Accertamento Fiscale E Scambio Di Informazioni Estere: Tutte Le Strategie Di Difesa Aggiornate

Hai ricevuto un accertamento basato su dati provenienti dallo scambio di informazioni fiscali internazionali? Oggi, grazie al Common Reporting Standard (CRS) e agli accordi bilaterali, l’Agenzia delle Entrate riceve automaticamente informazioni su conti correnti, investimenti e redditi detenuti all’estero dai contribuenti italiani. Questo meccanismo ha aumentato i controlli, ma non sempre i dati trasmessi sono completi o corretti. Conoscere le strategie difensive aggiornate è fondamentale per tutelarsi.

Quando l’Agenzia delle Entrate utilizza lo scambio di informazioni estere
– Se risultano conti correnti o depositi a tuo nome in Paesi esteri
– Se emergono redditi finanziari non riportati nella dichiarazione italiana
– Se non è stato compilato correttamente il quadro RW per il monitoraggio fiscale
– Se vi sono divergenze tra i dati trasmessi dalle banche estere e quelli dichiarati in Italia
– Se l’Ufficio presume occultamento di capitali o residenza fiscale fittizia all’estero

Conseguenze dell’accertamento basato su dati esteri
– Recupero a tassazione dei redditi esteri non dichiarati
– Applicazione di sanzioni dal 3% al 15% (fino al 30% per Paesi black list) per mancato monitoraggio RW
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Maggiore esposizione a verifiche patrimoniali e accertamenti bancari
– Nei casi più gravi, denuncia penale per dichiarazione infedele o omessa dichiarazione

Strategie di difesa aggiornate
– Dimostrare l’avvenuta tassazione dei redditi nello Stato estero tramite certificazioni ufficiali
– Contestare errori materiali nei dati trasmessi tramite scambio internazionale (nominativi simili, codici errati, conti chiusi)
– Invocare le convenzioni contro le doppie imposizioni per evitare tassazioni duplici
– Evidenziare vizi di motivazione e carenze istruttorie nell’accertamento
– Utilizzare il ravvedimento operoso o strumenti di regolarizzazione per ridurre sanzioni e interessi
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria con argomentazioni fondate su documenti ufficiali esteri

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione bancaria e fiscale ricevuta tramite scambio internazionale
– Verificare la legittimità dell’accertamento e la corretta applicazione delle convenzioni fiscali
– Predisporre un ricorso basato su prove concrete e vizi procedurali
– Difendere il contribuente davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio personale e familiare da conseguenze fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento basato su dati esteri
– La riduzione delle sanzioni tramite regolarizzazione volontaria o ricorso
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della corretta tassazione dei redditi secondo le convenzioni internazionali
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: lo scambio automatico di informazioni fiscali internazionali ha ampliato i poteri di controllo dell’Agenzia delle Entrate, ma spesso i dati sono incompleti o errati. È fondamentale predisporre una difesa tecnica aggiornata e ben documentata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscale internazionale – spiega come difendersi in caso di accertamento basato sullo scambio di informazioni estere e quali strategie adottare per ridurre i rischi.

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Introduzione

Negli ultimi anni, le amministrazioni fiscali di tutto il mondo – inclusa l’Agenzia delle Entrate italiana – hanno significativamente intensificato i controlli sui patrimoni detenuti all’estero dai propri contribuenti. Strumenti di trasparenza fiscale internazionale come il Common Reporting Standard (CRS) e varie direttive UE sulla cooperazione amministrativa (DAC), oltre ad accordi bilaterali quali il FATCA con gli Stati Uniti, consentono oggi uno scambio massivo di informazioni finanziarie tra giurisdizioni. Di conseguenza, migliaia di contribuenti italiani sono stati raggiunti da comunicazioni del Fisco relative a conti bancari esteri, investimenti offshore, partecipazioni in società o trust stranieri non dichiarati. Questo fenomeno – l’accertamento fiscale basato sullo scambio di informazioni estere – rappresenta una sfida complessa sia per i contribuenti coinvolti (che si trovano debitori verso l’erario) sia per i professionisti che li assistono.

L’obiettivo di questa guida avanzata (aggiornata a settembre 2025) è fornire un quadro completo delle strategie di difesa a disposizione del contribuente italiano in caso di accertamenti fondati su dati finanziari provenienti dall’estero.

Cosa troverete in questa guida? Affronteremo in dettaglio:

  • Il quadro normativo internazionale ed europeo, cioè i principali accordi sullo scambio di informazioni (dal CRS alle direttive DAC fino alle ultime novità come CRS 2.0 e DAC8) e l’adesione dell’Italia a tali strumenti.
  • Gli obblighi fiscali per i contribuenti italiani con attività estere, in particolare il monitoraggio tramite il quadro RW e la disciplina del cosiddetto “monitoraggio fiscale”.
  • Le fonti informative e gli strumenti investigativi utilizzati dall’Amministrazione finanziaria per scoprire patrimoni all’estero (banche dati nazionali, scambi automatici, richieste mirate, segnalazioni antiriciclaggio, liste da leak internazionali come la “Lista Falciani”, ecc.).
  • Le tipologie più comuni di accertamento fiscale legate a estero: conti correnti e investimenti non dichiarati, casi di residenza fittizia all’estero (esterovestizione di persone fisiche), società estere controllate da italiani (CFC ed esterovestizione societaria), trust e altre strutture fiduciarie estere, nonché le questioni emergenti su criptovalute e nuovi asset digitali.
  • Il procedimento di accertamento basato su dati esteri: dalle iniziali lettere di compliance o questionari dell’Agenzia, fino all’eventuale emissione dell’avviso di accertamento, evidenziando i diritti del contribuente (come il contraddittorio anticipato) e le tempistiche procedurali.
  • Le strategie difensive a disposizione del contribuente, sia in fase amministrativa (risposta a richieste informazioni, adesione, autotutela) sia in fase contenziosa (ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado, fino al ricorso in Cassazione). Verranno trattate le possibili contestazioni sul merito (es. provenienza delle somme, doppia imposizione, errori nei dati) e sul procedimento (es. vizi formali, decadenza dei termini, violazione del contraddittorio).
  • Simulazioni pratiche di casi reali, ad esempio: la ricezione di dati finanziari dagli Emirati Arabi Uniti via CRS e un successivo accertamento; l’accertamento su un trust estero (es. con sede a Jersey) con analisi delle possibili difese; il caso di un imprenditore italiano con società a Malta o in Svizzera contestato per esterovestizione, ecc.
  • Tabelle riepilogative utili a colpo d’occhio con i principali riferimenti normativi, gli strumenti investigativi, le pronunce giurisprudenziali più rilevanti e i termini procedurali da ricordare.
  • Una sezione Domande & Risposte (FAQ) che chiarisce i dubbi più comuni in materia (ad es. “Cosa succede se ignoro una lettera della Agenzia?”, “Come posso provare che i fondi esteri erano già tassati?”, “Quali Paesi non scambiano informazioni?”, “Cosa è il CRS 2.0?”, “DAC8 come mi riguarda?”, ecc.).

La posta in gioco in questi casi è molto alta: oltre al recupero delle imposte evase, il contribuente rischia pesanti sanzioni amministrative e, nei casi più gravi, anche conseguenze penali. Diventa dunque fondamentale conoscere preventivamente i propri obblighi (per evitare di incorrere in violazioni) e, qualora un accertamento avvenga, attivare tempestivamente le migliori strategie difensive per tutelare il proprio patrimonio e i propri diritti. Nelle sezioni seguenti forniremo quindi un inquadramento normativo aggiornato al 2025 e poi entreremo nel dettaglio delle tecniche difensive, con riferimenti a fonti normative e sentenze recenti per supporto.

Quadro Normativo Internazionale e UE sullo Scambio di Informazioni

Per contrastare l’evasione fiscale internazionale, negli ultimi due decenni si è sviluppato un sistema articolato di accordi e normative che permettono agli Stati di scambiarsi informazioni sui redditi e patrimoni detenuti all’estero dai rispettivi residenti. Di seguito riepiloghiamo le principali iniziative, sottolineando come l’Italia vi abbia aderito e come funzionano in pratica.

  • Common Reporting Standard (CRS) – È lo standard globale sviluppato in sede OCSE nel 2014 (su mandato G20) per lo scambio automatico di informazioni finanziarie a fini fiscali. Ad oggi oltre 120 Paesi hanno assunto impegni per attuarlo . In base al CRS, le istituzioni finanziarie (banche, intermediari, assicurazioni, gestori di fondi, trust company, ecc.) in ciascun Paese partecipante raccolgono annualmente i dati sui conti finanziari detenuti da soggetti non residenti (generalmente: generalità del titolare e soggetti controllanti, saldo di fine anno, saldo massimo, interessi attivi maturati, dividendi, proventi da assicurazioni finanziarie, ecc.) e li trasmettono alla propria autorità fiscale locale. Quest’ultima poi invia automaticamente tali informazioni all’amministrazione fiscale del Paese in cui il titolare del conto è residente. L’Unione Europea ha recepito il CRS integrandolo nella propria normativa: la Direttiva 2014/107/UE (DAC2) ha introdotto tra Stati membri lo scambio automatico di informazioni sui conti finanziari. L’Italia ha attuato il CRS con la Legge 18 giugno 2015 n.95 (che ha ratificato gli accordi internazionali in materia) e con il Decreto MEF 28/12/2015 che ne ha stabilito le modalità tecniche di attuazione. Di conseguenza, dal 2017 il Fisco italiano riceve ogni anno un flusso massivo di dati sui conti esteri dei propri residenti da oltre 100 giurisdizioni aderenti. Al 2025 l’elenco dei Paesi che scambiano attivamente informazioni con l’Italia ha superato quota 115 (inclusi ex “paradisi fiscali” come Svizzera, San Marino, Monaco, Liechtenstein, Lussemburgo, Singapore, Hong Kong, Emirati Arabi, le isole del Canale come Jersey/Guernsey, vari Stati dei Caraibi, ecc.). Ogni anno nuove adesioni ampliano la rete – ad esempio dal 2023 anche Paesi del Medio Oriente e dell’Est Europa hanno iniziato a scambiare dati con l’Italia. Lo standard CRS ha praticamente segnato la fine del tradizionale segreto bancario a fini fiscali: ormai conti correnti, depositi titoli, polizze finanziarie e altre attività detenute all’estero sono diventati “trasparenti” per il fisco del Paese di residenza del titolare. In termini quantitativi globali, il CRS si è rivelato un game-changer: solo nel 2022, le amministrazioni partecipanti si sono scambiate informazioni su 123 milioni di conti finanziari per un valore complessivo di circa 12 mila miliardi di euro , consentendo di scoprire ingenti ricchezze prima occultate offshore.
  • FATCA (Foreign Account Tax Compliance Act) – È la normativa introdotta dagli Stati Uniti nel 2010 per contrastare l’evasione dei propri cittadini tramite conti esteri. In base al FATCA, gli intermediari finanziari di tutto il mondo sono tenuti a comunicare all’IRS (il fisco USA) i dati dei conti detenuti da cittadini/statunitensi non residenti . L’Italia ha aderito al FATCA siglando con gli USA un accordo bilaterale intergovernativo (IGA Model 1) nel 2014, ratificato con la già citata Legge n.95/2015. In virtù di tale accordo, esiste oggi uno scambio reciproco di informazioni: gli intermediari italiani trasmettono all’Agenzia delle Entrate i dati sui conti intestati a soggetti statunitensi in Italia, e parallelamente l’IRS americano fornisce all’Italia alcune informazioni (in forma più limitata) sui conti finanziari detenuti negli USA da residenti fiscali italiani. In pratica, però, lo scambio dagli USA verso l’Italia è meno esteso di quello garantito dal CRS: ad esempio, gli USA comunicano principalmente i redditi di fonte USA (come gli interessi bancari) corrisposti su conti di residenti italiani, ma non forniscono il saldo complessivo né tutti i movimenti. Pur con questi limiti, l’accordo FATCA ha comunque anticipato e preparato il terreno al CRS globale. Va evidenziato che gli Stati Uniti, ad oggi, non aderiscono al CRS OCSE – ciò costituisce una nota anomalia, poiché consente a soggetti esteri (inclusi cittadini italiani) di detenere fondi in istituzioni finanziarie statunitensi al riparo dallo scambio automatico multilaterale. Questo è un punto critico: la stessa Agenzia delle Entrate italiana ha segnalato che gli USA rappresentano de facto una giurisdizione “parzialmente non cooperativa” sul CRS, dato che ricevono dati dagli altri Paesi ma non li ricambiano in modo completo (per questo alcune pianificazioni elusive spostano asset verso banche USA). In sintesi, FATCA consente comunque al fisco italiano di ottenere almeno le informazioni di base sui redditi finanziari (es. interessi) prodotti in conti USA di residenti italiani, creando un canale di scambio parallelo al CRS.
  • Direttive UE DAC 1-8 – L’Unione Europea, parallelamente all’OCSE, ha sviluppato un quadro normativo interno di cooperazione amministrativa in materia fiscale (le direttive cosiddette DAC, Directive on Administrative Cooperation). La Direttiva 2011/16/UE (DAC1) ha istituito un sistema generale di collaborazione tra autorità fiscali UE, prevedendo lo scambio di informazioni su richiesta, spontaneo e anche alcuni scambi automatici su categorie specifiche di redditi (interessi, dividendi, ecc.). Negli anni, DAC1 è stata emendata più volte estendendo progressivamente l’ambito dello scambio automatico: la già citata DAC2 (2014/107/UE) ha incorporato il CRS finanziario; la DAC3 (2015/2376/UE) ha introdotto lo scambio dei ruling fiscali preventivi tra Stati membri; la DAC4 (2016/881/UE) ha previsto lo scambio dei Country-by-Country Report delle multinazionali (rendicontazione paese per paese su utili, tasse pagate, ecc.) per contrastare l’erosione della base imponibile; la DAC5 (2016/2258/UE) ha garantito alle autorità fiscali accesso alle informazioni antiriciclaggio (es. registro dei titolari effettivi); la DAC6 (2018/822/UE) ha imposto a intermediari e contribuenti di comunicare gli schemi di pianificazione fiscale transfrontaliera aggressiva (le “segnalazioni DAC6” poi vengono scambiate tra Stati membri); la DAC7 (2020/284/UE) ha esteso lo scambio automatico alle piattaforme digitali (rendendo noti i redditi percepiti da venditori, host, driver tramite piattaforme online). Infine, la recente DAC8 – formalmente Direttiva (UE) 2023/2226 approvata ad ottobre 2023 – rappresenta un ulteriore ampliamento: introduce l’obbligo di comunicazione e scambio automatico di informazioni sui cripto-asset da parte dei fornitori di servizi di criptovaluta, e prevede anche lo scambio di informazioni su determinati accordi fiscali anticipati riguardanti persone fisiche ad alto patrimonio (High Net Worth Individuals) . In pratica, dal 1º gennaio 2026 gli exchange, broker e altri Crypto-Asset Service Providers (CASP) dovranno raccogliere e riportare alle autorità fiscali i dati sulle criptovalute detenute e transate da contribuenti UE, e tali informazioni verranno poi scambiate automaticamente tra gli Stati membri . Inoltre, un CASP non-UE dovrà comunque adeguarsi (registrandosi in un Paese UE) se vuole operare con clienti nell’Unione, altrimenti ne sarà escluso . DAC8 allinea così la cooperazione UE alle evoluzioni dell’economia digitale, chiudendo la falla informativa sulle cripto-attività che finora potevano sfuggire al CRS tradizionale. Gli Stati membri dovranno recepire DAC8 entro il 31 dicembre 2025, con i primi scambi di dati crypto attesi a partire dal 2026. Va evidenziato che queste misure seguono le raccomandazioni OCSE: parallelamente, infatti, l’OCSE ha elaborato il nuovo Crypto-Asset Reporting Framework (CARF), un framework globale complementare al CRS per tracciare transazioni in cripto-valute . Il CARF opererà accanto al CRS “rivisto” (CRS 2.0) in quanto nel 2022 l’OCSE ha condotto una prima revisione completa del CRS, adottando emendamenti significativi (pubblicati a giugno 2023) per includere nel perimetro anche nuovi prodotti finanziari digitali (ad es. le monete elettroniche, le valute digitali delle banche centrali) e migliorare il funzionamento complessivo dello standard . In sintesi, entro il 2026-2027 il panorama normativo vedrà due pilastri di reporting automatico: il CRS 2.0 (aggiornato e potenziato) che continuerà a tracciare i patrimoni finanziari detenuti all’estero, e il nuovo CARF che traccerà invece le transazioni in cripto-asset, con obblighi per gli intermediari del settore. Già oltre 50 giurisdizioni (tra cui tutti gli Stati UE, il Regno Unito, ecc.) hanno dichiarato l’intenzione di implementare CARF e gli emendamenti CRS nei prossimi anni . Si tratta di sviluppi molto recenti: questa guida li segnala in quanto i contribuenti con attività in ambito fintech dovranno tenerne conto per il futuro.
  • Convenzioni bilaterali e multilaterali – Oltre a CRS/DAC e FATCA, esistono anche basi legali tradizionali per lo scambio di informazioni su richiesta o spontaneo. L’OCSE ha promosso già dal 1988 una Convenzione Multilaterale sulla mutua assistenza amministrativa in materia fiscale (MAAT), emendata nel 2010, a cui oggi aderiscono quasi 150 Paesi (Italia compresa, l’ha ratificata con L. 18/2016) . Essa fornisce la cornice giuridica generale per tutte le forme di assistenza amministrativa, includendo lo scambio di informazioni su richiesta, spontaneo e automatico, oltre a misure come assistenza nella riscossione e notifiche all’estero. In parallelo, l’Italia ha stipulato numerose Convenzioni contro le doppie imposizioni (CDI) basate sul Modello OCSE, il cui art. 26 prevede lo scambio di informazioni su richiesta per fini fiscali. Esistono anche accordi specifici di Tax Information Exchange Agreement (TIEA) con alcuni Paesi extra-OCSE. Grazie a queste reti convenzionali, l’Agenzia delle Entrate può richiedere informazioni mirate a quasi ogni giurisdizione estera (basta che vi sia un trattato o la citata convenzione OCSE in vigore). Lo scambio su richiesta avviene per quesiti puntuali (es. ottenere saldo e movimenti di un dato conto estero) ed è subordinato al criterio della “prevedibile rilevanza” delle informazioni. Da notare che, secondo la Corte di Giustizia UE (caso Sabou, 2013), il contribuente oggetto di una richiesta di informazioni all’estero non ha diritto a partecipare al procedimento di cooperazione tra Stati – in altre parole, il fisco può ottenere informazioni da un altro Stato senza coinvolgere il contribuente in quella fase . Lo scambio spontaneo, invece, avviene quando un’autorità fiscale straniera trasmette di propria iniziativa all’Italia dati che reputa utili (ad esempio, la Germania che invia all’Italia i nominativi di italiani con redditi ivi non tassati, oppure informazioni emerse in un audit estero su transazioni sospette che riguardano residenti italiani). In ambito UE, DAC1 art.9 disciplina anche lo scambio spontaneo sistematico di alcune informazioni (es. ruling preventivi, già potenziato da DAC3).

Riassumendo, oggi l’Italia partecipa a un sistema globale di scambio di informazioni fiscali basato su tre livelli: (a) accordo multilaterale OCSE/CRS (per scambio automatico di conti finanziari e, a breve, cripto-asset), (b) direttive UE DAC (che armonizzano la cooperazione tra i 27 Stati membri su vari fronti, incluso lo scambio automatico di una vasta gamma di informazioni), (c) trattati bilaterali e convenzioni multilaterali per scambi su richiesta o spontanei. Questo sistema integrato garantisce al nostro fisco un accesso senza precedenti ai dati finanziari esteri dei residenti. Come vedremo, però, l’utilizzo di tali dati negli accertamenti pone anche questioni giuridiche rilevanti e apre spazi per la difesa del contribuente.

Obblighi di Monitoraggio Fiscale per i Contribuenti Italiani (Quadro RW e dintorni)

Prima di esaminare come il Fisco utilizzi le informazioni estere, è importante chiarire quali obblighi dichiarativi ha il contribuente italiano in relazione ad attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero. La normativa chiave è il D.L. 167/1990 (convertito in L. 227/1990 e successive modifiche), noto come legge sul “monitoraggio fiscale”, che impone a determinate categorie di contribuenti di dichiarare investimenti e attività estere. Tali informazioni si riportano nel quadro RW della dichiarazione dei redditi.

