Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per presunti costi pluriennali indeducibili? In questi casi, l’Ufficio ritiene che i costi sostenuti e capitalizzati in bilancio (ad esempio spese di ricerca, sviluppo, pubblicità, consulenze, oneri pluriennali) non siano deducibili ai fini fiscali perché privi di inerenza, non correttamente documentati o non ammortizzabili secondo la normativa vigente. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero delle imposte, sanzioni elevate e rettifica del bilancio. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con una difesa mirata è possibile dimostrare la deducibilità o ridurre sensibilmente l’impatto delle sanzioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i costi pluriennali
– Se i costi non sono supportati da documentazione idonea o da contratti validi
– Se mancano i requisiti di inerenza o utilità economica futura dell’investimento
– Se i costi non sono stati ammortizzati nei limiti e nei tempi previsti dal TUIR
– Se emergono incongruenze tra bilancio civilistico e dichiarazione dei redditi
– Se l’Ufficio presume che i costi siano stati contabilizzati solo per ridurre il carico fiscale
Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione dei costi ritenuti indeducibili
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Rettifica delle dichiarazioni fiscali e dei bilanci
– Possibile segnalazione per responsabilità degli amministratori in caso di false comunicazioni sociali
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare l’inerenza e la funzione economica dei costi pluriennali contestati
– Produrre contratti, fatture, relazioni tecniche e documentazione a supporto degli investimenti
– Contestare l’indeducibilità totale se i costi possono essere ammortizzati o dedotti in misura limitata
– Evidenziare eventuali errori di calcolo, carenze di motivazione o difetti di notifica nell’accertamento
– Richiedere la riqualificazione della contestazione per ridurre le sanzioni applicabili
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la natura dei costi pluriennali contestati e la loro rilevanza economica
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta applicazione delle norme fiscali e contabili
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi procedurali
– Difendere la società davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio aziendale e gli amministratori da conseguenze sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– Il riconoscimento della deducibilità (anche parziale) dei costi pluriennali sostenuti
– La riduzione o cancellazione delle sanzioni e degli interessi
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: i costi pluriennali sono tra le voci più frequentemente contestate dal Fisco, soprattutto in caso di spese difficilmente quantificabili come ricerca e pubblicità. È fondamentale predisporre una difesa solida e documentata per evitare conseguenze economiche e legali pesanti.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni su costi pluriennali indeducibili e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.
👉 Hai ricevuto una contestazione per costi pluriennali indeducibili? Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo la tua posizione, verificheremo la legittimità dell’accertamento e costruiremo la strategia difensiva più efficace per tutelare i tuoi interessi.
Introduzione
Un accertamento fiscale per indebita deduzione di costi si verifica quando l’Agenzia delle Entrate contesta a un contribuente (impresa, professionista o ente) di aver dedotto oneri non ammessi secondo le regole fiscali vigenti . In particolare, possono essere oggetto di rilievo spese che non esauriscono la loro utilità in un solo esercizio, i cosiddetti costi pluriennali, dedotti però in misura o con modalità non conformi alla normativa tributaria. L’Amministrazione finanziaria, in tali casi, rettifica il reddito imponibile ripristinando la quota di costo non ammessa e recupera le relative imposte evase, con applicazione di sanzioni e interessi .
Non tutte le contestazioni del Fisco, tuttavia, sono fondate o insuperabili: il contribuente ha il diritto di difendere la legittimità delle proprie deduzioni. Dal punto di vista del debitore d’imposta, è essenziale conoscere quando e perché scatta un accertamento su costi pluriennali, quali norme lo regolano, e come attivare gli strumenti difensivi per evitare o attenuare gli effetti dell’azione accertativa. Di seguito esaminiamo dapprima il quadro normativo di riferimento e le tipologie di costi pluriennali più comuni, quindi analizziamo le contestazioni tipiche dell’Agenzia delle Entrate e le possibili strategie di difesa (in sede amministrativa, contenziosa e penale).
Normativa di riferimento e definizioni
Prima di addentrarci nelle contestazioni, è utile richiamare le fonti normative italiane che disciplinano la deducibilità dei costi d’impresa e, nello specifico, il trattamento dei costi ad utilità pluriennale:
- Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR, D.P.R. 917/1986): contiene i criteri generali di deducibilità dei componenti negativi di reddito d’impresa e di lavoro autonomo. In particolare:
- Art. 109 TUIR: principio di competenza e inerenza (le spese sono deducibili se di competenza dell’esercizio e inerenti all’attività svolta) . Il comma 5 dell’art. 109 stabilisce che “le spese e gli altri componenti negativi… sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi” . Questa norma è alla base del concetto di inerenza del costo (vedi oltre).
- Art. 108 TUIR: disciplina espressamente gli oneri pluriennali, ossia le spese la cui utilità si protrae su più esercizi. Il comma 1 prevede che “le spese relative a più esercizi sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio” . Ciò significa che un costo pluriennale è deducibile anno per anno secondo la quota di competenza imputata a conto economico (ad esempio tramite ammortamento). Il comma 2 introduce una facoltà per le nuove imprese: le spese di start-up e similari possono essere dedotte a partire dall’esercizio in cui si conseguono i primi ricavi, anziché necessariamente nell’esercizio di sostenimento . Il comma 3 riguarda invece le spese di rappresentanza, con deducibilità limitata in base a percentuali sui ricavi (vedi oltre) .
- Art. 103 TUIR: riguarda le altre attività immateriali e i beni a fecondità ripetuta di natura incorporea, inclusi avviamento, brevetti, opere dell’ingegno, marchi, ecc. Stabilisce i coefficienti di ammortamento fiscale di questi beni: ad esempio, per l’avviamento (goodwill) acquisito a titolo oneroso prevede un ammortamento deducibile in misura non superiore al 5% annuo (quindi su almeno 20 anni) – soglia modificata in passato in 18 anni (ammortamento massimo ~5,5% annuo) e oggetto di recenti interventi normativi (es. riallineamenti, v. oltre).
- Codice Civile – art. 2426: detta i criteri di valutazione di bilancio per i costi pluriennali e le immobilizzazioni. In particolare:
- Il comma 1 n.5) dell’art. 2426 c.c. riguarda gli oneri pluriennali specifici (costi di impianto e ampliamento, di sviluppo, di pubblicità) disponendo che vadano ammortizzati entro un periodo non superiore a 5 anni, salvo diversa utilità più breve.
- Il comma 1 n.2) dell’art. 2426 c.c. disciplina invece le spese sostenute su beni di terzi (es. migliorie su beni in leasing o locazione), equiparandole a immobilizzazioni e prevedendo che siano ammortizzate in relazione alla residua possibilità di utilizzazione del bene stesso. In sostanza, per migliorie su beni altrui, il piano di ammortamento civilistico va commisurato al minore tra la vita utile del miglioramento e la durata residua del contratto (inclusi eventuali rinnovi) .
- Inoltre, sempre l’art. 2426 impone condizioni rigorose per iscrivere oneri pluriennali all’attivo: deve esserne dimostrata l’utilità futura, una correlazione oggettiva con benefici futuri attesi e la ragionevole certezza di recuperare il valore iscritto . Questi requisiti mirano a evitare che si capitalizzino costi arbitrariamente al solo scopo di migliorare artificialmente il risultato d’esercizio .
- Statuto del Contribuente (L. 212/2000): all’art. 7 garantisce il diritto del contribuente a un atto di accertamento motivato e comprensibile; l’art. 8, comma 5 – modificato dal D.Lgs. 219/2023 – limita l’obbligo di conservazione dei documenti fiscalmente rilevanti a 10 anni dal loro uso, e preclude al Fisco di fondare pretese su documenti ultradecennali . Come vedremo, tuttavia, tale principio è temperato dalla normativa speciale sulle scritture contabili (D.P.R. 600/1973).
- D.P.R. 600/1973 (Accertamento tributario): l’art. 22 comma 2 dispone che le scritture contabili obbligatorie vanno conservate fino a quando non siano definiti gli accertamenti dell’anno cui si riferiscono – anche oltre i termini ordinari civilistici . Questa è considerata norma speciale che, secondo la Cassazione, prevale sulle previsioni generali dello Statuto del Contribuente in tema di conservazione decennale . Ciò significa che se un costo pluriennale originato molti anni prima viene dedotto pro-quota in anni successivi, il contribuente è comunque tenuto a conservare i documenti originari finché non siano decaduti gli accertamenti di tutti gli anni interessati.
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari): rilevante per i profili penali. L’art. 4 definisce il reato di dichiarazione infedele, punendo chi, al fine di evadere, indica elementi passivi fittizi o ricavi inferiori al reale in dichiarazione, oltre una certa soglia (vedi § Profili penali). Gli artt. 2 e 3 puniscono le dichiarazioni fraudolente, rispettivamente mediante utilizzo di fatture false (art. 2) o altri artifici (art. 3), generalmente riferibili a operazioni inesistenti. L’art. 14, comma 4-bis, L. 537/1993 (come modificato) vieta inoltre la deducibilità dei costi da reato (es. costi correlati a fatti illeciti come tangenti, frodi, ecc.), tematica tangente al nostro focus.
Cosa sono i “costi pluriennali”?
Nel linguaggio contabile e fiscale, si definiscono costi ad utilità pluriennale (o oneri pluriennali) quei componenti negativi di reddito che non esauriscono la loro utilità in un solo periodo d’imposta, ma producono benefici economici per l’impresa su più esercizi . Si contrappongono quindi alle spese correnti (costi di esercizio) che attengono a beni/servizi consumati interamente nell’anno. Secondo i Principi Contabili Nazionali (OIC 24), gli oneri pluriennali si distinguono dalle vere e proprie immobilizzazioni immateriali (brevetti, software, avviamento, ecc.) per la natura meno tangibile del beneficio e la difficoltà di stimarne con precisione la durata .
Esempi tipici di costi pluriennali sono: i costi di impianto e di ampliamento (spese di costituzione di una società, costi per aumenti di capitale, per l’avvio di una nuova sede o linea di business), le spese per studi e ricerche (ricerca e sviluppo di nuovi prodotti o processi), le spese di pubblicità e le spese di rappresentanza sostenute per promuovere l’immagine aziendale . Queste voci, pur non materializzandosi in un bene immateriale definito (come un brevetto o un marchio), generano un’utilità di lungo periodo per l’impresa (ad es. know-how, notorietà, network commerciale, ecc.).
Oltre agli oneri pluriennali in senso stretto, rientrano nella categoria dei costi a efficacia pluriennale anche le spese sostenute per migliorie su beni di terzi (ad es. ristrutturazioni di locali in affitto, installazione di impianti su immobili in leasing) e talvolta le spese di manutenzione straordinaria su cespiti aziendali (se capitalizzate). In questi casi il costo è associato a un bene materiale, ma poiché il bene non è di proprietà (o la spesa incrementa il valore del bene), l’utilità economica si spalma su più anni di utilizzo.
Dal punto di vista civilistico (bilancio), i costi pluriennali possono essere capitalizzati nell’attivo di stato patrimoniale, purché rispettino le condizioni di utilità futura, oggettiva correlazione con benefici attesi e recuperabilità menzionate sopra . In pratica, l’organo amministrativo deve valutare che la spesa apporterà vantaggi economici anche negli esercizi successivi; diversamente, se tale prospettiva è incerta o insussistente, il costo va considerato di competenza dell’esercizio in cui è sostenuto e non può essere iscritto come risorsa futura. Ad esempio, se un progetto di ricerca non dà risultati utilizzabili, i relativi costi devono essere spesati integralmente nel momento in cui se ne riconosce l’insuccesso (vedi oltre).
Dal punto di vista fiscale, il TUIR distingue la deducibilità di queste spese in base alla tipologia di onere pluriennale, come vedremo in dettaglio nel paragrafo seguente. In generale, però, vige la regola di gradualità della deduzione: un costo pluriennale è deducibile pro quota negli esercizi in cui esplica la propria utilità, tipicamente seguendo l’ammortamento imputato a conto economico . Anticipare in un solo anno la deduzione di una spesa a utilità prolungata può quindi portare l’ufficio a considerare “indebita” la deduzione per la parte eccedente la quota di competenza.
