivendita” , perché questi elementi formali non bastano a provare l’estraneità alla frode di fronte a evidenti segnali di allarme.

In altre parole, non è sufficiente per l’Ufficio provare genericamente che c’era una frode a monte: deve collegare il contribuente a tale frode tramite elementi oggettivi che rendano inattendibile la sua ignoranza. Finché l’Amministrazione non fornisce questa dimostrazione (anche via presunzioni), il contribuente non è tenuto a provare nulla – in linea di principio egli può limitarsi a rilevare l’insufficienza delle prove del Fisco. Una sentenza recente (Corte Giust. Trib. Lazio, sent. n. 1622/2025) ha definito questa impostazione come un “vero e proprio manuale sul riparto dell’onere della prova” nelle operazioni inesistenti , ribadendo che prima il Fisco deve assolvere il proprio onere probatorio, e solo dopo scatta l’onere della prova contraria a carico del contribuente .

L’onere della prova si sposta: la difesa del contribuente tra buona fede e diligenza

Una volta che l’Amministrazione finanziaria abbia assolto al proprio onere iniziale – ossia abbia presentato prove o indizi solidi che il fornitore era fittizio e che il contribuente “avrebbe dovuto accorgersene”si determina un’inversione dell’onere della prova . A questo punto, per evitare le conseguenze dell’accertamento, spetta al contribuente fornire la prova contraria, cioè dimostrare la propria buona fede. In termini concreti, il cessionario dovrà provare due cose :

  • Assenza di consapevolezza: di aver operato senza alcuna consapevolezza della frode. In pratica, deve convincere che non sapeva che il fornitore fosse una cartiera, né di partecipare a un’evasione dell’IVA . Questa è una prova di natura soggettiva (stato mentale), quindi difficile da dare se non correlata a comportamenti oggettivi di diligenza.
  • Massima diligenza esigibile: di aver adottato tutte le cautele e verifiche ragionevolmente esigibili da un operatore economico accorto per assicurarsi della regolarità dell’operazione . In altre parole, deve dimostrare di aver agito con la diligenza massima richiesta nel suo settore e nelle circostanze del caso concreto, al fine di evitare di essere coinvolto (anche inconsapevolmente) in frodi . Questa diligenza va valutata secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità: significa che le verifiche compiute devono essere commisurate a ciò che è normalmente praticabile e sensato attendersi da un imprenditore medio in quelle condizioni.

La Cassazione ha più volte definito il perimetro di tale onere per il contribuente. Ad esempio, Cass. n. 15369/2020 ha ribadito che, se il Fisco prova i presupposti di frode, il contribuente deve dimostrare “di avere adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto” . Non basta quindi una generica affermazione di buona fede: occorre provare concretamente quali misure di controllo e cautela sono state adottate per verificare l’affidabilità del fornitore.

È importante notare che, una volta passati alla fase dell’onere in capo al contribuente, non è sufficiente contestare le prove del Fisco in modo generico: serve una prova positiva dell’estraneità. Ad esempio, la CTR Lazio nella citata sentenza 1622/2025 ha osservato che limitarsi a negare gli addebiti e invocare genericamente la buona fede non è efficace se non si fornisce una spiegazione alternativa plausibile alle anomalie riscontrate dal Fisco . In quel caso, la società appellante non aveva prodotto alcuna evidenza concreta di aver svolto controlli sui fornitori, e la Corte ha ritenuto “inverosimile” che un imprenditore per transazioni di importi elevati “non avesse effettuato le più elementari verifiche sull’affidabilità e reale esistenza dei partner commerciali” .

Questa valutazione indica che i giudici si attendono dal contribuente una difesa sostanziata da elementi documentali e comportamenti diligenti. La semplice regolarità formale della contabilità (fatture correttamente registrate, pagamenti tracciabili) non è ritenuta prova sufficiente di buona fede . Ciò perché un contribuente complice può comunque tenere la contabilità in ordine; occorre invece mostrare di aver fatto ciò che un soggetto ignaro farebbe per proteggersi.

In dottrina e giurisprudenza, questo schema è spesso descritto come una vicinanza della prova: inizialmente il Fisco deve costruire un quadro solido (prima facie fraudolento), dopodiché l’onere si sposta su chi meglio di tutti può provare la propria innocenza, ossia il contribuente stesso (che conosce i fatti interni della propria attività). Si crea in sostanza una presunzione di malafede quando emergono forti indizi di frode; il contribuente può superarla solo portando evidenze efficaci della propria diligenza.

Uno sviluppo giurisprudenziale rilevante al riguardo è contenuto nella Cass. ord. n. 14102/2024, dove la Suprema Corte ha ulteriormente chiarito i limiti di ciò che può esigersi dal contribuente in termini di controlli. In quell’ordinanza, la Cassazione ha affermato che le cautele richieste all’acquirente, per escluderne il coinvolgimento colposo nella frode, “non possono attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’Amministrazione finanziaria avrebbe i mezzi per effettuare” . In altre parole, non si può pretendere dall’operatore economico medio un’attività investigativa pari a quella di un organo accertatore. Egli deve agire con diligenza, ma entro limiti ragionevoli: non gli si può imputare di non aver scoperto da solo, ad esempio, sofisticati retroscena criminali o collusioni a monte nella filiera, specie se tali retroscena sono volutamente occultati.

La stessa ordinanza 14102/2024 sottolinea che se il fornitore era formalmente esistente (iscritto alla Camera di Commercio ) e nulla esteriormente destava sospetti tangibili, il cessionario non può essere ritenuto in colpa per non aver scoperto elementi che solo indagini complesse avrebbero rivelato . Ad esempio, la mera circostanza che il fornitore fosse privo di proprie maestranze e avesse subappaltato i lavori non basta, da sola, a dimostrare la conoscenza del cessionario, se i prezzi praticati e le modalità contrattuali non erano anomale . Ci devono essere degli indizi negoziali (prezzi fuori mercato, strani accordi sul pagamento dell’IVA, dinamiche di consegna/pagamento inusuali) perché l’assenza di struttura del fornitore assuma rilevanza per il cliente . Se invece il fornitore appariva in regola (regolarmente registrato, magari con sede e documentazione in ordine) e il contribuente non aveva strumenti per approfondire oltre, non è possibile presumere la consapevolezza del cessionario .

Questo orientamento favorevole al contribuente – in presenza di cartiere occultate abilmente – è perfettamente in linea con la giurisprudenza UE, secondo cui il diritto di detrazione IVA non può essere negato a chi non sapeva né poteva sapere di partecipare a un’evasione, “senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono” . La Corte di Giustizia (caso C-277/14, citato) ha espressamente detto che non si può pretendere dall’acquirente di svolgere investigazioni approfondite su tutta la catena dei fornitori: gli si possono richiedere solo misure ragionevoli commisurate al suo ruolo e alle circostanze . L’operatore commerciale deve adottare tutte le misure che gli si possano ragionevolmente richiedere per assicurarsi di non partecipare a un’evasione , ma non misure sproporzionate od oneri eccessivi.

Di conseguenza, nel giudizio, se il contribuente dimostra di aver fatto “tutto il possibile” in base alle informazioni disponibili e alle pratiche comuni (ad esempio: ha verificato la partita IVA del fornitore, ottenuto visure camerali, richiesto documenti come il DURC, controllato che i pagamenti fossero tracciabili, ecc.), egli può sostenere di aver soddisfatto la diligenza esigibile. Se non vi erano segnali di allarme evidenti che avrebbe dovuto cogliere, la sua buona fede risulta plausibile. La Cassazione ha precisato che la verifica della responsabilità del cessionario “dipende dalle circostanze del caso concreto e dall’eventuale presenza di indizi tali da far sospettare irregolarità o frodi” . Se tali indizi mancavano, non gli si può imputare colpa.

In definitiva, il quadro attuale (consolidato da Cass. 2024 n.14102 e precedenti analoghi) è il seguente:

  • Fase 1: Il Fisco prova frode oggettiva + indizi di consapevolezza (anche in presunzione). Se non ci riesce, l’accertamento fiscale non regge e le riprese a tassazione vengono annullate .
  • Fase 2: Se il Fisco fornisce prova sufficiente, scatta una sorta di presunzione iuris tantum di coinvolgimento del contribuente nella frode. Tocca al contribuente confutarla provando la propria buona fede: niente consapevolezza + massima diligenza adottata .
  • Fase 3: Il giudice valuta se il contribuente ha effettivamente dimostrato la sua estraneità. In tale valutazione, non gli si possono chiedere misure di controllo irragionevoli o impossibili ; ma se esistevano red flags ignorati, la buona fede è esclusa.

Questa scansione è stata confermata da numerosissime pronunce. Oltre a quelle già citate, si possono ricordare Cass. nn. 21105/2017 (Sez. Unite), 9851/2018, 23368/2021, 37889/2022, 10845/2024, ecc., tutte sostanzialmente allineate sul punto . Da ultimo, anche nel 2025 la Cassazione ha continuato su questa linea: ad esempio con ord. 9684/2025, dove ha ribadito che per contestare frodi carosello l’Erario deve provare la fittizietà del fornitore e la consapevolezza del cessionario, mentre se ciò è provato diventa onere del contribuente dimostrare la propria diligenza (principio richiamato in una newsletter di maggio-giugno 2025) .

Tabella 1: Ripartizione dell’onere della prova in caso di frode da “cartiera”

FaseOnere in capo all’Agenzia EntrateOnere in capo al Contribuente
1. Prova iniziale– Provare la frode oggettiva: fornitore inesistente (società “cartiera”) .<br>- Provare la frode soggettiva: contribuente sapeva o doveva sapere della frode, mediante indizi oggettivi .<br>Se l’Agenzia non prova questi elementi, la contestazione fiscale decade.(Nessun onere probatorio in questa fase) – Il contribuente può limitarsi a contestare l’assenza o insufficienza di prove fornite dal Fisco.
2. Reazione difensiva(Onere assolto: quadro indiziario grave, preciso e concordante)Presunzione di consapevolezza a carico del contribuente. L’Agenzia a questo punto ha invertito l’onere.– Provare la buona fede: dimostrare assenza di consapevolezza della frode .<br>- Provare la massima diligenza adottata per evitare di partecipare a frodi (verifiche svolte, cautele prese) .<br>Se il contribuente non offre prova contraria, l’accertamento viene confermato.
3. Valutazione finale(eventuale replica dell’Ufficio alle prove difensive) – confutare se possibile le evidenze di diligenza addotte dal contribuente, mostrando che furono insufficienti o inattendibili.(Onere assolto: prove di diligenza convincenti) – mantenere la coerenza delle prove fornite; il contribuente potrà far leva sul principio che non gli spettano investigazioni complesse oltre la diligenza ordinaria . Se le sue cautele erano ragionevoli e non c’erano segnali evidenti, l’accertamento dovrebbe essere annullato.

Come dimostrare la buona fede: comportamenti diligenti e prove documentali

Dimostrare in concreto la buona fede non è semplice: si tratta di persuadere il giudice che la società ha fatto tutto quanto era ragionevolmente possibile per assicurarsi della genuinità dei fornitori, e che non c’erano elementi tali da far sorgere sospetti. Questa sezione offre una panoramica di che cosa dovrebbe fare un’impresa diligente per tutelarsi e quali prove presentare in giudizio a sostegno della propria estraneità alla frode.