Chi deve compilare il quadro RW? Sono tenuti al monitoraggio fiscale: le persone fisiche residenti in Italia, gli enti non commerciali residenti (es. trust, fondazioni, comitati) e le società semplici (o equiparate) residenti . Non sono invece obbligate le società di capitali e gli enti commerciali (spa, srl, etc.), in quanto per essi il legislatore presume che le attività estere confluiscano nel bilancio e nelle dichiarazioni tramite altre disposizioni (ad esempio il monitoraggio avviene indirettamente per il tramite dei soci, oppure tramite regole CFC per controllate estere, come si dirà). Dunque, tipicamente, l’obbligo RW riguarda i privati cittadini residenti e le entità “di mero godimento” come trust non commerciali o società semplici familiari.

Cosa va dichiarato in RW? Devono essere indicate tutte le attività estere di natura finanziaria e patrimoniale detenute dal soggetto residente, anche indirettamente o per interposta persona. Ciò include a titolo esemplificativo: conti correnti e depositi bancari esteri, partecipazioni in società estere, obbligazioni e titoli emessi da non residenti, investimenti tramite broker esteri, immobili situati all’estero, metalli preziosi detenuti all’estero, polizze assicurative estere a contenuto finanziario, etc. Dal 2013 è stato abolito il cosiddetto “mini-scudo”: prima infatti vi era una soglia di esenzione ( €10.000) sotto la quale non era obbligatorio dichiarare alcune attività estere; tale soglia è stata eliminata con L. 97/2013 . Oggi quindi anche consistenze modeste vanno dichiarate. Esiste solo un’esenzione per i conti correnti e depositi bancari esteri con giacenza media annuale inferiore a €5.000: questi, se il saldo massimo annuo non supera €15.000, non scontano l’IVAFE e sono esentati da RW (Provv. Agenzia Entrate 2013) – ma al superamento di tali soglie, scatta l’obbligo. In pratica: il “classico” caso è quello di un individuo che aveva un conto in Svizzera o a San Marino non dichiarato; oggi anche poche migliaia di euro su conti esteri devono essere monitorati.

Va evidenziato che l’obbligo RW riguarda sia le attività estere da cui derivano redditi (interessi, dividendi, ecc.) sia quelle meramente patrimoniali (conto infruttifero, immobile, opere d’arte all’estero, crypto-wallet, ecc.), perché il monitoraggio serve anche per l’applicazione di imposte patrimoniali specifiche: l’IVIE (Imposta sul valore degli immobili esteri) e l’IVAFE (Imposta sul valore dei prodotti finanziari esteri). Queste imposte colpiscono rispettivamente gli immobili e le attività finanziarie detenute all’estero da residenti, in misura analoga all’IMU e all’imposta di bollo italiana. L’omessa compilazione del quadro RW quindi comporta spesso non solo sanzioni formali, ma anche il mancato pagamento di IVIE/IVAFE. Ad esempio, se Tizio possiede una casa in Francia non dichiarata, non avrà versato l’IVIE annuale (pari al 0,76% del valore), e ciò sarà contestato in sede di accertamento insieme alle sanzioni.

Come funziona il monitoraggio in caso di interposizione? L’obbligo RW è previsto anche quando il contribuente residente detiene l’attività estera in modo indiretto, ad esempio tramite una società o un trust estero interposti. Se infatti la società o il trust sono considerati schermi fittizi (meri interposti), il patrimonio sottostante va comunque indicato dal contribuente che ne è il reale dominus. Ad esempio, un residente che controlla totalmente una società offshore (senza sostanza economica effettiva) dovrà dichiarare per trasparenza nel proprio RW gli asset esteri posseduti da tale società interposta . Similmente, se un soggetto ha costituito all’estero un trust autodichiarato o revocabile, mantenendone di fatto la disponibilità, quel trust sarà considerato fiscalmente inesistente (interposto) e il disponente dovrà indicare in RW i beni conferiti. Queste situazioni d’interposizione sono complesse e spesso controverse: l’Agenzia tende ad adottare una linea ampia, presupponendo l’interposizione ogniqualvolta il soggetto residente mantenga poteri o benefici sui beni formalmente intestati ad entità estere (società, fondazioni, trust familiari) . Il contribuente può difendersi dimostrando l’effettiva autonomia dell’entità estera (si veda oltre la parte sui trust). In ogni caso, in dubbio, per prudenza molti professionisti consigliano di dichiarare comunque in RW le attività estere possedute indirettamente, onde evitare sanzioni per omessa indicazione.

Sanzioni per omesso monitoraggio: la mancata o incompleta compilazione del quadro RW comporta una sanzione amministrativa pari al 3% al 15% dell’importo non dichiarato (cioè del valore dell’attività estera non monitorata), per ogni anno di violazione . Se l’attività era detenuta in un Paese considerato a fiscalità privilegiata (cosiddetto black list), la sanzione raddoppia al 6%-30% . Come vedremo, dal 2017 il concetto di “Paese black list” ai fini RW è stato formalmente eliminato (estendendo l’obbligo a tutti i Paesi), ma la norma sanzionatoria prevede ancora il raddoppio per attività in Stati non cooperativi: in pratica oggi si applica l’aliquota 6-30% solo per gli Stati che ancora non aderiscono ad accordi di scambio informazioni (pochi casi residui, es. alcune giurisdizioni molto isolate). Invece, per la maggior parte dei Paesi (che cooperano) vale la sanzione base 3-15%. Da notare che questa sanzione RW si cumula con le sanzioni per l’eventuale omessa tassazione dei redditi esteri connessi a quell’attività. Ad esempio, se un contribuente non dichiara un conto in Svizzera sul quale maturano interessi non tassati in Italia, avremo: sanzione RW 3-15% del saldo e anche sanzione per infedele dichiarazione (pari al 90%–180% dell’imposta evasa sugli interessi non dichiarati) .

Disciplina CFC (Controlled Foreign Companies): le società di capitali residenti non compilano il quadro RW – tuttavia, se detengono partecipazioni di controllo in società estere “a bassa tassazione”, scatta la disciplina CFC che impone di dichiarare nel quadro RN (redditi) o RS gli utili della controllata estera come se fossero percepiti per trasparenza. In sintesi, la normativa CFC (oggi agli artt. 167-168 TUIR, post recepimento ATAD) prevede che se un soggetto residente controlla, direttamente o indirettamente, una società estera localizzata in Paesi con tassazione effettiva inferiore al 50% di quella italiana, gli utili di questa società sono tassati immediatamente in capo al controllante italiano, a meno che quest’ultimo provi che la società svolge un’attività economica effettiva (esimente). Questo meccanismo ha due implicazioni rispetto al monitoraggio: (1) il contribuente (se persona fisica) dovrà comunque indicare nel quadro RW la partecipazione estera posseduta, essendo un investimento estero; (2) se la società estera genera utili e ricade tra le CFC, tali utili vanno inclusi nel reddito del socio italiano anno per anno (e dunque dichiarati, altrimenti costituiranno evasione). Ad esempio, un imprenditore italiano che possiede il 100% di una Ltd a Malta con tassazione privilegiata potrebbe vedersi imputare in Italia gli utili di quella società ogni anno, se non ottiene una disapplicazione in base alla sostanza economica. Le informazioni scambiate via CRS possono far emergere queste situazioni: infatti, se esistono conti bancari intestati alla società estera, la banca estera segnalerà come “controlling person” il socio italiano, e l’Agenzia potrà così contestare l’eventuale mancata applicazione della CFC rule . In casi estremi, potrebbe addirittura sostenere che la società estera sia esterovestita, ossia solo fittiziamente localizzata all’estero mentre la sua direzione effettiva è in Italia – con la conseguenza di assoggettarla integralmente a tassazione italiana (si veda oltre la sezione sulle strategie difensive in caso di contestazione di esterovestizione).

Trust esteri: in linea generale, un trust estero opaco (non interamente fisc. trasparente) non ha obbligo di compilare RW e i beneficiari residenti di un trust discrezionale non devono dichiarare pro-quota i beni del trust finché non ne hanno la disponibilità . Tuttavia, la materia è estremamente delicata. L’Agenzia delle Entrate spesso contesta ai disponenti o beneficiari di trust esteri il mancato monitoraggio, assumendo che il trust sia in realtà interposto (quindi i beni sarebbero da considerare come ancora riferibili al disponente) . Specialmente in presenza di trust familiari dove il disponente è anche potenziale beneficiario, o si è riservato poteri sulle nomine dei trustee/guardiani, il Fisco tende a qualificare il trust come fittizio e a imputare redditi e patrimoni direttamente al disponente ai fini fiscali . Di contro, se il trust è genuinamente discrezionale e irrevocabile (trust opaco non interposto), il solo fatto di esserne beneficiario potenziale non genera obblighi RW né tassazione immediata per il beneficiario – i redditi del trust verranno tassati solo al momento di un’eventuale distribuzione al beneficiario . Ad ogni modo, chi è coinvolto in trust esteri deve valutare con attenzione la situazione: se il trust è revocabile o il disponente ha mantenuto controllo sostanziale, occorrerà probabilmente dichiarare in RW i beni (come misura prudenziale) e comunque il trust potrebbe essere ignorato dal Fisco italiano. Se invece il trust è realmente autonomo, il beneficiario residente può non dichiarare nulla fino alle distribuzioni, ma dovrebbe essere pronto a dimostrare l’autonomia del trust in caso di controlli (esibendo l’atto istitutivo, evidenziando i poteri limitati del disponente, ecc.) . Riguardo alle distribuzioni: in base alla prassi e giurisprudenza, le somme distribuite a un beneficiario residente da un trust opaco estero costituiscono reddito di capitale imponibile in Italia per il beneficiario, salvo prova che si tratti di mera restituzione di capitale precedentemente già tassato . Questo significa che, se un trust offshore accumula redditi (non tassati in Italia) e poi li distribuisce, il beneficiario dovrà dichiararli come redditi di capitale esteri nell’anno di percezione. Il mancato rispetto di tali regole espone a sanzioni e, potenzialmente, a controversie complesse anche in sede penale (la Cassazione ha escluso che l’omessa indicazione RW di per sé configuri reato , ma se ci sono imposte evase sopra soglia, può scattare il reato di omessa o infedele dichiarazione – si veda oltre).

In sintesi, il contribuente italiano con asset fuori dai confini deve essere consapevole di doverli dichiarare nel quadro RW annualmente, salvo poche eccezioni. L’inosservanza di questo obbligo non solo comporta sanzioni amministrative consistenti, ma priva anche il contribuente di una delle principali linee difensive in caso di accertamento: poter dimostrare di aver adempiuto spontaneamente. Infatti, un’attività estera non monitorata fa presumere al Fisco un intento evasivo. Vedremo nella sezione difensiva come talvolta si possa invocare la “obiettiva incertezza” normativa per giustificare la mancata dichiarazione (ad esempio, su trust discrezionali in passato vi erano circolari ambigue), ma resta un argomento di difficile successo e da usare con cautela. La raccomandazione generale, quindi, è di adempiere correttamente agli obblighi di monitoraggio fiscale, eventualmente con l’ausilio di professionisti, per evitare di trovarsi in posizioni di svantaggio nella successiva fase di accertamento.

Strumenti di Indagine e Fonti Informative dell’Agenzia delle Entrate

L’Agenzia delle Entrate (spesso in collaborazione con la Guardia di Finanza) dispone oggi di un vero e proprio arsenale informativo per scovare redditi e patrimoni occultati all’estero. Grazie agli accordi illustrati sopra, affluiscono costantemente dati dall’estero; inoltre esistono banche dati nazionali e canali investigativi specifici. Vediamo i principali strumenti a disposizione del Fisco italiano:

  • Archivio dei Rapporti Finanziari (Anagrafe tributaria dei conti): si tratta di una banca dati nazionale, gestita da Banca d’Italia e SOGEI, che raccoglie informazioni su tutti i rapporti finanziari intestati a soggetti in Italia. Banche, Poste, società di gestione, fiduciarie e altri intermediari comunicano periodicamente all’Archivio l’elenco dei rapporti (conti correnti, depositi titoli, cassette sicurezza, carte di credito/prepagate, contratti fiduciari, ecc.) intestati a ciascun cliente, con indicazione di saldi e movimenti aggregati annui . Questo sistema è pienamente operativo dal 2012 ed è stato potenziato nel 2016. Consente all’Agenzia di vedere, per ciascun codice fiscale, quali conti e investimenti esistono in Italia e di effettuare analisi di rischio incrociando le disponibilità finanziarie con i redditi dichiarati. Rileva anche i flussi con l’estero: ad esempio, se un soggetto ha ricevuto bonifici dall’estero su conti italiani (o li ha inviati), tali operazioni risultano nell’Archivio e possono far scattare verifiche . L’accesso a questa Anagrafe avviene ormai in tempo reale: i funzionari autorizzati possono interrogarla per preparare liste selettive di contribuenti da controllare (in base a parametri di anomalia). L’Archivio è anche integrato con i dati CRS e FATCA: infatti, i file annuali ricevuti dall’estero vengono collegati al codice fiscale del contribuente in un sistema di “reportistica integrata” . In altre parole, quando un analista del Fisco esamina la posizione di un contribuente, può visualizzare non solo i conti nazionali ma anche l’elenco dei conti esteri associati a quel codice fiscale (con indicazione del Paese, banca, saldo, interessi, ecc. comunicati via CRS) . Il Fisco ha sviluppato software di data matching (come la piattaforma SERPICO di SOGEI) che incrociano automaticamente i dati finanziari (domestici ed esteri) con le dichiarazioni dei redditi, segnalando scostamenti e posizioni anomale . Ad esempio, se per il sig. Rossi il sistema vede che risultano conti in Svizzera con saldo €500.000 e interessi €5.000, ma nella sua dichiarazione non v’è traccia né di quel patrimonio (RW) né di quegli interessi, la posizione verrà evidenziata come a rischio elevato e potrà originare un’azione di controllo. Questo utilizzo incrociato dei dati massivi è alla base delle cosiddette “lettere di compliance” che l’Agenzia invia per invitare i contribuenti a regolarizzare spontaneamente (vedi oltre). Secondo dati OCSE, l’ammontare di informazioni raccolte globalmente è enorme e in crescita costante: già nel 2019 quasi 100 Paesi si scambiavano dati su circa 84 milioni di conti finanziari ; l’Italia da parte sua riceve dati su centinaia di migliaia di posizioni estere di propri residenti ogni anno.
  • Scambio automatico di informazioni finanziarie (CRS/DAC2): buona parte delle informazioni su conti esteri dei residenti proviene, come visto, dal CRS. L’Agenzia delle Entrate riceve entro settembre di ogni anno i dati relativi all’anno precedente. Tali flussi alimentano la sezione “conti esteri” dell’Anagrafe tributaria, come descritto. È importante notare che lo scambio automatico non copre al momento tutte le tipologie di investimenti: ad esempio, non include la proprietà di immobili esteri (salvo che generino redditi dichiarati all’estero), né le criptovalute (fino all’entrata in vigore del CARF), né informazioni su stipendi o pensioni esteri percepiti da residenti (questi ultimi però spesso vengono scambiati bilateralmente tra Paesi UE in base alla DAC1 o alle convenzioni). Copre invece i conti finanziari in senso lato: conti bancari, depositi, conti titoli, polizze assicurative con valore di riscatto, partecipazioni in fondi d’investimento, ecc., inclusi conti intestati a società, fondazioni o trust con indicazione dei controllanti italiani . Un aspetto chiave del CRS è proprio l’individuazione dei “controlling persons”: se il titolare formale del conto è un’entità (società, trust, fondazione), la banca deve identificare e segnalare come controlling person l’individuo italiano che controlla o beneficia dell’entità . Ad esempio, se un trust domiciliato a Jersey ha un conto bancario, la banca jerseyana comunicherà all’Italia i dati di quel conto indicando come controlling person il disponente e/o i beneficiari italiani del trust . In questo modo, l’Agenzia viene a sapere che es. il Sig. Verdi risulta beneficiario di un trust estero con determinati asset. Come anticipato, il trattamento fiscale dei trust è complesso: se il trust è considerato interposto, il Fisco tende a imputare redditi e patrimoni direttamente al disponente; se è riconosciuto autonomo (opaco), il solo essere beneficiario potenziale potrebbe non generare imposta immediata né obbligo RW, ma l’Agenzia spesso contesta comunque l’omessa dichiarazione sostenendo che il disponente manteneva il controllo di fatto . In pratica, le informazioni CRS relative a trust esteri portano spesso ad accertamenti per: (a) omesso monitoraggio (quadro RW) dei beni conferiti o delle disponibilità del trust, qualora l’Ufficio ritenga che il contribuente andasse considerato titolare effettivo; (b) redditi di capitale non dichiarati se il trust ha erogato utili/rendite a beneficiari italiani non dichiarate; (c) eventuali imposte di donazione/successione nel trasferimento patrimoniale al trust o ai beneficiari (quest’ultimo aspetto esula dall’IRPEF ma viene talora sollevato). Ad esempio, se dai dati CRS risulta che un trust in Jersey ha un conto con 5 milioni di euro e che il beneficiario effettivo è un italiano, l’Agenzia potrebbe inviare un questionario chiedendo se quel trust sia stato dichiarato; se il contribuente risponde che trattasi di trust discrezionale irrevocabile (non indicato in RW perché non controllato), l’Ufficio potrebbe comunque emettere un accertamento presuntivo imputando al disponente i redditi prodotti dal trust (interessi, dividendi) e sanzionando per omessa indicazione RW . La difesa in tali casi consiste nel dimostrare l’autonomia effettiva del trust (con documenti che provino che il disponente non ha più poteri né vantaggi immediati) e nel far valere che, secondo la normativa sul monitoraggio, un beneficiario meramente discrezionale senza poteri di controllo non è obbligato a dichiarare beni del trust . La giurisprudenza di merito in materia è oscillante, mentre l’Amministrazione mantiene un’impostazione restrittiva; sta dunque al difensore inquadrare bene la tipologia di trust e adeguare la strategia (come approfondiremo nella parte giurisprudenziale, la Cassazione ha comunque chiarito che i redditi di trust opaco estero non sono imputabili ai beneficiari fino alla distribuzione ).
  • Scambio di informazioni “su richiesta”: quando il Fisco necessita di dati specifici non ottenuti automaticamente, può attivare una richiesta di informazioni allo Stato estero competente. Questa procedura, prevista sia dalle convenzioni OCSE (art. 26) sia dalla DAC1 e dalla Convenzione MAAT, permette ad esempio di ottenere i movimenti dettagliati di un conto, l’intestazione di un rapporto, documentazione bancaria, ecc. Dal 2020 l’Italia invia centinaia di richieste all’anno e ne riceve altrettante. Il contribuente di norma non viene informato preventivamente della richiesta e non può intervenire presso lo Stato estero (come detto, il diritto al contraddittorio non si estende alla fase di cooperazione istruttoria) . Tuttavia, qualora l’accertamento italiano si basi su dati acquisiti via richiesta, in sede contenziosa il contribuente potrà ovviamente contestare l’interpretazione di tali dati o la loro completezza. Un tema delicato è quello della “foreseeable relevance”: la richiesta deve contenere elementi sufficienti a presumere la rilevanza fiscale delle informazioni. Se la richiesta è eccessivamente esplorativa (es. fishing expedition), lo Stato interpellato può rifiutare di rispondere. In passato, alcune Corti (es. Corte UE in causa Berlioz, 2017) hanno anche affermato che il destinatario di un provvedimento interno emesso per raccogliere informazioni da inviare all’estero ha diritto a un sindacato giurisdizionale sulla legittimità della richiesta (principio recepito in DAC7 per le richieste gruppo). Questi aspetti procedurali sono tecnici ma possono offrire spunti difensivi nel caso in cui le prove contro il contribuente provengano esclusivamente da una cooperazione internazionale magari viziata da irregolarità formali.
  • Scambio spontaneo e “liste da leaks”: un caso particolare di scambio informativo è quando dati di origine non ufficiale (ad es. liste frutto di sottrazione illecita) vengono condivisi attraverso canali di cooperazione. Un esempio eclatante è la Lista Falciani (dati HSBC Ginevra rubati da un dipendente e consegnati alle autorità francesi, poi passati all’Italia nel 2010). In linea di principio, le Convenzioni prevedono che lo Stato estero possa trasmettere spontaneamente informazioni utili all’altro. Nel caso Falciani, la Francia – dopo aver acquisito i dati bancari sottratti – li ha comunicati all’Agenzia italiana in base alla Convenzione bilaterale del 1992. La questione che si è posta è: tali dati, di provenienza illecita (furto), sono utilizzabili come prova in giudizio? La Corte di Cassazione ha più volte risposto di sì: ha stabilito che la provenienza illecita non preclude l’utilizzabilità se l’Amministrazione italiana non ha concorso all’illecito e ha ottenuto i dati tramite canali ufficiali . In particolare, con la sent. n. 8605/2015 (e n. 8606/2015 gemella) la Cassazione ha affermato che il diritto alla prova prevale e che la lista, una volta trasmessa legittimamente dalla Francia, è prova valida . Questo principio è stato ribadito anche per altri leaks (Panama Papers, Paradise Papers, Dubai Papers, ecc.) quando i dati finiscono in mano alle autorità estere e poi sono condivisi con l’Italia in base ad accordi. Dunque, ai fini fiscali anche documenti di origine dubbia possono essere ammessi, salvo il caso in cui sia stato il Fisco italiano stesso a procurarseli illegalmente (non accaduto nei grandi leaks, dove l’Italia ha ricevuto da altri). Dal punto di vista pratico, l’ottenimento di liste da leaks consente all’Agenzia di avviare controlli mirati: tipicamente si parte con questionari o inviti al contraddittorio nei confronti dei soggetti emersi nelle liste, chiedendo spiegazioni. Se il contribuente non fornisce giustificazioni convincenti, scatta l’accertamento basato sui dati esteri. È quanto avvenuto in molti casi HSBC, Credit Suisse (Lista Dubai), UBS (Lista Cooper), Panama Papers ecc. La difesa qui può vertere sia su aspetti formali (controllare che la lista sia stata effettivamente acquisita tramite cooperazione ufficiale, altrimenti potrebbe profilarsi inutilizzabilità) sia soprattutto sul merito: ad esempio, dimostrare che i valori indicati nella lista non corrispondono a redditi evasi ma a capitali leciti già tassati o a disponibilità di terzi.
  • UIF e segnalazioni antiriciclaggio: Un’altra fonte informativa cruciale sono le Segnalazioni di operazioni sospette (SOS) inviate dagli intermediari all’Unità di Informazione Finanziaria (UIF) di Bankitalia ai sensi delle norme antiriciclaggio. Spesso le operazioni sospette riguardano trasferimenti da/verso l’estero (ad esempio prelevamenti di contante seguiti da bonifici verso paradisi fiscali, oppure accrediti dall’estero di fondi non giustificati). La UIF inoltra tali segnalazioni alla Guardia di Finanza e all’Agenzia delle Entrate per gli approfondimenti fiscali. Le informazioni antiriciclaggio, un tempo coperte da segreto, oggi sono accessibili al Fisco grazie alla DAC5/2016 che ha rimosso ostacoli allo scambio inter-istituzionale. Quindi un’operazione sospetta segnalata (es. un bonifico di €200.000 dall’Italia a Hong Kong senza valida causale) può attivare un’indagine finanziaria o un accertamento fiscale, in cui il contribuente dovrà giustificare la provenienza/destinazione dei fondi. Spesso le SOS sono il primo campanello che porta a scoprire capitali esportati o importati illecitamente.
  • Indagini finanziarie ex art. 32 DPR 600/73: Si tratta del potere, attribuito all’Amministrazione finanziaria (e in concreto esercitato dalla GdF o dagli ispettori AE), di ottenere direttamente dagli intermediari informazioni e documentazione su conti e rapporti finanziari intestati a un contribuente. Questo strumento è usato tipicamente in verifiche complesse: l’ufficio, autorizzato dal Direttore Centrale o Regionale, invia richiesta alle banche (anche estere, se hanno filiali in Italia disposte a cooperare) per acquisire estratti conto, contabili, ecc. . Nel contesto internazionale, l’indagine finanziaria può servire a ricostruire i flussi da/verso l’estero sui conti italiani. Ad esempio, se il contribuente ha ricevuto accrediti da un proprio conto estero, attraverso l’indagine sui conti italiani l’Ufficio può risalire a quelle operazioni e poi chiedere i dettagli dello stesso conto estero via cooperazione internazionale. Inoltre, grazie a specifici protocolli, le autorità italiane possono richiedere informazioni anche su conti detenuti presso filiali estere di banche italiane (che volontariamente collaborano) oppure tramite ufficiali di collegamento (ad es. la GdF ha addetti presso alcune Ambasciate con compiti di raccordo investigativo). In sostanza, l’indagine finanziaria interna consente al Fisco di “agganciare” capi di filo che conducono all’estero.
  • Eurofisc e cooperazione fiscale UE mirata: Nell’ambito IVA e frodi carosello, esiste una rete chiamata Eurofisc (Reg. UE 904/2010) per lo scambio rapido di informazioni operative tra Stati membri . Una sezione di Eurofisc è dedicata alle società di comodo transnazionali e può rilevare schemi di esterovestizione o fittizietà di entità estere usate per evadere IVA. Anche se questo è più rilevante per le frodi IVA intracomunitarie, segnaliamo che tramite Eurofisc e controlli congiunti UE sono stati smascherati anche casi di residenze di comodo (es. prestanome in altri Paesi). Inoltre l’Italia partecipa a Joint Audits internazionali insieme ad altre amministrazioni (strumento previsto dalla Convenzione OCSE MAAT): ad esempio, un controllo simultaneo su una società presente in vari Paesi con scambio immediato di rilievi. Queste iniziative mostrano come la cooperazione vada oltre il mero scambio dati, includendo anche azioni coordinate di verifica.
  • Archivio immobiliare estero: L’Italia, tramite accordi bilaterali o scambi UE, ottiene talvolta informazioni su immobili posseduti all’estero da residenti. Ad esempio, con San Marino è attivo uno scambio di dati catastali (Accordo del 2014) che ha permesso di individuare decine di immobili detenuti da italiani nel Titano non dichiarati ai fini IVIE. Anche Spagna e Francia condividono con l’Italia dati su case e terreni posseduti da soggetti italiani nei loro territori . Inoltre la DAC1 allegato IV prevede lo scambio automatico di alcune informazioni su redditi immobiliari. Dunque, chi ha immobili all’estero non pensi di essere invisibile: oltre alle tracce lasciate per i pagamenti (es. bonifici di affitti internazionali), esiste la concreta possibilità che l’Agenzia venga a sapere di tali proprietà, soprattutto se ubicate in Paesi UE o vicini.
  • Registri dei titolari effettivi (UBO): In attuazione delle direttive antiriciclaggio (AMLD4 e 5) molti Paesi, compresa l’Italia, hanno istituito registri centralizzati dei titolari effettivi di società, trust e altre entità. In Italia il registro dei beneficiari (previsto dal D.Lgs. 90/2017) è in fase di completamento. Le autorità fiscali hanno accesso a queste informazioni in base alla citata DAC5 . Ciò significa che l’Agenzia può verificare, ad esempio, se un italiano risulta titolare effettivo di società estere che operano nell’UE. Va detto che una sentenza della CGUE del 2022 ha limitato l’accesso pubblico a tali registri, per ragioni di privacy; tuttavia l’accesso per le autorità rimane garantito . Questi registri UBO sono un ulteriore tassello: ad esempio, se Caio è beneficiario di un trust alle Bahamas che investe in una società lussemburghese, e quest’ultima deve registrare il beneficiario nel registro LUX, l’Agenzia potrebbe venirne a conoscenza in un’indagine incrociata.