Deducibilità fiscale dei costi pluriennali: regole generali
Vediamo ora le principali categorie di costi pluriennali e le relative regole di deducibilità fiscale, alla luce della normativa vigente e delle ultime novità fino al 2025. La tabella seguente riepiloga il trattamento contabile e fiscale delle tipologie più comuni:
Tipologia di costo pluriennale | Esempi | Trattamento civilistico | Deducibilità fiscale |
---|---|---|---|
Costi di impianto e ampliamento | Spese di costituzione società, spese notarili, costi per avviare nuove sedi o attività | Capitalizzabili nell’attivo immateriale se utili a più esercizi; ammortamento entro 5 anni (art. 2426 c.c.) salvo facoltà di differimento per start-up | Deducibili per quota annuale imputata a CE, secondo il piano di ammortamento civilistico . Le nuove imprese possono scegliere di iniziare la deduzione dal primo esercizio in utile invece che nell’anno di sostenimento (opzione art. 108 TUIR). |
Spese di ricerca e sviluppo | Costi per studi, ricerche di nuovi prodotti/processi, prototipi | Capitalizzabili se generano un risultato utilizzabile economicamente (brevetto, know-how, etc.). Ammortamento in max 5 anni (OIC 24). Se la ricerca non produce risultati utili, i costi residui vanno spesati interamente nell’anno in cui se ne riconosce l’inutilizzabilità . | Deducibili in base alle quote di ammortamento stanziate a CE (art. 108 TUIR). Se il progetto fallisce, la spesa residua diviene deducibile per intero nell’esercizio in cui viene constatato il mancato raggiungimento dell’obiettivo . Anche qui, nuove imprese possono differire l’inizio deduzione ai primi ricavi . |
Spese di rappresentanza | Omaggi, eventi promozionali, viaggi e intrattenimenti per clienti, pubbliche relazioni senza corrispettivo diretto | Di norma sono costi di periodo (non capitalizzabili, salvo che eccezionalmente si possa dimostrare utilità pluriennale di un evento straordinario). Comunque da iscrivere nel rispetto dei criteri di inerenza e congruità. | Deducibilità limitata: dal 2016 sono deducibili entro specifiche percentuali dei ricavi annuali (1,5% fino a 10 mln; 0,6% tra 10 e 50 mln; 0,4% oltre 50 mln) . Gli omaggi di valore unitario fino a €50 sono integralmente deducibili . Inoltre le spese devono essere inerenti e congrue (commisurate all’attività e alla dimensione dell’impresa, come da DM 13/12/2019). Le spese di rappresentanza eccedenti i limiti o prive dei requisiti non sono deducibili. |
Spese di pubblicità e propaganda | Costi per campagne pubblicitarie su media, sponsorizzazioni, materiale pubblicitario per promuovere prodotti/marchio (con un rapporto sinallagmatico con un fornitore) | Non capitalizzabili per definizione: trattandosi di costi mirati a generare benefici commerciali generici, vanno imputati integralmente a conto economico nell’esercizio di sostenimento . (L’eventuale utilità futura non è sufficientemente specifica per attivarle come asset). | Deducibili interamente nell’esercizio in cui sono state sostenute . Divieto di ammortamento fiscale: queste spese non possono essere spalmate su più anni a fini fiscali (se anche lo fossero state a bilancio, il Fisco richiederebbe la deduzione immediata nell’anno di competenza). Nota: Le sponsorizzazioni sportive fino a €200.000 annui, per legge, sono considerate spese di pubblicità e seguono il medesimo regime di piena deducibilità immediata . |
Migliorie su beni di terzi | Investimenti su beni non di proprietà: es. allestimento negozio in affitto, impianti su immobile in leasing, ristrutturazioni su locali in comodato | Capitalizzabili come immobilizzazioni (materiali o immateriali in base al tipo). Ammortamento civilistico: in base alla vita utile dell’investimento, con limite massimo la durata residua del titolo di utilizzo del bene (contratto di locazione/leasing) . Se il contratto cessa prima di completo ammortamento, il residuo valore può essere spesato nell’ultimo esercizio di utilizzo (perché l’utilità futura viene meno). | Deducibili per quote annuali secondo l’ammortamento civilistico applicato (art. 108 TUIR). La Cassazione ha chiarito che il criterio fiscale da applicare è quello dell’art. 2426 c.c., declinato secondo i principi contabili: la quota annuale dev’essere determinata in base all’utilità futura residua dell’investimento, avendo come tetto il termine del contratto . Caso pratico: se un impianto su bene in leasing viene ammortizzato su 5 anni ma il leasing scade in 3, fiscalmente rilevano solo le quote su 3 anni; le restanti quote non ancora dedotte possono essere dedotte anticipatamente nell’ultimo anno di possesso del bene, poiché l’utilità cessa. |
Avviamento (goodwill) | Importo pagato per l’avviamento nell’acquisizione di un’azienda o di un ramo d’azienda (cioè la differenza tra il prezzo pagato e il valore corrente di attività/passività acquisite) | Civilistico: se bilancio redatto secondo OIC, l’avviamento può essere ammortizzato in un periodo non superiore a 10 anni (salvo casi eccezionali con vita utile più lunga motivata in nota integrativa). Se redatto secondo IAS/IFRS, l’avviamento non viene ammortizzato (sottoposto solo a impairment test periodici): questo genera differenze tra bilancio e fisco. | Fiscalmente l’avviamento acquisito a titolo oneroso è deducibile per quote costanti su 18 anni (aliquota ~5,56% annuo) secondo l’interpretazione consolidata dell’art. 103 TUIR, oppure su 50 anni in caso di avviamenti che siano stati rivalutati/riallineati ai sensi dell’art. 110 DL 104/2020 senza versare l’imposta sostitutiva integrale. Infatti la L. 234/2021 (Bilancio 2022) ha esteso a 50 anni il periodo di ammortamento fiscale dei maggiori valori di avviamento emersi da rivalutazioni 2020 (a meno che l’azienda non abbia optato per il pagamento di un’imposta aggiuntiva per mantenere la deduzione in 18 anni). In generale, eventuali divergenze tra ammortamento civilistico (10 anni OIC o impairment IAS) e fiscale (18 o 50 anni) vanno gestite tramite apposite variazioni in dichiarazione e stanziamento di imposte differite. |
Altre attività immateriali (brevetti, marchi, concessioni, licenze) | Diritti di brevetto su invenzioni, know-how, marchi commerciali acquistati, diritti di concessione, licenze software, ecc. | Ammortizzabili in bilancio lungo la vita utile stimata del diritto/attività. Se la vita utile è definita contrattualmente (es. licenza 5 anni), l’ammortamento segue quella durata. Se la vita utile è indefinita (es. marchio rinnovabile), secondo OIC si stima comunque una durata finita ragionevole (max 20 anni salvo prova contraria); secondo IAS si considera indefinitamente e non si ammortizza ma si testa impairment. | Deducibilità fiscale generalmente allineata all’ammortamento civilistico: art. 103 TUIR consente la deduzione delle quote di ammortamento del costo dei diritti su opere dell’ingegno, concessioni, marchi e altri beni immateriali in base alla loro durata di utilizzo. È però previsto che tali quote siano deducibili in un periodo non inferiore a 2 anni (quindi se civilisticamente ammortizzo in 1 anno, fiscalmente devo comunque ripartire su almeno 2). Fanno eccezione i marchi e avviamenti rivalutati (vedi sopra: deducibili in 50 anni). |
Nota: La tabella sopra semplifica alcune casistiche complesse; in caso di bilanci IAS/IFRS, imprese di grandi dimensioni o regimi speciali, esistono regole ad hoc (derivazione rafforzata, ecc.) che possono influire sulle modalità di deduzione degli intangibles. In questa guida ci focalizzeremo però sul trattamento “standard” e sulle contestazioni frequenti in ambito di accertamento.
Quando (e perché) il Fisco contesta i costi pluriennali
L’Agenzia delle Entrate può effettuare un accertamento su costi dedotti indebitamente in diversi scenari. Nel contesto dei costi a utilità pluriennale, le contestazioni tipiche riguardano:
- Mancanza di inerenza: è il caso in cui il Fisco ritiene che il costo, pur effettivamente sostenuto, non sia inerente all’attività dell’impresa o professionalista. Ad esempio, spese che appaiono prive di legame con l’oggetto sociale (o eccessive rispetto ai ricavi) possono essere contestate come non deducibili perché non inerenti . L’antieconomicità, ossia una sproporzione tra costo e risultati, viene talora invocata dall’Ufficio come indizio di non inerenza. Ad esempio, se un’azienda in fase di avvio deduce ingenti costi pluriennali di ricerca ma non consegue ricavi per vari esercizi, l’Agenzia potrebbe sospettare che tali costi non siano funzionali all’impresa. Va detto però che la giurisprudenza è chiara nel ritenere che l’inerenza è un concetto qualitativo, non quantitativo: non serve un rapporto diretto costo-ricavo, basta che la spesa abbia una correlazione con l’attività d’impresa, anche solo in proiezione futura, e la scarsità di ricavi (o la perdita economica) non basta di per sé a negare la deduzione . In altre parole, anche i costi che si collocano in una prospettiva futura o potenziale dell’attività possono essere inerenti (es. investimenti preparatori, ricerche di mercato per espansione) , mentre non sono inerenti i costi estranei all’oggetto sociale o di natura personale. Su questo tema torneremo con maggior dettaglio nella parte difensiva, data la rilevanza centrale del principio di inerenza.
- Errata imputazione temporale (competenza): riguarda costi pluriennali che avrebbero dovuto essere ripartiti su più anni ma che il contribuente ha dedotto interamente in un solo esercizio. Questo è un caso classico di “indebita deduzione”: ad esempio, un contribuente sostiene €100.000 di spese di impianto nel 2023 e le porta interamente in deduzione nel reddito 2023, anziché ammortizzarle in 5 anni come da art. 108 TUIR. L’Ufficio contesterà la deducibilità delle quote eccedenti la prima (quindi 4/5 del costo, pari a €80.000, come costo pluriennale non ammortizzato correttamente ). In sostanza, viene ripristinato il reddito imponibile eliminando la parte di costo non di competenza di quell’anno. Analogamente, se un’impresa avrebbe potuto differire la deduzione (es. start-up che poteva attendere il primo utile) ma ha dedotto subito, di solito il Fisco non contesta perché la norma dà facoltà (non obbligo) di differimento; la contestazione nasce piuttosto quando la deduzione anticipata contrasta con un obbligo normativo (es. ammortamento minimo pluriennale previsto dal TUIR).
- Durata di ammortamento non conforme: qui il Fisco contesta la quota annua dedotta, ritenendo che il piano di ammortamento sia troppo rapido rispetto a quanto consentito. Ad esempio, un’impresa capitalizza costi di sviluppo e li ammortizza in 2 anni, deducendo il 50% l’anno: l’art. 108 TUIR (via art. 2426 c.c.) invece presuppone un minimo di 5 anni, salvo utilità più breve comprovata. L’AdE potrebbe disconoscere la parte di quota eccedente quella di un ammortamento in 5 anni. Un caso peculiare in quest’ambito è quello delle migliorie su beni di terzi: se l’ammortamento non tiene conto della durata del contratto di locazione/lease, le quote potrebbero essere ritenute non corrette. Su questo tema è intervenuta di recente la Cassazione (ord. 11192/2025), la quale ha censurato un approccio automatizzato e ha ribadito che occorre considerare sia la vita utile dell’investimento che la residua durata del contratto, prendendo il minore dei due periodi . Dunque, se un contribuente deduce quote su un periodo più breve di quello contrattuale senza giustificazione di utilità, l’Ufficio può riprendere a tassazione la differenza (salvo poi consentire la deduzione del residuo al termine, in teoria).