Comportamenti attesi da un imprenditore accorto

La giurisprudenza ci fornisce alcune indicazioni su quali condotte preventive e di controllo vengono reputate indice di diligenza. Un’impresa che vuole evitare di incorrere (anche inconsapevolmente) in fatture false dovrebbe mettere in atto una sorta di “due diligence” sui propri partner commerciali, specialmente se si tratta di nuovi fornitori o se vi sono elementi anomali. Ad esempio :

  • Verifica dell’identità e regolarità del fornitore: prima di intraprendere rapporti significativi, controllare l’iscrizione al Registro delle Imprese del potenziale fornitore . Una visura camerale può rivelare la data di costituzione (ad esempio, se la società è appena nata e propone affari ingenti, è un segnale di cautela), il capitale sociale (se irrisorio a fronte di operazioni molto rilevanti, altra anomalia), gli amministratori (presenza di prestanome noti o soggetti falliti), l’oggetto sociale (compatibile con i beni/servizi offerti?).
  • Esistenza di una struttura operativa: verificare se il fornitore ha una sede operativa reale (non solo una sede legale di comodo) . Ciò può includere una visita presso i locali, oppure l’acquisizione di informazioni tramite banche dati o agenzie investigative sulla presenza di uffici, magazzini, attrezzature. Una società che opera in un settore materiale (es. vendita di prodotti) ma non possiede né magazzini né showroom né mezzi di trasporto, dovrebbe destare sospetti.
  • Reputazione e referenze: raccogliere informazioni sulla reputazione commerciale del fornitore . Ad esempio, consultare banche dati di protesti o pregiudizievoli, informazioni da associazioni di categoria, Google, ecc. Se il nome del fornitore compare in vicende poco chiare o in gruppi di imprese “a rischio”, la prudenza è d’obbligo.
  • Contatto diretto: instaurare un contatto personale con i responsabili aziendali del fornitore, specialmente per transazioni di rilievo . Incontrarsi di persona, visitare l’azienda se possibile, conoscere chi c’è dietro. Un fornitore che evita sistematicamente incontri e sopralluoghi potrebbe voler nascondere la propria inesistenza.
  • Verifiche fiscali di base: controllare che il fornitore sia in regola con gli obblighi fiscali e contributivi. Ciò può includere: verifica della partita IVA (ad esempio tramite VIES se UE, o controllo codice fiscale/partita IVA attiva presso l’Agenzia delle Entrate), richiesta del DURC (Documento Unico Regolarità Contributiva) se il rapporto riguarda appalti o manodopera – un DURC regolare attesta che il soggetto versa i contributi per i dipendenti, quindi se non ha dipendenti o è irregolare significa qualcosa. Inoltre, in alcuni settori (edilizia, logistica) la normativa prevede responsabilità solidali nei confronti di subfornitori non in regola: chiedere il DURC non è solo diligenza, ma un obbligo per tutelarsi.
  • Analisi delle condizioni contrattuali: esaminare con attenzione le condizioni di pagamento e i prezzi. Come visto, campanelli d’allarme sono: pagamenti con modalità inconsuete (es. anticipi elevati all’estero, compensazioni strane, pagamenti cash non giustificati), oppure prezzi troppo bassi rispetto al mercato . Un imprenditore avveduto si interroga sul perché di un prezzo anormalmente vantaggioso: se l’offerta è “troppo bella per essere vera”, occorre approfondire. Anche tempistiche sospette (es. l’acquirente paga molto tempo dopo aver ricevuto la merce, forse con i fondi incassati vendendola a sua volta ) dovrebbero essere notate dal management.
  • Monitorare la continuità dei rapporti: se ci si rifornisce per lungo tempo da un fornitore, monitorare che continui ad essere operoso. Se improvvisamente sparisce, fallisce o emergono notizie negative, fare verifiche. Ad esempio, se il fornitore non emette più fatture o l’azienda risulta “cessata”, l’acquirente dovrebbe preoccuparsi anche retroattivamente delle operazioni fatte.

In sintesi, l’azienda contribuente deve poter mostrare di aver avuto un atteggiamento proattivo e prudente. La Cassazione richiede l’adozione di tutte le misure ragionevolmente esigibili da un operatore commerciale accorto . Ciò configura una sorta di obbligo di diligenza preventiva: non basta fidarsi ciecamente dell’altro contraente, specie se i segnali suggerirebbero di approfondire.

Documentare la diligenza: quali prove presentare

Affermare di aver agito con diligenza non basta: bisogna documentarlo. In sede contenziosa, la società dovrà produrre ogni elemento che provi i controlli effettuati e l’assenza di segnali di allarme.

Ecco alcune tipologie di prove documentali e fattuali utili nella difesa:

  • Visure camerali e certificati: presentare le visure camerali storiche della società fornitrice, ottenute prima o durante il rapporto commerciale. Se la visura mostrava l’iscrizione regolare, capitale sociale congruo, nessuna anomalia evidente, ciò avvalora che il contribuente si era informato e non ha ignorato dati macroscopici. Anche un eventuale certificato di vigenza o di iscrizione alla C.C.I.A.A. può provare che il fornitore risultava esistente e attivo in quel periodo.
  • DURC e documenti di regolarità: se pertinenti, il contribuente può esibire il DURC del fornitore (richiesto e ottenuto all’epoca): un DURC regolare significa che quell’azienda versava i contributi per i lavoratori, segno di operatività reale. Questo è molto rilevante nei casi di cooperative di manodopera: se la coop fornitrice ha DURC regolari per il periodo, l’acquirente può dire “ho verificato la regolarità contributiva, quindi confidavo che la coop fosse sana, non una cartiera”.
  • Contratti, ordini e corrispondenza: esibire i contratti stipulati con il fornitore, le eventuali commesse o ordini di acquisto, e soprattutto la corrispondenza intercorsa (email, lettere). Da questi documenti può emergere la normalità della relazione commerciale: ad es., trattative su prezzi, termini di consegna, discussioni tecniche sui prodotti/servizi, ecc. Se la corrispondenza mostra un rapporto genuino e trasparente, ciò contrasta l’idea di un accordo simulato. Viceversa, l’assenza totale di comunicazioni su dettagli operativi potrebbe suonare strana (come facevano affari? Solo fatture e bonifici?).
  • Documenti di trasporto e prove di consegna: nel caso di cessioni di beni, è essenziale produrre i DDT (documenti di trasporto) o bolle di consegna, firmati per accettazione, che attestino che la merce è stata effettivamente ricevuta dal contribuente e spedita dal fornitore (o da un soggetto per suo conto). Questo serve a confermare che l’operazione c’è stata materialmente (utile per contrastare ipotesi di inesistenza oggettiva) e può anche aiutare a localizzare da dove proveniva la merce. Ad esempio, se i DDT indicano che la merce partiva dal magazzino del fornitore stesso e arrivava all’acquirente, ciò mostrerebbe una struttura logistica (qualcosa che la cartiera pura non avrebbe). In caso di lavori o servizi, analogamente, presentare rapportini di lavoro, stati di avanzamento lavori (SAL), verbali di collaudo o consegna lavori firmati dalle parti. Tutto ciò dimostra la realtà dell’attività.
  • Evidenze di pagamenti regolari: fornire le ricevute dei pagamenti effettuati al fornitore (bonifici, assegni, ecc.). Pagamenti eseguiti su conti intestati alla società fornitrice, in linea con le scadenze pattuite, e per importi coerenti alle fatture, evidenziano un flusso finanziario normale. Se il fornitore aveva un conto bancario italiano e l’acquirente ha pagato lì tracciatamente, questo è un elemento che poteva rassicurare. Certo, come detto, pagare con bonifico non esclude la frode, ma è comunque indice che il contribuente non operava completamente nell’ombra (a differenza di chi paga in contanti valigette di denaro, che evidenzia complicità).
  • Relazioni di eventuali intermediari o consulenti: se ci si è avvalsi di un agente, broker o consulente per trovare quel fornitore, una lettera di referenze o una relazione contrattuale con tale intermediario può aiutare. Ad esempio, “abbiamo acquistato dalla società X su suggerimento di un broker Y, che ci aveva assicurato della serietà di X” – se Y era un professionista noto, la società acquirente poteva ragionevolmente fidarsi.
  • Eventuale attestazione del fornitore: anche se col senno di poi il fornitore si rivela un fantasma, si può produrre qualsiasi documentazione fornita dallo stesso durante il rapporto: ad esempio, copie di certificati camerali che il fornitore vi inviò, o dichiarazioni scritte in cui garantiva certi requisiti. Se il fornitore aveva fornito false attestazioni, l’acquirente può dire di essere stato tratto in inganno.
  • Assenza di vantaggi “extra-fiscali”: questo è più un argomento difensivo che una prova tangibile. Se la società acquirente, al netto del vantaggio fiscale, non ha tratto benefici economici dall’operazione (anzi magari ci ha rimesso, o ha venduto a prezzo di mercato senza guadagni anomali), può sostenere: “Non avevo motivo di partecipare consapevolmente a una frode, perché non ne ho tratto un guadagno significativo se non quello fiscale di cui ignoravo la provenienza illecita”. Cassazione ha detto che il fatto che l’acquirente non abbia avuto un utile extra dalla rivendita non prova di per sé la buona fede , però in combinazione con altre prove può dare credibilità all’estraneità (perché di solito chi è complice ottiene un tornaconto).

Oltre ai documenti, la testimonianza di eventuali soggetti può aiutare: ad esempio, se c’erano dipendenti della società che hanno avuto contatti con il fornitore (autisti che andavano a caricare merci presso il magazzino del fornitore, tecnici che hanno lavorato insieme a personale del fornitore ecc.), farli testimoniare sulle apparenze di normalità può essere utile. Tuttavia nel processo tributario la testimonianza è formalmente vietata (vige il divieto di prova testimoniale), ma talvolta dichiarazioni rese in altri procedimenti o al fisco possono entrare come indizi.

Importante: la documentazione delle verifiche dovrebbe essere conservata sin dall’inizio. Lo Studio ITAXA consiglia: “La prova della diligenza va documentata: è fondamentale conservare traccia di tutte le verifiche effettuate sui fornitori (e-mail, report, ricerche su banche dati). In caso di contenzioso, questa documentazione sarà la vostra prima e più importante linea di difesa” . Quindi ogni email in cui si chiedono informazioni al fornitore, ogni visura estratta, ogni controllo fatto, va tenuta agli atti aziendali. Se poi arriva un accertamento, si avrà un dossier di compliance da esibire.

I “campanelli d’allarme” che il contribuente non deve ignorare

Abbiamo più volte menzionato indizi o segnali di allarme (in inglese red flags) che rendono non credibile la pretesa di buona fede se ignorati. È opportuno elencare sinteticamente i principali, anche come promemoria per gli operatori, perché costituiscono ciò che un imprenditore diligente dovrebbe riconoscere e approfondire:

  • Fornitore di recente costituzione con grande operatività: se la società fornitrice è nata da pochi mesi ma propone forniture di notevole valore, questo è atipico (le start-up raramente gestiscono grossi volumi subito). Potrebbe indicare una società creata ad hoc (forse una cartiera). Un imprenditore dovrebbe chiedersi perché scegliere un neonato sul mercato.
  • Sede legale “di comodo”: ad esempio, il fornitore ha sede presso uno studio di consulenza o un indirizzo dove sono domiciliate decine di società. Oppure un piccolo appartamento per un’azienda che dichiara milioni di fatturato. Ciò suggerisce mancanza di struttura.
  • Nessuna sede operativa/Capannoni/Magazzini: se si tratta di commercio di beni fisici, un fornitore senza magazzino o showroom è sospetto. Se tratta servizi che richiederebbero personale, ma non ha uffici adeguati, idem.
  • Nessun dipendente registrato: questo è tipico. La società cartiera spesso non ha dipendenti ufficiali. Un acquirente può controllare ciò indirettamente: ad esempio, chiedendo chi eseguirà il lavoro? Quante squadre avete? Se scopre (o gli viene risposto) che subappaltano o fanno tutto con esterni, è segnale da approfondire. In alternativa, se si chiede il DURC e scopre che la società non risulta avere dipendenti, un imprenditore dovrebbe domandarsi come faccia a erogare, ad es., manodopera.
  • Amministratori e soci prestanome: Molte cartiere hanno come legale rappresentante un soggetto nullatenente o con scarsa esperienza (il classico prestanome, a volte un pensionato, un disoccupato, etc.). Un’analisi della visura camerale può rivelare questi dati. Se una società con cui fate affari per milioni di euro è amministrata da un 80enne ex nullatenente, attenzione.
  • Offerta di beni a prezzi troppo bassi: come detto, un ribasso eccessivo rispetto al mercato è segno che il guadagno è altrove (IVA). Nel caso di servizi, offerta di eseguire lavori a prezzi stracciati rispetto alla concorrenza.
  • Modalità di pagamento strane: il fornitore insiste per essere pagato su conti esteri, oppure in contanti, oppure accetta pagamenti molto dilazionati senza interessi. Può anche succedere l’opposto: chiede pagamento anticipato (ad esempio in un carosello IVA, la cartiera può chiedere di essere pagata subito per poi sparire). Ogni deviazione dalle pratiche normali di pagamento è un segnale.
  • Fornitore che rifiuta certi documenti: ad esempio, una cooperativa che si rifiuta di esibire il DURC, o un appaltatore che non mostra l’iscrizione SOA (nel caso di appalti pubblici). Un comportamento poco trasparente su documenti standard è sintomo di irregolarità.
  • Continui cambi di denominazione o sede: se scoprite che il fornitore ha cambiato nome, sede o forma giuridica più volte in breve tempo, potrebbe essere un tentativo di confondere le acque o di “ripulirsi” da precedenti problemi.
  • Fornitore proposto da terzi poco fidati: se l’affare vi è stato suggerito da un intermediario o altro imprenditore con reputazione dubbia o con cui non avete esperienza, dovreste aumentare il livello di guardia.
  • Documentazione commerciale carente: se il fornitore non fornisce brochure, sito web, referenze di altri clienti, eppure afferma di fare grossi volumi, è anomalo. Un’azienda legittima di solito ha almeno un minimo di presenza o materiali.
  • Operazioni complesse con triangolazioni: ad esempio, merci che risultano passare tramite più società per arrivare a voi. Questo non è di per sé illecito (ci sono catene logistiche), ma se non c’è motivo commerciale apparente per l’interposizione, potrebbe essere uno schema di frode. Un operatore accorto chiederà: perché devo comprare tramite A se il produttore è B e potrei prendere da B? Se la risposta non è convincente, allerta.
  • Assenza di negoziazione su termini cruciali: se il fornitore non discute molto su prezzo, garanzie, condizioni (accetta tutto passivamente), potrebbe non essere interessato al lato commerciale ma solo a fornire fatture.

Questi campanelli d’allarme emergono spesso nei verbali della Guardia di Finanza che indagano frodi carosello. Nel caso pratico esposto in precedenza (società Alfa S.r.l.), ad esempio, la GdF aveva evidenziato: fornitori con tutti i tratti tipici delle cartiere (dichiarazioni omesse, nessuna sede, amministratori nullatenenti), gestione anomala dei pagamenti (saldava i fornitori molto dopo aver incassato dai clienti), vendite sottocosto, mancanza di rapporti diretti . Tutte situazioni che avrebbero dovuto far scattare l’allarme in un imprenditore onesto .

Pertanto, in ottica difensiva, la società contribuente deve mettere nero su bianco che quei segnali non c’erano, oppure che lei non poteva rilevarli malgrado i controlli eseguiti. Se invece qualcuno di questi segnali c’era, la difesa dovrà spiegare perché ciò non fece sorgere sospetti (ad es. potrebbe dire: “il prezzo era basso perché erano stock di fine serie, l’abbiamo verificato sul mercato” – giustificazione oggettiva; oppure “l’azienda era neocostituita ma noi conoscevamo personalmente il tecnico che l’aveva avviata, di cui ci fidavamo per precedenti esperienze”).

In definitiva, la buona fede si sostanzia nel mostrare che l’azienda ha operato come farebbe qualunque imprenditore prudente: ha verificato i partner, non ha ignorato i segnali di rischio, e ha una spiegazione lecita per eventuali anomalie poi emerse. Se riesce in ciò, come afferma la Cassazione, “non può ritenersi comprovata la consapevolezza di partecipare a una frode” . Viceversa, se restano anomalie inspiegabili che il contribuente non affrontò, la tesi della sua inconsapevolezza perde credibilità e l’Erario avrà gioco facile nel sostenere la colpa grave o dolo eventuale del medesimo .

Effetti fiscali delle fatture da cartiera: recupero imposte e sanzioni amministrative

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, gli effetti immediati in caso di accertamento sono sia di natura impositiva (maggiori imposte dovute) sia sanzionatoria (multe e sanzioni amministrative tributarie). In questa sezione delineiamo le conseguenze tipiche, tenendo presente che l’eventuale dimostrazione di buona fede può incidere sulle sanzioni (escludendole o attenuandole), ma difficilmente sul dovuto tributario (perché se un costo è inesistente, va comunque recuperato a tassazione).

Imposte recuperate a tassazione

  • IVA detratta indebitamente: La prima cosa che il Fisco recupera è l’IVA che la società ha portato in detrazione sulle fatture false. Secondo gli artt. 19 e 21 DPR 633/72, il diritto alla detrazione spetta solo per operazioni reali; se l’operazione è inesistente, la detrazione è indebita. Dunque, tutta l’IVA esposta in quelle fatture viene addebitata al contribuente come imposta non versata. L’importo può essere molto rilevante se le fatture erano di importo elevato. Nota: se si trattava di fatture soggettivamente inesistenti, l’acquirente potrebbe obiettare “la merce l’ho avuta, l’IVA era dovuta a qualcuno”; tuttavia, finché non individua e prova chi fosse il reale cedente (che magari non ha fatturato né versato l’IVA), per il sistema fiscale l’IVA è stata indebitamente detratta. La Corte di Giustizia UE ammette (in linea teorica) che se l’acquirente è in buona fede, non dovrebbe perdere il diritto alla detrazione ; ma l’onere di dimostrare la buona fede è, come visto, stringente. In pratica, gli uffici recuperano l’IVA e solo il giudice tributario, in caso di vittoria del contribuente su base di buona fede, potrebbe annullare tale recupero.
  • Imposte sui redditi (IRES, IRAP) per costi indeducibili: Le fatture false generano costi fittizi iscritti in contabilità (es. acquisto di beni mai ricevuti, servizi mai resi). Tali costi, se dedotti dal reddito d’impresa, non sono deducibili ex art. 109 TUIR che richiede l’inerenza e l’esistenza dell’operazione. Quindi l’Ufficio recupera a tassazione i relativi importi, aumentando il reddito imponibile del contribuente. Il maggior reddito sarà assoggettato ad IRES (o IRPEF se ditta individuale) e IRAP per gli anni contestati. Ad esempio, se una società ha contabilizzato 100.000 € di fatture false come spese, il Fisco li eliminerà dai costi deducibili, aumentando di 100.000 € il reddito imponibile: su tale importo si calcoleranno le imposte evase (27.5% IRES se anno passato, 24% per gli anni recenti, ecc., più IRAP ~3.9% se dovuta). Anche qui, l’eventuale buona fede non rende deducibile il costo fittizio – al massimo può evitare la sanzione, ma il tributo evaso va corrisposto. Il ragionamento è: il costo non esiste realmente, quindi non può mai abbattere il reddito tassabile, a prescindere dalla buona o mala fede. (Unica eccezione: se l’operazione è soggettivamente inesistente ma in realtà la prestazione c’è stata da parte di altri, il contribuente potrebbe dedurre il costo reale pagato a quei soggetti se riesce a provarlo e inquadrarlo – ma è complesso se i soggetti non hanno fatturato. In genere i giudici non permettono “sanatorie” simili, salvo che emergano fatture alternative o altri elementi).
  • Altre imposte indirette: se le fatture false incidono su detrazioni o crediti d’imposta (ad esempio, crediti IVA portati in compensazione), o agevolazioni, anche queste verranno negate con recupero del relativo beneficio. Per esempio, se su quelle fatture l’azienda aveva chiesto un rimborso IVA o le aveva usate per crediti di imposta, verrà revocato.
  • Interessi su imposte: come per ogni accertamento, sulle somme dovute (IVA, IRES, IRAP recuperate) si applicano gli interessi legali maturati dal momento in cui il tributo avrebbe dovuto essere versato (tipicamente dalla scadenza del pagamento spontaneo dell’IVA o dal saldo imposte del periodo) fino alla data di pagamento effettivo.

In sintesi, l’impatto fiscale di un accertamento per fatture false è duplice: si paga l’IVA non versata dal fornitore (che l’acquirente aveva indebitamente detratto) come se fosse a carico dell’acquirente, e si pagano le imposte sui redditi sui costi fittizi (che avevano ridotto l’utile tassabile). Questi importi possono mettere in seria difficoltà la società, specie perché spesso sono retroattivi di vari anni (arrivano con avvisi di accertamento per più annualità insieme) e magari la società aveva già “speso” quei risparmi fiscali ottenuti.

Va sottolineato che, anche qualora il contribuente dimostri la sua buona fede e ottenga l’annullamento delle sanzioni, le imposte evase restano dovute salvo rarissime eccezioni. La buona fede, infatti, non è un’esimente oggettiva dall’obbligo tributario: l’IVA per il principio di neutralità UE potrebbe restare detraibile in certe condizioni, ma nella prassi italiana il giudice tributario difficilmente lascerà al contribuente il beneficio fiscale di una frode (anche se inconsapevole). Al più potrà non punirlo. Del resto, se l’operazione non è genuina, concedere comunque la detrazione/deduzione vorrebbe dire avallare un risultato in contrasto col sistema (un costo fittizio che abbatte tasse reali). L’unico scenario in cui l’imposta potrebbe non essere dovuta è se emergesse un errore dell’Amministrazione (ad es. la fornitura era reale e l’IVA è stata versata da qualcun altro, o l’ufficio non prova l’inesistenza soggettiva): allora non c’è frode su cui recupare.

Sanzioni amministrative tributarie

Accanto ai tributi, il contribuente subisce normalmente pesanti sanzioni amministrative. Ecco le principali in materia di fatture per operazioni inesistenti:

  • Dichiarazione infedele IVA: per l’IVA indebitamente detratta, si configura la violazione di dichiarazione IVA infedele (art. 5, comma 4, D.Lgs. 471/1997). La sanzione prevista è, di regola, il 90% della differenza d’imposta dovuta o del credito inesistente esposto . Se ad esempio il contribuente grazie alle fatture false aveva un credito IVA di 50.000 € mentre avrebbe dovuto versare 30.000 € (differenza 80.000 €), la sanzione è il 90% di 80.000. Esiste anche un comma 4-bis per casi particolari, ma per semplificare: l’ordine di grandezza è il 100% circa dell’IVA evasa. Le sanzioni possono aumentare se concorrono più annualità o se c’è recidiva, ma il 90% è base.
  • Indebita detrazione d’imposta: connessa all’infedele dichiarazione c’è la violazione specifica di indebita detrazione IVA (art. 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997), anch’essa punita con sanzione del 90% dell’imposta non spettante . Spesso gli uffici contestano entrambe le norme, ma non possono cumulare due volte la sanzione sullo stesso ammontare (dovranno eventualmente applicare la più grave o considerarle un unico conteggio).
  • Dichiarazione infedele redditi: per i costi fittizi dedotti in dichiarazione dei redditi (IRES, IRAP), scatta la sanzione da 90% al 180% della maggior imposta dovuta (art. 1, comma 2, D.Lgs. 471/1997). Anche qui tipicamente 90% se non emergono aggravanti. Ad esempio, se 100k di costi falsi comportavano 24k di IRES evasa, sanzione 21.6k (90% di 24k). Se sono più anni, ognuno avrà la sua.
  • Violazioni contabili: l’utilizzo di fatture false implica anche violazioni sulla tenuta delle scritture. Ad esempio, è una annotazione di operazioni inesistenti, punibile (art. 8 D.Lgs. 471/97) con sanzione tra il 100% e il 200% dell’IVA relativa, se non già punita come infedele. Queste però generalmente confluiscono nell’addebito principale e non aggiungono ulteriore sanzione autonoma (il principio del cumulo giuridico fa sì che prevalga la sanzione più grave quando un atto viola più disposizioni connesse).
  • Altre sanzioni: se c’è stato utilizzo in compensazione di crediti fittizi (derivanti dall’IVA non dovuta), si applica la sanzione per crediti inesistenti in F24 (art. 13 D.Lgs. 471/97) che è dal 100% al 200% del credito inesistente utilizzato . Questa può essere rilevante se l’azienda invece di chiedere rimborsi IVA li ha compensati con altre imposte.
  • Sanzioni accessorie: in casi gravissimi, teoricamente, potrebbe esservi proposta di interdizione da benefici fiscali, segnalazioni, ecc., ma sono rare in ambito amministrativo puro.