Come si vede, il livello di trasparenza fiscale raggiunto è senza precedenti. L’Agenzia delle Entrate combina tra loro diverse fonti (dati CRS, informazioni bancarie interne, segnalazioni, registri) per ricostruire i movimenti transfrontalieri e individuare materie imponibili sottratte. Non a caso, l’OCSE ha stimato che grazie ai programmi di trasparenza e voluntary disclosure, dal 2009 ad oggi i paesi del mondo hanno recuperato oltre 107 miliardi di euro tra tasse, interessi e sanzioni su ricchezze prima occultate . L’Italia stessa, con le due edizioni della collaborazione volontaria (2015 e 2017), ha incassato diversi miliardi. Ma per chi non ha aderito e viene individuato tramite questi canali, si prospetta l’accertamento con applicazione integrale di imposte evase, sanzioni e possibili risvolti penali. Passiamo ora a vedere le tipologie di contestazioni tipiche e come impostare una difesa efficace caso per caso.

Tipologie di Accertamenti Esteri e Contestazioni Fiscali Comuni

In questa sezione analizziamo le situazioni pratiche più frequenti in cui un contribuente si trova destinatario di un accertamento basato su informazioni estere, evidenziando per ognuna le peculiarità e i principali profili di difesa.

1. Conti correnti e investimenti finanziari esteri non dichiarati

Scenario tipico: il contribuente (persona fisica) era titolare di uno o più conti bancari all’estero – ad esempio in Svizzera, Montecarlo, Singapore o San Marino – che non ha mai indicato nel quadro RW né ha dichiarato i redditi generati (interessi, dividendi, capital gain) in Italia. L’Agenzia viene a conoscenza di tali conti tramite CRS (o una lista estera o un’indagine) e avvia l’iter di accertamento. Questo è forse il caso più comune.

Contestazioni fiscali: in simili ipotesi l’Ufficio in genere contesterà: (a) l’omessa indicazione in RW delle attività estere, applicando le relative sanzioni (3-15% annuo, aumentate se Paese non cooperativo); (b) l’omessa dichiarazione dei redditi esteri prodotti da tali attività (es. interessi bancari, dividendi su titoli in deposito, plusvalenze da vendita di titoli), recuperando le imposte evase con sanzione del 90-180% su ciascun anno; (c) in alcuni casi, quando emergono ingenti movimenti o incrementi di capitale sui conti, il Fisco può spingersi a presumere che le somme accreditate siano esse stesse redditi sottratti a tassazione, applicando la presunzione legale di evasione prevista dall’art. 12 co.2 DL 78/2009 per i capitali “non dichiarati detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata”. Questa norma (vigente dal 2009) stabilisce che, salvo prova contraria, le somme detenute all’estero in violazione degli obblighi di monitoraggio si presumono redditi sottratti a imposizione in Italia . In pratica, se su un conto estero erano presenti 500.000 € non dichiarati, l’Agenzia potrebbe sostenere che tale importo costituisca provento di redditi non dichiarati (ad esempio nero aziendale esportato) e tassarlo come reddito dell’anno in cui è stato rilevato, oltre a imporre le sanzioni. Questa presunzione è iuris tantum: il contribuente può vincerla dimostrando che i capitali esteri hanno origine lecita e fiscalmente già tassata o esente (ad esempio, che derivano da redditi di anni prescritti, eredità familiare, risparmi accumulati con redditi già dichiarati, ecc.). La Cassazione ha chiarito che tale presunzione ha natura sostanziale e non può applicarsi retroattivamente ad annualità anteriori alla sua entrata in vigore (1° luglio 2009) . In altri termini, per conti e somme detenute in anni precedenti al 2009 l’Ufficio non può invocare l’automatica equiparazione a redditi evasi, ma dovrà eventualmente ricorrere a presunzioni semplici e provare caso per caso l’evasione . Ad esempio, se in lista Falciani risultava un deposito nel 2007 non dichiarato, non vale la presunzione legale (confermato da Cass. nn. 2662/2018 e 17222/2025 ). Tuttavia, attenzione: i termini di accertamento in presenza di attività estere occultate sono stati estesi (raddoppiati) proprio nel 2009. La legge ha previsto che, se i redditi sottratti si riferiscono a investimenti in Paesi black list, il fisco può notificare avvisi entro un termine raddoppiato (in luogo dei normali 5 anni) . La Cassazione ha ritenuto questa proroga una norma procedurale, quindi applicabile anche a periodi d’imposta antecedenti al 2009 . In pratica, per anni precedenti al 2009 il fisco può ancora accertare oltre il limite ordinario se ha prove di capitali esteri non dichiarati, però senza beneficio della presunzione legale (dovrà supportare la tesi evasiva con presunzioni semplici) . L’aspetto termini lo approfondiremo più avanti. Per ora, tornando al merito: di fronte a un conto estero non dichiarato, il fisco potrà contestare imposte non pagate su ogni reddito generato dal conto e, se il capitale sembra ingiustificato, anche cercare di tassare il patrimonio stesso come reddito (soprattutto se non si è in grado di ricondurlo a redditi di anni ormai decaduti).

Strategie difensive: la difesa in questi casi ruota attorno a due filoni principali: la prova della provenienza delle somme e le eccezioni procedurali/giuridiche sull’operato del Fisco. In particolare:

  • Prova contraria sulle somme depositate: il contribuente dovrebbe preparare un dossier documentale per dimostrare l’origine dei fondi esteri. Se i capitali derivano da redditi che erano stati regolarmente dichiarati (o non imponibili) in passato, occorre esibire le dichiarazioni dei redditi dell’epoca, movimenti bancari di trasferimento dall’Italia, contratti di vendita, atti di successione, donazioni, o qualsiasi evidenza che mostri che quelle somme non sono “nuovi redditi” sfuggiti al fisco. Ad esempio, se i 500.000 € in Svizzera provengono dalla vendita di un immobile ereditato 20 anni fa, lo si dovrà provare con l’atto di vendita e la provenienza ereditaria, sottolineando che eventuali plusvalenze erano esenti o già tassate. Questa attività probatoria è cruciale per vincere la presunzione di evasione di cui sopra. La Cassazione ha ribadito che la presunzione di fruttuosità delle somme estere (ossia che generino redditi imponibili) è iuris tantum, quindi superabile con prova contraria anche se l’origine è illecita (basta provare che erano redditi prodotti all’estero non imponibili) . Dunque qualsiasi elemento che spezzi il nesso “capitale estero = reddito evaso” va portato. Importante: se l’origine è prescritta (molto remota nel tempo), la si evidenzi perché il fisco non può tassare redditi di oltre 5 (o 7) anni fa; questo aiuta a qualificare le somme come patrimonio formatosi magari in epoche non più accertabili.
  • Dimostrare la corretta tassazione all’estero e invocare crediti d’imposta: se i redditi generati all’estero (interessi, dividendi) sono già stati tassati dallo Stato estero (es. la banca svizzera ha applicato la ritenuta alla fonte), il contribuente dovrebbe esibire le certificazioni di tali ritenute estere. La normativa interna (art. 165 TUIR) concede un credito per le imposte estere pagate a titolo definitivo, ma attenzione: il comma 8 di tale articolo esclude il credito d’imposta se il contribuente non ha indicato in dichiarazione i redditi esteri di cui chiede il credito. Ciò significa che, se ci si è “dimenticati” di dichiarare i redditi e si viene scoperti, formalmente non spetterebbe alcun credito per le tasse pagate all’estero su quegli stessi redditi. È una disposizione punitiva anti-evasione. Tuttavia, in sede di accertamento o contenzioso si può provare a sostenere la tesi di un’interpretazione comunitariamente orientata: ad esempio, in caso di “euroritenuta” (la ritenuta UE del 35% che fino al 2015 si applicava sui conti in Svizzera per i clienti che non optavano per lo scambio nominativo), la Corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al rimborso/credito anche se il contribuente aveva aderito tardivamente alla voluntary disclosure . Nella sentenza n. 798/2023, relativa a un contribuente che aveva subito l’euroritenuta in Svizzera e poi aveva regolarizzato con la collaborazione volontaria, la Cassazione ha affermato che – per evitare doppia imposizione – l’art. 14 della Direttiva 2003/48/CE (sui risparmi) prevale sul divieto interno di credito se il contribuente ha spontaneamente denunciato i redditi . In generale, se nel caso concreto vi è un trattato contro le doppie imposizioni che garantisce un credito per imposte estere pagate, si può cercare di farlo valere richiamando il principio di prevalenza del diritto convenzionale (art. 169 TUIR e art. 75 DPR 600/73 fanno salvi gli accordi internazionali più favorevoli) . Ad ogni modo, anche se l’ufficio spesso nega il credito d’imposta in fase accertativa, fornire le prove di aver pagato imposte all’estero può almeno essere utile in sede di trattativa per ridurre la pretesa sanzionatoria (dimostrare la assenza di volontà fraudolenta, visto che si è comunque assolto un carico fiscale altrove). Nei casi di voluntary disclosure, per esempio, l’Agenzia aveva ritenuto dichiarati i redditi oggetto di integrazione ai fini del credito d’imposta estero (circ. 9/E/2015) . In sede contenziosa, certi giudici di merito hanno anche annullato sanzioni invocando l’assenza di dolo quando il contribuente credeva in buona fede di non dover dichiarare grazie a quel prelievo alla fonte estero (cosiddetta obiettiva incertezza, v. CTP Milano n.2209/2019) .
  • Verificare i termini di accertamento: un punto di difesa tecnico è controllare se l’avviso è stato emesso entro i termini di decadenza previsti. Come accennato, per i redditi 2015 e precedenti era in vigore la regola del raddoppio dei termini se attività in Paesi black list non dichiarate (il DL 78/09 art.12 co.2-bis). La Cassazione (sent. 18894/2021) ha stabilito che tale norma, pur sostanziale, è applicabile retroattivamente in quanto ritenuta procedurale – posizione criticata in dottrina . Dopo il 2017, venendo meno la distinzione black list/white list ai fini RW , di fatto non dovrebbe più operare il raddoppio automatico per il solo fatto della presenza estera (tutti i Paesi cooperano, salvo eccezioni). Restano però i raddoppi legati a reati tributari: se l’evasione configura reato (imposta evasa > €50.000 annui per infedele o omessa dichiarazione), i termini accertativi raddoppiano purché la denuncia penale sia presentata entro quelli ordinari. Occorre quindi controllare la situazione: se l’Agenzia notifica un accertamento molto indietro nel tempo, verificare quale norma di proroga è invocata e se ne sussistevano i presupposti (ad es., la denuncia deve essere antecedente alla scadenza del termine ordinario). Diversi accertamenti esteri sono stati annullati dalle Corti perché l’Ufficio aveva applicato il raddoppio senza che il contribuente fosse in black list o senza il rispetto formale dell’obbligo di denuncia. Inoltre, come detto, per annualità pre-2009 il raddoppio non permette comunque di usare la presunzione legale di evasione – l’atto deve essere motivato con altri elementi probatori .
  • Vizi formali e diritti del contribuente: conviene sempre scrutinare l’iter seguito dall’ufficio. Ad esempio, se l’accertamento scaturisce da un PVC (Processo Verbale di Constatazione) della Guardia di Finanza – magari redatto dopo accessi o verifiche fiscali – allora l’ufficio, prima di emettere l’avviso, doveva rispettare il termine di 60 giorni dalla consegna del PVC al contribuente (art. 12 co.7 L.212/2000, Statuto del contribuente), a meno di motivata urgenza. Se ha notificato l’atto prima dei 60 giorni senza urgenza, l’accertamento è nullo . Nel caso di dati esteri, spesso non vi è un PVC vero e proprio ma un semplice invito a fornire informazioni o una lettera: in tali casi, la normativa non impone un contraddittorio obbligatorio (salvo per tributi armonizzati come l’IVA) . Tuttavia, qualora l’Agenzia invii un invito al contraddittorio o una convocazione volontaria, e il contribuente fornisca spiegazioni, l’ufficio dovrebbe tenere conto di tali risposte nella motivazione dell’atto. Se invece l’accertamento arriva senza alcun preavviso (possibile per l’IRPEF, dato che la Cass. SS.UU. 24823/2015 ha detto che il contraddittorio preventivo non è obbligatorio per accertamenti “a tavolino” in materia di imposte dirette), la difesa potrà far leva solo in sede di ricorso. In generale, la motivazione dell’avviso di accertamento va esaminata attentamente: deve indicare la provenienza dei dati (es. “in base a comunicazione ex art. 26 Convenzione Italia-Svizzera” o “da scambio automatico CRS”), l’anno d’imposta contestato, e le ragioni giuridiche (imposte evase, sanzioni). Se manca un elemento essenziale o se l’atto risulta generico (basato su mere congetture senza ricostruire analiticamente i flussi), si può eccepirne la nullità per difetto di motivazione . Ad esempio, la CTR Emilia in un caso HSBC annullò perché l’ufficio si era limitato a invertire l’onere senza fare uno sforzo ricostruttivo . La Cassazione poi ha cassato quella decisione, ma indicando che in assenza della presunzione doveva valutarsi la sufficienza delle prove semplici fornite . Ciò insegna che, se il fisco si appoggia solo sulla presunzione legale e questa non è applicabile (anni pre-2009) o è stata comunque confutata, l’atto rischia di cadere per mancanza di prova e carenza motivazionale.
  • Aspetti penali: se gli importi non dichiarati sono elevati, è probabile l’avvio di un procedimento penale per reato tributario. Per la dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) la soglia di punibilità è €50.000 di imposta evasa per periodo d’imposta. Nel caso di conti esteri, c’era una soglia aggiuntiva di €2 milioni di asset non dichiarati, ma questa è stata abolita nel 2015 . Quindi oggi vale solo la soglia d’imposta evasa. Se, ad esempio, in 3 anni un contribuente ha evaso €200.000 di imposte su redditi esteri, avremo più annualità penalmente rilevanti. Anche l’omessa dichiarazione (art. 5) potrebbe configurarsi se il contribuente non ha proprio presentato la dichiarazione dei redditi pur avendo redditi esteri oltre soglia (€50.000 imposta). L’omessa compilazione del quadro RW in sé non è reato – lo ha confermato la Cassazione penale – ma ciò non esclude il riciclaggio o l’autoriciclaggio se i fondi derivano da reati presupposto. In sede difensiva, un bonus per il contribuente è offerto dall’art. 13-bis D.Lgs. 74/2000: se paga integralmente imposte, sanzioni e interessi dovuti per i redditi esteri evasi, può ottenere l’esclusione della punibilità per i reati di omessa o infedele dichiarazione (ciò deve avvenire prima che intervenga la formale conoscenza di accessi o verifiche o entro termini processuali, a seconda dei casi). Dunque, una strategia di difesa (soprattutto quando le prove dell’evasione sono schiaccianti) è valutare il “ravvedimento operoso” integrale tardivo: versare tutto il dovuto, magari ottenendo sanzioni ridotte in conciliazione, per poi dimostrare in sede penale l’intervenuto pagamento integrale e beneficiare della causa di non punibilità. Questa opzione va ponderata caso per caso, ma spesso, se l’importo evaso è elevato e incontrovertibile, pagare ed evitare il penale può essere la scelta più saggia. Lo stesso iter di adesione o acquiescenza in sede tributaria (si veda più avanti) può aiutare in tal senso.

