Hai ricevuto un avviso di accertamento o una cartella esattoriale e vuoi impugnarla? In questi casi, lo strumento principale è il ricorso davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado (ex Commissione Tributaria Provinciale). Questo organo giudiziario valuta la legittimità degli atti dell’Agenzia delle Entrate, dell’Agenzia delle Entrate Riscossione e degli altri enti impositori. Sapere come funziona il ricorso, i tempi e i costi è fondamentale per difendersi in modo efficace.
Quando si può fare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado
– Per avvisi di accertamento dell’Agenzia delle Entrate
– Per cartelle di pagamento notificate da Agenzia Entrate Riscossione
– Per avvisi di liquidazione e atti catastali
– Per rifiuti di rimborso o silenzi dell’amministrazione
– Per qualsiasi altro atto impositivo che incida su imposte, tasse o tributi
Tempi e modalità del ricorso
– Il termine ordinario è di 60 giorni dalla notifica dell’atto contestato
– Il ricorso va depositato in via telematica tramite il processo tributario telematico (PTT)
– È necessario notificare il ricorso all’Ufficio che ha emesso l’atto prima del deposito in Corte
– Il ricorso deve contenere i motivi di impugnazione, le prove e la richiesta di annullamento totale o parziale
– È possibile chiedere anche la sospensione cautelare dell’esecuzione dell’atto impugnato
Costi del ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria
– È previsto il pagamento del contributo unificato tributario (C.U.T.) al momento del deposito
– L’importo varia in base al valore della controversia:
- fino a 2.582,28 € → 30 €
- da 2.582,29 € a 5.000 € → 60 €
- da 5.000,01 € a 25.000 € → 120 €
- da 25.000,01 € a 75.000 € → 250 €
- oltre 75.000 € → 500 €
– Possono aggiungersi le spese legali per l’assistenza di un avvocato
– In caso di vittoria, il giudice può condannare l’Agenzia al rimborso delle spese sostenute
Come difendersi in modo efficace
– Analizzare attentamente l’atto notificato e individuare eventuali vizi formali o sostanziali
– Raccogliere documentazione probatoria (contratti, estratti conto, perizie, dichiarazioni fiscali)
– Evidenziare la violazione di norme tributarie o procedurali da parte dell’Ufficio
– Sostenere le proprie ragioni con giurisprudenza favorevole e norme di riferimento
– Presentare un ricorso chiaro, ben motivato e corredato da prove concrete
Il ruolo dell’avvocato nella difesa tributaria
– Valutare la fondatezza del ricorso e la probabilità di successo
– Predisporre un ricorso tecnicamente corretto e strategico
– Assistere il contribuente in tutte le fasi del processo tributario telematico
– Difendere il cliente durante le udienze davanti alla Corte di Giustizia Tributaria
– Richiedere la sospensione cautelare dell’atto per bloccare riscossioni immediate
Cosa puoi ottenere con un ricorso ben impostato
– L’annullamento totale o parziale dell’atto impugnato
– La sospensione delle richieste di pagamento già in corso
– La riduzione delle imposte, sanzioni e interessi richiesti
– Il rimborso delle spese legali in caso di vittoria
– La certezza di far valere i tuoi diritti davanti al giudice tributario
⚠️ Attenzione: i termini per presentare ricorso sono molto rigidi. Anche un solo giorno di ritardo può rendere definitiva la pretesa del Fisco. È fondamentale agire subito e affidarsi a professionisti esperti.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario – spiega come fare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado, quali sono i costi e quali strategie adottare per difendersi con successo.
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Introduzione
Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (già Commissione Tributaria Provinciale) è il passo fondamentale per il contribuente che intenda contestare un atto impositivo o di riscossione ritenuto illegittimo o infondato. Questa guida avanzata – aggiornata a settembre 2025 – illustra in dettaglio come fare ricorso, le novità normative più recenti (come la riforma della giustizia tributaria introdotta dalla Legge 130/2022 e dal D.Lgs. 220/2023), i costi da sostenere e i passaggi procedurali chiave, con un taglio pensato sia per professionisti legali sia per contribuenti (privati e imprenditori) interessati a comprendere a fondo il processo. Il tutto è affrontato dal punto di vista del debitore (il contribuente destinatario dell’atto).
Affronteremo dunque: quali atti si possono impugnare (dal classico avviso di accertamento IRPEF o IVA, agli atti relativi a tributi locali come l’IMU, fino alle cartelle esattoriali emesse dall’Agente della Riscossione ), i termini e le modalità per proporre ricorso, la competenza territoriale della Corte, l’iter del processo tributario di primo grado (deposito telematico, eventuale mediazione o conciliazione, udienza, sentenza) e le possibili strategie deflattive (come l’adesione o l’acquiescenza) da valutare prima di avviare il contenzioso . Saranno inoltre esaminati i costi del ricorso – in primis il Contributo Unificato Tributario (CUT) dovuto per iscrivere la causa a ruolo – con tabelle riepilogative aggiornate. Un’apposita sezione di Domande e Risposte frequenti (FAQ) chiarirà infine i dubbi pratici più comuni (ad esempio: “Ho 60 giorni per fare ricorso: come si calcolano?”, “Serve un avvocato?”, “Posso ottenere la sospensione della cartella?”, “Quali sono le ultime novità normative di cui tenere conto?”, “È impugnabile un avviso bonario o un estratto di ruolo?” ecc.).
Quadro normativo aggiornato (riforma 2022–2025)
Il processo tributario italiano è disciplinato principalmente dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (come successivamente modificato), nonché dallo Statuto dei diritti del contribuente (L. 212/2000) e dalle norme del codice di procedura civile richiamate per quanto compatibili. Negli ultimi anni vi sono state importanti riforme della giustizia tributaria per migliorarne efficienza e garanzie: – Legge 31 agosto 2022, n. 130 – Ha riformato l’ordinamento dei giudici tributari e il processo . Ad esempio, ha disposto la nuova denominazione degli organi: le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali sono state rinominate rispettivamente in Corti di Giustizia Tributaria di primo grado e di secondo grado . Ha inoltre introdotto figure come il magistrato tributario professionale (selezionato tramite concorso) e innovazioni processuali come il giudice monocratico per le liti minori, l’ammissibilità della prova testimoniale scritta, una disciplina più stringente sulle spese di lite, e strumenti deflattivi come la conciliazione rafforzata in giudizio. – Decreto-Legge 13/2023 (convertito con modifiche) – Ha anticipato e integrato alcune misure della riforma. In particolare, ha elevato la soglia per il giudice unico da €3.000 a €5.000 di valore della controversia , rendendo monocratica la decisione per un numero più ampio di cause minori dal 1° luglio 2023 . Ha uniformato a €5.000 anche la soglia per la difesa personale del contribuente (come vedremo, entro tale valore non è obbligatorio il difensore tecnico). – Decreto Legislativo 30 dicembre 2023, n. 220 – In vigore dal 2024, ha introdotto ulteriori novità sul contenzioso tributario in attuazione della Delega Fiscale. Tra le principali si segnalano: – Obbligo generalizzato di processo telematico: tutti gli atti processuali devono essere notificati e depositati con modalità telematiche (PEC e portale dedicato) per giudici, parti e consulenti . L’uso della carta è ammesso solo in via eccezionale su autorizzazione del Presidente di sezione, e per le parti che si difendono personalmente senza assistenza tecnica (che possono depositare anche in modalità cartacea) . Le violazioni delle regole telematiche non causano nullità, ma il giudice può imporre la regolarizzazione entro un termine perentorio . Viene inoltre prevista la partecipazione da remoto alle udienze su richiesta di parte (salvo diversa decisione discrezionale del giudice) . – Sentenze “in forma semplificata”: è ora codificata la possibilità di una sentenza con motivazione abbreviata nei casi di ricorso manifestamente fondato o infondato, inammissibile o improcedibile. In tali casi il giudice può limitarsi a indicare il punto di fatto o di diritto risolutivo della controversia . Ciò snellisce la redazione delle decisioni per le liti di immediata evidenza. – Spese di giudizio e compensazione: il decreto ha innovato l’art. 15 D.Lgs. 546/92 prevedendo che la compensazione delle spese (cioè l’assorbimento di ciascuno delle proprie spese, senza condanna alle spese per il soccombente) possa disporsi, oltre che nei casi già previsti di soccombenza reciproca o gravi eccezionali ragioni, anche quando la parte vittoriosa vince sulla base di documenti decisivi prodotti solo in corso di giudizio . Questa previsione mira a evitare che il contribuente ottenga la vittoria tardivamente grazie a prove che avrebbe potuto fornire prima: in tal caso le spese possono essere lasciate a suo carico (nonostante la vittoria) invece di gravare sull’ente soccombente. – Impugnabilità del diniego di autotutela: si amplia l’oggetto del giudizio tributario includendo il rifiuto, espresso o tacito, dell’autotutela obbligatoria e il rifiuto espresso dell’autotutela facoltativa . Come dettagliato più avanti, lo Statuto del Contribuente ora distingue le istanze di autotutela in obbligatorie (in presenza di errori gravi ed evidenti) e facoltative: il D.Lgs. 220/2023 consente il ricorso al giudice contro il mancato accoglimento di tali istanze (prima, l’autotutela era considerata atto discrezionale non impugnabile). Si tratta di un notevole passo in avanti nella tutela del contribuente, che potrà far valere in giudizio il diritto all’annullamento di atti manifestamente illegittimi (errori di persona, di calcolo, ecc.) se l’ufficio rifiuta di correggerli . – Abolizione del reclamo-mediazione obbligatorio: per i ricorsi di valore fino a €50.000 notificati a partire dal 2024 è stato eliminato l’obbligo della preventiva fase di reclamo e mediazione (introdotta nel 2012 come filtro deflattivo per le liti minori). Dal 4 gennaio 2024 l’art. 17-bis D.Lgs. 546/92 è abrogato , e dunque il contribuente può proporre ricorso direttamente in Commissione senza attendere 90 giorni per la mediazione. Nella sezione sui termini processuali vedremo i dettagli e il regime transitorio di questa abrogazione. – Altre innovazioni procedurali: il decreto interviene anche su vari aspetti tecnici, come il divieto di nuove prove in appello (salvo eccezioni: nuova formulazione dell’art. 58, comma 3 D.Lgs. 546/92, su cui la Corte Costituzionale è intervenuta nel 2025 ), l’udienza cautelare più celere (decisione sull’istanza di sospensione entro 30 giorni dalla presentazione, prima erano 180 giorni ), e la maggiore valorizzazione della conciliazione giudiziale (ora il giudice può formulare una proposta alle parti anche fuori udienza, e l’istituto è esteso per incentivare soluzioni transattive) . Inoltre viene confermata la specializzazione della Sezione Tributaria in Corte di Cassazione e introdotto un principio di giudicato “espresso” su singole questioni ripetitive (le decisioni definitive su una certa questione di diritto potranno fare stato anche per periodi d’imposta diversi, riducendo il contenzioso seriale – su questo aspetto c’è stato dibattito dottrinale e qualche pronuncia di legittimità ).
In sintesi, il quadro normativo attuale risulta dal testo del D.Lgs. 546/1992 come novellato dalle riforme sopra menzionate. Nel prosieguo, ogni istituto verrà illustrato evidenziando tali novità (per es. segnalando dove si applicano regimi diversi ai ricorsi notificati prima del 2024). Di seguito iniziamo dagli aspetti pratici: chi può proporre ricorso, contro quali atti e con quali condizioni.
Chi può proporre ricorso e quando è necessario farlo
Qualsiasi contribuente – sia persona fisica che società o ente – che riceva un atto impositivo o di riscossione da parte dell’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Dogane, Comune o altro ente impositore) ha il diritto di impugnarlo dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente . In particolare, il ricorso diviene necessario quando si riscontrano vizi di legittimità (violazioni di legge, incompetenza, errori procedurali) oppure vizi di merito (infondatezza della pretesa tributaria) nell’atto ricevuto.
È tuttavia opportuno che, prima di avviare un contenzioso, il contribuente valuti eventuali soluzioni alternative offerte dall’ordinamento per definire la pendenza senza ricorrere al giudice . Ad esempio, in caso di avviso di accertamento fiscale potrebbe convenire aderire alla procedura di accertamento con adesione (richiedendo un contraddittorio all’ufficio che sospende i termini di ricorso per 90 giorni) al fine di ottenere una riduzione delle sanzioni e magari concordare una base imponibile più bassa. Oppure, qualora l’ufficio riconosca un errore, il contribuente può presentare una istanza di autotutela per chiedere l’annullamento in via amministrativa dell’atto: come accennato, oggi l’eventuale diniego potrà essere impugnato in giudizio se si tratta di autotutela “obbligatoria” (per errori palesi) . Vi sono anche istituti deflattivi quali l’acquiescenza (pagamento entro termini ridotti con sanzioni ridotte), la definizione agevolata delle sanzioni, o – in caso di comunicazioni di irregolarità – l’adesione con pagamento delle somme dovute con sconto sulle sanzioni. Queste possibilità vanno considerate perché, se ben utilizzate, possono risolvere la controversia più rapidamente e con costi minori.
Detto ciò, quando l’atto è ritenuto erroneo e non si trova un accordo con l’ente, proporre ricorso è l’unico modo per tutelare i propri diritti e far valere le proprie ragioni davanti a un giudice terzo. Ricorrere è dunque necessario per evitare che l’atto diventi definitivo e che la pretesa fiscale divenga incontestabile. Ad esempio, un avviso di accertamento IRPEF che il contribuente reputi sbagliato (magari perché non ha considerato deduzioni spettanti, o per un errore di calcolo) deve essere impugnato entro il termine previsto, altrimenti le somme accertate diverranno dovute definitivamente. Analogamente, una cartella di pagamento per IRAP o IVA non versata deve essere contestata (per vizi propri o relativi al fatto che il tributo non era dovuto) entro i termini, altrimenti l’Agente della Riscossione potrà procedere con le azioni esecutive (fermo amministrativo, ipoteca, pignoramento).
Riassumendo: può ricorrere chiunque sia destinatario di un atto tributario lesivo e vuole contestarlo formalmente. Non vi sono particolari limitazioni soggettive: il contribuente può essere un cittadino privato, un professionista, un imprenditore individuale o una società/ente. In ogni caso, se l’importo in contestazione supera una certa soglia (vedi oltre la difesa tecnica obbligatoria), occorrerà farsi assistere da un difensore abilitato. Resta inteso che il ricorso va presentato entro i termini di decadenza stabiliti dalla legge, pena l’inammissibilità: questo aspetto cruciale sarà trattato nella prossima sezione.