Buona fede e sanzioni: l’aspetto cruciale è che, in base allo Statuto del Contribuente (L. 212/2000) e alla normativa generale sulle sanzioni (D.Lgs. 472/1997), le sanzioni amministrative tributarie non sono dovute se il contribuente ha commesso la violazione in buona fede, ossia per obiettiva mancanza di colpevolezza. Precisamente, l’art. 6, comma 2, D.Lgs. 472/97 prevede che non è punibile chi ha violato la norma tributaria per obiettive condizioni di incertezza sulla stessa o per fatti dovuti a cause di forza maggiore; e la giurisprudenza ha esteso il concetto includendo anche la buona fede intesa come errore scusabile di fatto, qualora il contribuente abbia adottato tutta la diligenza del caso .

Nel contesto delle fatture false, la Cassazione – anche in sede penale tributaria – ha affermato che non vanno applicate sanzioni al cessionario che contabilizza una fattura inesistente senza essere consapevole di partecipare a una frode fiscale . Questo principio valorizza la “buona fede dell’acquirente”: se l’imprenditore inconsapevolmente, pur con diligenza media, è incappato in una cartiera, non dev’essere sanzionato . In pratica, l’assenza di dolo o colpa grave esclude la punibilità amministrativa.

Quindi, se il contribuente riesce in giudizio a provare la propria buona fede, normalmente ottiene l’annullamento delle sanzioni (integrale). Rimarranno invece dovute le imposte (IVA, IRES etc.) e gli interessi, poiché quelle non sono “punitivi” ma dovuti per legge. Questo è un esito frequente: la commissione tributaria può dichiarare legittimo il recupero delle imposte ma annullare le sanzioni per mancanza di colpevolezza. Oppure, in alcuni casi, se la prova di buona fede è totale, può persino annullare anche i tributi (specie IVA, in forza dei principi UE), ma è meno comune.

Nel caso la buona fede non sia riconosciuta, le sanzioni invece verranno confermate. Attenzione: le sanzioni suddette possono cumularsi su basi diverse (IVA e redditi), ma c’è un tetto del 100% dell’imposta cui si riferiscono per ciascuna. Tipicamente, per praticità, l’atto di accertamento conteggia un’unica sanzione per l’IVA (90%) e una per l’IRES (90%), più eventuali altre minori; poi eventualmente le unifica.

Il contribuente, se ravvisa la problematica prima di controlli, potrebbe attivarsi per ridurre le sanzioni via ravvedimento operoso: ad esempio, se si accorge che alcune fatture erano false e prima di un accertamento presenta una dichiarazione integrativa pagando l’IVA e le imposte dovute, può fruire di sanzioni ridotte (in autodenuncia). Tuttavia, nella pratica, raramente un contribuente ignaro si accorge da solo prima della GdF; e se era complice, difficilmente si ravvede spontaneamente.

Tabella 2: Principali sanzioni tributarie per utilizzo di fatture false (con buona fede vs malafede)

Violazione contestataSanzione baseApplicabilità se contribuente in buona fede
Dichiarazione IVA infedele per indebita detrazione IVA90% dell’IVA non versata (fino a 180% max)Esclusa se provata buona fede (nessuna consapevolezza) . Giurisprudenza esclude sanzioni al cessionario ignaro.
Indebita detrazione IVA (specifica art. 6 c.6)90% dell’IVA indebitamente detrattaCome sopra – di fatto confluisce nella sanzione per dichiarazione infedele IVA. Buona fede esclude punibilità.
Dichiarazione imposte redditi infedele (costi fittizi)90% della maggiore imposta (fino a 180%)Esclusa in caso di buona fede. Se contribuente dimostra di non aver avuto colpa, niente sanzione su IRES/IRAP evasa.
Registrazione di fatture false (art. 8 D.Lgs 471/97)100% – 200% dell’IVA indicata in fattura falsa (se non già punita altrove)Normalmente assorbita da sanzione dichiarativa; comunque, buona fede implicerebbe nessuna sanzione autonoma (errore scusabile).
Utilizzo in compensazione di crediti IVA inesistenti100% – 200% del credito inesistente utilizzatoSe dovuto un credito inesistente da frode, ma contribuente era incolpevole, possibile non punibilità (caso complesso e raro, solitamente contestato dolo).
Totale sanzioni potenzialiFino ~180% imposta evasa per ciascuna impostaSe buona fede provata: sanzioni annullate (0%). Se malafede: sanzioni piene cumulate (ma spesso ravvicinate al ~100% per imposta).

Nota: in ogni caso di riconoscimento di buona fede, il giudice può disapplicare o annullare le sanzioni per carenza dell’elemento soggettivo (assenza di colpevolezza), ai sensi dell’art. 6 D.Lgs 472/97 e dei principi generali. La buona fede rileva solo per le sanzioni, non legittima il mantenimento del beneficio fiscale (che dipende dalla realtà dell’operazione). Eccezione è per l’IVA in casi di diritto UE: se la frode è totalmente esterna al contribuente, la Corte UE suggerisce che la detrazione vada mantenuta , ma bisogna convincere il giudice nazionale di ciò.

Profili penali: reati di emissione e utilizzo di fatture false

Oltre al piano tributario-amministrativo, l’impiego di fatture da cartiera attiva anche il piano penale tributario, disciplinato dal D.Lgs. 74/2000. La legge prevede specifici reati sia per chi utilizza fatture false nelle proprie dichiarazioni fiscali, sia per chi le emette. Vediamo brevemente quali sono questi reati, le relative sanzioni e come incide la buona fede o meno del contribuente.

Dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false (art. 2 D.Lgs. 74/2000)

È il reato tipico a carico del cessionario, ovvero della società che, per evadere le imposte sui redditi o l’IVA, utilizza fatture per operazioni inesistenti indicandole in dichiarazione. Gli elementi costitutivi sono: – Condotta: indicazione in una dichiarazione fiscale (annuale IVA o redditi) di elementi passivi fittizi (costi inesistenti) avvalendosi di fatture o documenti falsi . – Elemento soggettivo: dolo specifico di evasione, cioè l’agente deve agire al fine di evadere le imposte.

La pena prevista (aggiornata alle ultime riforme) è la reclusione da 4 a 8 anni . È un reato molto grave (delitto). Tuttavia esistono soglie di punibilità: se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a 100.000 euro per periodo d’imposta, il fatto non è penalmente rilevante (rimane illecito amministrativo) . Questa soglia è stata introdotta per concentrare le sanzioni penali sui casi più significativi. Quindi, ad esempio, se un’impresa ha usato in un anno fatture false per 80.000 euro di costi, non supera la soglia: verrà sanzionata fiscalmente ma non imputabile ex art.2 (a meno che vi siano altre dichiarazioni con ulteriori importi da sommare che superino, la soglia si valuta per anno per dich.).

C’è inoltre una clausola: l’utilizzo si considera “avvalersi di fatture false” non solo se le inserisci in dichiarazione, ma anche solo tenerle in contabilità a fine di prova verso il Fisco . Cioè, se non dichiari nulla ma le conservi con quell’intento, è equiparato.

Buona fede nel penale: qui la “buona fede” equivale all’assenza di dolo. Se un soggetto realmente non sapeva che quelle fatture erano false, gli manca l’intento di evadere mediante artificio. Quindi non potrebbe essere condannato per il reato, che richiede volontarietà. In pratica, se la società prova (o quantomeno crea un ragionevole dubbio) di essere stata vittima inconsapevole, deve essere assolta perché manca l’elemento soggettivo (dolo specifico di evasione).

Il problema in sede penale è simile a quello visto nel tributario: spesso, data la macroscopica evidenza di certi indizi, i giudici penali presumono il dolo. Ma vi sono pronunce che assolvono l’imprenditore ritenuto realmente ingannato. Ad esempio, nel caso di Cassazione Penale n. 37889/2022, citata in un contributo, gli “ermellini” hanno ribadito che non si può parlare di comportamento fraudolento punibile se l’acquirente ha mantenuto la diligenza richiesta e non era consapevole (concetti analoghi a quelli civilistici) .

In concreto, come funziona: se la Procura ravvisa emissione di fatture false, di solito indaga anche gli utilizzatori maggiori. Se poi emerge che l’utilizzatore aveva comportamenti sospetti, li rinvia a giudizio per dichiarazione fraudolenta. Se invece si convince che l’utilizzatore fu in buona fede (magari perché ha collaborato nelle indagini, ha denunciato la cartiera ecc.), può anche chiedere l’archiviazione per quest’ultimo, riservando il penale ai cartieristi. Questo varia caso per caso.

È importante sapere che l’ignoranza incolpevole del carattere fittizio delle fatture, se creduta dal giudice, conduce ad assoluzione (formula “perché il fatto non costituisce reato” per mancanza di dolo). Tuttavia, spesso l’imputato deve fornire elementi convincenti per sostenere ciò, altrimenti la coincidenza colloquiale tra “buona fede tributaria” e “assenza di dolo penale” rischia di non essere riconosciuta. La Cassazione penale ha chiarito che il reato di dichiarazione fraudolenta “si configura anche nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti” : non c’è distinzione, quindi se tu usi fatture di cartiere sei punibile come se fossero false al 100%. Non c’è scappatoia sul piano oggettivo.

Da notare: se il contribuente stesso è parte attiva della frode (cioè magari ha lui reclutato la cartiera per farsi fare fatture), allora oltre all’art.2 potrebbe ravvisarsi il più grave reato di associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale (art. 416 c.p. combinato con reati tributari), ma questo riguarda casi strutturati di organizzazioni.

Cause di non punibilità: l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede cause di non punibilità per alcuni reati tributari se il contribuente paga integralmente il debito tributario prima dell’apertura del dibattimento. Tuttavia, per il reato di fatture false (art.2) questo non comporta estinzione del reato (a differenza di omessi versamenti). Pagare il dovuto può mitigare la pena (circostanza attenuante) ma non cancella il reato, perché considerato troppo grave per essere “estinguibile” con il semplice pagamento.

Pena concreta: se condannati, la pena detentiva può anche non essere effettivamente scontata in carcere per incensurati (sospensione condizionale, patteggiamento a pena sospesa, etc.), ma l’impatto reputazionale e professionale è serio (condanna penale per frode fiscale, interdizioni dai pubblici uffici, ecc.). In ambito penale, la condanna presuppone un livello di prova “oltre ogni ragionevole dubbio” che l’imputato sapesse della frode. Dunque, paradossalmente, se un contribuente ha perso in commissione tributaria (perché non ha convinto sul 51%), potrebbe comunque essere assolto in penale se c’è margine di dubbio sulla sua intenzionalità.

Emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000)

Questo è il reato complementare, a carico di chi le fatture false le emette o pone in essere. Tipicamente colpisce gli amministratori o prestanome della società cartiera. La condotta consiste nell’emissione o rilascio di fatture/documenti falsi allo scopo di consentire a terzi l’evasione (quindi è un reato di pericolo, consumato con l’emissione, non serve che il terzo le usi effettivamente). La pena prevista è la reclusione da 4 a 8 anni (come per l’utilizzo), anch’essa con soglia di punibilità a 100.000 € per periodo d’imposta.