In conclusione, i conti esteri non dichiarati rappresentano la battaglia principale sul fronte della cooperazione fiscale: il contribuente che si vede recapitare un accertamento deve immediatamente raccogliere tutte le evidenze a suo favore (origine dei fondi, eventuali tasse già pagate, errori procedurali dell’Agenzia) e costruire una difesa solida. Se emergono margini, si può puntare a far annullare l’atto per vizi o difetto di prova; diversamente, si cercherà quantomeno di transigere riducendo sanzioni ed evitando strascichi penali.

2. Residenza Fiscale fittizia all’estero (esterovestizione persone fisiche)

Scenario tipico: un contribuente italiano trasferisce la residenza in un Paese estero a fiscalità più leggera (es. Svizzera, Montecarlo, Dubai, Malta, UK con regime resident non-dom, ecc.), ma l’Agenzia delle Entrate ritiene che in realtà egli abbia mantenuto il proprio centro di interessi in Italia, contestando quindi la residenza fiscale in Italia per le annualità in questione. Questa contestazione (detta di esterovestizione della persona fisica) comporta che il soggetto venga tassato in Italia su tutti i redditi ovunque prodotti, nonostante l’iscrizione all’AIRE e la formale residenza estera. I dati esteri scambiati (es. transazioni finanziarie, acquisti di immobili, utilizzo di carte di credito estere sul territorio italiano, ecc.) possono dare segnali di una presenza sostanziale in Italia.

Profilo normativo: ai sensi dell’art. 2 del TUIR, un soggetto è considerato fiscalmente residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta (≥183 giorni), è iscritto nelle anagrafi comunali oppure ha in Italia domicilio o residenza ai sensi del codice civile (domicilio = sede principale degli affari e interessi, anche morali e familiari; residenza = dimora abituale). Inoltre, il comma 2-bis (introdotto nel 2010) prevede una presunzione legale relativa: i cittadini italiani che trasferiscono la residenza anagrafica in Paesi black list (paradisi fiscali individuati con decreto) si presumono residenti in Italia salvo prova contraria . Questa presunzione serve a invertire l’onere della prova a carico del contribuente nei casi di trasferimenti verso Stati a fiscalità privilegiata. La Cassazione a Sezioni Unite con la storica sent. n. 6687/2018 ha confermato la validità di tale criterio: per i trasferimenti verso paradisi fiscali, è il contribuente che deve dimostrare l’effettività del trasferimento e dei legami col nuovo Stato . Anche fuori dai black list, comunque, l’Amministrazione può contestare la residenza di fatto in Italia se riesce a provare che qui erano gli interessi vitali.

Contestazione fiscale: se Tizio si è iscritto all’AIRE dichiarando di risiedere a Dubai ma l’Agenzia prova che la famiglia di Tizio vive in Italia, che egli ha qui disponibilità di un’abitazione, che continua a gestire affari in Italia (magari tramite prestanome) e soggiorna gran parte dell’anno qui, allora Tizio verrà considerato residente in Italia. Conseguenza: dovrà dichiarare in Italia tutti i redditi ovunque prodotti (worldwide taxation). Ciò comporta accertamenti IRPEF su redditi esteri non dichiarati negli anni considerati e relative sanzioni (oltre a obblighi RW se aveva attività estere non dichiarate in quanto erroneamente ritenutosi non residente). In più, se Tizio aveva usufruito di un regime estero di favore (es. nessuna imposta a Dubai), l’Italia richiederà la tassazione piena, generando spesso un debito enorme. Esempio tipico: sportivi, manager o imprenditori che formalmente risiedono a Montecarlo ma di fatto operano dall’Italia.

Prove utilizzate dal fisco: l’Agenzia può attingere a varie fonti: ingressi e uscite dal territorio (dati della Polizia di Frontiera, se acquisiti), utilizzo di carte di credito estere sul suolo italiano, utenze telefoniche o domestiche, tracciamento social media, testimonianze, dati finanziari (es. movimenti di conto estero che pagano spese in Italia), ecc. Con la cooperazione internazionale, arrivano anche dati patrimoniali: ad esempio il CRS continuerà a comunicare all’Italia eventuali conti esteri intestati a Tizio, perché se Tizio ha il codice fiscale italiano e magari per quell’anno risulta ancora residente per il Paese estero, potrebbero arrivare comunque segnalazioni. Oppure, scambi spontanei: la Germania ad esempio anni fa fornì all’Italia liste di contribuenti AIRE con residenza a Montecarlo che però avevano interessi economici in DE o IT. Non di rado, i conti bancari esteri “montecarlesi” rivelano bonifici ricorrenti verso familiari o società in Italia, suggerendo un legame economico.

Difesa del contribuente: per difendersi dall’accusa di finta residenza estera, il contribuente deve fornire elementi tangibili della sua effettiva vita all’estero: contratti di affitto o acquisto casa nel nuovo Paese, bollette, iscrizioni a club/locali, ricevute di spese quotidiane, certificati di lavoro, testimonianze locali, iscrizione dei figli a scuole estere, etc. L’obiettivo è dimostrare che il centro degli interessi familiari e sociali era all’estero e che l’Italia veniva solo occasionalmente frequentata (vacanze o visite brevi). Se applicabile la presunzione del comma 2-bis (Paese black list), questa prova deve essere solida perché l’onere è sul contribuente. Spesso ci si avvale di documentazione del Paese estero: ad esempio, un certificato di residenza fiscale rilasciato dall’autorità estera, il pagamento di imposte estere come residente, etc. Tuttavia, la giurisprudenza italiana tende a dare più peso agli elementi di fatto che ai riconoscimenti formali: essere registrati come residenti a Monaco non basta, se poi risulta che la vita è rimasta in Italia. Un punto importante è il tempo di permanenza fisica: se si riesce a dimostrare (ad esempio tramite timbri passaporto o biglietti) che si è stati fuori dall’Italia oltre 183 giorni, è un indizio a favore (anche se non decisivo se per esempio la famiglia è rimasta in Italia). In controversie del genere, ogni dettaglio conta: dalla iscrizione a club sportivi, all’uso di carte fedeltà supermercati, all’eventuale possesso di cani/gatti (in passato fece scalpore un caso in cui la presenza del cane in Italia fu indizio di residenza del proprietario!).

Aspetti normativi da sfruttare: rileviamo che l’art. 2 TUIR considera residente chi ha domicilio in Italia. Il domicilio è concetto ampio: se una persona ha qui i propri affari economici, l’Agenzia potrebbe sostenere che, anche stando spesso all’estero, aveva mantenuto il centro degli interessi in Italia (es. amministrava società italiane da remoto). Su ciò incide anche la presenza di cariche sociali: se Tizio risulta amministratore di una srl italiana, è un elemento forte di collegamento. La difesa può consistere nel dimostrare che quell’incarico era nominale e non comportava presenza attiva (ma non è semplice). Altro aspetto: se l’Italia ha convenzioni contro doppie imposizioni col Paese estero, c’è una tie-break rule per i casi di doppia residenza. Ad esempio con la Svizzera, se uno risulta residente per entrambi, conta dove ha l’abitazione permanente, e se in entrambi, allora i legami personali, e così via (criteri del Modello OCSE). Un contribuente può provare a utilizzare tali criteri convenzionali a suo favore. Ad esempio: “Ero residente AIRE a Dubai e anche lì mi consideravano residente fiscale; secondo la convenzione Italia-UAE, se ho abitazione fissa solo a Dubai, dovrei essere considerato ivi residente”. Però attenzione, perché se l’Italia non riconosce affatto la residenza estera, tende a non attivare nemmeno la tie-break rule (la applica quando c’è effettiva doppia residenza contestata, non quando nega a monte la residenza estera).

Conseguenze e difese complementari: se la residenza fittizia viene accertata, gli effetti fiscali sono pesanti. La difesa può comunque argomentare su singole voci di reddito: ad esempio, se il soggetto ha pagato imposte su certi redditi all’estero, rivendicare il credito per evitare doppia imposizione. Oppure dimostrare che alcuni redditi percepiti all’estero erano esenti o non imponibili in Italia per convenzione (es. pensioni pubbliche, redditi immobiliari tassati solo in loco). Questo per ridurre almeno il quantum dovuto.

In definitiva, i casi di esterovestizione di persone fisiche sono tra i più complessi e si giocano sul piano fattuale: il contribuente deve prepararsi con un dossier dettagliato sulla propria vita estera, anticipando le possibili obiezioni del fisco. Se la situazione è borderline, a volte può essere opportuno cercare un accordo (accertamento con adesione) limitando i danni e magari mantenendo la possibilità di rientrare in Italia con un nuovo status fiscale agevolato (nota: dal 2017 esiste in Italia un regime per neo-residenti ricchi, con imposta sostitutiva €100k – potrebbe essere un’opzione futura per chi rientra evitando guai). In giudizio, comunque, la giurisprudenza recente segue un orientamento severo: in dubio, se molti interessi rimangono in Italia, prevale la residenza in Italia. La Cass. SS.UU. 2018 n. 6687 ha tracciato la linea: chi va in un paradiso fiscale deve portare prove convincenti per vincere la presunzione . Questa pronuncia è una “reductio ad unum” degli orientamenti, e va tenuta presente.

3. Società estere controllate da soggetti italiani (esterovestizione societaria e CFC)

Scenario tipico: un imprenditore o professionista italiano costituisce una società all’estero (in Svizzera, a Malta, in Lussemburgo, a Dubai, ecc.), spesso a tassazione molto bassa, tramite cui far transitare parte dei redditi, con l’obiettivo di abbattere il carico fiscale complessivo. Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate ritiene che quella società sia in realtà amministrata dall’Italia e priva di reale autonomia economica: in altri termini, la considera una mera emanazione del soggetto italiano. Si profilano qui due tipi di contestazione possibili, non mutuamente esclusive: l’esterovestizione della società (ovvero la società estera viene considerata fiscalmente residente in Italia) oppure l’applicazione della disciplina CFC (tassazione per trasparenza degli utili al socio italiano).

Esterovestizione societaria: secondo l’art. 73 TUIR, una società estera può essere considerata fiscalmente residente in Italia se ha sede legale o sede dell’amministrazione o oggetto principale in Italia. Molte società costituite in Paesi a fiscalità privilegiata di fatto sono amministrate dal socio italiano dal proprio ufficio in Italia: ciò configura la sede di direzione effettiva in Italia, quindi la società, benché formalmente estera, è trattata come residente ai fini fiscali italiani. La conseguenza è che tutti i redditi della società (ovunque prodotti) vengono assoggettati a tassazione in Italia (IRES/Irap) e le operazioni infragruppo tra questa e società italiane vengono riesaminate (spesso disconoscendo costi fatturati all’estera per spostare utili). Inoltre scattano sanzioni per omessa dichiarazione della società, ecc. Spesso l’accertamento sull’esterovestizione societaria si accompagna a recuperi a carico del socio persona fisica (qualificazione di distribuzioni occulte di utili, ecc.). Da notare che per alcune situazioni, il legislatore ha introdotto presunzioni legali: ad esempio, se una società ha sede in un Paese black list e controllata da soggetti italiani, scatta la presunzione di residenza italiana (salvo prova contraria) simile a quella per persone fisiche. Questa era la vecchia disciplina dell’art. 73 co.5-bis TUIR, poi attenuata dal 2014 limitandola a casi di partecipazioni di controllo in Paesi non cooperativi.

CFC (Controlled Foreign Company): come accennato, la normativa CFC attuale (post D.Lgs. 142/2018) considera “CFC” una società estera (anche non paradisiaca in senso stretto) se: (i) è controllata da soggetti italiani; (ii) ha un livello di tassazione effettiva inferiore al 50% di quello teorico italiano; (iii) oltre un terzo dei suoi redditi sono “passivi” (interessi, canoni, dividendi, servizi infragruppo) oppure non soddisfa il test di effettiva attività economica. In tal caso, gli utili della società estera sono imputati pro quota ai soci italiani e tassati come reddito di questi ultimi, indipendentemente da distribuzioni. La CFC rule può essere disapplicata tramite interpello se si dimostra che la società svolge un’attività economica genuina nel mercato locale.

Contestazioni fiscali comuni: l’Agenzia, grazie alle informazioni raccolte (CRS, documenti contabili, audit internazionali), può contestare che l’intera struttura estera è artificiosa. Ad esempio, Caio (residente in Italia) ha una Ltd a Malta che fattura servizi di consulenza ai clienti esteri ma in realtà Caio svolge il lavoro dall’Italia: l’Agenzia può sostenere che la Ltd è residente in Italia (perché amministrata da Caio qui) e/o che comunque Caio avrebbe dovuto applicare la CFC (Malta tassa al 5% effettivo). Si procederà quindi a tassare in Italia gli utili societari non dichiarati, con sanzioni. Talora si contestano anche i trasferimenti di utili come redditi in capo al socio: ad esempio, prelevamenti dai conti esteri della società usati dal socio vengono qualificati come dividendi occulti o redditi diversi tassabili in capo al socio. Se la società estera ha emesso fatture a società italiane correlate per spostare utili, si rettificano i costi in capo alla società italiana (transfer pricing domestico) e si ipotizza che la società estera funzioni come schermo per accumulare utili non tassati.

Difese e strategie: in questi casi, la linea difensiva è articolata:

  • Dimostrare la sostanza estera: se si vuole confutare l’esterovestizione, bisogna provare che la società estera è realmente gestita all’estero. Ciò significa esibire elementi quali: uffici e personale in loco, amministratori indipendenti residenti lì che prendono decisioni, verbali di CdA tenuti all’estero, contratti eseguiti all’estero, iscrizione a camere di commercio locali, ecc. Bisogna cioè dipingere la società come autonoma, non come una “scatola” amministrata da remoto. Se ciò non è realistico (molte società di comodo non hanno nulla di questo), la difesa sull’esterovestizione è debole. A quel punto si può puntare su aspetti procedurali (ad es. contestare la validità della notifica atti esteri, oppure eccepire la doppia imposizione internazionale se il Paese estero intanto ha tassato quegli utili – rivendicando l’applicazione delle tutele convenzionali).
  • Interpello disapplicativo CFC: se la società ha un’attività reale ma rientra nei parametri di bassa tassazione, sarebbe stato opportuno fare prima un interpello internazionale all’Agenzia per chiedere di non applicare la CFC. In sede di verifica, la mancanza di interpello complica le cose, ma nulla vieta in contenzioso di provare comunque che la società aveva substance: ad esempio, presentare bilanci, contratti con terzi, piani aziendali, per dimostrare che non era una mera cash box passiva. Se il giudice riconosce che c’era sostanza economica, potrebbe escludere l’applicazione della CFC. Tuttavia la giurisprudenza in materia è scarsa post-riforma. Vale la pena segnalare che, per alcune giurisdizioni (es. Svizzera, holding lussemburghesi), prima del 2015 era obbligatorio l’interpello per evitare la CFC; molti non lo fecero e successivamente patteggiarono in adesione.
  • Contestare la duplicazione imposizione: qualora la società estera abbia già pagato imposte all’estero e/o distribuito dividendi tassati, va evidenziato per evitare che l’Italia pretenda doppio carico. Ad esempio: la società di Caio a Malta ha pagato 5% su utili; Caio nel frattempo ha pagato sul dividendo percepito (se l’ha fatto) il 26% in Italia; se ora l’Italia tassa quell’utile come se la società fosse residente, rischia di tassarlo di nuovo al 24% IRES. Idealmente, andrebbe chiesto il credito per imposte pagate all’estero o in subordine la detrazione di quanto già scontato come dividendo (evitando duplicazioni). Questo è più un argomento equitativo o da composizione in adesione, perché formalmente l’Ufficio tende a non riconoscere spontaneamente tali offset (specie se considera la società estera “nulla” fiscalmente).
  • Penale tributario: la creazione di società fittizie estere e l’occultamento di utili può integrare reati di dichiarazione fraudolenta (se si usano fatture false o altri artifici) o di infedele dichiarazione se si superano le soglie. Anche autoriciclaggio può profilarsi se si reimpiegano in Italia utili non dichiarati tramite società estere. La difesa dovrebbe tenere presente anche questo fronte: una strategia potrebbe essere quella di definire il profilo fiscale con adesione (pagando il dovuto con sanzioni ridotte) e poi usare l’avvenuto pagamento integrale per escludere punibilità (art. 13-bis, se applicabile). In caso di contestazioni penali più gravi (frode), la collaborazione attiva e la regolarizzazione possono comunque mitigare.
  • Ruling internazionali: come pianificazione ex ante, citiamo che esiste in Italia l’istituto dell’interpello sui nuovi investimenti (art. 2 DL 147/2015) che consente a chi trasferisce attività in Italia di ottenere dall’Agenzia un parere su trattamenti fiscali, incluse questioni di residenza o stabili organizzazioni. Ad esempio, un imprenditore che vuole mantenere una società estera ma vivere in Italia potrebbe chiedere un ruling per evitare incertezze. Ovviamente, è uno strumento da azionare prima del contenzioso.

In conclusione, sul terreno delle società estere degli italiani la difesa deve giocare su due piani: fattuale (provare l’effettività o comunque smontare alcune pretese) e giuridico (far valere convenzioni, limiti normativi, eventuali vizi). Purtroppo, molte volte la realtà è che la società era uno schermo e l’evasione è palese: in tali casi occorre valutare un approccio transattivo riducendo il carico sanzionatorio e proteggendo il contribuente sul penale. Diversamente, se la società aveva sostanza, non bisogna aver timore di far causa e portare anche testimonianze dall’estero, per far riconoscere la genuinità della struttura (ci sono esempi di vittorie, specie per imprese con attività produttive genuine all’estero accusate ingiustamente di esterovestizione).

4. Trust, fondazioni e strutture fiduciarie estere

Scenario tipico: un contribuente italiano ha costituito un trust in un Paese estero (es. Jersey, Guernsey, Bahamas) conferendovi parte del proprio patrimonio, oppure è beneficiario di un trust estero istituito da familiari. L’Agenzia riceve informazioni su tale trust tramite scambio (come visto: conti bancari del trust, partecipazioni detenute, ecc.) e avvia un controllo presumendo che il trust sia interposto o comunque contestando obblighi dichiarativi e impositive al disponente/beneficiario italiani.

