Contestazioni Su Compensi Amministratori Non Deliberati: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per compensi amministratori non deliberati? In questi casi, l’Ufficio presume che i compensi erogati agli amministratori siano indeducibili per la società se non risultano da una delibera assembleare o da un atto formale che li autorizzi. Le conseguenze possono essere molto pesanti: recupero delle imposte, applicazione di sanzioni e rettifica del bilancio. Tuttavia, non sempre la contestazione è fondata: con una difesa ben documentata è possibile dimostrare la deducibilità dei costi o ridurre sensibilmente le sanzioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i compensi amministratori
– Se i compensi non risultano da delibera assembleare o da apposita delibera del consiglio di amministrazione
– Se mancano verbali societari o altri atti che fissano l’ammontare dei compensi
– Se vi sono incongruenze tra quanto erogato e quanto risulta dalle scritture contabili
– Se i compensi appaiono sproporzionati rispetto alle dimensioni o ai risultati della società
– Se l’Ufficio presume che i pagamenti siano strumentali a ridurre il reddito imponibile

Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità dei compensi non regolarmente deliberati
– Recupero a tassazione con applicazione delle relative imposte
– Sanzioni amministrative fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme recuperate
– Rettifica del bilancio e possibili rilievi civilistici sulla gestione societaria

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’effettiva corresponsione e inerenza dei compensi erogati
– Produrre verbali, delibere tardive o documentazione integrativa a supporto delle somme pagate
– Contestare l’indeducibilità totale dei compensi se l’attività dell’amministratore è stata realmente svolta
– Evidenziare eventuali vizi di motivazione, errori di calcolo o difetti istruttori nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione della contestazione in termini meno gravosi per ridurre le sanzioni
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento parziale o totale della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione societaria e contabile relativa ai compensi contestati
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta qualificazione fiscale delle somme
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi formali dell’accertamento
– Difendere la società e gli amministratori davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio societario e personale da conseguenze fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– Il riconoscimento della deducibilità dei compensi in presenza di prova dell’attività svolta
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto per legge

⚠️ Attenzione: i compensi amministratori senza delibera sono tra le contestazioni più frequenti nei controlli fiscali. È fondamentale predisporre una difesa tempestiva per evitare conseguenze economiche e gestionali pesanti.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni su compensi amministratori non deliberati e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.

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Introduzione

Le contestazioni sui compensi degli amministratori non deliberati riguardano quelle somme corrisposte agli organi amministrativi di una società senza una preventiva e formale decisione dei soci. In ambito societario italiano, specialmente per le società di capitali (S.p.A. e S.r.l.), vige la regola per cui il compenso degli amministratori deve essere determinato dall’assemblea dei soci o previsto nello statuto; in sua mancanza, il pagamento di compensi può risultare illegittimo e suscettibile di contestazione . Tali contestazioni possono provenire da diversi soggetti: dall’Agenzia delle Entrate (che nega la deducibilità fiscale di costi non autorizzati), dai soci o nuovi amministratori (che possono chiedere la restituzione di quanto indebitamente percepito dal precedente amministratore) e dai curatori fallimentari in caso di fallimento della società (i quali spesso agiscono per il recupero delle somme versate senza valido titolo) .

Questo documento offre una guida approfondita (aggiornata ad agosto 2025) sul tema, con un taglio avanzato ma dal linguaggio chiaro, adatto sia a professionisti legali sia a imprenditori e privati coinvolti in tali vicende. Si esamineranno gli aspetti normativi e giurisprudenziali più recenti, includendo anche il profilo tributario (deducibilità fiscale e contestazioni dell’Erario), le peculiarità per le società di persone (S.n.c., S.a.s.), le problematiche relative a compensi “occulti” o in natura, nonché i casi degli amministratori di fatto. Verranno inoltre presentate tabelle riepilogative, domande e risposte frequenti e alcune simulazioni pratiche di casi reali, il tutto dal punto di vista del “debitore” (ossia dell’amministratore o soggetto che si vede contestare tali compensi) per mettere in luce le possibili strategie difensive.

Importanza del tema: la determinazione corretta e formale del compenso agli amministratori non è una semplice formalità, ma un presidio di legalità societaria e di trasparenza gestionale. Come affermato dalla Cassazione, tali regole rispondono a un interesse pubblico, evitando che gli amministratori possano auto-determinarsi il compenso eludendo il controllo dei soci . Inoltre, l’inosservanza delle procedure può portare a conseguenze gravi: nullità civilistica degli atti di pagamento , indeducibilità fiscale del costo per la società , sanzioni tributarie, fino a possibili rilievi penali (in particolare in caso di fallimento, ove tali pagamenti non autorizzati possono configurare bancarotta fraudolenta) . Comprendere come difendersi da tali contestazioni è dunque cruciale per limitare i danni economici e giudiziari.

Nei paragrafi seguenti verranno affrontati nell’ordine: – il quadro normativo di riferimento per i compensi degli amministratori e l’obbligo di delibera (distinguendo tra società di capitali e società di persone, e includendo il caso degli amministratori di fatto); – le conseguenze civilistiche della mancanza di delibera (nullità, azioni di restituzione, ecc.); – i profili tributari (indeducibilità dei compensi non deliberati, contestazioni dell’Agenzia delle Entrate, trattamento dei compensi mascherati o in natura, ecc.); – eventuali implicazioni penali e di responsabilità (specie in ambito fallimentare); – possibili strategie difensive e accorgimenti pratici per gli amministratori contestati; – una sezione di domande e risposte frequenti; – alcune simulazioni pratiche di casi risolti.

Nota sul metodo: verranno citate le fonti normative rilevanti (Codice Civile, Testo Unico delle Imposte sui Redditi) e le più recenti sentenze della Corte di Cassazione ed altri organi, fino alle pronunce del 2024-2025, per garantire l’aggiornamento della trattazione. Ogni affermazione chiave sarà supportata da riferimenti a tali fonti .

Passiamo dunque ad esaminare dettagliatamente la materia, iniziando dal quadro normativo sulla determinazione dei compensi agli amministratori.

Quadro normativo: obbligo di delibera dei soci e situazioni particolari

Società di capitali: delibera assembleare e statuto

Nelle società di capitali (S.p.A. – società per azioni, e S.r.l. – società a responsabilità limitata), la disciplina codicistica prevede espressamente che la determinazione del compenso degli amministratori spetta ai soci. In particolare:

  • Per le S.p.A.: l’art. 2364, comma 1, n.3 c.c. (per le società prive di comitato di sorveglianza) riserva all’assemblea ordinaria la determinazione del compenso degli amministratori. L’art. 2389, comma 1 c.c. stabilisce poi che i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea (se non già fissati dallo statuto). Dunque, o lo statuto prevede l’ammontare (o i criteri) dei compensi, oppure deve intervenire una delibera assembleare a fissarne la misura .
  • Per le S.r.l.: pur mancando una norma identica a quella delle S.p.A., si applicano principi analoghi. L’art. 2479 c.c. assegna ai soci le decisioni fondamentali non riservate per legge agli amministratori, e generalmente la determinazione dei compensi rientra tra queste decisioni sociali. Spesso lo statuto di S.r.l. contiene clausole sul compenso dell’organo amministrativo; in mancanza, si ritiene necessaria una decisione dei soci (formalizzata per iscritto) per attribuire un compenso. La Corte di Cassazione ha ribadito che anche nelle S.r.l. il compenso non è automatico, ma richiede un atto determinativo da parte dei soci, analogamente a quanto avviene per le S.p.A. . Infatti, l’imperatività delle norme societarie in materia si estende a tutte le società di capitali, come sottolineato dalla Cass. n. 24471/2022 .

Principio generale: senza delibera o clausola statutaria, l’amministratore non ha diritto di propria iniziativa ad alcun compenso per l’attività gestoria ordinaria . Questo principio, affermato a più riprese dalla giurisprudenza, discende dalla natura del rapporto di amministrazione: non si tratta di un comune rapporto di lavoro subordinato né di un contratto d’opera autonomo, ma di un rapporto “organico” con la società (l’amministratore agisce come organo della persona giuridica) . Pertanto l’onerosità dell’incarico non è presunta per legge: deve essere stabilita da un atto societario conforme alla legge. Anzi, la mancanza di una delibera sul punto fa sì che qualsiasi accordo di compenso contrasti con norme imperative (quelle sul funzionamento societario), risultando nullo ex art. 1418 c.c. .

Da notare che, in passato, alcune decisioni avevano assimilato il rapporto di amministrazione ad un mandato (art. 1703 c.c. e segg.), il quale si presume oneroso ai sensi dell’art. 1709 c.c. In particolare un’ordinanza del 2018 (Cass. 3 ottobre 2018, n. 24139) affermò che l’amministratore di S.r.l. ha diritto a un compenso per l’attività svolta, anche se non previsto espressamente, richiamando appunto la presunzione di onerosità del mandato . Tuttavia, tale impostazione deve coordinarsi con la regola societaria imperativa: la soluzione condivisa è che l’incarico di amministratore può presumersi oneroso, ma la misura del compenso deve comunque essere determinata secondo le forme legali (statuto o delibera) . Dunque il principio del mandato oneroso non autorizza affatto l’amministratore ad auto-liquidarsi somme a piacimento: serve sempre la volontà sociale formalizzata. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che il rapporto tra amministratore e società non è riconducibile a un normale contratto d’opera o di lavoro, e qualsiasi diritto al compenso va verificato in concreto in base a una fonte contrattuale valida o a specifiche attività estranee all’immedesimazione organica . In mancanza di tale fonte, il compenso non spetta.

È utile precisare che la delibera assembleare sul compenso degli amministratori rientra nelle attribuzioni inderogabili dei soci e non coincide con l’approvazione del bilancio. La Cassazione insiste su questo punto: l’approvazione del bilancio che riporti un importo per compensi amministratori non equivale a un’autorizzazione valida al compenso stesso . Salvo il caso eccezionale in cui tutti i soci siano presenti (assemblea totalitaria) e, pur convocati magari per il bilancio, discutano e approvino specificamente anche il compenso, l’aver indicato nel bilancio un costo amministratori non sanatoria la mancanza di delibera . In pratica, perché l’approvazione contestuale valga, deve emergere a verbale che i soci all’unanimità hanno deliberato l’importo del compenso durante quella seduta. Se ciò non avviene, il solo silenzio assenso durante l’assemblea di bilancio non conta come delibera sui compensi . Questo chiarimento – consolidato in Cassazione dal 2008 ad oggi – serve a evitare facili elusioni (in passato si pensava che approvare il bilancio implicasse ratifica dei compensi indicati, ma ciò è stato escluso) .

Sintesi in tabella – Compenso amministratore nelle società di capitali:

AspettoRegolaRiferimenti normativi
Chi decide il compensoAssemblea ordinaria dei soci (oppure come stabilito dallo statuto).Art. 2364 co.1 n.3 c.c. (S.p.A.); analogia per S.r.l., art. 2479 c.c.
Quando va decisoAll’atto della nomina o con delibera specifica prima di corrisponderlo (non basta indicarlo a posteriori nel bilancio).Art. 2389 co.1 c.c.; Cass. 20613/2025 .
Se manca deliberaIl compenso non è dovuto; un pagamento effettuato è atto nullo ex art. 1418 c.c. (violazione norma imperativa). La società può pretenderne la restituzione.Cass. 32732/2021 ; Cass. 27335/2019; Cass. 21933/2008 (SU) .
Approvazione bilancioNon sostituisce la delibera sul compenso (salvo assemblea totalitaria che deliberi espressamente l’importo).Cass. 8005/2024 ; Cass. 24471/2022 .
StatutoPuò fissare un importo o criteri (es: gettone, % utili). Se così, la delibera assembleare può non essere necessaria ogni anno (basta applicare statuto).Art. 2389 co.1 c.c.
Forma della deliberaNelle S.p.A. verbalizzazione notarile (assemblea ordinaria); nelle S.r.l. decisione dei soci anche mediante consultazione scritta o consenso espresso per iscritto (ex art. 2479).

Nota: in S.p.A. il compenso può anche essere composto da una parte fissa deliberata e una parte variabile collegata ai risultati (gettoni, bonus) purché criteri chiari. Per delegati con particolari cariche (es. A.D.) l’art. 2389 co.3 c.c. prevede che il consiglio, sentito il collegio sindacale, possa determinare compensi aggiuntivi per specifiche cariche se l’assemblea lo permette. Ciò però non esime dall’approvazione sociale della cornice del compenso. In questa guida ci concentriamo sui compensi gestori generali.

Società di persone: compensi agli amministratori

Per le società di persone (società semplice, S.n.c., S.a.s.) la situazione normativa è diversa. In questi tipi sociali, di regola ogni socio amministratore opera nell’interesse comune e partecipa agli utili secondo la quota pattuita. Non esiste un obbligo legale di deliberare un compenso agli amministratori, né una riserva assembleare analoga a quella delle società di capitali . Anzi, concettualmente, conferendo capitale o lavoro nella società di persone, il socio assume il diritto agli utili ma anche il dovere di contribuire all’attività sociale; l’eventuale opera prestata come amministratore si considera normalmente compensata dagli utili spettanti .

Ciò non significa che non si possano prevedere compensi specifici per i soci che svolgono l’amministrazione: è rimesso all’autonomia dei patti sociali. In pratica: – Lo statuto (atto costitutivo) può prevedere che al socio amministratore spetti un compenso annuo o mensile, o una percentuale sugli utili a titolo di remunerazione dell’attività amministrativa. Spesso nelle società di persone a base familiare i patti sociali sono semplificati e non menzionano compensi, ma nulla vieta di inserirli. – In assenza di previsioni nell’atto costitutivo, i soci possono sempre accordarsi successivamente, all’unanimità (o secondo le regole di modifica del contratto sociale), per erogare un compenso a uno o più soci amministratori . Trattandosi di materia non disciplinata cogentemente, è valida anche una semplice decisione di tutti i soci formalizzata in un verbale di assemblea dei soci di persone . Non essendovi l’obbligo di tenere un libro delle decisioni per le società di persone, spesso tali accordi sono informali: è altamente consigliabile però metterli per iscritto con data certa, per evitare contestazioni future (specie fiscali, come vedremo). – Se manca qualunque pattuizione e un socio amministratore si attribuisce unilateralmente compensi, questi possono essere facilmente contestati dagli altri soci come prelievi indebiti. La regola generale (art. 2262 c.c. per la società semplice, richiamato dalle norme di S.n.c./S.a.s.) è che gli utili vanno ripartiti fra i soci secondo accordi, e i prelevamenti extra fatti da un socio senza autorizzazione violano l’obbligo di rendiconto e di fedeltà verso la società. Dunque un socio che si paga uno stipendio senza accordo sociale rischia di doverlo restituire alla società o vederlo imputato a suo esclusivo carico nel conto utili.

