Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché la tua impresa edile è stata considerata una “cartiera”? In questi casi, l’Ufficio presume che la società non svolga reale attività economica ma sia stata creata soltanto per emettere o utilizzare fatture false, con lo scopo di ridurre il reddito imponibile o ottenere indebite detrazioni IVA. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero delle imposte, sanzioni pesanti e procedimenti penali per frode fiscale. Tuttavia, non sempre l’accertamento è legittimo: con una difesa ben strutturata è possibile dimostrare la reale operatività dell’impresa o ridurre sensibilmente l’impatto delle sanzioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta l’uso di imprese edili come cartiere
– Se l’impresa non ha personale, mezzi o struttura adeguata a svolgere i lavori dichiarati
– Se le fatture emesse non sono supportate da contratti, documentazione di cantiere o prove di esecuzione
– Se i pagamenti risultano anomali, circolari o effettuati in contanti
– Se emergono incongruenze tra bilanci, dichiarazioni fiscali e volumi di affari dichiarati
– Se l’Ufficio presume che la società sia stata costituita solo per emettere fatture fittizie
Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione dei costi dedotti e dell’IVA detratta indebitamente
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Possibile esclusione dalle gare e dagli appalti pubblici
– Denuncia penale per emissione o utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’effettiva esecuzione dei lavori con documenti di cantiere, contratti e certificazioni
– Produrre prove dei pagamenti effettivamente effettuati e della tracciabilità delle operazioni
– Contestare la qualificazione come “cartiera” se l’impresa svolge reale attività economica
– Evidenziare vizi di motivazione, errori di calcolo o difetti istruttori nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione della contestazione in termini meno gravi
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria e difendersi, se necessario, anche in sede penale
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione contabile, fiscale e tecnica dei lavori contestati
– Verificare la legittimità della contestazione e la reale operatività dell’impresa
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e vizi procedurali
– Difendere l’impresa e gli amministratori davanti ai giudici tributari e penali
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da conseguenze sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– Il riconoscimento della reale operatività dell’impresa edile
– La certezza di pagare solo quanto effettivamente dovuto per legge
⚠️ Attenzione: le imprese edili sono frequentemente sotto controllo del Fisco perché considerate ad alto rischio di utilizzo come “cartiere”. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva e ben documentata per evitare pesanti conseguenze fiscali e penali.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e penale tributario – spiega come difendersi in caso di contestazioni per presunto utilizzo di imprese edili come cartiere e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.
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Introduzione
Ricevere una contestazione fiscale in cui l’Agenzia delle Entrate accusa la tua impresa edile di essere stata utilizzata come una “società cartiera” – cioè una società fittizia creata al solo scopo di emettere fatture false – è una circostanza grave e insidiosa. In ambito tributario italiano, l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti espone il contribuente a contestazioni sul diritto alla detrazione dell’IVA e alla deduzione dei costi, con il recupero delle imposte indebitamente detratte/dedotte oltre a sanzioni amministrative elevatissime. Nei casi più gravi scattano anche conseguenze penali a carico sia di chi ha utilizzato tali fatture, sia di chi le ha emesse. Dal punto di vista del contribuente (imprenditore edile, privato o professionista) che si trova accusato di aver beneficiato di fatture false, la domanda cruciale è: come difendersi e dimostrare la propria buona fede, evitando di pagare imposte non dovute e sanzioni sproporzionate?
Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – offre un’analisi approfondita e avanzata delle norme italiane in materia, delle strategie difensive e delle più recenti sentenze in tema di utilizzo di società cartiere. Adotteremo un linguaggio giuridico accurato ma comprensibile, adatto sia a professionisti (avvocati tributaristi, commercialisti) sia a imprenditori e privati coinvolti in verifiche fiscali. L’ottica è quella del contribuente debitore d’imposta che deve difendersi da un’accusa del Fisco: esamineremo quali diritti far valere e quali prove raccogliere per dimostrare la propria estraneità alla frode e salvare la propria azienda.
In breve: difendersi da un’accusa di fatture false significa provare di non aver saputo né potuto sapere che le controparti fossero fittizie (cartiere) e di aver adottato tutte le cautele diligenti esigibili da un operatore onesto. Vedremo come la normativa italiana distingue vari casi (operazioni oggettivamente vs soggettivamente inesistenti), come si riparte l’onere della prova tra Fisco e contribuente, quali sono le sanzioni tributarie e penali in gioco (comprese misure come il sequestro dei beni) e quali sono le possibili strategie difensive (dalle memorie in sede amministrativa al ricorso in commissione tributaria, fino alla coordinazione con eventuali procedimenti penali). Troverete inoltre tabelle riepilogative, esempi pratici e una sezione finale di Domande & Risposte per chiarire i dubbi più comuni, insieme a riferimenti a fonti normative e giurisprudenziali aggiornate.
Cos’è una “società cartiera” e perché spesso riguarda l’edilizia
In ambito fiscale, il termine colloquiale “società cartiera” indica un’entità giuridica fittizia, priva di reale attività economica, creata al solo scopo di emettere fatture false (non corrispondenti ad operazioni reali) a vantaggio di terzi . In pratica, la cartiera produce “carta”: documenti contabili (fatture) che attestano cessioni di beni o prestazioni di servizi mai avvenute, senza alcuna movimentazione effettiva di merci o lavoro. Spesso queste società presentano caratteristiche ricorrenti: minima patrimonializzazione, nessun dipendente, sede legale fittizia o cambiata di frequente, amministratori prestanome nullatenenti e sistematico omesso versamento delle imposte dovute . Il loro unico scopo è consentire ad altre imprese di evadere il fisco: la cartiera emette fatture con IVA che non verrà mai versata all’Erario, permettendo al cliente di dedurre costi e detrarre IVA indebiti, poi di solito scompare rendendo difficile ogni recupero .
Il settore edile è purtroppo spesso coinvolto in questi schemi. Le “cartiere” in edilizia possono presentarsi come piccole ditte individuali o SRL intestate a prestanome, senza mezzi né personale, che fatturano lavori mai eseguiti o sovrafatturano oltre il reale. Perché l’edilizia? Alcuni motivi: i cantieri permettono di giustificare con difficoltà verificabile l’uso di materiali e manodopera; i subappalti sono numerosi e complessi; inoltre, in passato incentivi fiscali (come il Superbonus) hanno creato terreno fertile per imprese fantasma che fatturavano lavori gonfiati o inesistenti. Esempio tipico: un’impresa edile con alti utili decide di abbattere il reddito e creare liquidità in nero: concorda con un’altra società compiacente (la cartiera) uno scambio di fatture per opere mai realizzate. La cartiera (es. una ditta edile minore intestata a un prestanome) emette fatture per finti noleggi di macchinari, consulenze di cantiere mai svolte o subappalti fasulli. L’impresa principale paga le fatture (magari con bonifico), ottiene la detrazione dell’IVA e la deduzione del costo, poi la cartiera restituisce clandestinamente l’80-90% dell’importo in contanti trattenendo una commissione. In tal modo, l’impresa ottiene soldi “in nero” e riduce le imposte, mentre la cartiera incassa la commissione e non versa l’IVA dichiarata .
Le violazioni contestate in questo scenario sono plurime: l’impresa utilizzatrice commette una frode fiscale (dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. 74/2000) per aver usato fatture false e si vede recuperare dall’Agenzia delle Entrate l’IVA detratta indebitamente e i costi fittizi dedotti, con sanzioni amministrative dal 90% al 180% dell’imposta evasa . La società emittente (cartiera) risponde del reato di emissione di fatture false (art. 8 D.Lgs. 74/2000) e viene a sua volta colpita per l’IVA non versata, con sanzione del 30% per omesso versamento oltre a eventuali misure cautelari sui beni . In ambito pubblico, se l’impresa edile beneficiaria partecipava ad appalti, rischia segnalazioni e l’esclusione per perdita dei requisiti di integrità .
Dal punto di vista tributario, l’utilizzo di fatture emesse da una cartiera comporta principalmente due effetti: (1) la detrazione IVA indebita sugli acquisti (poiché l’operazione non è reale, l’IVA esposta non è “vera” IVA su acquisti effettivi) e (2) l’eventuale deduzione indebita di costi ai fini delle imposte sui redditi (se l’operazione è totalmente falsa, il costo non è stato realmente sostenuto dall’impresa) . In entrambi i casi, il Fisco contesta il recupero dell’imposta (IVA o IRES/IRPEF) più interessi e pesanti sanzioni. Inoltre, come anticipato, l’emissione e l’utilizzo di fatture false integrano specifici reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000: chi utilizza tali fatture nelle dichiarazioni commette dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2), mentre chi le emette commette emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8) . Nella pratica, spesso il contribuente in buona fede scopre solo dopo la natura fittizia del fornitore: ad esempio, un’azienda può aver effettivamente ricevuto beni o servizi, ma scopre che il soggetto che ha fatturato era un mero schermo che non ha mai versato l’IVA incassata. Ciò non impedisce al Fisco di negare i benefici fiscali formali (detrazione e deduzione), sostenendo che giuridicamente l’operazione è inesistente. Spetta quindi al contribuente difendersi provando che – pur essendo risultato fittizio il fornitore – l’operazione economica c’è stata davvero e soprattutto che egli ha agito senza consapevolezza della frode, adottando tutte le cautele ragionevoli. Questa dimostrazione della buona fede è cruciale per evitare le sanzioni e vedersi riconosciuti i propri diritti tributari.
Operazioni inesistenti: oggettive vs. soggettive
È fondamentale distinguere tra le due categorie di operazioni inesistenti che possono essere contestate, perché comportano differenze sia nelle modalità di frode sia nelle strategie difensive e nel riparto dell’onere probatorio :
- Operazioni oggettivamente inesistenti: l’operazione fatturata non è mai avvenuta nella realtà. Si tratta di una falsità assoluta: beni mai ceduti, servizi mai resi – la transazione è del tutto simulata. La fattura è quindi completamente falsa in senso oggettivo, perché documenta un fatto economico inesistente. Esempio: una società riceve fatture per forniture mai consegnate o lavori mai eseguiti, allo scopo di gonfiare i costi deducibili o creare crediti IVA fittizi. In questi casi, manca totalmente la prestazione sottostante: il contribuente acquirente si è creato costi e IVA a credito che in realtà non doveva avere.
- Operazioni soggettivamente inesistenti: l’operazione economica c’è stata, ma tra soggetti diversi da quelli indicati in fattura. In pratica, la transazione reale avviene con un fornitore “vero” in nero, mentre in fattura compare un altro soggetto (la cartiera). La falsità è sul piano soggettivo: il documento riporta come venditore un soggetto diverso da quello che ha realmente fornito il bene/servizio. Esempio: nell’edilizia, può accadere che un’impresa utilizzi manodopera e materiali da subappaltatori non autorizzati o lavoratori in nero, ma si procuri fatture da una ditta compiacente per “coprire” quei costi. I lavori sono stati svolti in cantiere, ma non dalla ditta che figura in fattura. Oppure nei cosiddetti “giri carosello” IVA: la società A vende beni alla società B; per evadere l’IVA si inserisce fittiziamente una società C (cartiera) che fattura a B quegli stessi beni. B riceve effettivamente i beni da A, ma la fattura d’acquisto proviene da C; C non versa l’IVA incassata e sparisce, realizzando la frode . In tutti questi casi c’è un’essenza economica reale (i beni circolano, i servizi si svolgono), ma la documentazione fiscale coinvolge soggetti fittizi per creare un vantaggio fiscale indebito.
Nota: Esistono anche situazioni ibride, ad esempio la sovrafatturazione (fatture emesse per operazioni reali ma con importi gonfiati). In tali casi la fattura è falsa pro quota (per la parte eccedente la realtà) e, fiscalmente, la parte gonfiata viene trattata come operazione inesistente ai fini del recupero d’imposta e sanzioni.
Questa distinzione oggettiva vs soggettiva è importante perché incide sul piano probatorio. Se il Fisco dimostra che un fornitore è una pura cartiera, tende a qualificare l’operazione come inesistente oggettivamente (nessuna reale transazione) e quindi nega in toto IVA e costo. Il contribuente potrà tentare di retrocedere a inesistenza soggettiva provando che la prestazione c’è stata ad opera di altri (e dunque il costo è reale anche se “sostenuto in nero”). In ogni caso, sarà determinante valutare il comportamento del contribuente: sapeva, o avrebbe dovuto sapere, di avere a che fare con una cartiera? Su questo si gioca la difesa, come vedremo.
Di seguito, per comodità, presentiamo una tabella riepilogativa delle differenze:
Tipo di operazione | Descrizione fiscale | Esempio (settore edile) |
---|---|---|
Inesistente oggettiva | Transazione completamente fittizia: beni/servizi mai forniti. Fattura totalmente falsa. | Fattura per un noleggio macchinari mai avvenuto, o per lavori edili mai eseguiti in cantiere (beni/servizi del tutto inesistenti). |
Inesistente soggettiva | Transazione reale ma con fatturazione tramite soggetto interposto (cartiera). Operazione effettiva tra altri soggetti “in nero”. | Un subappalto edile fittizio: i lavori sono stati svolti da operai di un’altra ditta (in nero), ma sono fatturati da una Srl cartiera senza operai. Oppure acquisto di materiali realmente consegnati, ma la fattura proviene da una società diversa dal fornitore effettivo. |
Perché l’edilizia è a rischio: come detto, il settore delle costruzioni è terreno fertile per queste pratiche. La frammentazione delle opere (cantieri, subappalti, forniture di materiali) rende più difficile tracciare ogni passaggio, e storicamente vi sono stati numerosi casi di cartiere edili. Negli ultimi anni, la Guardia di Finanza ha individuato molti indici specifici per smascherarle: rapida crescita anomala del volume d’affari, assenza di strutture e dipendenti, mancata presentazione delle dichiarazioni e omessi versamenti IVA, utilizzo di regimi fiscali agevolati per creare crediti (ad es. nel caso del Superbonus) . Ad esempio, in un caso recente in Toscana tre soci di una società edile sono stati accusati di aver creato subappalti fittizi per giustificare 23 fatture false nel 2021-2022, ottenendo indebiti risparmi d’imposta; il tribunale ha disposto un sequestro preventivo dei loro beni per circa 300 mila €, pari all’IVA evasa, e contestualmente ha indagato il prestanome della cartiera emittente delle fatture . Questo esempio reale illustra come l’approccio del Fisco sia duplice: colpire l’utilizzatore (che ha beneficiato del risparmio d’imposta) e l’emittente (per l’omesso versamento dell’IVA e l’illecito profitto), e anticipare le mosse con misure cautelari come sequestri dei beni equivalenti al profitto.