Contestazioni fiscali: i trust possono dar luogo a varie contestazioni: (a) omessa indicazione RW dei beni del trust da parte del disponente/beneficiario, se il Fisco li considera soggetti all’obbligo; (b) imputazione diretta dei redditi del trust al disponente, trattandoli come se il trust fosse fiscalmente trasparente per interposizione; (c) tassazione delle distribuzioni ai beneficiari come redditi di capitale non dichiarati; (d) imposta sulle successioni/donazioni per il trasferimento di ricchezza nel trust o dal trust ai beneficiari, qualora non assolte. Questi temi si intrecciano con la qualifica del trust: se il trust è “opaco” (i redditi accumulati non sono imputati ai beneficiari sino a distribuzione) oppure “trasparente” (i redditi sono tassati in capo ai beneficiari anno per anno per finzione fiscale, come avviene per certi trust interni con beneficiari identificati).

Nel contesto estero, l’Agenzia spesso assume che i trust familiari offshore siano in realtà interposti. Così facendo, tratta i redditi del trust come se fossero redditi del disponente stesso e considera i beni del trust come disponibilità del disponente. Ad esempio, se un trust alle Isole Cayman generava annualmente interessi e plusvalenze non dichiarate, l’Ufficio li recupererà a tassazione in capo al disponente italiano (o addirittura, in casi di trust molto palesi, li contesterà come redditi non dichiarati anche in anni chiusi invocando la presunzione sui capitali esteri). Allo stesso tempo, comminerà le sanzioni RW per non aver indicato quei beni. Se invece il trust è genuino e ha fatto ad esempio una distribuzione al beneficiario italiano, il fisco certamente pretenderà la tassazione di quella somma come reddito di capitale (aliquota 26% se riferibile a redditi di investimento del trust) oppure come reddito diverso, a seconda della natura, con relative sanzioni per omessa dichiarazione.

Difese e strategie: il difensore deve prima di tutto classificare esattamente il trust e la sua fiscalità per individuare la linea:

  • Se il trust era interposto: in effetti l’unica strada è convincere che non lo era, se possibile. Ciò passa dall’esibire l’atto istitutivo, evidenziare la presenza di un trustee indipendente, l’irrevocabilità, l’assenza di poteri di controllo del disponente, eventuali decisioni del trustee contrarie agli interessi del disponente (a riprova dell’autonomia), ecc. Se ci sono pronunce di merito favorevoli (alcune C.T. hanno riconosciuto che i trust discrezionali non obbligano a RW i beneficiari), citarle. Va creato il quadro di un trust “opaco discrezionale” autentico. Se questa tesi passa, ne discende che: il disponente non doveva dichiarare nulla in RW (quindi annullamento sanzioni monitoraggio), i redditi nel trust non dovevano essere tassati in Italia fino a distribuzione (quindi annullamento recuperi su redditi accumulati), e solo le distribuzioni eventualmente imponibili vanno tassate (il che magari era già stato fatto se il beneficiario ha dichiarato – ma spesso non l’ha fatto per ignoranza, dunque in tal caso si potrebbe proporre di sanare solo quell’aspetto). La Cassazione n. 19410/2019 ha proprio stabilito che i redditi di un trust opaco estero non vanno imputati ai beneficiari sino a distribuzione, e che le somme distribuite vanno tassate come redditi di capitale salvo prova contraria (restituzione di capitale) . Questo precedente di legittimità è un pilastro difensivo importante: dimostra che la tesi dell’Agenzia di tassare direttamente i beneficiari in assenza di distribuzione è errata. Se il fisco ignorasse tale principio (a volte succede), lo si farà valere in ricorso.
  • Se il trust era effettivamente fittizio (es. disponente con potere di revoca e beneficiario di fatto di ogni utilità): qui la battaglia è in salita. Forse conviene cercare di chiudere con adesione limitando il perimetro temporale (l’interposizione potrebbe essere difficile da provare per anni lontani). Oppure si può invocare l’obiettiva incertezza normativa: in passato varie circolari della stessa Agenzia (es. circ. 61/2010) avevano escluso obblighi dichiarativi per beneficiari di trust discrezionali, facendo nascere confusione. Alcune commissioni tributarie hanno accolto il difetto di colpevolezza in contribuenti che non avevano dichiarato trust esteri facendo affidamento su interpretazioni poi cambiate . Ad esempio, la CTP Milano n. 2209/2019 citata ha riconosciuto la non punibilità (ai fini sanzionatori) di un contribuente che, in buona fede, non aveva dichiarato un trust estero confidando in indicazioni ufficiali dell’epoca. Questo può servire per chiedere l’annullamento quantomeno delle sanzioni amministrative, anche se l’imposta evasa va comunque versata.
  • Aspetto donativo/patrimoniale: se l’Ufficio dovesse eccepire anche imposte di donazione o successione (per i beni trasferiti al trust), la difesa potrà sostenere che per i trust esteri manca ancora in Italia una norma chiara sulla tassazione all’atto di dotazione (questione dibattuta, c’è un orientamento Cassazione 2022 che tassa solo all’uscita ai beneficiari). Si potrebbe quindi sospendere in attesa di giudizi di legittimità o transare separatamente. Comunque è un profilo meno immediato (Agenzia lo tira fuori più in sede di registro/volturazione che in accertamenti redditi).

In generale, nei confronti dei trust l’Agenzia mantiene un approccio prudenziale: spesso preferisce contestare tutto il contestabile, lasciando poi al contribuente l’onere di dimostrare la buona fede. Il difensore dovrà perciò utilizzare ogni mezzo per far emergere se il trust era genuino (anche cercando pronunce di altri casi simili). Nota bene: Nel 2021 la norma interna sui beneficiari di trust è cambiata (ora i beneficiari individuati di trust trasparenti sono tassati per trasparenza): ciò però non tocca i trust opachi. Se il nostro caso riguarda anni precedenti, si applicano le vecchie regole. Ma la complessità è alta: è consigliabile, quando c’è un trust estero di mezzo, avvalersi di consulenti esperti in trust per affiancare la difesa tributaria.

5. Criptovalute e nuove attività digitali estere

Scenario tipico: un contribuente italiano detiene criptovalute (Bitcoin, Ethereum, etc.) su exchange esteri oppure su wallet personali, e non le ha dichiarate in RW né ha dichiarato eventuali redditi (plusvalenze) derivanti da esse. Fino a poco tempo fa, le criptovalute sfuggivano alla maggior parte delle forme di scambio automatico di informazioni: nessun Paese comunicava all’Italia i wallet in Bitcoin dei contribuenti. Tuttavia, il contribuente potrebbe comunque essere individuato tramite altri canali (es. indagini finanziarie se ha convertito crypto in fiat e poi trasferito su conti, o se il suo nome compare nei leaks di exchange). Inoltre, con l’introduzione di DAC8/CARF si prospetta a breve lo scambio strutturato di queste informazioni.

Contestazioni fiscali: la Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) ha chiarito il trattamento fiscale delle cripto-attività, qualificandole come attività finanziarie estere ai fini RW e introducendo un regime di tassazione (26% sulle plusvalenze annue > €2.000, possibilità di rivalutare il costo, ecc.). Un contribuente che non abbia dichiarato nulla rischia quindi: (a) sanzioni RW (3-15% del valore al 31/12 di ogni anno, o 6-30% se wallet su exchange in Paesi non cooperativi) per omessa dichiarazione di attività estera; (b) tassazione delle eventuali plusvalenze realizzate su conversione crypto/fiat non dichiarate (con sanzione 90-180% su imposta evasa). Fino al 2022 c’era molta incertezza se le crypto fossero soggette a RW: l’Agenzia le assimilava a valute estere, molti contribuenti hanno interpretato diversamente. La L.197/22 ha tolto dubbi, ma per il passato la questione rimane dibattuta – ciò potrebbe dare appigli di difesa per obiettiva incertezza almeno sulle sanzioni RW pre-2023.

Novità cooperative: come detto, la Direttiva DAC8 prevede che dal 2026 gli exchange e provider comunicheranno alle autorità i dati dei loro clienti (saldo di criptovalute detenute, generalità, transazioni) . Tali dati saranno scambiati tra Paesi: quindi l’Italia inizierà a ricevere, ad esempio, informazioni da Binance, Coinbase, Kraken, ecc. relative a clienti residenti italiani. Anche alcuni Paesi extra-UE hanno aderito al framework OCSE CARF, con primi scambi attesi entro 2027 . Dunque, chi oggi pensa di poter nascondere fortune in crypto dovrà ricredersi: la finestra temporale si sta chiudendo.

Difesa nel frattempo: se un contribuente viene accertato ora per crypto non dichiarate in anni passati, potrà invocare appunto la mancanza di chiarezza normativa (fino al 2022 lo status giuridico delle criptovalute era poco definito). Potrebbe sostenere che non erano oggetto di monitoraggio perché non valute estere fiat né attività finanziarie classiche – tesi però indebolita dal fatto che l’Agenzia aveva emanato interpelli già nel 2018 equiparandole a valute estere ai fini fiscali. Per le plusvalenze, se realizzate prima del 2023, c’era un dibattito se fossero imponibili solo se si superava la soglia dei depositi > €51.645 (prevista per valute estere). Alcune CTP hanno dato ragione ai contribuenti su questo, altre no. Dal 2023 è chiaro: soglia €2.000. Quindi la difesa potrebbe puntare su interpretazioni previgenti: “pensavo non imponibile perché non superavo soglia di giacenza” (se applicabile). In casi di contestazioni significative, si potrà magari arrivare a transigere con sanzioni ridotte. Altra leva: eventuali perdite su crypto che il contribuente ha avuto e che potrebbero compensare i guadagni (la legge 2023 consente di riportare perdite pregresse dal 2023 in poi; per il passato è controverso, ma in equità le si potrebbe considerare).

Comunque, essendo materia nuova, non c’è molta giurisprudenza. Il consiglio per chi ha cripto all’estero è di valutare una regolarizzazione spontanea prima dell’entrata in vigore dello scambio DAC8, approfittando magari del “ravvedimento operoso speciale” (la L.197/22 aveva introdotto un ravvedimento sprint per RW e infedeltà dichiarative, se ancora applicabile nel 2023). Diversi contribuenti nel 2023 hanno aderito alla chance di affrancare le cripto pagando un’imposta sostitutiva del 3.5% sul valore al 1/1/2023 prevista dalla stessa L.197/22 – se lo hanno fatto, l’Agenzia non potrà più contestare il pregresso emergente dalle quantità affrancate.

In sintesi, sul fronte crypto la difesa attuale si basa su “zone grigie” normative pregresse, ma questo spazio si sta chiudendo. In un’ottica prospettica, con l’entrata a regime dei nuovi obblighi, conviene mettere in regola la propria posizione ora (dichiarando nel 2024 le consistenze 2023, ecc.) per non incorrere in futuri accertamenti con scambio dati.

(Nelle sezioni seguenti omettiamo ulteriori possibili casi pratici, come i redditi esteri di lavoro dipendente o pensioni non dichiarati, le stabili organizzazioni occulte all’estero di imprese italiane, ecc., per concentrare l’attenzione sulle macro-aree sopra esposte, le più rilevanti secondo l’esperienza recente.)

Strategie di Difesa del Contribuente

Dopo aver esaminato le varie situazioni in cui possono scaturire accertamenti da estero, passiamo ad illustrare le strategie generali di difesa. Molte di queste le abbiamo già anticipate trattando i singoli casi, ma qui le organizziamo in modo sistematico. L’obiettivo del contribuente (e del suo difensore) è minimizzare – se non azzerare – gli effetti dell’accertamento, facendo valere ragioni sostanziali e procedurali.

Possiamo distinguere le fasi: (A) Difesa in sede pre-contenziosa (fase amministrativa) e (B) Difesa in sede contenziosa (giudiziaria). Vediamo le principali tattiche in ciascuna.

A) Fase amministrativa: prevenire e gestire l’accertamento

  1. Collaborazione e trasparenza iniziale (compliance): spesso, prima di emettere un accertamento vero e proprio, l’Agenzia invia al contribuente una comunicazione di compliance o un questionario quando individua anomalie relative a investimenti esteri. Ad esempio, riceve dati CRS su un conto estero non dichiarato e manda una lettera al contribuente invitandolo a regolarizzare o spiegare entro 90 giorni. Questa è un’opportunità preziosa per evitare l’accertamento o comunque attenuarne le conseguenze. Se si riceve una lettera del genere, ignorarla sarebbe un grave errore. Bisogna invece analizzare la posizione e: se l’omissione è palese, procedere a una regolarizzazione spontanea (tramite ravvedimento operoso). Il ravvedimento operoso, ex art. 13 D.Lgs. 472/97, consente di sanare violazioni pagando spontaneamente imposte e sanzioni ridotte prima di essere formalmente contestati. Ad esempio, se Caio riceve lettera per un conto estero 2019 non dichiarato, può presentare una dichiarazione integrativa, versare l’IVAFE e la sanzione ridotta (1/6 del minimo) e mettersi in regola. Così l’accertamento verrà evitato o limitato solo a eventuali altri profili non sanabili. Se invece la posizione fosse già compromessa (es. è arrivato un PVC o un avviso bonario), si può comunque mostrare atteggiamento collaborativo: rispondere puntualmente al questionario, fornire documenti giustificativi, segnalare eventuali errori nei dati posseduti dal fisco. Questa cooperazione può convincere l’ufficio a non procedere con un atto rigido o comunque servirà a costruire fin da subito la linea difensiva documentale.
  2. Contraddittorio anticipato: in alcuni casi (soprattutto se c’è stato un PVC della Guardia di Finanza), il contribuente viene convocato per un contraddittorio all’ufficio (magari sotto forma di invito a comparire ex art. 5-ter D.Lgs. 218/97). È essenziale partecipare, magari assistiti da un professionista, e presentare controdeduzioni scritte. In sede di contraddittorio, si dovranno far valere tutte le argomentazioni possibili per convincere l’ufficio a rivedere la sua posizione o a limitare la pretesa. Ad esempio, presentare la documentazione che prova l’origine tassata dei capitali esteri, oppure evidenziare eventuali errori fattuali (nomi omonimi, doppi conteggi). Anche se l’ufficio non recederà su tutto, spesso in contraddittorio emergono elementi che poi verranno riflessi nell’atto finale (magari una riduzione delle sanzioni proposte, o il riconoscimento di un credito estero). Inoltre, il contraddittorio serve per fissare agli atti le nostre difese: se poi dovremo impugnare in giudizio, sarà utile poter dimostrare di aver già sollevato certi temi e di averli supportati con evidenze, mettendo l’ufficio di fronte ad essi (se non li ha considerati, ciò depone a favore del contribuente). Ricordiamo che, per l’IVA, il contraddittorio è obbligatorio pena nullità dell’atto (salvo urgenza), mentre per imposte dirette no – ma se l’Agenzia lo avvia, va sfruttato.
  3. Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/97): se l’Agenzia emette un avviso di accertamento (o un P.V.C.) con rilievi da estero, il contribuente ha la possibilità di attivare un’istanza di accertamento con adesione entro 30 giorni dalla notifica dell’atto. Depositando l’istanza, i termini per fare ricorso si congelano per 90 giorni . Durante questo periodo, il contribuente verrà convocato per negoziare una possibile definizione concordata. Quando conviene aderire? – L’adesione è vantaggiosa se la pretesa fiscale ha margini di riduzione e se l’ufficio si mostra disponibile a riconoscere parte delle ragioni del contribuente. Nei casi esteri, spesso l’Agenzia potrebbe essere disposta a discutere su: entità delle sanzioni (riducendole magari al minimo edittale o concedendo le attenuanti), eventuale non applicazione del raddoppio termini per alcune annualità dubbie, riconoscimento parziale di costi o crediti esteri, ecc. Meno probabile che abbatta le imposte evase se sono documentate, ma a volte si può transare anche su quelle (es. considerando come capitali tassati solo una percentuale se c’è incertezza sulla provenienza). In adesione il contribuente accetta un compromesso: paga quanto concordato e rinuncia al ricorso, ottenendo in cambio sanzioni dimezzate (1/3) e niente interessi di mora. Bisogna valutare la forza delle proprie difese: se si ritiene di poter vincere in giudizio su punti di diritto, meglio non aderire. Se invece il caso è incerto o il contribuente vuole chiudere rapidamente per serenità (magari per evitare il penale pagando subito), l’adesione è lo strumento giusto. Dopo l’accordo, va versato quanto dovuto (anche a rate, di solito fino a 8 rate se sotto 50k, 16 rate se sopra ). Un dettaglio: aderendo si evita l’iscrizione a ruolo immediata e si evita un eventuale aumento delle sanzioni in giudizio. Inoltre, l’adesione non comporta alcuna ammissione di reato in sede penale – anzi, il pagamento integrale in adesione può contribuire a escludere la punibilità (come visto, art. 13-bis D.Lgs. 74/2000). Quindi, è anche un tassello della strategia globale se c’è un fascicolo penale.
  4. Acquiescenza all’accertamento: se l’Agenzia emette un avviso e il contribuente ritiene di non avere chance di vittoria (o non vuole intraprendere una lite), può optare per il pagamento in forma di acquiescenza entro 60 giorni . L’acquiescenza dà diritto a una riduzione delle sanzioni a 1/3 (simile all’adesione) ma senza negoziazione: si paga quanto richiesto e basta, rinunciando al ricorso. È utile quando l’ufficio ha già applicato il minimo di legge e non c’è margine di trattativa ulteriore. Ad esempio, se l’avviso ha sanzioni già ridotte e l’importo non è enorme, fare causa potrebbe costare di più. Va ricordato che l’acquiescenza non è possibile se si è presentata istanza di adesione (bisogna scegliere l’uno o l’altro). Inoltre, con l’acquiescenza in genere non si possono avere le dilazioni di pagamento (bisogna saldare subito, salvo si attivi una rateazione ordinaria con adesione se ammessa).
  5. Autotutela e istanze di annullamento: se durante il dialogo con l’ufficio emergono errori palesi (ad esempio persona scambiata per un omonimo, o duplice imposizione lampante), si può sempre presentare un’istanza di autotutela chiedendo all’ente di annullare (totale o parziale) l’atto prima di arrivare in giudizio. In materia di scambi internazionali, l’autotutela talvolta è stata accolta per ragioni tecniche: ad esempio, l’ufficio emette due avvisi duplicando la stessa cifra su due anni, oppure notifica l’atto al vecchio indirizzo estero nonostante quello eletto in Italia (vizi insanabili). Non è frequente che l’Agenzia annulli di sua sponte accertamenti su estero, ma tentare non nuoce specialmente se si sono manifestati evidenti fraintendimenti.

In generale, nella fase amministrativa il contribuente deve essere proattivo. Non c’è spazio per aspettare passivamente. Ogni opportunità di confronto va sfruttata per portare elementi favorevoli. Anche se l’ufficio appare intransigente, costruire un record di collaborazione e fornire documenti è utile: in giudizio poi il giudice vedrà che il contribuente ha prodotto già prima le prove (dandone contezza) e se l’ufficio non le ha confutate, ciò gioverà alla credibilità della difesa.