Sul piano fiscale, peraltro, nelle società di persone vige il principio di trasparenza (art. 5 TUIR): l’utile imponibile è attribuito ai soci indipendentemente da distribuzioni. Un compenso all’amministratore socio è generalmente considerato una ripartizione dell’utile ante imposte a favore di quel socio (anche se contabilmente viene spesso trattato come costo d’esercizio). Proprio questa particolarità può generare problemi: se il compenso è molto alto e abbatte l’utile della società, l’Agenzia delle Entrate potrebbe rettificare il reddito ritenendolo antieconomico (si veda oltre il profilo dei compensi sproporzionati) e comunque, essendo la tassazione in capo al socio per trasparenza, un utilizzo “creativo” del compenso può far pagare più imposte complessive. Ad esempio, una Cassazione del 2020 su una S.n.c. familiare (sent. n. 23427/2020) ha confermato un accertamento induttivo basato sul fatto che il compenso agli amministratori (soci) superava addirittura l’utile dichiarato, rendendo anomala la bassa redditività: l’Erario ha rideterminato un maggior utile e lo ha attribuito ai soci, che hanno subito così una doppia tassazione (sul compenso ricevuto e sull’utile accertato) . Ciò per dire che, pur lecito, remunerare soci amministratori in società di persone va ponderato per non incorrere in sospetti di evasione.

In sintesi, nelle società di persone: – Non vige un divieto di compensi non deliberati comparabile a quello delle spa/srl, ma la liceità del compenso dipende dall’accordo sociale. Senza accordo unanime, il socio non può esigere compensi per l’opera prestata, perché si presume fatta a titolo di apporto alla società . Qualsiasi pagamento arbitrario potrà essere considerato come anticipo di utili (richiedendo poi conguagli nella ripartizione) o addirittura appropriazione indebita verso gli altri soci. – È opportuno formalizzare tramite scrittura privata o verbale l’ok di tutti i soci al compenso, specificandone l’ammontare e la cadenza (mensile, annuale, etc.). Questo documento servirà anche in caso di controllo fiscale per giustificare il costo. – Il trattamento contabile-fiscale dei compensi soci amministratori: se deliberati, sono deducibili dal reddito d’impresa ai fini IRPEF della società (riducendo l’utile di esercizio che viene attribuito ai soci). Tuttavia, essendo la tassazione per trasparenza, il socio percettore di fatto anticipa utili già tassati in capo a lui come reddito di lavoro (se gli viene applicata la ritenuta d’acconto IRPEF sul compenso). È un meccanismo neutro solo se ben calibrato; diversamente può portare inefficienze fiscali.

Esempio: Alfa S.n.c. (due soci al 50%) non ha patti su compensi. Il socio A, che gestisce l’attività, decide di prelevare €2.000 al mese come “stipendio”. Il socio B dissente. A fine anno, se A ha preso €24.000, l’utile contabile sarà inferiore di pari importo. B potrebbe pretendere che quei €24.000 siano riaddebitati ad A (essendo stati prelevati senza consenso). Fiscalmente, l’Agenzia potrebbe dire: non essendoci delibera, quei €24.000 non sono costo deducibile ma utili extra andati ad A. Risultato: A si troverebbe a dover restituire i soldi alla società o almeno a vederseli tassare comunque come utile personale oltre che come compenso.

Tabella – Confronto regole S.p.A./S.r.l. vs S.n.c./S.a.s. sui compensi amministratore:

ProfiloSocietà di capitali (S.p.A., S.r.l.)Società di persone (S.n.c., S.a.s.)
Base giuridica del compensoDelibera assembleare dei soci o previsione statutaria obbligatoria (norma imperativa) .Accordo tra soci (nel contratto sociale o successivo). Nessuna norma imperativa specifica, ma principio generale di consenso unanime per modificare ripartizioni di utili/compensi.
Diritto al compenso senza deliberaNo – l’amministratore non può vantare compenso se non deliberato, rapporto non automaticamente oneroso . Pagamenti senza delibera nulli e ripetibili .No – il socio amministratore si presume operi nell’ambito dei suoi obblighi sociali (prestazione d’opera senza compenso separato). Può emergere diritto solo se convenuto tra soci.
Procedura per fissarloAssemblea ordinaria (S.p.A.) o decisione dei soci (S.r.l.) prima o durante il periodo di carica; indicazione chiara di importi o criteri. Verbale conservato nel libro decisioni soci .Consenso di tutti i soci (preferibile atto scritto). Possibile in sede di atto costitutivo o con accordo successivo. La “delibera” dei soci di persone non ha forme vincolate, ma dev’essere approvata da chi rappresenta l’unanimità (salvo diversi patti).
Se non si formalizzaCompenso non dovuto; se corrisposto, la società (o il curatore fallimentare) può chiederne la restituzione; costo indeducibile fiscalmente .Il compenso non concordato è tecnicamente un prelievo sui futuri utili di quel socio. Altri soci possono opporsi e pretendere conguagli. Fiscalmente, l’ufficio può riqualificarlo come utile anticipato a un socio (senza toccare l’utile imponibile dichiarato, se già tassato per trasparenza).
Particolarità– Approvazione del bilancio non sana automaticamente l’assenza di delibera (tranne totalitaria) . <br> – Possibile deliberare compensi variabili (es. % utili) purché norma statutaria o delibera lo preveda prima. <br> – Il compenso può essere rinunciato dall’amministratore (si vedrà oltre).– Nelle S.a.s., di norma solo i soci accomandatari amministrano; un accomandante non può ricevere compenso di amministrazione perché non può compiere atti di gestione (pena perdere limitazione responsabilità). <br> – Se il socio accomandatario percepisce compenso, vale quanto detto per S.n.c. (consenso degli altri soci necessario).

Amministratori di fatto e altri casi particolari

Un “amministratore di fatto” è colui che, pur privo di nomina formale, esercita di fatto i poteri gestori di una società in modo continuativo e significativo (art. 2639 c.c.) . Si pensi al caso in cui un soggetto (spesso un socio non ufficialmente amministratore, o un terzo) dirige le operazioni sociali nell’ombra, magari avvalendosi di un prestanome come amministratore legale. Dal punto di vista giuridico, l’amministratore di fatto assume gran parte delle responsabilità di un amministratore di diritto, ma senza averne i titoli formali.

Per quanto attiene ai compensi, un amministratore di fatto non ha alcun diritto contrattuale al compenso gestorio, proprio perché manca una nomina e una delibera che possano costituirne la fonte. Qualunque somma costui sottragga alla società per remunerarsi viene tipicamente considerata una distrazione illecita di fondi. La Cassazione penale ha affermato che i compensi percepiti dall’amministratore di fatto integrano sempre il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, in caso di fallimento . Ciò avviene perché tali prelievi difettano di qualsiasi giustificazione causale legittima: l’amministratore di fatto, non essendo investito formalmente della carica, non può rivendicare alcun compenso deliberato. Anche nella fisiologia (fuori dal fallimento), se emergono pagamenti a favore di un soggetto non in carica ma che di fatto gestiva la società, questi pagamenti verranno ricondotti a utili occulti distribuiti (se il soggetto è un socio) o a appropriazioni indebite (se non socio).

Caso particolare: talvolta l’amministratore di fatto cerca di mascherare la propria remunerazione tramite contratti fittizi (es. consulenze, assunzioni inventate) intestati a sé medesimo o a compiacenti. Questi espedienti, se scoperti, vengono trattati come nulli (per simulazione o illiceità della causa) e i relativi importi sono ripresi a tassazione e suscettibili di azioni restitutorie. In sostanza, l’ordinamento non riconosce alcun “diritto al compenso” per chi gestisce di fatto senza nomina: l’unico modo legittimo sarebbe stipulare un vero contratto di prestazione professionale diverso dall’attività di amministratore. Ma, come vedremo, la giurisprudenza recente è molto rigorosa nel scrutinare tali contratti per evitare che nascondano compensi organici.

Amministratore unico e socio unico: una circostanza frequente è quella della S.r.l. unipersonale, dove l’unico socio è anche amministratore. In tal caso, la legge consente al socio unico di adottare le decisioni (in quanto assemblea) mediante dichiarazione scritta (art. 2475, co.4 c.c.). Quindi, per formalizzare il proprio compenso, il socio-amministratore unico dovrebbe redigere una decisione del socio unico che fissi l’ammontare annuale del compenso . Se non lo fa, incorre negli stessi problemi sopra descritti: pur essendo “padrone” della società, se non formalizza il compenso, quell’esborso risulterà privo di valida causa deliberativa. La Cassazione, in caso di identità socio unico = amministratore, presume anzi che ogni movimento anomalo di denaro tra società e amministratore sia indice di utili occulti salvo prova contraria . Dunque l’amministratore-socio unico deve essere doppiamente prudente nel documentare i propri prelievi.

Compensi in natura: rientra nelle ipotesi particolari anche la corresponsione di compensi non in denaro, bensì sotto altre forme (fringe benefits, beni aziendali concessi in uso, ecc.). Un esempio tipico è l’auto aziendale ad uso promiscuo concessa all’amministratore, l’abitazione di proprietà sociale usata personalmente, o altre utilità. Queste forme di remunerazione devono anch’esse essere deliberate o comunque autorizzate dagli organi sociali competenti. Se l’assemblea non ha mai approvato che l’amministratore possa utilizzare certi beni come parte del suo pacchetto retributivo, i relativi costi a carico della società possono essere contestati come benefici occulti. L’Agenzia delle Entrate è molto attenta a individuare benefici o spese a favore dell’amministratore-socio che possano celare distribuzione di utili: rimborsi spese non giustificati, viaggi personali contabilizzati come trasferte, uso di barche o immobili sociali senza corrispettivo, premi “fuori busta” non deliberati . Tutto questo può essere riqualificato come remunerazione extra non dichiarata. In sostanza, anche il “compenso in natura” segue le stesse regole: va approvato dai soci. Altrimenti il fisco lo tratterà come remunerazione occulta e la società potrà richiederne conto all’amministratore.

Riassumendo, i casi particolari confermano la regola generale: qualsiasi forma di vantaggio patrimoniale a favore dell’amministratore per la sua attività gestionale richiede un fondamento legittimo (delibera, contratto valido) altrimenti è passibile di contestazione. Nel dubbio, è preferibile deliberare in modo espresso anche la concessione di benefit (auto, alloggio, bonus) quantificandone il valore, così che siano parte integrante del compenso approvato.

Nei prossimi capitoli esamineremo nel dettaglio le conseguenze della mancanza di delibera, prima sul piano civilistico e poi su quello fiscale e penale, per poi affrontare le possibili strategie difensive.

Conseguenze civilistiche della mancata delibera del compenso

Sul piano del diritto civile e societario, l’erogazione di un compenso amministratore senza che vi sia stata la dovuta deliberazione assembleare (o la previsione in statuto) comporta in genere due macro-conseguenze: 1. Nullità dell’accordo di compenso e dell’eventuale atto di pagamento, per contrarietà a norme imperative (ex art. 1418 c.c.) . 2. Obbligo di restituzione di quanto percepito indebitamente dall’amministratore, su istanza della società (o di altri legittimati, come un nuovo amministratore o un curatore fallimentare).

Analizziamo questi aspetti.

Nullità dell’atto e inesigibilità del compenso

La mancanza della delibera comporta innanzitutto che non esiste un valido titolo giuridico che obblighi la società a pagare o che giustifichi il pagamento. Qualsiasi accordo privato tra amministratore e alcuni soci, o delibera del CdA non ratificata dall’assemblea, è considerato ininfluente di fronte al dettato normativo imperativo . In termini giuridici, si configura la nullità del contratto di prestazione d’opera gestionale nella parte relativa al compenso. La Cassazione ha più volte sancito questo principio: “la violazione delle norme imperative sulla determinazione dei compensi comporta nullità ex art. 1418 c.c.” . Ad esempio, Cass. ord. 20613/2025 ha ribadito che l’atto con cui la società corrisponde compensi agli amministratori senza delibera è nullo e non produce effetti né può essere sanato .

Conseguenza pratica della nullità: l’amministratore non può nemmeno invocare in giudizio il diritto al compenso se non c’è delibera. Il credito al compenso non sorge affatto. Anzi, in caso di lite, la società eccepirà la nullità e l’amministratore vedrà rigettate le sue pretese. Questo è bene tenerlo presente per quegli amministratori che, avendo operato magari per anni senza stipendio formalizzato, decidessero poi di chiedere compensi arretrati: senza atti deliberativi a monte, la domanda giudiziale verrà respinta perché il rapporto organico non genera crediti retributivi in assenza di determinazione sociale. (Come unica eccezione, si può immaginare un’azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. se l’amministratore prova di aver apportato un utilitas straordinaria alla società; ma è strada stretta e comunque subordinata alla prova di mancanza di altro rimedio, e potrebbe urtare anch’essa col divieto di autodeterminarsi il compenso).

Nel caso esaminato da una pronuncia recente (Cass. 2 settembre 2025, ord. n. X, riportata in LexCED 2025), un amministratore unico aveva emesso fatture dalla propria ditta individuale alla società per €189.000 in assenza di delibera: la Corte ha confermato che tale “surrettizia autoliquidazione” era illegittima e l’amministratore è “tenuto a restituire le somme” percepite, stante la necessità di una specifica delibera assembleare per legittimare qualsiasi compenso .

Va inoltre chiarito che la nullità qui non è soggetta a termine (non è una mera annullabilità): trattandosi di violazione di norme imperative di ordine pubblico economico, l’atto è radicalmente nullo e può essere fatto valere da chiunque vi abbia interesse in ogni tempo. Ciò rileva soprattutto in scenario di fallimento: il curatore (che rappresenta la massa dei creditori) è certamente legittimato ad agire per far dichiarare la nullità dei pagamenti indebiti e chiederne la restituzione . Anche un socio potrebbe contestare il bilancio chiedendo di eliminare il costo indebito e ripristinare le riserve della società.

Un ulteriore riflesso civilistico è che la nullità del compenso potrebbe costituire, in capo all’amministratore che se l’è attribuito, una violazione dei doveri verso la società (potenzialmente un inadempimento del mandato sociale). Se la società ha subito un danno da ciò (es. esborso indebito che ha prosciugato risorse), potrebbe configurarsi responsabilità dell’amministratore ex art. 2476 c.c. (per S.r.l.) o 2392 c.c. (per S.p.A.) nei confronti della società o dei creditori. Nella pratica, però, la via maestra per recuperare le somme è l’azione di ripetizione dell’indebito o l’azione specifica di nullità con condanna restitutoria, più che la generica azione di responsabilità.