Atti impugnabili dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria
Non tutti gli atti che il Fisco invia ai contribuenti possono essere impugnati in giudizio. La legge (art. 19 D.Lgs. 546/1992) fornisce un elenco tassativo di atti autonomamente impugnabili davanti alle Corti di Giustizia Tributaria di primo grado . Si tratta, in generale, degli atti con cui viene enunciata una pretesa tributaria ben definita, ovvero viene richiesto un pagamento di imposte/sanzioni, o viene rigettata un’istanza del contribuente in materia tributaria. Ecco i principali atti impugnabili (con esempi pratici):
- Avviso di accertamento del tributo: è l’atto con cui l’ente impositore (tipicamente l’Agenzia delle Entrate per imposte erariali come IRPEF, IRES, IVA, oppure un Comune per tributi locali come IMU o TARI) accerta un maggior tributo dovuto. Ad esempio, un avviso di accertamento IRPEF notificato a un professionista per redditi non dichiarati, o un accertamento IMU notificato a un cittadino per omessa dichiarazione di un immobile. L’accertamento contiene la quantificazione dell’imposta, sanzioni e interessi. È sempre impugnabile entro 60 giorni dalla notifica , anche se non prevede pagamento immediato (in quanto comunque esprime una pretesa tributaria definita). Rientra in questa categoria anche l’avviso di rettifica/liquidazione per imposte come l’imposta di registro, successione, bollo ecc., in cui l’ufficio riliquida l’imposta dovuta (elencato separatamente come “avviso di liquidazione”) .
- Provvedimento di irrogazione di sanzioni: è impugnabile l’atto con cui si infliggono sanzioni amministrative tributarie in via autonoma. Ad esempio, un provvedimento irrogativo notificato dall’Agenzia delle Entrate per sanzionare violazioni formali o sostanziali (omessa fatturazione IVA, ecc.) separatamente dal tributo. Anche se l’atto riguarda solo sanzioni (senza maggiore imposta), può essere impugnato entro 60 giorni .
- Ruolo e cartella di pagamento: il ruolo è l’elenco dei debiti tributari formato dall’ente impositore e trasmesso all’Agente della Riscossione; la cartella esattoriale (di pagamento) è l’atto con cui l’Agente (Agenzia Entrate Riscossione – Ader, ex Equitalia) notifica al contribuente l’iscrizione a ruolo e richiede il pagamento entro 60 giorni. In pratica, il contribuente conosce il ruolo attraverso la cartella, quindi è quest’ultima a essere normalmente impugnata (contenendo la intimazione di pagamento) . Esempio: una cartella che richiede €10.000 tra IRPEF, addizionali e sanzioni derivanti da un avviso di accertamento divenuto definitivo (o da una liquidazione automatica). Attenzione: la cartella può essere contestata per vizi propri (es. notifica invalida, prescrizione, difetti formali, importo errato) oppure per motivi relativi all’atto presupposto (come l’accertamento) se quest’ultimo non è stato notificato regolarmente. In tal caso, contestando la cartella si “recupera” anche la possibilità di far valere l’invalidità dell’atto precedente mai ricevuto. Il ruolo in sé è menzionato tra gli atti impugnabili , ma di regola il contribuente impugna la cartella che lo contiene. (Si noti che secondo la giurisprudenza di legittimità, un ruolo o un estratto di ruolo non costituiscono di per sé provvedimenti impugnabili, in assenza di una cartella: fanno eccezione i casi in cui l’estratto di ruolo sia l’unica conoscenza che il contribuente ottiene di una pretesa mai notificata, circostanza in cui è ammessa l’impugnazione “mediata” del ruolo stesso insieme alla cartella mai ricevuta.)
- Avviso di mora (intimazione di pagamento): è un atto della riscossione emesso dall’Agente quando il contribuente non paga entro 60 giorni dalla notifica della cartella. L’intimazione di pagamento ingiunge di pagare entro 5 giorni, pena l’esecuzione forzata, e va notificata a pena di decadenza entro un certo termine (generalmente 180 giorni prima di procedere ad esecuzione in caso di cartelle notificate da oltre un anno). Anch’essa è impugnabile per vizi propri (ad es. se notificata fuori termine, o riferita a cartelle già annullate o prescritte) .
- Iscrizione di ipoteca sugli immobili: se l’Agente della riscossione iscrive ipoteca su un immobile del contribuente per crediti tributari non pagati (ai sensi dell’art. 77 del D.P.R. 602/1973), il provvedimento di iscrizione è impugnabile davanti al giudice tributario . Esempio: ipoteca su casa per cartelle non pagate > €20.000; il contribuente può contestare l’omessa comunicazione preventiva o la legittimità dell’ipoteca.
- Fermo amministrativo di beni mobili registrati: il provvedimento di fermo amministrativo (es. fermo dell’auto, ex art. 86 D.P.R. 602/1973) iscritto dall’Agente per crediti tributari è impugnabile . Spesso il contribuente contesta la mancata notifica della comunicazione preventiva di fermo, o l’intervenuta prescrizione del credito.
- Atti relativi alle operazioni catastali: rientrano qui es. i provvedimenti emanati dall’Agenzia del Territorio (ora incorporata nell’Agenzia Entrate) sulle rendite catastali, classamenti, ecc., che hanno rilievo fiscale (ad esempio ai fini IMU o imposte patrimoniali) . Tali atti (rettifiche di classamento, attribuzione rendita) sono impugnabili in Commissione.
- Rifiuto di rimborso di tributi: se il contribuente ha presentato un’istanza di rimborso di tributi o accessori non dovuti e l’ufficio la nega espressamente (diniego) o tacitamente (silenzio per il tempo previsto), tale diniego è impugnabile . Ad esempio, diniego di rimborso IVA chiesto da un’impresa, o silenzio-rifiuto su istanza di rimborso IRAP: il contribuente potrà ricorrere per ottenere dal giudice quanto richiesto.
- Diniego o revoca di agevolazioni fiscali; rigetto di domande di definizione agevolata: se l’ente nega un’agevolazione tributaria (es. credito d’imposta, regime fiscale agevolato) o revoca un’agevolazione precedentemente concessa, l’atto è impugnabile . Parimenti, se viene rigettata una domanda di definizione agevolata (come condoni, sanatorie fiscali previste da leggi speciali), quel provvedimento di diniego può essere portato in giudizio .
- Diniego di autotutela: come anticipato, sono ora espressamente impugnabili:
- il rifiuto (espresso o tacito) sull’istanza di autotutela obbligatoria nei casi tassativi previsti dall’art. 10-quater L. 212/2000 . Ciò ricorre, ad esempio, se il contribuente ha chiesto l’annullamento di un avviso per errore di persona, errore di calcolo, errore sul presupposto d’imposta evidente, duplicazione d’imposta, pagamento già eseguito ma non risultante, ecc. (tutte situazioni di evidente illegittimità elencate dal nuovo art. 10-quater) , e l’ufficio non risponde entro 90 giorni (silenzio-rifiuto) oppure risponde negativamente. In tal caso il contribuente può ricorrere per far dichiarare l’obbligo dell’amministrazione di annullare l’atto errato.
- il rifiuto espresso sull’istanza di autotutela facoltativa (art. 10-quinquies L. 212/2000) . L’autotutela facoltativa è quella al di fuori delle ipotesi evidenti di cui sopra, dove l’ufficio non ha obbligo di provvedere. Se l’ufficio risponde negativamente, la legge ora consente di impugnare quel diniego in Commissione, se il contribuente ritiene ingiusto il mancato annullamento. Nota: diversamente dal caso di autotutela obbligatoria, il silenzio sull’autotutela facoltativa non è impugnabile – solo un diniego espresso lo è. Quindi, se l’ufficio ignora l’istanza facoltativa, il contribuente non potrà far altro che attendere l’atto definitivo e impugnare quello.
- Atti relativi a procedure internazionali contro doppia imposizione: ad esempio, la decisione di rigetto dell’istanza di apertura di una procedura amichevole presentata ai sensi della direttiva UE 2017/1852 o di una convenzione contro le doppie imposizioni . Questo è un caso molto specifico che interessa le imprese multinazionali o situazioni transfrontaliere: se l’autorità competente italiana rifiuta di attivare la procedura amichevole di accordo con l’altro Stato, il contribuente può ricorrere in Commissione Tributaria per censurare tale rifiuto.
- Ogni altro atto la cui impugnabilità davanti al giudice tributario sia prevista per legge: clausola di chiusura che comprende, ad esempio, gli atti dell’agente della riscossione in materia di rimborsi da eseguire, o altri atti particolari previsti da norme speciali .
Come si vede, l’elenco è ampio e copre la maggior parte delle situazioni tipiche in cui si concretizza una pretesa tributaria. La giurisprudenza, inoltre, ha chiarito che tale elenco – pur tassativo – va interpretato estensivamente in modo da garantire una tutela effettiva al contribuente . In altre parole, bisogna guardare alla sostanza dell’atto: qualunque atto del Fisco che comunichi al contribuente una pretesa tributaria compiuta, con indicazione delle ragioni di fatto e di diritto, è impugnabile immediatamente, anche se non nominato espressamente nell’elenco . Ad esempio, la comunicazione di irregolarità (cosiddetto avviso bonario ex art. 36-bis DPR 600/1973), pur non essendo inserita nell’elenco dell’art. 19, “porta a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa impositiva” e dunque – secondo la Corte di Cassazione – può essere impugnata subito senza attendere la cartella . La Cassazione ha affermato lo stesso principio per altri atti “atipici” che sostanzialmente contengono una pretesa, come ad esempio l’invito a pagare di un Comune per la TOSAP o un avviso bonario di sanzioni per ritardato versamento: anche tali atti, se motivati e chiari nell’importo dovuto, legittimano il contribuente a ricorrere immediatamente .
In pratica: quando si riceve un atto dal Fisco, ci si deve chiedere se con esso viene formalizzata una richiesta ben precisa (pagare un’imposta, applicare una sanzione, negare un beneficio, ecc.). Se sì, quasi sempre l’ordinamento offre la possibilità di farlo valutare al giudice tributario. Viceversa, atti che non incidono direttamente sulle posizioni del contribuente non sono autonomamente impugnabili – ad esempio una comunicazione generica o un invito a comparire per esibire documenti (che non contiene ancora una pretesa) non è impugnabile. È importante individuare correttamente l’atto contro cui ricorrere: se si sbaglia oggetto (ad es. ricorso contro un atto non impugnabile), il ricorso verrà dichiarato inammissibile. Su questo può aiutare il consiglio di un esperto, specie in casi dubbi.
Competenza territoriale della Corte di Giustizia Tributaria
Una volta individuato l’atto da impugnare, occorre presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado territorialmente competente. La competenza territoriale in campo tributario segue la regola generale per cui è competente la Corte (ex Commissione) nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio che ha emanato l’atto impugnato . In altre parole, si guarda dov’è situato l’ente impositore o riscossore autore del provvedimento: – Per un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, sarà competente la Corte di Giustizia Tributaria (CGT) relativa alla Direzione Provinciale o Regionale dell’Agenzia che ha emesso l’atto . Esempio: un avviso emesso dall’Agenzia Entrate – Direzione Provinciale di Milano, si impugna davanti alla CGT di primo grado di Milano. – Per un atto di un Ente locale (Comune, Regione, Provincia) – ad esempio un avviso TARI di un Comune – la competenza è della CGT nella cui circoscrizione ha sede tale ente (di solito coincide con la provincia). Esempio: avviso IMU del Comune di Firenze → CGT primo grado Firenze (Circoscrizione Toscana, sede Firenze). – Per una cartella di pagamento o altro atto dell’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione), la regola è simile: competente la CGT dove ha sede l’Agente della Riscossione che ha emesso l’atto . A.E.Riscossione opera tramite strutture territoriali, quindi sarà la Commissione del territorio di quella struttura. Ad esempio, una cartella emessa dalla Direzione Regionale Lazio di Ader → CGT primo grado Lazio (sede Roma). (Nota: su questo vi sono state in passato controversie, ma la norma vigente nell’art. 4 D.Lgs. 546/92 chiarisce la competenza per territorio in base alla sede dell’ente che ha formato l’atto) – Per atti relativi a tributi di diversi uffici, in genere fa fede l’atto prevalente o, se impugnati congiuntamente più atti, può rilevare l’ufficio “prevalente”. In linea di massima, però, ogni atto va impugnato davanti alla propria Commissione competente. Se si hanno più atti di enti diversi, si dovranno fare ricorsi separati nelle rispettive sedi competenti (non esiste un foro unico per il contribuente).
Individuare la giurisdizione corretta è cruciale: un ricorso presentato alla Corte sbagliata può portare a una dichiarazione di incompetenza e alla necessità di riassumere la causa dinanzi a quella competente, con perdita di tempo. La Commissione che si dichiara incompetente trasferisce gli atti, ma è comunque opportuno evitare l’errore. L’art. 5 D.Lgs. 546/92 consente al giudice tributario di rilevare d’ufficio l’incompetenza territoriale e indicare la Commissione competente . Il contribuente dovrà poi riattivare il processo presso quest’ultima entro 60 giorni per non perdere il ricorso.
In sintesi: verificare la sede dell’ufficio che ha emesso l’atto e rivolgersi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado del medesimo ambito territoriale. Ad esempio, per un avviso di accertamento IRPEF emesso dalla DP Roma dell’Agenzia Entrate, la Commissione competente è quella del Lazio (con sede a Roma). Per una cartella relativa a tributi locali del Comune di Napoli, competente sarà la CGT Campania (sede Napoli), perché l’atto di riscossione ha origine da un ente con sede a Napoli.
(Nota sulla competenza per materia: tutte le controversie riguardanti tributi di qualsiasi genere – erariali, regionali, locali – rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice tributario, tranne alcune materie escluse per legge, come tributi doganali in certe fasi, o cause dove non si discute di tributi ma di tariffa, ecc. In generale però, se è un tributo o sanzione tributaria, la giurisdizione è quella tributaria.)
Difesa tecnica e difesa personale: quando serve l’avvocato
Nel processo tributario vige il principio della difesa tecnica obbligatoria sopra una certa soglia di valore: ciò significa che, per le liti di importo rilevante, il contribuente deve farsi assistere da un difensore abilitato (avvocato o altro professionista autorizzato), mentre per le liti di modesta entità è ammessa la difesa personale (il contribuente può stare in giudizio da solo, senza assistenza tecnica) .
Attualmente, a seguito delle recenti modifiche, la soglia è fissata a €5.000 di valore della controversia . In particolare: – Controversie di valore fino a €5.000: il contribuente può scegliere di difendersi personalmente, ossia presentare il ricorso e stare in giudizio senza un difensore tecnico . Il valore della controversia si calcola in base all’importo del tributo contestato (al netto di interessi e sanzioni) – se si tratta solo di sanzioni, il valore è l’importo delle sanzioni . Ad esempio, per un avviso di accertamento che chiede €4.000 di imposta e €1.000 di interessi, il valore è €4.000; essendo ≤ €5.000, la difesa personale è ammessa. Se invece l’atto riguarda solo una sanzione da €4.500, anche in tal caso la soglia è rispettata (valore €4.500) e si può procedere senza difensore. – Controversie di valore superiore a €5.000: è obbligatorio farsi assistere da un difensore abilitato . Ciò significa che l’atto introduttivo (ricorso) dev’essere sottoscritto da un professionista rientrante tra quelli indicati dalla legge.
Chi sono i difensori abilitati nel processo tributario? La legge li elenca (art. 12, c. 2 D.Lgs. 546/92): principalmente avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili iscritti ai relativi albi, ma anche altre categorie come i consulenti del lavoro (per cause su contributi previdenziali obbligatori), i funzionari delle associazioni di categoria abilitati al patrocinio, e – per le cause di tributi locali – i dipendenti dei comuni con apposita qualifica. In pratica, nella maggior parte dei casi il difensore sarà un avvocato tributarista o un commercialista esperto in contenzioso.