Normativa italiana rilevante: IVA, imposte dirette, sanzioni e reati
Per comprendere come impostare la difesa, è utile richiamare sinteticamente le principali norme italiane che regolano la materia delle fatture false e delle società cartiere, sia sul piano fiscale (IVA e imposte sui redditi) sia su quello sanzionatorio amministrativo e penale:
- IVA – Diritto alla detrazione: L’IVA sugli acquisti è detraibile ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 633/1972 solo se l’acquisto è reale ed inerente all’attività. L’art. 21 dello stesso DPR richiede che le fatture contengano indicazioni veritiere: se la fattura documenta operazioni inesistenti, non conferisce diritto a detrazione (in quanto non è relativa ad un’operazione realmente effettuata). Il principio fondamentale a livello UE è quello di neutralità IVA, bilanciato però dal contrasto alle frodi: la Corte di Giustizia UE consente agli Stati di negare la detrazione se il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad una frode IVA (principio del “knew or should have known” dalla sentenza Kittel ). In Italia, questo principio è recepito dalla giurisprudenza: l’IVA è indetraibile in caso di fatture false quando il Fisco prova che il cessionario era consapevole (o gravemente negligente nel non accorgersi) della natura fittizia dell’operazione.
- Imposte sui redditi – Deduzione dei costi: In generale, secondo il TUIR (D.P.R. 917/1986), sono deducibili i costi effettivi, inerenti, certi e determinabili sostenuti dall’impresa per produrre il reddito. Le fatture oggettivamente false rappresentano costi non effettivi, quindi indeducibili. Caso particolare: le operazioni soggettivamente inesistenti. Qui il costo c’è stato realmente (anche se fatturato da soggetto diverso). La norma di riferimento è l’art. 14, comma 4-bis della Legge 537/1993, la quale – per evitare una doppia imposizione – stabilisce che sono comunque deducibili i costi relativi ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti se e nella misura in cui sono stati effettivamente sostenuti, salvo che si tratti di costi collegati ad attività illecite diverse dall’evasione. Questa disposizione, introdotta e rafforzata da riforme nel 2012, consente quindi al contribuente di dedurre il costo reale sottostante a una frode carosello, anche se sapeva della frode, purché il costo in sé sia vero e non collegato ad altri reati. La Corte di Cassazione ha confermato che, grazie a tale norma, anche se l’acquirente era consapevole del carattere fraudolento, il costo rimane deducibile (a meno che fosse un costo simulato per finalità illecite ulteriori). Ciò evita che l’azienda sia tassata su un “profitto” inesistente (costi effettivamente sostenuti) solo perché ha fatto uso di fatture irregolari. In sede di contenzioso, dunque, il contribuente dovrà almeno chiedere in subordine il riconoscimento dei costi reali dedotti ex art. 14 co.4-bis L.537/93, anche qualora l’IVA venga negata. (Attenzione: questa deducibilità non si applica se l’operazione era inesistente oggettivamente al 100%, perché in tal caso non vi è alcun costo reale; vale invece per le soggettive, nei limiti del sostenuto.)
- Sanzioni amministrative tributarie: L’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti configura una dichiarazione infedele o fraudolenta. La sanzione base per l’IVA indebitamente detratta e per i maggiori redditi non dichiarati è pari al 90% dell’imposta corrispondente ai componenti positivi sottratti a tassazione o ai crediti indebitamente utilizzati (art. 1, co.2 D.Lgs. 471/1997; art. 5, co.4 D.Lgs. 471/97) – qui si rientra nella fattispecie aggravata di elementi fittizi in dichiarazione. In caso di frode conclamata, le sanzioni vengono applicate di norma nella misura massima (fino al 180% dell’imposta) per via della gravità e dell’intento evasivo. Esempio: se una cartiera ha permesso di detrarre indebitamente €50.000 di IVA, all’utilizzatore sarà richiesto di versare quei 50.000€ più gli interessi e una sanzione base di altri 45.000€ (90%), eventualmente aumentabile. Va segnalato che la giurisprudenza UE ha rilevato come l’applicazione di una sanzione pari al 100% dell’imposta in aggiunta al recupero della medesima possa risultare sproporzionata se non vi è effettivo danno erariale (cfr. Corte di Giustizia EN.SA, causa C-712/17 ). In Italia la sanzione è del 90%, riducibile se si aderiscono a definizioni agevolate o conciliazioni, e alcuni giudici hanno talora ridotto le sanzioni in equità quando, ad esempio, l’Erario aveva già recuperato l’IVA da altro soggetto (v. Cass. 26374/2023, in cui – in un contesto di doppia imposizione – fu ritenuta eccessiva la sanzione piena e fu abbassata al 30% ). Tuttavia, in linea generale, in caso di fatture false il regime sanzionatorio ammette la cumulabilità del recupero e della sanzione, ritenendola una conseguenza legittima della condotta fraudolenta .
- Reati tributari (D.Lgs. 74/2000): La legge penal-tributaria prevede due reati speculari: art. 2 – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture false, a carico di chi utilizza fatture per operazioni inesistenti nelle proprie dichiarazioni fiscali; art. 8 – Emissione di fatture per operazioni inesistenti, a carico di chi crea o mette a disposizione tali fatture. Questi delitti sono entrambi puniti con la reclusione da 4 anni fino a 8 anni (questo è il massimo aumentato nel 2019 per inasprimento delle pene). Esistono soglie di punibilità: in particolare, per l’art. 2 è prevista una soglia quantitativa oltre la quale scatta l’incriminazione. Attualmente, se gli elementi passivi fittizi indicati in dichiarazione superano €100.000 per periodo d’imposta, si applica la pena piena; se sono inferiori a €100.000, il reato è comunque configurabile ma con pena ridotta (da 1 anno e 6 mesi a 6 anni) . In altre parole, sotto tale soglia esiste un’ipotesi di reato “di minore gravità” (art. 2 comma 2-bis). Per l’art. 8 (emissione) invece non vi è soglia: è punibile qualunque importo di fatture false emesse, con reclusione da 4 a 8 anni. Dal 2019, inoltre, alcuni reati fiscali sono stati inseriti tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti (D.Lgs. 231/2001): l’art. 25-quinquiesdecies di tale decreto include l’art. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000, per cui una società che trae vantaggio dalla commissione di una frode fiscale può essere sanzionata con pene pecuniarie fino a 500 quote (oltre a sanzioni interdittive) . In sintesi, l’imprenditore che utilizza fatture false rischia sia personalmente (processo penale con possibile detenzione) sia con la propria società (sanzioni pecuniarie ex 231 se l’illecito avvantaggia l’ente).
- Prescrizioni e misure cautelari penali: I reati di cui sopra hanno termini di prescrizione lunghi (oltre 8 anni, aumentabili con atti interruttivi). Nel frattempo, è prassi che l’Autorità Giudiziaria disponga il sequestro preventivo dei beni dell’indagato (art. 321 c.p.p.) finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato (art. 12-bis D.Lgs. 74/2000). Significa che se si ipotizza un’evasione di 300.000 €, il GIP può autorizzare il sequestro di denaro o beni dell’indagato fino a tale somma, per assicurare che in caso di condanna lo Stato possa confiscare l’equivalente dell’imposta evasa. Nel caso delle fatture false, il profitto del reato è individuato tipicamente nel risparmio d’imposta ottenuto indebitamente . Dunque chi beneficia di fatture da cartiera potrebbe vedersi congelare conti correnti, immobili, ecc., già nelle fasi iniziali dell’indagine penale, per importi pari all’IVA non versata e alle imposte evase.
- Statuto del contribuente e garanzie procedurali: La Legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) prevede importanti tutele procedurali durante l’attività di accertamento. Ad esempio, l’art. 12, comma 7, stabilisce che dopo un Processo Verbale di Constatazione (PVC) rilasciato da Guardia di Finanza o Agenzia Entrate a seguito di verifiche, il contribuente ha diritto a 60 giorni di tempo per presentare memorie e osservazioni prima che l’Ufficio emetta l’avviso di accertamento (salvo casi di particolare e motivata urgenza). La violazione di questo termine dilatorio può comportare la nullità dell’atto emesso ante tempus. Inoltre, valgono i principi generali sul contraddittorio endoprocedimentale: il contribuente ha diritto di conoscere le ragioni dell’accertamento e di replicare, e l’Ufficio deve valutare le memorie difensive presentate (un accertamento che non tenga conto delle difese presentate potrebbe essere viziato per difetto di motivazione). Conoscere queste norme procedurali è importante perché eventuali vizi (errori) in fase di accertamento – ad esempio accertamenti emessi prima dei 60 giorni senza urgenza, o mancata allegazione di documenti richiamati, o motivazione insufficiente – possono essere eccepiti nel ricorso come motivi di annullamento procedurale dell’atto, indipendentemente dal merito.
Riassumendo, la cornice normativa mette il contribuente accusato di fatture false di fronte a: un recupero fiscale integrale di IVA e imposte evase (indetraibilità/indeducibilità), sanzioni tributarie estremamente pesanti (fino al 180% dell’imposta), il rischio di processo penale (con possibili pene detentive e misure cautelari reali sui beni), oltre alla possibile responsabilità 231 per la società. A fronte di ciò, la legge offre alcuni strumenti difensivi importanti: la possibilità di dedurre i costi effettivi anche in scenari di frode (per evitare doppia tassazione del reddito), la causa di non punibilità penale pagando integralmente il debito tributario (art. 13 D.Lgs. 74/2000, v. infra), e garanzie di contraddittorio e diritto di difesa sia in sede amministrativa che giudiziale. Nei prossimi paragrafi ci concentriamo su come utilizzare queste leve nella pratica, dal punto di vista di chi deve difendersi.
Onere della prova nelle contestazioni da “cartiera” e ruolo della buona fede
Una delle questioni più delicate in queste controversie è la ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente e la rilevanza della buona fede di quest’ultimo. In generale, in diritto tributario vige il principio che chi sostiene l’esistenza di costi e diritto a detrazioni (il contribuente) deve provarli, ma nelle frodi fiscali l’impianto è complicato dal fatto che la frode spesso coinvolge elementi di dolo difficili da dimostrare. La giurisprudenza, nel tempo, ha delineato un quadro abbastanza chiaro:
Fase iniziale – onere in capo al Fisco: spetta all’Amministrazione finanziaria fornire elementi almeno presuntivi che i fornitori del contribuente erano “cartiere” e che quindi le operazioni fatturate erano inesistenti . In pratica, il Fisco deve produrre indizi gravi, precisi e concordanti circa la natura fittizia dei fornitori o delle transazioni: ad esempio dimostrare che la società emittente le fatture era priva di sede operativa, di mezzi e personale, che non presentava dichiarazioni né versava IVA, magari che è coinvolta in procedimenti penali per frodi analoghe . Spesso ciò emerge da indagini incrociate della Guardia di Finanza: riscontri come “la società fornitrice Alfa Srl risulta avere sede presso un mero indirizzo di comodo, nessun dipendente, e non ha versato l’IVA relativa alle fatture emesse”. Questi elementi fanno presumere che Alfa Srl sia appunto una cartiera. Una volta raggiunta questa soglia di prova iniziale, scatta un’inversione dell’onere.
Fase successiva – onere sul contribuente: dimostrata prima facie la cartiera, tocca al contribuente provare il contrario, ovvero che le operazioni contestate erano invece effettive . Ed è qui che entra in gioco la nozione di buona fede e diligenza: il contribuente non deve solo provare che magari i beni ci sono realmente stati, ma anche di aver agito con prudenza e senza collusione. La Corte di Cassazione ha chiarito che il contribuente, in questa fase, “non può limitarsi a esibire la fattura e la prova del pagamento”, perché tali elementi – pur necessari – “sono spesso parte integrante del meccanismo fraudolento, creati appositamente per dare una parvenza di realtà all’operazione” . Occorre invece una prova rigorosa e piena dell’effettiva esistenza dell’operazione . Ciò significa che l’azienda deve fornire riscontri extracontabili concreti: contratti, documenti di trasporto firmati, bolle di consegna merci, report di lavoro eseguito, fotografie dei cantieri, e-mail commerciali, ecc. Tutto ciò che dimostri che, al di là della cartiera, qualcosa è realmente accaduto. Inoltre, se anche si prova l’esistenza materiale, permane la necessità di dimostrare la propria buona fede, cioè di non essere stati consapevoli dell’inganno.
Il concetto di “avrebbe dovuto sapere”: la giurisprudenza italiana si è allineata alla citata dottrina europea del “knew or should have known”. In sostanza: se il Fisco prova (anche mediante presunzioni qualificate) che il contribuente sapeva o, usando l’ordinaria diligenza, avrebbe dovuto accorgersi che il fornitore era fittizio, allora la detrazione IVA va negata e le sanzioni reggono . Di contro, se il contribuente dimostra di aver fatto tutto il possibile per verificare l’affidabilità del fornitore e che nulla lasciava presagire la frode, può aspirare a vedersi riconosciuta la buona fede. Ad esempio, aver controllato la regolare iscrizione al Registro delle Imprese del fornitore, il DURC, la partita IVA (anche tramite VIES se estero), aver operato pagamenti tracciati a condizioni di mercato – tutti elementi che dipingono un comportamento diligente. La Cassazione ha più volte affermato che non è sufficiente invocare la buona fede in via generica, ma occorre provare di aver agito con la diligenza dell’operatore accorto nel proprio settore . Il parametro è oggettivo ma tarato sul caso concreto: da un piccolo imprenditore potrebbe bastare una visura camerale e qualche verifica di base, da una grande impresa ci si aspetta magari un controllo più approfondito.
Importante ricordare un principio ribadito di recente: in caso di operazioni soggettivamente inesistenti (quindi con merce consegnata ma fattura emessa da terzi), il Fisco deve provare sia che il fornitore è una cartiera, sia la consapevolezza del cessionario, prima di poter pretendere che sia il contribuente a discolparsi . Ad esempio, Cass. 10845/2024 ha chiarito che se l’Agenzia si limita a mostrare che il fornitore non versava l’IVA ed era fittizio, ma non dimostra alcun elemento di collusione o “connivenza” del cliente, allora non può automaticamente invertire l’onere della prova a carico di quest’ultimo . Tradotto: il solo fatto oggettivo che Tizio ha comprato da una cartiera non basta a fargli perdere il caso, se non si prova che Tizio lo sapeva o era in condizioni di accorgersene. In assenza di prova di consapevolezza, il giudice tributario dovrebbe annullare l’accertamento per difetto di prova a carico del Fisco.