Restituzione dei compensi indebitamente percepiti

Se un amministratore ha già percepito somme a titolo di compenso non autorizzato, la società (o il curatore, o anche i soci se la società non agisce) potrà chiedergli di restituire l’indebito. La causa petendi tipica è la nullità del titolo di erogazione (quindi ripetizione ex art. 2033 c.c.). Alternativamente, si può configurare l’azione di responsabilità per atto di mala gestio, ma quest’ultima richiede di provare il danno e spesso comporta tempi più lunghi; dunque, concentriamoci sulla restituzione dell’indebito.

In giudizio, all’amministratore spetterebbe eventualmente dimostrare il contrario, cioè che esiste una delibera valida che fonda quei pagamenti. L’onere della prova dell’esistenza della delibera incombe infatti sulla società/contribuente quando la questione emerge (principio valido anche in ambito fiscale) . Ma se la delibera non c’è, la condanna alla restituzione è pressoché inevitabile, dato l’orientamento univoco della Cassazione. Abbiamo numerosi precedenti: – Cass. 24 ottobre 2019, n. 27335: “senza delibera assembleare non spetta il compenso all’amministratore”, con conseguente obbligo di restituire quanto riscosso indebitamente (il caso riguardava un amministratore di S.r.l. che aveva prelevato fondi senza autorizzazione) . – Cass. 2 settembre 2021, n. 32732: ha riaffermato che il compenso non deriva automaticamente dalla carica, ma richiede decisione dei soci, altrimenti non è dovuto . – Cass. 15 maggio 2023, n. 13181: ha confermato l’indeducibilità fiscale e il principio di inesistenza del diritto al compenso in mancanza di delibera (pronuncia in ambito tributario, ma implicante anche il profilo civilistico).

Nel momento in cui il pagamento viene dichiarato nullo/indebito, l’amministratore deve restituire l’importo al netto di eventuali ritenute? Trattandosi di ripetizione di indebito, si restituisce ciò che si è effettivamente ricevuto (quindi l’importo al netto delle ritenute fiscali se queste sono state versate all’Erario). Su questo aspetto pratico torneremo anche in chiave fiscale (recupero delle imposte).

Difese possibili dell’amministratore in sede civile: dal punto di vista del debitore (l’amministratore che ha incassato), quali argomenti si possono invocare per resistere alla richiesta di restituzione? – Talvolta si tenta di sostenere che vi sia stata una forma di delibera implicita o ratifica: ad esempio, che tutti i soci erano consapevoli e consenzienti dei pagamenti, e che ciò equivarrebbe ad una decisione collettiva anche se non verbalizzata. Attenzione: la Cassazione è fortemente contraria a riconoscere ratifiche tacite in questo campo . Solo la situazione della totalitaria deliberante (tutti presenti, decisione espressa) ha qualche valore, ma se manca un verbale firmato da tutti in tal senso, l’argomento è debole. Alcune Commissioni Tributarie in passato hanno dato peso al consenso tacito, ma in sede di legittimità questa tesi non trova appiglio . Dunque, sostenere “ma i soci sapevano e non si sono opposti” difficilmente evita la restituzione, specie se c’è contrasto tra soci o c’è un curatore fallimentare che è terzo rispetto ai vecchi soci. – Un’altra difesa può essere cercare di qualificare diversamente quelle somme: ad esempio, affermare che non erano compensi gestionali, bensì rimborsi spese legittimi, o restituzione di finanziamenti soci, ecc. Questa strategia a volte emerge in sede fiscale (dove si cerca di dare una giustificazione alternativa ai movimenti di denaro) . Potrebbe funzionare se suffragata da documenti: es. dimostrare che quelle somme erano la restituzione di un prestito che l’amministratore aveva fatto alla società. Se questa tesi regge, verrebbe meno il carattere di compenso non deliberato. Tuttavia, se nelle scritture contabili quelle somme risultavano stanziate come “compenso amministratore” o consulenza, sarà arduo farle passare per qualcos’altro senza incorrere in contraddizioni o persino problemi di falso in bilancio. – Eccezione di compensazione: se l’amministratore vanta a sua volta dei crediti verso la società (per altri titoli certi, liquidi ed esigibili, ad esempio un finanziamento soci, o fatture per attività extra-sociali reali), potrebbe tentare la via di compensare quanto deve restituire con quanto eventualmente la società gli deve. Va però fatta attenzione: se i crediti dell’amministratore sono anch’essi contestati o poco chiari, non verranno facilmente accettati in compensazione. – Invocare art. 2389, co.2 c.c. o analoghi: l’art. 2389 co.2 prevede che i compensi degli amministratori delegati possono essere determinati dal CdA se così previsto dallo statuto e approvati dal collegio sindacale. Ma questo non evita la deliberazione base dei soci sull’ammontare complessivo. Poteri statutari del CdA di fissare i dettagli non eliminano la necessità di un quadro generale deciso dai soci. Quindi salvo si dimostri che esisteva questa previsione statutaria ed è stata seguita correttamente, non aiuta molto. – Buona fede e utilità: in certe situazioni limite, l’amministratore potrebbe sostenere di aver agito in buona fede, convinto della legittimità, e che comunque la società ha effettivamente beneficiato del suo lavoro. Purtroppo, il fatto che la società abbia beneficiato dell’attività gestoria non rileva, perché tale attività doveva essere prestata comunque in adempimento dell’incarico (che poteva anche essere a titolo gratuito se non convenuto diversamente). La buona fede soggettiva non impedisce la declaratoria di nullità, ma potrebbe semmai influire sulle modalità di restituzione (ad esempio su accordi transattivi: l’amministratore potrebbe chiedere di restituire a rate, oppure di trattenere una parte simbolica come riconoscimento ex-post del lavoro – ipotesi rischiosa e tutta da concordare coi soci). – Prescrizione: i diritti alla ripetizione di indebito si prescrivono in 10 anni dalla data del pagamento. Se sono trascorsi più di 10 anni dai compensi indebiti senza che siano stati contestati, l’amministratore potrebbe eccepire la prescrizione dell’azione di ripetizione. Bisogna però valutare da quando decorre: solitamente dalla data di ogni singolo pagamento. In caso di occultamento doloso, la prescrizione può decorrere dal momento della scoperta. Inoltre, se è la curatela fallimentare a chiedere, il fallimento interrompe e sospende certi termini. Quindi, la prescrizione va maneggiata con cura: non sempre l’amministratore potrà farvi affidamento, specie se i pagamenti sono recenti o se c’è stato riconoscimento del debito.

In sostanza, la posizione del debitore-amministratore non è invidiabile: la legge gli è poco favorevole in difetto di delibera. Spesso, la miglior strategia è cercare un accordo transattivo con la società (o il curatore) per restituire almeno parzialmente le somme ed evitare un contenzioso costoso dall’esito prevedibile. Ciò può includere, ad esempio, la rinuncia da parte dell’amministratore a crediti diversi, la riconsegna di beni, o il pagamento dilazionato di quanto dovuto.

Focus: amministratore che vota sul proprio compenso e invalidità della delibera

Un aspetto correlato è: cosa succede se il socio-amministratore partecipa alla votazione del proprio compenso in assemblea? Si potrebbe temere un conflitto di interessi tale da inficiare la delibera stessa. Su questo punto, la Cassazione in passato ha adottato un orientamento permissivo: già con sent. 28748/2008 ha chiarito che la deliberazione sul compenso dell’amministratore non è nulla né annullabile solo perché l’amministratore-socio ha partecipato al voto, purché vi fosse la maggioranza necessaria e il compenso sia determinato nell’interesse sociale . Il conflitto di interessi in ambito societario, infatti, opera su un piano di possibile annullabilità se il voto determinante era in conflitto e la delibera poteva danneggiare la società (art. 2373 c.c. per S.p.A., analogia per S.r.l.). Nel caso del compenso, di solito, nelle piccole società il voto del socio-amministratore è inevitabile per raggiungere il quorum, e ciò non rende di per sé illegittima la decisione – diversamente sarebbe quasi impossibile deliberare i compensi nelle realtà con pochi soci. Pertanto, una delibera che approva il compenso è valida anche se proposta e votata dallo stesso interessato, a condizione di ragionevolezza dell’importo e corretta verbalizzazione. Questo per completezza, poiché il nostro tema centrale è l’assenza di delibera; ma era utile chiarire che la via maestra per evitare contestazioni è sempre deliberare correttamente, senza eccessivi timori sulla partecipazione al voto dell’amministratore (salvo casi di abuso evidente, compensi sproporzionati etc., che però attengono più alla sostanza).

Profili fiscali: deducibilità, contestazioni dell’Agenzia Entrate e compensi occulti

Uno degli ambiti in cui la mancanza di delibera produce effetti dirompenti è il fisco. L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza monitorano con attenzione la questione dei compensi agli amministratori poiché da essa possono derivare fenomeni evasivi o elusivi (costi indebitamente dedotti, utili mascherati da costi, mancata applicazione di ritenute, etc.). Esaminiamo dunque: – il principio di indeducibilità fiscale dei compensi non deliberati e le modalità con cui viene contestata; – le eventuali conseguenze in termini di IVA indetraibile e altre imposte; – il trattamento dei compensi mascherati (consulenze, rimborsi spese fittizi, fringe benefit occulti); – la questione dei compensi eccessivi (antieconomici) anche se deliberati; – le strategie difensive in ambito tributario, incluso come gestire la doppia tassazione e il recupero delle imposte già versate dall’amministratore in caso di restituzione.

Indeducibilità dei compensi non deliberati e recupero a tassazione

Ai fini delle imposte sul reddito d’impresa (IRES per società di capitali, IRPEF per società di persone), vige il principio generale per cui sono deducibili solo i costi inerenti e certi (art. 109 TUIR) e, per i compensi agli amministratori, l’art. 95, comma 5 TUIR stabilisce che “i compensi spettanti agli amministratori … sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti”. La parola chiave è “spettanti”: perché un compenso spetti, deve essere conforme a legge, dunque deliberato. Se manca la delibera, quel compenso non è giuridicamente spettante all’amministratore, ergo per il Fisco non è un costo inerente e certo deducibile .

In pratica, l’Agenzia delle Entrate, quando accerta che una società ha contabilizzato tra i costi un compenso amministratore senza idonea delibera assembleare, procede a riprendere a tassazione quell’importo. Ciò avviene con un avviso di accertamento in cui il reddito imponibile viene aumentato stornando il costo indebito e calcolando le maggiori imposte dovute su tale differenza . Ad esempio, se Beta S.r.l. ha dedotto €50.000 come “compenso amministratore” ma poi si scopre che non c’è traccia di delibera, l’Ufficio aggiungerà €50.000 all’utile imponibile, richiedendo la relativa IRES (24% su 50k) e se applicabile IRAP (aliquota regionale circa 3.9%) più interessi e sanzioni .

Alcuni punti fermi dalla giurisprudenza tributaria: – La delibera è condizione necessaria per la deducibilità: Cass. SU 21933/2008, Cass. 24471/2022, Cass. 8005/2024 ribadiscono che senza delibera o previsione statutaria il costo è indeducibile . Non basta aver effettivamente pagato l’amministratore (criterio di cassa) se quel pagamento era contra legem. – L’assenza di delibera rileva al di là della forma del pagamento: anche se l’amministratore ha emesso fattura come consulente o percepito somme a altro titolo, se la sostanza è che si trattava di compenso per l’attività gestoria, la deduzione è negata . – Non importa che l’amministratore abbia dichiarato quel reddito: Spesso l’amministratore, ignaro, include quei compensi nella propria dichiarazione IRPEF e paga le tasse personali. Ci si potrebbe aspettare che allora il Fisco consideri tutto alla pari (la società deduce, l’amministratore ci ha pagato Irpef). Invece no: l’indeducibilità prescinde dalla tassazione in capo al percettore . Così può generarsi una doppia tassazione economica: l’importo viene tassato una volta come reddito personale dell’amministratore, e una seconda volta (indirettamente) come maggior utile tassato alla società che non l’ha potuto dedurre . Dottrina e contribuenti hanno criticato questa asimmetria, sostenendo che, negata la deduzione, il Fisco dovrebbe quantomeno riqualificare la somma come utili distribuiti (che in capo al socio persona fisica sarebbero tassati con imposta sostitutiva/dividendi, evitando duplicazione) . Tuttavia la Cassazione non ha sinora accolto questa tesi di equità: rileva che la simmetria di cassa imposta dall’art.95 TUIR è voluta per impedire arbitraggi, e che un costo privo di delibera è in fondo paragonabile a un esborso privo di causa inerente (dunque equiparabile a utili occulti) . In una decisione, la Suprema Corte ha definito tali esborsi “espedienti elusivi posti in essere al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte”, specie quando mediante essi l’utile d’esercizio veniva azzerato . – IVA indetraibile: se il compenso indebito è stato corrisposto tramite una fattura con IVA (ad esempio l’amministratore emette fattura come consulente), anche l’IVA è indetraibile per la società . Ciò perché l’operazione è considerata contraria a norme imperative, e in materia IVA se la prestazione è fittizia o priva di causa lecita, non si ha diritto alla detrazione. Cass. 20613/2025 ha chiarito che l’IVA su consulenze solo formalmente tali, ma in realtà remunerazione di amministratori senza delibera, non può essere detratta . Quindi, la società subisce un aggravio ulteriore: oltre a dover riprendere il costo, non può scaricare l’IVA di quell’invoice (che magari avrà invece versato al professionista). Attenzione: se l’amministratore era anche fornitore con partita IVA, c’è pure il paradosso che l’Erario incassa l’IVA sulla fattura e poi nega la detrazione alla società, un guadagno netto per lo Stato (a meno che l’amministratore non faccia lui frodi IVA). – Sanzioni: la ripresa a tassazione comporta di regola una sanzione amministrativa per dichiarazione infedele (30% circa della maggior imposta) salvo esimenti. Inoltre, se viene anche contestata la mancata applicazione di ritenute (nel caso in cui la società avrebbe dovuto operare una ritenuta IRPEF sul compenso e non l’ha fatto, come succede se trattato come consulenza fittizia), possono aggiungersi sanzioni per omesso versamento ritenute.