Nota: se una controversia formalmente di valore sotto soglia è collegata inscindibilmente ad altre o presenta questioni complesse, è comunque consigliabile avvalersi di un professionista. Ad esempio, un contribuente che impugna un piccolo avviso può tecnicamente fare da sé, ma se la materia è intricata (norme IVA, questioni catastali, ecc.) rischia di incorrere in errori procedurali. Si tenga presente che la procedura tributaria è tecnica: la redazione del ricorso, la notifica, il deposito telematico richiedono conoscenze specifiche. Difatti, come sottolineato da analisi dottrinali, la difesa personale del contribuente è spesso “difficile” da attuare, dovendo il contribuente districarsi da solo tra normative sostanziali e processuali complesse .
Se la difesa tecnica è obbligatoria e il contribuente propone ricorso senza assistenza, si configura un vizio che in passato portava all’inammissibilità del ricorso. Oggi, la giurisprudenza ammette la possibilità di sanatoria: ad esempio, la nomina di un difensore in corso di giudizio può eventualmente sanare la nullità originaria. Tuttavia, è una situazione da evitare: è preferibile incaricare un difensore sin dall’inizio quando richiesto.
Procura alle liti: quando si conferisce l’incarico a un difensore, occorre rilasciare apposita procura. Nel processo tributario la procura può essere: – redatta su atto pubblico o scrittura privata autenticata; – oppure apposta in calce o a margine del ricorso (o di altro atto processuale) . In quest’ultimo caso, se il ricorso è su supporto cartaceo la firma autografa va autenticata dal difensore stesso; se invece è su documento informatico, il contribuente può firmarlo digitalmente conferendo mandato al difensore (o il difensore allega procura firmata digitalmente). – La procura, se rilasciata su foglio separato, va depositata telematicamente insieme al ricorso, con attestazione di conformità se scansionata da originale cartaceo .
In udienza pubblica è persino ammesso conferire procura oralmente a verbale (evenienza rara, ma utile se il contribuente si presenta personalmente all’udienza e decide di farsi assistere seduta stante da un avvocato presente).
Riassumendo sulla difesa: – Entro €5.000: si può fare da soli (difesa personale). In tal caso il contribuente firma e presenta il ricorso in proprio. Questa facoltà è un’eccezione pensata per liti minori, per evitare di gravare di spese legali sproporzionate. È comunque possibile farsi assistere anche se non obbligatorio. – Oltre €5.000: serve un difensore abilitato. Il ricorso deve contenere la firma di quest’ultimo e la procura. – In ogni caso, anche nelle liti sotto soglia, se la controparte è un ente rappresentato da propri funzionari qualificati o avvocati dell’Avvocatura, il “confronto” può essere tecnicamente impegnativo. Dunque valutare attentamente la scelta della difesa personale. Molti contribuenti optano comunque per farsi assistere anche in liti minori, per evitare di incorrere in decadenze o nullità dovute all’inesperienza.
Esempio pratico: Un cittadino riceve una cartella per €3.500 di bollo auto non pagato. Valore (tributo) €3.500 < soglia €5.000, potrebbe difendersi da solo presentando il ricorso via PEC. Tuttavia, se non ha dimestichezza con la normativa, rischia errori (es. notifica PEC a indirizzo errato, mancato deposito corretto dei documenti) che potrebbero compromettere il ricorso. Rivolgersi a un difensore potrebbe aumentare le chance di successo e magari portare all’annullamento per prescrizione. La scelta dipende dalla confidenza del contribuente con le regole processuali e dalla complessità della questione.
Termini per presentare ricorso
Il termine di decadenza per proporre il ricorso tributario è generalmente di 60 giorni dalla data di notificazione dell’atto impugnato . Ciò significa che entro 60 giorni il ricorso deve essere notificato all’ente che ha emesso l’atto (vedremo a breve le modalità di notifica). Questo termine vale per la stragrande maggioranza degli atti (avvisi di accertamento, cartelle, dinieghi, ecc.), salvo eccezioni specifiche previste da norme speciali.
Ecco i punti chiave sul computo dei termini:
– Decorrenza: il giorno da cui si conta è il giorno successivo a quello in cui si è perfezionata la notifica dell’atto. Ad esempio, se un avviso viene notificato il 10 marzo, il termine inizia l’11 marzo e scade il 10 maggio (60º giorno) salvo proroghe. Se l’ultimo giorno cade di sabato, domenica o festivo, è prorogato al primo giorno lavorativo successivo (art. 16, c. 5 D.Lgs. 546/92). – Sospensione feriale dei termini: anche nel processo tributario si applica la sospensione feriale dal 1° al 31 agosto di ogni anno (ai sensi della L. 742/1969, richiamata dall’art. 1 D.Lgs. 546/92). Quindi, se il periodo dei 60 giorni ricade in agosto, quei 31 giorni non si contano. Ad esempio, per un atto notificato il 20 giugno, il termine ordinario scadrebbe il 19 agosto, ma essendo nel mezzo la sospensione feriale, esso slitta al 19 settembre. Attenzione: la sospensione non si applica agli atti emessi nelle procedure cautelari (fermi, ipoteche) e in alcuni casi speciali di tributi indiretti, ma in generale per la gran parte dei ricorsi è operativa. – Prolungamenti particolari: in alcune situazioni la legge prevede termini diversi. Ad esempio, per i ricorsi avverso diniego tacito di rimborso, il termine è di 90 giorni dall’avverarsi del silenzio-rifiuto (che di regola matura dopo 90 giorni dalla domanda, se la legge tributaria non prevede un termine diverso). Dunque in pratica circa 180 giorni dalla domanda iniziale di rimborso. Oppure, se l’atto impugnabile non indica il termine di ricorso o l’autorità giurisdizionale, in passato si discuteva se si applicasse l’istituto della “querela nullitatis” senza limiti di tempo; oggi questi vizi comportano nullità della notifica ma è prudente comunque agire entro termini ragionevoli.
Un capitolo a parte meritano i termini legati al (fu) reclamo-mediazione. Fino al 2023, per le liti di valore ≤ €50.000, la proposizione del ricorso fungeva anche da reclamo: il contribuente notificava il ricorso e non lo depositava subito, dovendo attendere 90 giorni per la fase di mediazione con l’ente . Il termine per il successivo deposito in Commissione decorreva dallo spirare di quei 90 giorni, se la mediazione non andava a buon fine . Con l’abrogazione di tale istituto dal 2024, la tempistica è tornata lineare: per i ricorsi notificati dal 4 gennaio 2024 in poi, non si deve attendere alcuna mediazione, e il ricorrente deve depositare il ricorso entro 30 giorni dalla notifica all’ente (il deposito sarà trattato nella sezione successiva). In concreto: – Ricorsi notificati fino al 3 gennaio 2024 (di valore ≤ €50.000): si applicava la vecchia procedura. Dunque il termine di 60 giorni per notificare, poi 90 giorni di attesa; infine obbligo di depositare entro i successivi 30 giorni . Se la mediazione avesse avuto esito positivo entro i 90 gg, il ricorso non andava depositato affatto perché la lite si chiudeva con accordo. – Ricorsi notificati dal 4 gennaio 2024: niente più reclamo. Pertanto, dopo la notifica del ricorso all’ente, il contribuente deve iscrivere la causa a ruolo presso la CGT entro 30 giorni dalla notifica stessa . Non occorre né attendere né avviare trattative obbligatorie (resta comunque possibile raggiungere conciliazioni in sede giudiziale, una volta avviato il processo). – Ricorsi notificati dopo il 1° settembre 2024: a regime vale la regola generale (notifica e deposito entro 30 gg). Il periodo 4/1/2024 – 31/8/2024 è stato oggetto di alcune incertezze interpretative poi superate: inizialmente il legislatore con D.Lgs. 220/2023 aveva disposto l’applicazione delle nuove norme solo ai giudizi instaurati con ricorso notificato dopo il 1° settembre 2024, creando un disallineamento con l’abrogazione del reclamo dal 4 gennaio 2024. Il MEF, con comunicato del 22 gennaio 2024, ha chiarito che per i ricorsi notificati dal 4 gennaio 2024 la mediazione non opera e il deposito segue la nuova regola dei 30 giorni . Successivamente, la Corte Costituzionale è intervenuta dichiarando l’illegittimità delle norme transitorie confliggenti, confermando in sostanza l’immediata eliminazione del reclamo .
Ricapitolando i termini principali: – 60 giorni dalla notifica per proporre ricorso (termine ordinario). – 30 giorni dalla notifica per depositare il ricorso in Commissione (termine per la costituzione in giudizio, decorrenza diversa a seconda del regime: immediata per ricorsi dal 2024, post-mediazione per quelli ante 2024). – Sospensione feriale dei termini processuali dal 1° al 31 agosto di ogni anno (se il termine ricade in quel periodo, è prorogato). – Termini particolari: 90 giorni per ricorso contro silenzio-rifiuto su rimborso (dopo 90 di silenzio); 30 giorni per impugnare diniego di definizione agevolata in Cassazione (come in alcune sanatorie); ecc. In assenza di specifiche, vale sempre la regola dei 60 giorni.
Una domanda frequente è: cosa succede se il contribuente scopre un atto mai notificato dopo molto tempo? In tal caso, se l’atto non è mai stato legittimamente notificato, i termini non decorrono finché non c’è conoscenza formale. Ad esempio, se tramite un estratto di ruolo nel 2025 il contribuente viene a sapere di un accertamento del 2020 mai notificato, potrà impugnare la cartella (o l’atto presupposto insieme all’atto successivo) sostenendo la nullità della notifica originaria, senza vedersi opporre la decadenza . Tuttavia, deve comunque esserci un aggancio con un atto impugnabile recente (come l’intimazione di pagamento o la cartella in corso). Non esiste invece un termine “aperto” per impugnare atti conosciuti per caso in modo informale: bisogna aspettare un atto formale che li riporti.
In sintesi, rispettare i termini è fondamentale: un ricorso tardivo è inesorabilmente inammissibile. Il consiglio è di calendariare subito la scadenza appena si riceve l’atto, tenendo conto di eventuali sospensioni, e attivarsi con congruo anticipo per la predisposizione del ricorso.
Procedura: come si prepara e si presenta il ricorso
Vediamo adesso come fare concretamente ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado, passo per passo. Il procedimento può essere suddiviso nelle seguenti fasi: redazione del ricorso, notifica all’ente controparte, pagamento del contributo unificato e deposito (costituzione in giudizio) presso la segreteria della Corte. Analizziamo ciascun passaggio.
Contenuto e redazione del ricorso introduttivo
Il ricorso è l’atto scritto con cui il contribuente espone le proprie ragioni e chiede l’annullamento (totale o parziale) dell’atto impugnato. Esso deve contenere, a pena di inammissibilità (art. 18 D.Lgs. 546/92):
– Le generalità del ricorrente (nome, cognome/denominazione, codice fiscale, residenza o sede). Per le società va indicata la sede legale; per le persone fisiche, anche il domicilio eletto ai fini del processo se diverso dalla residenza.
– L’ente convenuto (controparte) con la sua denominazione esatta. Es: “Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di …” oppure “Comune di … – Ufficio Tributi” oppure “Agenzia delle Entrate-Riscossione, ufficio di …”.
– L’atto impugnato: occorre indicare con precisione di che atto si tratta (tipo, numero, data) e allegarlo in copia. Ad esempio: “Ricorso avverso avviso di accertamento n. TXYZ12345/2023 notificato in data …, emesso dall’Agenzia delle Entrate – DP di …”. Se si impugnano più atti con un unico ricorso (possibile se strettamente connessi, ad es. più cartelle relative allo stesso tributo e anno), elencarli tutti.
– I motivi del ricorso: è la parte sostanziale, in cui si espongono i fatti e le ragioni di diritto per cui si contesta l’atto. Qui il contribuente (o il suo difensore) deve articolare con chiarezza i vizi dell’atto: es. “Violazione di legge: l’avviso ha applicato una norma non vigente”, oppure “Errore di calcolo nell’accertamento: il reddito è stato duplicato”, oppure “Il tributo non era dovuto per intervenuta decadenza”, “Difetto di motivazione: l’atto non espone le ragioni”, ecc. I motivi possono essere multipli e andrebbero distinti in paragrafi separati, ciascuno dedicato a un profilo di illegittimità. Si possono dedurre vizi di legittimità (es. incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) e/o di merito (infondatezza nel merito della pretesa).
– Le conclusioni: cioè la richiesta che si fa al giudice. Di solito: “Si chiede l’annullamento dell’atto impugnato, con vittoria di spese”. Se la pretesa è parzialmente fondata, si può chiedere l’annullamento in parte qua (es: annullamento della sola sanzione, o riduzione del maggior reddito accertato a tot). Inoltre, se interessati, si può chiedere discussione in pubblica udienza (altrimenti il giudizio potrebbe decidersi in camera di consiglio salvo richiesta di trattazione orale).
– Luogo e data, firma del ricorrente e del difensore (se nominato). Come visto, se c’è difensore, va apposta la firma di quest’ultimo con procura; se il contribuente è ius postulandi (difesa personale), firma lui. Nel processo telematico, la firma è digitale.
Nel corpo del ricorso è buona norma indicare anche: – Il domicilio eletto o l’indirizzo PEC del difensore per le comunicazioni di segreteria. Nel processo tributario telematico attuale, tutte le comunicazioni avvengono via PEC, quindi l’indicazione dell’indirizzo di PEC è essenziale. (Nota: l’art. 16, c. 1-bis D.Lgs. 546 richiedeva PEC e CF nel ricorso, prevedendo in passato sanzioni processuali in caso di omissione; oggi la mancata indicazione della PEC non comporta più sanzioni, mentre il CF va indicato pena un aumento del contributo unificato, come vedremo nei costi).
– Gli eventuali allegati: in primis, l’atto impugnato stesso. Poi eventuali documenti probatori (contratti, ricevute, perizie, circolari, sentenze rilevanti, ecc.). È utile numerare o elencare gli allegati alla fine del ricorso (es. “Documenti allegati: 1) copia avviso impugnato; 2) ricevuta raccomandata…; 3) estratto catastale; …”).
La redazione deve essere chiara e concisa ma esaustiva. Poiché nel processo tributario vige il principio dispositivo, il giudice esamina i motivi sollevati: è importante quindi sollevare tutti i motivi rilevanti sin dal ricorso introduttivo, per non precluderli poi (soprattutto i vizi di legittimità formale dell’atto vanno dedotti subito). I motivi possono essere aggiunti o integrati solo entro certi limiti (memorie integrative entro 60 gg prima dell’udienza per motivi nuovi in risposta a documenti depositati dall’ente, art. 24 D.Lgs. 546/92). Motivi completamente nuovi non sono ammessi successivamente. Quindi una corretta impostazione iniziale è fondamentale.
Istanza di sospensione: se l’atto impugnato comporta un pagamento imminente o altri effetti gravi, nel ricorso si può inserire anche la richiesta di sospensione dell’esecuzione (art. 47 D.Lgs. 546/92). Ad esempio, se si impugna una cartella già scaduta, per evitare azioni esecutive si può chiedere al giudice tributario di sospendere la riscossione fino alla decisione. L’istanza cautelare va motivata a parte, dimostrando il “periculum in mora” (danno grave e irreparabile dal pagamento) oltre al “fumus boni iuris” (motivi di fondatezza del ricorso). Di solito si dedica un paragrafo apposito nel ricorso con la richiesta di sospensione e le relative motivazioni, e si riproduce il petitum cautelare anche nelle conclusioni (es. “…nonché la sospensione dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 47”). Su questa richiesta il giudice decide in tempi rapidi (v. oltre).