Chiaramente, chi organizza la cartiera è in dolo diretto; la “buona fede” qui non esiste come concetto difensivo (a meno di casi limite di qualcuno costretto o ignaro di cosa firmasse, ma sarebbero scuse deboli). La difficoltà sta nel punire i veri responsabili: spesso i prestanome sono nullatenenti e condannabili, ma la mente dietro può essere difficile da incastrare se non appare formalmente. C’è giurisprudenza che persegue i co-amministratori di fatto: es. Cassazione ha ritenuto colpevole un contribuente come amministratore “di fatto” della cartiera, e quindi punibile per emissione, rigettando sue difese.

Dal punto di vista del cessionario in buona fede, il reato di emissione è altrui, ma può comunque avere conseguenze indirette: se il fornitore-cartiera viene indagato per art.8, è probabile che le operazioni con il cessionario vengano a galla e si intreccino con l’analisi del ruolo di quest’ultimo. Il contribuente vittima potrebbe essere chiamato a testimoniare, o addirittura a rispondere di favoreggiamento se emergono condotte attive (ma in genere no, se davvero vittima).

Altri possibili reati connessi

Nei contesti con fatture false si possono configurare altri reati, a seconda dello scenario: – Truffa ai danni dello Stato (art. 640-bis c.p.), a volte contestata quando vi è percezione di rimborsi IVA non dovuti basati su false fatture. Ad esempio, se un soggetto con fatture false chiede un rimborso IVA allo Stato, potrebbe risponderne per truffa aggravata (oltre che per reato fiscale). – Riciclaggio o autoriciclaggio: se i proventi della frode fiscale (IVA non versata) vengono reimmessi in circuiti finanziari, si potrebbe ipotizzare l’autoriciclaggio per i promotori. – Reati fallimentari: molte cartiere poi falliscono, e i loro amministratori possono essere accusati di bancarotta fraudolenta documentale (avendo tenuto contabilità falsa) e distrattiva (per l’IVA intascata). Questo riguarda i cartieristi più che l’utilizzatore, a meno che quest’ultimo non fallisca a causa del debito tributario. – Reato di indebita compensazione (art. 10-quater D.Lgs. 74/2000): se la società utilizzatrice ha usato in compensazione crediti IVA fittizi derivanti dalle fatture false (anziché versare imposte), può scattare questo reato (soglia 50k euro annui) . La pena va fino a 5 anni.

Settori particolari: edilizia, logistica, cooperazione – attenzione penale aggiuntiva

Il cliente ha menzionato specificamente settori come edilizia, commercio, logistica dove l’uso di fatture da cartiera è frequente. In questi campi, oltre ai reati fiscali, possono emergere: – In edilizia e logistica, l’utilizzo di cooperative o società fittizie per fornire manodopera a basso costo non pagandone contributi configura spesso anche reati in materia di lavoro: ad esempio la somministrazione illecita di manodopera (art. 18 D.Lgs. 276/2003) o nei casi peggiori caporalato (art. 603-bis c.p.) se c’è sfruttamento di lavoratori. L’imprenditore che ne beneficia potrebbe essere co-indagato. – Nel commercio di carburanti o rifiuti, le frodi IVA si accompagnano talvolta a reati ambientali (es. gestione illecita di rifiuti) o di contrabbando, se la filiera è sporca. – Nel settore appalti pubblici, l’uso di fatture fittizie può incrociarsi con reati di corruzione se serviva a creare fondi neri.

Senza dilungarsi oltre, il concetto chiave è: un imprenditore in buona fede che scopre di essere finito in uno schema del genere dovrebbe attivarsi immediatamente appena ne ha il sentore, per regolarizzare la posizione fiscale (pagando il dovuto) e prendere le distanze dai responsabili. Ciò può evitare o attenuare conseguenze penali. Collaborare con le autorità (denunciando la cartiera, fornendo elementi) è spesso considerata positivamente.

Caso giurisprudenziale penale aggiornato

Per dare un riferimento aggiornato: la Cassazione penale, sentenza n. 16678/2025, ha chiarito che la costituzione o l’utilizzo di società fittizie (cartiere) al fine di evadere le imposte configura pienamente il reato fiscale, ribadendo la punibilità penale di tali condotte. In tale pronuncia, la Corte ha voluto “chiarire definitivamente la linea di demarcazione tra elusione ed evasione fiscale, ribadendo la punibilità penale per chi costituisce o utilizza società fittizie” (studiolegalebianucci.it, 2025) – segno che anche nel 2025 la Cassazione mantiene tolleranza zero verso questi schemi, escludendo che possano essere derubricati a semplici elusioni senza rilevanza penale.

In sintesi, il piano penale per un contribuente “coinvolto” in fatture da cartiera si traduce in: – Nessuna responsabilità penale se effettivamente estraneo (buona fede autentica): in questo caso, anche se subisce il danno fiscale, dovrebbe evitare l’incriminazione o ottenere l’assoluzione. – Rischio di processo e condanna (anche severa) se emerge il coinvolgimento consapevole: si parla di anni di reclusione e infamia per frode fiscale. – In ogni caso, grande attenzione: un procedimento penale spesso si accompagna al sequestro preventivo dei beni fino a concorrenza dell’imposta evasa (c.d. sequestro per equivalente). La Cassazione ha stabilito che anche i beni personali dell’amministratore della società utilizzatrice possono essere sequestrati ai fini di confisca, in quanto autore del reato tributario . Ciò significa che si rischia il blocco di conti correnti, immobili, auto, ecc., per garantire il recupero delle somme.

Dunque, il debitore-contribuente che si trova coinvolto in queste vicende deve muoversi su due fronti paralleli: difendersi nel processo tributario per evitare di pagare ciò che non deve e le sanzioni, e al contempo difendersi (o prevenire) sul fronte penale, dimostrando la propria buona fede per evitare misure restrittive.

Casi pratici e giurisprudenza: esempi di difesa della buona fede

Per concretizzare i principi esposti, esaminiamo alcuni scenari reali o verosimili in cui una società si vede contestare fatture da cartiera, evidenziando gli argomenti difensivi disponibili e l’esito possibile. Ogni caso ha le sue peculiarità, ma serve a illustrare come i giudici applicano i concetti di onere della prova e diligenza.

Caso 1: Cooperativa di manodopera “fantasma” nel settore edile

Scenario: Beta S.r.l., impresa edile, subappalta nel 2023 parte delle opere di costruzione a una cooperativa (Delta Coop) che fornisce manodopera a prezzi molto competitivi. Beta riceve fatture mensili da Delta per complessivi 200.000 € + IVA. Nel 2025, un’indagine rivela che Delta Coop era una “cartiera”: non versava IVA né contributi, i soci-lavoratori erano fittizi, e fungeva solo per far ottenere a Beta costi e IVA a basso prezzo. Beta si trova un accertamento che contesta quei 200.000 € come costi inesistenti e l’IVA relativa come indetraibile. Inoltre, il titolare di Beta è indagato penalmente.

Elementi a sfavore di Beta (Fisco): Delta Coop presentava vari red flags: costituita solo 2 anni prima, nessun dipendente ufficiale (solo soci lavoratori occasionali), DURC irregolari (mai consegnati), prezzi di appalto molto bassi (sottocosto rispetto al contratto principale di Beta), rappresentante legale un prestanome nullatenente. Beta inoltre non aveva verificato a fondo queste cose: si è “accontentata” del risparmio sui costi.

Difesa di Beta: L’avvocato di Beta sostiene la buona fede: Beta aveva chiesto alcuni documenti a Delta – in giudizio produce copia della visura camerale e dell’iscrizione all’Albo Cooperative della Delta, risultate regolari; produce le e-mail di richiesta DURC (rimaste senza risposta) per mostrare che ci ha provato; mostra i bonifici tutti tracciati. Inoltre, Beta argomenta che nel settore edile è uso comune servirsi di cooperative, e che Delta le era stata presentata da un consorzio di cui faceva parte. Beta non ha avuto alcun vantaggio extra (ha ribaltato i costi nel capitolato senza lucro indebito). Aggiunge che la stazione appaltante pubblica non ha sollevato obiezioni su Delta (questo per dire: se non l’hanno notato neanche loro…).

Esito ipotizzato: Se Beta riesce a convincere che ragionevolmente pensava Delta fosse regolare (esibendo almeno qualche controllo base fatto, e sottolineando l’assenza di segnali clamorosi a quell’epoca), la Commissione Tributaria potrebbe riconoscere la sua buona fede. Ad esempio, se Beta dimostra di aver chiesto il DURC e Delta ha presentato un DURC falso (ipotizziamo), Beta viene considerata ingannata in modo fraudolento dalla cooperativa. Il giudice potrebbe annullare le sanzioni e, sull’IVA, applicare i principi UE dicendo che Beta può detrarre l’IVA perché non poteva sapere dell’evasione (sarebbe un caso virtuoso, non sempre succede). Tuttavia, se emergesse che Beta sapeva di pagare operai in nero tramite Delta (per dire, i dipendenti Beta lavoravano affianco a quelli Delta e notavano anomalie, o Beta finanziava di fatto Delta per pagarli in nero), allora la malafede sarebbe provata e Beta perderebbe su tutti i fronti, inclusa condanna penale.

Nota sul penale: In un caso simile realmente esaminato, alcuni imprenditori edili furono assolti penalmente perché emerse che loro avevano verificato i documenti della coop e pagato il dovuto, e fu dimostrato che la coop li aveva ingannati presentando attestazioni false. Nonostante ciò, fiscalmente persero la detrazione IVA (perché la coop non aveva versato nulla), ma evitarono le sanzioni.

Caso 2: Frode carosello nel commercio di elettronica

Scenario: Gamma S.p.A. commercializza componenti elettronici. Acquista merce da Tizio Srl, un grossista nazionale, e rivende ai dettaglianti. Nel 2021-2022 compra da Tizio per 1 milione € + IVA. Nel 2024 scopre che Tizio Srl era parte di un carosello: Tizio comprava senza IVA da un fornitore UE e rivendeva a Gamma con IVA che poi non versava; Tizio sparisce a fine 2022. Agenzia Entrate contesta a Gamma l’indebita detrazione di ~220.000 € di IVA su quelle fatture, sostenendo che Tizio era cartiera e Gamma doveva saperlo (anche perché Gamma comprava a un prezzo stranamente basso, appena sopra il netto europeo).

Elementi a sfavore (Fisco): Tizio Srl aveva sede in uno stanzino, nessun magazzino (faceva drop shipping UE -> Gamma), margini ridottissimi (vendeva a Gamma quasi allo stesso prezzo d’acquisto, improbabile se onesto), amministratore unico extracomunitario irreperibile dopo il 2022. Gamma inoltre era l’unico cliente di Tizio per volumi rilevanti, segno che forse era d’accordo.

Difesa di Gamma: Gamma sostiene di aver fatto controlli: aveva verificato che Tizio risultava iscritta VIES (vero), Tizio consegnava puntualmente la merce con documenti di trasporto regolari dal magazzino di Gamma (Tizio faceva arrivare i beni importati direttamente a Gamma – questa è però un’anomalia). Gamma dice: “Pensavo Tizio facesse trading parallelo, non sapevo non versasse IVA”. Mostra di aver contrattato con Tizio come con altri fornitori, di averne provati diversi e Tizio era solo uno di questi. Sostiene che i prezzi erano bassi perché Tizio prendeva grandi stock di fine serie dall’estero (ci sono email in cui Tizio parla di “lotto fine stock in Germania”). Gamma indica che appena Tizio non ha più consegnato (sparito), ha smesso di lavorarci immediatamente, segno che non era affatto d’accordo ma vittima.