B) Fase contenziosa: ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria

Se l’accertamento non si risolve in fase amministrativa, il contribuente può presentare ricorso entro 60 giorni dalla notifica (o entro 150 giorni se ha fatto istanza di adesione che non si è conclusa con accordo) . La causa si svolgerà davanti alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Tributaria Provinciale). Ecco le strategie e accorgimenti principali:

  1. Impugnare tempestivamente e correttamente: sembra banale, ma il primo passo è assicurarsi di presentare il ricorso nei termini e secondo le forme richieste (oggi PEC o deposito telematico, firma digitale, ecc.). In materia internazionale, spesso gli avvisi vengono notificati a mezzo raccomandata estera o per il tramite di Ambasciate, con possibili incertezze sulla data di notifica. È prudente calcolare il termine dal momento in cui si è venuti a conoscenza effettiva dell’atto. Se per qualche ragione l’atto non fosse stato notificato regolarmente (es. notifica a indirizzo errato), si può eccepire la nullità della notifica, ma è comunque opportuno fare ricorso “granitico” contestualmente (magari in via subordinata, salvo concludere per la nullità integrale). Si può anche presentare istanza al fisco di esibizione della prova di notifica se questa non è chiara.
  2. Sospensione dell’esecuzione: l’accertamento esecutivo consente all’Agenzia di iniziare la riscossione di 1/3 delle imposte accertate dopo 60 giorni. Presentando ricorso, si può chiedere alla Corte la sospensione dell’esecuzione se il pagamento immediato causerebbe grave danno e il ricorso non è pretestuoso. Ad esempio, se viene chiesto €1 milione a un contribuente che rischia il default, si chiederà di sospendere la riscossione fino alla sentenza . Nei casi esteri complessi, i giudici spesso concedono la sospensione se c’è fumus boni iuris (es. questioni giuridiche fondate). Quindi valutare di fare apposita istanza cautelare nel ricorso.
  3. Argomentare su ogni aspetto (merito e forma): il ricorso tributario non conosce preclusioni di domande: è bene inserire tutti i motivi di doglianza sin dall’inizio. Quindi scrivere capitoli dedicati ai vizi formali/procedurali (es. nullità per difetto di motivazione, violazione contraddittorio, decadenza termini, inutilizzabilità prove illecite se rilevante, ecc.) e capitoli sul merito sostanziale (es. insussistenza del reddito, duplicazione d’imposta, errata applicazione presunzioni, ecc.). Una struttura chiara aiuta i giudici. Supportare ogni affermazione con riferimenti a leggi, circolari (se utili), e soprattutto giurisprudenza. Il panorama giurisprudenziale tributario su scambio estero è ormai ricco: citare le sentenze di Cassazione pertinenti (alcune le abbiamo riportate in tabella sotto) può influenzare la decisione. Ad esempio: se il ricorso verte su capitali anteriori 2009, citare Cass. 2662/2018 che esclude retroattività della presunzione ; se verte su trust, citare Cass. 19410/2019 ; se su Falciani, citare Cass. 8605/2015 ; se su omessa RW, citare Cass. pen. 18849/2021 che esclude reato , e così via. Questo mostra alla Corte che il caso non è isolato e che c’è un orientamento di legittimità a sostegno.
  4. Produzione documentale e CTU: nel processo tributario, il contribuente può produrre documenti nuovi anche in secondo grado (regime attuale). Quindi è opportuno allegare con il ricorso tutti i documenti già forniti all’ufficio e di nuovi che rafforzano la tesi. Ad esempio, estratti conto completi, contratti esteri tradotti, perizie tecniche (es. tracciamento blockchain per provare il possesso di crypto ante 2014), ecc. Se la materia è particolarmente tecnica (es. valutazione di flussi finanziari complessi), si può chiedere una CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio) per far eseguire a un esperto nominato dal giudice una ricostruzione imparziale. Ad esempio, in cause con decine di migliaia di transazioni su conti, una CTU contabile può avvalorare la provenienza di certe somme da fonti note. I giudici tributari concedono CTU di rado, ma in situazioni complicate internazionali qualche volta sì. Vale la pena chiederla come subordinata.
  5. Testimonianze e cross-examination: il processo tributario non ammette giuramento né interrogatorio formale delle parti, e la testimonianza è limitata (in teoria vietata ex art. 7 D.Lgs.546/92). Tuttavia, prove atipiche come e-mail, dichiarazioni rese all’estero, deposizioni in altri giudizi, possono essere portate a conoscenza. Inoltre, dal 2023 nelle Corti tributarie di merito c’è un giudice monocratico per cause minori e la possibilità di conciliazione più ampia. È sempre utile presentarsi all’udienza pubblica (anche se non obbligatorio): nel dibattimento si possono chiarire fatti.
  6. Appello e Cassazione: se in primo grado il risultato è negativo (o parzialmente), si può fare appello entro 60 giorni. L’appello va motivato contestando le parti sfavorevoli della sentenza. In secondo grado, è opportuno enfatizzare eventuali contraddizioni o travisamenti della CTP. La fase di appello consente anche eventualmente di chiedere una conciliazione giudiziale: ad esempio, se in primo grado il contribuente ha ottenuto ragione su alcuni punti e torto su altri, potrebbe transigere in appello definendo la controversia con sanzioni ridotte al 40%. Questo a volte conviene per chiudere rapidamente (specie se nel frattempo la giurisprudenza si sta consolidando contro di lui su certe questioni). Infine, resta la Cassazione per motivi di diritto: questioni come la retroattività di norme, l’interpretazione di convenzioni, ecc. sono terreno per la Suprema Corte. Ad esempio, se la CTR confermasse la retroattività della presunzione 2009 contro la nostra tesi, si potrà ricorrere in Cassazione citando i precedenti contrari. La Cassazione tributaria negli ultimi anni ha prodotto sentenze importanti sulla fiscalità internazionale (molte già citate). È l’ultimo grado e va valutato costi/benefici: spesso conviene se ci sono in ballo principi importanti o importi ingenti.

Considerazioni finali sulla difesa: in cause complesse come queste, può essere utile coinvolgere professionisti multidisciplinari: tributarista, penalista (se c’è riflesso penale), esperto di diritto internazionale privato, magari un tax advisor estero per eventuali aspetti di diritto straniero (ad es. per spiegare un istituto estero). La difesa deve smontare l’impalcatura accusatoria pezzo per pezzo, mostrando magari le incoerenze (spesso l’Agenzia fa cut & paste standard nelle motivazioni: evidenziarne gli errori può far capire al giudice che l’accertamento è superficiale).

Un’ultima arma da considerare è il reclamo-mediazione (obbligatorio sotto €50.000 di valore): per le cause minori, presentando il ricorso si può formulare proposta di mediazione. Se l’ufficio la accetta, si chiude con sanzioni ridotte al 35%. Di solito per questioni di principio l’Agenzia non media, ma per importi piccoli e situazioni borderline a volte sì per economia procedurale. Vale la pena tentare se il contribuente è propenso.

In conclusione, le strategie difensive devono essere personalizzate sul caso concreto: non esiste un approccio univoco, ma i principi discussi (prove documentali, contestazione di presunzioni, rispetto delle garanzie procedurali, utilizzo di giurisprudenza favorevole) sono un filo conduttore. Il contribuente, dal canto suo, deve essere consapevole che la miglior difesa è la prevenzione: in un mondo di scambio automatico, la scelta più saggia è regolarizzare spontaneamente eventuali attività estere non dichiarate (approfittando magari di future edizioni di voluntary disclosure, se mai ce ne saranno) piuttosto che confidare nell’occultamento. Tuttavia, se l’accertamento arriva, come abbiamo visto, esistono molti strumenti legali per far valere le proprie ragioni e ottenere un risultato equo.

Di seguito, per praticità, forniamo tabelle riepilogative delle principali norme coinvolte, degli strumenti investigativi, delle pronunce giurisprudenziali più rilevanti e delle scadenze/termini da tenere a mente, utili come riferimento rapido nella difesa di accertamenti esteri.

Tabelle Riassuntive

Tabella 1: Principali Norme sullo Scambio di Informazioni Fiscali e sul Monitoraggio Estero

NormativaOggettoRiferimenti
Convenzione OCSE sulla mutua assistenza fiscale (1988, emend. 2010)Cornice multilaterale per scambio informazioni su richiesta, spontaneo e automatico tra oltre 140 Paesi. L’Italia vi aderisce (ratifica con L. 18/2016).OCSE MAAT; L. 18/2016.
Modello OCSE art. 26 & Convenzioni bilaterali contro doppie imposizioniScambio di informazioni su richiesta tra Stati in base a trattati bilaterali. Criterio di “prevedibile rilevanza” delle informazioni scambiate.Art. 26 Mod. OCSE; singole Convenzioni (es. Convenzione Italia-Svizzera 1976).
Direttiva 2011/16/UE (DAC1)Cooperazione amministrativa nell’UE: scambio su richiesta, spontaneo e alcuni scambi automatici (categorie di redditi: lavoro, pensioni, immobili, ecc.). Attuata in Italia con D.Lgs. 29/2014.Dir.2011/16/UE; D.Lgs. 29/2014.
Direttiva 2014/107/UE (DAC2)Introduce in UE lo scambio automatico di informazioni finanziarie (recepisce il CRS OCSE). Obbliga gli intermediari a report annuali sui conti esteri.Dir.2014/107/UE; L. 95/2015 (art. 1); DM MEF 28/12/2015 (Allegati con liste Paesi).
Legge 18 giugno 2015 n. 95Ratifica dell’Accordo FATCA Italia-USA e delega per attuare lo standard CRS e altri accordi di scambio automatico.L. 95/2015 (in particolare art. 1 per CRS/FATCA).
Accordo FATCA Italia-USA (2014)Scambio reciproco Italia-USA di informazioni su conti finanziari di rispettivi residenti (Intergovernmental Agreement modello 1). Prevede obblighi di reporting per banche italiane verso AdE e viceversa limitatamente a conti di residenti italiani in banche USA.Accordo 10/1/2014 ratificato da L. 95/2015.
Direttiva 2015/2376/UE (DAC3)Scambio automatico tra Stati membri dei ruling fiscali preventivi e accordi preliminari (es. APA transfer pricing) con rilevanza transfrontaliera.Dir.2015/2376; attuata con D.Lgs. 32/2017.
Direttiva 2016/881/UE (DAC4)Scambio automatico dei Country-by-Country Reports delle multinazionali (rendicontazione paese per paese di utili, tasse pagate, attività).Dir.2016/881; DM MEF 23/02/2017.
Direttiva 2016/2258/UE (DAC5)Accesso delle autorità fiscali alle informazioni antiriciclaggio (es. registri titolari effettivi, dati AML). Consente utilizzo a fini fiscali di segnalazioni UIF.Dir.2016/2258; attuata con D.Lgs. 42/2019.
Direttiva 2018/822/UE (DAC6)Obbligo di comunicazione (da parte di intermediari e contribuenti) degli schemi di pianificazione fiscale transfrontaliera potenzialmente aggressiva. Le informazioni raccolte sono scambiate tra Stati UE.Dir.2018/822; D.Lgs. 100/2020 (recepimento).
Direttiva 2020/284/UE (DAC7)Introduce lo scambio automatico di informazioni da piattaforme digitali: redditi percepiti da venditori su piattaforme (affitti, e-commerce, gig economy) vengono comunicati e scambiati tra Stati.Dir.2020/284; recepita con DL 73/2022 conv. L. 122/2022.
Direttiva (UE) 2023/2226 (DAC8)Rafforza la cooperazione ampliando lo scambio automatico ai crypto-asset (introducendo in UE il Crypto-Asset Reporting Framework, CARF) e agli accordi fiscali per high-net-worth individuals. Previsti obblighi di report per CASP dal 2026-2027.Dir. 2023/2226 (DAC8), adottata il 17/10/2023 (trasposizione entro 31/12/2025).
D.L. 167/1990 (conv. L. 227/1990)Norme sul monitoraggio fiscale: obbligo dichiarativo quadro RW per attività estere, relative sanzioni per omessa/infedele compilazione, e presunzioni (es. art. 6 co.2: somme trasferite dall’estero si presumono redditi evasi salvo prova). Modificato da L. 90/2017 per voluntary disclosure e da L. 97/2013 eliminando la soglia €10k e il riferimento ai “Paesi black list” nel monitoraggio.D.L. 167/1990, artt. 4 (obblighi RW), 5-quater/quinqies (collaborazione volontaria), 6 (presunzioni). L. 97/2013 (art. 9 co.1 lett. b) abolisce soglia e black list).
Art. 12 DL 78/2009 (conv. L. 102/2009)Misure anti-paradisi fiscali: introduce (co.2) la presunzione legale che gli investimenti e attività finanziarie estere non dichiarati (in Paesi a fiscalità privilegiata) costituiscano redditi evasi (dal 2009 in avanti). Prevede inoltre (co.2-bis e 2-ter) il raddoppio dei termini di accertamento (e di irrogazione sanzioni) per violazioni connesse ad attività estere occultate.DL 78/2009 art. 12 commi 2, 2-bis, 2-ter.
D.Lgs. 471/1997Sanzioni tributarie: art. 5 co.2: sanzione 3-15% per omessa dichiarazione RW (raddoppiata 6-30% se Paesi non collaborativi); art. 1: sanzione 90-180% imposta evasa per dichiarazione infedele (che si applica su imposte evase relative a redditi esteri non dichiarati).D.Lgs. 471/1997, art. 5 e art. 1.
D.Lgs. 472/1997Disposizioni generali sanzioni: art. 13 ravvedimento operoso (riduzione sanzioni se pagamento spontaneo); art. 6 co.2 esimente per obiettiva incertezza normativa (non sanzionabilità se la violazione dipende da obiettiva incertezza su norma tributaria).D.Lgs. 472/1997, art. 13 e art. 6 c.2.
D.Lgs. 74/2000 (reati tributari)Art. 4: reato di dichiarazione infedele (omessa indicazione di redditi > €50k imposta evasa; fino al 2015 c’era soglia beni esteri > €2 mln poi abolita) – se l’omessa indicazione RW comporta imposte evase sopra soglia, può concorrere al reato; Art. 5: reato di omessa dichiarazione (se imposta evasa > €50k e si è omessa l’intera dichiarazione); Art. 13-bis: non punibilità se pagato interamente debito tributario prima del dibattimento. NB: l’omessa compilazione RW di per sé non è reato autonomo.D.Lgs. 74/2000, art. 4, art. 5, art. 13-bis (introdotto da D.Lgs. 158/2015).
L. 212/2000 (Statuto diritti contribuente)Garantisce tutele procedurali: art. 6 obbligo di informare il contribuente e favorire adempimento spontaneo; art. 12 regola le verifiche fiscali (durata, contraddittorio post-verifica con termine 60 giorni prima accertamento, nullità atti emessi ante termine senza urgenza); art. 7 obbligo di motivazione chiara degli atti e allegazione documenti.L. 212/2000 (Statuto), artt. 6, 7, 12.

Tabella 2: Fonti Informative e Strumenti di Indagine Fiscale Internazionale

Strumento / ArchivioDescrizioneNorme di riferimento
Archivio dei Rapporti Finanziari (Anagrafe conti)Banca dati nazionale in cui confluiscono tutti i rapporti finanziari presso intermediari italiani (conti correnti, depositi, carte, gestioni, cassette) con saldi e movimenti aggregati. Utilizzata per analisi di rischio e selezione contribuenti. Contiene anche segnalazione trasferimenti da/verso estero (operazioni extraconto).Art. 7 DPR 605/1973 (come modif. da DL 201/2011); Provv. Agenzia Entrate 25/3/2013 (modalità segnalazione).
Scambio automatico CRS (DAC2)Flusso annuale di dati su conti finanziari esteri di residenti: per ogni codice fiscale italiano, l’Agenzia riceve da >100 Paesi informazioni su saldo, interessi, dividendi, ecc. Tali dati alimentano l’Anagrafe tributaria e vengono incrociati con le dichiarazioni (per rilevare discrepanze). Base per lettere di compliance mirate.Dir. 2014/107/UE; L. 95/2015; DM 28/12/2015 (Allegati con Stati aderenti).
Scambio FATCA (Italia-USA)Dati su conti finanziari: l’IRS invia all’Italia informazioni (limitate) su conti detenuti da residenti italiani presso istituti finanziari USA (soprattutto interessi pagati); l’Italia invia all’IRS dati completi sui conti di cittadini USA in Italia. Sistema simile al CRS ma bilaterale e non perfettamente reciproco.Accordo FATCA 2014; L. 95/2015 art. 1, Allegato II (limiti info da IRS su depositi < $50k ecc.).
Scambio di informazioni su richiestaL’Agenzia può inviare quesiti specifici ad una autorità estera (es. chiedere saldo e movimenti di un conto X presso banca Y) nell’ambito di un’indagine. Lo Stato estero, se vincolato da convenzione, raccoglierà i dati e li trasmetterà. Il contribuente non ha diritto a partecipare al procedimento di cooperazione (CGUE Sabou 2013). Le informazioni ottenute possono essere utilizzate come prova (salvo limitazioni convenzionali di utilizzo).Art. 26 Mod. OCSE; Dir. 2011/16/UE artt. 5-8 (cooperazione su richiesta); Convenzioni bilaterali (clausole exchange of information).
Scambio spontaneoTrasmissione non sollecitata di informazioni da uno Stato all’altro quando rilevanti: es. uno Stato estero segnala all’Italia movimenti sospetti su conti di un italiano, o l’acquisto di un immobile in quel Paese da parte di un residente in Italia, ecc. Anche l’Italia trasmette ad altri Stati dati analoghi (obbligo di attivazione quando ritiene info utili ad altro Stato). Include ambiti specifici: ad es. DAC3 prevede scambio spontaneo di rulings, oppure accordi TIEA spesso contemplano scambi spontanei.Dir. 2011/16/UE art. 9; TIEA e accordi bilaterali; es. DAC3 per rulings transfrontalieri.
UIF – Segnalazioni di operazioni sospetteOperazioni finanziarie sospette di riciclaggio/finanziamento illecito (spesso transfrontaliere) vengono segnalate dagli intermediari alla UIF. La UIF le condivide con Guardia di Finanza e Agenzia Entrate per valutazioni fiscali. Possono rivelare trasferimenti non giustificati da/per l’estero, utilizzo trust o società offshore, etc. Le autorità fiscali hanno accesso a info AML in base a DAC5.D.Lgs. 231/2007 (normativa antiriciclaggio); Dir. 2016/2258 (DAC5) che abilita l’accesso fiscale alle info antiriciclaggio.
Indagini finanziarie ex art. 32 DPR 600/73Potere istruttorio dell’Amministrazione: può richiedere dati e documenti bancari direttamente agli intermediari (banche, Poste, fiduciarie), previa autorizzazione interna. Si possono ottenere estratti conto, contabili, ecc. Anche filiali estere di banche italiane possono collaborare. La GdF può eseguire accessi presso banche per acquisire documenti. Usato per ricostruire movimenti da/verso l’estero transitati su conti italiani o per individuare relazioni finanziarie occulte.DPR 600/1973 art. 32 co.1 n.7; DPR 633/1972 art. 51 (per IVA); Circ. GdF n.1/2008 (cooperazione filiali estere).
Liste da “leaks” esteri (es. Lista Falciani, Panama Papers, Paradise Papers)Elenchi di conti o entità estere ottenuti in modo non ufficiale (furto/hack) e poi condivisi tramite autorità estere o consessi internazionali. L’Italia li riceve spesso via scambio spontaneo o cooperazione giudiziaria. La Cassazione ha ritenuto utilizzabili tali dati ai fini fiscali, purché siano pervenuti alle autorità italiane tramite canali legittimi (anche se la fonte originaria era illecita) . Queste liste vengono usate per avviare controlli mirati su nominativi in esse contenuti.Cass. Civ. 30/10/2018 n. 27432 (utilizzabilità Lista Falciani) ; Cass. Pen. 27/4/2015 n. 8605 ; Convenzione Italia-Francia 1992 (caso Falciani).
Software di data matching (Serpico)Piattaforme informatiche (SOGEI) che incrociano i dati provenienti da varie fonti: movimenti bancari interni, dati fatture, spese rilevanti, proprietà immobiliari, dati CRS/FATCA, ecc., e li confrontano con le dichiarazioni dei redditi. Segnalano scostamenti significativi (es. tenore di vita o incrementi patrimoniali non compatibili col reddito dichiarato) che possono indicare disponibilità estere non tassate.Infrastruttura SOGEI integrata nell’Anagrafe tributaria (Serpico); art. 11 DL 69/1989 istitutivo anagrafe tributaria integrata.
Eurofisc & cooperazione antifrode UERete europea per lo scambio tempestivo di informazioni sulle frodi fiscali, principalmente IVA (carosello). Include anche focus su società di comodo transnazionali e schemi di evasione internazionale (esterovestizione di imprese, triangolazioni fittizie). È più rilevante per imprese e IVA, ma indirettamente fornisce segnalazioni anche su persone fisiche che usano società estere per evadere.Reg. UE 904/2010 (cooperazione IVA); programma Eurofisc (istituito dallo stesso regolamento); accordi di collaborazione GdF con omologhi UE per joint audits.
Archivio immobiliare esteriRaccolta di informazioni sugli immobili detenuti all’estero da residenti italiani. Proviene da scambi di dati catastali con Stati esteri (specie UE). Consente di individuare immobili non dichiarati ai fini IVIE. Ad es., l’Italia riceve periodicamente dalla Spagna l’elenco di immobili intestati a persone con codice fiscale italiano.DAC1 Allegato IV (prevede scambio redditi immobiliari); Accordi bilaterali (Italia-San Marino 2014 scambio catasto); Cooperazione consolare (dati acquisti italiani in Francia e viceversa).
Registri titolari effettivi (UBO Registers)Registri nazionali che censiscono i beneficial owners di società, trust ed entità giuridiche. Accessibili alle autorità fiscali (non più al pubblico generalizzato dopo CGUE 2022). L’Italia sta implementando il proprio registro. Questi registri permettono di risalire al controllante italiano dietro strutture estere: es. se un italiano è UBO di una società lussemburghese, le autorità italiane possono saperlo tramite cooperazione AML.Dir. 2015/849 (IV AMLD) e Dir. 2018/843 (V AMLD) – registri UBO; D.Lgs. 90/2017 (recepimento IV AMLD in Italia); Dir. 2016/2258 (DAC5) – accesso AdE; Sentenza CGUE 22/11/2022 (causa C-37/20) – limite accesso pubblico.