Di contro, quando emergono indizi gravi di coinvolgimento, la buona fede diventa difficile da sostenere. Ad esempio, se risulta che il titolare dell’impresa edile acquirente era imparentato coi soci della cartiera fornitrice, la Cassazione ha dedotto che è altamente improbabile che non sapesse: Cass. 9919/2025 in un caso simile (società Beta fornitrice gestita dal cognato e dal marito del titolare di Alfa acquirente, e Beta non versava IVA) ha ritenuto che quel legame familiare stretto, unito ai sistematici omessi versamenti, fosse un indizio sufficiente di conoscenza della frode da parte di Alfa . In tal caso, ha negato la buona fede e confermato la ripresa IVA, richiamando proprio i principi UE: se il cessionario “sapeva o avrebbe dovuto sapere”, perde il diritto a detrazione .
In sintesi, sul piano probatorio: il Fisco deve fare il primo passo dimostrando la frode (cartiera) e qualche elemento di coinvolgimento; il contribuente, per vincere, deve fornire una controprova forte della realtà economica e della propria diligenza. Chi è veramente ignaro e accorto ha strumenti per difendersi – come vedremo nelle strategie difensive – mentre chi è stato quantomeno negligente rischia seriamente di soccombere, perché i giudici tendono a considerare “colpevole” anche l’ignoranza dovuta a mancanza di controlli adeguati . Il messaggio della giurisprudenza è chiaro: la buona fede non si presume, si dimostra attivamente . Nel dubbio, prevale l’interesse erariale alla lotta alle frodi, e le aziende sono tenute a essere proattive nel verificare con chi fanno affari.
Prima di passare alle strategie pratiche di difesa, una parola sulla causa di non punibilità penale: l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede che per alcuni reati fiscali – tra cui la dichiarazione fraudolenta e l’emissione di fatture false – il reo possa evitare la punibilità pagando integralmente il debito tributario (imposta, sanzioni e interessi) prima del giudizio (più precisamente, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado) . Ciò significa che un imprenditore che, anche per timore di sanzioni penali, si ravveda e versa tutto il dovuto, può evitare la condanna (il reato viene estinto). Questo naturalmente ha un costo elevato – restituire tutto il maltolto con sanzioni – ma è un elemento da tenere presente nella gestione integrata del contenzioso tributario e penale.
Strategie di difesa del contribuente (come difendersi in pratica)
Affrontare efficacemente una contestazione dell’Agenzia delle Entrate in materia di società cartiere richiede un approccio strutturato, proattivo e multidisciplinare. Di seguito illustriamo i passi fondamentali e i consigli pratici per predisporre al meglio la difesa – dal momento iniziale della verifica fiscale fino all’eventuale contenzioso in Commissione Tributaria e al coordinamento col penale. L’obiettivo è dimostrare la realtà delle operazioni contestate e la buona fede del contribuente, smontando le presunzioni di frode.
1. Analisi preliminare dell’accertamento e raccolta documenti: non appena si riceve un Processo Verbale di Constatazione (PVC) dalla Guardia di Finanza o un avviso di accertamento dall’Agenzia, occorre analizzare in dettaglio le contestazioni. Bisogna identificare esattamente quali elementi l’Ufficio considera indizi di cartiera: ad es., viene contestato che il fornitore non ha versato l’IVA? Che è risultato irreperibile all’indirizzo? Che dalle banche dati risulta privo di dipendenti? Queste informazioni orientano la linea difensiva. Subito dopo, avviare una raccolta sistematica di tutta la documentazione relativa alle operazioni contestate. Non limitarsi alle fatture e alle ricevute di pagamento (comunque importanti), ma puntare su prove sostanziali ed esterne che confermino la realtà economica delle transazioni . Ad esempio:
- Contratti stipulati con il fornitore e corrispondenza (email, lettere) che provino che c’è stata una trattativa commerciale reale.
- DDT (documenti di trasporto) firmati che attestino la consegna effettiva di materiali in cantiere, o rapportini di lavoro firmati per prestazioni.
- Registri di ingresso merci a magazzino, bolle di accompagnamento, fotografie di materiali presenti in cantiere o delle lavorazioni eseguite.
- Per servizi, eventuali relazioni, report o collaudi che certifichino l’esecuzione (es. report del direttore lavori che certifichi la prestazione resa).
- Elenco dei lavoratori presenti in cantiere in quel periodo (magari risultanti da firme di presenza) se si contesta manodopera.
- Prove di pagamenti effettuati e tracciabili (bonifici, assegni) intestati al fornitore contestato.
Più ampio e concreto è il dossier probatorio che riuscite a costruire, meglio è. L’ideale è riuscire a mostrare che, al di là delle apparenze, dietro quelle fatture c’era un’attività reale. Se, ad esempio, vi accusano che le fatture di noleggio ponteggi sono false, dovrete esibire foto del cantiere con i ponteggi montati, bolle di trasporto dei ponteggi, magari e-mail di ordine e conferma con la ditta fornitrice. Questa fase di raccolta è spesso decisiva: la differenza tra vincere o perdere il ricorso sta nelle prove che il contribuente riesce a contrapporre agli indizi del Fisco . Ricordate che, come detto, fatture e bonifici in sé non bastano: servono riscontri ulteriori, perché i documenti formali possono essere “di comodo” .
2. Verifiche sulla controparte (due diligence a ritroso): parallelamente, è utile svolgere una sorta di indagine retrospettiva sul fornitore contestato. Ciò serve sia a trovare eventuali elementi a vostro favore, sia a prepararvi a controbattere l’accusa di negligenza. Cosa fare? Reperite una visura camerale storica della società fornitrice: esaminate data di costituzione, amministratori succedutisi, capitale sociale, oggetto sociale, sede legale. Spesso le cartiere hanno vita breve (cessano dopo pochi anni) e sedi “di comodo”. Verificate se la sede esiste fisicamente (Google Maps Street View può aiutare, o un sopralluogo): se si scopre che era un indirizzo inesistente o uno scantinato, preparatevi a spiegare perché non potevate saperlo all’epoca (ad es. magari i documenti commerciali riportavano un altro ufficio reale dove avete incontrato i venditori). Controllate se la partita IVA del fornitore fosse presente nel sistema VIES (per fornitori intra-UE) o se esistono notizie su quel soggetto (anche semplici ricerche internet, o banche dati settore). Qualunque indizio di reale operatività può esservi utile: ad es. il fornitore aveva un sito web? Un catalogo prodotti? Partecipava a fiere di settore? Pubblicità online? Se trovate elementi del genere, conservateli: aiutano a sostenere che anche voi eravate convinti che fosse una ditta genuina. Viceversa, se scoprite ex post elementi di fittizietà (es. amministratore ultraottantenne nullatenente, sede presso un commercialista senza magazzino), mettetevi nell’ottica di dover giustificare come mai all’epoca non vi siete insospettiti: ad esempio, il contatto vi era stato presentato da un’altra impresa affidabile, oppure avete concluso l’affare tramite intermediari ben referenziati. In breve, fate un “check” del vostro fornitore come avreste dovuto farlo prima: serve sia per eventualmente rafforzare la prova della buona fede (se emergono aspetti di apparente normalità dell’epoca), sia per sapere in anticipo quali sono i vostri punti deboli.
3. Memoria difensiva pre-contenzioso: prima che l’accertamento diventi definitivo, utilizzate gli strumenti defensionali in sede amministrativa. Ai sensi dell’art. 12, comma 7 dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000), dopo il PVC avete diritto a presentare osservazioni e richieste entro 60 giorni. Anche se la verifica non si è conclusa con PVC ma ricevete direttamente un avviso di accertamento, di solito è prevista la possibilità di presentare istanza di autotutela o memorie entro il termine per l’impugnazione. Sfruttate queste possibilità: predisponete una memoria difensiva dettagliata, in cui esponete le vostre ragioni e allegate i documenti raccolti. Questa memoria è importante perché può (in alcuni casi) portare l’Ufficio a rivedere almeno in parte le proprie pretese, evitando il contenzioso su alcuni punti. Nella memoria dovrete:
- Contestare l’accusa di consapevolezza: dichiarate e motivate la vostra buona fede. Spiegate che nulla, all’epoca dei fatti, lasciava presumere che il fornitore fosse inesistente. Elencate le verifiche che avete effettuato (es.: “prima di iniziare il rapporto, abbiamo controllato che Beta Srl fosse regolarmente iscritta al Registro Imprese, attiva nel settore, iscritta alla Camera di Commercio; ci era stata presentata da un nostro partner commerciale di fiducia; i prezzi praticati erano in linea col mercato, non c’erano anomalie evidenti”). Insomma, fate vedere che vi siete comportati come qualsiasi imprenditore prudente avrebbe fatto .
- Mostrare l’effettività delle operazioni: descrivete le operazioni contestate e fornite un riassunto delle prove che ne attestano la realtà. Ad esempio: “La fattura n.123 riguarda la fornitura di 100 quintali di cemento: alleghiamo DDT firmato in data…, foto del cantiere dove il cemento è stato utilizzato, e dichiarazione del direttore dei lavori che conferma l’arrivo del materiale”. Oppure: “Le fatture per ‘noleggio ponteggi’ corrispondono a ponteggi realmente montati presso il cantiere X, come da permesso di occupazione suolo pubblico n…, foto e collaudo di sicurezza allegati”.
- Sottolineare eventuali incongruenze nella tesi del Fisco: se, ad esempio, il PVC afferma “nessuna consegna riscontrata” ma voi avete documenti di consegna, evidenziate questo elemento chiedendo che l’accertamento sia annullato in autotutela su quel punto. Oppure, se la contestazione si basa solo sul mancato versamento dell’IVA da parte del fornitore, fate notare (citando giurisprudenza, v. punto successivo) che ciò di per sé non prova la vostra connivenza e che servirebbero altri elementi.
- Citare norme e sentenze a vostro favore: una memoria ben argomentata può giovarsi di riferimenti normativi (ad es. citate proprio l’art. 14 co.4-bis L.537/93 per ricordare che i costi reali sono deducibili, così da indurre l’Ufficio a eventualmente riconoscerli anche in fase amministrativa) e giurisprudenziali (es. Cassazione che ribadiscono l’onere del Fisco di provare la consapevolezza del contribuente). A tal fine, potete menzionare le pronunce più rilevanti: Cass. 18874/2019, Cass. 9851/2018 (spesso citate in materia, che affermano che la prova della frode va a carico del Fisco e solo dopo si sposta sul contribuente) , oppure la recente Cass. 20270/2025 che ha cassato una decisione troppo favorevole al contribuente proprio chiarendo come funziona l’onere probatorio (la citeremo più avanti). Anche riferimenti a Kittel (Corte UE) e altre sentenze europee sul “doveva sapere” sono efficaci, perché segnalano al funzionario che siete consapevoli dei vostri diritti europei . L’obiettivo è far capire all’Ufficio che il caso non è così scontato come pensano e che avete buone carte da giocare, magari inducendoli a ridurre o annullare in autotutela alcune richieste prima di arrivare davanti al giudice .
Esempio di struttura di memoria difensiva (osservazioni al PVC):
Intestazione: indicare Ufficio, contribuente, riferimenti atto/PVC.
Introduzione: riassumere le contestazioni (fatture contestate, importi) e dichiarare la volontà di collaborare esponendo elementi difensivi.
Fatti e operazioni: descrivere sinteticamente l’attività della propria impresa edile e il contesto in cui sono avvenute le operazioni contestate, sottolineando la normalità apparente delle stesse. Es: “Nel 2021 la Alfa Srl ha intrapreso un cantiere edile a…; per tali lavori ha acquistato materiali e servizi dalla Beta Srl, fornitore presentatoci da… etc.”.
Documentazione prodotta: elencare i documenti allegati (contratti, DDT, foto, estratti contabili, visure, DURC del fornitore, ecc.), spiegandone il contenuto probatorio (es: “All.4: DDT n.5 del 10/5/21 firmato dal ns. magazziniere – prova la consegna dei materiali acquistati da Beta Srl”).
Argomentazioni giuridiche: – Realtà delle operazioni: evidenziare che le prove allegate dimostrano la reale esecuzione delle prestazioni (ad es. “I subappaltatori hanno effettivamente lavorato in cantiere, come da liste presenze e foto”). – Buona fede del contribuente: elencare le verifiche fatte (visure, controlli, prezzi di mercato pagati) e sottolineare che nulla di anomalo è emerso all’epoca. Citare art. 6, comma 2, Statuto Contribuente sulla buona fede e affidamento. – Onere della prova: richiamare giurisprudenza (Cassazioni, magari in allegato) che stabilisce che spetta al Fisco provare la conoscenza del contribuente, e che nel vostro caso tale prova non sussiste. – Deducibilità costi: invocare l’art. 14 co.4-bis L.537/93 chiedendo, in via subordinata, che sia riconosciuta la deduzione dei costi qualora il lavoro/materiale sia stato effettivamente impiegato nell’attività. – Eventuali vizi procedurali: se il PVC è stato notificato il giorno X ed entro 30 giorni vi è arrivato l’accertamento senza urgenza motivata, eccepire la violazione dell’art. 12 c.7 L.212/2000; o altre irregolarità riscontrate (mancata allegazione di documenti, ecc.).
Conclusioni: chiedere espressamente che l’Ufficio archivi o annulli in autotutela l’accertamento, quantomeno per la parte in cui vi è difetto di prova o per cui avete fornito evidenze contrarie, e in subordine riduca le sanzioni per obiettiva incertezza o assenza di danno erariale.
Firma e allegati.
Una memoria difensiva ben fatta, corredata di documenti, verrà esaminata dai funzionari dell’Agenzia. Non sempre li convincerà, ma può fare la differenza: ci sono casi in cui, a fronte di prove solide portate dal contribuente (es. bolle di consegna firmate che smentiscono l’assunto del Fisco di “nessuna consegna”), l’Ufficio ha rivisto la propria posizione ancora in sede amministrativa, riducendo la pretesa o rinunciando a parte delle sanzioni. Vale sicuramente la pena di tentare questa strada prima di finire in causa .