- Costi privi di adeguata documentazione: un altro motivo frequente di contestazione è la carenza di documenti giustificativi. Ogni costo d’impresa, per essere deducibile, deve infatti essere supportato da idonea documentazione (fatture, contratti, quietanze di pagamento, relazioni tecniche ecc.). Nel caso di costi pluriennali ciò può diventare critico perché la spesa originaria potrebbe risalire a molti anni prima. Ad esempio, immaginiamo un avviamento pagato nel 2010 e dedotto per quota fino al 2028: se nel 2025 l’AdE verifica la quota dedotta e chiede di vedere l’atto di cessione d’azienda del 2010, il contribuente deve essere in grado di esibirlo anche se sono passati 15 anni. Se non lo fa, l’Ufficio potrebbe contestare la mancanza di prova del costo sostenuto e quindi disconoscere la deduzione per mancanza di certezza/certezza del costo. Il contribuente potrebbe obiettare richiamando la modifica statutaria del 2023 (limite 10 anni conservazione), ma la Cassazione ha già chiarito (sent. SU n. 8500/2021 e conferme 2024) che per i componenti a deduzione pluriennale fa fede ogni singolo anno di utilizzo fiscale e il contribuente deve conservare le prove del costo anche oltre 10 anni, finché necessario a dimostrare il diritto . In altre parole, se vuoi dedurre una quota di costo nel 2025, devi poter provare il “fatto generatore” anche se avvenuto nel 2010. In un caso del 2024 su ammortamento avviamento, la Cassazione ha negato la deduzione proprio per mancanza di documentazione a supporto, affermando che chi intende avvalersi di un vantaggio fiscale deve provarne il fondamento anche oltre il decennio . Dunque, l’assenza di fatture, contratti o altri documenti essenziali apre la strada all’accertamento. È bene sottolineare che questa posizione giurisprudenziale ha suscitato critiche (per l’onere gravoso sul contribuente), ma al 2025 è la linea prevalente: il contribuente deve curare la conservazione pluriennale dei documenti giustificativi dei costi a deduzione differita, altrimenti rischia di vedersi disconoscere le quote in anni successivi.
- Operazioni inesistenti o soggetti “non operativi”: se i costi pluriennali derivano da transazioni fittizie o con controparti sospette, l’Ufficio può contestarne l’indeducibilità in toto. Ad esempio, se le fatture alla base dei costi capitalizzati risultano emesse da fornitori inesistenti (cartiere) o da società in paradisi fiscali senza sostanza (black list), allora non si discute di competenza o inerenza: il costo è considerato inesistente e come tale non deducibile. È una contestazione grave, che di solito prelude anche a sanzioni per frode fiscale (vedi oltre). In tali situazioni, costi per consulenze, servizi o beni mai resi – magari capitalizzati come oneri pluriennali – vengono recuperati a tassazione perché privi di reale esecuzione . La difesa dovrà dimostrare che l’operazione è effettiva, esibendo evidenze concrete (contratti, report, consegne, ecc.) e provando la tracciabilità dei pagamenti e delle prestazioni . Va ricordato che c’è una distinzione importante tra operazioni oggettivamente inesistenti (mai avvenute in concreto) e operazioni soggettivamente inesistenti (avvenute, ma con un fornitore diverso da quello fatturato, tipicamente un’interposta cartiera): nei primi casi la deduzione è sempre negata, nei secondi la Cassazione ha riconosciuto che, se il contribuente prova che l’operazione c’è stata davvero (beni/servizi ricevuti) anche se il fornitore era fittizio, il costo può essere dedotto perché comunque inerente e realmente sostenuto . Ovviamente l’onere della prova in questi frangenti è elevato (bisogna dimostrare chi ha eseguito in realtà la prestazione e che è stata pagata regolarmente). In sintesi: fatture false o costi fittizi sono contestati come indeducibili ab origine, e oltre alle imposte e sanzioni amministrative espongono a conseguenze penali (reati di dichiarazione fraudolenta) di cui diremo in seguito.
Oltre ai punti sopra, l’Agenzia può sollevare ulteriori questioni, ad esempio: contestare la qualifica di un costo (se spesa di pubblicità capitalizzata erroneamente come onere pluriennale, o viceversa), oppure sindacare la congruità di valutazioni che incidono sul costo dedotto (ad es. ritenere sovrastimato un avviamento pagato in un’operazione tra parti correlate, riducendo quindi le quote deducibili). Alcune di queste situazioni sfociano in ambito elusivo/abusivo (ad esempio, operazioni infragruppo volte solo a creare ammortamenti deducibili); la difesa in tal caso verterà anche sull’abuso del diritto, ma esula dal nostro focus entrare nel dettaglio dell’elusione, limitandoci ai casi di contestazione “tipica” sulla deduzione di costi pluriennali.
Riassumendo, i rilievi più frequenti sono: (1) deduzione anticipata di costi ad utilità futura (violazione del principio di competenza pluriennale), (2) contestazione di non inerenza o antieconomicità del costo, (3) assenza di prove documentali adeguate sul costo, e (4) casi di costi fittizi o provenienti da operazioni illecite. Nel prossimo paragrafo analizziamo come preparare la difesa in ciascuna di queste circostanze.
Strategie di difesa del contribuente
Di fronte a un accertamento che contesta costi pluriennali indeducibili, il contribuente (assistito dal suo consulente o legale) deve attivare una strategia difensiva su più fronti: tecnico-probatorio, giuridico e procedurale. In generale, come difendersi da un accertamento per costi indeducibili? Ecco alcuni princìpi guida e passi da compiere, desunti dall’esperienza e confermati dalle indicazioni degli esperti :
- Analizzare la motivazione dell’accertamento: il primo passo è leggere attentamente cosa contesta l’ufficio e su quali basi. L’atto deve indicare i motivi per cui i costi sono ritenuti indeducibili (es. “spesa non inerente in quanto non correlata all’attività”, oppure “costo a utilità pluriennale dedotto interamente in violazione dell’art. 108 TUIR”, o “fattura emessa da soggetto inesistente, costo fittizio”). Capire la tesi del Fisco consente di impostare la contro-argomentazione mirata.
- Raccogliere la documentazione a supporto: la difesa si fonda sui fatti documentali. Occorre quindi reperire e ordinare tutti i documenti che provano la realtà e la deducibilità del costo contestato: contratti, fatture, documenti di trasporto, relazioni sul progetto, evidenze dell’utilità pluriennale, planimetrie o foto di lavori effettuati su beni di terzi, ecc. Bisogna ricostruire la tracciabilità del costo: dalla delibera o decisione di effettuarlo, all’esecuzione, al pagamento (estratti conto bancari) . Se qualche documento manca (es. perché troppo datato), si può cercare documentazione alternativa o testimonianze scritte (dichiarazioni di terzi, per quanto la prova testimoniale sia formalmente inammissibile nel processo tributario, documenti come perizie o asseverazioni tecniche possono aiutare). Ad esempio, se si contesta un costo di ricerca, presentare il rapporto tecnico dei ricercatori, le evidenze degli esperimenti svolti e il risultato (anche se negativo) aiuta a dimostrare che la spesa era reale e inerente allo scopo aziendale.
- Dimostrare l’inerenza e la necessità economica del costo: come visto, l’inerzia è spesso terreno di scontro. La difesa dovrà spiegare perché quel costo è pertinente all’attività, anche se l’utilità è differita nel futuro o il risultato economico non è immediato. Si potrà fare leva sui principi affermati dalla Cassazione: l’inerenza è il nesso funzionale tra costo e impresa, anche solo potenziale, e non richiede un utile immediato . Ad esempio, nel caso di costi di impianto sostenuti in anni pre-reddituali (quando l’azienda era in perdita), evidenziare che si trattava di investimenti per avviare l’impresa e che dunque, pur non avendo prodotto ricavi nell’immediato, erano indispensabili per porre le basi dell’attività. Se l’Ufficio ha contestato antieconomicità (costo elevato rispetto ai ricavi), occorre giustificare la congruità della spesa nel contesto di un progetto di sviluppo: magari i ricavi arriveranno in seguito o il costo era una scommessa industriale. Importante: in base alla giurisprudenza, l’antieconomicità di per sé non può giustificare un recupero a tassazione, ma costituisce sintomo di non inerenza che legittima l’AdE a chiedere spiegazioni; una volta fornite spiegazioni plausibili dal contribuente, spetta semmai all’Ufficio dimostrare, anche indiziariamente, che il costo è estraneo all’attività . Quindi, la difesa deve fornire una “ragionevolezza economica” del costo, ribaltando la presunzione. Ad esempio: spesa di ricerca ingente e nessun brevetto registrato? Si potrà sostenere che la ricerca ha comunque generato know-how interno, magari riutilizzato in altri progetti, anche se non brevettato; oppure che la mancata produzione di ricavi è dovuta a cause di forza maggiore e non all’irrilevanza del progetto.
- Verificare la corretta imputazione a conto economico: se la contestazione è di tipo “temporale” (errata competenza pluriennale), occorre rivedere come il costo è stato contabilizzato. Se effettivamente c’è stato un errore contabile (ad esempio, il costo andava capitalizzato e ammortizzato ma è finito integralmente tra i costi), potrebbe essere opportuno riconoscere l’errore e proporre una correzione, quantomeno ai fini sanzionatori. In certi casi, la possibilità di rimediare in bilancio di esercizi successivi esiste (errori contabili rilevanti devono essere corretti retroattivamente): tuttavia in sede di accertamento fiscale ciò difficilmente evita il recupero. La difesa potrà però sostenere che si è trattato di un errore non doloso, ad esempio un’interpretazione sbagliata delle norme di competenza, chiedendo quindi l’applicazione della sanzione al minimo edittale o l’esclusione di penalità più gravi. Come evidenziato anche dalla Cassazione penale, errori di classificazione o di competenza su costi reali, se i criteri sono indicati in bilancio, non integrano dolo e restano violazioni solo amministrative. Dunque, enfatizzare la buona fede e la trasparenza (ad esempio: “nel bilancio e in nota integrativa era chiaramente indicato che il costo X è stato interamente spesato, ritenendo prudenzialmente che non avesse utilità futura”) può aiutare a ridimensionare la gravità della contestazione.
- Controbattere eventuali presunzioni del Fisco: spesso l’avviso di accertamento utilizza presunzioni per motivare l’indeducibilità (soprattutto su inerenza o operazioni inesistenti). Ad esempio: “si presume non inerente data la mancanza di ricavi correlati”, oppure “il costo si considera inesistente perché la società fornitrice ha omesso la dichiarazione dei redditi ed è irreperibile”. La difesa deve contestare specificamente queste presunzioni se non supportate da adeguati elementi. Per la non inerenza, come detto, la mancanza di ricavi non è prova sufficiente ; per l’operazione inesistente, la sola circostanza che il fornitore sia evasore o fittizio non basta a provare che il contribuente non abbia ricevuto nulla – servono indizi concreti di falsità (es. documentazione tecnica mancante, incongruenze materiali). In diritto tributario, le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti. Quindi il difensore evidenzierà eventuali falle nel ragionamento presuntivo dell’Ufficio. Ad esempio: se il Fisco assume che una consulenza non sia avvenuta perché “non risultano relazioni allegate”, ma in realtà il contribuente ha altre evidenze (mail, presentazioni, ecc.), si dovrà sottolineare che la presunzione non regge di fronte a tali riscontri.
- Richiedere il disconoscimento delle sanzioni per obiettiva incertezza o buona fede: qualora la disputa verta su interpretazioni di norme complesse (es. durata di ammortamento corretta) o su errori scusabili, il contribuente può chiedere all’ente impositore o al giudice tributario di non applicare sanzioni amministrative in virtù dell’obiettiva incertezza normativa (art. 6, co.2, D.Lgs. 472/1997) o comunque di riconoscere la buona fede e l’assenza di dolo nel comportamento. Per esempio, se fino a una certa data la giurisprudenza era oscillante sul termine di decadenza per accertare costi pluriennali, un contribuente che si era basato su un precedente favorevole (poi superato dalle SU 2021) potrebbe invocare l’incertezza interpretativa. Oppure, se il commercialista ha contabilizzato male un onere pluriennale senza intento evasivo, si può far presente che c’è assenza di volontà di evasione e chiedere quantomeno la non applicazione della parte penale o più afflittiva delle sanzioni. Attenzione: la non punibilità penale per assenza di dolo non implica automaticamente l’esenzione da sanzioni amministrative – queste di norma si applicano anche agli errori in buona fede, sia pure al minimo . Tuttavia, far emergere la propria buona condotta può essere utile anche in ottica di chiudere la vicenda con un accordo (l’ufficio è più propenso a transigere se ritiene il contribuente collaborativo e non fraudolento).