Riassumendo i punti chiave fiscali sui compensi non deliberati: – Costo indeducibile (IRES/IRPEF) . – IVA indetraibile (se presente) . – Possibile riqualificazione come utili occulti: in casi eclatanti, il Fisco potrebbe sostenere che si tratta di utile distribuito al socio (amministratore) e tassarlo come dividendo non dichiarato. Ma di solito preferisce la via della semplice indeducibilità più sanzioni . – Onere della prova: spetta alla società provare l’esistenza di una delibera valida se vuole vincere il ricorso . Se la trova (magari c’era ma non era stata esibita), tutto cambia: la spesa diverrebbe deducibile. Ma se la delibera non esiste, sarà praticamente impossibile convincere i giudici, data la chiarezza della norma e della giurisprudenza . – Assemblea totalitaria come unica attenuante: come già detto, l’unica ipotesi ammessa è quella in cui tutti i soci erano presenti e hanno effettivamente deciso il compenso, seppur senza formale convocazione. In tal caso, se c’è un verbale totalitario che approva quell’importo, può considerarsi valida la delibera . Ad esempio, in S.r.l. unipersonale, se il socio unico in sede di approvazione di bilancio scrive anche “determina il proprio compenso in euro X per l’anno”, quell’atto è efficace . Rimane comunque buona prassi separare le due cose per evitare contestazioni.

Esempio pratico: Gamma S.r.l. deduce €100.000 di “consulenze tecniche” pagate alla ditta individuale del suo amministratore unico. Durante un controllo, l’Agenzia scopre che tali consulenze in realtà riguardavano attività gestorie (corrispondenza nelle date con mansioni tipiche dell’amministratore). Inoltre non risultano delibere. Conseguenze: disconosce €100.000 di costi (tassandoli), e non ammette la detrazione di €22.000 di IVA su quelle fatture. Emette avviso di accertamento con maggior imposta IRES ~€24k + IVA ~€22k (con relativi interessi) e sanzioni. La società, per difendersi, potrebbe far causa sostenendo che qualche delibera c’era o che quelle prestazioni erano extra (ma se la sostanza contraria è provata, perderà). Probabilmente, se perde, il suo amministratore si troverà a dover restituire i €100k alla società (su pressione dei soci o curatore se fallita) mentre ha pagato IRPEF su quell’importo come ditta: scenario pessimo.

Compensi “mascherati” da consulenze o altre forme (aggiramento delle norme)

Come anticipato, una casistica frequente è quella dei compensi indiretti o occulti: la società invece di corrispondere un “compenso amministratore” palese, tenta di aggirare l’obbligo di delibera ricorrendo a vari stratagemmi . Eccone alcuni: – Contratto di consulenza professionale tra la società e l’amministratore (o la sua ditta individuale/società di consulenza). Così l’amministratore viene pagato tramite fatture come fosse un fornitore esterno, con IVA, evitando l’etichetta di “compenso amministratore” . Sulla carta è un costo di servizi, che la società deduce normalmente. – Rimborsi spese esagerati o forfettari: invece di stipendio, l’amministratore riceve ogni mese somme presentate come “rimborso” (trasferte, rappresentanza, ecc.), senza una reale pezatura di spese sostenute . – Premi, bonus o provvigioni atipici: es. l’amministratore, che magari è anche venditore, si autoliquida provvigioni fuori mercato per incrementare i propri incassi, senza delibera dei soci. – Utilizzo di beni sociali: come detto, auto, case, barche, etc. forniti all’amministratore senza un accordo sul valore (di fatto redditi in natura nascosti) . – Assunzione fittizia: l’amministratore (specie se è anche socio) si fa assumere come dipendente o dirigente e prende uno stipendio mensile, eludendo il passaggio assembleare (in teoria il CdA assume i dipendenti, quindi tenta questa strada).

Queste pratiche rientrano nel concetto di elusione/abuso del diritto. La Cassazione negli ultimi anni ha mostrato un orientamento sempre più rigido, volto a “smacherare” tali artifici : – Con due ordinanze gemelle del 24 luglio 2024 (Cass. nn. 20591 e 20613), la Suprema Corte ha segnato una decisa stretta: ha affermato che in assenza di delibera o previsione statutaria, non è lecito aggirare la norma ricorrendo a contratti di consulenza tra la società e il suo amministratore . In quei casi, benché i contratti presentassero un oggetto definito e tariffe dettagliate, la Corte ha rilevato che la funzione economica era “corrispondere compensi agli amministratori senza passare per l’approvazione assembleare”. Dunque ha disconosciuto la deducibilità di quei costi di consulenza, guardando alla sostanza economica e non alla forma giuridica . – Questo orientamento supera un precedente più permissivo: ad es. Cass. 15822/2016 aveva distinto la remunerazione di una specifica attività inerente all’oggetto sociale (eseguita dall’amministratore) dal compenso generico ex art. 2389 c.c., ammettendo che potesse essere dedotta senza delibera se si trattava appunto di un lavoro ulteriore e specifico . In altre parole, per quella pronuncia un amministratore poteva essere pagato separatamente per un compito extra (purché documentato) e dedurre il costo come prestazione autonoma. Tale linea oggi appare superata: le ordinanze 20591 e 20613/2024 rappresentano un ritorno all’ortodossia secondo cui “l’amministratore non può auto-eludere la regola imponendo la propria remunerazione sotto mentite spoglie contrattuali” . – Esempi concreti citati: un amministratore-avvocato che rappresenta la società in tribunale – secondo la logica restrittiva servirebbe comunque delibera per il suo onorario, altrimenti non deducibile . Ciò ha destato critiche, perché porta a situazioni poco efficienti (ogni prestazione professionale del manager-amministratore dovrebbe passare dai soci). Si auspica un ripensamento, ma per ora questa è la giurisprudenza dominante . – Anche finti rimborsi spese e analoghi vengono contestati come utili occulti se l’entità è tale da non giustificarsi o se manca documentazione. La Cassazione (ord. 17108/2025) ha avallato la presunzione che ogni movimento finanziario anomalo tra società e amministratore unico sia reddito distratto, invertendo l’onere della prova a carico del contribuente per dimostrare il contrario .

Difendersi in caso di contestazione di compensi mascherati: se l’Agenzia contesta una consulenza all’amministratore o altro meccanismo come elusivo, l’amministratore/società potrà: – Dimostrare la reale autonomia e diversità della prestazione: ad esempio provare con documenti che l’attività oggetto della consulenza è ulteriore e diversa dalle funzioni amministrative ordinarie . Anche se lo fa l’amministratore, deve essere un lavoro che avrebbe potuto svolgere un qualsiasi professionista esterno (progetto ingegneristico, perizia specialistica, etc.). – Provare che il compenso pattuito è a valore di mercato e non gonfiato per svuotare utili . Se la società avrebbe pagato quella stessa cifra a un esterno qualificato, è un argomento a favore. – Provare che c’era una effettiva necessità aziendale e non un intento di elusione . Ad esempio, un incarico straordinario e documentato, deliberato dall’organo amministrativo. – Citare la Cass. 15822/2016 come precedente favorevole (anche se minoritario) per sostenere la deducibilità in tali frangenti .

Tuttavia, bisogna essere consapevoli che, arrivando in Cassazione oggi, prevale la linea restrittiva recente . Quindi la difesa deve essere preparata a controbattere l’accusa di artificio. Una strada prudenziale, qualora si voglia comunque remunerare l’amministratore per compiti extra, è: far approvare preventivamente dai soci anche quei compensi straordinari (magari specificando in delibera che sono riferiti a un progetto X) . In alternativa, se proprio si vuole procedere con il contratto separato, non dedurne il costo (trattandolo volontariamente come non inerente) per evitare il contenzioso; ma chiaramente nessuna società vuole rinunciare a una deduzione.

Quanto alle altre forme occulte: – Rimborsi e benefits non giustificati: la difesa consiste nel dimostrare che sono inerenti all’attività: es. l’auto aziendale usata per lavoro (tenere un log delle percorrenze per lavoro), i viaggi documentati da ordini di missione, etc. . In mancanza, saranno considerati vantaggi personali (compenso occulto). – Prelievi di denaro dal conto sociale: qui o si prova che erano a fronte di una causale legittima (restituzione finanziamento soci, pagamento di spese aziendali anticipate, ecc.), oppure verranno presumpti utili non dichiarati . La Cassazione offre all’Erario una forte presunzione legale in caso di socio unico: ogni flusso strano è utili occulti, salvo prova contraria rigorosa . – Se la società cerca tardivamente di dire “erano compensi di fatto all’amministratore” (magari per giustificare l’uscita di denaro), senza averli deliberati né assoggettati a ritenute, la sua posizione è debolissima . Rischia una doppia bastonata: tassazione come utili extracontabili e sanzioni per omessa applicazione di ritenute (perché li ha dati “in nero” come retribuzioni) . – In questi casi, la migliore difesa è trovare documenti che spieghino quei movimenti con cause estranee (es. girofondi, operazioni con terzi) piuttosto che appellarsi tardivamente a “compensi di fatto” .

In sintesi, dal punto di vista fiscale prevale la sostanza economica sulla forma . Se un pagamento a favore dell’amministratore appare come un vantaggio per lui e non ha chiara giustificazione di business, il Fisco tenderà a qualificarlo come indeducibile o distribuzione di utili non tassata . Per difendersi, bisogna portare prove convincenti dell’inerenza e legittimità di ogni uscita verso l’amministratore: delibere, contratti genuini, pezze giustificative . Cercare scorciatoie può portare più problemi che benefici.

Compensi “antieconomici” o sproporzionati: controllo di congruità

Un ulteriore profilo di contestazione fiscale – che può colpire anche compensi regolarmente deliberati – riguarda l’ammontare del compenso. L’Amministrazione finanziaria ritiene di poter sindacare la congruità (ragionevolezza) di costi apparentemente eccessivi rispetto alla realtà aziendale. Questo rientra nel concetto di comportamento antieconomico: se un’impresa sostiene un costo straordinariamente alto senza valida ragione, potrebbe nascondere un intento elusivo (ad es. ridurre l’utile tassabile distribuendo utili ai soci sotto forma di compensi) .

In linea di principio, certamente, il Fisco non può decidere quanto un’azienda debba pagare i propri amministratori: la libertà imprenditoriale e l’autonomia decisionale sono tutelate. Tuttavia, c’è un limite quando il costo appare manifestamente abnorme e privo di giustificazione. In tali casi, la Cassazione ha riconosciuto la legittimità di un sindacato di inerenza quantitativa : – Cass. 3243/2013: “la deducibilità dei compensi agli amministratori non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti”, rientrando nei poteri dell’Ufficio “la verifica dell’attendibilità economica di tali dati” . Quindi una delibera di compenso non è un assegno in bianco incontestabile se l’importo è palesemente inattendibile per la situazione della società . – Cass. 24379/2016 ha enunciato un principio spesso citato: “Ai fini della generale deducibilità dei costi non è sufficiente che il contribuente fornisca la prova dell’effettività dei componenti negativi, dovendo anche fornire la prova della loro inerenza, anche in senso quantitativo, alla produzione dei ricavi; … l’Amministrazione finanziaria è legittimata a negare la deducibilità parziale di un costo ritenuto sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa e rispetto al quale la società non fornisca plausibili ragioni a giustificazione dell’ammontare” . Dunque, se una piccola S.r.l. familiare con fatturato modesto remunera l’amministratore con centinaia di migliaia di euro, il Fisco può dubitare della genuinità ed esigere spiegazioni plausibili .

Anche l’Agenzia delle Entrate ha espresso questo concetto: la Risoluzione n. 113/E/2012 affermava che, in sede di controllo, l’Amministrazione può “disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità [dei compensi] in tutte le ipotesi in cui i compensi appaiano insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi” .

Esempi tipici di scenario antieconomico: – Una società in perdita o con utili esigui che attribuisce un compenso altissimo all’amministratore. L’Agenzia può sostenere che nessun imprenditore ragionevole pagherebbe così tanto a fronte di risultati scarsi, se non per ridurre la base imponibile. – Società neo-costituite o quasi inattive con compensi elevati ai soci amministratori. – Piccole aziende familiari che alzano il compenso quando i soci entrano in aliquota IRPEF più bassa (per spalmare reddito, ad esempio).

Difese possibili contro la contestazione di anti-economicità: – Motivare il perché del compenso elevato: ad esempio, l’amministratore possiede competenze eccezionali, o ha ottenuto risultati notevoli (anche se l’utile è basso, magari ha evitato perdite peggiori, o avviato l’azienda). O il mercato per manager simili richiederebbe quell’importo. – Documentare delibere, perizie: se la società ha deliberato il compenso basandosi su uno studio comparativo o su indicatori (es. retribuzioni medie di settore), presentare ciò. – Eventi straordinari: spiegare se il compenso elevato è legato a un evento contingente (bonus una tantum per un progetto andato a buon fine, liquidazione di fine mandato, ecc.) . Mostrare che non è una prassi sistematica volta a svuotare utili. – Proporre una parziale riduzione: talvolta, in sede di contenzioso, si può arrivare a un accordo o a una decisione di compromesso in cui parte del compenso viene riconosciuta come deducibile e parte no, se si dimostra almeno in parte la ragionevolezza.

Va detto che il controllo di congruità può essere scivoloso: non c’è un parametro oggettivo univoco e le Commissioni Tributarie di merito hanno avuto orientamenti oscillanti. Ma la Cassazione negli ultimi anni tende a dare ragione all’Agenzia quando i casi sono clamorosi. Dunque è bene non abusare di compensi troppo elevati rispetto agli utili, se non si hanno giustificazioni solide.

