Agenzia Delle Entrate Accerta Sottofatturazione Nei Lavori Edili: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per presunta sottofatturazione nei lavori edili? In questi casi, l’Ufficio presume che l’importo fatturato sia inferiore a quello effettivamente incassato dall’impresa edile, con lo scopo di ridurre il reddito imponibile e l’IVA dovuta. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero delle imposte, applicazione di sanzioni elevate e possibili contestazioni penali in caso di frode fiscale. Tuttavia, non sempre l’accertamento è legittimo: con una difesa ben costruita è possibile dimostrare la correttezza delle fatture emesse o ridurre sensibilmente l’impatto delle sanzioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta la sottofatturazione nei lavori edili
– Se i corrispettivi dichiarati risultano sproporzionati rispetto ai prezzi di mercato
– Se vi sono incongruenze tra i contratti d’appalto, i computi metrici e le fatture emesse
– Se i pagamenti effettivi risultano superiori agli importi fatturati
– Se l’Ufficio rileva movimenti bancari non coerenti con le registrazioni contabili
– Se emerge il sospetto che parte dei lavori sia stata pagata “in nero”

Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione delle somme ritenute non fatturate
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Rettifica dei bilanci e inserimento dell’impresa in liste di controllo
– Nei casi più gravi, denuncia penale per dichiarazione fraudolenta o utilizzo di fatture per operazioni parzialmente inesistenti

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la corrispondenza tra i lavori svolti e le fatture emesse
– Produrre contratti, computi metrici, certificati di pagamento e documentazione bancaria
– Contestare i metodi di ricostruzione presuntiva dei ricavi adottati dall’Ufficio
– Evidenziare vizi di motivazione, errori di calcolo o difetti istruttori nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione della contestazione in termini meno gravosi
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione contabile, contrattuale e tecnica dei lavori contestati
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta qualificazione dei corrispettivi
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e vizi procedurali
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da conseguenze fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della regolarità delle fatture emesse e dei corrispettivi dichiarati
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto per legge

⚠️ Attenzione: la sottofatturazione nei lavori edili è uno dei fenomeni più controllati dal Fisco, spesso oggetto di verifiche mirate e accertamenti incrociati. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e documentata per evitare conseguenze fiscali e penali molto gravi.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e penale tributario – spiega come difendersi in caso di contestazioni per sottofatturazione nei lavori edili e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.

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Introduzione

La sottofatturazione nei lavori edili si verifica quando l’impresa esecutrice dei lavori emette fatture per un importo inferiore al corrispettivo reale, spesso con l’accordo tacito del committente privato, allo scopo di ridurre la base imponibile e pagare meno imposte (IVA, imposte sui redditi, imposte di registro) . In altre parole, parte del pagamento avviene “in nero”, senza adeguata documentazione fiscale. Questo fenomeno è diffuso nel settore edile, specie in operazioni di ristrutturazione o compravendita immobiliare tra imprese e privati, ma costituisce un’evasione fiscale a tutti gli effetti. Dal punto di vista del debitore d’imposta (ossia l’impresa o il contribuente a cui l’Agenzia delle Entrate contesta maggiori tributi), è fondamentale comprendere i poteri del Fisco, la normativa applicabile e le possibili strategie difensive per evitare o limitare conseguenze sfavorevoli.

Negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli nel settore edilizio, utilizzando strumenti presuntivi come le quotazioni dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI) e altri indicatori parametrici, nonché indagini finanziarie, per individuare casi di corrispettivi dichiarati inferiori ai valori reali. Allo stesso tempo, la giurisprudenza tributaria – dalle Commissioni Tributarie Regionali fino alla Corte di Cassazione – ha fissato principi chiave su cosa il Fisco può e non può fare in materia, di accertamenti basati su presunzioni. In questa guida avanzata, rivolta ad avvocati, imprenditori ed anche privati informati, esamineremo la normativa italiana vigente (aggiornata ad agosto 2025) e le più recenti sentenze in materia, per capire come difendersi efficacemente da un accertamento per sottofatturazione nei lavori edili. Il taglio sarà giuridico ma con intento divulgativo, includendo esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione di domande e risposte per chiarire i dubbi più comuni.

Normativa e poteri del Fisco in caso di corrispettivi sottofatturati

Per contestare una sottofatturazione, l’Amministrazione finanziaria fa riferimento alle norme generali in tema di accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA. In particolare, il D.P.R. 600/1973 disciplina l’accertamento delle imposte dirette, mentre il D.P.R. 633/1972 disciplina l’accertamento IVA. Queste norme attribuiscono agli uffici finanziari il potere di rettificare le dichiarazioni dei contribuenti quando emergano elementi che indicano componenti positivi di reddito non dichiarati. Nel contesto di un’impresa edile, ciò significa che l’Agenzia delle Entrate può contestare un maggiore ricavo imponibile rispetto a quello fatturato, se dispone di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti che facciano ritenere il corrispettivo effettivo più alto di quello indicato nelle fatture .

Va premesso che fino a qualche anno fa la normativa aveva previsto – per un breve periodo – una sorta di presunzione legale a favore del Fisco basata sul “valore normale” dei beni immobili. In particolare, con il decreto-legge n. 223/2006 (c.d. “Visco-Bersani”) era stata introdotta la facoltà per l’ufficio di presumere l’infedeltà di una dichiarazione quando vi fosse scostamento tra il corrispettivo dichiarato e il valore normale di mercato dell’immobile ceduto (determinato anche sulla base dei listini OMI) . Tuttavia, tale presunzione legale è stata successivamente abrogata dalla Legge Comunitaria 2008, a seguito di rilievi di incompatibilità con il diritto UE (specie in materia IVA) . Come chiarito dall’Agenzia delle Entrate stessa nella circolare n. 18/E del 14 aprile 2010, dopo la modifica normativa lo scostamento tra corrispettivo dichiarato e valore OMI è tornato ad avere mera valenza di presunzione semplice, utilizzabile solo se supportata da altri elementi concreti . In pratica, dal 2009 in poi, l’ufficio non può più basare da solo l’accertamento su questa differenza di valore, ma deve raccogliere ulteriori prove (come ad esempio l’esistenza di un mutuo di importo superiore al prezzo dichiarato, risultanze di indagini finanziarie che dimostrino pagamenti extra, atti comparabili relativi allo stesso immobile, etc.) .

Norme cardine sull’accertamento – L’art. 39 del D.P.R. 600/1973 disciplina l’accertamento induttivo dei redditi d’impresa. In particolare: – Accertamento analitico: secondo il comma 1, l’ufficio può rettificare il reddito dichiarato analiticamente (voce per voce) se riscontra elementi passivi fittizi o la mancata contabilizzazione di elementi attivi. In caso di sottofatturazione, ciò si traduce nella possibilità di aggiungere ai ricavi dichiarati il maggior importo non fatturato, rettificando conseguentemente IVA e imposte sui redditi dovute. – Accertamento analitico-induttivo: sempre l’art. 39, comma 1, lett. d), consente un approccio misto quando le scritture contabili, pur formalmente tenute, presentino inattendibilità parziali (omissioni, irregolarità o dati incompleti). Se un’impresa edile ha tenuto i registri ma vi è il sospetto fondato di ricavi non registrati (ad es. per via di pagamenti in nero), il Fisco può utilizzare presunzioni semplici purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza per ricostruire il reddito. La Cassazione ha chiarito che anche in presenza di contabilità formalmente regolare, è legittimo il ricorso a presunzioni gravi e concordanti – come una gestione manifestamente antieconomica – per desumere l’esistenza di ricavi non dichiarati . In altre parole, libri contabili in ordine non sono uno scudo assoluto se i dati in essi contenuti appaiono irragionevoli (es. sistematiche perdite, utili irrisori rispetto ai costi) o contraddetti da elementi fattuali. – Accertamento induttivo “puro”: disciplinato dal comma 2 dell’art. 39, scatta nei casi più gravi (contabilità totalmente assente, scritture totalmente inattendibili o omissioni gravi e ripetute). Qui l’ufficio può prescindere in toto dalle risultanze contabili e determinare il reddito d’impresa sulla base di dati e coefficienti presuntivi o altri elementi. Per fortuna del contribuente, una singola sottofatturazione isolata non legittima di per sé l’accertamento induttivo puro di tutto il reddito, se la restante contabilità è affidabile: la Suprema Corte ha infatti affermato che servono irregolarità gravi, ripetute e numerose per giustificare lo scarto integrale delle scritture . Un solo episodio di fattura inferiore al dovuto, in assenza di altre anomalie, non rende per definizione inattendibile l’intera contabilità dell’impresa .

Anche il D.P.R. 633/1972 (IVA) conteneva una norma analoga (art. 54, terzo comma) introdotta nel 2006 per le cessioni di immobili, che consentiva la rettifica dell’IVA dovuta in base al valore normale. Dopo l’abrogazione del 2008, oggi l’accertamento IVA per operazioni tra parti non legate deve basarsi su prove concrete di corrispettivi superiori. Non esiste più nel nostro ordinamento una “soglia minima di valore normale” legale per le transazioni immobiliari o d’appalto: le quotazioni di mercato restano indizi prive di autonomia probatoria. Pertanto, in caso di verifica, l’Agenzia delle Entrate deve raccogliere un insieme di elementi tali da far presumere in modo robusto l’occultamento di parte del corrispettivo.

Dal punto di vista procedurale, è utile ricordare che l’emissione di un avviso di accertamento deve essere motivata indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che giustificano la rettifica (art. 7 della L. 212/2000, Statuto del Contribuente). In passato, l’ufficio poteva limitarsi a indicare il “criterio di valutazione” adottato (es. comparazione con altri valori di mercato) per adempiere all’obbligo motivazionale . Oggi, a seguito di riforme recenti, è richiesto un maggior sforzo motivazionale. In particolare, il d.lgs. 30 dicembre 2023 n. 219 ha inserito l’art. 6-bis nello Statuto del Contribuente, imponendo una “motivazione rafforzata” per gli atti impositivi: l’ufficio deve confutare in modo puntuale le osservazioni e giustificazioni fornite dal contribuente in sede pre-contenziosa (ad esempio in risposta a un questionario o a un invito al contraddittorio) . Questa norma, tuttavia, non ha efficacia retroattiva ; quindi, per gli accertamenti emessi prima della sua introduzione, resta valido che l’indicazione del criterio di calcolo utilizzato (es. il metodo comparativo con altri valori di mercato) era considerata sufficiente a motivare l’atto, purché il contribuente fosse stato messo in grado di comprenderne la logica.

Tabella 1 – Tipologie di accertamento fiscale e presupposti (D.P.R. 600/1973)

Tipo di accertamentoQuando si applicaCaratteristiche
Analitico (art. 39 c.1)Scritture regolari ma alcuni elementi di reddito non dichiarati (es. ricavo non fatturato)Rettifica mirata delle singole voci (maggiori ricavi o minori costi). L’onere della prova specifica grava sul Fisco.
Analitico-induttivo (art. 39 c.1 lett. d*)Scritture formalmente regolari ma attendibilità sostanziale messa in dubbio da indizi gravi (es. margini irrisori, anomalie)Ricostruzione parziale mediante presunzioni semplici gravi, precise e concordanti. Si utilizzano dati extra-contabili per colmare le lacune.
Induttivo puro (art. 39 c.2*)Contabilità assente o totalmente inattendibile per gravi irregolarità ripetute (es. doppie scritture, più vendite non fatturate)Determinazione globale del reddito su basi presuntive (indicatori di settore, coefficienti, etc.), ignorando del tutto i dati forniti dal contribuente. Richiede presupposti rigorosi.