Tabella 3: Giurisprudenza Rilevante in Materia di Accertamenti Esteri

Pronuncia (Cassazione salvo indicato)Principio rilevante
Cass. Civ. Sez. V, 2 febbraio 2018 n. 2662La presunzione legale (art. 12 DL 78/09) che i capitali esteri non dichiarati siano redditi evasi non ha effetto retroattivo e non può applicarsi a periodi d’imposta anteriori alla sua introduzione (1/7/2009). È norma sostanziale, soggetta a irretroattività . Dunque, per annualità pre-2009 l’ufficio non può presumere ex lege che patrimoni esteri siano redditi evasi (può solo usare presunzioni semplici).
Cass. Civ. Sez. V, 5 luglio 2021 n. 18894Confermato orientamento “rigoroso” opposto sul raddoppio dei termini: la proroga dei termini di accertamento per attività detenute in Paesi black list è norma di natura procedurale e si applica anche retroattivamente. Posizione criticata (poco garantista) ma ad oggi prevalente: in sostanza, via libera ad accertare fino al doppio degli anni (10 anni se dichiarazione presentata, 14 se omessa) in presenza di attività estere non dichiarate in paradisi fiscali, anche per periodi antecedenti al 2009 . (Si bilancia col principio sopra: termini raddoppiati ok, ma presunzione legale solo dal 2009 in avanti).
Cass. Civ. Sez. V, 4 gennaio 2022 n. 10Riguarda l’art. 6 co.2 DL 167/90: la presunzione di fruttuosità delle somme estere non dichiarate (cioè si presume che generino redditi imponibili salvo prova contraria) è valida e si applica anche a capitali di origine illecita. In pratica, non importa l’origine (anche se fondi illegalmente costituiti), comunque si presume che abbiano prodotto redditi non dichiarati, salvo che il contribuente provi il contrario . Questo avallo rafforza la mano del fisco nel tassare rendimenti presunti su asset esteri occulti.
Cass. Pen. Sez. VI, 19 maggio 2021 n. 19849(Pronuncia in sede penale) Ha chiarito che la omessa compilazione del quadro RW – pur violando un obbligo – non integra di per sé un reato tributario (non è dichiarazione infedele né omessa, perché RW non incide direttamente sull’imponibile). Può avere rilievo penale solo se collegata a imposte evase oltre soglia: es. se non dichiarare un conto comporta anche omettere i redditi collegati >50k imposta, allora sarà punibile per infedele o omessa dichiarazione. Ma l’omissione RW da sola comporta solo sanzione amministrativa, e non costituisce automaticamente riciclaggio/autoriciclaggio (che richiede un reato presupposto).
Cass. SS.UU. Civ., 16 marzo 2018 n. 6687(S.U. su residenza fittizia persone fisiche) Nel caso di trasferimento di residenza in Paese black list, opera la presunzione di residenza in Italia (art. 2 co.2-bis TUIR): ciò sposta l’onere sul contribuente di provare l’effettività del trasferimento. Principio generale: per i paradisi fiscali vige presunzione di residenza italiana, superabile con prova contraria forte . Questa sentenza ha consolidato la linea anti-esterovestizione: chi va a vivere a Monaco, per esempio, deve dimostrare seriamente di aver spostato lì centro interessi, altrimenti sarà tassato come residente italiano.
Cass. Civ. Sez. V, 18 luglio 2019 n. 19410Trust estero: confermato che i redditi prodotti da un trust opaco non vanno imputati ai beneficiari fino a effettiva distribuzione. Le somme distribuite a un beneficiario residente da un trust opaco estero costituiscono reddito di capitale imponibile per il beneficiario (salvo prova che si tratta di restituzione del capitale investito) . Ciò allinea la tassazione dei trust esteri a quella dei trust italiani: i beneficiari discrezionali pagano imposte solo quando ricevono. Questo è un importante precedente a favore dei contribuenti nelle liti su trust, contro tesi aggressive dell’Agenzia.
Cass. Civ. Sez. V, 30 ottobre 2018 n. 27432Lista Falciani / prove illecite: ribadita la piena utilizzabilità in sede tributaria dei dati bancari acquisiti tramite autorità estera anche se di origine illecita. La provenienza illecita rileva solo se l’Amministrazione finanziaria italiana vi ha partecipato; se i dati sono stati forniti legittimamente dalla Francia (autorità estera), sono prove valide in accertamento . Principio estensibile ad analoghi leaks: ciò che conta è come arrivano all’Agenzia (per cooperazione ufficiale) non come furono inizialmente ottenuti.
CTP Milano, 21 giugno 2019 n. 2209(Pronuncia di merito degna di nota) – Caso di voluntary disclosure tardiva: la Commissione ha riconosciuto la non punibilità per obiettiva incertezza normativa ad un contribuente che non aveva dichiarato attività estere confidando, in buona fede, su interpretazioni ufficiali allora vigenti (circolari AdE) che escludevano l’obbligo. Ciò in particolare riferito a trust con beneficiari indeterminati prima di chiarimenti normativi del 2019. Questa pronuncia non è vincolante, ma costituisce un argomento persuasivo da utilizzare in difese analoghe, per chiedere l’esclusione di sanzioni amministrative quando il contribuente abbia ragionevolmente interpretato in modo diverso una norma poco chiara .
Cass. Pen. Sez. II, 27 aprile 2015 n. 8605 (gemella 8606)(Caso Lista Falciani, penale) – La Corte suprema ha confermato l’utilizzabilità ai fini fiscali della lista Falciani e ha ribadito che il “diritto alla prova” consente di usare dati bancari illegalmente acquisiti all’estero purché siano pervenuti legalmente alle autorità italiane . In pratica, il fatto che originariamente la lista fu rubata è irrilevante, poiché l’Italia l’ha ottenuta tramite canali ufficiali francesi. Questo principio è cardine per l’uso di dati da leaks internazionali in accertamento.

Nota: la giurisprudenza in materia di fiscalità internazionale è ampia e in continua evoluzione. Nella tabella abbiamo selezionato pronunce significative per principi generali emersi. In caso di contenzioso specifico (es. trust, CFC, esterovestizione societaria) è opportuno ricercare anche sentenze più recenti e attinenti a quello specifico tema, poiché offrono linee guida utili. Ad esempio, per trust esistono altre Cass. 2020-2022; per CFC casi sul vecchio art. 167; per residenza liti su singoli Stati ecc. Le pronunce di Cassazione vanno poi sempre calate nel contesto del caso concreto da cui originano – però i principi di diritto enunciati (come quelli riportati sopra) costituiscono un fondamentale riferimento su cui costruire la difesa.

Tabella 4: Termini di Accertamento e Scadenze Difensive (focus su esteri)

Azione/FaseTermini (regime attuale)
Termine ordinario per accertamento imposte diretteEntro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione. (Esempio: redditi 2020, dichiarazione 2021 → accertabile fino al 31/12/2026). Se la dichiarazione non è stata presentata, il termine diventa sette anni successivi (redditi 2020 omessi → 31/12/2027). Nota: La “riforma 2016” (DLgs 128/2015) ha esteso i termini da 4+4 a 5+7 per gli accertamenti notificati dal 2016 in poi.
Raddoppio termini per attività estere occultatePer violazioni riferite ad anni fino al 2016, era in vigore l’art. 12 co.2-bis DL 78/09: raddoppio dei termini (quindi 10 anni se dichiarazione presentata, 14 se omessa) in caso di attività estere non dichiarate in Paesi black list . Esempio: redditi 2015 (dich. 2016) → ordinario 2021, raddoppiato 2026. Cass. 18894/21 ha ritenuto questo raddoppio applicabile anche retroattivamente . Dal 2017 il concetto di “black list” per monitoraggio è stato abolito (tutti i Paesi sono considerati collaborativi salvo poche eccezioni) . Quindi, per annualità dal 2017 in poi, non si dovrebbe applicare il raddoppio automatico dei termini (non essendoci distinzione di Paese). Di fatto, oggi il raddoppio dei termini opera solo se ricorre un reato tributario (v. oltre) oppure se l’anno in questione è antecedente al 2017 e all’epoca era black list. Attenzione: alcuni uffici continuano a interpretare che il raddoppio valga per qualsiasi attività estera non dichiarata fino al 2016; per il 2017+ solo tramite reato. Questo punto potrebbe evolvere giurisprudenzialmente.
Raddoppio termini per reato tributarioIndipendentemente da sopra, la legge prevede (art. 3 DLgs 128/2015) che se i fatti configurano un reato fiscale (es. dichiarazione infedele o omessa oltre soglia) e la denuncia penale è inviata entro i termini ordinari (5 o 7 anni), i termini di accertamento raddoppiano. In altre parole, in presenza di reato il fisco ha altri 5 (o 7) anni aggiuntivi. Questo si applica per tutti i periodi d’imposta (anche attuali). Nel contesto estero, ciò rileva perché evasioni sopra soglia implicanti conti esteri generano reato, e dunque l’ufficio può emettere avvisi anche tardivamente sfruttando questo raddoppio. Va però verificato sempre se la denuncia è avvenuta in tempo utile.
Notifica avviso dopo PVC (60 giorni)Se l’accertamento scaturisce da un PVC (processo verbale) di verifica (es. della GdF), l’Agenzia deve attendere 60 giorni dalla data di consegna del PVC al contribuente prima di emettere l’avviso di accertamento (art. 12 co.7 Statuto Contribuente) . L’unica eccezione è l’urgenza motivata. Dunque, se un avviso venisse notificato prima di 60 gg senza una ragione d’urgenza esplicitata, è nullo. Questo termine serve a garantire il diritto al contraddittorio post-verifica. Negli accertamenti da estero, spesso non c’è un PVC formale (ad es. se arrivano dati via CRS), ma se c’è stato (magari a seguito di accesso GdF per controlli su movimenti bancari), attenzione al rispetto di questi 60 gg.
Invito al contraddittorio (pre-accertamento)Per le imposte armonizzate (IVA), vige l’obbligo generale di invito al contraddittorio prima dell’accertamento (Cass. SS.UU. 24823/2015), pena nullità se non fatto. Per le imposte dirette non esiste un obbligo generalizzato di legge, salvo casi specifici (es. art. 5-ter DLgs 218/97 per alcuni accertamenti parziali su base bancaria) . Tuttavia, l’Agenzia è tenuta a garantire la partecipazione del contribuente quando previsto da norme speciali o da statuti regionali. In pratica, per redditi esteri l’invito formale non è sempre obbligatorio, ma è comunque consigliato dall’AdE in ottica di cooperative compliance. Se viene inviato un invito, l’ufficio solitamente attende almeno 15 giorni la risposta prima di procedere . Nei casi di mancato invito, oggi non si può eccepire nullità salvo fosse un ambito dove era prescritto.
Ricorso alla Corte Giust. Tributaria I gradoEntro 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnabile (avviso di accertamento, irrogazione sanzioni, diniego rimborso, etc.). Se è stata presentata istanza di adesione entro quei 60 gg, il termine per ricorrere si estende di ulteriori 90 giorni (60 + 90 = max 150 gg totali dalla notifica) . Il ricorso va notificato (via PEC o ufficiale giudiziario) e poi depositato telematicamente presso la CGT competente.
Accertamento con Adesione (istanza e svolgimento)Il contribuente può presentare istanza di adesione entro 30 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (se lo fa dopo aver eventualmente presentato ricorso, è inammissibile; meglio prima). La presentazione dell’istanza sospende il termine per ricorrere per 90 giorni . L’Ufficio convoca il contribuente per un incontro (non ci sono termini perentori, ma di solito entro 60 gg). Se si raggiunge un accordo, viene redatto atto di adesione con l’ammontare dovuto (imposte, interessi, sanzioni ridotte a 1/3). Il contribuente perfeziona l’accordo pagando quanto concordato entro 20 giorni dalla firma (o almeno la prima rata). Se non si raggiunge intesa, o decorrono 90 gg senza accordo, l’istanza si considera chiusa e il contribuente ha 60 gg dal termine dei 90 (o dalla data di comunicazione di esito negativo) per proporre ricorso . Durante la pendenza dell’adesione è sospesa la riscossione e gli interessi di mora.
Pagamento in acquiescenzaIl contribuente che non intende contestare può pagare l’avviso entro 60 giorni dalla notifica, beneficiando della riduzione delle sanzioni ad 1/3 (ex art. 15 DLgs 218/97) . L’acquiescenza è preclusa se si è presentata istanza di adesione o se si è impugnato l’atto. Pagando in acquiescenza non si può più impugnare l’atto. Nota: in acquiescenza non è ammessa la rateazione (va pagato in un’unica soluzione l’intero dovuto: imposte + interessi + sanzioni ridotte).
Rateazione e sospensione della riscossioneIn sede di adesione o conciliazione giudiziale, è possibile ottenere una rateazione del dovuto fino a 8 rate trimestrali (se importo < €50k) o 16 rate (se importo > €50k) . La prima rata va versata entro 20 gg dalla sottoscrizione (adesione) o omologa (conciliazione). La mancata ottemperanza fa decadere i benefici. – In caso di ricorso pendente, si può chiedere al giudice la sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato (in presenza di grave danno e fumus boni iuris). Dopo la sentenza di primo grado, se sfavorevole al contribuente, l’Agenzia può iniziare a riscuotere metà delle imposte contestate; dopo la sentenza di secondo grado, può riscuotere il restante, salvo che la Corte disponga sospensione in appello . Il ricorso per Cassazione di per sé non sospende la riscossione, ma è possibile chiedere la sospensiva alla CGT regionale in attesa del giudizio di legittimità (riforma 2022).
Appello (CGT II grado)60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. Procedura analoga al primo grado (deposito ricorso in appello). Dal 2023 è richiesto, per controversie > €3.000, l’assistente tecnico abilitato (difensore: avvocato, commercialista, ecc.) , mentre in primo grado per cause minori era ammessa l’autodifesa. L’appello può essere proposto sia dall’Ufficio che dal contribuente per le parti di sentenza a sé sfavorevoli.
Ricorso per Cassazione60 giorni dalla notifica della sentenza di appello (o 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata). In Cassazione si possono far valere solo motivi di diritto (violazione di legge o nullità della sentenza impugnata), non il merito. È obbligatorio farsi assistere da avvocato cassazionista iscritto in apposito albo .

Nota: Le tempistiche procedurali sono critiche. Ad esempio, se un avviso viene notificato il 1° marzo, il ricorso va proposto entro fine aprile; se però il contribuente presenta istanza di adesione il 20 marzo, il termine per ricorrere si estende di 90 gg, quindi (20 marzo + 90 gg =) circa fine giugno, e poi vanno aggiunti i 60 gg residui originari, arrivando indicativamente a fine agosto per fare ricorso in caso di esito negativo dell’adesione . Tenere traccia di queste date con precisione (magari usando un calendario fiscale condiviso) è fondamentale nella gestione della difesa: la decadenza dai termini può pregiudicare irrimediabilmente il contribuente, a prescindere dal merito.

Domande Frequenti (FAQ)

D. Cosa succede se ignoro una lettera di compliance o un questionario dell’Agenzia sulle mie attività estere?
R. Ignorare una comunicazione dell’Agenzia è altamente sconsigliato. Le lettere di compliance invitano a regolarizzare: se non rispondi né sistemi la situazione, l’Agenzia quasi certamente procederà con un accertamento formale, spesso usando le informazioni a suo sfavore senza ulteriori possibilità di chiarimento . In pratica, non rispondere equivale a perdere l’occasione di spiegare o correggere errori. Addirittura, se ignori un questionario (che è un atto istruttorio con obbligo di risposta), rischi una sanzione amministrativa per omissione di risposta e, in giudizio, potresti subire le conseguenze negative della mancata collaborazione. Inoltre, non rispondere può essere interpretato come segnale di evasione deliberata e l’ufficio applicherà la massima severità (sanzioni piene). Al contrario, rispondere anche solo chiedendo più tempo o fornendo parziali elementi è utile: dimostra buona fede e ti tiene nella procedura di cooperazione. In sintesi: non ignorare mai le comunicazioni del Fisco. Se non sai come rispondere, ingaggia subito un professionista, ma dai un segnale entro i termini indicati.

D. Ho un vecchio conto in Svizzera che non ho mai dichiarato, aperto molti anni fa con soldi già tassati all’epoca. Cosa rischio e come posso difendermi?
R. Oggi la Svizzera scambia automaticamente i dati dal 2017, quindi l’Agenzia potrebbe già aver ricevuto le informazioni su quel conto (saldo, interessi). Se non hai aderito alle voluntary disclosure del 2015-2017, rischi un accertamento per omessa dichiarazione RW (sanzione 3-15% annuo del saldo) e per omessa tassazione di eventuali interessi o altri redditi generati (imposta + sanzione 90-180%). Inoltre, potrebbero presumere che il capitale sul conto sia reddito evaso (specie per annualità post-2009) . La difesa consisterà nel dimostrare che quei soldi provengono da redditi regolarmente dichiarati in passato o da fonti esenti (es. successione) – in tal caso, pur pagando la sanzione RW, potresti evitare la tassazione del capitale perché fornisci prova contraria alla presunzione . Se invece l’origine è poco documentata ma molto risalente (es. risparmi degli anni ’90), evidenzia che è fuori dai termini di accertamento (il Fisco non può tassare redditi ante 2009 con presunzione) . Comunque, la strategia ideale sarebbe agire prima dell’accertamento: puoi ancora regolarizzare spontaneamente presentando dichiarazioni dei redditi integrative per gli ultimi anni (entro il quinto precedente) pagando imposte su eventuali interessi e la sanzione RW ridotta via ravvedimento. Questo ti mette in posizione migliore in caso di controlli, mostrando atteggiamento collaborativo. Se l’accertamento arriva, dovrai in sede di contraddittorio o contenzioso portare tutta la documentazione possibile sull’origine dei fondi e sottolineare che hai sempre pagato le imposte dovute su quei redditi originari. Tieni presente che sulla Svizzera la Cassazione ha concesso, in casi di voluntary disclosure, il credito per l’euroritenuta eventualmente subita , ma se non avevi optato per lo scambio, quella ritenuta (il 35%) non ti venne restituita. In ogni caso, oggi la Svizzera non è più rifugio sicuro: se il conto è ancora aperto, valutane la chiusura dopo aver regolarizzato (chiuderlo prima e trasferire altrove lascerebbe tracce che comunque il CRS ha già registrato).

D. Quali Paesi non scambiano informazioni con l’Italia? Ce ne sono ancora e ha senso spostare lì i soldi?
R. Ad oggi (2025) la stragrande maggioranza delle giurisdizioni finanziarie rilevanti scambia informazioni con l’Italia. Hanno aderito al CRS tutti i principali centri finanziari: la Svizzera, quasi tutti i paradisi caraibici (Cayman, BVI, Bermuda…), Singapore, Hong Kong, Emirati Arabi, Monaco, Liechtenstein, San Marino, Andorra, ecc. Anche vari Stati un tempo opachi si sono allineati (es. il Libano di recente, alcuni Paesi africani). Pochissimi Paesi restano fuori: qualcuno per motivi politici (es. Eritrea, Corea del Nord ovviamente, la Siria), microstati con sistema finanziario insignificante (forse la Somalia), e la particolarità del Vaticano (che però ha un accordo con l’UE dal 2015 per scambio su conti finanziari). La grande eccezione è gli Stati Uniti: gli USA NON partecipano al CRS globale. Tuttavia, tramite FATCA, scambiano alcune informazioni – di fatto unilaterali – come gli interessi su conti di italiani. Questo significa che se un italiano apre un conto a Miami, le autorità USA non riferiranno all’Italia il saldo o i dividendi su quel conto (forniranno solo eventuali interessi e pochi altri dati). Dunque gli USA sono spesso citati come “nuovo paradiso” per capitali offshore. Ma attenzione: aprire conti negli USA da non residente oggi non è semplicissimo (le banche americane applicano severe due diligence e spesso segnalano comunque flussi sospetti via antiriciclaggio). Inoltre, l’IRS può decidere di ampliare in futuro il perimetro dei dati scambiati. Un altro limite: se i fondi vengono rimpatriati o usati in transazioni internazionali, lasceranno comunque traccia. Pertanto, fare affidamento sugli USA come scudo potrebbe essere una strategia di breve respiro e con rischi (gli USA condividono info in sede di inchieste penali, ad esempio). In sintesi: nessun Paese è davvero “sicuro” oggi per occultare ricchezze, o almeno nessuno che offra la stabilità e i servizi finanziari di cui un risparmiatore ha bisogno. Spostare soldi in giurisdizioni esotiche sconosciute solo perché fuori dal CRS è imprudente e pericoloso (si pensi a rischi politici, costi, mancanza di tutela legale). La via più saggia è considerare soluzioni legali in Italia (regimi agevolati per neo-residenti, fondi pensione, polizze compliant) piuttosto che inseguire l’ultimo porto franco. Ormai la transparenza fiscale globale è la regola – restano sacche di opacità, ma di difficile accesso per un contribuente medio senza attirare attenzioni.