Profili IVA, contributivi e altre imposte

Oltre all’IRES/IRPEF già trattate, altri risvolti fiscali vanno menzionati: – IRAP: per le società di capitali, l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) notoriamente non consente la deduzione del costo del personale dipendente e assimilato. Tuttavia, i compensi agli amministratori non rientrano tra i costi indeducibili IRAP (in quanto non sono propriamente “personale dipendente”). Paradossalmente, in alcune regioni l’Agenzia aveva negato la deduzione IRAP di tali costi, ma la Cassazione ha chiarito che sono deducibili ai fini IRAP perché figure non subordinate. Quindi, se il compenso è deliberato e pagato, la società di capitali può dedurlo dall’IRES (per cassa) e anche dall’IRAP. Se invece non è deliberato, come visto, è indeducibile IRES e in IRAP probabilmente verrebbe comunque ripreso come non inerente (anche se tecnicamente in IRAP manca la nozione di inerenza, l’ufficio considererebbe quell’importo escluso dalla base imponibile e quindi ricalcolerebbe un maggior valore della produzione imponibile). – Ritenute fiscali: i compensi amministratori, quando pagati legittimamente, sono soggetti a ritenuta d’acconto IRPEF del 20% (redditi assimilati al lavoro dipendente ex art. 50 TUIR). La società funge da sostituto d’imposta. Se l’operazione era mascherata (es. fattura consulenza con IVA), la società non ha applicato ritenuta. In caso di riqualificazione, l’Agenzia potrebbe richiedere alla società le ritenute non operate, più sanzioni. Se invece la società aveva trattato il compenso come tale e fatto la ritenuta ma poi si scopre che era indeducibile, almeno non avrà sanzioni sul versante ritenute. – Contributi previdenziali: un amministratore percepisce compenso e non è iscritto ad altre gestioni? Dovrà iscriversi alla Gestione Separata INPS e la società versa la contribuzione del 24% circa (di cui 1/3 trattenuto al netto). Se il compenso era occulto e viene scoperto, l’INPS potrebbe reclamare i contributi non versati. Inoltre, se l’amministratore era anche lavoratore dipendente altrove o pensionato, le regole possono cambiare. Insomma, un compenso non dichiarato può generare evasione contributiva. – TFR e indennità fine mandato (TFM): a volte la società accantona un trattamento di fine mandato per l’amministratore. Questo deve essere deliberato in anticipo per essere deducibile (c’è una disciplina specifica: deducibilità in accantonamento solo se il TFM è previsto per iscritto con data certa anteriore all’inizio del rapporto, altrimenti deducibile solo per cassa all’atto dell’erogazione). Se il compenso base era nullo, a maggior ragione il TFM non è deducibile.

In conclusione sulla parte fiscale: il profilo tributario è forse il più insidioso per l’amministratore che ha percepito compensi non deliberati. Egli rischia: – la non deduzione del costo in capo alla società (con imposte e sanzioni a carico di questa, che però potrebbe rivalersi su di lui), – la possibilità che la somma venga considerata utile a lui distribuito, nel qual caso dovrà pagarci eventualmente imposte come dividendo (o vedersi imputato reddito extra come socio di società di persone), – di aver già pagato IRPEF su un reddito che ora deve restituire (vedremo subito come recuperare queste imposte), – problemi IVA se ha emesso fattura, – richieste contributive se competenti.

Vediamo ora un punto importante: cosa fare se l’amministratore decide (o è costretto) a restituire il compenso indebito dal punto di vista delle imposte personali.

Recupero delle imposte personali in caso di restituzione del compenso

Poniamo che, a seguito di contestazioni, l’amministratore debba restituire alla società (o al curatore) i compensi percepiti negli anni passati. Dal suo lato, quando li aveva incassati, li aveva dichiarati come reddito IRPEF (magari come lavoro autonomo o reddito assimilato) e aveva pagato tasse su di essi. Ora li restituisce: come evitare di perdere anche le imposte versate su somme di cui non ha più la disponibilità?

Il sistema fiscale prevede delle tutele in questi casi. In particolare, l’art. 10, comma 1, lett. d-bis del TUIR consente al percettore di dedurre dal proprio reddito le somme restituite all’erogatore e assoggettate a tassazione in anni precedenti. Alternativamente, è possibile presentare istanza di rimborso per le imposte pagate su redditi che poi, per accordo contrattuale o decisione giudiziale, sono venuti meno (si tratta di redditi che devono considerarsi come non percepiti ab origine). Nel nostro caso, se l’amministratore restituirà, ad esempio, €50.000 percepiti due anni fa e su cui pagò 20.000 di IRPEF, potrà: – dedurre i 50.000 dal suo reddito complessivo nell’anno in cui effettua la restituzione, oppure – chiedere a rimborso i 20.000 di imposta pagata in più (questa strada però è soggetta a limiti temporali e interpretazioni restrittive; spesso conviene la deduzione se c’è capienza di reddito).

La Cassazione (es. Cass. 13181/2023 in ambito compensi non deliberati) ha proprio fatto cenno alla possibilità per l’amministratore di recuperare le imposte pagate qualora restituisca il maltolto . Ciò evita la beffa della doppia imposizione non rettificata. In pratica, l’amministratore dovrà fornire al fisco la prova di aver effettivamente restituito quelle somme (es. con bonifico alla società o al curatore, documenti transazione) e indicare la causale.

Dal lato della società, quando riceve indietro la somma dall’amministratore, contabilmente potrà rilevarla come sopravvenienza attiva. Tuttavia, tale sopravvenienza non sarà imponibile se in precedenza il costo non fu dedotto (o fu recuperato a tassazione). Infatti, il sistema evita la tassazione di una sopravvenienza derivante da un componente negativo mai dedotto. Quindi la società non deve pagare di nuovo tasse su quanto rientra (altrimenti ci sarebbe tripla tassa!). Dovrà però gestire la correzione dei bilanci se necessari.

In sintesi, se vi è restituzione, è fondamentale che l’amministratore: – Aggiorni la propria posizione fiscale (deduzione/rimborso) per non lasciare al Fisco quanto pagato inutilmente. – Coordinarsi con la società affinché entrambe le parti trattino coerentemente l’evento (la società non si porti in deduzione l’importo restituito se non le spetta, e l’amministratore recuperi il dovuto).

Profili di responsabilità penale (bancarotta e reati tributari)

Finora abbiamo discusso le conseguenze civilistiche e fiscali. Purtroppo, in situazioni estreme, la vicenda dei compensi non deliberati può assumere anche una rilevanza penale. I contesti principali sono: – Reati fallimentari (bancarotta): se la società fallisce, i compensi indebitamente corrisposti agli amministratori possono costituire atti di distrazione di risorse a danno dei creditori, quindi integrare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (art. 216, co.1 n.1 legge fall.). Questo è forse il rischio più serio per l’amministratore inadempiente. – Reati tributari: ad esempio, l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti o dichiarazione fraudolenta mediante artifici, se i compensi sono stati occultati con false fatturazioni, può far scattare il reato di cui al D.Lgs. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta, emissione di fatture false, ecc.). Tuttavia, focalizziamoci sul caso tipico fallimentare.

Bancarotta fraudolenta per distrazione e preferenziale

Come accennato, la giurisprudenza ha chiarito che un amministratore che preleva dalle casse sociali somme a titolo di compenso non deliberato commette bancarotta fraudolenta per distrazione (qualora la società fallisca) . La logica è che quei soldi sono usciti senza una valida causa societaria, impoverendo il patrimonio a danno dei creditori.

Cass. pen. Sez. V n. 14010/2020 ha affermato che, poiché il rapporto organico non comporta di per sé un diritto al compenso, l’amministratore deve provare che le somme prelevate erano dovute per attività estranee al ruolo organico; in mancanza di tale prova, il fatto di averle prese costituisce distrazione . Nel caso esaminato, l’amministratore-socio aveva predisposto pro forma una delibera assembleare per giustificare il prelievo, ma si è rivelata fittizia: la Cassazione ha ritenuto comunque configurata la bancarotta fraudolenta patrimoniale, sottolineando che la delibera era stata fatta “al solo fine di giustificare l’indebito prelievo” .

Diversamente, ha aggiunto la Cassazione, si configura bancarotta preferenziale (art. 216, co.3 L.Fall.) se il pagamento all’amministratore avviene a estinzione di un debito reale e pregresso verso di lui . In tal caso, il fatto di aver soddisfatto lui (creditore) preferendolo agli altri è un illecito fallimentare diverso (meno infamante forse, ma pur sempre reato). Però per sostenere la tesi del pagamento preferenziale, è indispensabile che l’amministratore dimostri l’esistenza effettiva di quel debito (cioè che aveva diritto a un compenso, magari deliberato o contrattualmente pattuito). Se tale prova manca, ricade nella distrazione .

In pratica, dal punto di vista difensivo penale, un amministratore accusato di distrazione per aver percepito compensi non deliberati può tentare di sostenere: – Che in realtà quei soldi erano a fronte di un credito legittimo che lui vantava (ad esempio un compenso deliberato, o un rimborso anticipato). Ma se così fosse, non sarebbe “non deliberato”: qui spesso la realtà è che non c’era alcun titolo. – Oppure che integravano un compenso per altra attività con contratto distinto (ad esempio era anche direttore tecnico con contratto di lavoro vero). Se questa linea passa, potrebbe essere considerato pagamento preferenziale verso quel creditore particolare (lui medesimo), ma almeno eviterebbe la qualificazione più grave di distrazione dolosa.

Occorre sottolineare che la bancarotta fraudolenta patrimoniale è un reato gravissimo (punito con pene detentive fino a 10 anni). Dunque un amministratore che abbia attinto a piene mani alle casse sociali senza autorizzazione e porti la società al fallimento si espone fortemente a questo rischio. La migliore difesa è preventiva: non farlo; oppure, se già successo, restituire quanto più possibile prima del fallimento (anche se questo non sempre salva dal reato, potrebbe attenuare la pena come circostanza attenuante riparatoria).

La figura dell’amministratore di fatto qui è parimenti rilevante: Cass. pen. ha esteso a lui la punibilità. Un amministratore di fatto che abbia drenato risorse verrà considerato responsabile di bancarotta fraudolenta al pari dell’amministratore di diritto. Anzi, la giurisprudenza penale equipara le due figure in termini di responsabilità . E come visto, alcune pronunce suggeriscono che i compensi percepiti dall’amministratore di fatto sono sempre distrattivi, non potendo egli rivestire alcun diritto a compenso. In sentenze come Cass. 81/2021 (in Ratio Iuris) si ribadisce la nozione di amministratore di fatto e la sua coabitazione con quello di diritto , ai fini di far ricadere ogni gestione non ufficiale nell’ambito di possibili illeciti.

Reati tributari correlati: se per mascherare compensi non deliberati si sono adoperate fatture false (es. fatture per consulenze inesistenti, come nel caso dell’amministratore che fattura alla sua società per attività mai svolte), potrebbe configurarsi: – Il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000) a carico dell’amministratore che ha emesso la fattura fittizia. – Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture false (art. 2 D.Lgs. 74/2000) a carico della società/rappresentante legale che ha utilizzato quelle fatture in dichiarazione per dedurre costi o detrarre IVA.

Nel caso concreto, se l’amministratore e la società coincidono nella persona, si avrà concorso nei rispettivi reati. Le pene arrivano fino a 6-8 anni per questi illeciti tributari se l’importo è rilevante. Quindi i mezzi elusivi usati possono sfociare anche nel penale tributario.

Esempio finale per illustrare i vari scenari: – Scenario A (virtuoso): Tizio è amministratore di Alfa S.r.l., e sin dall’inizio il suo compenso annuo di €60.000 è stato deliberato dai soci. Alfa paga IRES su utili al netto di 60k, Tizio dichiara 60k come reddito da lavoro assimilato, Alfa versa le ritenute IRPEF, tutto regolare. Nessuna contestazione. – Scenario B (irregolare ma recuperabile): Caio, amministratore di Beta S.r.l., non aveva delibera ma ha preso €50.000. L’Agenzia scopre, nega deduzione, Beta paga più IRES e multa. Caio deve restituire i 50k a Beta. Beta li recupera e si rimette in sesto. Caio deduce nella sua dichiarazione i 50k restituiti (per compensare gli IRPEF pagati). Fine, nessuno fallisce. – Scenario C (fallimentare): Sempronio, amministratore di Gamma S.r.l., negli ultimi 2 anni prima del fallimento si è accreditato €200.000 senza delibere, azzerando gli utili. Gamma fallisce con debiti. Il curatore lo cita per restituire 200k; intanto parte l’azione penale per bancarotta. Sempronio cerca di difendersi dicendo che erano rimborsi di spese e anticipi, ma non ha prove. Viene condannato per bancarotta fraudolenta distrattiva. Perde anche la causa civile e deve restituire (magari non restituirà perché insolvente, aggravando il danno ai creditori). – Scenario D (elusivo): Mevio, socio unico e amministratore di Delta S.r.l., fattura dalla sua ditta individuale €100k/anno a Delta come “consulenza”, senza delibera di compenso. Delta deduce e non delibera nulla, Mevio dichiara quell’importo nella sua P.IVA e detrae costi. Arriva verifica: contestazione di compenso occulto. Delta perde deduzione e IVA, Mevio becca un processo per dichiarazione fraudolenta (fatture inesistenti) e deve magari patteggiare. Situazione pessima.

Come si vede, è essenziale prevenire tali rischi gestendo in modo regolare i compensi. Nel prossimo capitolo forniremo alcune strategie difensive e consigli pratici per chi dovesse trovarsi ad affrontare contestazioni relative a compensi non deliberati.

Strategie difensive e consigli pratici per il “debitore”

Dal punto di vista del debitore, ossia dell’amministratore (o ex amministratore) a cui vengono contestati compensi indebitamente percepiti, l’obiettivo è minimizzare le conseguenze economiche e legali. Di seguito una serie di strategie e accorgimenti:

1. Prevenzione documentale: la difesa migliore è prevenire la contestazione. Formalizzare sempre le decisioni sui compensi: – Redigere una delibera dei soci all’atto di nomina dell’organo amministrativo o comunque prima di erogare qualunque compenso . Indicare chiaramente l’importo annuale o i criteri (es. “€X annui, pagati mensilmente” oppure “X% dell’utile di esercizio”). Far firmare ai soci il verbale e conservarlo nel libro delle decisioni (S.r.l.) o verbali assemblee (S.p.A.). – In caso di socio unico, redigere e sottoscrivere una decisione del socio unico con data certa (meglio se autenticata o depositata) in cui si auto-determina il compenso . – Se il compenso cambia nel tempo, ripetere la delibera di modifica. Non limitarsi a dire “fino a revoca”, perché se dopo anni la situazione societaria muta, quell’importo potrebbe divenire incongruo. – Rispettare la delibera: se l’assemblea ha deliberato €50.000 annui, l’amministratore non deve prendersene 80.000. Le somme eccedenti sarebbero fuori regola e indifendibili . Analogamente, se viene deliberato un compenso ma poi l’amministratore decide di lasciarlo in azienda per patrimonializzare, serve formalizzare una rinuncia o una posticipazione (così si chiarisce che non è stato pagato per volontà sua e non scatterà l’onere di deduzione fino al pagamento effettivo). – Tenere traccia di eventuali consensi totalitari: se per esempio i soci in una S.r.l. approvano tutti insieme il bilancio e contestualmente dicono “va bene il compenso all’amministratore come da bozza di bilancio”, assicurarsi che venga verbalizzato chiaramente che in quella sede è stato deliberato il compenso. Meglio ancora predisporre un documento separato da far firmare a tutti i soci (anche via email certificata, con conferma da ciascuno, se non si riesce fisicamente).

In breve: documentazione e trasparenza sono la prima linea di difesa .