(Nota: l’accertamento induttivo puro ex art. 39 c.2 consente anche di prescindere dalle risultanze dei registri IVA e di altre imposte indirette, se gli obblighi contabili non sono stati rispettati. In materia di IVA, l’art. 54 D.P.R. 633/72 ha portata simile.)

Sottofatturazione nei lavori edili: scenari tipici e indici di anomalia

Nel settore delle costruzioni e ristrutturazioni, la sottofatturazione può assumere diverse forme, che è utile distinguere perché il modus operandi del Fisco nel contestarle può variare leggermente:

  • Appalto di lavori tra impresa e privato: È il caso classico in cui un privato (committente) affida lavori edili ad un’impresa (appaltatore) e concorda un certo prezzo, ma una parte non viene fatturata. Ad esempio, su 100.000 € di lavori pattuiti, solo 60.000 € sono fatturati regolarmente (soggetti a IVA e dichiarati come ricavo), mentre i restanti 40.000 € vengono pagati “fuori busta” in contanti. Il privato accetta in cambio di uno sconto (risparmiando l’IVA su quella parte) e l’impresa occulta quel ricavo riducendo il carico fiscale. Questo scenario è frequente nelle ristrutturazioni edilizie di abitazioni, opere di manutenzione straordinaria, rifacimenti, ecc., specie quando il committente non necessita di portare in detrazione fiscale l’intera spesa (o nei casi in cui, ad esempio, non può beneficiare appieno dei bonus ristrutturazione e preferisce uno sconto immediato).
  • Vendita immobiliare sottofatturata (immobile nuovo o ristrutturato): Un’impresa edile potrebbe vendere un immobile (es. un appartamento di nuova costruzione o frutto di frazionamento) ad un acquirente privato indicandone in atto un prezzo inferiore a quello effettivo pagato. Ad esempio, l’atto notarile riporta € 150.000, ma l’acquirente versa in realtà € 180.000, con € 30.000 non dichiarati. In questo caso, oltre all’IVA (che sull’atto è calcolata su 150.000 anziché 180.000), è coinvolta anche l’imposta di registro (per le cessioni soggette a IVA l’imposta di registro è fissa, ma se l’operazione non fosse soggetta a IVA, l’imposta di registro proporzionale verrebbe calcolata su un valore più basso). Va detto che per le compravendite di abitazioni tra privati e costruttore, esiste il “criterio del prezzo-valore” (facoltativo per l’acquirente persona fisica) che consente di pagare l’imposta di registro sul valore catastale anziché sul prezzo; tuttavia questo non incide sull’IVA né sulle imposte dirette dell’impresa, quindi una sottofatturazione rimane comunque rilevante ai fini del reddito d’impresa dichiarato dal venditore.
  • Opere extracontrattuali o varianti in corso d’opera: Può accadere che, pur partendo da un contratto regolare, durante i lavori il committente richieda extra o varianti (ad esempio finiture di maggior pregio, lavori aggiuntivi) che vengono pagate a parte senza fattura. In tal caso l’importo “in nero” non risulta né sul contratto né su eventuali atti registrati, ma può emergere da altri indizi (e-mail, preventivi non seguiti da fattura, movimentazione di materiali, ecc.). Questo scenario è più subdolo ma comunque frequente: il contratto ufficiale copre un certo importo, ma l’impresa e il cliente si accordano a parte per lavori aggiuntivi off-record.

Indipendentemente dallo scenario specifico, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza monitorano una serie di indicatori di anomalia che possono far scattare l’accertamento: – Disallineamento tra costi e ricavi dichiarati: se un’impresa edile presenta margini estremamente ridotti o addirittura dichiarasse perdite a fronte di un discreto volume di lavori, il comportamento potrebbe apparire antieconomico. La Cassazione considera antieconomicità un sintomo di possibile evasione: in più pronunce, ha ritenuto legittimo presumere ricavi non dichiarati quando l’operatore economico agisce apparentemente in perdita o con utili “troppo bassi” rispetto ai costi sostenuti . Ad esempio, la Cass. sez. V, ord. n. 13029/2025 ha confermato un accertamento induttivo verso un imprenditore edile che per più anni consecutivi aveva dichiarato perdite significative pur operando in una zona di alta potenzialità economica, con costi fissi ingenti a fronte di ricavi esigui . Un simile track record rende inattendibile la contabilità, a meno che il contribuente fornisca spiegazioni convincenti (ad es. un evento eccezionale che ha generato quelle perdite). – Valori anomali rispetto agli standard di mercato: il Fisco dispone dei dati OMI, che forniscono forchette di valori al metro quadro per immobili nelle varie zone, distinguendo per stato d’uso (nuovo/ristrutturato, normale, da ristrutturare, etc.). Se un’abitazione ristrutturata di 100 mq in centro a Milano viene venduta sulla carta per 100.000 €, mentre i valori OMI indicano almeno 3.000 €/mq per immobili similari (quindi 300.000 € totali), è evidente che c’è qualcosa che non torna. Analogamente, esistono listini dei costi di costruzione (spesso redatti da Camere di Commercio o enti specializzati) che indicano un costo medio al mq per ristrutturazioni o nuove costruzioni. Un ufficio accertatore potrebbe confrontare il costo dichiarato in un titolo abilitativo edilizio o in un capitolato con quanto fatturato: se si dichiara di aver rifatto impianti, pavimenti, infissi di un appartamento intero per 10.000 €, dove a prezzi di mercato quell’intervento ne vale magari 40.000, il sospetto di pagamenti in nero è elevato. – Quotazioni OMI incongruenti col prezzo dichiarato: le quotazioni OMI, come vedremo in dettaglio, non costituiscono prova certa, ma sono certamente un campanello d’allarme. Se la vendita di un immobile o il valore di una ristrutturazione dichiarato risulta inferiore di, poniamo, il 50% rispetto al minimo della forchetta OMI per quella zona e tipologia, l’ufficio potrebbe procedere a un’analisi più approfondita e utilizzare lo scostamento come indizio, da corroborare con altre informazioni. – Mutui e flussi finanziari: uno dei riscontri più immediati è l’importo del mutuo o dei pagamenti bancari. Se l’acquirente privato ha ottenuto un mutuo di importo superiore al prezzo dichiarato nell’atto (es. mutuo di € 160.000 a fronte di un prezzo ufficiale di € 150.000) o se ha effettuato bonifici e prelievi anomali, ciò indurrà l’ufficio a chiedere spiegazioni. Nelle ristrutturazioni, se il committente ha beneficiato di detrazioni fiscali (bonus casa) sui bonifici parlanti per € 50.000, ma poi si scopre che ha sostenuto costi extra in contanti, potrebbe emergere una discrasia tra l’importo dei lavori effettivamente eseguiti e quello ufficialmente pagato. Le indagini finanziarie condotte dal Fisco possono portare alla luce movimenti sospetti: ad esempio, prelievi di contante da parte del cliente nei giorni antecedenti ai pagamenti, oppure versamenti inspiegabili sui conti dell’imprenditore (o prelievi di quest’ultimo corrispondenti temporalmente ai lavori, se poi usati per pagare manodopera irregolare). – Documentazione tecnica o amministrativa: in alcuni casi gli atti amministrativi possono tradire il reale importo dei lavori. Ad esempio, nella richiesta di un permesso di costruire o di una SCIA, se il proprietario ha indicato un valore dei lavori molto superiore a quello poi fatturato dall’impresa, il Comune stesso potrebbe segnalarlo (anche perché su quell’importo si calcolano oneri urbanistici e diritti comunali). Oppure, se esiste una perizia di una banca (nell’ambito di un mutuo) che stima l’immobile post-ristrutturazione ad un valore incompatibile con la spesa dichiarata, tale perizia può essere acquisita dal Fisco. Esempio: un appartamento valeva 100 prima, la banca dopo i lavori lo valuta 180, ma le fatture ammontano a soli 50 – è plausibile che i lavori siano costati di più del dichiarato. – Utilizzo del personale e dei materiali: la Guardia di Finanza, soprattutto in sede di verifica in cantiere, può rilevare la presenza di operai o materiali non coerenti con quanto fatturato. Se un’impresa fattura solo 10 giornate di lavoro per un cantiere, ma si scopre che vi hanno operato 5 dipendenti per un mese, è palese che il lavoro svolto è molto maggiore di quanto riportato nei documenti ufficiali. Analogamente, si può confrontare la quantità di materiali acquistati (desumibile dalle fatture di acquisto dell’impresa) con quelli che sarebbero teoricamente necessari per i lavori fatturati: l’acquisto di 100 mq di piastrelle a fronte di soli 50 mq di pavimento dichiarati lascia intendere che c’è un’area non fatturata.

In sintesi, il Fisco incrocia diversi dati e segnali: non fa affidamento su un singolo numero anomalo, ma mette insieme i pezzi del puzzle per sostenere che la sottofatturazione è avvenuta. Dal lato del contribuente, conoscere questi meccanismi è utile per capire dove possono annidarsi le contestazioni e come eventualmente prevenirle (ad esempio, mantenendo documentazione che giustifichi eventuali prezzi più bassi, come uno sconto motivato da difetti o lavori svolti in economia dal proprietario stesso, ecc.).

L’utilizzo delle quotazioni OMI e di altri parametri nelle rettifiche fiscali

Uno degli strumenti più citati negli accertamenti immobiliari ed edilizi è l’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI), gestito dall’Agenzia delle Entrate. L’OMI pubblica semestralmente le quotazioni dei valori immobiliari per zona omogenea, per diverse tipologie di immobili (residenziale, commerciale, ecc.) e per stato conservativo (nuovo/ristrutturato, normale, scadente). Questi valori, espressi tipicamente in €/mq (o €/mc), forniscono una forchetta minima/massima riscontrata sul mercato per compravendite nella zona e periodo considerati. Analoghi indicatori di riferimento possono essere: – i prezzari delle Camere di Commercio per le costruzioni (ad esempio listini dei costi delle opere edili al mq per ristrutturazioni di bagni, rifacimento tetti, ecc.); – gli “studi di settore” (oggi evoluti negli Indici Sintetici di Affidabilità fiscale – ISA) specifici per l’edilizia, che storicamente fornivano range di redditività attesa in base a caratteristiche dell’impresa; – le banche dati notarili su atti di compravendita comparabili (ad es. l’ufficio può reperire rogiti di immobili simili nella stessa area per confrontarne i prezzi).

È importante chiarire subito il valore probatorio di tali parametri: la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che nessuno di essi, isolatamente considerato, possa fondare da solo un accertamento. Le quotazioni OMI, in particolare, sono ritenute mere presunzioni semplici: rappresentano “valori di larga massima”, utili come ausilio o indicatore, ma non costituiscono prova certa del valore di un bene o di un corrispettivo occulto . La CTR Lombardia, con una decisione esemplare (Sent. Comm. Trib. Reg. Lombardia, Sez. 24, n. 2241/2018), ha affermato testualmente che i listini OMI “rappresentano meri elementi presuntivi semplici e, come tali, non idonei a fondare un accertamento di maggior valore, se non corroborati da altri elementi di prova che tengano in considerazione le specificità concrete del bene” . In quel caso, relativo alla compravendita di un negozio, l’Agenzia delle Entrate aveva rettificato il valore dichiarato (€ 70.000) portandolo a € 121.500 basandosi sulle quotazioni medie OMI, sul prezziario locale e su atti comparativi. La Commissione Tributaria ha annullato la rettifica proprio perché l’Ufficio non aveva adeguatamente considerato le peculiarità del caso concreto (il negozio era interno a una corte, quindi con minor valore commerciale, e in condizioni ordinarie, non ottime) e si era basato su dati standard senza apportare i dovuti correttivi . In appello, la CTR ha confermato che l’uso dei valori OMI senza adattamento al contesto specifico rende l’accertamento illegittimo .