Notifica del ricorso alla controparte
Dopo aver redatto e sottoscritto il ricorso, il primo adempimento è la notifica all’ente impositore/riscossore che ha emesso l’atto. Questa notifica introduce formalmente il contraddittorio, ed è condizione imprescindibile per adire la Commissione.
Nel vigente sistema, la notifica può avvenire con due modalità principali: – Notifica a mezzo PEC (Posta Elettronica Certificata) – È la modalità oggi preferibile e di regola obbligatoria per i difensori e gli enti, in quanto parte del processo tributario telematico. Consiste nell’invio del ricorso (predisposto come documento informatico firmato digitalmente in formato PDF) tramite la propria casella PEC all’indirizzo PEC istituzionale dell’ente destinatario. Gli indirizzi PEC delle Agenzie fiscali, Comuni e Agente della riscossione sono reperibili in registri pubblici (es. indice PA per enti pubblici, o siti ufficiali). La PEC deve avere ad oggetto “Notificazione di ricorso ex D.Lgs. 546/92” o simile, e come allegati il ricorso firmato, la procura (se separata) e gli allegati rilevanti, il tutto preferibilmente racchiuso in un archivio compresso o in un unico PDF. La notifica PEC si considera perfezionata quando il mittente riceve la ricevuta di avvenuta consegna dalla propria PEC (che attesta data e ora di consegna al destinatario). Quella ricevuta è la “cartolina” digitale che prova l’avvenuta notifica. (Va notato che la notifica via PEC è oggi obbligatoria per i difensori tecnici; un contribuente che si difende da solo, privo di PEC, può notificare in modalità tradizionale, come tra poco visto. Ma anche i privati spesso possono ottenere una PEC e notificare con essa: ciò è ammesso). – Notifica tramite Ufficiale giudiziario (mezzo postale) – È la modalità cartacea tradizionale. Consiste nel consegnare il ricorso (in originale cartaceo, con copia per l’ente) all’Ufficiale giudiziario, che provvede a notificare l’atto all’ente destinatario secondo le regole del codice di procedura civile (artt. 137 ss. c.p.c.), ad esempio via posta. L’ufficiale apporrà la relata di notifica sulla copia per l’ente e restituirà la copia al mittente con la relata compilata, oppure invierà direttamente per posta e rilascerà al ricorrente la relativa ricevuta. La notifica postale spesso avviene con raccomandata AR: la cartolina di ritorno firmata dal destinatario costituirà prova della notifica. Questo metodo oggi è usato raramente per i ricorsi tributari, salvo casi eccezionali (contribuente sprovvisto di PEC, oppure malfunzionamenti). Tuttavia, per i contribuenti che si difendono personalmente la legge consente eccezionalmente ancora l’uso della modalità cartacea . Ad esempio, un contribuente senza PEC e senza assistenza può stampare il ricorso e spedirlo con raccomandata A/R direttamente all’ente oppure tramite ufficiale giudiziario. In passato era diffusa anche la notifica diretta a mezzo posta per i ricorsi (cioè il contribuente inviava raccomandata senza passare da ufficiale giudiziario, ai sensi dell’art. 16 comma 3 D.Lgs. 546/92): questa è ritenuta ancora valida per la parte non assistita da difensore.
Quale indirizzo usare per notificare? Bisogna individuare l’indirizzo corretto dell’ufficio destinatario. Per la PEC: ogni ente ha la propria casella dedicata al contenzioso (es. per Agenzia Entrate è spesso una PEC del tipo “dp.xxx.contenzioso@pec.agenziaentrate.it”). Per la notifica cartacea: l’indirizzo fisico della sede dell’ufficio (come indicato sull’atto impugnato). Notificare all’indirizzo sbagliato comporta nullità/inesistenza della notifica, con rischio di decadenza se non sanata in tempo.
Termine per notificare: come detto, entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnato. Fa fede la data di spedizione PEC (istante di consegna al server PEC) o la data di consegna all’ufficiale giudiziario. Importante: se si notifica a mezzo posta, per il notificante vale la data di spedizione (principio della scissione degli effetti: la notifica a mezzo posta si perfeziona per il mittente al momento della consegna all’ufficiale o all’ufficio postale). Quindi, un ricorso spedito il 59º giorno è tempestivo anche se l’ente lo riceve dopo il 60º giorno.
Pagamento del contributo unificato (spese di iscrizione a ruolo)
Prima di depositare il ricorso presso la Corte, occorre pagare il Contributo Unificato Tributario (CUT), ossia la tassa di iscrizione a ruolo prevista per i procedimenti giurisdizionali tributari. L’ammontare del contributo dipende dal valore della controversia. I vari scaglioni sono stabiliti dalla legge (art. 13 D.P.R. 115/2002, come modif. dal DL 98/2011) e periodicamente aggiornati. Di seguito una tabella riepilogativa dei contributi unificati in vigore (per ciascun grado di giudizio):
Valore della lite (Euro) | Contributo unificato dovuto (Euro) |
---|---|
Fino a € 2.582,28 | € 30,00 |
Oltre € 2.582,28 e fino a € 5.000 | € 60,00 |
Oltre € 5.000 e fino a € 25.000 | € 120,00 |
Oltre € 25.000 e fino a € 75.000 | € 250,00 |
Oltre € 75.000 e fino a € 200.000 | € 500,00 |
Oltre € 200.000 | € 1.500,00 |
Come si determina il valore della lite? Si considera l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni . Se si impugnano solo sanzioni (ad esempio un provvedimento esclusivamente sanzionatorio), allora il valore coincide con l’importo delle sanzioni impugnate. Se nel ricorso si impugnano più atti relativi a periodi d’imposta diversi o a tributi diversi, in linea di massima si sommano i valori (anche se c’è dibattito, la norma afferma che il valore va determinato per ciascun atto, ma nella pratica va pagato un contributo per ogni atto impugnato, salvo ritenere la controversia un’unica se riguardano lo stesso rapporto). Per sicurezza, se con un ricorso unico si contestano più atti distinti, è consigliabile versare tanti contributi quanti sarebbero le cause autonome, oppure un importo pari alla somma dei valori – o ancor meglio presentare ricorsi separati a ciascun atto per evitare dubbi.
Ad esempio: se si impugnano con un solo ricorso tre cartelle da €10.000 ciascuna relative a tre anni diversi, teoricamente sono tre liti da €10.000 → ciascuna comporterebbe €120 di contributo; alcuni uffici richiederebbero €360 totali. Anche se la questione è controversa, è prudente versare il dovuto per ciascuna partita.
Modalità di pagamento: Il contributo unificato si paga prima del deposito. Le modalità possibili: – Modello F23 in banca o posta, con il codice tributo dedicato “171T – Contributo unificato di iscrizione a ruolo nel processo tributario” . È il metodo tradizionale: si compila un F23 indicando l’importo dovuto e il codice 171T (più eventuali codici 172T per interessi di mora se in ritardo, o 173T/174T per integrazioni e sanzioni, ma di solito non rilevano se pagato in tempo) . Nello spazio “estremi dell’atto” si indica che è contributo unificato per ricorso tributario, con riferimento all’atto impugnato. La banca/posta restituisce una ricevuta quietanzata. – Bollettino di conto corrente postale: esiste un conto corrente intestato alla Tesoreria per contributi unificati tributari. Usando l’apposito bollettino (indicando causale e importo) si può pagare in posta. Anche qui viene rilasciata ricevuta. – Pagamento telematico: recentemente il Dipartimento Giustizia Tributaria ha attivato sistemi online (es. pagoPA) per pagare il contributo unificato. Ad esempio, sul Portale della Giustizia Tributaria è disponibile un calcolatore CUT che consente anche di generare modelli di pagamento. In alcuni casi è possibile pagare con carta di credito o bonifico online collegato al sistema pagoPA dell’Agenzia Entrate. – Marca da bollo (contrassegno): fino al 2012 era possibile acquistare un contrassegno adesivo (marca) dal tabaccaio per l’importo dovuto e apporlo al ricorso. Oggi questo sistema non è più in uso per il processo tributario (dismesso nel 2012) .
Il contribuente deve poi allegare la prova del pagamento nel fascicolo del ricorso. Nel deposito telematico, si carica la scansione della ricevuta F23 o la ricevuta telematica; nel deposito cartaceo (per chi ancora lo fa) va unita copia quietanzata.
Conseguenze del mancato pagamento: La normativa prevede che se il contributo non è pagato o è insufficiente, la segreteria della Commissione provvede a notificare alle parti l’omissione e invita a regolarizzare. In genere, il giudice non dichiara inammissibile il ricorso per mancato pagamento, ma l’Ufficio di segreteria iscrive a ruolo l’importo dovuto a titolo di contributo unificato non versato con eventuale sanzione (pari a quella per omesso pagamento bollo). Inoltre, non pagando si rischia un incremento di costi: ad esempio, il Testo Unico spese di giustizia prevede una “sanzione” del 50% in più sul contributo se il difensore non indica nel ricorso il proprio numero di fax o il codice fiscale (norma ormai di scarsa applicazione, ma esistente). Di fatto, è sempre bene pagare il contributo esatto prima di depositare il ricorso, per evitare contestazioni e iscrizioni a ruolo d’ufficio.
Deposito del ricorso (costituzione in giudizio)
Dopo aver notificato il ricorso e pagato il contributo, l’ultimo passaggio per adire la Corte è il deposito del ricorso presso la segreteria della Corte di Giustizia Tributaria competente. Questo adempimento costituisce la formale costituzione in giudizio del ricorrente. Esso va effettuato entro il termine perentorio di 30 giorni dalla data di notificazione del ricorso (o dall’esito del reclamo, se ancora applicabile per vecchi casi) .
Oggi il deposito avviene in via telematica attraverso il Portale della Giustizia Tributaria (PGT), salvo eccezioni. In breve, la procedura consiste nel: – Accedere al sistema informatico (SIGIT) tramite credenziali (SPID, CNS, CIE o account dedicato) dal sito giustizia-tributaria.gov.it. – Selezionare “Nuovo ricorso” e compilare i campi richiesti (dati delle parti, oggetto, estremi atto impugnato, valore, ecc.). – Allegare in upload il ricorso notificato (il PDF firmato digitalmente) e tutti i documenti allegati (atto impugnato, documenti di prova, ricevuta PEC di notifica, procura alle liti, ricevuta contributo unificato, ecc.). Ogni documento va firmato digitalmente dal difensore (o dal ricorrente stesso se difesa personale con firma digitale) o accompagnato da attestazione di conformità se è copia scannerizzata di originale cartaceo. – Inviare telematicamente il tutto. Il sistema rilascerà due ricevute: una di avvenuta ricezione e una di accettazione. A quel punto il fascicolo elettronico è creato.
La costituzione in giudizio si intende perfezionata al momento dell’invio telematico, purché poi l’atto sia accettato dal sistema. In genere è tutto automatico salvo dimensioni eccessive dei file o firme mancanti.
Eccezione per deposito cartaceo: come già accennato, la riforma 2023 impone il telematico a tutti, tranne che per le parti che si difendono da sole, le quali “possono eccezionalmente utilizzare anche la modalità cartacea” . Dunque un contribuente che agisce senza difensore può presentare il ricorso stampato su carta presso la segreteria della Commissione (o spedirlo a mezzo posta, ma sarebbe oltre i 30 giorni? In verità la legge prevede che la costituzione va fatta depositando o spedendo per raccomandata il plico alla segreteria, e se si opta per la raccomandata il termine di 30 giorni si intende rispettato con la spedizione – art. 22, c.1 D.Lgs. 546). In pratica però, dal 1° luglio 2019 il deposito telematico era già divenuto obbligatorio per i difensori, e oggi è la regola per tutti, quindi la via cartacea è residuale.
Nel fascicolo processuale formato con il deposito, verranno poi inserite anche le memorie successive, la risposta dell’ente, ecc., ma qui ci concentriamo sull’avvio.
Cosa succede dopo il deposito? La segreteria assegna un numero di RG (registro generale) alla causa, e notifica via PEC alle parti l’avvenuta costituzione del ricorrente. A questo punto il processo è pendente. La palla passa all’ente resistente: l’ufficio che ha emesso l’atto dovrà, se intende costituirsi, depositare entro 60 giorni dal ricevimento del ricorso le proprie controdeduzioni scritte (chiamate “memoria di costituzione” o più comunemente “controdeduzioni”) insieme agli eventuali documenti a sostegno dell’atto impugnato (es. fascicolo istruttorio, copie di notifiche, etc.), il tutto sempre tramite il portale telematico. L’ufficio resistente di solito è rappresentato internamente da funzionari (per Agenzia Entrate) o da avvocati dell’Avvocatura dello Stato (per l’Agenzia Riscossione in alcuni casi, o per ministeri), o da legali esterni per i Comuni più piccoli.
Se l’ente non si costituisce entro 60 giorni, il processo procede lo stesso in sua contumacia: il che non significa vittoria automatica del contribuente, ma semplicemente che l’ufficio non ha depositato difese scritte. Potrà comunque presentarsi in udienza (la contumacia in primo grado non preclude la difesa in udienza né l’appello in secondo grado).
Dopo il deposito del ricorso, la segreteria della Commissione lo mette in ruolo e verrà fissata l’udienza o la trattazione in camera di consiglio. I tempi variano: in alcune sedi la fissazione avviene entro qualche mese, in altre ci vogliono più di 1 anno a seconda dell’arretrato. È possibile consultare lo stato del procedimento online tramite il PGT (per i difensori) o chiedendo informazioni in segreteria.
Con il deposito, il ricorrente ha esaurito la fase introduttiva ed è in attesa di giudizio. Può tuttavia ancora depositare eventuali memorie successive: ad esempio, memoria illustrativa nei 30 giorni prima dell’udienza, memoria di replica nei 15 giorni prima (i termini sono quelli dell’art. 32 D.Lgs. 546/92). Inoltre, se dopo il deposito emergono nuovi documenti o fatti, si possono produrre entro i termini di cui sopra. Da notare che la riforma ha ristretto la possibilità di produrre documenti nuovi in appello, ma in primo grado è ammesso produrli fino all’udienza (preferibilmente entro i termini di memorie, per correttezza verso la controparte).
Riepilogo della procedura iniziale: 1. Redazione ricorso (contenente dati parti, atto impugnato, motivi, conclusioni, firma). 2. Notifica ricorso all’ente (entro 60 gg) – preferibilmente via PEC. 3. Pagamento contributo unificato – importo in base al valore. 4. Deposito ricorso presso la CGT competente (entro 30 gg dalla notifica) – via portale telematico, allegando copia dell’atto impugnato, ricevute di notifica (PEC o AR), procura, ricevuta contributo e documenti di prova.
Completati questi passi, il contribuente ha formalmente investito il giudice tributario della questione e può attendere la fissazione dell’udienza.
Lo svolgimento del processo in primo grado
Una volta instaurato il giudizio con il deposito del ricorso, come si sviluppa il processo tributario di primo grado? Vediamo le principali fasi: l’eventuale fase cautelare (sospensiva), la fase di trattazione e decisione, fino alla sentenza.