2. Regolarizzazione tardiva: se vi accorgete che in passato avete corrisposto compensi senza delibera, e la società non è (ancora) in crisi né sotto accertamento, potreste tentare una sanatoria interna: – Adottare ora per allora una delibera assembleare che approva i compensi degli esercizi precedenti. Tuttavia, questo ha efficacia limitata: civilisticamente può valere come ratifica (soprattutto se tutti i soci approvano, coprendo così vizi di forma passati). Fiscalmente però, l’Agenzia potrebbe non accettarla per anni ormai chiusi, perché richiederebbe di riaprire i bilanci o quantomeno sostenerlo in contenzioso. Diciamo che aiuta più sul piano societario interno (evitare l’azione di responsabilità dei soci) che su quello tributario se l’accertamento è già avviato. – Se i bilanci passati erano errati (riportavano costi non deliberati), valutare un loro riesame: ad esempio, il nuovo Cda può segnalare in nota integrativa successiva la questione e proporre all’assemblea di destinare quei fondi diversamente. Questo è complesso e rischia di auto-denunciare la problematica; va maneggiato con cura e con assistenza di un professionista contabile-legale.

3. Difesa in accertamento fiscale: se arriva una contestazione dell’Agenzia: – Cercare tra i documenti qualsiasi elemento che possa valere come delibera o accordo: verbali informali, scambio di email tra soci che concordavano il compenso, registrazioni di assemblee, approvazioni totalitarie. Qualunque cosa che possa essere mostrata per dire “ecco, i soci avevano deciso”. Magari l’Ufficio non l’aveva vista. Se si trova, presentarla subito (fase istruttoria, o al massimo in contenzioso in CT). – In mancanza di ciò, valutare il ravvedimento operoso: se l’accertamento non è ancora definitivo, una strada è riconoscere l’indeducibilità, chiudere la partita (magari con conciliazione) per limitare le sanzioni e interessi, ed evitare di andare in Cassazione dove si rischia solo aggravio di spese. – Evitare difese pretestuose (tipo: “ma l’approvazione del bilancio valeva come delibera implicita”) perché la giurisprudenza è contraria . Piuttosto puntare su circostanze specifiche: es. “compenso previsto dallo statuto implicitamente perché c’era clausola che amministratori avevano diritto a % utili” (se c’è davvero), oppure “assemblea totalitaria ha discusso ma non verbalizzato correttamente” (se tutti i soci testimoniano in tal senso). – Transigere se possibile: spesso, soprattutto se la contestazione include più anni e vari aspetti, conviene trovare un accordo con l’Agenzia (anche tramite adesione o mediazione) riconoscendo l’indeducibilità ma magari spuntando sanzioni ridotte o pagamento rateale.

4. Difesa in sede civile contro la società/curatore: se l’amministratore viene citato per la restituzione: – Valutare transazione: come detto, se il quadro è contro di lui (niente delibere), proporre una soluzione prima della sentenza può convenire. Ad esempio, restituire X subito invece di rischiare Y più spese legali, magari ottenendo liberatoria. – Se in buona fede e modesto: se le somme non deliberate erano piccole e magari c’era un tasso di tolleranza (es. rimborsi spese forfettari), può darsi che i soci o il curatore siano disposti a una soluzione bonaria, specie se i costi di azione supererebbero il recuperabile. – Opporre eventuali crediti: come già detto, se l’amministratore ha crediti verso la società (p.e. finanziamenti soci non rimborsati), farli valere in compensazione può ridurre l’esborso. Nel fallimento, il curatore dovrà riconoscere il credito compensabile solo se è ammesso allo stato passivo: dunque l’amministratore farebbe bene a insinuarsi per eventuali crediti. – Esigere prova: a volte nelle cause di questo tipo la società deve provare l’assenza di delibere (o meglio, l’amministratore potrebbe tacere e costringere l’altro a provare il fatto costitutivo). Tuttavia, essendo un fatto negativo (mancanza di delibera), basta che la società dica “non c’è delibera e l’amministratore non la esibisce” perché il giudice ne prenda atto. Insomma, non c’è molto scampo su questo. – Termini prescrizionali: come accennato, vedere se si può eccepire prescrizione (10 anni). Se i compensi sono molto risalenti, tentare questa via. In fallimento, però, i 10 anni spesso non sono trascorsi o comunque la decorrenza può essere spostata (p.es. 10 anni dal fallimento se i creditori solo allora hanno interesse e cognizione).

5. Difesa penale: qui è cruciale farsi assistere da un avvocato penalista. Alcuni spunti: – Rimodulare il fatto come bancarotta preferenziale invece che distrattiva, se ci sono spiragli (cioè provare che i pagamenti erano per debiti esistenti). La bancarotta preferenziale ha pene un po’ minori e soprattutto non implica dolo di appropriazione ma favoritismo tra creditori. – Dimostrare la continuità aziendale: se l’azienda non è fallita ancora, evitare il fallimento è la miglior difesa penale (no fallimento, no bancarotta). Quindi cercare soluzioni di ristrutturazione debiti, concordati, ecc., se la crisi è evidente, prima che il PM chieda fallimento. – Attenuanti e patteggiamento: in caso di processo, la restituzione delle somme ai creditori (o il serio tentativo di farlo) può essere un’attenuante. Collaborare, patteggiare riducendo i tempi, può contenere la pena. – Per i reati tributari, il ravvedimento operoso e il pagamento del debito tributario può evitare la punibilità (alcuni reati tributari si estinguono col pagamento integrale del dovuto). Dunque se la contestazione fiscale rilevante è in corso, pagando il dovuto (imposte, sanzioni) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, si ottiene la non punibilità per alcuni reati (ad es. dichiarazione fraudolenta – norma in evoluzione, da verificare caso per caso).

6. Coinvolgere i soci e terzi nelle decisioni: dal punto di vista umano, spesso l’amministratore “colpevole” è anche socio di maggioranza. Ma potrebbe esserci altri soci minoritari. Mantenere un dialogo con loro è importante: se i soci sono consapevoli e d’accordo (anche se la forma non è stata seguita), all’interno può esserci più comprensione e magari decidono di non agire contro di lui (ad esempio, un nuovo amministratore subentrato che era anche figlio del precedente può chiudere un occhio). Viceversa, se l’amministratore ha agito a scapito di soci di minoranza, questi saranno i primi a spingerlo in tribunale. Quindi una difesa è anche negoziare politicamente coi soci/minoranza: offrire altre compensazioni (rinuncia a quote di utili futuri, dimissioni, ecc.) in cambio di non promuovere cause.

7. Utilizzare istituti come la rinuncia al compenso o la sua postergazione: se un amministratore si accorge che il compenso deliberato era troppo alto e non sostenibile (magari peggiorano i conti), può volontariamente rinunciare per iscritto al compenso maturando. Questo toglie munizioni al fisco (che non troverà il costo nel bilancio, perché non si è iscritto come debito) e ai creditori (non uscirà cassa). La rinuncia dev’essere chiara e non simulata (per evitare che poi lo prenda di nascosto lo stesso). Attenzione: in S.r.l., la rinuncia a compensi già deliberati può essere vista come una sorta di apporto del socio (capitale aggiuntivo): la giurisprudenza societaria a volte considera il compenso non riscosso e lasciato in azienda come riserva, con possibili effetti sulla postergazione in caso di fallimento. Ma questo esula un po’ dal nostro tema, sebbene da considerare.

In definitiva, dal punto di vista pratico, la miglior difesa è regolarizzare e/o restituire spontaneamente prima di essere costretti: – Se sei un amministratore in carica e ti rendi conto di aver incassato senza delibera, porta la questione all’assemblea dei soci quanto prima per una soluzione condivisa (delibera ex post, oppure restituisci e fatti ridare in altra forma lecita, magari come dividendo straordinario – tassato ma almeno formalmente corretto). – Se sei un ex amministratore e arriva il curatore, considera seriamente un accordo transattivo: potresti evitare denunce penali se collabori nel recupero di attivo.

Nelle tabelle seguenti e nella sezione Domande&Risposte riepilogheremo molti di questi punti per maggiore chiarezza.

Domande frequenti (FAQ)

D. Senza delibera assembleare l’amministratore ha mai diritto a un compenso?
R. In linea generale no: l’amministratore di società di capitali non può vantare compensi se i soci non li hanno deliberati o se lo statuto non li prevede . L’incarico si presume gratuito fino a prova contraria (delibera). Una giurisprudenza minoritaria ha assimilato il rapporto al mandato oneroso (quindi diritto a equo compenso anche senza delibera) , ma la posizione prevalente è che senza una decisione valida dei soci il compenso non matura affatto . Nelle società di persone vale la presunzione ancora più forte che il socio amministratore lavori nell’ambito dei doveri sociali, salvo patto diverso .

D. L’approvazione del bilancio da parte dei soci sana la mancanza di delibera sul compenso?
R. No, a meno che durante l’assemblea di bilancio tutti i soci abbiano anche deciso esplicitamente il compenso. La semplice approvazione del bilancio che contiene una voce “compensi amministratore” non equivale a deliberare quei compensi . Cassazione e dottrina sono chiare: l’ordine del giorno “approvazione bilancio” non implica l’autorizzazione dei compensi, che è tema distinto . Solo se l’assemblea era totalitaria (tutti presenti di persona o rappresentati) e nel verbale risulta che contestualmente hanno approvato la remunerazione, allora vale. In pratica bisogna verbalizzare: “L’assemblea, in forma totalitaria, approva il bilancio e contestualmente, su proposta del presidente, delibera un compenso di €X all’amministratore”. Senza questa dicitura, il fisco e i giudici non considereranno adempiuto l’obbligo .

D. La società può dedurre fiscalmente il compenso pagato all’amministratore se manca la delibera?
R. No, non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi . Sarà ripreso a tassazione in caso di controllo . Questo orientamento, consolidato da Cassazione (SU 2008 in avanti), non ammette eccezioni salvo il caso della totalitaria come sopra. Quindi ogni anno di compensi non deliberati è un anno con rischio di rettifica fiscale (IRES o IRPEF se società di persone). La società perderà il beneficio fiscale e dovrà pagare imposte su quell’importo . Attenzione: ciò vale anche se l’amministratore ha pagato le sue tasse su quel reddito . Il fisco non compensa automaticamente le due cose, creando un effetto di doppia imposizione (si potrà rimediare solo con rimedi successivi, v. oltre).

D. Se l’amministratore ha comunque dichiarato e pagato l’IRPEF sul compenso ricevuto, la società può dedurlo?
R. Purtroppo no. La deducibilità dal reddito di impresa non dipende dal fatto che il reddito sia stato tassato in capo all’amministratore . Dipende unicamente dall’esistenza dei requisiti civilistici (delibera valida) . Quindi la società si troverebbe a pagare a sua volta le imposte, generando di fatto una doppia tassazione economica . Questo è stato criticato, ma la Cassazione ha risposto che è conseguenza voluta dal legislatore per evitare abusi . In alcuni casi l’Agenzia ha riqualificato i compensi indebitamente dedotti come utili, ma non c’è una procedura standard: generalmente si limita a negare il costo e tassarlo a livello societario. Starà poi all’amministratore eventualmente chiedere il rimborso o la deduzione delle imposte personali pagate (in caso di restituzione del compenso).

D. L’amministratore deve restituire i compensi non autorizzati anche se ha lavorato per la società e questa ha tratto vantaggio dal suo operato?
R. . Dal punto di vista legale, l’amministratore era tenuto a svolgere quel lavoro comunque (è il suo dovere gestorio). Se non c’era accordo sul compenso, egli doveva farlo a titolo gratuito. Dunque la società può legittimamente pretendere indietro le somme pagate in difetto di delibera . Il fatto che abbia lavorato non crea un diritto di ritenzione su quelle somme, perché ex ante l’incarico era (o si considerava) gratuito. In teoria estrema potrebbe tentare un’azione di arricchimento senza causa, ma andrebbe contro la regola imperativa e avrebbe probabilità minime. Diverso sarebbe se l’amministratore avesse svolto compiti extra-sociali su richiesta della società senza compenso: in quel caso potrebbe chiedere un compenso ad hoc, ma se coincidevano coi compiti gestori ordinari, nulla da fare.

D. E se tutti i soci erano d’accordo oralmente sul compenso all’amministratore? Posso oppormi alla restituzione dicendo che c’era un consenso di fatto?
R. È una difesa debole. La legge richiede una decisione formale dei soci, e la Cassazione non riconosce valore a un consenso meramente tacito o informale per bypassare la delibera . Magari potrebbe avere un peso equitativo tra soci (ad es. se i soci erano gli stessi amministratori e si erano “autoriconosciuti” compensi, poi non si fanno causa tra loro). Ma se c’è un curatore o nuovi soci, il fatto che prima fossero d’accordo non li vincola: possono comunque esigere la restituzione appellandosi alla nullità degli atti. In ambito tributario, qualche commissione locale ha dato ragione al contribuente basandosi sul consenso implicito, ma la Cassazione ha cassato queste decisioni quasi sempre . Dunque far leva sul “tutti sapevano e andava bene” raramente evita le conseguenze.

D. Un amministratore può essere contemporaneamente dipendente o consulente pagato dalla società?
R. In linea di massima no, a meno di casi particolarissimi. La Cassazione ha più volte detto che c’è incompatibilità assoluta tra carica di amministratore e lavoro subordinato nella stessa società, specialmente in strutture piccole . Ammette eccezioni per grandi società in cui, ad esempio, un amministratore con deleghe limitate svolga anche mansioni tecniche come dipendente, ma va provata rigorosamente la subordinazione gerarchica e la diversità di mansioni . Quindi, se un presidente di CdA di una S.r.l. si “assume” come direttore generale, normalmente quel contratto è simulato e i relativi costi non deducibili . Discorso simile per consulenze: un amministratore può avere un rapporto autonomo parallelo solo se l’attività è realmente estranea al suo ruolo organico e non c’è conflitto. La tendenza attuale è di diffidare molto di questi doppi rapporti e di considerarli strumenti elusivi . Quindi, meglio evitare di impostare un doppio ruolo; se proprio necessario (es. un amministratore è anche inventore e vuole un compenso per un brevetto), regolate tutto con massima trasparenza e separatezza e aspettatevi comunque un possibile scrutinio severo.