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito lo stesso concetto, soprattutto con riferimento alle imposte sugli immobili: – Cass. ord. n. 13992/2019: ha dichiarato illegittimo un avviso di liquidazione basato esclusivamente sulle quotazioni OMI per rettificare il valore di vendita di un immobile, ritenendo che tale scostamento debba essere accompagnato da ulteriori elementi indiziari “gravi, precisi e concordanti” . La Corte ha sottolineato che le stime OMI non sono una fonte tipica di prova, ma al più uno strumento di ausilio che fornisce indicazioni di massima . In definitiva, un atto impositivo basato solo sul confronto OMI è viziato per difetto di motivazione e prova . – Cass. sez. V, n. 14117/2018: richiamata anche nella pronuncia sopra, ha chiarito che il semplice riferimento ai valori OMI non integra la prova della pretesa tributaria, rappresentando “solo valori di massima e non la prova della pretesa erariale” . Ne consegue l’onere per l’Amministrazione di fornire ulteriori elementi idonei a dimostrare il maggior corrispettivo non dichiarato . – Cass. ord. n. 1580/2021: ha confermato l’orientamento, ribadendo che le quotazioni OMI sono dati indicativi con valore indiziario e non possono da sole supportare un accertamento senza altri riscontri concreti (nel testo si richiama proprio Cass. 14117/2018 su questo punto). – Cass. ord. n. 6870/2023: in tema di accertamenti basati su OMI, ha nuovamente affermato che tali valori hanno natura di indizi semplici di evasione e che l’ufficio deve produrre elementi ulteriori o dimostrare circostanze specifiche del caso per poter legittimamente presumere un maggior corrispettivo. (Questa ordinanza del 2023 – pur non riportata testualmente qui – è stata segnalata dalla stampa specializzata come ennesima conferma del principio).

In parallelo, le Commissioni Tributarie di merito hanno spesso annullato avvisi fondati su parametri standard quando il contribuente ha opposto elementi contrari. Nel caso citato della CTR Lombardia 2018, ad esempio, l’impresa acquirente aveva prodotto una perizia di stima giurata che motivava il prezzo più basso tenendo conto dello stato dell’immobile e di un necessario abbattimento del 30% dei valori OMI . Questo ha convinto i giudici che la valutazione dell’ufficio fosse astratta e non pertinente alla realtà del bene .

In conclusione su OMI e parametri generali: essi possono al più costituire un campanello d’allarme o una base di partenza per l’accertamento, ma sul piano del contenzioso devono necessariamente essere integrati da prove più concrete: – documentazione specifica (es. atti di comparabili allegati all’avviso, con descrizione dettagliata che attesti la reale similitudine con il bene oggetto di causa ), – oppure ulteriori indagini (es. l’esito di una verifica in cantiere, testimonianze, ecc.).

L’ufficio che si limita a citare valori standard commette un errore metodologico. Lo stesso Provvedimento del Direttore dell’Agenzia del 27/7/2007 (emanato dopo la Finanziaria 2007 per individuare i criteri di stima) prevedeva che le quotazioni OMI dovessero essere integrate con altri criteri e dati : segno che il legislatore non intendeva farne l’unico metro di rettifica neppure quando esisteva la norma sul valore normale. Dopo l’abrogazione di tale norma, ancor di più i valori OMI sono tornati ad essere un mero riferimento di contesto.

Tabella 2 – Valore indiziario degli elementi standard (OMI e altri) secondo la giurisprudenza

Elemento di riferimentoValore probatorioRiferimenti giurisprudenziali
Quotazioni immobiliari OMIIndizio semplice di possibile evasione. Da sole non provano un maggior corrispettivo; richiedono ulteriori riscontri.Cass. 13992/2019 ; Cass. 14117/2018 ; CTR Lombardia 2241/2018 .
Listini/prezzari edilizi (CCIAA, ecc.)Indizio generico di incongruità dei costi dichiarati. Necessitano di adattamento al caso concreto (tipo di lavori, data, luogo).CTR Lombardia 2241/2018 (prezziario CCIAA non attualizzato e non adattato allo stato effettivo dell’immobile) .
Atti di vendita comparabiliPossono costituire presunzioni utili solo se realmente comparabili (stessa zona, caratteristiche analoghe, epoca vicina) e se allegati/motivati nell’avviso.CTR Lombardia 2241/2018 (contestazione per mancanza di allegazione atti comparati e assenza di descrizione per verificarne la comparabilità) . Cass. 4363/2011 (valore venale va accertato su base comparativa con atti non oltre 3 anni, opportunamente contestualizzati) .
Studi di settore / ISAScostamento dai ricavi attesi può essere un indizio di evasione ma non prova definitiva. Gli studi di settore non possono determinare automaticamente maggiori ricavi (lo ha sancito anche la Corte Cost. n. 56/2010).Cass. 14288/2016 (studi di settore come presunzione semplice); normativamente, il contribuente può giustificare le cause di scostamento. (Non direttamente attinente a sottofatturazione su singola operazione, ma sul risultato d’impresa globale).
Costo dichiarato in edilizia (permessi) vs. fattureUno scostamento rilevante può giustificare un accertamento, ma servono riscontri (es: l’impresa ha effettivamente eseguito tutte le opere previste?).Non vi sono pronunce specifiche note su questo punto, ma nella prassi Fisco potrebbe usare i valori denunciati nei titoli edilizi come semplice informazione di partenza.

(Legenda: CCIAA = Camera di Commercio, ISA = Indici Sintetici Affidabilità).

Prove concrete, presunzioni qualificate e onere della prova

Come visto, per vincere nel contenzioso l’Amministrazione finanziaria deve elevare gli indizi a qualcosa di più consistente: servono presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (art. 2729 c.c.), oppure prove dirette. Vediamo quali elementi probatori, al di là dei meri coefficienti, possono entrare in gioco e come si collocano nell’equilibrio dell’onere della prova tra Fisco e contribuente.

Elementi probatori tipici a disposizione del Fisco:Documentazione extracontabile sequestrata: È la situazione più sfavorevole per il contribuente, ma purtroppo non rara nelle verifiche approfondite. Se la Guardia di Finanza, durante un’ispezione, rinviene una contabilità parallela, quali “blocchetti” o appunti dove l’impresa annotava i pagamenti in nero, oppure copie di doppie fatture (una con importo reale e l’altra con quello sottofatturato), questi documenti diventano prove regine. Ad esempio, un registro informale dei lavori, con le cifre incassate effettive a fianco di quelle fatturate, è stato ritenuto prova sufficiente per confermare l’accertamento, purché di provenienza attendibile (se trovato presso l’azienda stessa o in possesso di suoi dipendenti) . In tali casi, l’accertamento assume natura analitico-induttiva: la contabilità ufficiale è inattendibile perché affiancata da una segreta, e l’ufficio quantifica i ricavi sottratti basandosi su tali appunti. La Cassazione ha costantemente considerato la contabilità in nero scoperta come valido fondamento di presunzione per ricostruire maggiori ricavi, spostando sul contribuente l’onere di dimostrare l’inesattezza di quelle annotazioni . – Contratti simulati o scritture private aggiuntive: Se emergono scritture private non registrate in cui le parti pattuiscono un prezzo maggiore rispetto a quello risultante dalle fatture o dall’atto notarile, l’intento elusivo è palese. Ad esempio, potrebbe emergere un “accordo integrativo” in cui il committente si impegna a pagare extra lavori non indicati nel contratto ufficiale; oppure una bozza di contratto preliminare di compravendita con importo più alto poi “corretto” al ribasso nell’atto definitivo. La scoperta di tali documenti consente al Fisco di dimostrare la simulazione parziale del contratto (ex art. 1417 c.c. in ambito civile) e in sede tributaria funge da prova dell’occultamento. È ovvio che, di fronte ad un accordo scritto, la difesa del contribuente diviene estremamente difficile (potrebbe contestarne la validità formale, sostenere che non è stato poi attuato, ma sono argomenti deboli). – Movimenti finanziari ingiustificati: L’analisi dei conti correnti spesso rivela incongruenze. Un classico esempio: l’acquirente di un immobile ritira da banca € 30.000 in contanti il giorno prima del rogito, dove ufficialmente paga € 150.000 tramite assegno circolare. Oppure, l’imprenditore edile versa sul suo conto, a ridosso della fine dei lavori, somme rilevanti in contanti o assegni di traenza non giustificati dalle fatture. Tali evidenze, incrociate con le date e con le persone coinvolte, possono costituire la “pistola fumante” del pagamento in nero. La Cassazione ha ritenuto legittimo presumere che somme versate sul conto dell’imprenditore provenissero da ricavi occulti quando il contribuente non ne ha saputo indicare la provenienza lecita e vi era contestualmente un affare edilizio in corso . Anche qui, l’onere probatorio si sposta: spetta al contribuente fornire una giustificazione credibile (ad es. “era un prestito da un parente”, corroborato magari da documenti) per superare la presunzione. – Testimonianze e dichiarazioni di terzi: Nel processo tributario, la prova testimoniale in senso tecnico è ammessa in modo limitato (previa richiesta e solo se il giudice la ritiene indispensabile, art. 7 D.Lgs. 546/1992), ma le dichiarazioni rese a verbale da terzi in sede amministrativa possono entrare come elementi indiziari. Ad esempio, il committente privato, sentito dalla Guardia di Finanza, potrebbe ammettere di aver pagato “una parte in contanti” (magari confidando di non subire sanzioni, in quanto il reato di infedele dichiarazione colpisce chi omette ricavi, non chi li paga). Oppure un dipendente dell’impresa potrebbe confermare la prassi aziendale di non fatturare alcune lavorazioni. Tali dichiarazioni, se dettagliate e convergenti, possono costituire presunzioni efficaci. La giurisprudenza ha comunque cura nel valutare dichiarazioni di parte interessata: ad esempio, se il cliente ha ottenuto vantaggi (sconto sul prezzo in cambio del nero), la sua testimonianza viene vagliata attentamente. Ma se anche il committente è finito sotto accertamento (pensiamo ad una compravendita dove lui ha dovuto pagare imposta di registro sulla plusvalenza non dichiarata) ed è quindi in posizione non confliggente col Fisco, la sua parola può avere peso. – Corrispondenza e comunicazioni: E-mail, messaggi, preventivi, fatture pro-forma, se acquisiti durante la verifica, possono incastrare l’accordo illecito. Ad esempio, un preventivo iniziale di € 100.000 seguito dall’accettazione del cliente “ok però mi fatturi solo 70” scritto via mail, sarebbe prova schiacciante. Anche un WhatsApp dove il cliente chiede “Ti ho già dato i 20k cash, quando mi mandi la fattura per il resto?” costituirebbe un incubo per la difesa. Tutto questo materiale, se raccolto, viene allegato al PVC (processo verbale di constatazione) e diventa parte del fascicolo probatorio.