- Valutare gli strumenti deflattivi disponibili: parallelamente alla preparazione tecnica, occorre decidere come procedere in pratica. In genere, dopo aver ricevuto un avviso di accertamento, si hanno tre strade: accettare e pagare (magari con riduzione sanzioni se si aderisce nei 30 giorni, istituto dell’acquiescenza), cercare un accordo mediante accertamento con adesione, oppure presentare ricorso al giudice tributario. Nel caso di costi contestati, spesso c’è margine per discutere una soluzione intermedia con l’ufficio, specie se si tratta di questioni valutative (inerenza, stima di avviamento, competenza). Ad esempio, in sede di adesione si potrebbe ottenere uno sgravio parziale: riconoscimento di una parte del costo o riduzione delle sanzioni. Bisogna però soppesare la forza delle proprie prove: se si dispone di solide evidenze che il Fisco ha torto, conviene ricorrere e puntare all’annullamento; se invece l’errore è oggettivo (es. deduzione anticipata) ma di entità limitata, l’adesione può risolvere con penalità ridotte.
Vediamo adesso più in dettaglio alcune argomentazioni difensive chiave nei diversi scenari identificati:
Difendersi sulla competenza pluriennale
Se il nocciolo della contestazione è che il contribuente ha dedotto troppo e troppo presto un costo a utilità futura, la difesa potrà articolarsi così:
- Riconoscimento dell’errore contabile con postura collaborativa: qualora la violazione sia palese (es. il contribuente stesso ammette di aver dedotto in un colpo solo ciò che andava ammortizzato), conviene spesso non ostinarsi a negare l’evidenza, ma piuttosto cercare di limitare le sanzioni. In casi del genere, può essere efficace predisporre un’istanza di accertamento con adesione ammettendo l’errore e chiedendo un trattamento sanzionatorio mite. Nell’istanza (o nel contraddittorio) si evidenzierà che la deduzione anticipata non era finalizzata a occultare materia imponibile (magari l’azienda era comunque in perdita fiscale, o aveva crediti d’imposta, ecc., quindi il danno erariale è contenuto). Se si dimostra che non c’era intento fraudolento ma solo un misunderstanding fiscale, spesso l’Agenzia applica la sanzione al minimo (90%) o accetta il pagamento in acquiescenza con riduzione a 1/3 di detto minimo.
- Ricerca di appigli normativi favorevoli: talvolta la normativa prevede eccezioni o opzioni che il contribuente potrebbe utilizzare a suo favore. Ad esempio, ricordiamo la facoltà data alle start-up di differire i costi di impianto al primo utile : se l’impresa aveva dedotto subito creando una perdita, potrebbe sostenere che comunque il TUIR non le impediva di farlo (in realtà la norma dice che possono attendere, non che possono anticipare, dunque è scivoloso, ma in letteratura c’è chi ha ritenuto che per nuovi imprenditori la deduzione immediata non sia illecita). Un altro esempio: se la contestazione riguarda quote di ammortamento di marchi/avviamenti riallineati, bisogna verificare se il contribuente ha per caso aderito alla sanatoria del 2022 pagando l’imposta aggiuntiva, il che gli consentirebbe comunque 18 anni invece di 50 – evitando così l’indeducibilità. Insomma, occorre esplorare se qualche norma transitoria o interpretativa applicabile al caso consente di sostenere la correttezza (o scusabilità) della deduzione operata.
- Argomento del “doppio binario” civilistico-fiscale: non di rado, l’errore nasce da un disallineamento tra bilancio e fisco. Ad esempio, alcune società IAS adopter non ammortizzano l’avviamento in bilancio (perché IFRS vieta) ma lo deducono comunque per cassa fiscale in dichiarazione (a rate costanti). Se l’Agenzia contesta che la quota non è a CE, ci si difenderà appellandosi al principio di derivazione rafforzata con le dovute eccezioni. In generale, si può sostenere che anche se il bilancio non ha imputato a CE una quota (o al contrario l’ha imputata tutta), il TUIR prevede comunque la ripartizione: si tratta quindi di un “errore” contabile ma non di un costo fittizio. Spiegare tecnicamente la genesi dell’errore può convincere che la sanzione minima è appropriata.
- Deducibilità nell’anno successivo (in subordine): se il contribuente ha dedotto troppo presto una quota, c’è il rovescio della medaglia che in futuro avrebbe avuto meno da dedurre. In altre parole, l’errore incide solo sul timing ma non sull’an dell’onere. Alcune Commissioni tributarie in passato hanno talvolta riconosciuto che l’eccedenza, pur negata nell’anno contestato, potesse essere dedotta nell’anno di effettiva competenza (o di ultimo utilizzo utile). Per esempio, in un caso di ammortamento più breve del dovuto, il contribuente potrebbe chiedere al giudice, in via subordinata, di consentire la deduzione nel primo anno ancora aperto in cui la quota sarebbe spettata. Questo approccio non sempre è accolto (perché i periodi d’imposta sono autonomi), ma val la pena di proporlo, magari a fini conciliativi.
Difendersi sulla inerenza e antieconomicità
La contestazione di non inerenza richiede una difesa che combini fattualità e diritto:
- Prova concreta dell’utilità per l’impresa: qui bisogna essere molto concreti. Se il Fisco dice “non inerente”, occorre mostrare cosa l’azienda ha ottenuto o sperato di ottenere spendendo quei soldi. Ad esempio, se sono spese di rappresentanza elevate: produrre foto e report degli eventi sponsorizzati, l’elenco dei clienti invitati, eventuali contatti o contratti generati da quelle iniziative, per dimostrare che erano funzionali a promuovere l’azienda. Se sono spese di ricerca apparentemente vane: spiegare tecnicamente cosa si cercava di sviluppare, perché aveva potenziale per l’attività e magari perché non è andata a buon fine (ciò può capitare senza connotare non inerenza). Se sono migliorie su beni di terzi: evidenziare come tali migliorie erano necessarie per svolgere l’attività in quei locali (es: impianto antincendio richiesto per legge, quindi certamente inerente all’uso del capannone produttivo) . Più la difesa riesce a far percepire che quel costo aveva una logica imprenditoriale, più indebolisce l’accusa di mancanza di inerenza.
- Richiamo ai principi giurisprudenziali favorevoli: come già anticipato, la Cassazione negli ultimi anni ha emesso pronunce molto nette a favore del contribuente sul concetto di inerenza. Vale la pena citarle nei motivi di ricorso o nelle memorie difensive. Ad esempio, l’ordinanza n. 6426 dell’11/03/2025 ha ribadito testualmente che l’inerenza non implica un nesso utilitaristico costo-ricavo, bensì una correlazione con l’attività anche solo potenzialmente idonea a produrre reddito, e che la sproporzione quantitativa può al più costituire un indizio, da valutare caso per caso . Ancora, Cass. n. 23278/2018 afferma che l’inerenza ha “valenza qualitativa, intesa come nesso di strumentalità, anche solo potenziale, tra il bene e l’attività” . Questi estratti, opportunamente citati, servono a dare fondamento giuridico alla tesi difensiva che il costo è inerente se riferibile all’esercizio dell’impresa, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni di redditività. In pratica, se l’impresa ha effettivamente perseguito un’attività rientrante nell’oggetto sociale tramite quella spesa, l’inerenza è soddisfatta. La difesa deve collocare il costo “dentro” la sfera dell’attività aziendale: spesso è utile fare riferimento all’oggetto sociale indicato nello statuto, o al business plan aziendale.
- Gestire la questione antieconomicità: se l’atto parla di “antieconomicità” (spesa troppo elevata rispetto al beneficio), il difensore deve ricordare che, in ambito imposte sui redditi, il Fisco non può sindacare la misura dell’utilità salvo casi macroscopici che celano intenti diversi (ad es. stipendio spropositato a un familiare può nascondere distribuzione utili). Fuori da tali ipotesi di abuso, la scelta imprenditoriale di spendere molto per un risultato incerto rientra nella libertà d’impresa. Quindi si può far leva sul concetto che anche spese che poi si rivelano eccessive o non fruttuose restano deducibili se fatte nell’interesse dell’impresa: l’errore imprenditoriale non è reato né vizio fiscale. La Cassazione ha riconosciuto che l’antieconomicità è solo un sintomo: se il contribuente fornisce una spiegazione plausibile del perché la spesa appare sproporzionata, l’Ufficio deve, per contestarla, provare che quella spiegazione non regge e che in realtà la spesa nasconde finalità estranee . Ad esempio, l’azienda potrebbe sostenere: “È vero che quella campagna pubblicitaria è costata moltissimo e non ha generato vendite immediate, ma serviva a posizionare il brand a lungo termine; l’investimento non ha dato i frutti sperati, ma ciò attiene al rischio di impresa, non a una mancanza di inerenza”. Se questa posizione è coerente e documentata, l’antieconomicità in sé non può portare all’indeducibilità.
- Onere della prova invertito nelle frodi: attenzione, quando si parla di inerenza in contesti di possibile frode (costi fittizi), la giurisprudenza stabilisce un andamento dell’onere probatorio “a fasi”: inizialmente è l’AdE che deve fornire elementi seri che facciano dubitare dell’esistenza o inerenza del costo; una volta forniti (es. fornitore inesistente, spesa enorme senza giustificazione commerciale), scatta sul contribuente l’onere di provare che invece il costo è reale e inerente . La difesa deve quindi essere pronta sia a contestare che l’Ufficio non ha provato abbastanza (se effettivamente ha solo illazioni deboli), sia, in subordine, a vincere la presunzione portando prove contrarie. Ad esempio, Cass. ord. n. 8716/2025 ha ribadito che spetta all’Amministrazione provare l’inesistenza oggettiva di operazioni e solo dopo, al contribuente, eventualmente dimostrare l’effettività delle stesse . Nel nostro contesto, se l’AE dice “questo costo di ricerca non ha prodotto nulla, quindi era fittizio”, prima dovrà magari evidenziare anomalie (nessun report, società appaltatrice inesistente…). In assenza di ciò, l’accertamento può essere contestato per difetto di motivazione o prova.
Difendersi sulla certezza e documentazione del costo
Quando il problema è la mancanza di documenti (fatture smarrite, contratti non esibiti, ecc.), la difesa deve puntare su:
- Ricostruzioni alternative: se proprio la fattura originale non c’è, si può cercare un duplicato (tramite il fornitore, se esiste ancora) oppure ricostruire il costo attraverso altri elementi: registrazioni contabili, libro cespiti, evidenze di pagamento bancario, verbali di CDA che approvano la spesa, note interne. Ad esempio, per un avviamento pagato tanti anni fa senza più tracce, si può produrre l’atto notarile di cessione dell’azienda (che contiene il prezzo di avviamento) e la perizia di stima fatta all’epoca. Sono documenti equipollenti alla fattura e dovrebbero bastare. Se la documentazione è sparita per cause non imputabili (incendi, alluvioni), esistono anche istituti come l’estratto di copia conforme, o in casi estremi la ricostruzione ai sensi dell’art. 25 del DPR 600/73 (ricostruzione contabilità distrutta). L’importante è non presentarsi “a mani vuote”: qualche documento surrogatorio aiuta a convincere che il costo è certo e determinato.
- Istanze di autotutela sul punto specifico: se l’accertamento è basato solo sulla mancata esibizione di un documento, e successivamente il contribuente riesce a recuperarlo o ricostruirlo, è opportuno presentare immediatamente un’istanza di autotutela all’ufficio allegando la documentazione ritrovata e chiedendo l’annullamento (totale o parziale) dell’atto per insussistenza del fatto contestato. Ad esempio: l’Agenzia recupera ammortamento R&S per €10k perché non ha visto il contratto di ricerca; il contribuente lo rintraccia presso l’università partner e lo invia in autotutela, dimostrando la realtà della ricerca. In molti casi, di fronte a prove documentali nuove e decisive, l’ufficio procede in autotutela a sgravare (anche perché sa che in giudizio quelle prove lo vedrebbero soccombere). Conviene farlo tempestivamente, idealmente prima di avviare il contenzioso, così da risolvere senza dover attendere il giudice.