Fase cautelare (sospensione dell’atto impugnato)
Se il ricorso contiene una domanda di sospensione dell’atto (esigenza cautelare), si apre una sotto-fase urgente. In base all’art. 47 D.Lgs. 546/92, il presidente della sezione assegna la trattazione dell’istanza a un collegio (o al giudice monocratico se la causa è monocratica). Le recenti modifiche hanno reso questa fase molto più spedita: – L’udienza (in camera di consiglio) per discutere la sospensiva deve avvenire entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza (prima si diceva “alla prima camera di consiglio utile” e poteva passare molto tempo). – La decisione sull’istanza va presa non oltre 30 giorni dalla presentazione (mentre prima il limite era 180 giorni! ). Quindi ora il contribuente ottiene una risposta cautelare in poche settimane. – L’udienza per la sospensiva, dopo la riforma, si tiene di regola da remoto (videoconferenza) , salvo richiesta di trattazione in presenza. Essendo procedimento camerale, spesso si decide anche solo sulla base degli atti scritti, ma se il contribuente chiede di essere sentito quasi sempre la Commissione concede un’audizione (ora a distanza di default, salvo diversa richiesta). – Almeno 5 giorni prima dell’udienza cautelare, le parti ricevono avviso di trattazione (ridotto rispetto ai 10 giorni di prima). – La decisione viene formalizzata con ordinanza. Se la Commissione ritiene fondati i timori di danno grave e vede un fumus nei motivi, può sospendere l’esecutività dell’atto fino alla sentenza di primo grado (o per un periodo definito). In caso contrario rigetta l’istanza. L’ordinanza di accoglimento o rigetto può essere impugnata in appello (reclamo cautelare) oppure, se urgente, con ricorso d’urgenza in Cassazione in rarissimi casi.
Inoltre, la riforma prevede che nelle cause fino €5.000 (giudice monocratico) e nelle camere di consiglio cautelari, l’udienza sia sempre da remoto salvo richiesta contraria , e che la decisione sulla cautelare sia comunicata immediatamente in udienza tramite lettura del dispositivo .
Questa fase è molto importante perché consente al contribuente di congelare gli effetti dell’atto impugnato. Ad esempio, ottenendo la sospensione di una cartella, l’Agenzia della Riscossione non potrà avviare pignoramenti finché la causa non è decisa. Oppure, sospendendo un avviso di accertamento esecutivo, si evita l’obbligo di pagamento di 1/3 entro i termini (norma che prevede che gli avvisi emessi dal 2016 sono esecutivi trascorsi 60 gg: ma con ricorso e sospensiva concessa, non si paga finché decide il giudice).
Trattazione nel merito e udienza
Parallelamente (o successivamente, se c’era sospensiva) si ha la preparazione della causa per il merito. L’ente deposita le sue controdeduzioni difensive (dette “memoria di costituzione”) di solito entro 60 giorni dalla notifica del ricorso. In questa memoria l’ufficio replica punto per punto ai motivi del ricorso, allega gli atti impugnati in originale e altri documenti (es: copia relazione di notifica dell’atto impugnato, documenti giustificativi, calcoli, ecc.), e conclude chiedendo il rigetto del ricorso con vittoria di spese.
Dopo lo scambio iniziale, le parti – sia il ricorrente sia il resistente – possono depositare memorie integrative secondo le scansioni temporali fissate dall’art. 32 D.Lgs. 546/92: – Memoria illustrativa (ricorrente e resistente) fino a 30 giorni prima dell’udienza, per eventuali ulteriori argomentazioni di merito. – Replica alle memorie avversarie fino a 15 giorni prima dell’udienza. – Memoria di richiesta di discussione in pubblica udienza entro 10 giorni prima (se non già chiesta in ricorso; per il resistente, se vuole pubblica udienza, deve chiederla almeno 10 gg prima).
Queste memorie servono a perfezionare il contraddittorio scritto. Spesso, nelle cause semplici, le parti possono anche non depositare ulteriori memorie oltre gli atti iniziali.
Quanto alla modalità di decisione, vi sono due possibili binari: – Trattazione in Camera di consiglio (udienza non pubblica): Se nessuna parte ha chiesto l’udienza pubblica, la Commissione può decidere in camera di consiglio, cioè senza discussione orale, basandosi solo sugli atti. In tal caso, comunque, il collegio si riunisce nel giorno fissato e assume la decisione. Spesso le Commissioni fissano comunque un’“udienza” di trattazione anche per decidere in camera di consiglio, comunicando poi alle parti l’esito. – Udienza pubblica di discussione: Se invece almeno una parte l’ha richiesta (o la Commissione d’ufficio dispone pubblica udienza), la causa viene chiamata in udienza pubblica. Tradizionalmente l’udienza si svolgeva di persona davanti al collegio; con le riforme, oggi è possibile la discussione da remoto su richiesta congiunta . In particolare, per le cause in composizione monocratica (valore ≤ €5.000) l’udienza è di regola da remoto salvo richiesta di presenza ; per le altre cause collegiali, se tutte le parti chiedono remoto, si fa da remoto, ma basta che una chieda presenza e si tiene in presenza . C’è anche la possibilità mista: una parte da remoto e l’altra in presenza, in tal caso prevale la presenza (quindi giudici e parti saranno in aula fisica) ma la parte che aveva chiesto remoto può collegarsi da remoto comunque . Queste finezze organizzative discendono dall’art. 16 DL 119/2018 e succ. mod., che la riforma ha confermato e integrato .
In udienza pubblica, tipicamente, il difensore del contribuente illustra sinteticamente i punti salienti del ricorso (spesso richiamando la memoria ultima depositata), e il difensore dell’ente controbatte. I giudici possono fare domande. La durata è di pochi minuti nei tribunali tributari, salvo casi complessi. Dopodiché la causa è trattenuta in decisione.
A volte il giudizio può interrompersi prima della decisione per ragioni varie: – Conciliazione giudiziale: le parti possono trovare un accordo transattivo anche in questa fase. Possono presentare un’istanza congiunta di conciliazione fino a che la causa non è decisa, ottenendo una sentenza che recepisce l’accordo (con riduzione delle sanzioni a 1/3 se in primo grado). La riforma ha reso più conveniente la conciliazione, eliminando ad esempio il vincolo che la proposta dovesse provenire dal contribuente: ora anche il giudice può formulare una proposta di conciliazione d’ufficio . Se si concilia, il processo si chiude con cessata materia del contendere. – Sospensione o interruzione: ad esempio, se pende una causa pregiudiziale (es. questione identica in Cassazione, o richiesta di disapplicare atto amministrativo in attesa di esito su altro contribuente) il processo può essere sospeso su istanza di parte o d’ufficio. Oppure se muore una parte o il difensore, il processo si interrompe e va riassunto dagli eredi entro 6 mesi. – Riunione: se vi sono cause analoghe (stesso contribuente e anni diversi, o stesso atto impugnato da più coobbligati) la Commissione può riunirle e trattarle congiuntamente.
Un aspetto delicato è il litisconsorzio necessario: in certe controversie, per la natura indivisibile del rapporto, tutti i coobbligati devono essere parte. Un esempio tipico è l’impugnazione di un avviso di accertamento emesso congiuntamente a più soggetti (si pensi a soci e società di persone, o coobbligati solidali in un’imposta). In tal caso, l’art. 14 D.Lgs. 546/92 prevede il litisconsorzio: il ricorso andrebbe proposto da (o verso) tutti i soggetti coinvolti. Se ciò non avviene, il giudizio potrebbe essere nullo per mancata integrazione del contraddittorio . La Cassazione nel 2024 ha ribadito che, in caso di atto impositivo unitario riguardante più coobbligati in posizione inscindibile, la mancata partecipazione di tutti rende nulla la sentenza per violazione della parità di trattamento e capacità contributiva . Quindi, i professionisti sanno che in quei casi si deve impugnare insieme o chiamare in giudizio gli altri coobbligati (anche con atto integrativo). Il contribuente singolo potrebbe non cogliere questo e subire una declaratoria di nullità. È una questione tecnica ma cruciale nelle liti connesse (ad esempio, se solo uno dei due coniugi contitolari di immobile impugna l’avviso di IMU intestato a entrambi, la causa può essere nulla).
Decisione e sentenza di primo grado
Terminata la fase di trattazione, la Corte tributaria passa a decidere. La decisione si concretizza con una sentenza. Dal 2023, come visto, ci sono due possibili forme: – Sentenza ordinaria con motivazione completa: è la regola generale. La sentenza contiene in dettaglio lo svolgimento del processo, le posizioni delle parti, i motivi in fatto e diritto della decisione, il dispositivo finale. – Sentenza in forma semplificata: nei casi di rigetto manifesta o accoglimento manifesto, oppure di inammissibilità, ecc., la Corte può motivare per relationem o in forma sintetica indicando soltanto il motivo decisivo della decisione . Ad esempio: “Il ricorso è manifestamente infondato perché l’imposta è dovuta per legge e non sono stati addotti elementi contrari; pertanto, ai sensi dell’art. 33, co. 1 D.Lgs. 546/92, si rigetta il ricorso”. Questa possibilità mira a snellire il lavoro quando la soluzione è evidente e non richiede una lunga dissertazione.
La sentenza viene deliberata dal Collegio giudicante (composto di norma da 3 giudici, salvo cause monocratiche) subito dopo l’udienza o comunque entro una data ravvicinata. Tuttavia, la stesura e deposito possono richiedere tempo. Le Corti hanno 30 giorni per il deposito in segreteria dal momento della deliberazione. Nella pratica a volte ci sono ritardi, ma di norma nel giro di qualche mese dall’udienza la sentenza è emessa.
Una volta depositata, la sentenza viene comunicata via PEC dalla segreteria alle parti (la comunicazione vale come notifica “automatica” se le parti hanno indicato PEC). Da quel momento iniziano a decorrere i termini per l’eventuale appello.
Esito del giudizio: la sentenza può: – Accogliere il ricorso (totale o parziale): in tal caso l’atto impugnato viene annullato (in toto o in parte). Ad esempio, annullamento integrale di un avviso per vizio di notifica, oppure rideterminazione del reddito imponibile con minor imposta. – Rigettare il ricorso: confermando in toto l’atto impugnato. – Dichiarare il ricorso inammissibile/improcedibile: se ad esempio era tardivo, o manca l’atto impugnato, o difetta interesse. – Cessata materia del contendere: se medio tempore l’ente ha annullato l’atto in autotutela o le parti hanno conciliato. In tal caso il giudice prende atto e chiude il caso. – Estinguere il processo: per rinuncia al ricorso da parte del contribuente accettata dall’ente, o per mancata riassunzione dopo interruzione, ecc.
La sentenza definisce il grado di giudizio di merito. Non è subito definitiva in senso sostanziale, perché c’è la possibilità di appello davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale). Il termine per appellare è 60 giorni dalla notifica della sentenza ad opera di una parte, oppure 6 mesi (di regola) dalla pubblicazione se non notificata.
Esecutività della sentenza: Nel processo tributario, la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva, ma con particolarità: – Se il ricorso del contribuente è accolto, l’atto è annullato e l’ente deve ottemperare (es. sbloccare rimborsi, cancellare ipoteche, ecc.), salvo eventuale sospensione se appella. – Se il ricorso è respinto (contribuente soccombente), l’ente può procedere a riscuotere le somme. In passato, la norma prevedeva che dopo la sentenza di primo grado il contribuente doveva pagare due terzi del dovuto residuo; oggi l’ente può pretendere il pagamento, ma il contribuente può chiedere alla Commissione regionale (secondo grado) la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata (art. 52, co. 2 D.Lgs. 546). La riforma ha peraltro stabilito che l’istanza di sospensione in appello va trattata anch’essa in tempi brevi e sempre in remoto.
Un cenno va fatto alle spese di giudizio: la sentenza di primo grado condanna la parte soccombente al pagamento delle spese di lite (onorari del difensore della controparte) salvo compensazione. Con la riforma, la regola generale è la soccombenza : chi perde paga le spese all’altra parte, a meno di particolari motivi. La compensazione (ognuno paga le proprie) rimane possibile in caso di soccombenza reciproca, o casi eccezionali, e ora anche se il vincitore ha prodotto documenti decisivi tardivamente (come visto) . Se il contribuente vince, tipicamente lo Stato è condannato a rifondere una somma per spese legali, calcolata secondo i parametri ministeriali in base al valore della lite. Se viceversa il contribuente perde, potrà essere condannato a pagare le spese all’Agenzia (che se è difesa dall’Avvocatura può chiedere distrazione delle spese). Va detto che in alcuni casi l’Avvocatura dello Stato chiede una cifra simbolica (tipo €500) per le spese, ma non è garantito – possono anche chiedere importi più elevati specie in liti di alto valore.
In casi estremi, se il giudice riconosce che il contribuente ha agito con malafede o colpa grave, può anche applicare la condanna per lite temeraria (art. 15, c.2-bis D.Lgs. 546, richiamando l’art. 96 c.p.c.). Ciò comporta il pagamento di una somma ulteriormente a favore della controparte, a titolo sanzionatorio, fino al 50% del valore della lite . Ad esempio, Cassazione ha confermato che l’art. 96 c.p.c. comma 3 (somma equitativa) si applica anche nel processo tributario . Si tratta comunque di situazioni rare (richieste infondate palesemente pretestuose).
Chiuso il primo grado, le parti decidono se accettare il verdetto o appellare. Dal punto di vista del debitore, se la sentenza gli è sfavorevole e gli importi sono significativi, dovrà quasi sempre valutare l’appello (in secondo grado infatti si può sperare in un ribaltamento, ma il rischio sono ulteriori spese). Se la sentenza è favorevole al contribuente, l’ente può appellare. In tal caso il contribuente vittorioso in primo grado dovrà resistere in appello; intanto può chiedere l’esecuzione della sentenza (ad esempio il rimborso di quanto eventualmente pagato in pendenza di giudizio, o lo sgravio delle somme).
Da notare che la riforma 2022 ha introdotto un meccanismo di “percorsi di merito” per tentare di limitare gli appelli pretestuosi dell’Amministrazione: in sostanza, se l’ente perde in primo grado su questioni di fatto, dovrebbe valutare se appellare o meno per evitare un aggravio di contenzioso inutile (lo spirito sarebbe privilegiare il giudizio di primo grado come accertamento del fatto). Al momento però l’Agenzia delle Entrate continua ad appellare in molti casi, tranne ove intervenga un qualche provvedimento di acquiescenza post-sentenza (es. definizioni agevolate del contenzioso, che il legislatore ogni tanto propone: nel 2023 c’è stata la possibilità di definire con pagamento ridotto le liti pendenti in Cassazione, per esempio ).
Riassumendo questa sezione: il processo di primo grado offre al contribuente un’occasione di far valere i propri diritti con ampie garanzie (contraddittorio, prova, terzietà del giudice). L’esito dipende dalla fondatezza dei motivi e dalle prove: se l’atto è effettivamente viziato, il giudice tributario, specie negli ultimi anni, tende ad accogliere il ricorso (contrariamente a un vecchio pregiudizio di eccessiva deferenza verso il Fisco). Sentenze importanti della Cassazione hanno affermato principi di tutela, ad esempio ribadendo la ripartizione dell’onere della prova: spetta all’Amministrazione provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale, mentre il contribuente deve provare gli eventuali fatti esimenti (deduzioni, costi, ecc.) . Il giudice tributario deve attenersi a ciò: se il Fisco non dimostra quanto contestato, il contribuente vince. Questo principio, già giurisprudenziale, è stato recepito espressamente dalla riforma fiscale , a testimonianza di un orientamento più equo.