Onere della prova e inversione: Normalmente, in un giudizio tributario, l’onere della prova dell’evasione spetta all’ente impositore, trattandosi di pretese “a contenuto impositivo”. Ciò significa che inizialmente è il Fisco che deve portare elementi tali da far presumere il maggior reddito. Tuttavia, una volta che l’ufficio ha assolto a questo onere fornendo presunzioni qualificate (gravi, precise e concordanti), spetta al contribuente l’onere di provare il contrario, cioè dimostrare che quel maggior ricavo non esiste o che vi sono ragioni legittime per lo scostamento . Ad esempio, se l’Agenzia esibisce la copia di un assegno non transitato in contabilità, starà all’imprenditore giustificarlo (magari provando che era un finanziamento soci e non un incasso cliente). Se viene presentata una perizia a supporto del valore dichiarato, come nel caso discusso in CTR Lombardia 2018, quel documento costituisce una prova contraria rilevante a favore del contribuente . Il giudice valuterà in concreto l’attendibilità di tali controprove: – Una perizia tecnica di parte può convincere se redatta con crismi di oggettività e magari da un esperto indipendente (meglio se giurata). Se spiega che il prezzo era basso perché, ad esempio, i lavori erano stati eseguiti male o lasciati incompleti, oppure perché l’immobile presentava vincoli e difetti non considerati dalle medie di mercato, può smontare la pretesa fiscale. – La dimostrazione di circostanze particolari: ad esempio, l’impresa può provare di aver applicato volutamente prezzi stracciati per esigenze di liquidità (politica di “saldo e stralcio” per chiudere i cantieri), oppure che parte dei lavori li ha pagati direttamente il cliente (fornendo materiali in proprio). Se tali circostanze emergono (es. fatture di materiali intestate al committente, che non passavano dall’impresa), allora il confronto con i parametri standard decade, perché il perimetro delle prestazioni fatturate era minore. – Prova testimoniale (se ammessa): far deporre in Commissione Tributaria il committente stesso o altri soggetti potrebbe chiarire aspetti a favore (anche se c’è sempre il rischio che la testimonianza venga svalutata se ritenuta compiacente).

Un punto fondamentale sancito dalla Cassazione è che non basta l’antieconomicità in sé a condannare il contribuente, se questi la giustifica plausibilmente. Nel caso della singola sottofatturazione isolata (Cass. 16606/2015 sopra citata), la Suprema Corte ha ritenuto che, mancando irregolarità serie e diffuse, la contabilità nel complesso restava attendibile e l’accertamento induttivo non fosse consentito . Dunque il contribuente professionista che aveva emesso una sola fattura sotto-costo è stato tutelato in sede di legittimità. Questo per dire che se un imprenditore edile riesce a dimostrare che quella specifica operazione è stata conclusa a un prezzo inferiore al valore normale per ragioni concrete (ad esempio per ottenere l’appalto ha applicato uno sconto eccezionale, magari perché il committente era un parente, oppure perché l’immobile presentava gravi problemi strutturali non immediatamente visibili), allora l’“anomalia” perde la sua connotazione di indizio di evasione. In sintesi, è cruciale preparare e fornire al giudice tributario una spiegazione alternativa e credibile di tutti i fatti su cui il Fisco basa le sue presunzioni.

Strumenti di difesa del contribuente e fasi del procedimento

Quando un contribuente (impresa o privato) si trova ad affrontare un accertamento per presunta sottofatturazione, deve attivarsi tempestivamente sfruttando gli strumenti che l’ordinamento tributario mette a disposizione per tutelarsi o cercare un compromesso. Di seguito esponiamo le principali strategie difensive e le opzioni procedurali.

1. Fase pre-contenziosa: interlocuzione e accertamento con adesione

Spesso, prima dell’emissione formale di un avviso di accertamento, l’Agenzia delle Entrate invia al contribuente un questionario o un invito al contraddittorio. Ciò avviene soprattutto se l’accertamento è basato su presunzioni (come valori OMI): l’ufficio può voler ascoltare la versione del contribuente (è prassi ormai rispettare il contraddittorio endoprocedimentale, sebbene non sempre obbligatorio per legge salvo alcuni casi specifici). È fondamentale non ignorare questa fase: fornire spiegazioni, documenti, perizie già in risposta all’invito può talvolta convincere l’Ufficio a soprassedere o ridimensionare la pretesa, oppure servirà a mettere a verbale elementi utili poi in giudizio. Ad esempio, se contestano un valore OMI, si può depositare subito una perizia di parte sul bene in questione, in modo che l’Agenzia debba esaminarla (e come visto, dal 2024 in poi dovrà anche confutare puntualmente le osservazioni del contribuente, pena difetto di motivazione).

Se l’accertamento viene comunque notificato, il contribuente ha 60 giorni di tempo prima che diventi definitivo (90 giorni se c’è stato un processo verbale di constatazione – PVC – a chiusura di verifica). In questo lasso di tempo è possibile attivare l’Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997). Si presenta un’istanza di adesione all’ufficio che ha emesso l’avviso; ciò sospende i termini per proporre ricorso e consente di avviare un dialogo finalizzato a un eventuale accordo.

  • Quali vantaggi offre l’adesione? In caso di accordo, le sanzioni amministrative vengono ridotte ad 1/3 di quelle normalmente applicabili . Ad esempio, la sanzione per infedele dichiarazione (omessa fatturazione di ricavi) è in genere pari al 90% dell’imposta evasa; con l’adesione si pagherebbe il 30%. Inoltre, l’adesione permette spesso di ottenere una riduzione concordata della base imponibile dell’accertamento: è una trattativa dove il contribuente può far valere le proprie ragioni (magari l’OMI sovrastimava e si media su un valore inferiore, oppure si riconosce la deduzione di alcuni costi correlati – vedi oltre).
  • Conviene aderire in casi di sottofatturazione? Dipende dalla forza delle proprie prove e dalle dimensioni del recupero. Se l’impresa è in possesso di elementi solidi che smontano l’assunto del Fisco, probabilmente converrà fare ricorso e puntare all’annullamento totale. Se invece le prove del Fisco sono schiaccianti (es. secondi conti, assegni ecc.), cercare un’adesione può essere saggio per limitare il danno: si evita il processo e si beneficia di sanzioni ridotte. Spesso si riesce a ottenere anche una rateizzazione delle somme dovute in fase di adesione.
  • Esempio pratico: supponiamo che l’Agenzia accerti € 50.000 di ricavi non fatturati, con € 11.000 di IVA evasa e € 13.500 tra IRES e IRAP evase, e applichi sanzioni del 90% su ciascun tributo evaso (circa € 21.960 totali). In adesione, il contribuente riesce a dimostrare che in realtà i ricavi in nero erano € 40.000 (non 50.000) e l’ufficio accetta di ridurre la pretesa. Si calcolano quindi € 40.000 di imponibile extra (IVA € 8.800, IRES+IRAP poniamo € 10.800) e le sanzioni diventano il 30%: circa € 5.760 totali. L’esito: il contribuente paga imposte e interessi ridotti e sanzioni di un quarto rispetto all’inizio. Ciò senza costi di giudizio e concludendo la vertenza in tempi brevi.

2. Fase contenziosa: ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria

Se non si aderisce (o se la trattativa fallisce), il contribuente deve presentare entro i termini di legge il ricorso tributario presso la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex Commissione Tributaria Provinciale). Nel ricorso occorre articolare i motivi di opposizione all’avviso di accertamento. I possibili motivi di ricorso in una causa di sottofatturazione possono includere: – Vizi formali o procedurali: ad esempio, difetto di motivazione dell’avviso (se l’ufficio non ha spiegato adeguatamente da quali elementi ha desunto la sottofatturazione, limitandosi magari a citare i valori OMI senza confronto con le circostanze particolari ). Oppure la mancata attivazione del contraddittorio preventivo in casi in cui era obbligatorio farlo (in materia di tributi “armonizzati” come l’IVA, la giurisprudenza UE richiede il contraddittorio salvo casi di particolare urgenza; su imposte non armonizzate come IRPEF/IRES invece non sempre è obbligatorio, ma se previsto da norma specifica va rispettato). Un altro esempio: la notifica irregolare dell’atto o la violazione di termini. – Infondatezza nel merito: qui si contesta la sostanza della pretesa fiscale. Il ricorso svilupperà l’argomento che “il corrispettivo dichiarato era congruo e non vi furono pagamenti occulti”. Si farà leva su tutte le evidenze a favore: perizie, analisi comparative, testimonianze (tramite eventuali dichiarazioni sostitutive da allegare), etc. L’obiettivo è dimostrare che manca la prova o la presunzione qualificata di un maggior ricavo. Ad esempio, si sottolineerà se l’unico appiglio dell’ufficio erano le medie OMI (facendo valere la giurisprudenza citata sopra) ; oppure si evidenzierà che l’ufficio ha ignorato elementi forniti (come lo stato di conservazione scadente del bene, documentato magari da fotografie e relazioni tecniche). – Errori nel calcolo o nel diritto: potrebbe capitare che l’ufficio sbagli a quantificare le imposte (ad esempio non concedendo un credito IVA spettante o non deducendo un costo che invece deve essere sottratto dai ricavi). Inoltre, se il caso riguarda imposta di registro su compravendita, potrebbero esservi questioni di diritto transitorio (per atti antecedenti al 2006 vs successivi, ecc.). Tutto va verificato e, in caso di errore, contestato.

Nel giudizio, il contribuente potrà produrre ulteriori documenti a suo vantaggio (purché entro i termini processuali, di solito 20 giorni prima dell’udienza). Ad esempio, potrebbe depositare una consulenza tecnica di parte più approfondita, o far comparire come testimone (previa istanza) il committente dei lavori. Bisogna tener presente che, anche senza testimonianza formale, dichiarazioni rese in sede di verifica dal committente possono essere riportate nella documentazione: se il committente, interrogato dalla GdF, aveva negato di aver pagato somme ulteriori, tale verbale può essere usato a favore.

3. Esiti del primo grado e oltre: la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (CGT) emetterà una sentenza. Se favorevole al contribuente, l’accertamento viene annullato (in tutto o in parte) e si chiude la questione quantomeno sotto il profilo tributario (salvo appello dell’Ufficio). Se sfavorevole, il contribuente può appellare alla CGT di secondo grado (ex CTR). Durante il giudizio è possibile anche cercare una conciliazione giudiziale: fino alla discussione in primo grado, le parti possono accordarsi con abbattimento delle sanzioni al 40% del minimo (se avviene in secondo grado, al 50%). La conciliazione può essere totale o parziale (es. si riduce l’imponibile e si abbandonano le sanzioni in eccesso). Una forma particolare introdotta di recente (Legge n. 197/2022) è la conciliazione agevolata per controversie pendenti al 1° gennaio 2023, con sanzioni ridotte a 1/18: ma questa è una misura straordinaria di “tregua fiscale” applicabile solo a liti pregresse, non generalizzabile.

Il giudizio tributario si conclude in secondo grado sul merito. È poi ammesso ricorso in Cassazione, ma solo per motivi di legittimità (violazioni di legge o vizi di motivazione entro limiti stringenti). Ad esempio, l’Agenzia potrebbe ricorrere in Cassazione se il giudice d’appello avesse annullato l’accertamento in base a un principio non condiviso (tipo: “ha ritenuto sufficiente la prova del contribuente” quando secondo l’Ufficio si era in presenza di presunzioni gravi). La Cassazione comunque tende a non rivedere le valutazioni di merito, se congruamente motivate : nel nostro tema, ciò significa che se la CGT di appello ha giudicato in fatto che il prezzo era giustificato e gli indizi del Fisco inadeguati, difficilmente la Cassazione sovvertirà tale giudizio, a meno di errori giuridici macroscopici.

4. Deduzione dei costi correlati ai ricavi non fatturati: Un aspetto spesso trascurato ma fondamentale nella difesa è quello della deducibilità dei costi relativi ai ricavi accertati. Se il Fisco sostiene che l’impresa edile ha incassato 100 in più, quasi certamente quei 100 comportano anche dei costi (materiali, manodopera) che l’impresa ha sostenuto per realizzare i lavori. In sede di accertamento, specialmente se di tipo induttivo puro, in passato gli uffici tendevano a ricostruire solo i maggiori ricavi, tassandoli interamente quasi fossero un margine netto. Tuttavia, la giurisprudenza ha evoluto la materia riconoscendo il diritto del contribuente a vedere stimati e dedotti anche i costi presunti connessi. Una recentissima ordinanza della Cassazione (Ord. n. 19574/2025) ha affermato che anche nell’accertamento analitico-induttivo il contribuente può dedurre costi in via presuntiva, in proporzione ai ricavi accertati . Ciò in coerenza con la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2023, la quale ha sancito l’irragionevolezza di non consentire, in sede di accertamento, il riconoscimento forfettario di costi quando si imputano ricavi presuntivi . In pratica, la Cassazione ha ora equiparato la posizione del contribuente anche nei casi di scritture solo parzialmente inattendibili: se l’Erario ti contesta vendite non dichiarate, tu hai il diritto di eccepire (anche tramite presunzioni) che per realizzare quelle vendite hai sostenuto spese (ad es. materiale edile, stipendi, subappalti) e che quindi il reddito imponibile va calcolato al netto di tali costi.