4. Valutare l’adesione o altre definizioni agevolate: parallelamente alla linea difensiva, tenete presente le possibili strategie transattive. Se l’Agenzia delle Entrate vi notifica un avviso di accertamento, avete facoltà di: (a) accettare e pagare (sconsigliato senza trattativa), (b) impugnare in commissione tributaria, oppure (c) attivare un accertamento con adesione. Quest’ultimo è un procedimento di negoziazione con l’Ufficio: si chiede un incontro (sospendendo i termini di ricorso) e si cerca un accordo sulla pretesa, ottenendo in cambio la riduzione delle sanzioni a 1/3. Nel caso di contestazioni da fatture false, l’esito dell’adesione dipende dalla forza delle vostre prove e dalla predisposizione dell’Ufficio. Se avete elementi convincenti, potreste negoziare per esempio di versare l’IVA detratta ma vedervi riconosciuti i costi deducibili, oppure una riduzione delle sanzioni in considerazione della collaborazione. Tuttavia, attenzione: aderire significa comunque pagare (anche se scontato) e rinunciare al ricorso. Occorre quindi ponderare bene. Se ritenete di avere un caso molto solido per ottenere l’annullamento totale in giudizio (magari perché avete già ottenuto una sentenza penale favorevole, o perché la prova del Fisco è nulla), potrebbe convenire non aderire e far decidere al giudice . Viceversa, se gli importi sono elevati e la causa incerta, l’adesione riduce il rischio e i costi delle sanzioni.
Oltre all’adesione, informatevi se pendono definizioni agevolate o sanatorie previste per liti pendenti. Negli ultimi anni spesso la legge di bilancio ha introdotto condoni o definizioni agevolate delle controversie tributarie: ad esempio nel 2023 c’era la possibilità di chiudere le liti pendenti in Cassazione pagando una quota ridotta. Se il vostro caso rientra in qualche norma di pace fiscale, valutatela come exit strategy. Talvolta conviene pagare qualcosa in più in via agevolata pur di chiudere il capitolo e liberarsi del fardello, specie se il penale può essere così risolto (ricordate: pagamento integrale = non punibilità ex art.13, e anche un pagamento parziale può aiutare ad attenuare le pene in sede di patteggiamento).
5. Coordinamento con l’eventuale procedimento penale: se la contestazione fiscale è di entità rilevante, quasi certamente sarà partita (o partirà) anche una procedura penale. Spesso accade che sia la stessa Guardia di Finanza, durante la verifica, a inviare un’informativa alla Procura per i reati di frode fiscale. È importante coordinare le difese: l’avvocato penalista e il tributarista devono lavorare in sinergia, condividendo informazioni e documenti.
Dal 2023, come accennato, c’è stata una riforma che cerca di allineare gli esiti dei due procedimenti: è stato introdotto l’art. 20, comma 1-bis D.Lgs. 74/2000 (in vigore da fine 2024) che prevede che le sentenze definitive del giudizio tributario possano essere acquisite nel processo penale sugli stessi fatti . In pratica, se vincete in Commissione Tributaria dimostrando la vostra buona fede, quella sentenza (una volta definitiva) potrà essere utilizzata come prova nel penale; e viceversa, una condanna penale definitiva per frode fiscale farà stato nel tributario. Questo per evitare esiti contrastanti. Anche prima di questa norma, comunque, le interazioni c’erano: spesso il processo penale per frode IVA viene sospeso in attesa che si definisca la causa tributaria, oppure procede ma tenendo d’occhio cosa stabiliscono i giudici tributari. Esempio reale: nel caso risolto da Cass. pen. n. 16442/2024, il giudice penale di merito aveva condannato un imprenditore ritenendo (erroneamente) che la sua società fosse una pura cartiera; nel frattempo però la Commissione Tributaria Regionale Lazio, in sede di appello, aveva dato ragione all’azienda riconoscendo che essa era invece operativa a tutti gli effetti e che le operazioni non erano fittizie . La Cassazione penale ha tenuto conto di questa divergenza: ha annullato la condanna evidenziando che i giudici penali non avevano concretamente valutato gli indici di effettiva operatività dell’azienda, la quale – come emerso nel giudizio tributario – aveva autorizzazioni ambientali, personale assunto, un fatturato consistente e un progetto industriale reale . In pratica la Cassazione ha detto: non ogni società che partecipa a una frode è per ciò stesso una cartiera; se ci sono evidenze di reale attività, non la si può bollare come fittizia senza un’accurata analisi. Questo ha salvato penalmente l’imprenditore, allineando l’esito a quello tributario.
La lezione è duplice: una difesa ben condotta in ambito tributario può fornire elementi decisivi anche nel penale per smontare l’accusa di frode . E per converso, se emergono nel penale fatti molto gravi (es. intercettazioni che provano accordi fraudolenti), sarà difficile sperare clemenza dal giudice tributario. Dunque, coordinatevi: se siete indagati penalmente, affidatevi a un penalista esperto di reati tributari e condividete con lui tutto il materiale probatorio raccolto. Una mossa difensiva importante, se ne avete le possibilità finanziarie, è considerare di pagare il dovuto al Fisco il prima possibile: come detto, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede la non punibilità se si estingue il debito tributario prima del dibattimento . Pagare magari centinaia di migliaia di euro entro pochi mesi non è da tutti, ma se ne avete facoltà ciò estingue il reato di frode fiscale. In alternativa, valutare il patteggiamento con la Procura: per reati ex art.2 e 8, il patteggiamento è possibile solo se si paga il debito o ci si impegna a pagarlo (non si può patteggiare lasciando il fisco a mani vuote). Il patteggiamento vi dà una pena ridotta ed evita il dibattimento, ma implica ammettere il fatto – quindi va ponderato anche rispetto al contenzioso tributario in corso. In ogni caso, collaborate strettamente con il vostro legale: fornitegli tutte le prove della vostra estraneità, eventuali testimoni a discarico (es. clienti finali che possano confermare che hanno visto il lavoro fatto). Un’assoluzione penale perché “il fatto non costituisce reato” (cioè manca il dolo) sarebbe un asso nella manica anche in sede tributaria, dove potreste chiederne la presa d’atto in autotutela.
6. Ricorso in Commissione Tributaria (ora “Corte di Giustizia Tributaria” provinciale): se la fase amministrativa non ha risolto la questione, bisogna prepararsi al contenzioso. Il ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale (di primo grado) va presentato entro i 60 giorni dall’avviso di accertamento (o 150 se si è fatta istanza di adesione nel frattempo). Nella redazione del ricorso è fondamentale sviluppare tutti i motivi di impugnazione in fatto e in diritto. In particolare, focalizzarsi su:
- Vizi procedurali/formali dell’atto: ad esempio, eccepire se l’accertamento è stato emanato prima dei 60 giorni dal PVC senza urgenza motivata (violazione art.12 c.7 Statuto), oppure se l’atto non espone adeguatamente le ragioni (difetto di motivazione), oppure se il PVC della GdF richiamato non è stato allegato (violazione art. 7 L.212/2000). Questi aspetti non vanno trascurati: se c’è un vizio formale serio, il giudice può annullare l’atto a prescindere dal merito. Ad esempio, la Cassazione ha confermato che l’inosservanza del termine di 60 giorni può comportare nullità dell’atto , e altre sentenze richiedono che l’Ufficio motivi sulle memorie difensive presentate dal contribuente (pena invalidità per difetto di motivazione). Quindi, esaminate l’iter e inserite ogni eccezione utile.
- Merito – difetto di prova della frode: questo è il cuore: dovrete spiegare che manca o è insufficiente la prova che voi abbiate partecipato consapevolmente ad una frode. Ad esempio, se l’Agenzia si è limitata a provare che il fornitore non ha versato l’IVA, ma non ha dimostrato alcun elemento di vostra complicità, dovrete sottolineare che la giurisprudenza (citando le sentenze appropriate) richiede la prova anche della consapevolezza del cessionario prima di togliere la detrazione . Come visto sopra, potete citare Cass. 10845/2024 e altre: “provata la cartiera, tocca al contribuente provare la sua innocenza solo se il Fisco ha fornito indizi qualificati di connivenza; in mancanza, l’atto è illegittimo”. Se nel vostro caso il Fisco non ha tali indizi, chiedete l’annullamento integrale dell’atto per difetto di prova.
- In subordine – buona fede e diligenza: qualora invece emergano elementi di frode (es. la cartiera è conclamata e magari c’è qualche sospetto sulla vostra condotta), la vostra linea sarà far valere che comunque eravate in buona fede. Qui dovrete enfatizzare tutte le azioni diligenti che avete compiuto e ribadire che le eventuali anomalie non erano conoscibili da parte vostra . Nel ricorso, elencate nuovamente i controlli fatti, allegate le prove della realtà delle operazioni (documenti tecnici, consegne, ecc.) e chiedete al giudice di valutarle attentamente (“valorizzarle”, come dicono alcune sentenze di merito). Se nel frattempo avete ottenuto un proscioglimento penale o un’archiviazione, evidenziatelo: spesso le Commissioni Tributarie guardano con attenzione a cosa accade nel penale. Ad esempio, se un GIP ha archiviato ritenendo che non vi fosse dolo, potrete allegare quel provvedimento. Anche se formalmente i giudizi sono indipendenti, in pratica un giudice tributario può essere influenzato positivamente da una pronuncia penale liberatoria (e viceversa negativamente da una condanna). Nel nostro caso di esempio sopra, la CTR Lazio 2023 n.3573 che ha riconosciuto l’operatività della società cartiera lo ha fatto in parziale contrasto con una precedente sentenza penale di condanna di primo grado; tale condanna poi è stata annullata da Cassazione penale 16442/24 come visto, portando coerenza tra i due giudizi . Conclusione: nel ricorso citate tutto ciò che può supportare la vostra buona fede: normative (es. art. 6, comma 2 Statuto Contribuente: “le sanzioni non sono irrogate se la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza” – potrebbe applicarsi se davvero eravate ignari), e sentenze di Cassazione che abbiano annullato accertamenti per difetto di prova sul contributore inconsapevole .
- Deducibilità dei costi reali: se l’atto vi nega anche la deduzione dei costi, fate valere espressamente l’art. 14 co.4-bis L.537/93. Cioè chiedete al giudice: “Se anche ritiene inesistenti soggettivamente le operazioni, voglia comunque riconoscere in deduzione i costi che sono risultati effettivamente sostenuti”. Portate magari giurisprudenza a sostegno: ad esempio Cass. 30018/2022 ha proprio sancito la deducibilità dei costi di operazioni soggettivamente inesistenti anche qualora il contribuente fosse consapevole, purché i costi siano inerenti e certi . Ci sono state anche Commissioni di merito che hanno applicato questa regola (viene citata CTR Veneto n.1267/2014 nel medesimo solco). Questo serve a limitare i danni: magari l’IVA si perderà comunque, ma almeno non pagherete imposte sui redditi su somme che non sono rimaste in tasca vostra.
Per il ricorso tributario è spesso utile anche produrre un breve indice cronologico degli eventi e magari uno schema per illustrare il flusso finanziario sospetto, confutandolo. Nel settore edile, ad esempio, si può allegare un grafico che mostri: “Pagamenti effettuati da Alfa spa a Beta srl (fornitore): tot euro via bonifico; prelievi in contanti da Beta srl: tot euro (questo lo troverete se avete accesso agli atti penali); assenza di restituzioni a Alfa spa”. A volte i giudici apprezzano gli schemi per comprendere fenomeni complessi.
7. (Eventuale) Appello in Commissione Tributaria Regionale: se in primo grado le cose vanno male, non scoraggiatevi: è frequente che in cause di un certo rilievo la decisione cambi in appello. Preparate l’atto di appello evidenziando gli errori dei primi giudici. Ad esempio, se la CTP ha sottovalutato le vostre prove, insistete su di esse; se ha invertito male l’onere probatorio, ribadite la giurisprudenza di legittimità. Dal 2023 la giustizia tributaria ha introdotto alcune novità che vi possono aiutare in appello: è ammessa (in forma scritta) la prova testimoniale autorizzata dal giudice . Ciò significa che potete far presentare dichiarazioni giurate di terzi (ad esempio il direttore dei lavori che attesti la presenza degli operai, o il cliente del cantiere che confermi che il lavoro è stato eseguito) da far valere in appello, soprattutto se in primo grado non erano state ammesse. Inoltre, è stato introdotto il rinvio pregiudiziale interno in Cassazione per questioni di diritto controverse: nel tema fatture false però l’indirizzo è abbastanza consolidato, quindi difficilmente verrà attivato, ma è bene sapere che esiste una maggiore attenzione alla uniformità di giudizio.
In appello, potrete anche beneficiare di eventuali sopravvenienze: se, ad esempio, nelle more il vostro fornitore cartiera ha versato l’IVA evasa e definito la propria posizione (magari perché per estinguere il reato ha pagato tutto), portate questo fatto all’attenzione dei giudici . Formalmente, come già detto, il pagamento tardivo da parte del fornitore non vi ridà il diritto a detrarre l’IVA, ma potete invocarlo sul piano dell’equità per chiedere la riduzione delle sanzioni (per mancanza di danno erariale). Cass. 26374/2023, già menzionata, ha fatto proprio un discorso di proporzionalità: in uno scenario di “doppio recupero” (fornitore e cliente), ha considerato eccessiva la sanzione piena al cliente e l’ha ridotta al minimo . Questo è un precedente a vostro favore in appello, se applicabile.
8. Attenzione alla riscossione e ai “doppi pagamenti”: un aspetto critico da gestire durante il contenzioso è la riscossione delle somme accertate. In genere, la notifica di un avviso di accertamento per fatture false implica che, dopo 60 giorni, l’importo venga iscritto a ruolo e vi possa giungere una cartella di pagamento (per tributi e sanzioni) – a meno che non abbiate ottenuto una sospensione. Dato che cause di questo tipo possono durare anni, rischiate di dover pagare prima che il giudizio si sia concluso. Potete presentare istanza di sospensione della riscossione alla Commissione Tributaria (oggi Corte Giustizia Trib.) se sussistono gravi e fondati motivi (art. 52 D.Lgs. 546/92). Chiedete al giudice di sospendere l’esecutività dell’atto, evidenziando ad esempio che pagarne l’intero importo metterebbe a repentaglio la sopravvivenza dell’azienda. Sappiate però che in materia di frodi, i giudici tributari sono tendenzialmente più restii a concedere sospensioni (non vogliono “favorire” potenziali evasori, a meno che il fumus di buona fede non sia chiaro). Comunque tentare è doveroso. Se ottenete la sospensione, la cartella non verrà eseguita fino alla sentenza di primo grado.