- Sottolineare l’aspetto formale vs sostanziale: il difensore può argomentare che l’assenza materiale di un documento non implica l’inesistenza del costo. Ad esempio, la mancanza di una fattura di 12 anni fa non cancella il fatto che la spesa fu sostenuta, specie se è regolarmente contabilizzata nei registri dell’epoca e magari ci sono le quietanze di pagamento. In diritto tributario vige anche il principio di sostanza sulla forma: se la realtà economica è dimostrabile, non può un vizio formale (lo smarrimento di un pezzo di carta) prevalere. Si possono citare sentenze che enfatizzano la prevalenza della sostanza, oppure l’art. 7 dello Statuto che dice che al contribuente non possono essere richiesti atti già in possesso del Fisco (es. se si tratta di una fattura elettronica, l’AdE ce l’ha nel SdI). In sostanza, trasformare l’“accusa” di non aver conservato un documento nell’idea che comunque il fatto è certo e documentato aliunde, e che punire con la non deduzione sarebbe eccesso di formalismo (in casi del genere magari il giudice potrebbe confermare il merito della pretesa ma togliere la sanzione per tenuità o incertezza).
- Limite decennale e buona fede: come visto, la Cassazione non ha dato immediata applicazione pro-contribuente alla modifica sul termine decennale di conservazione. Tuttavia, è un argomento che si può comunque tentare di spendere in giudizio: la modifica dell’art. 8 Statuto, essendo entrata in vigore a fine 2023, avrebbe natura interpretativa (così sostiene la stessa Cassazione) . Se interpretativa, allora significa che già da prima il legislatore considerava irragionevole pretendere la conservazione oltre 10 anni. Un giudice particolarmente sensibile ai principi potrebbe accogliere la tesi che, se il contribuente ha seguito la norma (cedendo documenti ultradecennali) non può essere punito. È una linea non facile, ma vale la pena prospettarla in via subordinata, quantomeno per escludere le sanzioni: consevare 15 anni documenti era una pretesa non chiaramente codificata prima, dunque quantomeno la sanzione per omessa esibizione di documenti potrebbe essere esclusa per buona fede.
Difendersi su operazioni inesistenti o fraudolente
Questo caso esula un po’ dall’ambito “pluriennale” (perché se un costo è fittizio, dedotto come pluriennale o meno, il trattamento è lo stesso: indeducibilità assoluta), ma data la sua gravità merita cenni difensivi speciali:
- Provare l’effettiva esecuzione dell’operazione: se il Fisco bolla come falso un costo pluriennale (es. un onere capitalizzato derivante da fatture per consulenze che secondo AdE sono mai avvenute), l’unica vera difesa è portare quante più prove che invece la prestazione c’è stata. Nella pratica: testimonianze (affidavit) di chi ha svolto il lavoro, consegna dei rapporti o dei deliverables prodotti, email scambiate con il fornitore durante il progetto, foto di incontri, qualsiasi elemento che dissolva il dubbio che sia tutto fittizio . Spesso, in queste situazioni, il fornitore è “sparito” (società cartiera), quindi il contribuente deve fare da sé per dimostrare di aver ricevuto il servizio magari da altre persone. Se ci sono terzi indipendenti coinvolti (es. subfornitori, dipendenti che hanno collaborato), raccogliere dichiarazioni anche giurate da loro può aiutare. In casi estremi, si può chiedere al giudice tributario una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU): ad esempio, se si discute se un certo software è stato davvero sviluppato e valeva quel costo, un perito informatico potrebbe analizzarlo. Non è comune nel tributario, ma è ammesso.
- Dimensione penale separata ma collegata: se l’accertamento ravvisa una frode, quasi certamente è partita (o partirà) una segnalazione penale. La difesa tributaria e quella penale devono procedere coordinate. Una strategia può essere quella di transigere sul piano tributario (pagando il dovuto) per ottenere benefici in sede penale. Ad esempio, l’art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede che se prima della dichiarazione infedele/fraudolenta si rimedia con ravvedimento operoso pagando tutto, il reato è non punibile . Dopo l’avvio dei controlli, invece, il pagamento integrale delle imposte evase può ridurre le pene (ed è comunque un attenuante importante). Quindi, se le prove del Fisco sulla frode sono schiaccianti, il contribuente potrà scegliere di patteggiare in penale e definire il tributario con adesione, piuttosto che fare una battaglia persa. Al contrario, se si hanno buone prove dell’effettività, conviene farle valere subito in sede tributaria: un esito positivo nel giudizio tributario (riconoscimento del costo) sarà un ottimo elemento difensivo nel parallelo procedimento penale, potendo dimostrare che giudizialmente è stato accertato che il costo non era fittizio.
- Non confondere inerenza con esistenza: ricordiamo che se un costo è vero ma non inerente (es. spesa personale), non è reato di frode; se un costo è fittizio (inesistente), è potenzialmente reato anche se magari sarebbe inerente come natura. Spesso in accertamento queste nozioni si mescolano: ad esempio, AdE può contestare un maxi compenso a un consulente off-shore dicendo sia non inerente (perché non ha prodotto benefici) sia fittizio (perché società di comodo). La difesa deve chiarire l’ambito: se il servizio c’è stato, allora la questione è semmai di inerenza/congruità, ma non è un costo inesistente. Questo perimetra anche il rischio penale. Pertanto, argomentare in via principale che “il costo è reale (non fittizio) e inerente, al più potrà dirsi eccessivo ma ciò non nega la deduzione” è utile per evitare che passi la tesi più grave della totale inesistenza.
Strumenti deflattivi e contenzioso tributario
Parallelamente alle argomentazioni di merito, il contribuente deve gestire i mezzi procedurali per ottenere l’annullamento o la riduzione dell’accertamento. Riassumiamo i principali strumenti a disposizione e come sfruttarli:
- Istanza di autotutela: può essere presentata in qualsiasi momento, già durante la verifica o dopo il ricevimento dell’avviso, per chiedere all’Ufficio di correggere o annullare l’atto in autotutela se risultano evidenti errori (di fatto o di diritto). L’autotutela è discrezionale per l’amministrazione, ma conviene proporla quando si scopre un elemento chiave a proprio favore. Ad esempio, se emergono nuove sentenze della Cassazione post-accertamento che danno ragione al contribuente su un punto di diritto (magari proprio in tema di inerenza o termini), lo si segnala in autotutela. Oppure, come detto, se si ritrovano documenti prima non esibiti. L’istanza va indirizzata all’ente che ha emesso l’atto (Direzione Provinciale dell’AdE) e idealmente anche all’Ufficio legale locale. Non sospende però i termini di ricorso né la riscossione, quindi va usata con cautela: mai fare affidamento solo sull’autotutela trascurando di fare ricorso nei termini!
- Accertamento con adesione: è un procedimento di definizione bonaria col Fisco. Dopo la notifica dell’avviso, il contribuente ha 60 giorni per fare ricorso, ma può entro lo stesso termine presentare istanza di adesione (o attendere se già l’AdE invia invito). L’adesione sospende i termini di ricorso per 90 giorni e consente incontri con i funzionari per trovare un accordo. Nel nostro contesto, l’adesione è utile quando la pretesa fiscale è parzialmente fondata e si punta a ridurla. Ad esempio, costi dedotti al 100% invece che al 20%: l’ufficio sa di avere ragione sull’80% di troppo, ma magari sulle sanzioni o su una quota minore c’è margine di trattativa. Si potrebbe concordare di abbattere qualche voce (il contribuente porta prove su una parte di costi che erano inerenti) e accettare il resto, con sanzioni ridotte di 1/3 (per legge, con adesione le sanzioni amministrative si applicano al 1/3 del minimo). Se la controparte è disponibile, si può ottenere rateazione fino a 8 anni del dovuto e chiudere la vicenda senza contenzioso. Da notare: l’adesione è preclusa se nel frattempo è stato aperto un procedimento penale per gli stessi fatti? In generale no, si può aderire comunque dal lato tributario, ma l’AdE potrebbe essere più rigida in presenza di profili penali. Tuttavia, anche in ottica penale, aderire e pagare può essere vantaggioso (mostra ravvedimento operoso, riducendo il rischio di condanna).
- Ricorso al giudice tributario: se non si raggiunge un accordo, occorre presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (nuova denominazione delle ex Commissioni Tributarie Provinciali). Il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla notifica dell’accertamento (o entro 150 giorni se si è presentata istanza di adesione, includendo i 90 gg di sospensione). Nel ricorso si devono indicare i motivi per cui l’atto è illegittimo o infondato, allegando le prove documentali. Nel nostro esempio, i motivi potrebbero essere: “Violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 109 TUIR – errata qualificazione di costi inerenti come non inerenti”, oppure “Travisamento dei fatti – il costo è stato effettivamente sostenuto e documentato, contrariamente a quanto ritenuto dall’Ufficio”, ecc. Conviene strutturare i motivi separatamente per ogni profilo (inerenza, competenza, prova, ecc.), così che il giudice possa accoglierne anche solo alcuni. Contestualmente al ricorso, se l’importo richiesto è elevato e potrebbe causare danni, si può chiedere la sospensione dell’esecuzione (art. 47 D.Lgs. 546/92): occorre dimostrare un fumus boni iuris (motivi fondati) e un periculum (grave danno dalla riscossione immediata) – ad esempio l’azienda rischia crisi di liquidità. La CGT può sospendere la riscossione fino alla sentenza di primo grado . Questa è un’ancora di salvezza per evitare di pagare subito il 1/3 provvisorio. Durante il processo, si potranno depositare memorie difensive aggiuntive (entro 30 giorni prima dell’udienza) per replicare alle difese dell’AdE o segnalare nuove sentenze sopravvenute.
- Appello e Cassazione: se la sentenza di primo grado non è favorevole, c’è possibilità di appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (entro 60 giorni). In appello si possono integrare motivi se emergono nuovi elementi (ad es. una sentenza delle Sezioni Unite risolutiva). Infine, la sentenza di secondo grado può essere impugnata in Cassazione per motivi di legittimità (violazione di legge o vizi di motivazione). Le cause tributarie su costi pluriennali spesso arrivano fino in Cassazione, dato che coinvolgono interpretazioni normative generali (come il famoso caso dei termini di decadenza risolto dalle SU 8500/2021 ). È utile quindi, sin dal ricorso introduttivo, porre in evidenza le questioni di diritto controverse, perché saranno quelle su cui eventualmente la Cassazione si pronuncerà.
- Definizioni agevolate (“sanatorie”): tenere d’occhio eventuali norme di condono o definizione agevolata. Negli ultimi anni ci sono state, ad esempio, la definizione liti pendenti (che consentiva di chiudere le cause fiscali versando una percentuale del valore se sotto certi importi). Se la controversia rientra in qualche previsione di condono (ad esempio nel 2023 la “definizione agevolata degli atti del 36-bis” o simili, che però qui non c’entra molto), valutare costi/benefici. A volte, per importi modesti, conviene pagare il 90% del solo tributo e chiudere, specie se la causa è incerta. Ad agosto 2025 non risultano sanatorie aperte specifiche su accertamenti di tal genere, ma il legislatore introduce spesso novità: essere aggiornati può far risparmiare molto.
In generale, la difesa del contribuente in questi casi deve bilanciare: da un lato, far valere con determinazione le proprie ragioni nel merito (sfruttando ogni supporto normativo e probatorio); dall’altro, usare con accortezza gli strumenti procedurali per mitigare rischi e sanzioni (adesione se opportuno, sospensiva per non subire danni immediati, ecc.). Il punto di vista del debitore impone di considerare anche gli aspetti economici pratici: a volte è preferibile ottenere uno sconto e chiudere, piuttosto che avere ragione dopo anni di lite ma aver speso di più tra interessi e oneri vari. Ogni caso va valutato ad personam.
Profili penali-tributari (dichiarazione infedele e frode)
Un accertamento che recupera a tassazione costi indebitamente dedotti può avere conseguenze anche sul piano penale tributario, qualora l’importo dell’evasione superi determinate soglie e vi sia il dolo di evadere. Occorre dunque comprendere in quali casi la condotta del contribuente integrerà un reato, e quali difese specifiche adottare.
Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): si tratta del reato che può configurarsi quando un contribuente indica in dichiarazione elementi passivi fittizi (costi inesistenti) o elementi attivi inferiori al dovuto, con l’intento di evadere. Non tutte le dichiarazioni infedeli costituiscono reato: la legge pone due soglie affinché scatti il penale : (a) l’imposta evasa deve superare €100.000 (per ogni singola imposta, es. IRES o IRPEF); e (b) la discrepanza deve essere rilevante in termini di base imponibile, ossia gli elementi attivi sottratti (ricavi non dichiarati) superano il 10% del totale attivo dichiarato o comunque €2.000.000 (oppure, in alternativa, i costi fittizi superano tali soglie, dato che costi fittizi sono equiparati a ricavi sottratti) . Solo se entrambe le condizioni sono soddisfatte scatta il reato di dichiarazione infedele; altrimenti rimane illecito solo amministrativo .
Per i nostri fini, è importante distinguere: dedurre un costo reale ma non spettante (ad es. per inerenza o competenza) non equivale a indicare un “elemento passivo inesistente”. Un costo è “inesistente” penalmente se è fittizio, ossia mai sostenuto in realtà. Se invece è stato effettivamente sostenuto ma non era deducibile, si tratta di una violazione sostanziale tributaria ma non di per sé di un costo fittizio. La Cassazione penale ha chiarito che l’errata classificazione o valutazione di elementi attivi/passivi reali, così come le violazioni di competenza temporale o di inerenza su costi effettivamente esistenti, non integrano il dolo penalmente rilevante . In altre parole, se un costo esiste (documentato) ma viene dedotto in modo non corretto, la violazione resta solo amministrativa, salvo casi eccezionali di enorme impatto che integrino comunque il superamento soglie con dolo specifico (eventualità rara, perché se il costo è reale non c’è finzione materiale).
Esempio: un’impresa deduce in un solo anno €5 milioni di costi di sviluppo che andavano ammortizzati. I verificatori recuperano €4 milioni come indebiti. Se ciò comporta €1 milione di IRES evasa, a rigore la soglia penale sarebbe superata, ma manca l’elemento soggettivo (dolo specifico) se il contribuente può argomentare che riteneva deducibile così o che è stato un errore contabile. Inoltre il costo non è “fittizio”, era effettivo. Dunque, difficilmente si contesterebbe art.4 in un caso del genere, a meno che non emergano evidenze di un intento fraudolento di gonfiare volutamente le perdite in quell’anno (ma allora si sconfinerebbe forse nel concetto di frode).
Dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000): riguarda condotte più gravi, caratterizzate da frode documentale. L’art. 2 punisce chi, al fine di evadere, si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. È il classico caso delle fatture false: se un costo pluriennale contestato risulta basato su fatture di comodo (società “cartiera”), allora non parliamo solo di infedele ma di fraudolenta mediante fatture. Questo reato ha soglie di punibilità molto più basse (in realtà, dopo la riforma 2015, miura anch’esso l’imposta evasa > €100k, ma in pratica chi usa false fatture supera quasi sempre quell’importo con facilità) e pene più alte (reclusione, attualmente, da 4 anni e 6 mesi fino a 8 anni). Se invece non ci sono fatture false ma si sono messi in atto altri artifizi per simulare passività (registri doppi, finti contratti, ecc.), potrebbe configurarsi l’art. 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici). Queste ipotesi, comunque, esulano dal caso “errore su costi pluriennali” e attengono proprio alla creazione di costi inesistenti. Il confine tra infedele e fraudolenta spesso è dato dalla presenza di un documento falso: senza quel documento (es. fattura) è infedele, con un documento volutamente fabbricato è fraudolenta . E come detto, se c’è una fattura falsa, scatta il penale indipendentemente dalla soglia (basta superare €100k imposta evasa per colpire, soglia che di solito è implicita nell’uso stesso di false fatture se ingenti).
Quando il contribuente rischia concretamente sanzioni penali? In sintesi: – Se i costi contestati sono reali (documentati), anche se dichiarati indebitamente, non c’è reato di per sé. Potrebbe aversi reato solo se l’evasione generata supera le soglie e si prova un dolo specifico di evasione. Ma la legge stessa esclude che valutazioni di bilancio errate o violazioni di inerenza su elementi reali integrino la fattispecie penale . Inoltre esiste nel 2025 la clausola di non punibilità per differenze valutative <10% , pensata proprio per evitare che errori di stima modesti portino al penale. Quindi, per esempio, dedurre in 4 anni anziché 5 un costo, generando uno scostamento di competenza del 20%, è una violazione fiscale ma non un reato. – Se i costi contestati sono inesistenti (fittizi), allora sì scatta il penale se superate le soglie: elementi passivi inesistenti rientrano nella definizione di dichiarazione infedele penalmente rilevante . E con false fatture scatta la fattispecie più grave (fraudolenta). In questi casi, oltre al pagamento delle imposte, ci si trova di fronte a un procedimento penale con possibile rinvio a giudizio.
Difesa penale-tributaria: dal lato pratico, se il contribuente è sotto la soglia penale, deve comunque pagare sanzione amministrativa (che è pecuniaria 90-180% dell’imposta evasa) ma eviterà guai maggiori; se è sopra soglia e c’è il dolo, la sua priorità sarà magari ridurre l’imposta evasa sotto soglia (ottenendo in sede tributaria il riconoscimento di parte dei costi) oppure dimostrare l’assenza di dolo (es. errore del commercialista senza consapevolezza). In proposito, non vale come esimente dire “ha fatto tutto il commercialista” – la giurisprudenza penale ritiene comunque il contribuente responsabile, salvo casi di forza maggiore . Può però escludere il dolo provare che c’è stata totale buona fede e affidamento qualificato nel professionista, ma è difficile. Più efficace è dimostrare che la situazione era oggettivamente incerta sul piano fiscale, quindi manca la volontà fraudolenta (mancando la “decisione consapevole e mirata a ridurre indebitamente il debito fiscale”, come dice Cassazione ).
Una carta fondamentale è l’art. 13 D.Lgs. 74/2000: come accennato, prevede cause di non punibilità se il contribuente pone rimedio versando il dovuto. In particolare, nel caso di dichiarazione infedele (art.4), la causa di non punibilità opera se prima che l’autore abbia formale conoscenza di accessi o indagini, paga integralmente le imposte evase, gli interessi e le sanzioni amministrative (ravvedimento operoso) . Se ciò avviene, il fatto non è punibile penalmente. Se si paga dopo l’avvio dei controlli ma prima del dibattimento, non c’è esonero ma è comunque una circostanza attenuante molto rilevante (riduzione fino a 1/2 della pena e niente pene accessorie, secondo comma dell’art.13). Quindi, il contribuente che si trovi ad aver dedotto costi fittizi e venga scoperto, farebbe bene – su consiglio del difensore penale – a regolarizzare e versare il dovuto il prima possibile, così da tentare di evitare il processo penale o attenuarne gli esiti . Va però coordinato con la difesa tributaria: se c’è spazio per ridurre la pretesa in sede tributaria (ad es. provando che una parte dei costi in realtà esistevano), può convenire fare il ricorso e poi eventualmente pagare il definito.
In conclusione, dal punto di vista del debitore la chiave è: capire se l’accertamento può degenerare in penale e in quali termini. Se riguarda solo costi reali e questioni interpretative, concentrarsi sulle ragioni tributarie e stare tranquilli penalmente (salvo importi eccezionali); se emergono profili di frode, attivare subito un avvocato penalista e predisporre una strategia unificata (magari transando col Fisco e mostrando pentimento per chiudere anche il penale, oppure combattendo su entrambi i fronti con prove di effettività).
Vale la pena ricordare che il reato scatta al momento della presentazione della dichiarazione mendace (reato istantaneo), ma la denuncia spesso parte dall’ufficio accertatore quando quantifica l’evasione . Dal momento in cui l’AdE segnala, le sorti fiscali e penali sono formalmente autonome: il giudice penale, ad esempio, non è vincolato all’esito del giudizio tributario. Tuttavia, una assoluzione in sede tributaria (es. costo ritenuto deducibile) rende di fatto insostenibile l’accusa di infedele (manca l’evasione). D’altra parte, un patteggiamento penale non vincola il Fisco a riconoscere il costo (si può patteggiare per chiudere la vicenda penale ma continuare a sostenere in Commissione che il costo era deducibile). Queste situazioni richiedono finezza tattica e molta comunicazione tra difensori nei due ambiti.
Esempi pratici e casi risolti
Di seguito proponiamo alcune situazioni pratiche simulate, per illustrare come potrebbero svolgersi le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate su costi pluriennali e le relative difese, con possibili esiti.
Esempio 1: Deduzione anticipata di costi di avviamento – Alfa S.r.l. acquista, nel 2020, un ramo d’azienda pagando €500.000 di avviamento. Civilisticamente lo iscrive e (in accordo con la prassi OIC all’epoca) lo ammortizza in 10 anni. Fiscalmente, però, per errore deduce l’intero importo nel 2020 come se fosse un costo qualsiasi (forse confondendolo con costi di impianto). L’azienda chiude il 2020 in perdita fiscale di €400.000 grazie a questa maxi-deduzione. Nel 2024 arriva un accertamento: l’AdE recupera €450.000 di costi (ritenendo deducibile solo la quota 2020 di €50.000 su 10 anni), rideterminando un imponibile tassabile. Alfa S.r.l. si vede chiedere circa €120.000 di IRES + interessi + sanzioni 90%. Difesa: Alfa ammette subito l’errore contabile (era palese) e presenta istanza di adesione. In sede di adesione fa presente che: (a) nessun vantaggio indebito definitivo è stato ottenuto, poiché la perdita 2020 non è stata nemmeno utilizzata (e comunque le quote di ammortamento saranno ora perse in futuro: l’ufficio recupera oggi ma dovrà riconoscere le quote negli anni successivi aperti). L’ufficio infatti, prudente, offre di scontare almeno le quote future ancora deducibili sugli anni non prescritti. Si calcola che nel 2021 e 2022 Alfa non aveva usato quelle quote (essendo in utile modesto). L’adesione si chiude quindi riconoscendo ad Alfa la deduzione delle quote spettanti 2020-2022 (che riducono l’imponibile accertato) e Alfa versa imposte solo sulla differenza (quote 2023-2029 che avrebbe dedotto e che ora non potrà più dedurre). La sanzione viene applicata sul 20% del recupero iniziale (perché l’80% era in realtà solo un disallineamento temporale), al minimo e poi ridotta 1/3 per adesione: di fatto Alfa paga una multa irrisoria. Esito: l’atto viene definito senza contenzioso; Alfa S.r.l. impara la lezione e dal 2024 deduce solo l’ammortamento consentito. Penalmente, l’evasione di imposta netta alla fine è sotto soglia e comunque priva di dolo (errore riconosciuto): nessuna conseguenza penale.
Esempio 2: Inerenza di spese di ricerca e sviluppo infruttuose – Beta S.p.a., startup biotech, tra il 2021 e 2023 capitalizza spese di R&S per €2 milioni su un progetto di farmaco innovativo. Nel 2024 constata che la ricerca non ha dato risultati brevettabili (fallimento tecnico) e, come da regole OIC, ammortizza tutto il residuo nello stesso 2024 (deducendo quindi €2 milioni in un colpo). L’Agenzia nel 2025 contesta il tutto: secondo l’ufficio, il progetto era “velleitario”, Beta non ha mai avuto ricavi in quell’area, quindi quelle spese sarebbero antieconomiche e non inerenti (si ipotizza persino che fossero costi fittizi per drenare cassa, visto l’insuccesso). Recupera quindi €2 milioni a tassazione 2024, con €480k di IRES e sanzione 90%. Difesa: Beta impugna sostenendo che: (a) le spese erano effettive e documentate (presenta contratti con ricercatori universitari, relazioni scientifiche, prototipo di molecola sintetizzata); (b) erano inerenti all’oggetto sociale (ricerca farmaceutica è proprio la mission di Beta, anche se non ha prodotto un farmaco commerciabile, la ricerca era in potenza redditizia – anzi Beta ha ricevuto anche un credito d’imposta R&S a suo tempo); (c) la deduzione è avvenuta in base alla norma: art. 108 consente deduzione integrale quando la ricerca risulta infruttuosa . Dunque l’Ufficio ha travisato la legge e i fatti. Beta porta anche un articolo specialistico che spiega che il 90% dei progetti biotech fallisce: non è antieconomico tentare, è il rischio del settore. Esito: la Commissione tributaria dà ragione a Beta: riconosce che le spese erano inerenti (in un’ottica programmatoria, rientravano nelle attività dell’impresa) e che l’art. 108 TUIR espressamente permette di dedurre l’intero importo quando la ricerca non produce risultati . L’accertamento è annullato. AdE non appella. Penale: l’evasione presunta (€480k) sarebbe stata sopra soglia, ma cadendo l’accertamento non c’è imposta evasa; inoltre, nessun elemento di frode era presente (costi reali). Beta esce pulita anche penalmente.