Per tradurre questo principio in azione difensiva: il contribuente, in sede di adesione o di giudizio, deve chiedere che dai maggiori ricavi (qualora fossero comunque accertati) vengano sottratti i relativi costi. Se ha documentazione, bene (es: “dei 50.000 non fatturati, 30.000 li ho pagati all’idraulico e all’elettricista in nero”: magari ci sono prelievi bancari compatibili a dimostrarlo). Se non ha documenti (comprensibilmente, perché i costi in nero non sono nelle scritture), può chiederne la forfettizzazione in percentuale. Ad esempio, se normalmente l’impresa ha un ricarico del 20%, significa che su 100 di ricavi il margine è 20 e costi 80; allora su 50.000 ricavi non dichiarati, si dovrebbero riconoscere 40.000 di costi. Su questi ragionamenti spesso i giudici tributari sono ricettivi, alla luce dei principi di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e del citato nuovo orientamento giurisprudenziale. Una difesa accorta quindi, pur negando la sottofatturazione, in subordine insiste sulla rideterminazione del reddito imponibile accertato al netto dei costi presunti, per evitare tassazioni sproporzionate. La Cassazione ha esplicitato questo diritto: “il contribuente imprenditore può sempre opporre la prova presuntiva contraria, eccependo una incidenza percentuale forfetaria di costi di produzione, che vanno quindi detratti dall’ammontare dei maggiori ricavi presunti.” .

5. Ulteriori tutele: se l’importo è molto elevato e l’impresa rischia la tenuta finanziaria per le somme pretese, si possono valutare strumenti come la richiesta di sospensione dell’atto in pendenza di giudizio (da chiedere al giudice tributario, dimostrando il periculum e il fumus del ricorso). Inoltre, per importi iscritti a ruolo, c’è la possibilità di chiedere la rateizzazione fino a 8 anni. Tutto ciò, sebbene non direttamente “difensivo” nel merito, attiene alla gestione del debito tributario e rientra nelle preoccupazioni del “debitore” che deve fronteggiare l’accertamento.

Profili penali: reati tributari e implicazioni della sottofatturazione

Oltre alle conseguenze fiscali (pagamento di imposte, sanzioni amministrative e interessi), la sottofatturazione può esporre l’imprenditore (e in taluni casi i soggetti che hanno avallato l’operazione, come amministratori o consulenti) a responsabilità penale tributaria. Vediamo quali reati possono configurarsi e con quali soglie: – Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): È il reato tipicamente correlato alla sottofatturazione. Si realizza quando un contribuente, al fine di evadere le imposte, indica nella dichiarazione annuale relative a dette imposte elementi attivi inferiori al reale (ovvero omette di dichiarare parte dei ricavi) oppure indica elementi passivi inesistenti, superando determinate soglie . Le soglie di punibilità attualmente previste sono due e devono ricorrere congiuntamente : a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila ;
b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione (ricavi non dichiarati) è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro due milioni .

Se entrambe le condizioni sussistono, scatta il penale. La pena prevista è la reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi . Facciamo un esempio: un’impresa edile dichiara ricavi per € 5 milioni, ma ne ha incassati in realtà 6 (quindi 1 milione occultato). Su quell’importo l’IVA evasa sarebbe ca. € 110.000 (ipotizzando 10% di IVA lavori edili agevolata) e l’IRES evasa ~ € 240.000 (al 24% su imponibile 1 mln). La soglia a) è abbondantemente superata sia per IVA che IRES; la soglia b) è superata (1 milione non dichiarato è il 20% di 5 milioni dichiarati, e > 2 milioni? No, ma il 20% sì). Dunque il reato di dichiarazione infedele è integrato. Se invece la sottofatturazione riguarda cifre minori, ad esempio € 50.000 occultati su € 500.000 dichiarati (10% esatto, imposta evasa magari € 13.000 di IRES e € 5.500 di IVA, quindi sotto 100k), la soglia a) non è superata e non c’è reato (restano le sanzioni amministrative).

Da notare che le soglie sono state alzate nel tempo (in passato erano più basse per la parte relativa agli importi non dichiarati). Quindi occorre riferirsi alla normativa vigente per l’anno d’imposta in esame. Oggi, 2025, valgono quelle suesposte.

  • Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000): Questo reato scatta quando, con comportamenti fraudolenti (come operazioni simulate, uso di documenti falsi, artifizi atti a ostacolare l’accertamento), si indicano in dichiarazione elementi attivi inferiori al vero, e anche qui superando soglie: imposta evasa > € 30.000 e elementi sottratti > 5% del dichiarato o > € 1,5 milioni . La pena è più alta: reclusione 3 a 8 anni . Applicato alla sottofatturazione, l’art. 3 potrebbe ipotizzarsi se l’evasione è realizzata con mezzi fraudolenti. Ad esempio, se l’imprenditore ha messo in atto una simulazione oggettiva: due contratti, uno fittizio a prezzo basso e uno segreto a prezzo pieno, oppure l’interposizione di una società cartiera per celare parte dei corrispettivi. Tuttavia, spesso la semplice sottofatturazione non viene contestata come “fraudolenta” a meno che non vi sia un quid pluris di inganno oltre la mera omissione. Nella prassi, l’art. 3 è usato per frodi più complesse (fatture false, operazioni simulate con terzi, ecc.). Quindi nel nostro contesto, di solito è l’art. 4 (infedele) a essere considerato.
  • Emissione di fatture o documenti per operazioni inesistenti (art. 8): Questo riguarda chi emette fatture false per favorire evasioni altrui. Nel caso della sottofatturazione, l’impresa emette semmai fatture per operazioni realmente esistenti ma sotto-quotate. Non è il classico caso di fatture false (che sarebbero per operazioni mai avvenute o per importi gonfiati). Quindi l’art. 8 non si applica qui, a meno di situazioni diverse (non trattiamo qui l’emissione di fatture a fronte di lavori mai fatti).
  • Occultamento/distruzione di documenti contabili (art. 10): Se l’imprenditore, per nascondere il nero, ha distrutto i documenti o tenuto doppia contabilità, potrebbe risponderne penalmente (pena 3 a 7 anni) . Ad esempio, se durante la verifica non si trovano le seconde ricevute perché sono state eliminate, quell’azione di occultamento può costituire reato autonomo. Ma tipicamente, chi sottofattura conserva la contabilità “ufficiale” regolare; l’occultamento punito dall’art. 10 riguarda documenti la cui tenuta è obbligatoria (registro fatture, etc.), non l’assenza di documenti non obbligatori. Distruggere la parallela non configura il reato se non c’è obbligo di detenerla (caso complesso: distruggere i brogliacci in nero prima della GdF non è di per sé reato, ma ovviamente se ne pagano le conseguenze fiscali se ne trapelava l’esistenza).
  • Omessa dichiarazione (art. 5): Non riguarda la sottofatturazione, a meno che l’impresa non presenti affatto la dichiarazione annuale (caso diverso, qui supponiamo dichiari ma meno del dovuto).

Per il committente privato: di regola, il compratore o cliente che paga in nero non commette reati tributari, perché i reati suddetti colpiscono chi omette di dichiarare un reddito o IVA attiva. Il privato che ha pagato di più non deve dichiarare nulla al Fisco riguardo a quella spesa (a parte l’eventuale detrazione fiscale se è una ristrutturazione: ma lui semmai dichiara il meno, quindi non è un danno per l’erario, anzi semmai minori detrazioni). Non esiste un reato per “aver pagato somme in nero” in sé. Può però configurarsi un concorso nel reato di dichiarazione infedele dell’imprenditore (art. 110 c.p.), se il privato ha avuto un ruolo attivo nell’accordo fraudolento. In teoria, il cliente che propone al fornitore di stare sotto con le fatture e paga fuori campo IVA, sta aiutando l’altro ad evadere. Esiste giurisprudenza penale che ha condannato l’amministratore di una società acquirente per concorso nel reato di dichiarazione fraudolenta del venditore, avendo concordato fatture inferiori (più spesso succede nell’ambito di false fatturazioni). Tuttavia, per il privato persona fisica è rarissimo si proceda penalmente: il suo incentivo è risparmiare sull’IVA e non c’è un vantaggio fiscale diretto per lui in termini di reddito. In conclusione, il rischio penale principale è in capo all’impresa ed ai suoi amministratori o titolari.

Sanzioni penali e iter: Se si configurano i reati, l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza trasmetterà notizia di reato alla Procura della Repubblica. L’iter penale segue il suo corso indipendente dal contenzioso tributario. Le soglie suindicate fungono da filtro: la maggior parte delle sottofatturazioni di piccola-media entità non finiranno in Procura perché non raggiungono 100.000 € di imposta evasa. Quando invece si oltrepassano (soprattutto in operazioni immobiliari grosse o frodi sistematiche), scatta il procedimento penale. In tale sede, l’imprenditore potrà difendersi anche sostenendo l’assenza del dolo di evasione (ad es. “ritenevo corretta la fatturazione perché c’erano sconti”) ma è difficile, poiché la sottofatturazione è di solito volontaria e consapevole.

Le pene detentive per dichiarazione infedele arrivano fino a 4 anni e 6 mesi. Ciò significa che, astrattamente, è possibile una condanna a pena detentiva non sospendibile (superiore a 2 anni) se l’evasione è ingente. Nella pratica, se il contribuente è incensurato e provvede a sanare almeno in parte il debito tributario, spesso si ricorre a patti (applicazione pena concordata, ex art. 444 c.p.p., il cd. patteggiamento) con pene vicine al minimo ed eventualmente sospese. Ad esempio, nell’ipotesi di 1 milione occultato di prima: imposta evasa totale ~ 350.000 €, probabile condanna sui 2 anni e qualcosa, che con patteggiamento può scendere sotto i 2 anni e beneficiare della sospensione condizionale, se vengono pagati i debiti tributari.

Cause di non punibilità e attenuanti: Il diritto penale tributario prevede alcune cause di non punibilità legate al pagamento del debito. L’art. 13 D.Lgs. 74/2000, come modificato da ultimi interventi normativi (in vigore dal 2023-2024), stabilisce che per i reati di infedele dichiarazione e dichiarazione fraudolenta non è più prevista l’estinzione automatica con il pagamento, ma resta una circostanza attenuante molto rilevante. Invece, per i reati di omesso versamento (art. 10-bis e 10-ter), il pagamento integrale dei debiti prima del processo estingue il reato; per i reati dichiarativi (come l’infedele) il legislatore delegato non ha introdotto una causa di non punibilità piena. Tuttavia, in sede di condanna, se il contribuente ha completamente pagato il dovuto, spesso si applica l’attenuante del “ravvedimento operoso” che può portare a diminuzioni di pena fino alla metà. Inoltre, la cosiddetta particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) potrebbe essere invocata se l’evasione supera di poco la soglia (ad esempio imposta evasa € 110.000, soglia 100.000), ritenendo minima l’offesa: la riforma 2023 ha espressamente richiamato la tenuità per i reati tributari minori, indicando che il giudice dovrà tenere conto dello scostamento dalla soglia e dell’avvenuto adempimento integrale del pagamento per il suo riconoscimento .