Esito ipotizzato: questo caso è tipico da Corte di Giustizia. Se Gamma appare un operatore diligente (aveva più fornitori, non esclusiva con Tizio; faceva controlli di base; i documenti erano formalmente ok), potrebbe ottenere ragione sulle sanzioni e magari sulla detrazione IVA. Ad esempio, Cassazione in situazioni analoghe ha ritenuto che se l’acquirente non aveva strumenti per sapere che il suo fornitore non versava IVA a monte – specie nei caroselli internazionali intricati – non gli si può negare la detrazione . Tuttavia, il fatto che i beni arrivassero direttamente dall’estero a Gamma senza passare per Tizio è un campanello d’allarme: Gamma avrà dovuto spiegare perché accettava quella triangolazione (forse Tizio diceva di avere un outsourcing logistico). Se la spiegazione regge, Gamma può spuntarla. Possibile esito: Commissione riconosce che l’Agenzia non ha provato la consapevolezza di Gamma oltre ogni dubbio, dunque annulla l’IVA a debito. In subordine, almeno toglie le sanzioni. Penalmente, Gamma otterrebbe probabilmente l’archiviazione se dimostra di essere stata un compratore “normale” attratto solo dal buon prezzo, senza collusioni.

Caso 3: Logistica e carburanti – un caso multi-settore

Scenario: Omega S.r.l., azienda di autotrasporto, acquista nel 2020 grandi quantità di carburante da una società di trading, X S.p.A., con sede in un altro regione. Nel 2023, la Guardia di Finanza scopre che X S.p.A. è una cartiera nel settore carburanti: emetteva fatture di carburante a vari trasportatori, ma il carburante in realtà proveniva da canali illeciti senza accisa e IVA. X S.p.A. non ha mai versato accise né IVA ed è svanita. Omega veniva rifornita concretamente di gasolio (i camion facevano rifornimento tramite carte carburante fornite da X?). All’Omega contestano sia l’IVA su quei rifornimenti, sia la deducibilità dei costi carburante.

Difesa di Omega: Omega sostiene che per lei era come avere una normale carta carburante: X S.p.A. appariva sul mercato come operatore registrato, con deposito fiscale (risultato poi fittizio). Omega aveva controllato che X fosse iscritta nell’elenco dei depositi commerciali (X aveva prodotto licenze contraffatte forse). Omega produce i contratti di fornitura, che prevedevano formalmente tutto a norma, e nota che i prezzi pagati non erano nemmeno troppo bassi (forse X lucrava sulle accise evase, ma teneva prezzi vicini al listino per non destare sospetti). Quindi Omega argomenta di essere stata del tutto ignara e di aver subito anche danno (ora deve trovare altro fornitore, ecc.).

Esito ipotizzato: se Omega documenta di aver interagito con X come con qualsiasi fornitore (contratto scritto, verifica licenze, pagamenti a 30 gg via bonifico, prezzi congrui), appare davvero una vittima di un sistema fraudolento ordito da X. In questo scenario, l’Agenzia potrebbe avere difficoltà a provare che Omega “doveva sapere”. Se i prezzi erano a livello di mercato e X aveva le carte in regola all’apparenza (licenze, depositi, ecc.), non c’erano red flags. Ciò potrebbe portare a un esito favorevole: annullamento delle riprese (in particolare l’IVA detraibile viene mantenuta per Omega, secondo i principi UE, e costi deducibili perché comunque il carburante l’ha avuto e usato). Questa sarebbe l’applicazione ideale del principio di tutela del contribuente in buona fede. Tuttavia, tutto dipende dall’evidenza: ad esempio, se spunta che l’amministratore di Omega conosceva personalmente quello di X e c’era uno strano accordo per cui Omega pagava in contanti parte, allora la buona fede crolla. Ma se no, Omega viene scagionata. Tendenzialmente, in settori regolati come carburanti, la buona fede di chi acquista può essere creduta se si è fidato di documenti ufficiali poi risultati falsi.

Questi casi mostrano come la difesa debba essere costruita su misure concrete intraprese e sulla confutazione specifica degli indizi accusatori. Non esistono formule magiche: il contribuente deve “raccontare la sua storia” documentandola, per convincere i giudici che al suo posto qualsiasi imprenditore corretto sarebbe caduto nel tranello perché il tranello era ben congegnato o i segnali erano ambigui.

Domande frequenti (FAQ)

Di seguito proponiamo una sezione Domande e Risposte per chiarire i dubbi più comuni relativi alle contestazioni di fatture da cartiera e alla dimostrazione della buona fede. Questa forma di presentazione aiuta a riepilogare i concetti già esposti in modo diretto e pratico.

D: Cosa si intende esattamente per “cartiera palese”?
R: Una cartiera palese è una società fittizia la cui natura fraudolenta è evidente da diversi segnali oggettivi. In genere è un’impresa creata ad hoc che non svolge vera attività, utilizzata solo per emettere fatture. È “palese” quando presenta tutti i classici indizi di non operatività (nessuna struttura, nessun dipendente, mancati adempimenti fiscali, ecc.) . In pratica, un’azienda che chiunque, con normale diligenza, potrebbe riconoscere come inidonea a fare ciò per cui emette fattura. Ad esempio, una srl con sede in un garage che fattura milioni in consulenze informatiche senza avere neanche un computer, dovrebbe apparire sospetta a chiunque – quindi è una cartiera palese. Se invece la società fittizia è ben travestita (es. ha una sede “di facciata”, documenti in ordine), allora potremmo dire che è meno palese e inganna più facilmente.

D: Il Fisco può limitarsi a dire “il tuo fornitore è una cartiera, quindi ti tolgo la detrazione” senza provare altro?
R: No, secondo la Cassazione questo non è sufficiente. L’Agenzia delle Entrate deve provare non solo che il fornitore è una cartiera, ma anche che tu, contribuente, eri consapevole (o avresti dovuto esserlo) della frode . Quindi non basta dimostrare la fittizietà del fornitore: il Fisco deve collegarla a te con elementi che indicano la tua mala fede o negligenza. Se non lo fa, l’accertamento è carente e può essere annullato . Purtroppo, in pratica l’Ufficio spesso ritiene di averlo fatto indicando alcuni indizi (anche generici). Sta poi al giudice valutare se era prova sufficiente. Ma in linea di principio, solo la prova della cartiera non basta per invertire l’onere su di te .

D: Come faccio a sapere se un mio fornitore è affidabile o potrebbe essere una cartiera?
R: Ci sono varie verifiche preventive che puoi (e dovresti) fare: – Controlla la Partita IVA (deve essere attiva). Se è estero UE, controlla anche la validità VIES. – Chiedi una visura camerale: vedi data di costituzione, sede, capitale, amministratori. Anomalie (neo-costituita, capitale irrisorio, sede strana) sono segnali. – Se è un fornitore critico (importi alti), fai magari una ricerca online: sito web aziendale, recensioni, presenza sui social o su elenchi di settore. Una totale assenza dal web di un’azienda che fa grandi affari è sospetta. – Richiedi documenti come DURC (in edilizia/appalti) o licenze/autorizzazioni (per settori regolamentati). Un fornitore che esita o non fornisce documenti dovuti non è un buon segno. – Valuta il prezzo: se è significativamente sotto al mercato, chiedi spiegazioni. Puoi anche fare confronti con altri fornitori. – Verifica le modalità di pagamento: prediligi strumenti tracciati. Se un fornitore preferisce contanti o circuiti opachi, prudenza. – In caso di dubbio, chiedi referenze: ad esempio, conosci altre aziende che hanno lavorato con quel fornitore? Cosa ne dicono? Ricorda, come consigliato dagli esperti, che queste verifiche vanno documentate . Se emergono troppi dubbi, meglio evitare di fare affari con quel soggetto.

D: Ho acquistato merce effettiva ma da una società che poi è risultata una cartiera. Ho comunque usufruito di quei beni. Devo pagare di nuovo l’IVA su di essi?
R: Dal punto di vista strettamente fiscale interno, sì, l’IVA detratta ti viene contestata e dovrai pagarla allo Stato, perché il tuo fornitore non l’ha versata. L’Agenzia ti considera co-responsabile del mancato incasso IVA. In teoria, la Corte di Giustizia UE dice che se davvero non potevi sapere della frode, il diritto di detrazione dovrebbe esserti riconosciuto . Ma nella pratica italiana, per ottenere di conservare la detrazione devi convincere il giudice della tua totale buona fede. Se ci riesci, potresti non dover ripagare quell’IVA. Tuttavia, nella maggior parte dei casi la conclusione è che l’IVA viene recuperata e semmai ti tolgono la sanzione, ma l’imposta la paghi. Puoi poi provare a rivalerti sul fornitore (azione di risarcimento o restituzione), ma se era cartiera difficilmente recuperi qualcosa. In sintesi: se dimostri piena innocenza c’è una chance di mantenere la detrazione, altrimenti dovrai versare quell’IVA una seconda volta (la prima l’avevi pagata a chi ti ha truffato).

D: Il mio commercialista ha registrato tutto regolarmente e io ho pagato tutto tramite banca. Questo non prova già la mia buona fede?
R: Aiuta, ma non è una prova sufficiente da sola . Avere la contabilità in ordine e transazioni tracciabili è il minimo, ma anche i frodatori lo fanno per dare parvenza di legalità. La Cassazione ha espressamente detto che la regolarità formale dei conti e dei pagamenti “non costituisce di per sé prova di estraneità alla frode” . Devi dimostrare di aver fatto di più: ad esempio, di aver controllato chi fosse il fornitore, ecc. Certo, se tu avessi fatto pagamenti in nero sarebbe stata quasi prova di colpevolezza; aver usato la banca evita quell’indizio negativo e gioca a tuo favore. Ma per vincere devi aggiungere prove di diligenza, non basta dire “ho fatto bonifico, quindi ok”. In pratica è condizione necessaria (bene che tu abbia operato in chiaro), ma non condizione sufficiente per la buona fede.

D: L’Agenzia sostiene che avrei dovuto sapere perché la mia fornitrice non aveva dipendenti né sede idonea. Ma io come potevo saperlo?
R: Questo è un punto chiave. Il Fisco ragiona spesso ex post: “dovevi sapere, il fornitore non aveva capannone né operai”. Tu puoi rispondere: come potevo saperlo? Se il fornitore ti ha nascosto la cosa e tu non avevi strumenti per verificarlo, hai ragione. La Cassazione di recente (ordinanza 14102/2024) ha detto proprio che non puoi pretendere che il cessionario scopra l’assenza di struttura del fornitore se non aveva modo di verificarlo facilmente . Ad esempio, se il fornitore dichiarava di avere un magazzino altrove e tu non avevi accesso a quell’informazione, non è una tua colpa. Quindi la tua linea difensiva sarà: “mi vengono contestate cose che io, con i mezzi di un normale imprenditore, non potevo conoscere all’epoca”. Se hai prove di ciò (ad es. corrispondenza dove il fornitore mentiva su questi aspetti, oppure il contesto non ti permetteva di ispezionare), usale. Questo argomento è valido: non si può chiedere al contribuente di fare l’investigatore privato presso il fornitore . Quindi, se l’Ufficio non porta altri indizi di tua negligenza, sottolinea la sproporzione di pretendere quel tipo di verifica.