Esempio 3: Migliorie su bene in locazione – durata ammortamento – Gamma S.r.l. gestisce un ristorante in un locale in affitto 6+6 anni. Nel 2019 spende €120.000 per una ristrutturazione del locale (muri, impianti, arredi fissi) che capitalizza come “migliorie su beni di terzi”. Il contratto d’affitto scade nel 2025 (rinnovato automaticamente fino 2031). Gamma, seguendo un criterio prudenziale, ammortizza civilmente in 5 anni (€24k/anno) perché stima che dopo 5 anni dovrà rifare i lavori per usura. Nel 2022 subisce verifica: l’AdE ritiene che l’ammortamento corretto fosse invece su 12 anni (durata residua del contratto al 2019, includendo rinnovo automatico), quindi Gamma ha dedotto troppo nei primi 3 anni. Recupera €42k (differenza tra quote dedotte 2019-2021 e quote “legittime” su 12 anni). Gamma contesta facendo leva sulla recente Cass. 11192/2025: questa sentenza ha stabilito che la durata va tarata sull’utilità effettiva e comunque non oltre la durata del titolo . Gamma sostiene che la sua stima di utilità 5 anni era ragionevole (in ristorazione le ristrutturazioni importanti si rifanno spesso prima della scadenza contrattuale per restyling). Propone in subordine una perizia che attesta che gli impianti installati nel 2019 avevano vita tecnica 6 anni. Esito: in adesione, l’Ufficio accetta un compromesso: ammortamento su 6 anni anziché 12. Dunque riconosce una parte maggiore di quote dedotte, riducendo il recupero da €42k a circa €24k. Gamma paga il dovuto su quella differenza, sanzioni ridotte 1/3. Note: questo accordo riflette il principio Cassazione: durata contrattuale è un limite massimo, ma se si prova utilità minore si può applicare quella. Gamma ha ottenuto un buon risultato documentando la residua utilità in concreto (perizia). Non c’è alcun profilo penale (imposte evitate minime e nessuna falsità).
Esempio 4: Fatture false per consulenze capitalizzate – Delta S.r.l. deduce nel 2023 €300.000 di “costi di ampliamento” relativi all’apertura di una filiale estera. Tali costi sono supportati da fatture di una società di consulenza estera X per studi di mercato e avviamento contatti. Nel 2025 emerge che X è una società “fantasma” offshore riconducibile in realtà a un socio di Delta, e che buona parte di quei servizi non sono mai stati resi (erano modi per trasferire denaro all’estero). L’Agenzia contesta la totale inesistenza delle operazioni: recupera €300k, sanzione 100% (in questi casi applicano il massimo, vedendo malafede). Difesa (tributaria): Delta è in difficoltà, perché le prove portate dal Fisco (indagini finanziarie, mancanza di documenti di output dei consulenti, ecc.) sono pesanti. Il consulente suggerisce di non impantanarsi in giudizio tributario senza appigli, e di cercare piuttosto una via di uscita penale. Delta aderisce all’accertamento, versando imposta e interessi e patteggiando le sanzioni amministrative al minimo (90%) con adesione. Parallelamente, versa queste somme e prepara la linea per il penale: i legali puntano a dimostrare che una parte dei servizi fu effettivamente svolta da terzi (raccolgono qualche email di uno studio locale che aveva fatto qualcosa) così da ridimensionare l’accusa a dichiarazione infedele (costi sovrastimati) invece che fraudolenta. Delta beneficia dell’aver pagato tutto: in sede penale si vede riconoscere l’attenuante dell’art.13 e patteggia una pena di 1 anno (sospesa) per dichiarazione infedele. Esito: Delta sopravvive ma il socio impara che usare fatture false ha rischi altissimi. Dal punto di vista fiscale, l’intero importo rimane indeducibile perché costi fittizi non sono mai ammessi in deduzione , neppure se qualcuno li “realizza” informalmente.
Questi esempi mostrano come, a seconda della natura della contestazione (errore tecnico, valutazione, frode), il percorso difensivo e gli esiti possano essere molto diversi. L’importante è affrontare con tempestività e competenza sia la fase amministrativa (verifica, adesione) sia quella giudiziale, sapendo quando cooperare e quando invece contrastare fermamente la posizione dell’Ufficio.
Domande frequenti (FAQ)
Infine, proponiamo una sezione di Domande & Risposte sintetiche sugli argomenti trattati, per chiarire i dubbi più comuni di imprenditori e professionisti alle prese con costi pluriennali contestati dal Fisco.
D: Cosa si intende esattamente per “costo pluriennale indeducibile”?
R: È un costo ad utilità economica pluriennale (es. costi di avvio, ricerca, miglioramenti su beni altrui) che, secondo l’Agenzia delle Entrate, non è deducibile dal reddito nell’esercizio e/o nella misura in cui il contribuente l’ha portato in diminuzione. In pratica, il Fisco ritiene che quel costo non si possa sottrarre dall’imponibile, o perché andava spalmato su più anni (e il contribuente lo ha dedotto tutto insieme), o perché non inerente all’attività, o non documentato a dovere, oppure perché addirittura inesistente. “Indeducibile” significa quindi che l’onere non può essere riconosciuto ai fini fiscali (in tutto o in parte), con conseguente aumento del reddito tassabile.
D: Ho dedotto in un solo anno un costo che avrebbe prodotto utilità anche negli anni successivi. Posso sostenere che era comunque di competenza di quell’anno?
R: Dipende. La regola generale (art. 109 TUIR) vuole che costi e ricavi siano imputati per competenza, quindi ripartiti sugli esercizi di competenza. Nel caso di costi pluriennali, l’art. 108 TUIR vincola la deduzione alla quota imputata a ciascun esercizio . Se tu hai dedotto tutto subito, violando tali criteri, difficilmente potrai sostenere che fosse corretto: l’Ufficio e i giudici applicheranno la norma che impone l’ammortamento. Ci sono rare eccezioni: ad esempio per nuove imprese era facoltativo attendere i primi utili, quindi dedurre subito non era vietato. Ma in generale, dedurre anticipatamente per scelta è visto come indebito. Potresti semmai argomentare che in sostanza quel costo non aveva realmente utilità pluriennale (cioè era incerto il beneficio futuro, quindi lo hai spesato subito in buona fede): se convincente, questa tesi potrebbe evitare le sanzioni, ma la ripresa a tassazione della quota eccedente quasi certamente verrà confermata.
D: L’Agenzia contesta che un mio costo “non è inerente”. Come posso provare l’inerenza?
R: L’inerenza si prova mostrando che il costo ha un nesso funzionale con l’attività d’impresa. Documenta in modo dettagliato a cosa serviva quella spesa. Puoi portare: descrizioni tecniche, risultati ottenuti (anche se immateriali, es. incremento notorietà, efficienza, ecc.), collegamenti con progetti aziendali, delibere interne che spiegano lo scopo. Se la contestazione si basa su una presunta antieconomicità (costo troppo alto rispetto ai ricavi), spiega le tue ragioni economiche: magari puntavi a un ritorno di lungo periodo, o quella spesa era obbligata (norme di sicurezza, vincoli contrattuali). Giuridicamente, cita i principi: un costo è inerente se riferito all’esercizio dell’impresa, anche senza ricavi immediati . Se ad esempio non hai ricavi in quell’ambito perché era un’attività nuova, sottolinea che era un investimento sul futuro, non una spesa personale. In sintesi: fai emergere che la spesa ha riguardato la sfera imprenditoriale (e non altri interessi) e che era logicamente collegata al perseguimento di ricavi (anche se questi poi non si sono concretizzati).
D: L’accertamento si basa sul fatto che non ho più le fatture di 12 anni fa relative a un costo pluriennale. Possono farmi questo se ho rispettato i 10 anni di conservazione?
R: Purtroppo, la normativa attuale – per come interpretata dalla Cassazione – lo consente. Nonostante lo Statuto del Contribuente ora dica “oltre 10 anni stop obbligo di conservazione” , la Cassazione ha affermato che per provare il diritto a dedurre una quota in un anno, devi conservare la documentazione finché quell’anno è accertabile, anche se supera i 10 anni . Quindi se nel 2025 deduci una quota di ammortamento relativa a un bene acquistato nel 2010, devi poter documentare l’acquisto del 2010. È certamente oneroso. Potresti far valere che hai rispettato l’art. 8 Statuto (10 anni) e invocare l’esimente di incertezza normativa per non essere sanzionato se proprio non hai il documento. Ma ai fini della tassa, il rischio è che se non produci prova, ti neghino la deduzione. In pratica conviene sempre cercare di conservare copie digitali o alternative dei documenti chiave oltre il decennio, specialmente per costi ad effetto pluriennale (contratti, atti di acquisto, fatture rilevanti).
D: Entro quanto tempo l’Agenzia delle Entrate può contestarmi quote di ammortamento o costi pluriennali dedotti?
R: Può farlo per ciascun periodo d’imposta in cui hai dedotto la quota, entro i termini ordinari di accertamento di quell’anno. Quindi, ad esempio, se hai iniziato ad ammortizzare un onere nel 2018 e continui fino al 2022, il Fisco può contestare la quota 2018 fino al 31/12/2024 (5 anni dopo), la quota 2019 fino al 31/12/2025, e così via. Non esiste più (dopo la pronuncia delle Sezioni Unite 8500/2021) l’idea che dovessero contestarti tutto entro il termine del primo anno . Ogni anno fa storia a sé, perché ogni anno presenti una dichiarazione che comprende quella quota. Ciò può portare a situazioni in cui contestano un fatto “originario” quando è ormai remoto, ma formalmente controllano l’anno corrente. La riforma delega 2023 voleva cambiare questo, ma di fatto la Cassazione continua a ritenere valido il regime per anno . In sintesi: finché deduci quote, resti esposto a controllo su di esse nei termini dell’anno (anche se il costo iniziale è di 15 anni prima).
D: Mi contestano costi perché li ritengono fittizi. Posso ancora difendermi in sede tributaria o è materia solo penale?
R: Puoi (e devi) difenderti anche in sede tributaria. Anzi, spesso il giudizio tributario anticipa quello penale sui medesimi fatti. Se riesci a convincere il giudice tributario che i costi erano veri (magari portando prove robuste), potresti ottenere l’annullamento dell’accertamento. Ciò indirettamente influenzerà molto il procedimento penale (mancando la prova dell’evasione o della falsità). Viceversa, se perdi in tributario, in penale sarà più dura. Quindi difenditi strenuamente: presenta tutte le prove dell’effettività delle operazioni (contratti, lavori svolti, testimoni sotto forma di dichiarazioni scritte). Ricorda che l’onere della prova di solito spetta al Fisco nel dire che un costo è inesistente, ma una volta che portano indizi seri (es. fattura da cartiera), devi controbattere con evidenze convincenti . Non dare per scontato che sia “materia penale”: il giudice tributario può valutare se il costo è avvenuto o no. Certo, non avrai testimoni orali, ma puoi produrre qualsiasi documento o perizia. Quindi sì, difenditi nel merito. E parallelamente prepara la strategia penale: se vedi che le prove a tuo favore scarseggiano, considera di regolarizzare pagando il dovuto (anche a processo tributario in corso) per ottenere poi attenuanti o non punibilità penale .