Un’altra novità importante riguarda le misure cautelari reali: la confisca e il sequestro per equivalente sui beni dell’imputato. Con il D.Lgs. 87/2024, è stato previsto che non si procede a sequestro/confisca se il debito tributario è in corso di definizione o rateazione e il contribuente è in regola con i pagamenti, salvo che vi sia pericolo concreto che il patrimonio venga disperso . Ciò significa che, se ad esempio l’imprenditore aderisce in adesione e inizia a pagare il piano rateale delle somme accertate, il giudice penale potrebbe astenersi dal sequestrargli immobili o conti fino a concorrenza dell’evaso (che di solito è la prassi). Questa è una tutela introdotta per evitare il cumulo di sanzioni e favorire la regolarizzazione: in pratica, pagando il Fisco, si evita la confisca penale.

Il ruolo del committente privato sotto il profilo penale merita un breve cenno finale: come detto, egli difficilmente verrà incriminato, a meno che sia una situazione particolare (es. un socio occulto che di fatto concorda il nero). Il rischio maggiore per il privato è di subire conseguenze civilistiche: nullità parziale del contratto per il sovrapprezzo non dichiarato (il patto “in nero” è nullo perché contrario a norme imperative fiscali), con la conseguenza che se emergesse, il privato non potrebbe legalmente esigere la restituzione di quanto pagato in nero in caso di controversia (se paghi in nero, quell’accordo è nullo e non tutelabile in giudizio). Ma questa è un’altra storia, attinente al diritto civile e non fiscale/penale.

Domande frequenti (FAQ)

D: Cosa si intende esattamente per sottofatturazione nei lavori edili?
R: Si intende la pratica di emettere fatture per lavori edili (ristrutturazioni, costruzioni, vendite immobiliari) indicando un importo inferiore a quello effettivamente corrisposto dal committente. In sostanza, una parte del pagamento avviene “in nero”, non risultando così né ai fini IVA né ai fini delle imposte sui redditi. Ad esempio, se un lavoro vale 100 e viene fatturato solo 60, i 40 restanti sono una sottofatturazione. Questa condotta viola la normativa fiscale perché l’impresa edile dichiara meno ricavi di quelli reali, evadendo imposte, e il committente di riflesso paga meno IVA (o imposta di registro) di quanto dovuto.

D: Perché il Fisco considera la sottofatturazione un fenomeno da accertare con attenzione?
R: Perché la sottofatturazione è un indice sintomatico di evasione fiscale. In Italia il settore immobiliare ed edile è stato storicamente caratterizzato da operazioni in parte sommerse. Ciò comporta un duplice danno erariale: da un lato, minor gettito IVA e imposte sul reddito; dall’altro, effetti distorsivi sul mercato (prezzi dichiarati non veritieri, basi imponibili falsate per altre imposte). L’Agenzia delle Entrate ha il compito istituzionale di contrastare l’evasione: quando i prezzi dichiarati appaiono troppo bassi rispetto a valori di mercato o ad altri indicatori, scattano verifiche. Inoltre, la lotta alla sottofatturazione tutela anche i contribuenti onesti, evitando che chi emette tutto regolare venga svantaggiato dalla concorrenza sleale di chi fa prezzi “al netto del nero”.

D: L’Agenzia delle Entrate può accertare un maggior corrispettivo basandosi esclusivamente sui valori OMI o su medie di mercato?
R: No, non può farlo lecitamente. Le quotazioni OMI e simili sono considerate dalla giurisprudenza semplice materiale indiziario: da sole non bastano a fondare un avviso di accertamento. Serve sempre che il Fisco aggiunga altri elementi concreti. La Cassazione ha ripetutamente affermato che uno scostamento tra prezzo dichiarato e valore normale di mercato deve essere corroborato da presunzioni gravi, precise e concordanti per legittimare una rettifica . Quindi, se l’avviso di accertamento si basasse solo sul fatto che “secondo l’OMI l’immobile valeva X, superiore al dichiarato Y”, sarebbe impugnabile e quasi certamente annullato dal giudice (come avvenuto in molti casi, ad es. CTR Lombardia 2018 ). In pratica l’Agenzia può sì usare l’OMI come punto di partenza, ma poi deve dimostrare perché nel caso specifico quel divario di valore implica nero (es.: presentando una perizia, o evidenziando che l’immobile era in ottimo stato e non come sostenuto dal contribuente, etc.).

D: Quali altri elementi utilizza il Fisco per scoprire la sottofatturazione?
R: Utilizza una pluralità di strumenti investigativi: – Indagini finanziarie: accesso ai conti correnti bancari di impresa, soci, e talvolta anche del committente. Qui cercano movimenti di denaro non giustificati dalle fatture (come versamenti in contanti, bonifici extra, prelievi ingenti in concomitanza dei lavori). – Verifiche in cantiere e documentali: la Guardia di Finanza può effettuare sopralluoghi, controllare i documenti di trasporto di materiali, interrogare gli operai. Se risulta che per eseguire quell’opera sono state impiegate risorse maggiori di quelle compatibili col fatturato dichiarato, emerge un forte sospetto di nero. – Banca dati atti immobiliari: incrociando i dati notarili, ad esempio se un immobile rivenduto a breve termine spunta un prezzo molto superiore a quello di acquisto dichiarato dall’impresa, il Fisco può presumere che in realtà già in origine fosse stato pagato di più. Oppure confronta vendite simili di case nello stesso stabile. – Richiesta di informazioni al committente: non di rado l’Agenzia invia questionari ai clienti delle imprese, chiedendo copia dei contratti, prova dei pagamenti effettuati, ecc. Se il cliente è collaborativo (magari perché ha paura di perdere le detrazioni fiscali se mente), potrebbe fornire elementi utili a ricostruire la verità. – Fonti aperte e segnalazioni: a volte indagini nascono da segnalazioni (concorrenti, ex dipendenti) o dal fatto che sull’immobile risultano lavori per cui non si capisce come si siano finanziati. Anche i controlli incrociati con l’ENEA per i bonus edilizi, le comunicazioni di sconto in fattura o cessione credito, possono evidenziare discrepanze (es. se l’impresa ha applicato sconto in fattura per 30k su lavori dichiarati 30k, ma l’immobile poi appare ristrutturato integralmente, il dubbio sorge). In breve, il Fisco usa ogni traccia disponibile per “ricostruire” il film dell’operazione economica e confrontarlo con quanto risulta dalle fatture.

D: Se ricevo un avviso di accertamento per sottofatturazione, cosa devo fare subito?
R: Prima di tutto, analizzarlo attentamente magari con un professionista (avvocato tributarista o commercialista esperto). Occorre capire su cosa si basa: vi sono allegati documenti? Vengono citati riscontri specifici? Oppure è basato su sole presunzioni generiche? In base a questo: – Se l’accertamento appare errato o debole (es. solo differenze OMI), conviene predisporre il ricorso e raccogliere le prove contrarie (perizia di stima, documenti che mostrano perché il prezzo era congruo). Nel frattempo, si può presentare istanza di accertamento con adesione (che sospende i termini) giusto per avere più tempo e magari tentare di farlo annullare in autotutela. – Se l’accertamento è fondato su prove forti (mettiamo che allegano copie di assegni o addirittura una scrittura privata segreta firmata…), occorre valutare la via dell’adesione: presentare istanza di adesione sospende i termini del ricorso e permette di trattare con l’ufficio. Si potrebbe ottenere uno sconto su sanzioni e magari ridurre l’imponibile accertato se si trovano punti negoziabili. In ogni caso, dal momento della notifica decorrono 60 giorni per reagire (con ricorso, se non sospesi dall’adesione). Ignorare l’atto significa farlo diventare definitivo e una cartella di pagamento seguirà. Quindi bisogna attivarsi subito. Può essere utile anche chiedere accesso agli atti all’Agenzia per visionare il fascicolo (ad esempio i documenti che non sono stati allegati per esteso). Parallelamente, preparare la liquidità o le garanzie: se non si riuscirà a annullarlo del tutto, si dovrà pensare a come pagare (rate, ecc.) per evitare guai peggiori.

D: Quali sono le sanzioni amministrative per chi sottofattura?
R: Sul piano amministrativo, le sanzioni principali sono: – Sanzione per infedele dichiarazione dei redditi: 90% della maggior imposta dovuta (minimo) . Se, ad esempio, a causa della sottofatturazione emergono € 20.000 di IRES evasa, la sanzione base sarà € 18.000. Questa sanzione può salire fino al 180% in caso di particolare gravità, ma di solito si applica il minimo edittale se non ci sono aggravanti. Per IVA c’è analoga sanzione del 90% sulla maggiore imposta evasa. – Sanzione IVA per omessa fatturazione: il D.Lgs. 471/1997 prevede una sanzione dal 90% al 180% dell’IVA non documentata (in parte si sovrappone con l’infedele dichiarazione IVA, infatti spesso contestano una sola sanzione unificata del 90% in base all’art. 6, comma 1, D.Lgs. 471/97). – Sanzione imposta di registro (se compravendita): se è stata accertata ai fini registro una maggior base imponibile, si paga la differenza d’imposta più una sanzione del 30% su tale differenza (salvo sia riconosciuta buona fede, ma difficile). Tuttavia, nelle vendite soggette a IVA di regola la sottofatturazione impatta poco sul registro (che è in misura fissa). – Altre sanzioni minori: possono aggiungersi sanzioni per violazioni contabili (omessa registrazione di corrispettivi, se si trattava di corrispettivi da certificare al dettaglio, ma nelle imprese edili di solito i lavori sono fatturati, quindi non c’è omesso scontrino; qui è la fattura stessa che è incompleta). Se nel corso dell’accertamento il contribuente ha reso dichiarazioni mendaci o ha ostacolato l’ispezione, potrebbero contestare sanzioni accessorie, ma sono casi particolari. Naturalmente, su tutte le imposte evase si pagano anche gli interessi legali (attualmente intorno al 5% annuo) calcolati dal momento in cui si sarebbero dovute pagare le imposte (ad esempio, da saldo 2023 per imposte 2022) fino al pagamento effettivo.

D: Si possono ridurre queste sanzioni?
R: Sì. Gli strumenti deflativi come l’accertamento con adesione riducono le sanzioni a 1/3 del minimo . Anche la “acquiescenza” (pagare senza fare ricorso entro 60 giorni) comporta sanzioni ridotte a 1/3. Inoltre, se il contribuente vince anche parzialmente in giudizio, il giudice può ridurre le sanzioni proporzionalmente. Nel caso di conciliazione giudiziale, le sanzioni si riducono al 40% o 50% del minimo. Esempio: sanzione base 90% -> con adesione o acquiescenza paga 30%; con conciliazione in primo grado 36%. Queste riduzioni servono a incentivare la chiusura rapida delle dispute. Infine, il “ravvedimento operoso” (pagare spontaneamente prima di accertamento) avrebbe potuto abbattere sanzioni a 1/5, ma nella sottofatturazione spesso il ravvedimento non avviene perché l’impresa spera di non essere scoperta.

D: La sottofatturazione nei lavori edili può portare a conseguenze penali?
R: Sì, se le somme evase superano certe soglie di rilevanza penale. In particolare, se l’evasione d’imposta supera € 100.000 per uno dei tributi (IVA o imposte sui redditi) e i ricavi occultati superano il 10% del dichiarato (o comunque oltre € 2 milioni), scatta il reato di dichiarazione infedele art. 4 D.Lgs. 74/2000 . Ad esempio, se un’impresa nasconde 300.000 € di corrispettivi causando 66.000 € di IVA evasa e 72.000 € tra IRES/IRAP evase (totale 138.000 € di imposte), già è oltre la soglia e configurerà il reato. La pena può arrivare fino a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Se poi si sono usati mezzi fraudolenti (frode più grave, art. 3), la soglia di punibilità si abbassa a 30.000 € di imposta e la pena va fino a 8 anni , ma questo reato è meno comune nella mera sottofatturazione senza artifizi particolari. Per importi minori non c’è reato, restano sanzioni amministrative. Va notato che la soglia penale si valuta per singolo periodo d’imposta: non è possibile sommare evasioni di anni diversi per far scattare il penale, ma se la condotta è ripetuta ogni anno e ogni anno supera soglia, saranno più reati (uno per anno). Il committente privato di solito non viene incriminato, a meno che sia una situazione particolare (es. un socio occulto che di fatto concorda il nero). Quindi il rischio penale grava principalmente sull’impresa e sul legale rappresentante che firma le dichiarazioni fiscali infedeli.