Sul fronte penale, come già detto, potreste subire sequestri preventivi dei beni. Anche lì è possibile chiedere al tribunale del riesame la revoca o riduzione del sequestro, magari dimostrando che l’importo è calcolato male (es. includendo costi che sarebbero deducibili).
Una problematica peculiare è quella della doppia imposizione in caso di frode carosello: può succedere, per assurdo, che la stessa IVA venga incassata due volte dallo Stato – una dal cliente e una (se recuperata) dalla cartiera. Come già accennato, se la cartiera poi finisce per pagare (evento raro, ma non impossibile in caso di pentimento o interesse a patteggiare), il cliente si troverebbe comunque a non poter recuperare nulla di quanto ha versato. La Cassazione penale ha chiarito che il successivo pagamento dell’IVA da parte della cartiera non “riabilita” la fattura ai fini della detraibilità per l’utilizzatore . In altre parole: la fattura era falsa sin dall’origine e tale rimane, anche se l’Erario non ha subito in definitiva un danno (perché ha incassato l’IVA dal fornitore). Dunque il cliente paga due volte (lui e l’altro) e comunque perde la detrazione . Ciò è stato ritenuto compatibile col diritto UE, in ragione della natura sanzionatoria della vicenda . Per voi, questo significa che non potrete eccepire “ma l’IVA è stata versata dal fornitore, ridatemi il credito” – non funziona, purtroppo. Al più, come detto, potete far presente la cosa per invocare clemenza sulle sanzioni.
In caso di esiti negativi definitivi (Cassazione sfavorevole), restano strumenti straordinari come la revocazione della sentenza (se emergono fatti nuovi molto rilevanti o errori di fatto riconoscibili) – casi rari, o eventualmente la transazione con l’ente riscossore: una volta chiuso il contenzioso potete sempre trattare con Agenzia Entrate-Riscossione per una dilazione del pagamento (fino a 72 rate ordinarie, o 120 rate se in difficoltà) e talvolta si riesce a ottenere, in sede di trattativa finale, anche uno sconto sulle sanzioni. Non è codificato, ma capita soprattutto se minacciate cause ulteriori (come ricorsi in Corte europea, ecc.). L’importante è mantenere un approccio strategico anche in fase post-giudizio.
9. Casi eccezionali: contestazioni multiple o “abuso del diritto”: la maggior parte delle contestazioni relative a cartiere rientra nelle frodi IVA pure. Tuttavia, a volte il confine tra evasione fraudolenta ed elusione (abuso del diritto) può essere sottile. Ad esempio, se la vostra difesa riesce a dimostrare che le operazioni contestate avevano comunque una sostanza economica, ma magari erano architettate principalmente per risparmio fiscale, l’Amministrazione potrebbe derubricare la contestazione da operazioni inesistenti a operazioni abusive ex art. 10-bis L. 212/2000. La differenza è significativa: l’abuso del diritto (elusione) non comporta reato penale né sanzioni amministrative piene, ma solo il recupero del vantaggio fiscale con sanzione ridotta a 1/3 (quindi 30%) . Ad esempio, se avevate creato una struttura societaria artificiosa (magari una “cartiera” estera) solo per usufruire di un credito d’imposta, il Fisco potrebbe contestare l’inesistenza soggettiva o, in alternativa, l’abuso. Nel ricorso, se ritenete che effettivamente non vi fosse frode ma al più un disegno elusivo, potete prospettare questa qualificazione alternativa e sostenere che non vi spettano sanzioni penali ma solo il ricalcolo delle imposte. Ovviamente è una linea delicata (implica ammettere un vantaggio indebito, seppur lecito). Ma in casi dubbi – es. interposizioni societarie che però non sono completamente fittizie – può essere una strategia di riserva. L’art. 10-bis Statuto contribuente definisce abuso come operazione priva di sostanza economica effettuata essenzialmente per ottenere benefici fiscali indebiti, ma realizzando comunque l’obiettivo economico in forme anomale. Se sostenete questa via, dite chiaramente: “L’operazione era reale e non c’è stata evasione di imposta (tutta l’IVA dovuta è stata versata, i redditi dichiarati), al più vi è stato un risparmio d’imposta indebito ottenuto mediante artifici giuridici: ciò configura abuso del diritto, che comporta solo la riliquidazione delle imposte senza sanzioni penali”. Questa argomentazione va usata con cautela e solo se applicabile. Nella pratica, per operazioni con cartiere pure, raramente il Fisco accetta di considerarle abuso anziché evasione, salvo che la fattispecie non rientri proprio meglio in quell’alveo (ad es., costruzioni di crediti fittizi da bonus edilizi venduti a terzi – alcune di queste situazioni borderline sono state trattate come truffe, altre come abusi a seconda dei casi).
10. Prepararsi ai tempi lunghi e agli scenari successivi: infine, è bene avere consapevolezza che queste battaglie possono essere lunghe e faticose. Un contenzioso su fatture false può durare diversi anni (primo grado, appello, eventuale Cassazione). Nel frattempo, l’azienda deve sopportare lo stress finanziario (somme accertate, eventuali vincoli su beni) e reputazionale. È importante pianificare di congelare le somme contestate (se possibile, accantonare in bilancio una parte, o offrire garanzie per sospendere la riscossione), e mantenere un atteggiamento resiliente. Se la posta è molto alta e c’è in gioco la sopravvivenza dell’impresa, valutate anche se intraprendere percorsi alternativi: ad esempio, procedure di composizione della crisi d’impresa qualora l’esposizione debitoria fiscale diventasse insostenibile (piani di ristrutturazione debiti col fisco, ecc.). Sono scelte estreme, ma da non escludere in caso di esito negativo definitivo. In parallelo, traete lezione per il futuro (come vedremo nelle FAQ finali): implementate controlli più stringenti sui fornitori, magari predisponete un Modello 231 per i reati tributari (oggi fortemente consigliato, visto che l’ente risponde). Ciò potrà evitarvi il ripetersi di situazioni simili.
In sintesi, la difesa di un contribuente accusato di aver utilizzato fatture da società cartiere deve puntare a: smontare le presunzioni di consapevolezza a suo carico, dimostrare la sostanza economica delle operazioni e la diligenza del proprio comportamento, far valere le norme favorevoli (come quella sulla deducibilità dei costi reali) e utilizzare ogni strumento procedurale (pagamenti per estinguere reati, adesioni, istanze di sospensione) per ridurre il danno complessivo. La giurisprudenza più recente offre spunti importanti a supporto di chi è realmente in buona fede, ma resta severa con chi – anche solo per grave leggerezza – si è prestato a meccanismi evasivi.
Giurisprudenza aggiornata: casi e principi chiave (2023-2025)
Negli ultimi anni vi sono state numerose pronunce, sia di Cassazione sia di Corti di merito, in materia di frodi carosello e utilizzo di fatture da cartiere. Riassumiamo qui alcune decisioni chiave recenti (fino al 2025) e i relativi principi di diritto rilevanti per la difesa del contribuente:
- Cassazione Civile, Sez. Trib., ord. n. 20270/2025 (19 luglio 2025): ha chiarito con forza l’inversione dell’onere della prova nei casi di fatture false . Principio affermato: se il Fisco fornisce indizi qualificati che il fornitore è una cartiera (ad es. assenza di sede operativa, di personale, coinvolgimento in indagini penali), allora spetta al contribuente provare che l’operazione contestata è reale . La regolarità formale delle fatture e dei pagamenti non basta; il contribuente deve dimostrare con documentazione extrafiscale che la prestazione è stata effettivamente eseguita . In mancanza di tale prova contraria, il giudice deve ritenere legittimo il recupero. In questa ordinanza la Cassazione ha cassato la sentenza di merito che aveva erroneamente addossato al Fisco l’onere di provare la “non avvenuta operazione”, consolidando così l’orientamento: all’Amministrazione basta provare per presunzioni la fittizietà, dopodiché l’onere passa interamente al contribuente . Importanza per la difesa: conferma che per vincere il contribuente deve portare prove sostanziali pro-good faith; semplici fatture e pagamenti sono considerati elementi spesso preparati ad hoc nelle frodi.
- Cassazione Civile, Sez. V, ord. n. 9919/2025 (depositata 16 aprile 2025): caso incentrato sulla buona fede negata per legami personali tra contribuente e cartiera. La ditta Alfa (contribuente) detraeva IVA da fatture della Beta srl; Beta però non versava l’IVA e si è scoperto che i soci di Beta erano il marito e il cognato della titolare di Alfa. La Cassazione ha ritenuto che questo legame familiare stretto, unito alla gravità e sistematicità degli omessi versamenti IVA da parte di Beta, fosse un indizio sufficiente per concludere che Alfa sapesse o quantomeno avrebbe dovuto sapere della frode . Ha quindi negato la buona fede ad Alfa, confermando il disconoscimento della detrazione. Ha richiamato espressamente i principi UE: il diritto a detrazione va negato se il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare a un’evasione . Importanza: ribadisce che rapporti di parentela o stretta comunanza con la cartiera sono fattori probatori forti di connivenza; inoltre sottolinea che anche un “semplice” omesso versamento IVA a monte, se notevole e conoscibile, è sufficiente a far perdere il diritto a detrazione (non serve che vi sia un’organizzazione fraudolenta complessa; basta un’evasione evidente e conoscibile per chi opera con diligenza).
- Cassazione Civile, Sez. Trib., ord. n. 13015/2025 (15 maggio 2025): ha affrontato il tema della diligenza richiesta al cessionario. Da quanto risulta (la sentenza è citata in commenti, non pubblicamente integrale), la Corte avrebbe affermato che non basta invocare la buona fede in termini generici: il contribuente deve dimostrare di aver agito con la diligenza massima richiesta a un operatore del settore . Nel caso specifico (pare riguardasse una frode IVA su compravendita di auto usate), la CTR aveva dato ragione al contribuente ritenendo che non potesse sapere della frode; la Cassazione ha invece cassato, sostenendo che un operatore di lunga esperienza nel commercio auto doveva porre in essere controlli adeguati (ad es. verificare la provenienza e documentazione delle auto) e che la sua mancata percezione della frode fosse indice di negligenza . Importanza: conferma che il metro è quello della “massima diligenza” rapportata al caso concreto: più l’imprenditore è esperto e il settore è a rischio, più cautele sono pretese. La difesa quindi deve sempre dimostrare di aver adottato tutte le cautele normalmente esigibili in quel contesto specifico.
- Cassazione Penale, Sez. III, sent. n. 16442/2024 (dep. 19 aprile 2024): pronuncia di grande rilievo in sede penale, già richiamata. La Corte ha annullato la condanna di un imprenditore per i reati di dichiarazione fraudolenta (art. 2) e emissione di fatture false (art. 8) perché i giudici di merito avevano classificato la sua società come “cartiera” senza adeguata prova . In pratica, in primo e secondo grado si era sostenuto che la società P. s.r.l. fosse fittizia e usata solo per emettere fatture, ma la Cassazione ha rilevato che questa conclusione era stata tratta in modo apodittico, senza un’analisi concreta degli indici di operatività dell’azienda . Ha invece evidenziato vari elementi che provavano l’attività effettiva: la società aveva un progetto commerciale di espansione, disponeva di autorizzazioni ambientali per un impianto (era nel settore rifiuti plastici), aveva assunto personale con procedure regolari (coinvolgendo anche i sindacati), realizzava un fatturato significativo e utili, ecc. . Questi riscontri facevano cadere l’ipotesi della cartiera vuota. Inoltre – come detto – parallelamente la giustizia tributaria (CTR Lazio) sugli stessi fatti aveva dato ragione al contribuente, riconoscendo la piena operatività di P. s.r.l. La Cassazione penale, pur ribadendo la separazione dei giudizi, ha preso atto di tale valutazione e ha evitato un esito confliggente, aderendo di fatto alle risultanze del giudice tributario . Ha quindi annullato la condanna e rinviato per nuovo esame. Importanza: lancia un messaggio forte: non ogni società coinvolta in uno schema evasivo è automaticamente una cartiera. Se ha una propria realtà economica e i vantaggi fiscali ipotizzati sono dubbi o marginali, non la si può bollare come fittizia senza un’attenta analisi. È un richiamo ai giudici – soprattutto penali – a evitare automatismi accusatori. Dal punto di vista difensivo, è preziosa perché elenca vari indicatori oggettivi di genuinità di una società: autorizzazioni reali, investimenti, personale effettivo, risultati economici positivi, etc. . Se riuscite a mostrare che il vostro fornitore contestato possedeva alcuni di questi indici (ad esempio, era sul mercato da molti anni, con dipendenti e clienti reali), potete argomentare che forse non era una mera cartiera, indebolendo la presunzione di frode.
- Cassazione Penale, Sez. III, ord. n. 9333/2024 (5 marzo 2024): decisione interessante per la questione del doppio versamento IVA già discussa. In questo caso, la società cartiera (emittente) aveva sanato la propria posizione versando tutto il dovuto (imposte, sanzioni, interessi) per ottenere la propria archiviazione in sede penale . La società utilizzatrice, venuta a conoscenza di ciò, ha chiesto la restituzione delle somme sequestrate a lei (corrispondenti all’IVA fittizia non versata originariamente), sostenendo che ormai quell’IVA era stata pagata all’Erario dall’emittente. I giudici – Cassazione compresa – hanno negato il dissequestro e chiarito che il pagamento effettuato dalla cartiera non “riabilita” la fattura né esonera l’utilizzatore dal suo debito . La fattura resta inesistente e quindi l’IVA resta indetraibile e va pagata (dall’utilizzatore) con relative sanzioni e interessi, nonostante il Fisco abbia già incassato quell’IVA dal fornitore emittente . La Cassazione ha sottolineato che l’estinzione del reato per l’emittente (grazie al pagamento integrale) non implica affatto che l’utilizzatore sia innocente; anzi, possono benissimo aver commesso entrambi il reato ciascuno per la sua parte . Importanza: conferma in modo autorevole la linea “dura” sul piano tributario – il contribuente utilizzatore non può evitare la ripresa IVA appellandosi a eventuali ravvedimenti altrui. Anche a fronte di quella che appare come una doppia imposizione, il sistema la considera legittima come effetto deterrente della frode. Viene richiamata anche la CGUE (sentenza EN.SA citata) per affermare che questa doppia imposizione non viola il diritto UE data la natura sanzionatoria della vicenda . Per la difesa, ciò significa che non c’è spiraglio di far leva su pagamenti terzi per vedersi restituire il proprio (salvo appunto puntare solo alla riduzione sanzioni per sproporzione, come già detto).