D: Se riesco a dimostrare la buona fede, mi annullano anche le imposte dovute o solo le sanzioni?
R: Dipende. Generalmente, la buona fede incide di sicuro sulle sanzioni (che vengono annullate) , ma non sempre sulle imposte. Nella prassi, le commissioni spesso annullano le sanzioni e confermano il recupero dell’IVA/costi. Però ci sono casi in cui, riconoscendo totale assenza di colpa e rifacendosi alla giurisprudenza UE, il giudice annulla anche il recupero dell’IVA (lasciandoti la detrazione) in nome del principio di neutralità se davvero eri ignaro . Più difficile è che ti lasci anche il costo deducibile, perché quello è fittizio (a meno che la prestazione c’era ed era solo soggettivamente inesistente – ma anche lì dovresti avere fattura da qualcun altro per dedurlo). Quindi scenario migliore: niente sanzioni e ti tengono buona l’IVA detratta; scenario intermedio: niente sanzioni ma paghi IVA e tasse; scenario peggiore (se non provi buona fede): paghi tutto e sanzioni piene. In sintesi, la vittoria parziale tipica è ottenere l’annullamento delle sanzioni (risparmiando un 90% per ogni imposta) – il che è già importante. Ottenere anche l’annullamento del tributo è più arduo e richiede un giudice sensibile ai richiami europei e un caso veramente limpido a tuo favore.

D: Posso essere perseguito penalmente (reato) anche se davvero non sapevo nulla della frode?
R: Per essere condannato penalmente devono provare che hai agito con dolo, cioè volontà di evadere usando fatture false. Se realmente non lo sapevi, manca l’intento fraudolento e dovresti essere prosciolto. Il problema è convincere la Procura o il giudice di ciò. In fase iniziale, se l’importo è grosso, è probabile che tu venga comunque indagato perché dal punto di vista oggettivo hai presentato una dichiarazione fraudolenta (con costi fittizi). Starà poi a te difenderti mostrando la tua condotta irreprensibile. Ci sono stati casi in cui, riconosciuta la buona fede, l’acquirente è stato dichiarato non punibile penalmente . Un esempio in Cassazione dice: “non c’è responsabilità penale per l’acquirente in buona fede” . Quindi, in teoria, se dimostri in tribunale penale che hai fatto tutto correttamente e sei stato ingannato, verrai assolto. Tuttavia, c’è anche il rischio che se alcuni elementi suggeriscono la tua complicità, potresti essere condannato. Il fatto che in sede tributaria ti riconoscano la buona fede aiuta molto come argomento difensivo nel penale, ma non vincola il giudice penale. Inoltre ricorda: finché il procedimento è aperto potresti subire misure come il sequestro beni. Se vieni completamente scagionato (archiviazione o assoluzione) hai diritto a dissequestro e fine dei guai penali.

D: In caso di condanna penale per fatture false, cosa rischio concretamente?
R: La legge prevede la reclusione da 4 a 8 anni per utilizzo fraudolento di fatture false (art.2) e altrettanto per emissione (art.8) . La pena concreta dipende dal caso: solitamente, per chi è incensurato e magari patteggia, si può ottenere il minimo edittale o poco più, spesso con sospensione condizionale se è entro 2 anni (ma con questi minimi 4 anni la condizionale non copre tutta la pena, serve uno sconto per attenuanti, ecc.). Ci sono anche pene accessorie: interdizione dagli uffici direttivi di imprese, ecc., per la durata della pena. Inoltre, come detto, confiscano il profitto del reato (l’imposta evasa): quindi se non hai già pagato all’Erario, ti possono confiscare quell’equivalente in denaro o beni. In casi di frodi organizzate, non è escluso il carcere effettivo se le pene cumulate superano certi limiti. Ma spesso, con il rito abbreviato o patteggiamento, la pena scende sotto i 4 anni, permettendo misure alternative. Ciò non toglie che la condanna per frode fiscale è gravemente stigmatizzante. Se sei assolto per buona fede, eviti tutto questo. Se sei condannato per malafede, preparati a conseguenze molto serie (in passato, prima dell’innalzamento pene, molti se la cavavano con condizionale, oggi è più dura evitare almeno qualche mese ai domiciliari in casi gravi).

D: Ho scoperto dopo un anno che un fornitore era una cartiera. Cosa mi conviene fare immediatamente?
R: Se non sei ancora stato accertato e hai questo sospetto o scoperta: 1. Raccogli tutte le prove della tua buona fede (verifiche fatte, comunicazioni, etc.). 2. Valuta con un fiscalista se è il caso di fare una dichiarazione integrativa per rimuovere quei costi/IVA dalle tue dichiarazioni e fare un ravvedimento operoso. Questo ti farà pagare le imposte dovute, ma con sanzioni ridotte (ad esempio 1/6 del 90%, se fatto dopo un anno) e interessi. Così sistemi la posizione fiscale ed eviti un futuro accertamento con sanzioni piene. Certo, esborsi comunque soldi, ma almeno dimostri la tua volontà di regolarizzare appena saputo. 3. Parallelamente, potresti denunciare la cartiera alle autorità (Guardia di Finanza). Questo a volte aiuta a mostrarti come parte lesa. 4. In ogni caso, interrompi immediatamente i rapporti con quel fornitore e, se hai in corso operazioni non ancora dichiarate, non detrarre/dedurre più nulla da lui. La scelta di ravvedersi dipende dall’entità: se parliamo di importi enormi e sei convinto di poter provare la buona fede in giudizio, potresti anche aspettare l’eventuale contenzioso. Ma sappi che ravvedersi riduce molto le sanzioni e in ambito penale potrebbe persino evitare la procedibilità in alcuni casi (anche se art.2 non si estingue col pagamento, come detto). È una decisione strategica da valutare con un legale tributario.

D: In definitiva, qual è la “migliore difesa” in queste situazioni?
R: La migliore difesa è prevenire: quindi operare sempre con trasparenza, scegliere partner affidabili, fare controlli e tenere documentazione. Se nonostante ciò vieni coinvolto, allora la difesa migliore è mostrare di essere stato diligente. Porta in Commissione tutto ciò che attesta il tuo comportamento corretto e l’inganno subito. Fai leva sulla giurisprudenza che tutela l’imprenditore onesto ma sfortunato . Sii collaborativo con i verificatori (fornisci i documenti spontaneamente, spiega le tue ragioni già in sede di PVC). Una difesa efficace spesso coinvolge anche consulenti tecnici: ad esempio, far fare a un perito un’analisi di settore per dimostrare che i tuoi prezzi di acquisto erano allineati al mercato (quindi non avevi motivo di sospettare). O portare testimonianze di terzi (es. altri clienti truffati dallo stesso fornitore, per dimostrare che ingannava tanti). Insomma, costruire un quadro dove risulti chiaro che tu non eri parte del gioco. Alla fine, conta convincere i giudici: se li persuadi che “al suo posto sarei potuto incappare anch’io in questa situazione”, hai vinto la causa.

Tabelle riepilogative

In questa sezione conclusiva, presentiamo alcune tabelle riepilogative che sintetizzano le principali informazioni utili:

Tabella 3: Differenze tra operazioni inesistenti oggettive vs. soggettive e impatto sulla difesa

AspettoOperazione oggettivamente inesistente (fittizia al 100%)Operazione soggettivamente inesistente (cartiera interposta)
Cos’èNulla è realmente avvenuto: né beni né servizi ceduti. Fattura totalmente falsa, “di pura carta”.L’operazione economica c’è stata, ma non con il soggetto indicato in fattura (fornitore apparente ≠ fornitore effettivo).
EsempioFattura per consulenza mai prestata; fattura per vendita di beni mai consegnati.Fattura da Alfa Srl, che dichiara di aver eseguito lavori, ma in realtà i lavori li ha fatti Beta Srl (non fatturati da Beta).
Buona fede invocabile?Molto difficile. Se hai registrato una fattura senza ricevere nulla in cambio, è praticamente certo che eri consapevole (a meno di casi di truffa in cui paghi per merce mai arrivata, ma sarebbe imprudenza enorme).Sì, possibile. Hai ricevuto il bene/servizio, potevi non sapere che il fornitore formale era fittizio. Devi però mostrare che tutto appariva regolare e non avevi indizi della diversa provenienza.
Difesa tipicaDimostrare che in realtà l’operazione è avvenuta (quindi negare l’inesistenza oggettiva). Es: provare con documenti che la merce c’era, i servizi sono stati resi. (Se ci riesci, non è più operazione inesistente). Se invece l’operazione davvero non c’è stata, nessuna difesa convincente: la frode è palese.Riconoscere che l’operazione fu “soggettivamente” falsa ma sostenere di essere stati inconsapevoli. Dimostrare di aver fatto verifiche sul fornitore, di aver effettivamente beneficiato della prestazione senza sospetti, e che il fornitore sembrava legittimo.
Posizione del FiscoFacile per il Fisco: prova l’inesistenza materiale (ad es. nessun DDT, testimonianze che la merce non c’era). A quel punto implica automaticamente il dolo del contribuente (“non poteva non sapere, visto che nulla ha ricevuto”).Più complessa: il Fisco deve provare la frode a monte e poi trovare elementi che il contribuente doveva accorgersene (prezzi anomali, pagamenti strani, etc.). Se non riesce su questo secondo aspetto, la pretesa può cadere.
Esito probabileSe davvero la fattura è fittizia al 100%, contribuente soccombente (accertamento confermato, sanzioni piene, e rilevanza penale). Buona fede esclusa in radice (contribuente di fatto complice).Dipende dalle prove: se il contribuente fornisce prova convincente di buona fede, esito favorevole (sanzioni annullate, talora IVA mantenuta). Se no, soccombe. Penale: possibile non luogo a procedere se buona fede provata.

Tabella 4: Prove/indizi tipici presentati nel contenzioso

Prove a favore del Fisco (malafede)Prove a favore del Contribuente (buona fede)
Fornitore senza struttura (nessun capannone, mezzi, dipendenti) – “cartiera conclamata” .Visura camerale e verifiche preventive svolte: il fornitore risultava regolarmente registrato, nessun segnale palese di irregolarità (esibita visura pulita).
Fornitore inadempiente fiscale (omessi versamenti IVA, niente dichiarazioni) .Richiesta e ottenimento di documenti di regolarità (DURC, certificati fiscali) all’epoca, tutti apparentemente regolari.
Prezzi di vendita al cessionario anormalmente bassi (sotto costo) .Prezzi di acquisto allineati al mercato (perizia che lo dimostra) oppure giustificati da promozioni/stock (documentazione commerciale fornita).
Pagamenti e flussi finanziari incoerenti (es. pagamento ritardato dopo rivendita; oppure anticipo anomalo) .Pagamenti effettuati con modalità standard (bonifico a 60 giorni fattura su conto italiano del fornitore); nessun flusso inusuale da segnalare.
Legami sospetti tra contribuente e fornitore (es. soci comuni, contatti frequenti non giustificati) – suggerisce collusione.Nessun rapporto personale/affaristico extra: fornitore scelto sul mercato tra altri, rapporto contrattuale formale. Contribuente magari ha agito tramite gara o broker, segno di trasparenza.
Fornitore irreperibile post-fatturazione (sparito subito dopo incassi) – cartiera usa-e-getta.Il contribuente stesso ha cercato il fornitore quando è sparito (denunce di irreperibilità, querele sporte appena capito il problema – indicano che è vittima).
Mancanza di documenti di trasporto o prove della consegna effettiva. (Indizio di operazione fantasma).Documenti di trasporto firmati, registri di ingresso merci, rapporti di lavoro svolto – provano che qualcosa è avvenuto realmente e il contribuente ne ha beneficiato.
Utilizzo di intermediari opachi (es. presentatori noti per frodi).Eventuale coinvolgimento di intermediari affidabili (es. fornitore segnalato da ente o partner rispettabile) – contribuente aveva ragione di fidarsi.
Accollo spese insolite da parte del fornitore (es. trasporto gratuito su lunghe distanze, etc. per ridurre tracce).Condizioni contrattuali del tutto normali (nessuna clausola sospetta).