D: Cosa posso fare se temo un procedimento penale a seguito dell’accertamento?
R: In primo luogo, attivarsi per pagare il debito tributario (imposte, sanzioni, interessi) o almeno mettersi in regola con una rateazione. Pagare il dovuto non estingue il reato di dichiarazione infedele, ma costituisce un importante elemento a favore: consente di evitare il sequestro preventivo per equivalente (perché se stai pagando volontariamente, il giudice potrebbe non sequestrare beni, grazie alle nuove norme ) e soprattutto verrà valutato come ravvedimento in sede di giudizio penale, con probabile concessione delle attenuanti. Spesso chi risarcisce il fisco per intero ottiene nei fatti misure alternative o patteggiamenti molto miti. Inoltre, preparare una buona difesa penale parallela a quella tributaria: le sentenze tributarie non vincolano il giudice penale, ma se nel processo tributario viene accertato che non c’era evasione, questo potrà essere usato a discarico nel penale (non è automatico, ma di fatto convincente). Viceversa, se si perde nel merito in tributario, conviene patteggiare nel penale per limitare il danno. In caso di dubbi sulla soglia (ad esempio 95k di imposta evasa o 9% di ricavi occultati), c’è margine per sostenere che il fatto non è punibile penalmente; il buon esito del processo tributario in tal senso (accertamento annullato o ridotto sotto soglia) aiuta a evitare la condanna penale. Infine, ricordare che la prescrizione dei reati tributari è lunga (di base 6 anni estendibili fino a 7,5 con atti interruttivi, e con riforme in discussione per allungarla), dunque non si può confidare troppo nel trascorrere del tempo. Meglio affrontare proattivamente la situazione: collaborazione con la Procura (ove opportuno), pagamento, e richiesta magari di applicare la particolare tenuità se i numeri lo consentono.

D: Il committente privato rischia di perdere i benefici fiscali (es. bonus ristrutturazioni) se emerge che ha pagato in nero?
R: Potenzialmente sì. I bonus fiscali (detrazione 50% ristrutturazioni, ecobonus, bonus facciate, ecc.) spettano solo sulle spese regolarmente fatturate e tracciabili. Se una parte dei lavori è stata pagata in nero, quella parte non dà diritto ad alcuna detrazione. Fin qui nulla di strano (non hai fattura, non detrai). Ma se venisse accertato che il privato ha concordato volontariamente la sottofatturazione, l’Agenzia delle Entrate potrebbe contestargli l’indebita fruizione del bonus sulle somme non effettivamente pagate. Ad esempio: lavori reali 100k, fatturati 60k, il privato ha detratto 30k (50% di 60k). Se però si prova che ha pagato altri 40k in nero, lui formalmente non ha fruito di detrazione su quelli (non poteva). Non c’è una norma specifica che punisca il privato in questo caso (diverso se avesse artefatto documenti per detrarre di più). Tuttavia, il Fisco potrebbe, in casi estremi, revocare anche il bonus fruito sui 60k se ritiene che l’accordo fraudolento configuri un abuso tale da invalidare i presupposti. Non risultano casi clamorosi di revoca del bonus per sottofatturazione, ma non è escluso. Comunque, il privato rischia semmai sanzioni amministrative se ha violato obblighi (es. pagamenti non tracciati dove richiesto). Ad esempio i bonifici parlanti: se parte è stata pagata fuori da bonifico, quella parte non è detraibile. Ma per la parte detratta, se era tutto regolare, il bonus rimane valido. Diciamo che il maggior problema per il privato, oltre all’eventuale concorso penale (improbabile), è che se un domani litigasse con l’impresa per vizi dell’opera, non potrebbe pretendere nulla sul nero (perché sarebbe riconoscere un contratto illecito).

D: La “coda in nero” può emergere anche dopo anni, ad esempio in caso di rivendita dell’immobile?
R: Sì, spesso l’evasione da sottofatturazione viene a galla in occasione di eventi successivi. Ad esempio, Tizio fa ristrutturare casa nel 2022 sottofatturando; nel 2025 vende la casa ad un prezzo molto alto magari perché include il valore di quei miglioramenti. Il Fisco nel registrare quest’ultima vendita nota che Tizio ha realizzato una grossa plusvalenza in poco tempo. Se la plusvalenza non è imponibile (abitazione principale venduta dopo più di 5 anni, ecc.), Tizio non paga nulla, ma l’Agenzia potrebbe domandarsi: com’è che la casa vale così tanto di più? Se scopre che nel 2022 risultano solo modeste fatture di lavori, potrebbe ipotizzare che lavori ben più cospicui furono effettuati e pagati in nero. Quindi potrebbe riaprire (entro i termini di decadenza, 5 anni o 7 se frode) l’accertamento 2022 all’impresa edile per quei lavori. Oppure, in caso di compravendita sottofatturata con imposta di registro minima, se l’acquirente rivende a breve a prezzo molto maggiore, l’ufficio del registro potrebbe affermare che il primo prezzo era fittizio e accertare la maggiore imposta di registro retroattivamente (anche se con la normativa attuale prezzo-valore, se applicata, l’acquirente era protetto limitatamente all’aspetto registro, ma non su IVA e redditi venditore). In sostanza, sì: l’effetto “boomerang” può verificarsi a distanza di anni, se un evento successivo mette in luce l’incoerenza del valore iniziale. Purtroppo per l’evasore, il tempo non sempre copre le tracce.

D: Quali consigli pratici si possono dare a un’impresa edile per evitare problemi con l’Agenzia delle Entrate su questo fronte?
R: Il consiglio principe è banale ma fondamentale: evitare la tentazione del nero, soprattutto nei casi in cui ci sono evidenze facilmente tracciabili. Se proprio si concordano sconti al cliente, meglio fatturare tutto e magari ridurre i margini in modo legittimo, anziché rischiare pesanti conseguenze. Detto ciò, se un’impresa vuole comunque minimizzare i rischi: – Mantenere sempre una coerenza tra ciò che fa e ciò che dichiara: ad esempio, se utilizza 10 operai in cantiere per 3 mesi, non può fatturare lavori per soli € 5.000 perché salta agli occhi che è impossibile (quei soli stipendi costano di più!). – Documentare eventuali ribassi eccezionali: se per qualche ragione si pratica un prezzo molto inferiore al mercato (per amicizia, pubblicità, test di nuove tecniche), è bene avere traccia contrattuale di questa motivazione, magari far firmare al committente una dichiarazione che attesti che il prezzo è basso perché lui si occupa di qualcosa o accetta certe condizioni. Questo non immunizza dal controllo, ma in un eventuale contenzioso mostra buona fede e una causa commerciale lecita. – Evitare doppi accordi e promesse extracontabili: qualunque appunto scritto su accordi paralleli potrebbe essere la prova contro. Se proprio c’è un accordo informale, paradossalmente è “meglio” che resti solo verbale (con tutti i rischi civilistici del caso). – Tenere a mente le soglie penali: se si sta per incassare una cifra in nero che porterebbe l’evasione annua oltre 100k di imposta, si sta entrando in terreno pericoloso. Valutare se il gioco vale la candela. – Valutare l’opportunità di ravvedersi: prima che arrivi la Finanza, si può sempre presentare una dichiarazione integrativa e regolarizzare (pagando imposte dovute e sanzioni ridotte con ravvedimento). È una scelta dura (nessuno vuol pagare se non costretto), ma a volte lungimirante se ci si rende conto che quell’operazione è troppo visibile. Ad esempio, se un’impresa ha venduto 10 appartamenti sottocosto in un anno (magari in una zona di pregio) e teme controlli, fare un integrativo riducendo il danno sanzionatorio può evitare dopo guai maggiori. Insomma, trasparenza e prudenza pagano nel lungo periodo. In un settore storicamente sotto la lente d’ingrandimento, le imprese edili farebbero bene a costruire il proprio tax compliance evitando scorciatoie illecite che possono costare caro.

Esempi pratici e casi simulati

Per meglio comprendere come si sviluppano in concreto gli accertamenti per sottofatturazione e quali difese possono essere messe in campo, analizziamo di seguito alcuni esempi pratici (ipotetici ma realistici).

Caso 1: Ristrutturazione parziale sottofatturata
Scenario: Alfa S.r.l., impresa edile, esegue nel 2023 la ristrutturazione di un appartamento di 120 mq per il Sig. Bianchi. Il contratto d’appalto prevede opere di rifacimento di due bagni, impianto elettrico e tinteggiatura, per un importo di € 50.000 + IVA. Bianchi però chiede uno sconto extra: accordo verbale, Alfa fattura solo € 35.000 + IVA (applicando IVA 10% sulle ristrutturazioni) e Bianchi paga i restanti € 15.000 in contanti.
Accertamento: Nel 2025, a seguito di controlli incrociati sui bonus edilizi, l’Agenzia invita Bianchi a esibire le fatture dei lavori. Bianchi presenta fatture per € 35.000 e dichiara di aver pagato solo quella cifra (ottenendo detrazione 50% su 35k). Tuttavia, l’ufficio confronta l’intervento con la banca dati OMI: per appartamenti simili, una ristrutturazione completa costa almeno € 400/mq. Per 120 mq sarebbero € 48.000. Inoltre, nota che Bianchi ha prelevato € 10.000 in contanti durante i lavori. L’Agenzia sospetta un nero di circa € 15.000. Invia quindi ad Alfa S.r.l. un questionario chiedendo spiegazioni sul lavoro. Alfa risponde che i lavori eseguiti erano solo parziali e giustificano i € 35k, allegando elenco opere e dicendo che il committente ha pitturato parte da sé. L’Agenzia però non è convinta e nel dicembre 2025 emette avviso di accertamento: recupera € 15.000 di ricavi non dichiarati, con IVA 10% e imposte sul reddito relative, più sanzione 90%. Motivazione: “sulla base di elementi presuntivi (valori di mercato OMI, entità lavori svolti) si ritiene che la società Alfa abbia conseguito corrispettivi maggiori… inoltre dal c/c del Sig. Bianchi risultano prelevamenti compatibili con il pagamento non fatturato”.
Difesa: Alfa S.r.l. presenta istanza di accertamento con adesione. Durante il contraddittorio, evidenzia che effettivamente i lavori eseguiti erano limitati (non rifacimento completo cucina o pavimenti) e produce una perizia giurata di un architetto che stima in € 37.000 il giusto corrispettivo per quelle opere. L’ufficio, preso atto, propone un accordo: riduce il maggior ricavo accertato da 15k a 5k (riconoscendo che forse qualche extra lavoro c’è stato, ma minimo). Alfa accetta. L’accertamento con adesione si chiude con aumento di soli € 5.000 di imponibile; Alfa paga la relativa IVA e imposte (circa € 1.500 in totale) e sanzioni ridotte (30% di 1.500, cioè € 450). Il caso non assume rilevanza penale (imposte evase irrisorie).
Commento: In questo caso la difesa ha puntato a dimostrare che l’anomalia era molto minore di quanto ipotizzato dal Fisco. La perizia tecnica e la spiegazione sul contributo “fai da te” del cliente hanno permesso di ridimensionare l’accusa. L’adesione ha evitato un lungo contenzioso per una somma relativamente modesta.