- Cassazione SS.UU. Civili, sent. n. 6477/2024 (12 marzo 2024): questa è una pronuncia delle Sezioni Unite, ma va detto che non riguarda direttamente il merito fiscale della frode, bensì una questione processuale (mancata firma digitale su un ricorso per Cassazione) in un caso di frode carosello nel commercio di auto (caso Unicar s.r.l.). Le SS.UU. hanno deciso solo sul profilo procedurale, stabilendo che il ricorso non era inammissibile nonostante la firma digitale mancante (questione tecnica). Tuttavia, dalla vicenda si ricava un’indicazione: l’Agenzia delle Entrate nel suo ricorso lamentava che la CTR avesse invertito l’onere della prova eccessivamente a favore del contribuente, richiedendo al Fisco più di quanto dovuto e finendo per far gravare sul contribuente la prova della buona fede solo dopo aver provato la natura cartiera del fornitore . In pratica, l’Agenzia sosteneva che il giudice di merito era stato troppo indulgente col contribuente. Le Sezioni Unite, non entrando nel merito probatorio (hanno risolto solo la questione della firma, rimandando il merito alla sezione tributaria), ci fanno capire che la linea dell’Amministrazione è sempre quella di far valere che “provata la cartiera, tocca al contribuente provare la sua innocenza”. E che quando qualche giudice di merito mostra troppa benevolenza, il Fisco impugna fino alla Cassazione. Le SS.UU. 2024 non hanno dunque fissato principi sostanziali sul nostro tema (si sono limitate a rimettere in carreggiata il processo dopo il vizio di firma), ma è utile notare che nel loro discorso citano anch’esse la sentenza EN.SA della Corte UE (8 maggio 2019, C-712/17), ribadendo che imporre il pagamento dell’IVA e negare la detrazione in caso di operazioni fittizie è lecito, ma infliggere in aggiunta una sanzione pari al 100% può essere sproporzionato se non vi è perdita di gettito . In altre parole: bene recuperare imposta e magari sanzionare, ma occhio alla proporzionalità se il danno erariale è nullo. Questa nota, pur obiter, conferma quel filone già discusso. Dunque, per completezza, sappiate che il tema della proporzionalità delle sanzioni in frode IVA è vivo, e potete invocarlo se vi trovate in situazioni di palese assenza di danno (es. fornitore che versa tutto prima della sentenza, ecc.). Però finora è un argomento più teorico: in pratica, come visto, solo pochi casi (Cass. 26374/23) hanno concretamente ridotto sanzioni per questo.
- Giurisprudenza di merito (Commissioni Tributarie): oltre alla Cassazione, molte Commissioni Tributarie provinciali e regionali hanno affrontato casi simili. In genere, esse cercano di applicare i principi di Cassazione al caso concreto. Possiamo notare un trend: quando il quadro indiziario del Fisco è robusto (fornitore conclamato cartiera e magari qualche elemento che sporca anche il contribuente, tipo pagamenti anomali, legami personali, discordanze documentali), il contribuente quasi sempre perde. Quando invece gli indizi sono deboli oppure il contribuente fornisce una spiegazione alternativa plausibile e documentata, può spuntarla. Ad esempio, la Corte di Giustizia Tributaria II grado Lazio, sent. n. 3573/2023 (già citata nel caso Cass.16442/24) ha riconosciuto in pieno le ragioni del contribuente, giudicando operativa e reale la società accusata di essere cartiera e annullando l’accertamento . Di contro, la CTR Lombardia nel 2020 (massimata) affermò in sostanza che “il contribuente non può invocare la buona fede se non dimostra la diligenza: la partecipazione alla frode è intrinseca”, rigettando il ricorso del contribuente (orientamento severo). La CTR Toscana nel 2022 similmente disse che “la mera esistenza di documenti contabili non prova l’effettività se ci sono evidenze di assenza di struttura del fornitore”, confermando un accertamento – qui punendo il fatto che l’azienda si era limitata a esibire fatture e pagamenti ma il fornitore era palesemente fantasma . Invece, una CTP di Napoli del 2023 ha accolto il ricorso di un’azienda ritenendo che l’Ufficio non avesse provato la consapevolezza della frode: in quel caso il fornitore era risultato cartiera, ma il contribuente aveva documentato di aver svolto controlli e che i beni erano effettivamente entrati in magazzino; in assenza di elementi contrari, i giudici hanno ritenuto credibile la buona fede e restituito la detrazione IVA . Decisioni come questa sono meno frequenti, ma esistono, a riprova che ogni caso fa storia a sé e che la differenza la fanno i dettagli. Notiamo anche che la riforma del processo tributario (D.Lgs. 149/2022) ha introdotto il principio che il giudice deve valutare le prove secondo il criterio del “più probabile che non” . Cioè, il giudice tributario deve accogliere la tesi più verosimile alla luce di tutti gli elementi. Ciò potrebbe aiutare i contribuenti in buona fede: se riuscite a dipingere una narrazione plausibile e documentata della vostra estraneità, e il Fisco ha solo presunzioni deboli, potrete convincere che è più probabile che abbiate ragione voi. Viceversa, se gli indizi del Fisco sono consistenti e la vostra storia fa acqua, prevarrà la loro tesi. In sintesi, i giudici di merito bilanciano indizi vs prove difensive e decidono in base a chi appare più credibile.
Passiamo adesso a una sezione di Domande frequenti (FAQ) per chiarire in modo sintetico i dubbi più comuni dei contribuenti alle prese con contestazioni da fatture false/cartiere.
Domande frequenti (FAQ) su contestazioni da “società cartiere”
Domanda: Che cos’è esattamente una “società cartiera” secondo la legge italiana?
Risposta: Non esiste una definizione normativa puntuale di “società cartiera”, essendo un termine di prassi operativo. In generale, indica una società costituita ad hoc per emettere fatture di vendita senza svolgere alcuna reale attività produttiva o commerciale, allo scopo di favorire evasioni d’imposta altrui (tipicamente frodi IVA) . Di solito la cartiera è caratterizzata da assenza di struttura imprenditoriale: pochi o nessun bene strumentale, nessun dipendente effettivo, sedi legali spesso “di comodo” (presso studi professionali, indirizzi fittizi), vita societaria breve, amministratori prestanome nullatenenti . Presenta regolare contabilità e fatture emesse, ma è tutta forma senza sostanza. In sostanza è una “fabbrica di fatture” priva di attività economica genuina. Incassa l’IVA sulle fatture emesse e poi non la versa al fisco, spesso omettendo anche le dichiarazioni e sparendo dopo aver esaurito lo scopo . Attraverso questa interposizione, gli acquirenti delle fatture ottengono indebiti vantaggi fiscali (costi fittizi da dedurre e crediti IVA da detrarre) mentre l’Erario subisce un danno. Nel gergo internazionale la cartiera è spesso chiamata “missing trader” (nell’IVA intracomunitaria) o “buffer”, elemento di interposizione fittizia nelle frodi carosello.
Domanda: Come fa l’Agenzia delle Entrate a scoprire che il mio fornitore era una cartiera?
Risposta: Tramite vari incroci di dati e attività investigative con la Guardia di Finanza. In genere, avviene così: a seguito di controlli IVA incrociati (le comunicazioni spesometro, oggi i dati della fatturazione elettronica), l’Agenzia nota che un certo soggetto a monte emette molte fatture con IVA ma non versa l’IVA e magari non presenta nemmeno le dichiarazioni . Questo è un campanello d’allarme. Parte allora una verifica fiscale su quel soggetto (la cartiera stessa, quando la si individua) oppure un’indagine penale per frode carosello che porta alla luce l’elenco delle fatture false emesse. La Guardia di Finanza svolge accessi, controlla se quella società ha realmente una sede, se l’amministratore è reperibile o è un prestanome. Spesso emergono le classiche incongruenze: sede inesistente o ufficio senza attività, nessun dipendente, depositi inesistenti, ecc. A quel punto redigono un PVC dove segnalano che XYZ Srl si configura come cartiera. Nel PVC elencano anche i clienti che hanno usato quelle fatture. L’Agenzia quindi notifica a ciascun cliente un avviso di accertamento contestando l’indebita detrazione IVA e la deduzione di costi fittizi . Da alcuni anni, con l’obbligo di fattura elettronica, i controlli sono diventati ancora più tempestivi: l’Agenzia monitora in tempo quasi reale l’emissione di fatture e il versamento dell’IVA. Se vede che una partita IVA emette un gran numero di fatture e poi non liquida né versa l’IVA dovuta, scatta una segnalazione automatica. Ci sono algoritmi di analisi del rischio che incrociano vari indicatori (volume d’affari vs versamenti IVA, frequenti variazioni di sede, ecc.) per individuare potenziali cartiere. Inoltre, l’UIF (Unità di Informazione Finanziaria, antiriciclaggio di Bankitalia) ha elaborato indicatori ad hoc: ad esempio assenza di utenze telefoniche, codici ATECO incoerenti, elevate movimentazioni bancarie con prelievi in contanti, ecc. – elementi che “tradiscono” le cartiere e vengono segnalati alle Entrate . In sintesi, o scoprono la cartiera e poi risalgono ai clienti (caso classico), oppure da un controllo presso un cliente sospettano le fatture di un fornitore e approfondiscono su quest’ultimo.
Domanda: Mi è arrivato un avviso di accertamento che disconosce l’IVA su acquisti da un fornitore “fantasma”. Cosa rischio in concreto?
Risposta: Rischi economici: principalmente di dover pagare l’IVA detratta su quelle fatture, più gli interessi maturati e una sanzione amministrativa pari al 90% di tale IVA . Ad esempio, se avevi detratto indebitamente 50.000 € di IVA, ti verranno richiesti 50.000 di imposta + interessi (dal 2018 al 2025 per dire) + 45.000 € di sanzione circa. Inoltre, l’accertamento quasi sicuramente nega la deduzione di quei costi ai fini delle imposte dirette (IRES o IRPEF, e IRAP se dovuta) aumentando il tuo reddito imponibile: su tale maggiore reddito dovrai pagare le imposte relative con ulteriore sanzione (sempre al 90%). In sintesi, l’operazione ti costerà restituire tutto il vantaggio fiscale che avevi ottenuto, con una pesante sanzione che sfiora l’ammontare dell’IVA stessa. Ad esempio, su 100 di IVA fittizia, devi ridare 100 + 90 di sanzione (poi riducibili se paghi subito o adesione). Oltre a ciò, se le cifre evase sono rilevanti e la condotta è stata ritenuta fraudolenta, potresti subire anche una denuncia penale per dichiarazione fraudolenta (uso di fatture false). La segnalazione parte d’ufficio quando l’IVA evasa supera €100.000 per anno . Quindi il rischio è duplice: sul piano tributario un esborso economico consistente (imposta, interessi, sanzioni) e sul piano penale un procedimento a tuo carico che può portare (in caso di condanna) a sanzioni penali detentive. Per darti un’idea, la dichiarazione fraudolenta comporta pena fino a 6-8 anni a seconda dell’ammontare (sopra soglia 4-8 anni). Ovviamente, se dimostri la tua innocenza, potrai evitare il penale e far annullare (almeno in parte) il tributo, ma parliamo dei rischi in caso di esito negativo. Infine, aggiungo che se la tua impresa è nel campo degli appalti pubblici o iscritta ad albi, una contestazione di questo tipo potrebbe portare anche conseguenze reputazionali: ad esempio segnalazioni all’ANAC e possibili esclusioni da gare per uso di false fatturazioni.
Domanda: Posso difendermi sostenendo che io non sapevo nulla della frode?
Risposta: Certamente, la dichiarazione di buona fede è la tua principale linea difensiva. Ma attenzione: affermarla non basta, va dimostrata con elementi concreti di diligenza e assenza di colpa. Limitarsi a dire “non lo sapevo” non ti protegge. Devi convincere che non potevi saperlo usando l’ordinaria attenzione. In pratica, devi provare di aver fatto tutto quanto ragionevolmente nelle tue possibilità per assicurarti che l’operazione fosse regolare . Ad esempio: hai controllato che il fornitore fosse regolarmente iscritto alla Camera di Commercio e registrato ai fini IVA? Hai verificato che avesse le autorizzazioni (se erano richieste, es. SOA per subappalti, DURC regolare)? I prezzi che ti praticava erano allineati al mercato (e non stracciati in modo sospetto)? Hai qualche documento che provi che effettivamente hai ricevuto la merce o il servizio (bolle firmate, rapporti)? Se riesci a mostrare che nulla, all’epoca, lasciava presagire la frode e che la transazione per te era genuina, allora – in base ai principi UE recepiti anche qui – non dovresti perdere la detrazione IVA . La Cassazione, come abbiamo visto, richiede che sia il Fisco a provare la tua eventuale consapevolezza; se questa prova manca o è debole, il giudice può darti ragione annullando l’atto. Però tieni presente: in sede tributaria spesso si adotta un concetto di “massima diligenza”. Cioè il contribuente, per essere considerato davvero in buona fede, deve aver agito come farebbe un imprenditore prudente e attento. Se c’è stata anche solo negligenza grave (es. non hai minimamente verificato chi fosse un nuovo fornitore, hai ignorato segnali di allarme evidenti come sede in un garage o condizioni troppo vantaggiose), ciò verrà usato contro di te per dire che “avresti dovuto sapere” . Quindi sì, la buona fede può salvarti, ma solo se supportata da comportamenti diligenti da parte tua, che dovrai poter dimostrare in giudizio (documentalmente o con testimoni).
Domanda: È sufficiente mostrare le fatture e i bonifici per dimostrare che l’operazione era vera?