Tabella 5: Sanzioni e pene – confronto scenario buona fede vs mala fede

ConseguenzaSe contribuente ritenuto in buona fedeSe contribuente ritenuto in mala fede
Sanzioni tributarie (amministrative)Non applicate. Il cessionario viene considerato non colpevole, quindi sanzioni annullate dal giudice (art. 6, c.2 D.Lgs 472/97) .Piene. Applicazione di ~90%-100% delle imposte evase per ogni violazione (dich. infedele IVA, redditi, etc.) cumulate. Possibili aumenti per continuazione.
Imposta IVA su fatture falseSpesso mantenuto diritto a detrazione (non deve ripagare IVA) – ma solo se giudice accoglie tesi UE su inconsapevolezza . (In molti casi comunque la paga ma senza sanzione).Deve restituire tutta l’IVA detratta indebitamente + interessi. Nessuna esimente.
Imposte dirette su costi fittiziIn teoria, se totalmente in buona fede e transazione reale con altro soggetto, il giudice potrebbe ritenere deducibile il costo reale. Ma caso raro; di solito il costo fittizio è indeducibile comunque. Al più, no sanzione.Reddito imponibile aumentato delle somme false, con pagamento delle maggiori imposte + interessi. Nessuna chance di dedurre costi finti.
Procedimento penale (art. 2 D.Lgs 74/2000)In genere, non luogo a procedere o assoluzione, perché manca il dolo. L’imprenditore può emergere come testimone-vittima contro la cartiera. (Può comunque subire indagine preliminare, ma si chiude senza condanna) .Condanna per dichiarazione fraudolenta. Pena base 4-8 anni reclusione. In caso di più anni e circostanze aggravanti, possibili pene più vicine al massimo. Probabile confisca equivalente sui beni.
Reputazione e altri danniCase di buona fede riconosciuta possono persino essere pubblicizzati (il contribuente dimostra integrità). Evita iscrizioni a black list interne del Fisco.Enorme danno reputazionale: considerato evasore fraudolento. Possibile esclusione da gare pubbliche, perdita di affidabilità creditizia, ecc., oltre all’onta della condanna.

Conclusioni

Le contestazioni di fatture da cartiera rappresentano un terreno insidioso per le imprese, poiché combinano aspetti tecnici tributari e valutazioni sulla condotta dell’imprenditore. Dal punto di vista del debitore-contribuente, difendersi con successo richiede di spostare la narrativa: da potenziale complice di frode a parte lesa di un raggiro fiscale. Ciò si ottiene solo attraverso un’accurata preparazione probatoria e una chiara strategia processuale, basata sui principi giuridici consolidati.

Riassumendo i punti salienti: – Preparazione e prevenzione: la miglior difesa in un contenzioso su cartiere inizia prima che il contenzioso nasca. Adottare procedure interne di verifica fornitori, tenere traccia scritta di ogni controllo (due diligence), evitare scorciatoie sospette, sono investimenti che possono salvare l’azienda da guai futuri . In settori a rischio, la compliance dev’essere massima: oggi un imprenditore informato sa che frodi IVA e cooperative fittizie sono frequenti, quindi non può cadere dalle nuvole totalmente. – Onere della prova ben definito: se l’accertamento è basato su fatture false, ricordate che spetta inizialmente al Fisco provare ciò che contesta . Ciò dà spazio alla difesa per esigere, già nel ricorso, che l’Ufficio produca elementi concreti (non solo “il fornitore non ha versato IVA, quindi sei complice”). Spesso gli accertamenti vengono annullati perché l’Agenzia si è “accontentata” di presumere malafede senza portare prove specifiche . Far leva su questa eventuale lacuna è fondamentale. – Massima collaborazione e trasparenza: un contribuente in buona fede non ha nulla da nascondere. Durante le verifiche, ha convenienza a fornire spontaneamente la documentazione che attesta la sua diligenza, invece di subirne la ricerca coattiva. Mostrare un atteggiamento cooperativo con i verificatori (pur tutelando i propri diritti) spesso porta a verbali più equilibrati. Inoltre, segnalare volontariamente eventuali anomalie scoperte (ad es. “ci siamo accorti che il fornitore X forse era irregolare e abbiamo interrotto i rapporti”) può entrare a verbale ed essere utile in giudizio. – Difesa penale e tributaria coordinate: se c’è pendenza penale, è opportuno che gli avvocati tributarista e penalista lavorino in sinergia, perché elementi emersi in un ambito influenzano l’altro. Ad esempio, una sentenza tributaria che riconosce la buona fede può essere utilizzata nel penale come prova favorevole; viceversa, se nel penale emergono nuovi documenti (come intercettazioni, testimonianze) questi vanno portati subito all’attenzione del giudice tributario se aiutano la vostra posizione. Coordinare le strategie evita contraddizioni e rafforza la credibilità complessiva. – Perspective del giudice: bisogna sempre mettersi nei panni del giudice tributario, che avrà visto tanti casi. Sarà probabilmente diffidente verso scuse generiche (“non sapevo nulla” lo dicono tutti). Ma sarà ricettivo verso argomentazioni supportate da fatti: “non potevo sapere X perché ecco cosa ho fatto e non ho scoperto nulla di strano”. Fornire spiegazioni plausibili per ogni anomalia evidenziata dal Fisco è essenziale – non lasciare “buchi neri” nella storia. Se c’era un prezzo basso, spiega perché credevi fosse così (documenta magari che la qualità era inferiore, etc.). Se il legale rappresentante del fornitore era un prestanome, spiega come magari si presentava un altro manager come referente e tu non avevi modo di sapere chi fosse il prestanome. Insomma, ricomponi un quadro logico dove le tue azioni abbiano senso per un imprenditore onesto. – Autovalutazione critica: un consiglio pratico per chi si appresta a difendersi – rivedi tutte le operazioni contestate con occhio critico. Fatti aiutare dal tuo consulente a individuare dove obiettivamente hai forse sottovalutato un rischio. Non negare l’evidenza di errori, piuttosto contestualizzali. Esempio: “è vero, non ho ottenuto il DURC, ma l’ho chiesto tre volte senza risposta e nel frattempo avevo urgenza di finire i lavori, quindi ho proceduto confidando che fosse un ritardo burocratico”. Ammettere di aver tralasciato qualcosa, dando però una spiegazione umana e non dolosa, può risultare più credibile che ostinarsi a dire di aver fatto tutto perfetto se non è vero. – Impatto economico: se siete in causa per queste cifre, preparatevi anche all’eventualità di dover rifondere almeno in parte il Fisco. Valutate piani B: rateazioni (in caso di perdita), accantonamenti a bilancio per rischi fiscali, etc. Mostrare al giudice che siete disposti a pagare il dovuto ma chiedete giustizia sulle sanzioni e sulla vostra onorabilità può essere visto positivamente (segno di buona fede è anche non ostinarsi sull’evidenza dell’imposta dovuta se la cartiera ha frodato). A volte conviene persino in corso di processo pagare le imposte e chiedere la sola disapplicazione sanzioni: dà un segnale di ravvedimento. Ovviamente ogni caso è unico. – Lezioni apprese: infine, se un’azienda esce indenne (o anche parzialmente colpita) da un caso del genere, dovrebbe fare tesoro dell’esperienza: rafforzare ancora di più i controlli interni. Purtroppo il Fisco e la GdF tengono monitorati i soggetti coinvolti in frodi: se sei stato vittima una volta, la prossima volta potrebbero essere meno indulgenti se ricapita (penseranno che non hai imparato o che eri complice). Quindi dopo essere passato attraverso un contenzioso di cartiere, implementa procedure scritte di verifica fornitori, forma il personale amministrativo a riconoscere segnali di allarme, etc., per non ripetere l’incubo.

In conclusione, dimostrare la buona fede in materia di fatture da cartiera è una sfida tutt’altro che semplice, ma non impossibile. Il sistema normativo attuale, pur reprimentendo severamente le frodi carosello, ha sviluppato anticorpi per distinguere chi ordisce la frode da chi vi è coinvolto a sua insaputa . Sfruttando intelligentemente questi spiragli di tutela e preparando una difesa rigorosa e onesta, una società ha buone probabilità di evitare il tracollo sanzionatorio e penale, pur dovendo in ogni caso sopportare l’esborso delle imposte evase dal fornitore disonesto.

Come evidenziato dalla sentenza CTR Lazio 1622/2025, “la buona fede non può essere semplicemente dichiarata, ma deve essere provata attraverso comportamenti concreti e preventivi” . Questa affermazione riassume il cuore della questione: la buona fede è, in definitiva, comportamento diligente. Dimostratelo, e la legge sarà dalla vostra parte.

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato l’utilizzo di fatture provenienti da una cartiera palese? Fatti Aiutare da Studio Monardo

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestato l’utilizzo di fatture provenienti da una cartiera palese?
Vuoi sapere cosa rischi e come dimostrare la tua buona fede davanti al giudice tributario?

👉 Prima regola: dimostra di aver adottato tutte le cautele possibili per verificare l’affidabilità del fornitore, così da provare che la società non era consapevole della frode.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Acquisti documentati con fatture provenienti da società cartiere prive di struttura o mezzi;
  • Operazioni inesistenti o gonfiate usate per dedurre costi e detrarre IVA;
  • Rapporti continuativi con fornitori notoriamente inattivi o irregolari;
  • Mancanza di contratti, DDT, pagamenti tracciati o altra documentazione di supporto;
  • Segnalazioni dell’anagrafe tributaria o della Guardia di Finanza su fornitori fittizi.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Indeducibilità dei costi e recupero delle imposte non versate;
  • Indetraibilità dell’IVA per le fatture ritenute false;
  • Sanzioni amministrative per dichiarazione infedele;
  • Interessi di mora sulle somme accertate;
  • Responsabilità penale in caso di utilizzo consapevole di fatture false (art. 2 D.Lgs. 74/2000).

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Sono stati svolti controlli preliminari sul fornitore (visure, DURC, verifiche fiscali)?
  • I pagamenti erano tracciati e coerenti con i corrispettivi fatturati?
  • Esiste documentazione (contratti, ordini, DDT, rapporti di consegna) che provi la reale esistenza dell’operazione?
  • La società ha agito con la diligenza richiesta a un operatore economico onesto?
  • L’accertamento si basa su presunzioni generiche o su prove concrete di complicità?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Contratti di fornitura e ordini scritti;
  • DDT e documentazione di trasporto;
  • Estratti conto e bonifici bancari;
  • Certificazioni e comunicazioni ufficiali con il fornitore;
  • Relazioni interne che giustifichino la scelta commerciale.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la realtà delle operazioni con prove documentali;
  • Contestare la riqualificazione automatica come operazioni inesistenti;
  • Evidenziare la buona fede e i controlli effettuati sul fornitore;
  • Eccepire vizi di motivazione e carenze probatorie nell’accertamento;
  • Richiedere annullamento in autotutela o ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria;
  • Difesa penale mirata in caso di accuse di utilizzo consapevole di fatture false.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la documentazione aziendale e i rapporti con i fornitori;
📌 Valuta la legittimità della contestazione e individua i punti di forza difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e nei procedimenti penali;
🔁 Suggerisce strategie preventive per ridurre i rischi di rapporti con fornitori irregolari.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e penale-tributario;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su fatture false e società cartiere;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni per fatture da cartiera palese non sempre sono fondate: l’Agenzia delle Entrate tende a presumere la complicità dell’impresa, ma la buona fede può essere provata.
Con una difesa mirata puoi dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni, far valere la diligenza adottata nella scelta dei fornitori e ridurre drasticamente sanzioni e rischi penali.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti su fatture da cartiere inizia qui.

Leggi con attenzione: se in questo momento ti trovi in difficoltà con il Fisco ed hai la necessità di una veloce valutazione sulle tue cartelle esattoriali e sui debiti, non esitare a contattarci. Ti aiuteremo subito. Scrivici ora. Ti ricontattiamo immediatamente con un messaggio e ti aiutiamo subito.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
Si invita a leggere attentamente il disclaimer del sito.

Torna in alto

Abbiamo Notato Che Stai Leggendo L’Articolo. Desideri Una Prima Consulenza Gratuita A Riguardo? Clicca Qui e Prenotala Subito!