Costi del ricorso tributario e delle procedure
Oltre al Contributo Unificato già trattato, il contribuente che intraprende un ricorso deve considerare vari profili di costo: – Contributo Unificato Tributario (CUT): come visto, è dovuto all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa. L’importo varia da €30 a €1.500 a seconda del valore . È un costo vivo iniziale non rimborsabile (salvo esito della causa favorevole con condanna alle spese, in cui il giudice può includere anche il rimborso del contributo nella liquidazione delle spese a carico dell’ente). – Compenso del difensore: se il contribuente si avvale di un professionista (avvocato o commercialista), dovrà corrispondergli l’onorario concordato. I costi variano in base alla complessità e al valore. Per dare un’idea, per una causa di valore medio (es. €50.000) gli onorari di un avvocato tributario per il primo grado potrebbero aggirarsi tra €2.000 e €5.000, ma c’è enorme variabilità. In caso di vittoria, il giudice può condannare l’ente a pagare (una parte de) le spese legali, ma tipicamente viene liquidato un importo secondo parametri (spesso inferiore al concordato col cliente, specie se il cliente ha tariffa oraria o extra parametri). Quindi il contribuente vincitore di solito recupera solo una parte della spesa legale effettiva. – Eventuali anticipazioni di spese vive: ad esempio le spese di notifica se effettuata tramite ufficiale giudiziario (indicativamente €20-30 per atti in città, di più per fuori). Se tutto è via PEC, questo costo è nullo. Ancora, marche da bollo non sono richieste (il contributo unificato li ha sostituiti, perciò il ricorso è esente da bollo). – Spese di consulenze tecniche: se il contribuente ha bisogno di perizie di parte (es. per questioni contabili complesse) dovrà sostenerne il costo. Nel processo tributario la CTU (consulenza tecnica d’ufficio) è rara ma possibile; se il giudice dispone una CTU, le spese sono anticipate dalla parte che ne ha interesse (spesso il contribuente se ha chiesto di verificare conti) e poi addebitate secondo soccombenza. – Spese di giustizia eventuali: il processo tributario di per sé non prevede ulteriori tasse. Non c’è ad es. il diritto di chiamata ufficiale giudiziario a carico, né contributi di altro tipo oltre al CUT. Non è prevista alcuna cauzione per la sospensiva (in rari casi la Commissione potrebbe subordinare la sospensione a una garanzia, ma è discrezionale e poco applicata). – Sanzioni processuali: come accennato, la legge prevede aumenti del 50% del contributo unificato in alcuni casi di inadempienze formali (mancata indicazione CF del ricorrente o del difensore, per atti introduttivi su carta) , ma la norma sull’omessa PEC è stata abrogata e quella sul CF è poco applicata. Inoltre c’è la possibile condanna ex art. 96 c.p.c. per lite temeraria in caso di ricorso pretestuoso, che può gravare il soccombente di un importo aggiuntivo fino al doppio delle spese legali liquidate . – Spese di soccombenza: se il contribuente perde, la sentenza normalmente lo condannerà a pagare le spese di giudizio all’ente vittorioso. Queste possono includere: – Onorari dell’Avvocatura dello Stato (o del legale dell’ente) – ad esempio €1.000–2.000 per cause di basso valore, fino a anche €5.000–10.000 per cause di valore molto elevato, secondo tariffe. – Compensi per eventuali funzionari tecnici se previsti, ma di solito è solo l’avvocato dello Stato o domiciliatario. – Eventuali esborsi (diritti di copia, viaggi, etc. ma spesso l’Avvocatura non li dettaglia e chiede forfettario).
È vero che in alcune circostanze il giudice può compensare le spese (cioè decidere che ognuno sopporta le proprie, quindi il contribuente non deve pagare quelle dell’ente, ma neanche gli vengono rimborsate le sue). La riforma come detto limita la compensazione solo a casi particolari . Dunque, statisticamente, un contribuente che perde dovrà pagare qualcosa all’ufficio per le spese. Tuttavia, se la controversia era su una questione nuova o incerta, spesso le Commissioni optano ancora per la compensazione (ragioni “eccezionali”). – Costi indiretti: vanno considerati anche i costi di eventuale soccombenza nel merito. Se il ricorso viene respinto, il contribuente dovrà pagare il tributo contestato, con relativi interessi maturati nel frattempo, più eventuali sanzioni e accessori. A volte, facendo ricorso, specie su tributi esecutivi, il contribuente può aver posticipato il pagamento, su cui maturano interessi di mora. Ad esempio, impugnare un accertamento IRPEF di €50.000 e perdere dopo 3 anni comporterà pagare i €50.000 + interessi di mora su 3 anni + 1/3 di sanzioni in più se aveva ottenuto sospensione? (C’è un meccanismo per cui se l’accertamento esecutivo viene sospeso e poi confermato, gli importi sospesi vanno maggiorati degli interessi).
D’altra parte, se il contribuente vince, può avere diritto al rimborso di quanto eventualmente versato provvisoriamente. Ad esempio, molti contribuenti preferiscono pagare un importo contestato e poi fare ricorso per non incorrere in sanzioni da mancato pagamento: se vincono, dovranno presentare istanza di rimborso all’ente che eseguirà la sentenza restituendo la somma con interessi legali.
Esempio di calcolo costi: Un’impresa riceve un avviso IVA da €100.000 di imposta e €30.000 di sanzioni. Decide di fare ricorso. I costi: – Contributo unificato: valore €100.000 → contributo €500 . – Avvocato: patto ad es. €5.000 per primo grado. – Notifica via PEC: gratis. – Deposito: gratis (telematico). – Totale iniziale: €5.500 circa. – Se vince, ipotizziamo che il giudice le liquidi €4.000 di spese legali da farsi rifondere dall’Agenzia. Avrà un rimborso di €4.000 (che copre gran parte del suo esborso legale, ma non tutto). Inoltre, non dovrà pagare i €130.000. Quindi risparmio enorme. – Se perde, dovrà pagare €130.000 + interessi; in più, supponiamo €4.000 di spese all’Avvocatura. Totale a carico ben superiore. Quindi l’esito incide molto sulla convenienza economica del ricorso.
In ogni caso, il Contributo Unificato è un costo abbastanza contenuto per dare accesso alla giustizia tributaria, specie per le liti piccole (30 o 60 Euro di contributo). Ciò è voluto per non scoraggiare i ricorsi dei contribuenti. Infatti, fino al 2011 la giustizia tributaria era praticamente gratuita (c’era solo il bollo); l’introduzione del contributo è servita a evitare ricorsi temerari, ma con importi modici per le cause minori.
Gratuito patrocinio: il contribuente non abbiente può richiedere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato anche nel contenzioso tributario, secondo le regole generali (reddito sotto circa €11.700 annui, istanza al Consiglio dell’Ordine). In caso di ammissione, non paga il contributo unificato né gli onorari di difesa (che vengono liquidati allo Stato). Tuttavia, l’istituto è poco utilizzato in materia tributaria, anche perché spesso chi ha liti tributarie di un certo importo non rientra nelle soglie di reddito.
Novità normative recenti: sintesi e impatto pratico
Questa sezione riepiloga in modo schematico le novità più significative intervenute con la riforma della giustizia tributaria (L. 130/2022 e decreti attuativi 2023) e altre modifiche recenti, evidenziandone l’impatto pratico per chi fa ricorso. È una sorta di aggiornamento al 2025 per avvocati e contribuenti navigati: – Denominazione uffici giudicanti: come detto, ora si chiama Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (CGT) in luogo di Commissione Tributaria Provinciale . Nei ricorsi, è bene usare la nuova dicitura (es. “Ricorso dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di [Nome Provincia/Regione]”). È un cambiamento formale ma segna la volontà di equiparare i giudici tributari agli altri giudici ordinari. – Giudici professionali e monocratici: la L.130/2022 ha introdotto giudici tributari a tempo pieno reclutati per concorso (Magistrati tributari), che progressivamente sostituiranno o integreranno gli attuali giudici onorari. Inoltre, dal 2023, le controversie di valore ≤ €5.000 sono decise da un giudice monocratico (mentre prima la soglia era €3.000). Ciò significa che nelle liti minori non ci sarà un collegio di 3 giudici ma uno solo. Per il contribuente questo può voler dire udienze più snelle e decisioni più rapide, ma anche potenzialmente una minor collegialità. In pratica, se fate ricorso per €4.000 di IRAP, avrete un solo giudice. Nota: la soglia monocratico (5.000) coincide con la soglia difesa personale, quindi spesso nelle liti monocratiche il contribuente potrebbe essere anche senza avvocato. – Processo interamente telematico: dal 2022 era già obbligatorio per i nuovi ricorsi che i difensori usassero il PTT (Processo Tributario Telematico). Dal 2023-2024 l’obbligo è esteso a chiunque (salvo eccezioni per i non tecnici). In concreto: notifiche via PEC e depositi via portale sono la norma . Questo semplifica la vita perché non c’è più bisogno di stampare e recarsi in Commissione, e consente di seguire il fascicolo online. Chi non ha PEC/domicilio digitale (penso a persone molto anziane) può ancora depositare su carta chiedendo autorizzazione, ma è raro. La regola è: digitale by default. – Testimonianza ammessa: svolta storica, la prova testimoniale – prima vietata – è ora ammissibile in forma scritta . Il giudice può ammettere la testimonianza di terzi su fatti rilevanti, raccogliendola tramite dichiarazioni scritte rese ai sensi dell’art. 257-bis c.p.c. (dichiarazioni giurate). Ciò però con un limite: se i fatti da provare sono già attestati in un verbale con fede privilegiata (es. PVC della Guardia di Finanza), non si può contraddire quel verbale con testimoni, si potranno testimoniare solo circostanze diverse da quelle verbalizzate . L’introduzione di testimoni è una novità importante ad esempio nei casi di operazioni soggettivamente inesistenti, dove finora la mancanza di testimonianze penalizzava il contribuente. Ora potrà farsi rilasciare dichiarazioni da fornitori, clienti ecc. da far valere in giudizio. – Onere della prova esplicitato: è stato sancito per legge che l’onere probatorio circa i fatti costitutivi della pretesa spetta all’ente impositore; grava invece sul contribuente l’onere di provare fatti modificativi o estintivi (es. pagamenti effettuati) . Questo principio allinea la normativa alla giurisprudenza consolidata e vincola i giudici tributari a pretenderne il rispetto: in pratica, se l’Agenzia non porta sufficienti elementi a supporto dell’accertamento, deve perdere la causa. – Abolizione reclamo-mediazione: già spiegata, dal 2024 per liti fino 50k niente più doppio binario. Ciò snellisce i tempi: prima, la mediazione obbligatoria introduceva 90 giorni di attesa e incertezza; ora si va direttamente in giudizio. D’altro canto, la mediazione aveva portato a definire bonariamente ~30% di quei piccoli contenziosi ; la sua abolizione significa che più ricorsi arriveranno a sentenza, a meno che non aumenti la conciliazione in udienza. In sede di riforma si è preferito puntare su conciliazione e su potenziare gli strumenti amministrativi pre-ricorso (accertamento con adesione, contraddittorio endoprocedimentale) . Per il contribuente, questo vuol dire: se ha una lite ≤50k e vuole provare a trattare, può comunque farlo prima di proporre ricorso (es. con adesione) oppure anche dopo depositando subito una proposta di conciliazione. Ma non c’è più obbligo di reclamo. – Conciliazione e definizione agevolata: la riforma ha reso la conciliazione giudiziale più flessibile: ora il giudice può proporla attivamente e le parti possono conciliare parzialmente. Inoltre, il legislatore fiscale 2023 ha varato diverse definizioni agevolate dei giudizi pendenti (es. per Cassazione pendenti al 15/7/22, definibili pagando il 5% se l’ente soccombente nei gradi di merito ). Ciò fa parte di misure una tantum (2023) per ridurre l’arretrato tributario. Queste specifiche opportunità vanno viste caso per caso (non riguardano il come fare ricorso ex novo, ma come chiudere ricorsi già fatti beneficiando di sconti). – Tempi più rapidi in appello e Cassazione: l’istituzione di giudici tributari togati e l’incremento di organico dovrebbero velocizzare i processi. Inoltre è stata ufficializzata una sezione tributaria dedicata in Cassazione per uniformare gli orientamenti. Dal punto di vista pratico, ci si attende un miglioramento nei prossimi anni dei tempi di attesa delle sentenze, e magari una giurisprudenza di legittimità più chiara e coerente (riducendo contrasti). – Sentenze più sintetiche: la facoltà di motivare per punti essenziali aiuterà a smaltire cause seriali e a leggere decisioni più essenziali. Per il contribuente questo significa che se la causa è palesemente favorevole o sfavorevole, potrebbe ricevere una sentenza stringata. Ciò non toglie la possibilità di appello, ovviamente, ma rende più agile capire il perno della decisione. – Impugnabilità atti autotutela: già trattato, ma ribadiamo l’impatto: prima, se l’ufficio rifiutava di annullare in autotutela un atto evidentemente sbagliato (per esempio doppia iscrizione a ruolo per lo stesso debito), il contribuente era impotente se i termini di ricorso erano scaduti; ora potrà portare la questione in Commissione e far valere il suo diritto alla legittimità, anche se i termini dell’atto originario erano scaduti (purché rientri nelle casistiche di autotutela obbligatoria e ricorra entro i termini di prescrizione del tributo) . Questa novità quindi riapre uno spiraglio di giustizia per errori clamorosi scoperti tardivamente. – Transitorietà e interventi della Corte Costituzionale: come notato, l’implementazione delle riforme non è stata indolore. La Corte Costituzionale è dovuta intervenire nel 2025 sulla disciplina delle nuove prove in appello e sulla decorrenza delle norme , eliminando disparità temporali. Anche in futuro potrebbero esserci interventi (pende ad esempio una questione sull’accesso alla magistratura tributaria speciale, ma riguarda i giudici più che i contribuenti). Per il contribuente la sostanza è che si applicano oramai ovunque le regole nuove, salvo che per i processi già pendenti che seguono le vecchie norme per le fasi già compiute.
Tirando le somme, le novità mirano tutte a un processo tributario più efficiente, equo e allineato alle garanzie generali. Chi si appresta a fare ricorso oggi deve tener conto di questi cambiamenti, che in generale sono favorevoli al contribuente (p.es. onere della prova chiaro, testimoni ammessi, autotutela impugnabile) o comunque operativi (niente mediazione, tutto telematico). È quindi consigliabile, anche per i professionisti di lungo corso, aggiornare le proprie prassi: ad esempio, ora conviene raccogliere eventuali testimonianze scritte fin dal primo grado se utili, oppure fare attenzione a eventuali opportunità di conciliazione proposte dal giudice.