Caso 2: Vendita immobiliare con doppio prezzo
Scenario: Beta S.p.A., impresa di costruzioni, vende nel 2022 una villetta a Caio per € 300.000 dichiarati in atto, oltre IVA 10%. In realtà, il prezzo concordato era € 370.000: Caio ha pagato € 300.000 con assegni (mutuo bancario) e € 70.000 in contanti di tasca propria. Nessuno parla dell’extra. Atto stipulato regolarmente a € 300k (con IVA € 30k pagata).
Accertamento: Nel 2024, Beta S.p.A. viene sottoposta a verifica dalla Guardia di Finanza su segnalazione antiriciclaggio (alcuni versamenti di contante sui conti societari avevano destato sospetti). Tra le carte, la GdF trova una scrittura privata non firmata ma compilata, in cui Caio e Beta si accordavano per prezzo 370k, con una frase “di cui 70k versati fuori atto”. Inoltre, scoprono che Beta ha a bilancio una voce “acconti da clienti” di 50k non riconciliata con fatture, relativa proprio a Caio (Beta se l’era fatta sfuggire in contabilità). Caio, convocato, ammette che sì, ha pagato 70k extra “perché la casa valeva di più, e l’impresa mi aveva chiesto questo sovrapprezzo altrimenti niente vendita”. L’Agenzia delle Entrate quindi notifica un avviso di accertamento per l’anno 2022, contestando a Beta ricavi non dichiarati per € 70.000, IVA evasa € 7.000, IRES evasa ~€ 16.800, più sanzioni 90%. Contestualmente, emette avviso di liquidazione a carico di Caio per maggior imposta di registro (ma Caio essendo persona fisica aveva optato per prezzo-valore, pagando registro su rendita catastale; su quello non c’è adeguamento perché era già su catastale inferiore al prezzo, quindi il registro non cambia, restando prezzo-valore una facoltà per l’acquirente persona fisica). Infine, invia segnalazione alla Procura per dichiarazione infedele.
Difesa: Beta S.p.A. si trova in guai seri. Il penale è inevitabile (imposta evasa totale ~ € 23.800, oltre soglia 100k? In questo caso stranamente no, perché l’IVA evasa è 7k, l’IRES 16.8k, sommate 23.8k; ciascuna sotto 100k – in realtà potrebbe non configurarsi reato se consideriamo imposte separate, qui nessuna supera 100k. La soglia b) 70k su ricavi dichiarati 300k = 23%, >10%. Ma soglia a) non superata, ergo non c’è reato di infedele; vedi come restare sotto 100k li “salva” dal penale in questo esempio!). Beta dunque “solo” sul piano tributario deve pagare. Il suo legale fa ricorso tributario eccependo che la scrittura non era firmata e Caio è inattendibile perché consenziente. Ma i giudici non abboccano: troppi riscontri oggettivi (mutuo da 300k, contanti oltre, scrittura trovata). La CGT conferma l’accertamento integrale. Beta paga il dovuto con rateazione.
Tuttavia, Beta ottiene un discreto risultato sul fronte sanzioni: in appello, i giudici riconoscono che la collaborazione di Beta (che comunque ha pagato subito quasi tutto) consente di applicare la sanzione nel minimo e addirittura di considerare l’“attenuante del ravvedimento operoso” ex art. 13 del D.Lgs 472/97, riducendo la sanzione dal 90% al 2/3 (facoltà del giudice tributario). Quindi invece di € 21.600 di multa, Beta si vede ridurre a circa € 14.400.
Commento: Questo caso mostra come in presenza di prove concrete (pagamenti tracciati, accordi scritti) la difesa nel merito è quasi impossibile. Diventa più un tentare di limitare i danni (pagare ratealmente, evitare il penale – in questo esempio il penale non scatta per soglia non raggiunta). Caio come committente qui alla fine non subisce sanzioni penali né fiscali ulteriori (aveva pagato l’IVA su 300k, e registro con prezzo-valore su rendita). Però Caio ha ammesso di aver pagato nero: moralmente corresponsabile, giuridicamente la fa franca perché la legge punisce chi occulta il reddito (Beta). Caio tutt’al più ha speso 70k non giustificabili se l’Agenzia gli chiedesse l’origine di quei contanti (ma supponiamo fossero risparmi legittimi).

Caso 3: Accertamento induttivo per antieconomicità
Scenario: Delta S.n.c., impresa familiare edile, negli anni 2019-2021 dichiara: fatturato € 200k (2019) con perdita 10k, € 180k (2020) con perdita 5k, € 220k (2021) con utile 1k. I soci vivono comunque bene, i ricavi sembrano coprire appena i costi. Nel 2022 non presentano dichiarazione (omessa).
Accertamento: L’Agenzia fa un accertamento induttivo puro per il triennio 2019-2021, ritenendo le scritture inattendibili per comportamento antieconomico. Non hanno trovato una specifica seconda contabilità, ma notano che la ditta ha 5 dipendenti e i conti non tornano (non può non fare utili con quel personale, a meno di evasione). Applicano parametri di margine: ad es. stabiliscono che sui costi di materiali e manodopera dichiarati, un’impresa edile dovrebbe avere almeno 10% di ricarico. Ricalcolano i ricavi presunti per avere quell’utile. Ne risulta che per ogni anno i ricavi dovevano essere in realtà maggiori di circa 50k rispetto al dichiarato. Notificano avvisi di accertamento alzando il reddito imponibile di quell’importo per ciascuno anno.
Difesa: Delta impugna sostenendo che non c’è prova di specifici ricavi in nero, e che le perdite erano dovute a commesse non pagate da clienti morosi e a spese straordinarie (forniscono documenti su crediti insoluti, pignoramenti in corso verso debitori). La CTR (in appello, perché in primo grado il ricorso fu respinto) dà ragione parziale a Delta: riconosce che l’antieconomicità è un indizio che giustifica di per sé un accertamento , ma concorda che devono considerarsi i crediti insoluti come spiegazione plausibile. Così riduce le maggiori quote di ricavi presunti eliminando l’effetto di quei crediti non riscossi. Alla fine, l’utile accertato è ridotto di 30k per ciascun anno (invece di 50k).
Parallelamente, per il 2022 l’omessa dichiarazione fa scattare un autonomo accertamento (basato su indagini bancarie, ricostruendo fatturato anche lì) e una denuncia penale per omessa dichiarazione (art. 5, soglia imposta evasa > 50k). I soci però, nel frattempo, vistasi brutta, pagano tramite definizione agevolata il dovuto per il 2022 e ottengono il patteggiamento con pena sospesa di 1 anno.
Commento: In questo caso non c’era una singola transazione incriminata, ma un intero andamento gestionale sospetto. La difesa ha dovuto giocare su giustificazioni generali (crisi, clienti inadempienti) e in parte ha avuto successo, ma comunque l’accertamento per antieconomicità è difficile da ribaltare se i numeri gridano vendetta. La Cassazione ha infatti spesso sostenuto che dichiarare redditi troppo bassi in rapporto ai costi è un comportamento valutabile come prova presuntiva per accertare maggiori ricavi . La lezione qui è che un’impresa deve poter giustificare economicamente i propri bilanci, altrimenti il Fisco interverrà con stime d’ufficio.

In conclusione, la materia degli accertamenti da sottofatturazione nei lavori edili è complessa e richiede un approccio multidisciplinare: conoscenza del diritto tributario (norme e prassi), padronanza dei principi contabili, abilità nel produrre elementi tecnici (perizie) e, non ultimo, consapevolezza delle possibili implicazioni penali. Dal punto di vista del “debitore” – sia esso l’imprenditore edile chiamato a pagare imposte suppletive, sia eventualmente il cliente coinvolto – è fondamentale agire tempestivamente e con strategia, facendo valere i propri diritti. Le armi difensive esistono: la giurisprudenza offre appigli (ad esempio, invalidare accertamenti fondati su sole medie), il contraddittorio può portare a soluzioni transattive, e persino in sede penale vi sono vie per attenuare o evitare il peggio (collaborazione e pagamento).

La chiave è prevenire: la trasparenza nelle transazioni fiscali e la corretta fatturazione sono la miglior difesa in assoluto. Ma se l’accertamento arriva, questa guida avanzata fornisce gli strumenti per capire come muoversi e, auspicabilmente, come difendersi con successo o almeno limitare significativamente gli esborsi e le sanzioni. In ogni caso, l’assistenza di professionisti esperti rimane cruciale, poiché ogni vicenda ha dettagli specifici che possono fare la differenza tra una contestazione annullata e una confermata. Con la giusta preparazione e le argomentazioni adeguate, il contribuente può far valere le proprie ragioni e garantirsi che il Fisco rispetti i limiti imposti dalle norme e dai principi giurisprudenziali aggiornati al 2025, evitando esiti ingiusti o sproporzionati.

Fonti

  • Cass. civ., sez. V, ord. 15 maggio 2025, n. 13029

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Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata la sottofatturazione nei lavori edili?
Vuoi sapere cosa rischi e come impostare una difesa solida?

👉 Prima regola: dimostra la correttezza dei corrispettivi dichiarati e la congruità dei prezzi rispetto al mercato e ai contratti stipulati.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Importi fatturati inferiori a quelli ritenuti congrui dall’Agenzia sulla base dei valori di mercato;
  • Differenze tra contratti, computi metrici e fatture emesse;
  • Presunti pagamenti in nero o extra-fattura ai fornitori o alle imprese appaltatrici;
  • Incongruenze tra i lavori effettivamente realizzati e gli importi documentati;
  • Incroci di dati con DURC, Cassa Edile, fatturazione elettronica o conti correnti.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Recupero a tassazione dei ricavi ritenuti occultati;
  • Sanzioni fiscali per dichiarazione infedele;
  • Interessi di mora sulle somme accertate;
  • Rischio di contestazioni penali per dichiarazione fraudolenta o occultamento di ricavi;
  • Responsabilità solidale di imprese, amministratori e soci.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Le fatture rispecchiavano realmente i lavori eseguiti?
  • I corrispettivi erano in linea con i contratti e i preventivi?
  • Esistono prove di pagamenti extra o accordi in nero?
  • I valori usati dall’Agenzia per stimare la sottofatturazione sono attendibili?
  • L’accertamento si fonda su dati oggettivi o su presunzioni induttive?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Contratti di appalto e subappalto;
  • Computi metrici estimativi e preventivi;
  • Stati avanzamento lavori (SAL) e certificati di collaudo;
  • Estratti conto e quietanze di pagamento;
  • Documentazione fotografica e tecnica del cantiere.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la congruità dei prezzi fatturati rispetto ai lavori svolti;
  • Contestare le presunzioni di sottofatturazione con prove tecniche e contabili;
  • Evidenziare eventuali sconti commerciali o ribassi contrattuali legittimi;
  • Eccepire vizi di motivazione o carenze istruttorie nell’accertamento;
  • Richiedere annullamento in autotutela se i documenti erano già agli atti;
  • Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
  • Difesa penale mirata in caso di contestazioni per frode fiscale.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza contratti, fatture e documentazione tecnica dei lavori edili;
📌 Verifica la fondatezza delle contestazioni e i margini difensivi;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste nei giudizi fiscali e nei procedimenti penali;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una corretta gestione fiscale dei lavori.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e contenzioso fiscale;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su sottofatturazione e ricavi occulti;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulla sottofatturazione nei lavori edili non sempre sono fondate: spesso derivano da stime arbitrarie, presunzioni o valutazioni di congruità discutibili.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la correttezza delle fatture, evitare la riqualificazione come ricavi occulti e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sulla sottofatturazione in edilizia inizia qui.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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