D: Se pago subito quanto accertato per costi indeducibili, risolvo anche il problema penale?
R: Pagare tempestivamente aiuta molto, ma occorre distinguere: sul piano amministrativo pagare significa chiudere la questione fiscale (eventualmente con sanzioni ridotte se paghi entro certi termini con acquiescenza). Sul piano penale, il pagamento prima di eventuali controlli o comunque entro la soglia temporale del ravvedimento esonera dal reato di dichiarazione infedele . Se invece paghi quando già l’accertamento è notificato (quindi l’infedeltà è stata scoperta), non hai la causa di non punibilità, ma la legge prevede comunque una forte riduzione di pena e spesso la Procura, vedendo il ravvedimento, è più propensa a consentire patteggiamenti. In ogni caso, per i reati più gravi (frode) il pagamento non estingue il reato, ma è comunque valutato positivamente. Dunque, pagare è quasi sempre utile: non garantisce automaticamente l’archiviazione penale se sei oltre soglia, ma mette te (il contribuente) in una posizione migliore per evitare il carcere (magari ti becchi solo una pena sospesa). Va anche detto che se paghi in adesione o acquiescenza, ammettendo i fatti, questo potrebbe essere usato come prova nel penale (implica che riconosci di aver evaso). Ma spesso è un compromesso accettabile per chiudere la vicenda.
D: In caso di contestazione di costi pluriennali, c’è rischio di sequestro preventivo dei beni aziendali?
R: Potenzialmente sì, se viene configurato un reato tributario tipo dichiarazione infedele o frode, la Procura può chiedere il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto del reato (che è l’imposta evasa). In pratica, se ti contestano penalmente €X di imposte evase, possono sequestrare conti o immobili fino a concorrenza di quell’importo. Ciò avviene in sede penale, spesso dopo la notizia di reato trasmessa dall’AdE. In sede puramente amministrativa, invece, l’AdE, una volta emesso l’atto, può iscrivere ipoteca o fermo se non paghi, ma non è un sequestro penale, è garanzia sul credito. Il sequestro penale è più immediato e può bloccare beni anche prima della fine del processo. Per evitarlo, anche qui, pagare o garantire il pagamento dell’imposta aiuta: se dimostri di aver versato il dovuto o di essere in procinto (magari con rateazione), il giudice penale può ritenere non necessario il sequestro (perché non c’è più profitto illecito). Quindi, un altro buon motivo per regolarizzare appena possibile è anche scongiurare misure cautelari sul patrimonio.
D: Quali sono le sanzioni amministrative previste per i costi indebitamente dedotti?
R: Si applica la sanzione da infedele dichiarazione (art. 1, c.2 D.Lgs. 471/1997): dal 90% al 180% della maggior imposta o della differenza di credito. In concreto, l’Agenzia tende a irrogare il 90% (minimo) se ritiene che il contribuente abbia agito senza occultare volontariamente (magari errore). Può salire verso il 180% se vede aggravanti (tipo costi fittizi deliberati). Queste sanzioni possono poi essere ridotte: ad esempio, con l’adesione paghi 1/3 della sanzione irrogata; con acquiescenza (pagamento entro 30 gg senza ricorso) paghi 1/3 del minimo (quindi 30%); col ravvedimento operoso addirittura solo 1/9 del minimo (10%) se fai tutto prima di verbali ecc. Ci sono poi casi di non punibilità amministrativa: se l’errore deriva da circolari ministeriali poi cambiate, o se c’era obiettiva incertezza sulla norma (difficile da provare, ma possibile), la sanzione può essere annullata. Il consiglio pratico: se riconosci di aver sbagliato e la cifra non è enorme, valuta il ravvedimento sprint prima che inizino accertamenti – paghi il dovuto + 10% di sanzioni ed eviti tutto il contenzioso e anche il penale (perché col ravvedimento sei fuori dall’art.4 reato) . Se invece sei già in accertamento ma vuoi chiudere, l’acquiescenza in 30 giorni conviene solo se l’ufficio ha certamente ragione; se c’è spazio di discussione, meglio adesione (sanzione 30% e magari limi base imponibile).
D: Conviene fare ricorso in Commissione oppure trattare con l’ufficio?
R: Dipende dalla forza delle tue ragioni e dalle prospettive. In generale: se hai ottime prove e riferimenti normativi solidi, ricorrere conviene, perché potresti far annullare tutto (e niente sanzioni da pagare). Se invece effettivamente qualcosa da correggere c’è (magari hai torto su un punto e ragione su un altro), spesso conviene prima tentare la trattativa in adesione: l’ufficio ha interesse a chiudere, tu pure, magari trovate un accordo di compromesso. L’adesione ha anche il vantaggio della sanzione ridotta. Nota che puoi comunque presentare istanza di adesione e poi se non va bene fare ricorso: non perdi il diritto, guadagni anzi tempo (la finestra di 90 gg). Quindi, a meno che tu non tema di mostrare le tue carte, tentare l’adesione è spesso una buona idea. Ci sono casi in cui l’ufficio non ha proprio margine (es. costi fittizi conclamati, lì non scendono a patti se non sul pagamento rateale), allora tanto vale andare in causa cercando un giudice più terzo. In altri, l’ufficio stesso, se vede di poter perdere in giudizio (magari citi SU Cassazione pro-contribuente), preferirà concederti qualcosa. In sintesi: tratta quando hai qualche debolezza, ricorri deciso quando sei nel giusto e puoi dimostrarlo.
D: Cosa posso fare per prevenire future contestazioni su costi pluriennali?
R: Alcuni suggerimenti preventivi: – Segue le regole contabili-fiscali sin dall’inizio: capitalizza i costi pluriennali quando appropriato e ammortizzali su periodi ragionevoli (non forzare ammortamenti brevi senza base). Verifica le previsioni dell’art. 108 TUIR per ciascuna categoria (es. rispettare il 5 anni per impianto/sviluppo, ecc.). – Documenta in nota integrativa le scelte: se decidi un ammortamento in 5 anni, spiega perché quella è la vita utile. Questo ti tutela mostrando buona fede e ragioni in caso di verifica. – Conserva accuratamente tutti i documenti originari di costi rilevanti: fatture, contratti, studi, magari anche oltre 10 anni (digitalizzali per sicurezza). Specie per acquisti di rami d’azienda, spese di avviamento, etc., archivia tutto in un fascicolo dedicato. – Monitora la controparte: se fai affari con fornitori in paesi a rischio o notoriamente “cartiere”, pretendi evidenze dell’operato (report, consegne, ecc.) e verifica l’identità del fornitore. In caso di dubbi, meglio evitare quella spesa o almeno non capitalizzarla come onere pluriennale (che attira più attenzione). – Aggiornati sulle modifiche normative: ad esempio, sapendo che ora avviamenti riallineati vanno dedotti in 50 anni, assicurati di adeguare il tuo piano fiscale ed evitare sorprese. – Consulta un fiscalista prima di operazioni straordinarie: spesso le contestazioni su costi pluriennali nascono in contesti di M&A, riorganizzazioni, ecc. Un parere preventivo su come dedurre e documentare quei costi può farti risparmiare guai. – In caso di dubbio, prudenza e disclosure: se non sei certo se un costo sia deducibile subito o pluriennale, scegli l’interpretazione più prudente (deduzione spalmata) oppure esplicita la tua scelta in dichiarazione o in nota (ciò dimostra trasparenza). Ad esempio, se deduci comunque subito per motivi di bilancio, considera di fare una comunicazione all’AdE (anche se non formalmente prevista, un interpello facoltativo), almeno avrai un elemento a tuo favore per dire “non nascondevo nulla”.
Seguendo queste pratiche, riduci fortemente la probabilità di una contestazione futura o, se dovesse avvenire, ti troverai in una posizione difensiva solida, con carte in regola e la coscienza fiscale pulita.
Fonti normativo-giurisprudenziali citate: Art. 109, 108, 103 TUIR (DPR 917/1986); Art. 2426 c.c.; Cass., Sez. Unite civili, n. 8500/2021 ; Cass. civ. n. 25517/2023 ; Cass. civ. n. 5021/2024 ; Cass. civ. n. 11192/2025 ; Cass. civ. n. 6426/2025 ; Cass. pen. n. 18575/2020 ; D.Lgs. 74/2000 art. 4 (come mod. DL 124/2019) ; D.Lgs. 471/1997 art. 1 c.2 ; Circ. Agenzia Entrate 31/E/2013 (spese di rappresentanza); OIC 24 (immobilizzazioni immateriali) ; OIC 16 (immobilizzazioni materiali). Giurisprudenza di merito e dottrina fiscale: Comm. Trib. Reg. Lombardia n. 3118/2019 (inerenza potenziale); Cass. n. 13882/2018 e 23278/2018 (inerenza qualitativa) ; Cass. n. 33568/2022 ; Cass. n. 8716/2025 (onere prova costi soggettivamente inesistenti) ; Cass. n. 31878/2022 (inversione onere della prova in frodi) .
- Cassazione civile Sez. Trib. ordinanza n. 8716 del 2 aprile 2025
- CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, Ordinanza n. 8716 …
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata la deduzione di costi pluriennali ritenuti indeducibili? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata la deduzione di costi pluriennali ritenuti indeducibili?
Vuoi sapere cosa rischi e come predisporre una difesa efficace?
👉 Prima regola: dimostra la reale inerenza dei costi all’attività d’impresa e la correttezza del criterio di ammortamento o capitalizzazione adottato.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Costi imputati tra le immobilizzazioni immateriali ma considerati non capitalizzabili;
- Ammortamenti calcolati su valori non riconosciuti fiscalmente;
- Spese di ricerca, pubblicità o sviluppo trattate come pluriennali ma giudicate di competenza immediata;
- Costi per opere, migliorie o manutenzioni straordinarie non correttamente documentati;
- Spese considerate dall’Agenzia prive di inerenza o utilità futura per l’impresa.
📌 Conseguenze della contestazione
- Ripresa a tassazione delle quote di ammortamento o dei costi dedotti;
- Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele fino al 90% della maggiore imposta;
- Interessi di mora sulle somme recuperate;
- Rischio di contestazioni per falso in bilancio in caso di rappresentazioni contabili ritenute ingannevoli;
- Responsabilità patrimoniale degli amministratori.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- I costi erano inerenti e collegati all’attività d’impresa?
- Erano effettivamente pluriennali, cioè capaci di produrre utilità nel tempo?
- La loro contabilizzazione rispettava i principi civilistici e fiscali?
- Esistono perizie, contratti o documenti che ne giustifichino la capitalizzazione?
- L’Agenzia ha motivato l’accertamento con dati concreti o solo su presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Bilanci e scritture contabili degli esercizi interessati;
- Contratti, fatture e documentazione di spesa;
- Relazioni tecniche, perizie o studi di fattibilità;
- Verbali del CDA o dell’assemblea relativi agli investimenti;
- Documenti che attestano l’utilità futura del costo sostenuto.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la natura pluriennale e l’inerenza delle spese contestate;
- Contestare la riqualificazione come costi immediati quando la capitalizzazione è legittima;
- Evidenziare la correttezza dei criteri di ammortamento adottati;
- Eccepire vizi formali e carenze di motivazione nell’accertamento;
- Richiedere annullamento in autotutela se la documentazione era già agli atti;
- Presentare ricorso entro 60 giorni alla Corte di Giustizia Tributaria;
- Difesa penale mirata in caso di contestazioni per falso in bilancio.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza i costi contestati e la loro contabilizzazione;
📌 Verifica la legittimità della contestazione e i margini di difesa;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste in giudizio e, se necessario, nei procedimenti penali collegati;
🔁 Suggerisce strategie preventive per la corretta gestione di costi pluriennali e ammortamenti.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e bilanci d’impresa;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su costi indeducibili e ammortamenti;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui costi pluriennali indeducibili non sempre sono fondate: spesso derivano da interpretazioni restrittive o da valutazioni soggettive.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la legittimità della capitalizzazione, ridurre le pretese fiscali ed evitare pesanti sanzioni.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sui costi pluriennali inizia qui.