Esempi pratici e casi particolari
In questa sezione illustriamo brevemente alcuni casi tipo di ricorso tributario, per mettere in pratica i concetti esposti:
- Esempio 1 – Avviso di accertamento IRPEF ad un professionista: Mario, architetto, riceve un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2021 in cui l’Agenzia delle Entrate contesta ricavi non dichiarati per €20.000, chiedendo €8.000 tra imposte e sanzioni. Mario ritiene l’accertamento infondato (i ricavi erano già tassati altrove). Prima di ricorrere, presenta istanza di accertamento con adesione all’ufficio: questo sospende i 60 giorni. Nell’incontro, però, l’ufficio non recede dalla pretesa. Mario allora decide di fare ricorso. Valore lite €8.000 (solo tributo €5.000 + sanzioni €3.000, ma per valore si conteggiano €5.000 se si separano? In realtà, essendo congiunto, ai fini contributo credo consideriamo imposta+interessi per valore; comunque >5k). Deve farsi assistere da un difensore (valore > €5.000). Il suo avvocato prepara il ricorso evidenziando errori di calcolo dell’ufficio e allegando documenti. Notifica via PEC all’indirizzo della DP competente. Paga contributo unificato €120 (valore 8k >5k ≤25k) . Deposita telematicamente. In parallelo, Mario preferisce pagare intanto un terzo delle imposte per evitare aggravi (la legge consente con ricorso di pagare solo 1/3, e se vince glieli restituiranno, se perde dovrà pagare il resto con interessi). In udienza, discute la causa; la Commissione gli dà ragione in parte, riducendo il reddito non dichiarato a €10.000. Quindi imposta dimezzata: Mario avrà diritto a rimborso di parte di quanto pagato. La sentenza condanna l’Agenzia a rifondere €800 di spese. L’ufficio potrebbe appellare sulla parte persa; Mario magari valuta appello incidentale sulla parte ancora a suo carico. Questo esempio mostra l’iter tipico di un accertamento impugnato.
- Esempio 2 – Cartella esattoriale IMU ad un cittadino: Lucia riceve da Agenzia Entrate-Riscossione una cartella per €2.000 di IMU non pagata relativa a un terreno ereditato. Lei però sostiene di non aver mai ricevuto l’avviso di accertamento dal Comune. Valore €2.000, dunque Lucia può stare in giudizio da sola (≤€5.000) e davanti al giudice monocratico. Redige un ricorso semplice, impugnando la cartella per omessa notifica dell’atto presupposto (avviso IMU) e per prescrizione (sono passati oltre 5 anni). Lo spedisce con raccomandata A/R al Comune (che è ente creditore, sebbene atto di riscossione: qui c’è un tecnicismo, avrebbe dovuto notificare sia al Comune sia ad AER per conoscenza. Per prudenza meglio notificarlo a entrambi: litisconsorzio tra ente impositore e agente riscossione). Paga contributo unificato €30 . Deposita tramite raccomandata alla Commissione (non avendo PEC, può fare così). In udienza (che per cause sotto soglia è da remoto, ma Lucia non ha mezzi, chiede presenza: gliela concedono), Lucia espone il suo caso; il Comune non si costituisce. Il giudice verifica che effettivamente la cartella è stata notificata nel 2025 per un IMU 2015 senza avviso noto: accoglie il ricorso e annulla la cartella per decadenza. Lucia vince, senza aver speso in avvocati (solo 30€ di contributo e qualche decina per raccomandate). Il Comune non appella, la questione finisce lì. Questo scenario è frequente: piccoli importi, difesa propria, vizi di notifica.
- Esempio 3 – Impresa con avviso IVA e rifiuto autotutela: Una società di commercio riceve un avviso di accertamento IVA da €300.000. Scopre però che c’è un palese errore di persona: l’ufficio ha invertito le partite IVA e intendeva colpire un’altra società omonima. Presenta subito istanza di autotutela obbligatoria (errore di persona è tra i casi art. 10-quater), chiedendo l’annullamento. L’ufficio però, incredibilmente, risponde negativamente o non risponde affatto entro 90gg. A questo punto, nuova norma alla mano, la società può impugnare il rifiuto tacito di autotutela , senza dover attendere cartelle o altro. Presenta ricorso contro “il silenzio-rifiuto sull’istanza di autotutela obbligatoria relativa all’avviso n…”, allega la prova dell’errore (diversa P.IVA, ecc.), e chiede al giudice di annullare l’atto originario perché l’ufficio aveva l’obbligo di annullarlo da sé. La Commissione, constatato l’errore manifesto, accoglie e annulla l’avviso (nonostante formalmente fosse tardivo rispetto ai 60gg dalla notifica originaria, grazie alla nuova impugnabilità del diniego di autotutela). Questa è una vittoria per il sistema: prima la società sarebbe rimasta col cerino in mano (atto palesemente sbagliato ma se non impugnato in tempo = definitivo; l’ufficio poteva “fare orecchie da mercante” in autotutela).
- Esempio 4 – Caso di litisconsorzio necessario: Due coniugi proprietari al 50% di un immobile ricevono un avviso di accertamento TARI unico, intestato a entrambi, per omessa denuncia. Uno solo dei due (marito) fa ricorso, l’altro no. Il ricorso andrebbe proposto da entrambi, essendo obbligazione solidale e atto unico. Il marito però procede da solo. In giudizio, il Comune eccepisce la mancata integrazione del contraddittorio dell’altro coniuge. La Commissione, rilevato che l’atto è unitario e la posizione inscindibile, dichiara nullo il giudizio . Il marito ha perso tempo e dovrà reintrodurre il ricorso includendo la moglie (se ancora nei termini, altrimenti la nullità forse lo salva per rifare, ma è complicato). Questo esempio mostra perché è importante individuare tutti i soggetti coinvolti ed eventualmente riunire forze in un ricorso congiunto quando la legge lo impone.
Domande Frequenti (FAQ) su ricorso tributario e costi
Di seguito una raccolta di domande comuni con risposte sintetiche, per chiarire dubbi frequenti:
D1: Entro quanti giorni devo fare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria?
R: Generalmente entro 60 giorni dalla notifica dell’atto che vuoi impugnare . Ricorda che agosto (1–31) sospende il conteggio. Fai partire il conto dal giorno successivo alla notifica. Ad esempio, atto notificato il 10 maggio → ricorso da notificare entro 9 luglio (salvo sospensioni). Se il 60º giorno è festivo, va al giorno seguente. Alcuni atti particolari hanno termini diversi (es: diniego tacito di rimborso, 90 giorni dal silenzio). In caso di dubbi, considera 60 giorni come regola generale. E se stai per scadere e non hai pronto il ricorso, puoi anche notificare un ricorso breve per fermare i termini e poi completarlo in sede di deposito.
D2: Qual è la Corte di Giustizia Tributaria competente per il mio ricorso?
R: La competenza territoriale è determinata dalla sede dell’ufficio che ha emanato l’atto . Quindi: – Se impugni un avviso dell’Agenzia Entrate di Milano, la CGT di primo grado competente è Milano (Lombardia). – Se impugni un atto del Comune di Napoli, competente la CGT Campania (sede Napoli). – Se impugni una cartella della riscossione per tributi erariali in Emilia, competente la CGT Emilia-Romagna (sede Bologna) perché lì ha sede l’agenzia riscossione locale. In pratica controlla chi ha emesso l’atto e dove si trova. Se sbagli foro, il giudice lo può dichiarare incompetente e trasferire la causa altrove , facendoti eventualmente perdere tempo (o il ricorso se non riassumi).
D3: Devo farmi assistere da un avvocato per forza?
R: Solo se il valore supera €5.000 . Se la tua lite (imposte contestate, esclusi interessi e sanzioni) non eccede 5.000 euro, puoi presentare ricorso da solo (difesa personale) . Se supera €5.000, la legge richiede un difensore abilitato (avvocato, commercialista o altro professionista iscritto) . Attenzione: il valore è determinato dal tributo. Esempio: cartella da €6.000 di cui €4.000 imposte e €2.000 interessi/sanzioni → valore = €4.000 → sei sotto soglia, puoi agire da solo. Invece avviso con €6.000 imposta e €1.000 sanzioni → valore = €6.000 → sopra soglia, serve difensore. Anche se la difesa personale è ammessa, valuta bene la complessità: errori procedurali possono costare caro. Spesso è consigliabile un avvocato tributarista, soprattutto se non hai familiarità con le norme.
D4: Come si calcola il valore della controversia?
R: Somma le imposte (o tasse) che il Fisco ti chiede con l’atto. Non contare gli interessi. Se impugni anche sanzioni autonome (o l’atto è solo sanzioni), il valore è l’importo delle sanzioni . Esempio: avviso chiede €10.000 di IVA + €2.000 interessi + €3.000 sanzioni → valore = €10.000 (tributo) perché interessi non contano e le sanzioni non si sommano se c’è anche tributo (in genere si considera tributo, salvo il caso in cui l’atto verta solo su sanzioni). Questo valore serve sia per la soglia difesa, sia per determinare il contributo unificato. Per sicurezza, se hai dubbi, considera la somma di tributo + sanzioni come “valore economico” su cui tarare l’importanza, ma ai fini legali tributo e sanzioni seguono regole diverse.
D5: Quanto costa fare ricorso?
R: Costa relativamente poco avviare un ricorso, ma attenzione ai possibili costi in caso di soccombenza: – Contributo unificato: da €30 a €1.500 a seconda del valore . Ad esempio 30€ per liti fino 2.582€, 120€ per liti fino 25.000€, 500€ fino 200.000€, ecc. – Spese legali: se incarichi un avvocato, dovrai pagare il suo compenso (pattuibile liberamente). Potresti recuperarlo se vinci (il giudice di solito liquida una parte delle spese a carico dell’ente). – Eventuale CTU o perizie: raramente, ma se ne fai uso, hanno un costo (che potrebbe esserti rimborsato se vinci e il giudice li mette a carico dell’ente). – In caso di perdita: potresti essere condannato a rimborsare le spese all’Agenzia. Non sempre gli importi richiesti dall’Avvocatura sono altissimi, ma prevedi qualche migliaio di euro per liti medio-grandi. Inoltre dovrai poi pagare l’imposta contestata con interessi di mora maturati. – Non ci sono altre tasse (il ricorso è esente bollo). La notifica via PEC è gratuita. Quindi l’esborso iniziale è davvero il contributo + eventuali costi del professionista. Il grosso rischio è se perdi, dover pagare tutto il tributo più spese contrarie.
D6: Posso impugnare una comunicazione di irregolarità (avviso bonario)?
R: Sì, in molti casi è possibile, benché la legge non lo elenchi espressamente, la Cassazione ha chiarito che l’elenco degli atti impugnabili va letto estensivamente per garantire tutela . Se l’“avviso bonario” (esito di liquidazione automatica ex art. 36-bis DPR 600) contiene una pretesa tributaria definita (ti dicono: devi pagare X per questo motivo), puoi ricorrere subito contro di esso, senza aspettare la cartella . Questo perché già quell’atto ti impone un pagamento (seppur “bonariamente” prima di iscrivere a ruolo). La giurisprudenza ha riconosciuto l’impugnabilità immediata, per evitare che il contribuente paghi importi magari non dovuti solo perché la comunicazione non era formalmente “atto impugnabile”. Dunque: se ritieni errata la comunicazione (ad es. calcolo sbagliato), puoi fare ricorso. Tieni però presente: se l’errore è riconoscibile e sei nei 30 gg dalla comunicazione, puoi alternativamente presentare un’istanza di correzione o chiamare l’ufficio per farla sistemare senza contenzioso. L’avviso bonario dà di solito 30 giorni per segnalare imprecisioni, fallo valere eventualmente. Se non ne vieni a capo, allora ricorri al giudice.
D7: Posso impugnare un estratto di ruolo o devo aspettare la cartella?
R: L’estratto di ruolo in sé (il documento informatico interno rilasciato su tua richiesta dall’Agente Riscossione) non è un atto impugnabile secondo la S.U. della Cassazione . Tuttavia, se dall’estratto emerge che c’è una cartella mai notificata, puoi impugnare la cartella e/o il ruolo non notificati appena hai un appiglio formale. In pratica devi attendere un atto successivo come l’intimazione di pagamento, oppure puoi presentare ricorso preventivo citando il ruolo, ma rischi inammissibilità se non c’è un atto. Le Sezioni Unite (sent. 19704/2015) hanno detto: è ammessa l’impugnazione della cartella o del ruolo non notificati di cui si è avuta conoscenza tramite estratto . Quindi consigliano di formulare il ricorso dicendo “Impugno la cartella n… iscritta a ruolo (di cui ho avuto conoscenza in data…) perché mai notificata e ora resa nota”. Se invece la cartella risulta regolarmente notificata anni fa e tu te ne accorgi solo con estratto, purtroppo i termini sono decorsi e non puoi impugnare l’estratto come surrogato. In tal caso potrai solo far valere la prescrizione se l’Agente avvia misure dopo 5 anni, oppure se l’estratto evidenzia vizi formali dell’atto (ad es. importo sbagliato) difficilmente contestabili se i termini sono scaduti.
D8: Cos’è la sospensione feriale e come incide sui miei termini?
R: È la sospensione dei termini processuali dal 1° al 31 agosto di ogni anno. Tutti i termini di impugnazione o processuali che cadono in quel periodo restano “congelati”. Quindi, se il tuo termine di 60 giorni attraversa agosto, quei 31 giorni non contano. Un esempio concreto: atto notificato il 20 giugno → normalmente scadenza ricorso 19 agosto, ma con sospensione (tutto agosto off) il termine slitta a 19 settembre. Fai attenzione: questa sospensione vale per i termini di ricorso, appello, ecc., ma non sospende i termini sostanziali di versamento di imposte. Ad esempio, se devi pagare entro 30 agosto una rata di imposta, la sospensione feriale non ti autorizza a pagare in settembre (perché quella è scadenza fiscale, non processuale). Vale solo per le scadenze “per fare causa”.
D9: Se faccio ricorso, devo comunque pagare intanto?
R: Dipende dal tipo di atto: – Per gli avvisi di accertamento esecutivi (la gran parte degli accertamenti oggi), la legge prevedeva che entro 60 giorni devi pagare 1/3 delle imposte accertate. Se fai ricorso, l’obbligo rimane (1/3) salvo tu ottenga una sospensiva dal giudice . In pratica molti contribuenti pagano quel 30% per sicurezza (per non avere aggio riscossione e ipoteche), e chiedono sospensione per il restante. Se ottieni la sospensione, non paghi altro finché non c’è sentenza. Se non la chiedi o non l’ottieni, dopo i 60 gg l’Agente può iscrivere a ruolo 1/3 e, dopo la sentenza di primo grado se perdi, il restante. – Per le cartelle: se fai ricorso entro i 60 gg, la cartella non viene pagata nel frattempo. Però scaduto il termine, l’Agente potrebbe procedere. Quindi di nuovo, conviene chiedere sospensione al giudice. Se il giudice sospende la cartella, stai tranquillo fino alla sentenza. Se nega la sospensione, teoricamente il riscossore potrebbe iniziare azioni (fermo auto, pignoramento) anche durante la pendenza del giudizio. Pertanto, in caso di rigetto cautelare, valuta se pagare (magari a rate) per evitare guai, oppure prosegui confidando di vincere e intanto cercando di bloccare la riscossione in altri modi (es. con un accordo temporaneo). – Per atti come dinieghi di rimborso o provvedimenti negativi (che non chiedono soldi ma li negano a te), non c’è nulla da pagare: fai ricorso e attendi. In generale, il ricorso non sospende automaticamente la riscossione. Serve l’istanza al giudice per ottenerlo . C’è una eccezione: se impugni un avviso di accertamento in autotutela entro 60gg dall’intimazione di pagamento, l’Agente Riscossione sospende ex lege l’esecuzione fino a esito del ricorso (norma 2021). Ma meglio non fare affidamento su automatismi: fai sempre, contestualmente al ricorso, la richiesta di sospensiva (art. 47) motivando il danno (“pagare mi causerebbe grave crisi di liquidità, irreparabile perché…”). Le Commissioni tendono a concederla se c’è plausibilità nel ricorso e danno serio, proprio perché sanno che altrimenti il contribuente può fallire prima della sentenza.