Risposta: No, purtroppo no. Fatture e pagamenti tracciati (bonifici) sono elementi necessari, ma non sufficienti. Nelle frodi organizzate, questi aspetti formali sono considerati “facilmente simulabili”. Chi orchestra le frodi spesso emette fatture formalmente corrette e fa girare bonifici (magari restituiti in contanti subito dopo) proprio per costruire un’apparenza di legittimità . Quindi, di fronte a una contestazione di operazioni inesistenti, esibire la fattura e la ricevuta di pagamento serve a poco: il Fisco dirà che facevano parte del piano fraudolento. Servono altri riscontri extrafiscali: come detto, documenti di trasporto firmati, contratti di fornitura, prove della movimentazione fisica dei beni (fotografie, registro di cantiere, timbri di accettazione merce), eventuali comunicazioni email con ordini e conferme, e qualsiasi altro elemento che esca dalla mera contabilità e attesti la realtà. La Cassazione nell’ordinanza 20270/2025 l’ha detto esplicitamente: la difesa non può limitarsi alla “mera esibizione della fattura e della traccia di pagamento” perché questi elementi sono tipicamente predisposti nelle frodi . Occorre una prova più sostanziale dell’effettività della prestazione. Quindi, se hai solo fatture e bonifici, sei in difficoltà; se invece porti, ad esempio, un DDT controfirmato per la consegna o un verbale di collaudo del lavoro, la musica cambia.
Domanda: Se i beni/servizi ci sono realmente stati, almeno il costo posso scaricarlo (dedurlo)?
Risposta: Sì, questo è un punto a tuo favore. Come accennato nella parte normativa, la disciplina delle imposte dirette prevede (art. 14, comma 4-bis L. 537/93) che siano deducibili i costi di operazioni soggettivamente inesistenti per la parte realmente avvenuta . Ciò significa che se, ad esempio, hai davvero ricevuto una fornitura di materiali (solo che la fattura è arrivata da una cartiera invece che dal vero fornitore), il costo effettivo di quei materiali è comunque deducibile dal reddito d’impresa . La logica è: è un costo effettivo inerente, che ha contribuito a produrre il tuo reddito; negarlo significherebbe tassarti su un profitto che in realtà non hai avuto (perché quei soldi li hai spesi davvero per l’acquisto) . La Cassazione ha confermato che anche se l’acquirente era consapevole della frode, il costo resta deducibile (salvo che fosse un costo legato a fini illeciti diversi dall’evasione fiscale, ad esempio un pagamento di tangente) . Dunque in Commissione Tributaria dovresti certamente chiedere, in via subordinata, il riconoscimento dei costi reali dedotti, anche qualora ti venga negata la detrazione IVA. Fai valere questa norma: alcuni giudici di merito l’hanno applicata, e Cass. 30018/2022 l’ha ribadita chiaramente. (Nota: questo ovviamente non si applica se il costo in sé è un puro artificio – cioè operazione oggettivamente falsa: lì non c’è costo reale da dedurre. Vale solo quando c’è una parte reale nell’operazione, ovvero i casi di inesistenza soggettiva o parziale). Inoltre, questa regola non tocca l’IVA: l’IVA è armonizzata a livello UE e, se eri consapevole, viene comunque negata. Ma almeno sul fronte delle imposte sul reddito puoi evitare di pagare tasse su ricavi che in realtà non hai ottenuto. In pratica: ti toglieranno l’IVA a credito e ti daranno la sanzione, ma potrebbero lasciarti dedurre il costo (evitando una doppia penalizzazione, IVA e reddito tassato) se riesci a far valere questa norma.
Domanda: Il mio fornitore era davvero una cartiera (non ha mai dichiarato nulla). Posso imputare tutta la colpa a lui?
Risposta: Puoi certamente agire contro di lui in sede civile o penale – ad esempio, se ti ritieni truffato, denunciarlo per frode commerciale e chiedere i danni. Tuttavia, dal punto di vista fiscale, ciascuno risponde per sé. L’Agenzia delle Entrate non si accontenta di colpire la cartiera (anche perché spesso da essa non recupera nulla) e pretende le imposte da te che le hai detratte indebitamente . Legalmente, non c’è una “colpa trasferibile”: il fornitore ha la sua colpa (emissione di fatture false), tu hai la tua (eventuale) colpa di averle utilizzate. Anche se dimostri di essere vittima e magari in sede civile ottieni una sentenza di risarcimento contro il fornitore, ciò non ti esonera dal pagamento delle imposte evase verso l’Erario. In altre parole, nella difesa tributaria incolpare la cartiera serve solo a evidenziare la tua buona fede (se davvero sei stato ingannato), ma non evita l’obbligo di pagare il tributo. In conclusione: dovrai pagare l’IVA non versata dalla cartiera (sotto forma di detrazione negata) e poi, semmai, rivalerti civilmente sul fornitore per i danni . Purtroppo, spesso le cartiere sono teste di legno nullatenenti, quindi il recupero è solo teorico. È per questo che il Fisco si rivale sull’utilizzatore: perché di solito è l’unico che, avendo beneficiato della frode (es. pagando meno tasse), ha la capacità contributiva per pagare davvero. Capisco che possa sembrare iniquo per chi era del tutto ignaro e in buona fede, ma così è impostato il sistema (salvo appunto poter provare l’assenza di conoscenza e vincere in giudizio facendo annullare l’atto). In sintesi: fiscalmente non esiste la difesa “è colpa sua non mia” se l’operazione è inesistente – a meno che tu provi di essere completamente estraneo (e allora non c’è colpa di nessuno in ambito tributario perché l’operazione verrebbe considerata magari reale). Se invece l’operazione era fittizia, l’IVA la riprendono a te e poi sta a te vedertela con il fornitore in altre sedi.
Domanda: Mi hanno aperto anche un procedimento penale per fatture false: cosa devo fare?
Risposta: Prima di tutto, niente panico ma massima attenzione. Devi muoverti con intelligenza. Ingaggia subito un bravo avvocato penalista esperto di reati tributari (se già non l’hai). È fondamentale coordinare la strategia penale con quella tributaria. Idealmente, il tuo avvocato tributarista e il penalista dovrebbero collaborare. Se hai raccolto elementi di prova forti a tuo discarico (es. testimoni, documenti che dimostrano la tua estraneità), assicurati che vengano portati sia in Commissione Tributaria sia alla Procura/PMA. Come già spiegato, considera seriamente la possibilità di pagare il dovuto al Fisco il prima possibile: se riesci a versare tutte le imposte, sanzioni e interessi prima dell’inizio del dibattimento penale, il reato si estingue per speciale causa di non punibilità (art. 13 D.Lgs. 74/2000) . Certo, è un esborso notevole (praticamente aderire in pieno all’accertamento e pagare anche le sanzioni), ma ti evita un potenziale esito di condanna penale a diversi anni di reclusione. Questa è la scelta più drastica ma anche più sicura per non avere grane penali (se hai le risorse finanziarie o beni da vendere/ipotecare). In alternativa, con il penalista potrai valutare il patteggiamento: se non vedi possibilità di assoluzione e le prove a tuo carico in sede penale sono forti, patteggiare ti garantisce una pena ridotta (es. 1 anno e tot mesi con sospensione condizionale magari). Tieni presente però che per patteggiare nei reati ex art. 2 e 8 è comunque richiesto il pagamento del debito tributario (anche parziale, basta che sia prima della sentenza) o almeno l’impegno a pagare: la legge preclude patteggiamenti “senza pagamento” per le frodi fiscali. Quindi torna lì il punto: dovrai sborsare in qualche modo. Se invece sei convinto della tua innocenza e hai buone prove, allora preparati a combattere per un’assoluzione piena (“perché il fatto non costituisce reato” se manca il dolo, o addirittura “il fatto non sussiste” se riuscissi a dimostrare che le operazioni erano reali). In tal caso, non accettare scorciatoie: punta all’assoluzione e contestualmente porta avanti il ricorso tributario. Tieni presente che – come già detto – un’assoluzione penale non implica automaticamente vittoria nel tributario e viceversa (i giudizi sono autonomi), ma in pratica le due cose spesso vanno insieme: se sei assolto perché il fatto non sussiste o perché tu non c’entri, è probabile che anche l’accertamento fiscale verrà poi annullato (magari dall’Agenzia stessa in autotutela, per evitare di perdere in causa). Al contrario, una condanna penale definitiva per frode IVA peserà molto (ormai anche formalmente potrà essere portata nel giudizio tributario come prova). In ogni caso, collabora strettamente col tuo avvocato: forniscigli tutto il materiale raccolto per il ricorso tributario, discuti con lui la strategia, informalo di ogni sviluppo in Commissione. Spesso le memorie difensive che hai scritto per il Fisco possono essere riadattate come memorie per il PM per chiedere l’archiviazione, e viceversa una memoria al PM (corredata di prove) può convincere il giudice tributario. L’obiettivo ideale è un “doppio successo” – penale e tributario – che ti riabiliti completamente.
Domanda: In conclusione, è davvero possibile vincere contro contestazioni di utilizzo di fatture false?
Risposta: Sì, è possibile, ma dipende molto dalle circostanze del caso. Se sei stato realmente ignaro e hai documenti che dimostrano la tua correttezza e la reale esistenza delle operazioni, molti giudici riconoscono il diritto del contribuente in buona fede. Come abbiamo visto, ci sono sentenze, anche di Cassazione, che annullano gli accertamenti quando il Fisco non prova il coinvolgimento consapevole del contribuente . Specialmente quando la frode è complessa e potrebbe aver tratto in inganno anche te, i giudici tributari di merito talvolta accolgono il ricorso del contribuente (abbiamo citato esempi di CTR e CTP favorevoli). Certo, la situazione ideale è quella in cui tu stesso hai contribuito a smascherare la frode – ad esempio se appena ti sei accorto che qualcosa non andava hai denunciato la cartiera o hai collaborato con le autorità. Questo atteggiamento gioca moltissimo a tuo favore: dimostra che eri parte lesa e non complice. In assenza di prove di malafede, la Commissione può annullare l’atto dicendo che il Fisco non ha dimostrato che volevi evadere. Però bisogna essere onesti: nella maggior parte dei casi, se emergono chiari segni di frode, almeno la parte IVA è difficile da salvare. Le Entrate fanno questo di mestiere e spesso portano dossier ben costruiti. Le situazioni in cui l’azienda vince completamente sono quando davvero non c’è traccia di connivenza e tutte le evidenze mostrano che ha fatto il possibile. Può capitare – e c’è speranza – ma preparati anche all’eventualità di vittorie parziali. Ad esempio, potresti riuscire a far riconoscere i costi deducibili (come spiegato sopra) o a ottenere la riduzione delle sanzioni, anche se magari la detrazione IVA viene persa. Oppure potresti vincere solo per alcuni anni o alcune fatture e non per altre. Una difesa ben fatta massimizza le chance di limitare i danni: magari non ne uscirai “vittorioso” al 100%, ma potresti ridurre molto l’impatto (pagando solo una parte di quanto richiesto, o evitando il penale). Quindi, in conclusione, sì, puoi vincere, ma devi mettere in campo tutte le argomentazioni e prove possibili. Se sei onesto e accorto, hai ottime probabilità di far valere le tue ragioni almeno in sede giudiziale. Sii pronto però anche al compromesso: a volte portare a casa l’annullamento delle sanzioni e la deducibilità dei costi (pagando solo l’IVA) può già considerarsi un successo, specie se le alternative erano peggiori.
Domanda: Che differenza c’è tra una contestazione di fatture false e una contestazione di abuso del diritto/elusione?
Risposta: Entrambi i tipi di contestazione portano al recupero di imposte da parte dell’Amministrazione, ma giuridicamente sono diversi. Le fatture false implicano operazioni inesistenti e sono considerate evasione fiscale, con sanzioni amministrative pesanti (90% normalmente) e addirittura implicazioni penali (come abbiamo visto) in caso di frode organizzata . L’abuso del diritto/elusione, invece, riguarda operazioni reali che però sono state compiute essenzialmente per ottenere vantaggi fiscali indebiti, senza falsità documentale. Non c’è fattura falsa, c’è magari un giro artificioso di operazioni (società interposte, passaggi infragruppo) fatto per pagare meno tasse pur rispettando formalmente le norme. L’abuso viene sanzionato solo col recupero dell’imposta e una sanzione amministrativa del 90% ridotta ad 1/3 (cioè 30%), e senza implicazioni penali (l’abuso non è reato) . Quindi, in estrema sintesi: nelle fatture false manca proprio la realtà dell’operazione, c’è un intento fraudolento -> reato e sanzioni piene. Nell’abuso c’è l’operazione, ma è costruita ad arte per risparmiare tasse -> niente reato, solo recupero e sanzione minore. Se la tua posizione fosse in realtà più un caso di elusione che di evasione, andrebbe trattata diversamente. Talvolta l’Agenzia contesta subito l’abuso se lo ravvisa; altre volte contesta inesistenza e sta al contribuente eventualmente dimostrare che invece un risultato economico c’era (quindi sarebbe abuso). Nel contesto delle cartiere, però, parliamo quasi sempre di evasione conclamata, non di semplice elusione. Le cartiere di solito non hanno altra funzione se non l’evasione, quindi è raro poter dire “era abuso”. L’abuso ricorre di più in casi come: società create ad hoc solo per usufruire di un credito d’imposta (es. start-up innovative fittizie per crediti ricerca&sviluppo) o fittizie sedi estere per sfruttare fiscalità di vantaggio. Lì si può discutere di abuso. Ma se ci sono fatture per operazioni inesistenti, siamo nell’evasione. Dunque, questa differenza è teorica ma importante: se rientri in elusione niente penale, sanzione ridotta; se sei in evasione (frode) allora penale e sanzioni piene. Sta a te, eventualmente con l’aiuto di un esperto, incanalare la contestazione sul binario giusto.
Domanda: Quali sono le fonti più autorevoli da citare a mio favore?