D. L’Agenzia delle Entrate può usare le informazioni estere per accertare anni ormai prescritti?
R. In linea di massima no, il Fisco non può accertare periodi d’imposta per cui sono decaduti i termini di accertamento, nemmeno se riceve ora informazioni su quegli anni. Esempio: nel 2025 riceve dati su un conto estero detenuto nel 2012 – essendo trascorsi più di 8 anni, quell’anno non è accertabile (5 anni ordinari + eventuale raddoppio per reato, ma se non c’è stata denuncia entro 2017, è decaduto). Però ci sono due eccezioni da tenere presenti: (1) la normativa sul raddoppio dei termini per attività estere (valida fino al 2016) aveva creato una sorta di finestra più ampia, quindi se parliamo di anno 2012 con attività in Paese black list non dichiarata, il termine era 2021 (raddoppiato), che comunque adesso è passato; (2) se l’omissione configura reato e la denuncia penale è stata presentata entro i termini ordinari, i termini raddoppiati potrebbero arrivare a 12 anni (nel caso di 2012, fino al 2024, in extremis). In pratica, nel 2025 la gran parte delle situazioni anteriori al 2013 non sono più recuperabili dal punto di vista fiscale. Ciò non toglie però che l’Agenzia possa usare quei dati come elemento indiziario per annualità più recenti: ad esempio, se scopre che avevi 2 milioni su un conto nel 2012, può presumere che almeno una parte c’era ancora nel 2015 e contestarti da lì. Inoltre, attenzione: se quell’attività estera produceva redditi (interessi, ecc.), e questi flussi continuativi vanno avanti negli anni, potrebbe contestare le annualità ancora aperte (2018-2019-2020…) per quegli interessi. Quindi, pur non potendo formalmente farti pagare le imposte del 2012, userà l’informazione storica per rendere più robusta la presunzione su anni successivi (es. “aveva 2 milioni, sicuramente generavano redditi anche negli anni seguenti”). In sede penale, invece, i dati prescritti potrebbero essere considerati come prove del dolo (ad esempio, per dimostrare che occultavi capitali da lungo tempo). Ma fiscalmente, l’accertamento di imposta su anno prescritto è nullo. Un caso particolare: art. 5-octies DL 167/90 (introdotto nel 2015) prevedeva che in mancanza di voluntary disclosure, i capitali ancora esistenti al 31/12/2014 potessero essere tassati come reddito 2014 (a titolo figurativo). Norma molto aggressiva, ma di fatto confinata a quell’anno. Oggi non sarebbe applicabile retroattivamente oltre 2014. Dunque, per concludere: i periodi “chiusi” restano chiusi, salvo strascichi penali, ma il peso di quei capitali può farsi sentire su periodi aperti successivi tramite presunzioni di continuità.

D. Mi sono trasferito all’estero da un paio d’anni (iscritto AIRE) ma l’Agenzia insinua che sono ancora residente in Italia. Cosa posso fare per evitare di essere tassato in Italia sui redditi esteri?
R. La contestazione di residenza fittizia è molto comune. Per evitarla, devi documentare accuratamente la tua vita all’estero. Mantieni prove della tua presenza fisica (contratti d’affitto, bollette, abbonamenti, ricevute mediche, iscrizione palestra, qualsiasi traccia quotidiana) nel nuovo Paese. Se hai la famiglia, sarebbe importante averla con te all’estero; se invece famiglia e casa restano in Italia, il rischio di esterovestizione è altissimo. Un certificato di residenza fiscale rilasciato dal nuovo Stato può aiutare, ma non è risolutivo: conta dove hai il domicilio ai sensi civilistici (interessi personali). Per dormire tranquillo, potresti considerare di chiedere un interpello all’Agenzia delle Entrate sulla tua residenza fiscale (esiste la possibilità di interpello per evitare doppie imposizioni). Non è molto comune, ma in alcuni casi l’Agenzia risponde riconoscendo la non residenza se effettivamente provata. Attenzione alle presunzioni: se sei in un Paese black list (es. Montecarlo, UAE prima di toglierli da black list, ecc.), l’onere è invertito e devi portare prove ancora più solide . Un altro consiglio: non mantenere interessi economici significativi in Italia (es. partecipazioni societarie, cariche) se vuoi evitare contestazioni. Se li hai, valuta di formalizzare che operi come non residente (ad esempio, remunerare con compensi convenzionali soggetti a ritenuta alla fonte, ecc., per non dare adito a “centro interessi in Italia”). In generale, in caso di controllo, predisponi un dossier da consegnare al fisco con tutto: contratto di lavoro estero, buste paga estere, certificato di cancellazione anagrafica, iscrizione club locali, foto dell’appartamento estero arredato, ecc. Più elementi dai, più possibilità di convincerli o perlomeno di vincere in giudizio. E se il fisco insiste, potrai appellarti alla Convenzione contro doppie imposizioni (tie-breaker: se hai abitazione permanente solo all’estero, etc.). In estrema sintesi: la miglior difesa è vivere realmente all’estero. Se passi metà del tempo in Italia, possiedi casa qui e qui sta la famiglia, sarà difficile far credere il contrario a qualsiasi giudice, indipendentemente dai documenti.

D. Le criptovalute detenute su exchange esteri vanno indicate nel quadro RW? Anche se ho solo un wallet personale?
R. Sì, dal 2022 è obbligatorio. In realtà l’Agenzia Entrate già prima considerava le criptovalute assimilabili a valute estere, dunque soggette a RW se detenute all’estero (un exchange estero era considerato come “conto” estero). Però mancava una norma esplicita e molti non dichiaravano, specie se su wallet self-custody (chiavetta). La Legge di Bilancio 2023 ha messo nero su bianco che le cripto-attività sono oggetto di monitoraggio fiscale come attività finanziarie estere. Dunque vanno dichiarate, indipendentemente dal valore (la soglia €15k per non pagar IVAFE non esenta dall’obbligo di RW, come da istruzioni AdE). Il valore da indicare è quello di mercato al 31/12 (o al fine periodo detenzione). Se usi un wallet privato, formalmente sei sempre tu a detenere all’estero l’asset (in blockchain): l’Agenzia vuole che lo dichiari comunque. Non c’è IVAFE su crypto, ma l’omessa indicazione porta sanzione 3-15% del loro valore. Dunque, assolutamente sì, vanno nel RW. Per gli anni pre-2023 c’è spazio per discutere (alcune CTP han dato ragione a chi non dichiarava perché norma incerta), ma dal 2023 in poi nessuna scusa: l’obbligo è chiarissimo. Ricorda anche che le eventuali plusvalenze da cessione di crypto (conversione in euro o permuta con altra crypto) oltre 2.000€ annui ora sono tassate al 26%. Quindi, oltre a dichiarare la consistenza in RW, dovrai anche dichiarare in Redditi PF il capital gain se vendi crypto in utile oltre soglia. Questo se sei residente in Italia ovviamente. E con DAC8, entro qualche anno l’Agenzia saprà anche quante crypto hai su Binance o Kraken, quindi la compliance in questo campo diventerà tracciabile come per i conti correnti. Meglio adeguarsi subito.

D. L’Agenzia può contestarmi il reato di riciclaggio per aver detenuto soldi non dichiarati su conti esteri?
R. Di per sé, detenere soldi non dichiarati all’estero non è riciclaggio. Il riciclaggio (e l’autoriciclaggio) implica reimpiego di proventi da reato in attività volte a ostacolare la provenienza illecita. Nel caso di evasione fiscale, la giurisprudenza considera il mero occultamento di denaro all’estero come parte dell’evasione stessa, non un ulteriore riciclaggio, a meno che tu non compia azioni aggiuntive “ripulenti” (es. schermare con società off-shore per farli rientrare puliti in Italia: questo potrebbe configurare autoriciclaggio). Dopo l’introduzione dell’autoriciclaggio (art. 648-ter1 c.p.) nel 2015, si è discusso se chi trasferisce fondi frutto di evasione su conti esteri commetta autoriciclaggio. In genere, per configurarlo serve qualcosa in più della semplice detenzione: serve un’attività idonea a mascherare l’origine. Se, ad esempio, costituissi un trust fittizio per rientrare i soldi come eredità, quello potrebbe essere autoriciclaggio. Ma se ti limiti a tenere i soldi su un conto svizzero segreto, la tendenza è non configurarlo come autoriciclaggio (lo scopo di profitto è coincidente con l’evasione, mancherebbe il reimpiego “ulteriore”). C’è comunque poca giurisprudenza consolidata su questo fronte e molto dipende dalle circostanze. Il principio di specialità inoltre di solito fa assorbire nel reato tributario eventuali condotte connesse. Dunque, salvo casi elaborati, sarai perseguito per omessa/infedele dichiarazione, non per riciclaggio. Nota però: se parliamo di soldi di origine criminale (corruzione, traffico, ecc.), lì sì scatterà il riciclaggio oltre all’evasione.

D. Ho ricevuto un accertamento IRPEF basato su una lista bancaria estera rubata (tipo Lista Dubai). Posso contestarne la provenienza illecita?
R. Puoi provarci, ma la Cassazione è chiara: se i dati ti sono stati notificati tramite cooperazione ufficiale (ad esempio, l’autorità francese li ha trasmessi all’Italia), la prova è ammessa . Il contribuente di solito eccepisce la violazione di privacy e la natura illecita della fonte, ma finora i giudici tributari (seguendo Cassazione) hanno respinto tali eccezioni: conta che l’Amministrazione italiana li ha ottenuti per via legale. Fanno eccezione situazioni in cui si dimostri che l’Agenzia ha partecipato all’illecito (es. pagando illecitamente un informatore): in tal caso la prova sarebbe inutilizzabile. Ma se i dati provenivano da un leak internazionale consegnato da uno Stato straniero all’Italia, la tua difesa su questo punto difficilmente passerà. Conviene concentrarsi su altri aspetti (es. incompletezza o non riferibilità certa a te di quei dati). Ad esempio, se la lista è frammentaria, sottolineare che mancano elementi; oppure contestare l’identificazione (ci sono casi di omonimia). Ma la contestazione “non potete usare questi dati perché rubati” è destinata all’insuccesso quasi certo alla luce dei precedenti . Ricorda però di verificare che effettivamente l’acquisizione da parte italiana sia avvenuta via canali ufficiali: se emergesse che li hanno avuti sottobanco e non attraverso una richiesta o scambio spontaneo previsto, allora potresti sollevare il tema dell’inutilizzabilità. In pratica però l’Agenzia si copre sempre con un qualche protocollo formale per sanitizzare la provenienza.

D. In caso di voluntary disclosure (collaborazione volontaria) quali vantaggi ci sono rispetto a subire l’accertamento?
R. La collaborazione volontaria (le due edizioni 2015 e 2017) offriva diversi vantaggi: intanto escludeva i reati penali tributari (dich. infedele, omessa, falsità in atti) relativi alle violazioni emerse, purché il contribuente pagasse tutto il dovuto . Inoltre riduceva le sanzioni amministrative (generalmente raddoppiate a metà del minimo). Ad esempio, chi aderì pagò il 3% annuo al posto del 15% per RW, e il 30% al posto del 90% per imposte evase. Altro beneficio era la possibilità di ottenere il credito per imposte estere pagate anche se non dichiarate originariamente: l’Agenzia con circ. 9/E/2015 ammise che in VD il reddito regolarizzato va considerato “dichiarato” ai fini art. 165 TUIR, dunque spetta il credito . Lo stesso principio la Cass. 798/2023 l’ha fatto valere per il rimborso dell’euroritenuta . Infine, la VD evitava il name and shame (lista Falciani e simili divulgate sui giornali) e possibili contestazioni più gravi (riciclaggio) perché dimostravi spontaneamente ravvedimento. Oggi non c’è una VD aperta, ma c’è sempre il ravvedimento operoso ordinario: se usi quello, non hai il penale garantito salvo paghi tutto prima di eventuali contestazioni (il 13-bis DLgs 74/2000 richiede pagamento integrale per non punibilità). Le sanzioni le paghi ridotte ma non quanto in VD (nel ravvedimento standard, ad esempio la sanzione RW la riduci da 15% a 1/8 = 1.875% per anno per violazioni più vecchie). Insomma, la VD era più conveniente e “protettiva”. Subire l’accertamento invece significa pagare sanzioni piene (salvo riduzioni in adesione), rischiare il penale se soglie superate, e giocarsi la difesa in giudizio incerti. Certo, con una buona difesa potresti ottenere annullamento parziale, ma è una lotteria. Quindi, se mai dovessero riaprire una VD ter, valutala seriamente. Per ora, chi vuole sanare può ricorrere al ravvedimento (che ha i suoi limiti: non applicabile se la violazione è già nota al fisco, va fatto prima di notifica accertamento). Comunque, l’esperienza VD ha insegnato che chi l’ha fatta dorme sonni tranquilli, chi non l’ha fatta spesso oggi è nei guai con accertamenti e cause.

D. Che cos’è l’interpello internazionale e quando conviene usarlo?
R. Per “interpello internazionale” si intende normalmente l’interpello del contribuente su questioni cross-border rivolto all’Agenzia delle Entrate (art. 11 L. 212/2000 e DM 196/2017). Ci sono varie tipologie: l’interpello sui nuovi investimenti (per chi investe almeno €20 milioni e crea occupazione, può chiedere un parere preventivo su aspetti fiscali, inclusa la stabile organizzazione, residenza, ecc.); l’interpello disapplicativo CFC (art. 167(5) TUIR: il contribuente prova che la controllata estera ha attività economica effettiva e chiede di non applicare tassazione per trasparenza); l’interpello sui dividendi black list (ora meno rilevante dopo abolizione tax credit extra); e in generale l’interpello ordinario su dubbi interpretativi riguardanti convenzioni internazionali o normative transfrontaliere. Conviene usarlo in situazioni di pianificazione ex ante: ad esempio, hai una holding in Olanda e vuoi trasferire la residenza in Italia mantenendo la holding all’estero, puoi interpellare per sapere se configurerà CFC o meno. Oppure hai un trust estero e vuoi chiarimenti sul trattamento fiscale per i beneficiari italiani. L’Agenzia risponde entro 120-180 giorni, e la risposta ti vincola (se positiva, sei al riparo da contestazioni su quel punto; se negativa, puoi comunque adeguarti o disattendere e rischiare il contenzioso). Insomma, l’interpello è una sorta di “assicurazione” preventiva: se hai un caso complesso e vuoi evitare incertezza, presentare interpello è saggio. Non costa se non la parcella del consulente che lo prepara, ma può farti risparmiare cause lunghe. Va presentato prima di realizzare l’operazione o comunque prima che l’Agenzia ti contesti qualcosa. Esempio pratico: un imprenditore italiano che costituisce una società in Emirati per business reale può fare interpello per confermare che quella società non sarà considerata esterovestita perché dimostra struttura effettiva. Se l’Agenzia concorda, non avrà poi problemi. Se l’Agenzia invece rispondesse negativamente, almeno saprebbe di dover ristrutturare diversamente il setup (oppure accettare il rischio e predisporre difese). In definitiva, conviene usare l’interpello quando in gioco c’è tanta imposta potenziale e la normativa non è chiara o lascia margini di discrezionalità al Fisco. Nel contesto internazionale italiano, casi tipici sono: disapplicare CFC, certificare residenza fiscale in uscita/entrata, ruling per regime impatriati o non-dom, trattamento di trust esteri particolari, applicazione di convenzioni su dividendi/interessi. Tenere presente però che l’interpello non è un negoziato: devi esporre i fatti e attendi una risposta tecnica, non puoi “trattare” su quella (diverso è il ruling sui nuovi investimenti dove c’è dialogo).

Conclusione: La materia degli accertamenti esteri è complessa ma, come abbiamo visto, non priva di tutele per il contribuente. La difesa efficace richiede un mix di conoscenza normativa, analisi tecnica dei dati finanziari, capacità di reperire prove e padronanza delle procedure. Aggiornarsi sulle ultime novità (OCSE, UE, sentenze) è fondamentale, perché il quadro è in continua evoluzione. Questa guida, aggiornata al 2025, vi ha fornito gli strumenti e i riferimenti per affrontare al meglio eventuali contestazioni su patrimoni esteri: con una strategia ben strutturata e documentata, è possibile spesso ottenere esiti soddisfacenti – che sia l’annullamento di un atto infondato o una transazione equa per sanare il pregresso – proteggendo al contempo i propri diritti di contribuenti e, in ultima analisi, il proprio patrimonio.

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate a seguito dello scambio automatico di informazioni estere (CRS, FATCA, DAC6)? Fatti Aiutare da Studio Monardo

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👉 Prima regola: verifica la correttezza dei dati trasmessi dagli Stati esteri, perché spesso contengono errori che possono portare ad accertamenti infondati.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Conti correnti, depositi o investimenti all’estero non dichiarati nel quadro RW;
  • Dividendi, interessi o plusvalenze esteri non riportati nella dichiarazione dei redditi;
  • Dati trasmessi da intermediari esteri che non coincidono con quelli dichiarati;
  • Utilizzo di strutture societarie estere considerate “schermo” per occultare redditi;
  • Segnalazioni derivanti da operazioni sospette nell’ambito di scambio multilaterale di informazioni.

📌 Conseguenze dell’accertamento

  • Recupero delle imposte su redditi esteri non dichiarati;
  • Sanzioni per monitoraggio (dal 3% al 15% delle attività estere, fino al 30% per paradisi fiscali);
  • Interessi di mora sulle somme dovute;
  • Possibili contestazioni penali per dichiarazione infedele o omessa dichiarazione;
  • Maggiori controlli su più annualità fiscali.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • I dati ricevuti dall’estero sono corretti o presentano errori di trascrizione/importo?
  • Le somme si riferiscono a redditi imponibili o a semplici trasferimenti di capitale?
  • Il reddito era già tassato in Italia o all’estero con diritto al credito d’imposta?
  • I termini di accertamento sono stati rispettati?
  • L’Agenzia ha motivato l’atto in modo completo o ha usato presunzioni generiche?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Estratti conto bancari esteri;
  • Certificazioni di redditi e ritenute fiscali estere;
  • Contratti di investimento e documentazione societaria;
  • Dichiarazioni fiscali italiane ed estere;
  • Convenzioni contro le doppie imposizioni applicabili.

🛠️ Strategie di difesa aggiornate

  • Dimostrare che i dati esteri sono errati o incompleti;
  • Contestare la presunzione automatica di reddito occulto in presenza di semplici capitali;
  • Richiedere il riconoscimento del credito d’imposta estero per evitare la doppia imposizione;
  • Utilizzare il ravvedimento operoso per correggere omissioni formali riducendo le sanzioni;
  • Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
  • Difesa penale mirata se l’accertamento si traduce in accuse di evasione internazionale.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza i dati ricevuti tramite scambio internazionale e li confronta con le tue dichiarazioni;
📌 Valuta la fondatezza della contestazione e individua le irregolarità dell’accertamento;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste nei giudizi fiscali e nei procedimenti penali collegati;
🔁 Suggerisce strategie preventive per la gestione corretta degli investimenti e dei redditi esteri.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e contenzioso tributario;
✔️ Professionista per la difesa contro accertamenti derivanti dallo scambio di informazioni estere;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Gli accertamenti fiscali basati sullo scambio di informazioni estere non sempre sono affidabili: errori, duplicazioni o interpretazioni scorrette sono frequenti.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la corretta tassazione dei redditi, ridurre sanzioni e interessi ed evitare la doppia imposizione.

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