D10: Cosa succede se vinco il ricorso?
R: Se vinci in primo grado, la sentenza annulla l’atto impugnato. L’ente dovrebbe conformarsi: se era un avviso, decade la pretesa; se era un diniego rimborso, dovrà rimborsarti; se era una cartella, l’Agente deve annullarla. Spesso, se l’ente non appella, devi solo attendere lo scadere dei termini d’appello e poi, se c’è un rimborso da ottenere, presentare un’istanza di ottemperanza (invitare l’ufficio a eseguire). Se l’ente appella, la vittoria non è ancora definitiva: in secondo grado la partita si riapre, ma intanto tu puoi chiedere alla Commissione regionale la sospensione della sentenza impugnata dall’ente (in pratica, di non dover pagare eventualmente le somme se il primo grado ti aveva esonerato e in appello l’ufficio chiede di pagarle). Se vinci definitivamente (dopo appello o Cassazione), allora hai diritto a quanto segue: cancellazione di ogni debito riferito all’atto, restituzione di eventuali somme già versate (con interessi), compensi di spese liquidati a tuo favore (che se lo Stato non paga spontaneamente, puoi recuperare con procedura di ottemperanza o iscrizione a ruolo a suo carico). La sentenza passata in giudicato è titolo per questi crediti verso l’erario.
D11: E se perdo il ricorso?
R: Se perdi in primo grado, puoi valutare l’appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (entro 60 giorni dalla notifica della sentenza avversaria, o 6 mesi dal deposito se nessuno te la notifica). L’appello è un nuovo giudizio di merito (non semplicemente legittimità come in Cassazione), quindi puoi far valere eventuali errori del primo giudice e ottenere il ribaltamento. Nel frattempo però, l’ente può procedere a riscuotere quanto dovuto. Puoi chiedere alla Commissione regionale di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado, altrimenti l’imposta va pagata per non subire azioni (in passato c’era l’obbligo di pagare 2/3 dopo sentenza primo grado sfavorevole; oggi quel meccanismo non è automatico ma sostanzialmente l’ufficio potrebbe richiedertelo). Se decidi di non appellare, la sconfitta diventa definitiva: dovrai pagare il dovuto, comprese le spese legali all’ente come da sentenza. In caso di difficoltà, puoi chiedere una dilazione all’Agente Riscossione (rate fino a 72 o 120 mesi a seconda della tua situazione). Non pagare affatto significherebbe subire pignoramenti, quindi attenzione ai passi successivi. In alcune situazioni limite, potresti valutare strumenti come la composizione crisi da sovraindebitamento, ma qui entriamo fuori tema. Diciamo che perdere un ricorso tributario comporta di norma il concretizzarsi definitivo del debito fiscale.
D12: Quali sono le differenze se il ricorrente è un’azienda o un privato?
R: Dal punto di vista procedurale, poche. Entrambi seguono le stesse regole. La differenza pratica è che: – Un’azienda avrà quasi sempre bisogno di un difensore (imposte aziendali raramente sono sotto €5.000). – Le società di capitali devono agire tramite legale rappresentante con difensore; le ditte individuali sono assimilate a persone fisiche. – Per un’azienda, magari contenziosi IVA o IRES possono essere più complessi tecnicamente (transfer pricing, ecc.), dunque i costi legali salgono e la necessità di prove (perizie contabili) può essere maggiore. – Un privato spesso litiga su temi come IMU, IRPEF da controlli formali, detrazioni, quindi questioni più facilmente gestibili. In compenso, per il privato l’esborso anche di poche migliaia di euro può essere molto impattante. In sostanza, le regole del gioco sono uguali. Ci sono però atti che tipicamente riguardano le imprese (avvisi IVA, accertamenti studi settore etc.) e atti tipici dei privati (es. avvisi omessa dichiarazione redditi esteri RW, accertamenti sintetici sul tenore di vita). Ma la struttura del ricorso non cambia.
D13: Ci sono banche dati di giurisprudenza o normative che posso consultare per supportare il mio ricorso?
R: Sì. Alcune risorse utili: – Normattiva (normattiva.it) per testi aggiornati di decreti (es. D.Lgs. 546/1992 consolidato). – Portale Giustizia Tributaria (giustizia-tributaria.gov.it) e sito del MEF – Dip. Giustizia Tributaria con circolari e FAQ. – Banche dati di sentenze: la rivista telematica giustiziatributaria.it pubblica alcune massime, e sul sito def.finanze.it trovi un archivio di giurisprudenza di Cassazione tributaria (non semplicissimo da navigare). Anche siti come il Portale della Corte di Cassazione permettono di cercare sentenze tributarie (per numero). – Riviste specializzate: ad es. Rivista di Diritto Tributario, Il Fisco, Corriere Tributario, contengono commenti e sentenze (accesso spesso per abbonati). – Siti informativi: FiscoOggi (Agenzia Entrate) fornisce chiarimenti, e vari studi legali condividono articoli (come quello citato di Bianucci sul litisconsorzio ). Fisco e Tasse, Altalex, Ipsoa etc. hanno sezioni tributarie. Per motivi di credibilità, quando citi giurisprudenza nel ricorso, meglio riferirsi a pronunce di Cassazione (specie Sezioni Unite o sez. Trib.) o eventualmente di Corte Costituzionale, piuttosto che sentenze di merito di altre Commissioni (che non fanno “precedente” vincolante, ma possono essere persuasive). Ad esempio, se impugni per difetto di notifica, potresti citare Cass. SU n. 10072/2010 che fissa principi sulle notifiche; se è questione di interpretazione norma, cerca se c’è già una Cassazione. Il tuo difensore sicuramente lo farà. Se sei da solo, un po’ di ricerca online può aiutare.
D14: Che differenza c’è tra ricorso in primo grado, appello e ricorso per Cassazione?
R: Il ricorso in primo grado apre il giudizio di merito davanti alla CGT di primo grado. L’appello è un nuovo ricorso (chiamato “atto di appello”) che si fa alla CGT di secondo grado contro la sentenza di primo grado se sbagliata in fatto o in diritto. È sostanzialmente una “seconda possibilità” di far valutare il merito (puoi portare nuovi documenti se ammessi, ma non nuovi motivi su questioni non sollevate prima, salvo eccezioni). Il ricorso per Cassazione invece è contro la sentenza di secondo grado, e riguarda solo questioni di diritto: la Cassazione non rivede i fatti, ma solo errori di diritto (violazioni di legge, vizio di motivazione ormai entro limiti). È un giudizio di legittimità, monogrado. Quindi il percorso standard è: Ricorso in primo grado → Sentenza → Appello (secondo grado) → Sentenza → Ricorso in Cassazione → Sentenza definitiva. I primi due sono giudizi di merito con esame del fatto, l’ultimo è giuridico. In Cassazione quasi sempre serve un avvocato cassazionista iscritto in speciale albo. I costi aumentano (contributo in Cassazione per fiscale è €200 se valore ≤€2.582,28, €400 fino 5k, €800 fino 150k, €1.500 oltre). Ma questa è un’altra storia. Molte liti terminano al secondo grado, specie dopo la riforma (perché con giudici più professionalizzati si spera in sentenze di primo/secondo grado più solide, e inoltre vi sono incentivi a definire prima della Cassazione, come sconti). La tua strategia deve considerare la possibilità di appello dell’ente: se vinci in primo grado su questione “di principio” è molto probabile che l’Agenzia appelli, quindi preparati. Viceversa, se la questione è prevalentemente fattuale e hai vinto, l’ente a volte molla (soprattutto su importi minori, stante anche linee MEF per ridurre contenzioso su liti piccole perse in primo grado).
D15: Quali sono gli errori più comuni da evitare nel fare un ricorso tributario?
R: Eccone alcuni: – Tardività: presentare il ricorso oltre i 60 giorni. È fatale. Segna bene la scadenza e non aspettare l’ultimo giorno, e considera i tempi per ottenere documenti o per la notifica. – Notifica irregolare: sbagliare destinatario PEC, o dimenticare di notificare affatto. Se non notifichi all’ente, il ricorso è inesistente. Usa l’indirizzo PEC ufficiale giusto. Se cartaceo, segui le forme (meglio ufficiale giudiziario se non sei pratico di notifiche dirette). – Sbagliare Commissione: indirizzare il ricorso alla CGT sbagliata. Magari lo presenti a Milano ma la competenza era Brescia. Questo può essere sanato con trasferimento, ma perdi tempo e rischi di incorrere in decadenza se non riassumi. Quindi individua correttamente la sede (art. 4 D.Lgs. 546 ti guida). – Non allegare l’atto impugnato: succede a volte. Devi allegare copia dell’atto che contesti, sennò il giudice non può valutarlo e spesso dichiara il ricorso inammissibile per difetto di oggetto. – Motivi generici o contraddittori: scrivere “Il provvedimento è illegittimo e chiedo annullamento” senza spiegare perché. I motivi vanno sviluppati e precisi. Evita anche di inserirne troppi inutili; concentra quelli solidi. Non copiare-incollare blocchi normativi interi senza legarli al caso concreto. – Mancanza di firma/procura valida: se hai l’avvocato, assicurati che firmi digitalmente il ricorso e che la procura sia allegata correttamente. Se difesa personale, firmalo tu digitalmente o autografa se cartaceo. Un ricorso non firmato è nullo. – Dimenticare di pagare il contributo unificato: può non invalidare subito, ma la segreteria te lo chiederà. Se non lo paghi proprio, rischi iscrizione a ruolo e una sanzioncina. Meglio pagarlo contestualmente al deposito. – Non chiedere la sospensiva se necessaria: molti scordano di inserire l’istanza di sospensione e poi si trovano l’Agente che procede. Se c’è un importo rilevante o rischi concreti, chiedila subito nel ricorso. Puoi anche presentarla dopo con atto separato, ma tanto vale farlo da subito. – Nel caso di più coobbligati, non integrarli (litisconsorzio): già detto, se l’atto coinvolge più soggetti inscindibilmente (socio-società, coobbligati solidali), fallire di includerli può far annullare tutto . Soluzione: ricorso congiunto oppure citarli come controinteressati. – Non seguire il processo telematico correttamente: ad esempio caricare file oltre i limiti (il portale ha max 50MB per file mi pare, quindi comprimi PDF se troppi Mb), oppure non firmare digitalmente gli allegati importanti. Oppure, se depositi cartaceo eccezionalmente, scordare di includere la ricevuta PEC di notifica per dimostrare che hai notificato. La costituzione deve provare che hai notificato entro 60 gg: allega la ricevuta PEC (o la cartolina AR).
In generale, cura molto forma e sostanza: un ricorso ben scritto, fondato su norme e magari supportato da sentenze di Cassazione, mette il giudice in buona disposizione. Al contrario, un ricorso confuso o rabberciato rischia di essere respinto anche se avevi ragione, semplicemente perché non hai convinto il giudicante.
Conclusione: il ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado è uno strumento fondamentale di tutela del contribuente contro indebite pretese fiscali. Prepararlo in modo accurato, rispettare i termini e conoscere i propri diritti (e doveri) procedurali aumenta notevolmente le chances di successo. Con le ultime riforme, il processo tributario è divenuto più moderno (telematico), più rapido in alcuni snodi e più equilibrato nelle garanzie. Ciò non toglie che resti una materia complessa: per liti significative è bene affidarsi a professionisti esperti. Speriamo che questa guida – con fonti normative aggiornate e richiami giurisprudenziali – possa fungere da riferimento sia per chi muove i primi passi nel contenzioso tributario, sia per l’operatore che vuole un quadro d’insieme aggiornato al 2025. La conoscenza delle regole del gioco è il primo passo per far valere efficacemente le proprie ragioni fiscali davanti al giudice.
Hai ricevuto un avviso di accertamento o una cartella esattoriale che ritieni ingiusta? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso di accertamento o una cartella esattoriale che ritieni ingiusta?
Vuoi sapere come presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado e quali sono i costi da sostenere?
👉 Prima regola: il ricorso va presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto, altrimenti diventa definitivo.
⚖️ Quando si può fare ricorso
- Avvisi di accertamento e liquidazione dell’Agenzia delle Entrate;
- Cartelle di pagamento e intimazioni di Equitalia/Agenzia Entrate-Riscossione;
- Avvisi di addebito INPS collegati a contributi previdenziali;
- Dinieghi di rimborsi o agevolazioni fiscali;
- Atti catastali e ipotecari.
📌 Requisiti del ricorso
- Deve contenere:
- generalità del ricorrente;
- indicazione dell’atto impugnato;
- motivi di diritto e di fatto della contestazione;
- richiesta specifica al giudice;
- procura al difensore (quando obbligatoria).
- Deve essere depositato telematicamente tramite il sistema SIGIT.
💰 Costi del ricorso
- Contributo unificato tributario: varia in base al valore della controversia:
- fino a 2.582,28 € → 30 €
- da 2.582,29 € a 5.000 € → 60 €
- da 5.000,01 € a 25.000 € → 120 €
- da 25.000,01 € a 75.000 € → 250 €
- oltre 75.000 € → 500 €
- Spese legali: variano in base alla complessità della causa e al valore della lite;
- Eventuali onorari del consulente tecnico (perizie contabili, immobiliari, ecc.).
🔍 Cosa verificare prima di ricorrere
- L’atto impugnato è stato notificato regolarmente?
- I termini di 60 giorni sono ancora aperti?
- Esistono vizi formali o sostanziali che rendono l’accertamento illegittimo?
- È possibile chiedere la sospensione della riscossione in attesa della sentenza?
- Conviene tentare prima l’autotutela o la mediazione tributaria (per liti fino a 50.000 €)?
🛠️ Strategie di difesa
- Presentare un ricorso ben motivato con prove documentali a supporto;
- Chiedere la sospensione cautelare della riscossione se l’atto comporta pagamenti immediati;
- Evidenziare violazioni procedurali (es. difetto di motivazione, decadenza dei termini);
- Contestare errori di calcolo, doppie imposizioni o vizi di notifica;
- Prepararsi a una possibile conciliazione in corso di giudizio.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Valuta la legittimità dell’atto impugnato;
📌 Predispone il ricorso con motivazioni puntuali e documenti di prova;
✍️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado;
⚖️ Richiede la sospensione della riscossione per tutelare la tua liquidità;
🔁 Suggerisce strategie preventive per evitare futuri contenziosi fiscali.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e diritto processuale;
✔️ Specializzato in difesa contro accertamenti fiscali e cartelle esattoriali;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Il ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado è lo strumento principale per contestare accertamenti e cartelle fiscali ingiuste.
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