Risposta: Per supportare le tue difese, puoi citare sia norme che sentenze favorevoli. Tra le norme: certamente l’art. 14, co.4-bis L.537/93 sulla deducibilità dei costi (se applicabile al tuo caso, come spiegato) ; l’art. 19 e 21 DPR 633/72 per ricordare il principio di neutralità IVA ma anche il limite delle operazioni inesistenti (art. 21 c.7 punisce le fatture false); lo Statuto del Contribuente – ad es. l’art. 6 comma 2 che tutela la buona fede e l’affidamento, e l’art. 10-bis se vuoi sostenere che è abuso e non evasione. Tra le sentenze di Cassazione: sicuramente la Cass. 30018/2022 che ho citato, utile sul punto della deducibilità dei costi da operazioni soggettivamente inesistenti anche se consapevoli . Poi Cass. 18874/2019 – molto spesso citata nei ricorsi, afferma chiaramente l’onere del Fisco di provare la consapevolezza del cessionario per negare la detrazione (in linea col principio UE). Anche Cass. 9851/2018 – altra che ribadisce che inizialmente l’onere è del Fisco e solo dopo passa al contribuente (la usano in molti). E ovviamente tutte le Cassazioni 2023-2025 menzionate sopra, se rilevanti nel tuo caso: Cass. 20270/25 sull’onere probatorio; Cass. 9919/25 sul legame familiare; Cass. 13015/25 sulla massima diligenza; Cass. 16442/24 penale sulla società erroneamente ritenuta cartiera; Cass. 9333/24 penale sul doppio versamento. Puoi anche richiamare la Corte di Giustizia UE: la famosissima sentenza Kittel (C-439/04, anno 2006) che hai sentito nominare – afferma che l’IVA può essere negata se il soggetto “sapeva o avrebbe dovuto sapere” di partecipare ad una frode, e che spetta all’Amministrazione provare tale circostanza . Altra della Corte UE è Maks Pen (C-18/13) sul concetto di partecipazione consapevole all’evasione. Queste citazioni europee sono molto efficaci, perché ricordano ai giudici italiani che devono rispettare quei principi. Infine, potresti citare pronunce di merito se ne trovi di simili al tuo caso, per rafforzare il convincimento (es. “CTR Lombardia 2018 ha assolto un contribuente ritenendo non provata la sua malafede, in circostanze analoghe”). Però il peso maggiore ce l’hanno le Cassazioni e – se l’hai – un tuo eventuale giudicato penale favorevole. Insomma, un mix di normative chiare e giurisprudenza di vertice aiuta a dare autorevolezza alle tue argomentazioni.
Domanda: Se alla fine perdo la causa tributaria (in secondo grado), devo per forza andare in Cassazione?
Risposta: Non necessariamente. Dipende dagli importi e dalle circostanze. Il ricorso per Cassazione è possibile solo per motivi di diritto (violazione di legge, vizio di motivazione manifesto), non rivede i fatti. Quindi, se la CTR ha valutato le prove e ti ha dato torto sul fatto (ha ritenuto che era “più probabile” che tu sapessi della frode), difficilmente la Cassazione potrà ribaltare perché quello è apprezzamento di merito, insindacabile. La Cassazione interviene se c’è un errore di diritto: ad esempio, se la CTR ti ha negato un diritto nonostante una norma dica il contrario, o se ha invertito l’onere della prova in modo difforme dalla giurisprudenza consolidata . Esempio: se la CTR avesse scritto “non serve provare la consapevolezza, basta la cartiera per togliere l’IVA”, quello sarebbe errore di diritto, contrario ai principi UE e di Cassazione; in tal caso avresti buone speranze in Cassazione (infatti in passato su ricorso AdE la Cassazione ha cassato decisioni troppo favorevoli ai contribuenti, come abbiamo visto, ma anche viceversa a volte a favore dei contribuenti). Devi valutare costi/benefici: se l’importo in ballo è altissimo e c’è margine giuridico (cioè credi di poter far valere un vizio di diritto nelle sentenze di merito), tentare la Cassazione può valere la pena. Tieni però conto che la Cassazione è un giudice di legittimità: può annullare con rinvio, ma poi eventualmente rifarai un pezzo di causa. Se gli importi non sono devastanti, a volte può convenire chiudere la vicenda e voltare pagina. Potresti decidere di accettare la sconfitta e magari chiedere una rateazione all’Agenzia Riscossione per pagare a rate nel tempo (fino a 72 rate standard, o 120 se dimostri difficoltà) . Anche perché andare in Cassazione significa aspettare altri 2-3 anni almeno, con esito incerto. Una considerazione in più: se tu paghi e poi in futuro esce una giurisprudenza rivoluzionaria favorevole, c’è uno strumento straordinario di revocazione delle sentenze passate in giudicato per errore di fatto o scoperta di un fatto decisivo. Non è semplicissimo, ma esiste (ad esempio se venisse fuori che il tuo fornitore in realtà aveva pagato prima e ciò non era noto in causa, potresti chiedere revocazione; oppure se la Corte Costituzionale dichiarasse illegittima una norma applicata, ecc.). Sono casi limite, ma li cito per dire che anche se chiudi e paghi, mai dire mai. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, se hai perso in CTR perché di fatto ritengono che sapevi, la Cassazione difficilmente ti salverà. Quindi valuta bene con i tuoi consulenti.
Domanda: Qual è la lezione da imparare per il futuro, per evitare questi problemi?
Risposta: In una parola: fare sempre attenzioni preventive quando scegli nuovi partner commerciali. La miglior difesa è attaccare il problema alla radice – cioè evitare di cadere in frodi. In particolare: verifica l’identità e l’affidabilità dei fornitori, soprattutto se offrono condizioni troppo vantaggiose o se non li conosci. Controlla che abbiano una sede reale, che non siano appena costituiti e senza storia operativa, che i loro rappresentanti non siano palesi prestanome (spesso segnali di cartiera sono amministratori ultra70enni o ventenni senza alcuna esperienza né capitali) . Se si tratta di operazioni con l’estero o filiere lunghe, diffida di schemi poco chiari (società di comodo in paradisi fiscali, intermediari inutili nel giro). Conserva sempre tutta la documentazione di ciò che compri o vendi: contratti, DDT, email, ecc. – non buttar via nulla. In sostanza, applica la diligenza dell’uomo d’affari medio: questo non solo ti protegge in caso di controlli (perché poi avrai come difenderti), ma scoraggia anche i malintenzionati dall’usarti come inconsapevole complice. Dopo esperienze come questa, sicuramente avrai l’occhio più allenato a riconoscere i campanelli d’allarme di una possibile cartiera: ad esempio un fornitore che cambia spesso sede legale, che chiede metodi di pagamento strani (tipo estero su estero), che non ha un sito né referenze, che propone prezzi insolitamente bassi o transazioni complicate. Prevenire è meglio che curare: una verifica in più oggi (anche spendendo qualche euro per informazioni commerciali) può risparmiarti un contenzioso domani.
Domanda: Posso chiedere un parere all’Agenzia delle Entrate prima di fare operazioni a rischio?
Risposta: Sì, in teoria attraverso lo strumento dell’interpello. L’interpello è il meccanismo con cui un contribuente può chiedere all’Amministrazione un parere scritto sulla corretta applicazione di norme tributarie a un caso concreto. Tuttavia, l’interpello è più adatto a questioni di diritto (dubbi interpretativi) che non a situazioni fattuali tipo “mi posso fidare di questo fornitore?”. Non puoi chiedere all’AdE se Tizio è onesto o meno. Puoi però descrivere una struttura commerciale e chiedere se potrebbe essere considerata elusiva o fraudolenta. Ad esempio, in passato alcune aziende hanno interpellato sul regime IVA di triangolazioni per evitare di incorrere inconsapevolmente in frodi carosello: l’Agenzia ha risposto sul quadro normativo, mettendoli in guardia. Ma non ti garantirà mai al 100% che un dato soggetto non sia una cartiera – quello esula dall’interpello (che verte su norme, non su singoli contribuenti terzi). Detto ciò, se ti capita di dover impostare un’operazione fiscalmente rischiosa (non illegale di per sé, ma al limite), l’interpello può darti protezione: se l’Agenzia risponde, sarai esente da sanzioni se ti conformi alla risposta. Quindi sfruttalo per dubbi interpretativi, ma non è uno strumento di due diligence. Per quello, rimangono i controlli aziendali interni e magari servizi di informazioni commerciali. L’Agenzia non farà mai da consulente su “mi consigliate di lavorare con Caio?”, però su “se faccio questa operazione, ai fini IVA è corretto detrarre in questo modo?” sì, può rispondere.
Conclusione: un’accusa di utilizzo (o di creazione) di società cartiere è tra le più insidiose in materia fiscale, ma non sempre è fondata e comunque non è detto che debba rovinare un’azienda onesta. Come abbiamo visto, il nostro ordinamento prevede strumenti per difendersi: chi dimostra la realtà delle transazioni e la propria estraneità a intenti evasivi può ottenere l’annullamento (totale o parziale) delle pretese fiscali e penali. La chiave è agire tempestivamente, raccogliere le prove giuste e far valere con decisione i propri diritti nelle sedi opportune.
Fonti (normative e giurisprudenziali) citate:
- D.P.R. 633/1972 (IVA), art. 19 (detrazione) e art. 21 (obbligo contenuto fattura e divieto operazioni inesistenti).
- D.P.R. 917/1986 (TUIR), art. 109 (principio di inerenza, competenza, certezza dei costi).
- Legge 537/1993, art. 14, comma 4-bis (deducibilità costi da reato tributario non utilizzati per fini illeciti ulteriori).
- D.Lgs. 74/2000, artt. 2 e 8 (reati di dichiarazione fraudolenta e emissione fatture false); art. 13 (causa di non punibilità per pagamento integrale); art. 12-bis (confisca per equivalente); art. 20, co.1-bis (utilizzo sentenze tributarie nel penale e viceversa, introdotto da D.Lgs. 156/2022).
- D.Lgs. 471/1997, art. 6 (sanzione 90% dichiarazione infedele, elevabile a 180% in caso di frode).
- Statuto diritti contribuenti (L. 212/2000), art. 6 (tutela buona fede), art. 10-bis (abuso del diritto), art. 12 c.7 (60 giorni per osservazioni post-verifica).
- D.Lgs. 149/2022 (riforma processo tributario), art. 7 (prova testimoniale scritta), art. 10 (valutazione “più probabile che non”).
- Cassazione Civile: n. 2026/2014 (costi deducibili anche se frode carosello, retroattività norma 2012) ; n. 9851/2018 (onere prova: Fisco deve provare consapevolezza cessionario); n. 18874/2019 (idem, tutela buona fede); n. 30018/2022 (costi soggettivamente falsi deducibili se effettivi); n. 10845/2024 (Fisco deve provare cartiera e conoscenza prima di negare detrazioni) ; SS.UU. n. 6477/2024 (nota su proporzionalità sanzioni); n. 9919/2025 (legame familiare come indizio di connivenza) ; n. 13015/2025 (diligenza elevata richiesta al contribuente); n. 20270/2025 (inversione onere e onere probatorio rigoroso a carico contribuente) .
- Cassazione Penale: n. 12920/2022 (deducibilità costi reali anche se reato, cit. in massime) ; n. 16442/2024 (società ritenuta cartiera assolta perché invece operativa) ; n. 9333/2024 (doppio versamento IVA non esonera utilizzatore) ; n. 26374/2023 (riduzione sanzione in caso di IVA già recuperata altrove); n. 26274/2023 (art.13 non punibilità anche se pagamento avviene dopo interrogatorio – Osservatorio GT) .
- Corte di Giustizia UE: cause riunite C-439/04 e C-440/04 (Kittel, 2006) ; causa C-18/13 (Maks Pen, 2014); causa C-712/17 (EN.SA, 2019) .
- Giurisprudenza di merito: CTR Veneto 1267/2014 (costi deducibili); CTR Lazio 3573/2023 (riconosciuta operatività società accusata cartiera); CTP Napoli 2023 (contribuente in buona fede vince: aveva controllato fornitore e provato consegna) ; CTR Lombardia 2020 e CTR Toscana 2022 (orientamento pro-Fisco: formalità non bastano).
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate o un verbale della Guardia di Finanza perché la tua società o i tuoi fornitori vengono accusati di essere imprese edili “cartiere”? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate o un verbale della Guardia di Finanza perché la tua società o i tuoi fornitori vengono accusati di essere imprese edili “cartiere”?
Vuoi sapere cosa rischi e come difenderti da queste contestazioni?
👉 Prima regola: dimostra la reale operatività dell’impresa e l’effettiva esecuzione dei lavori o delle forniture fatturate.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Utilizzo di fatture provenienti da imprese prive di mezzi, personale o struttura;
- Sospetti di società create solo per emissione di fatture false;
- Presunta inesistenza delle prestazioni edili dichiarate;
- Subappalti e catene di fornitori non tracciabili;
- Differenze tra i lavori fatturati e quelli effettivamente eseguiti in cantiere.
📌 Conseguenze della contestazione
- Indeducibilità dei costi e recupero delle imposte non versate;
- Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele o fraudolenta;
- Interessi di mora sulle somme contestate;
- Rischio di denunce penali per emissione o utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (artt. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000);
- Possibili interdittive antimafia e esclusione da appalti pubblici;
- Responsabilità patrimoniale di amministratori e soci.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- L’impresa contestata aveva dipendenti, attrezzature e cantieri attivi?
- I lavori fatturati sono stati effettivamente eseguiti?
- Esistono contratti, stati avanzamento lavori e collaudi a supporto delle prestazioni?
- I pagamenti sono stati regolari e tracciati?
- L’Agenzia fonda l’accusa su prove concrete o solo su presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Contratti di appalto e subappalto;
- Fatture, bonifici e quietanze di pagamento;
- Stati avanzamento lavori (SAL), libretti di cantiere e certificati di collaudo;
- Elenchi di dipendenti e documentazione INPS/INAIL;
- Relazioni tecniche e documentazione fotografica dei lavori.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare l’effettiva operatività dell’impresa edile e la realtà delle prestazioni;
- Contestare la qualifica di “cartiera” se l’azienda aveva struttura e attività;
- Evidenziare la tracciabilità dei pagamenti e la regolarità contabile;
- Eccepire vizi di motivazione o carenze probatorie dell’accertamento;
- Richiedere annullamento in autotutela o presentare ricorso entro 60 giorni alla Corte di Giustizia Tributaria;
- Difesa penale mirata in caso di contestazioni ex artt. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza la posizione fiscale e penale dell’impresa coinvolta;
📌 Verifica la fondatezza delle contestazioni e i punti deboli dell’accusa;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste nei giudizi fiscali e nei procedimenti penali collegati;
🔁 Suggerisce strategie preventive per gestire in modo sicuro rapporti con fornitori e subappaltatori.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e penale tributario;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni di false fatturazioni e società cartiere;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle imprese edili usate come cartiere non sempre sono fondate: spesso derivano da presunzioni, catene di subappalti non analizzate a fondo o irregolarità formali.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale esistenza delle prestazioni, evitare la riqualificazione come operazioni inesistenti e ridurre drasticamente sanzioni e rischi penali.
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