D. Se l’amministratore rinuncia al compenso deliberato, c’è qualche impatto giuridico o fiscale?
R. L’amministratore può rinunciare al compenso a cui avrebbe diritto. Deve farlo per iscritto, e la società ne prende atto. Civilisticamente, la rinuncia libera la società dall’obbligo di pagamento; fiscalmente però produce effetti peculiari: – Se rinuncia prima che il compenso maturi o venga stanziato, semplicemente la società non rileva il costo e non c’è tassazione per lui (nulla da dichiarare). – Se rinuncia dopo che il compenso è già maturato o stanziato in bilancio, e magari dopo che la società l’ha dedotto, si genera una sopravvenienza attiva in capo alla società (perché un debito si estingue senza esborso). Quella sopravvenienza è imponibile? In teoria sì, a meno rientri nelle esclusioni (ma qui dipende se la società aveva dedotto il costo; se non l’aveva dedotto, la sopravvenienza non sarà imponibile per simmetria). – A livello societario, alcuni sostengono che la rinuncia del compenso da parte del socio-amministratore sia assimilabile a un versamento a capitale (cioè lasci soldi in azienda). Questo rileva in caso di fallimento: potrebbe essere considerato un apporto postergato nei confronti dei creditori (materia complessa di diritto concorsuale). Tuttavia, nella prassi comune, se un amministratore socio rinuncia al compenso di un anno difficile per aiutare la società, difficilmente ciò gli si ritorce contro: anzi, non avendo riscosso nulla, i creditori non possono lamentare un esborso. – Importante: la rinuncia va effettiva. Non può rinunciare oggi e riprendersi il doppio domani senza delibera: quella sarebbe una simulazione che peggiora la posizione.

D. Quali sono i rischi penali concreti se ho preso compensi non deliberati?
R. I rischi penali emergono soprattutto se la società fallisce o entra in insolvenza, oppure se per dissimulare i compensi hai commesso reati fiscali (es. false fatture). In caso di fallimento, come detto, rischi l’incriminazione per bancarotta fraudolenta distrattiva: la pena può andare da 3 a 10 anni di reclusione, a seconda della gravità e dell’entità delle somme . Se però riesci a dimostrare che quei soldi erano “dovuti” come credito (ipotesi rara) magari la contestazione diviene bancarotta preferenziale (2-6 anni). Sul lato fiscale, se hai emesso fatture false o hai tenuto le scritture in modo da frodare il fisco, potresti incorrere in reati tributari (dichiarazione fraudolenta: pena base fino a 6 anni, aumentabile se frode rilevante). Va detto che se la condotta si limita a “aver preso soldi senza delibera”, e non c’erano artifici contabili (cioè è registrato come compenso, solo senza delibera), allora non c’è reato tributario, c’è solo l’illecito amministrativo (evasione imposte). Il penale entra se c’è falsità o occultamento doloso. In sintesi: il pericolo penale maggiore è con il fallimento.

D. In caso di fallimento, conviene collaborare con il curatore per evitare guai peggiori?
R. , decisamente. Se la società fallisce e sai di aver percepito somme in modo irregolare, il curatore lo scoprirà (ha accesso ai bilanci, ai conti, etc.). È spesso preferibile prendere l’iniziativa: informare il curatore che sei disponibile a trovare un accordo, magari restituendo qualcosa. O quantomeno non ostacolarlo nel recupero. Questo atteggiamento può essere segnalato all’autorità giudiziaria come segno di ravvedimento. Al contrario, se ti opponi strenuamente e magari ti fai “sparire” nullatenente, il curatore riferirà di ammanchi e scarsa collaborazione, incentivando il PM a procedere per bancarotta. Inoltre, collaborare aumenta le chance di negoziare un trattamento più mite (ad esempio evitare che il curatore sporga querela per altri eventuali reati minori). Quindi sì, in caso di procedura concorsuale, meglio cooperare.

D. Se l’Agenzia Entrate contesta compensi “mascherati” da consulenze, come posso difendermi?
R. La difesa deve puntare a dimostrare che non erano mascheramenti, ma vere operazioni. Devi provare: 1) che la prestazione fatturata è stata realmente svolta; 2) che era una prestazione ulteriore rispetto al ruolo di amministratore ; 3) che il prezzo è di mercato ; 4) che non c’era scopo evasivo. Ad esempio, se sei ingegnere e la società ti ha fatto progettare un impianto complesso al di fuori delle tue mansioni di amministratore, ecco i disegni, le relazioni, le ore lavorate, e magari un confronto di quanto sarebbe costato se affidato all’esterno – se mostri che anzi la società ha risparmiato facendolo fare a te, togli argomenti al fisco. Inoltre, cita quel precedente (Cass. 15822/2016) per dire che la legge non vieta in assoluto questi doppi ruoli . Tuttavia, sappi che se la causa sale ai gradi alti, le pronunce 2024 contrarie verranno sollevate dall’erario: potresti vincere in Commissione provinciale ma poi perdere in Cassazione. Quindi valuta se il gioco vale la candela: a volte conviene transigere limitando la deduzione a una parte del costo (ammettere, per es., che il 30% era attività generale, ma 70% era specifica). Tatticamente, insomma, dimostrare il più possibile la genuinità e magari accettare un compromesso.

D. I fringe benefit o i rimborsi spese all’amministratore devono essere deliberati?
R. Idealmente , o almeno disciplinati in modo chiaro. Se lo statuto o una delibera prevedono che, oltre al compenso X, l’amministratore ha diritto all’uso dell’auto aziendale e al rimborso integrale delle spese di viaggio, l’Agenzia non potrà dire nulla (a parte l’eventuale verifica di uso promiscuo per calcolo fringe benefit in busta paga, ma è dettaglio). Se invece l’amministratore usa beni sociali senza regole, tali utilizzi rischiano di essere visti come benefici occulti . Quindi, è buona prassi che i soci, quando fissano il compenso, dicano anche: “oltre al compenso monetario, si riconosce all’amministratore l’uso dell’auto targata XX per fini sia aziendali che privati” oppure “l’amministratore sarà rimborsato delle spese di vitto e alloggio sostenute per trasferte, entro un massimale annuale di Y euro” ecc. Così c’è traccia. In mancanza, almeno fatevi approvare un regolamento interno su rimborsi e benefit, firmato dai soci. Perché altrimenti, come indicato, il fisco tende a requalificarli come utili distribuiti if troppo generosi o ingiustificati .

D. Quali documenti conviene conservare per stare tranquilli su questo tema?
R. Ecco una checklist: – Libri sociali: verbali assemblee soci (o decisioni soci) in cui si nomina l’organo amministrativo e si stabilisce il compenso. Devono essere conservati senza lacune. Se l’assemblea è davanti al notaio (S.p.A.), il verbale notarile va nel libro. Se è S.r.l., basta il documento firmato dai soci con eventuali allegati. – Contratti o lettere d’incarico: se c’è un rapporto separato (es. lettera di incarico come consulente), conservarla con data certa e firme. – Documenti contabili: cedolini dei compensi, fatture emesse dall’amministratore, F24 delle ritenute, eventuali moduli INPS gestione separata, ecc., per dimostrare che se era dovuta imposta è stata versata. – Pezze giustificative: per rimborsi spese e benefit, tenere note spese, ricevute, registro auto, etc., così se qualcuno insinua che erano extra compensi, puoi dimostrare che erano spese aziendali reali. – Corrispondenza con il commercialista: a volte utile se emergono dubbi (es. se il vostro consulente vi scrive “Serve la delibera per il compenso, provvedete”, e voi avete tardato, quella lettera prova che eravate coscienti del dovere – non è una scusa, ma mostra buona fede). – In caso di retribuzioni variabili: calcoli del bonus legati a obiettivi e approvazione degli stessi da parte dei soci (così non appare arbitrario).

Con questa documentazione, se anche arriva un controllo, sarete in grado di rispondere prontamente, il che spesso evita il contenzioso o quantomeno mette il contribuente in posizione di forza nell’interlocuzione.

D. In conclusione, conviene deliberare sempre anche i minimi compensi?
R. Assolutamente sì. Anche se l’amministratore è socio unico e prende 500 euro al mese, formalizzate. Anche se è un family business e “tanto siamo d’accordo in famiglia”, scrivetelo nel verbale. Per importi minimi, il rischio fiscale magari è trascurabile, ma pensate a un domani: litigi familiari, procedure concorsuali impreviste… Meglio prevenire. Formalizzare non costa quasi nulla (salvo la noia burocratica) e mette la società al riparo da tante contestazioni .

Casi pratici e soluzioni (simulazioni)

Caso 1: Compensi non deliberati e fallimento della società
Scenario: Mario è stato amministratore unico della Alfa S.r.l. dal 2018 al 2023. Non c’erano deliberazioni formali sul suo compenso, ma ha prelevato regolarmente €4.000 al mese come stipendio, registrandoli come “costo amministratore” a bilancio. Nel 2024 Alfa S.r.l. fallisce, con un passivo rilevante. Il curatore scopre che Mario ha percepito in totale €240.000 senza delibera.
Problema: Il curatore vuole recuperare quei €240.000 nell’interesse dei creditori e valuta un’azione di responsabilità; intanto informa la Procura di possibili distrazioni. Mario rischia bancarotta fraudolenta.
Come difendersi: Dal lato civile, Mario può cercare di transare con il curatore: ad esempio, offrire la restituzione di parte delle somme (se ha ancora beni personali) per chiudere bonariamente. Se ciò non è possibile e il curatore agisce in giudizio, Mario ha poche difese tecniche (non c’è delibera, quindi dovrà restituire). Può solo verificare se qualcuna di quelle somme poteva essere giustificata: es. €20k erano in realtà rimborso di un finanziamento soci fatto anni prima – se dimostrabile, quell’importo potrebbe sottrarsi alla restituzione (perché non era compenso ma rimborso di debito). Dal lato penale, Mario attraverso il suo legale potrebbe sostenere che non c’era volontà distrattiva ma quei prelievi costituivano la sua remunerazione per il lavoro e che la società era a ristretta base (quindi non ha leso terzi finché era solvibile). Ma essendo l’assenza di causa lampante, punterà semmai a riqualificare come bancarotta preferenziale, dicendo: “Ero creditore di quei compensi perché di fatto lavoravo come amministratore, quindi ho solo soddisfatto un mio credito (ancorché non formalizzato)”. È un arringa che difficilmente evita la condanna, ma può magari portare a una pena minore (per preferenziale la giurisprudenza è talora più clemente). Mario farebbe bene a collaborare: consegnare i documenti, ammettere i fatti, e cercare il patteggiamento con riconoscimento di colpa, ottenendo magari qualche attenuante. Se possiede beni, la loro messa a disposizione per pagare i creditori può essere una circostanza attenuante nel penale (la cosiddetta attenuante del risarcimento del danno, art. 62 n.6 c.p.). In sintesi, per Mario lo scenario è grave; la difesa punterà a contenere i danni: accordo transattivo + patteggiamento penale per ridurre al minimo gli effetti (comunque dolorosi).

Caso 2: Contestazione fiscale in S.r.l. familiare
Scenario: Beta S.r.l. ha due soci coniugi, 90% lui (amministratore) e 10% lei. Negli anni 2021-2022 l’amministratore ha preso compensi per €80.000 annui, senza una delibera formalizzata (decisione verbale tra coniugi). I bilanci riportano “compenso amministratore 80k”. Nel 2023 l’Agenzia fa un controllo fiscale.
Problema: L’Agenzia contesta l’indeducibilità dei €160.000 totali (80k+80k) e notifica un accertamento: recupero IRES (~38k €), più interessi e sanzioni ~15k. Inoltre, nota che la società, a causa di quel costo, ha dichiarato redditi molto bassi, sospetta che i soci abbiano fruito di utili mascherati. Tuttavia, l’amministratore aveva regolarmente versato le ritenute e dichiarato il reddito in Unico, quindi non c’è evasione IRPEF.
Come difendersi: Beta S.r.l. può intraprendere un ricorso in Commissione Tributaria. Ma ha poche carte: di fatto la delibera manca. Può però sostenere che nell’assemblea di approvazione bilancio entrambi i soci (totalitari) erano presenti e hanno di fatto approvato il compenso. Se riescono a dimostrare questo (magari c’è un verbale di assemblea totalitaria che approva bilancio 2021 dove in nota consta la voce compenso, e firmandolo implicitamente accettavano anche quello), potrebbero provare a far valere la famosa eccezione della totalitaria deliberante . È rischioso: l’Agenzia replicherà che non fu deliberato espressamente. Forse la Commissione può essere sensibile alla sostanza (trattandosi di coniugi, interesse coincidente, nessun socio terzo leso). In parallelo, i contribuenti potrebbero cercare un accordo con l’ufficio: ad esempio, far notare che i €160k sono stati comunque tassati come reddito del marito, quindi proporre di chiudere con sanzione minima. Magari l’ufficio applica la legge rigidamente e rifiuta. A quel punto, se Beta va avanti fino in Cassazione, quasi certamente perderà (giurisprudenza troppo solida pro Fisco). Quindi la miglior scelta pratica è cercare di definire l’accertamento con adesione: Beta rinuncia a contestare la ripresa, e l’Agenzia riduce le sanzioni di 1/3 e consente pagamento rateale. Così Beta paga diciamo ~40k totali a rate e sistema. Il marito amministratore a quel punto ha pagato IRPEF sui 160k e Beta IRES sugli stessi, doppia imposizione: lui potrà nel 2023 dedurre (ex art. 10 TUIR) i 160k restituiti idealmente alla società? Ma attenzione: qui non c’è stata una restituzione reale. Beta ha pagato le imposte, non riavuto i soldi. Se vogliono evitare doppia imposizione, uno stratagemma è: l’amministratore rinuncia retroattivamente a quei compensi e li restituisce a Beta, e Beta gli restituisce l’IRPEF (difficile). Oppure Beta distribuisce un dividendo al marito a posteriori (ma sarebbe tassato di nuovo come dividendo). Situazione intricata. Purtroppo se il tempo è passato e la deduzione è negata, recuperare l’IRPEF del marito è complicato perché non c’è un evento di restituzione. Questo caso mostra proprio il problema della doppia tassazione. Spesso in questi casi l’amministratore rimane con il cerino in mano su una parte di tasse non recuperabili.
Morale: Beta S.r.l. e i coniugi probabilmente risolvono accettando la perdita economica e imparano a deliberare formalmente da lì in avanti.

Caso 3: Compenso in società di persone contestato da un socio
Scenario: Gamma S.n.c. ha due soci al 50%, Tizio e Caio. Tizio è amministratore e lavora ogni giorno nell’impresa; Caio è più defilato. Non hanno mai previsto compenso di amministrazione nell’atto costitutivo. Tuttavia Tizio, ritenendo di fare molto più lavoro, ha iniziato a prelevare €2.000 mensili in più rispetto a Caio, registrandoli come “compenso amministratore” in contabilità. Dopo 3 anni, Caio se ne accorge (vedendo i conti correnti aziendali) ed esplode la lite.
Problema: Caio accusa Tizio di essersi preso €72.000 (2k x 36 mesi) indebitamente, violando i patti. Vuole che quei soldi siano o restituiti alla società o comunque conteggiati come anticipo utili di Tizio a scapito suo.
Come difendersi (Tizio): Innanzitutto, Tizio dovrebbe riconoscere l’errore: in una snc serviva l’accordo con Caio. Se Caio è irremovibile, Tizio rischia una causa civile per rendiconto e restituzione. In quella sede la legge dà ragione a Caio: senza accordo, i prelievi di Tizio erano fuori dal mandatum societario. L’unica difesa di Tizio è negoziare: potrebbe proporre a Caio di modificare d’ora in poi i patti riconoscendo un compenso a Tizio, e come compensazione del passato, Caio prende una quota maggiore di utili futuri finché colma quei 72k, oppure Tizio gli cede una parte della sua quota sociale di pari valore. Insomma, trovare un aggiustamento. Se Caio è risentito, magari vuole proprio la via legale: allora Tizio può sostenere in giudizio che Caio era consapevole in quanto i bilanci annuali della snc mostravano quei prelievi e Caio li aveva tacitamente approvati (se Caio ha firmato il bilancio, o ha incassato utili calcolati dopo quei prelievi, c’è un argomento di acquiescenza). Questo potrebbe convincere un giudice che Caio ha tollerato e non può dopo anni chiedere indietro tutto. Però se Caio riesce a dimostrare che era all’oscuro o che protestò anche informalmente, la tolleranza non regge. In parallelo, sul piano fiscale: se Tizio ha chiamato quei 2k “compenso” e li ha dedotti come costo (riducendo l’utile sociale), l’Agenzia potrebbe vederci un problema in caso di controllo. Ma spesso nelle snc familiari l’Agenzia non entra in questo, a meno di esagerazioni. Qui 2k mese non è enorme, però se portava utile quasi a zero potrebbe fare un accertamento induttivo come nell’esempio Arrigoni 2020 . Comunque, la vicenda è più interna. La soluzione ideale è un accordo transattivo tra soci: ridiscutere i patti sociali con un professionista, magari prevedere ufficialmente un compenso da quel momento e sistemare il pregresso nella ripartizione dell’utile (ad esempio facendo risultare che Tizio ha preso più utili anticipati e quindi Caio ora ha diritto a prendersi i prossimi utili interamente fino a bilanciamento). Se Caio vuole uscire, Tizio può anche pensare di liquidarlo usando anche quei soldi già presi come acconto sul valore quota. In definitiva, la situazione mostra che nelle società di persone la fiducia è tutto: una volta incrinata, o sanano l’accordo o la società stessa rischia scioglimento per litigi.

Caso 4: Consulenze amministratore con partita IVA
Scenario: Delta S.r.l. è amministrata da un professionista, ing. Sempronio, che possiede il 60% delle quote. Sempronio ha anche uno studio tecnico individuale. Nel 2022 e 2023, invece di farsi deliberare un compenso, Sempronio ha fatto un contratto di consulenza tra la sua partita IVA e Delta per “servizi di ingegneria gestionale”, €50.000 annui + IVA, emettendo regolare fattura alla società. Delta ha dedotto €50k + detratto IVA, Sempronio ha dichiarato quei compensi come reddito professionale (soggetto a imposta sostitutiva al 15% essendo forfettario). Nel 2025 avviene un accertamento.
Problema: L’Agenzia, vedendo la compagine ristretta, qualifica quei contratti come strumentali ad aggirare la norma sui compensi. Contesta la deducibilità dei €100k totali (2022-23) e la detraibilità di IVA (~22k). Inoltre, considerando che Sempronio ha una tassazione forfettaria al 15%, ipotizza un intento di arbitraggio fiscale (la società deduce al 24%, lui paga 15%, c’è un risparmio).
Come difendersi: Sempronio/Delta possono provare a sostenere che i contratti riguardavano attività extra: ad esempio, Sempronio ha progettato un impianto fotovoltaico per Delta con quel contratto. Devono esibire documenti, progetto firmato, etc., per convincere che non era l’attività ordinaria di amministratore. Se riescono a convincere almeno in parte, potrebbero ottenere che una quota del costo sia riconosciuta. Ad esempio, se su 50k, 20k erano per un progetto effettivamente speciale, magari quell parte gliela passano. Sempronio può citare Cass. 2016 a supporto . Tuttavia, l’orientamento 2024 li sfavoreggia molto . Probabilmente in primo grado potrebbero spuntarla in parte se portano un perito di parte. Se l’Agenzia impugna, in secondo grado o Cassazione rischiano di perdere. Forse meglio cercare un patteggiamento: ad esempio, accettare di rinegoziare la tassazione: Delta rinuncia alla detrazione IVA (paga quell’IVA), e l’Agenzia lascia in pace la deduzione IRES perché comunque il reddito fu tassato in capo a Sempronio. Oppure potrebbero far emergere che in realtà c’è stato un risparmio netto (differenza 24 vs 15% = 9% su 50k x2 = 9k di minor tasse globali), e magari offrire di pagare quel differenziale. Questo è più da fase di adesione che da sentenza (il giudice non può fare compromessi fiscali, o è deducibile o no). In parallelo, occhio al rischio penale: l’Agenzia potrebbe segnalare l’uso di fatture “inesistenti” se proprio ritiene che le consulenze erano simulate. Se scatta querela, Sempronio rischia processo penale tributario. Per evitarlo, meglio definire bonariamente prima: se paga le imposte dovute prima del dibattimento, il reato tributario si estingue (beneficio per i reati dichiarativi). Dunque, se riceve PVC dall’AdE, può decidere di pagare il dovuto (IVA + IRES) e sanzioni amministrative, per tagliare la testa al toro penalmente. Certo, ci perde economicamente, ma forse meno che affrontare un lungo contenzioso incerto. Dopo questa lezione, Sempronio capirà che conveniva più semplicemente farsi deliberare il compenso e pagare l’IRPEF progressiva (nel regime forfettario aveva visto un vantaggio, ma il rischio elusivo era troppo alto).

Caso 5: Compenso deliberato ma abnorme (antieconomico)
Scenario: Epsilon S.r.l. (settore commercio) è posseduta da tre fratelli. Nel 2022 deliberano un compenso all’amministratore (uno dei fratelli) di €300.000, nonostante la società fatturi solo €1 milione con utile modesto. L’idea era di ridurre l’utile tassabile distribuendo più reddito a lui (tanto i fratelli poi se lo redistribuiscono informalmente). Nel 2023, Agenzia Entrate seleziona Epsilon per controllo, notando un Indice di valutazione del rischio anomalo (ROE bassissimo perché l’amministratore ha preso quasi tutto l’utile).
Problema: L’Agenzia non contesta la mancanza di delibera (c’era), ma la congruità: ritiene €300k sproporzionati. Fa un accertamento riducendo il costo deducibile a €100k e riprendendo a tassazione €200k come costo indeducibile per mancanza di inerenza quantitativa. Quindi maggior IRES su 200k (~48k €) + sanzioni.
Come difendersi: Epsilon in Commissione dovrà giustificare perché €300k fosse giustificato: ad esempio, se l’amministratore aveva 30 anni di esperienza internazionale e ha fatto crescere l’azienda, potrebbero portare benchmarking di stipendi di CEO simili (difficile, in PMI 300k è altissimo). Oppure dire che era comprensivo di TFM pluriennale, ecc. Non facile. Cassazione ha dato potere al fisco in questi casi . Però la difesa può sostenere che l’Ufficio non può sostituirsi all’imprenditore e che l’importo, pur alto, era frutto di libera decisione e i soci ne erano consapevoli. In primo e secondo grado, i giudici potrebbero stare col Fisco se appare come escamotage. Forse conviene anche qui transare: magari in adesione Epsilon propone di ridurre il compenso 2022 a 180k deducibile (quindi 120k indeducibili) e pagare su quelli. L’Agenzia, per chiudere, potrebbe accettare. Se invece vanno in causa e perdono, fratelli avranno speso soldi in legali e dovranno pagare sul 200k. Curiosamente, qui il fratello che ha preso 300k li avrà tassati IRPEF (aliquota 43% su parte): quindi avrà pagato su 300k, e l’azienda su 200k – super doppia tassazione. Teoricamente, se riducono il compenso a 180k deducibile, il fratello dovrebbe restituire 120k alla società come indebito arricchimento? Ma il compenso era deliberato, la società non può chiederlo indietro perché la delibera era valida. Dunque non c’è indebito: semplicemente, fiscalmente gliene riconoscono una parte. Ciò crea un aspetto: i 120k restanti restano dedotti dove? A dire il vero, l’azienda li ha dedotti nel bilancio civilistico, ma fiscalmente no. Li considera utile distribuito? In teoria, se l’Agenzia li vedesse come utile ai soci, li tasserebbe come dividendi (ma qui i soci sono gli stessi e già quell’importo è andato come reddito al fratello). Situazione di doppia imposizione allucinante, ma succede. Per mitigare, i fratelli potrebbero decidere di deliberare per il futuro compensi più bassi e distribuire semmai dividendi (così almeno i soci li tassano al 26%, più conveniente che farli tassare come reddito del fratello al 43% e poi ridare). Insomma, pianificazione fiscale: evitare di usare il compenso come surrogato del dividendo quando si supera la ragionevolezza, perché si rischia di finire peggio.

Conclusione: le vicende esaminate mostrano che trasparenza, rispetto delle regole societarie e misura sono le chiavi per evitare problemi. Dal lato dell’amministratore “debitore”, una volta commessa l’irregolarità, spesso si tratta di scegliere il male minore e di rimediare cooperando. Un imprenditore o professionista avveduto, soprattutto alla luce delle più recenti sentenze (2021-2025), eviterà di erogare compensi fuori dalle regole e, se vuole remunerare amministratori in forme flessibili, lo farà comunque con il consenso informato dei soci e dei consulenti fiscali.

La giurisprudenza italiana è ormai chiara: “i compensi agli amministratori devono essere sempre deliberati” e qualsiasi escamotage verrà disconosciuto . Perciò la migliore strategia è non mettersi in condizione di dover poi difendersi: deliberare correttamente, tenere documenti in ordine e agire con buona fede.

In tal modo, non solo si evitano contestazioni fiscali e legali, ma si tutela anche la fiducia dei soci e dei terzi nella gestione societaria, obiettivo ultimo di queste norme imperative sulla collegialità delle decisioni.

Fonti:

  • Codice Civile, artt. 2364, 2389, 2479 e correlati (obbligo di delibera compensi).
  • Cassazione Civile Sez. Unite 29.08.2008 n. 21933 (leading case su indeducibilità senza delibera) .
  • Cassazione Civile Sez. V 24.10.2019 n. 27335 (“senza delibera assembleare non spetta il compenso” principio affermato) .
  • Cassazione Civile Sez. V 02.09.2021 n. 32732 (compenso deve essere deciso dai soci, conferma orientamento) .
  • Cassazione Civile Sez. V 12.02.2020 n. 14010 (in sede penale-fallimentare, prelievo compensi senza delibera = bancarotta distrattiva) .
  • Cassazione Civile Sez. V 24.06.2025 n. 20613 (consolidamento: compensi non deliberati indeducibili, nulli, IVA indetraibile) .
  • Cassazione Civile Sez. V 25.03.2024 n. 8005 (ribadisce necessità di specifica decisione soci, bilancio non basta) .
  • Cassazione Civile Sez. V 09.08.2022 n. 24471 (norme su compensi imperative, separate da bilancio) .
  • Cassazione Civile Sez. V 15.05.2023 n. 13181 (compensi non deliberati indeducibili; spunto su recupero imposte se restituiti) .
  • Cassazione Civile Sez. V 03.10.2018 n. 24139 (amministratore ha diritto a compenso ex mandato, ma orientamento poi superato) .
  • Cassazione Civile Sez. V 20.11.2018 n. 32437 e n. 31607 (legittimità del sindacato di congruità sui compensi, conferme 2013 e 2016).
  • Cassazione Civile Sez. V 23.11.2021 n. 36362 (incompatibilità amministratore-dipendente salvo prova rigorosa) ; Cass. 08.01.2025 n. 629 sul punto amministratore di fatto e reati (tra le ultime).
  • Materiale dottrinale e di prassi: Circ. Ag. Entrate 42/2009; Ris. Ag. Entrate 113/E/2012 (sindacato anti-economicità) .
  • COMPENSO AGLI AMMINISTRATORI E SOCIETA’ DI PERSONE A volte le scelte di vantaggio immediato sono alla lunga penalizzanti.
  • SENTENZA N° 81 DEL 11/03/2021 – Ratio Iuris

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👉 Prima regola: dimostra la regolarità della deliberazione o, in alternativa, la validità del rapporto e l’effettività dell’attività svolta dall’amministratore.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Compensi erogati agli amministratori senza delibera assembleare;
  • Retribuzioni considerate indeducibili ai fini IRES e IRAP;
  • Somme qualificate come utili distribuiti ai soci e non come compensi;
  • Compensi non formalizzati né contrattualmente né nei verbali societari;
  • Anomalie tra importi erogati e quelli risultanti dalle dichiarazioni fiscali.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Indeducibilità dei compensi per la società;
  • Recupero a tassazione e maggiori imposte dovute;
  • Applicazione di sanzioni fiscali per dichiarazione infedele;
  • Possibile riqualificazione come distribuzione occulta di utili;
  • Responsabilità amministratori e soci per irregolarità gestionali.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Esisteva una delibera assembleare che autorizzava i compensi?
  • Sono state rispettate le regole statutarie o del codice civile?
  • L’amministratore ha realmente svolto attività gestionale a favore della società?
  • Le somme erogate sono state regolarmente tassate in capo al percettore?
  • L’accertamento si fonda su prove concrete o su presunzioni?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Verbali assembleari e statuto della società;
  • Contratti o lettere di incarico per l’amministratore;
  • Estratti conto, buste paga o quietanze dei compensi;
  • Dichiarazioni fiscali della società e dell’amministratore;
  • Prove dell’attività svolta (atti di gestione, corrispondenza, incarichi specifici).

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare che i compensi erano regolarmente deliberati o comunque legittimi;
  • Evidenziare la deducibilità in quanto costi inerenti all’attività sociale;
  • Contestare la riqualificazione come utili distribuiti ai soci;
  • Eccepire eventuali vizi procedurali nell’accertamento;
  • Richiedere annullamento in autotutela se la documentazione era già agli atti;
  • Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
  • Difesa penale mirata se contestata la falsa rappresentazione in bilancio.

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📂 Analizza la documentazione societaria e fiscale;
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✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e societario;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su compensi amministratori;
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Conclusione

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