Agenzia Delle Entrate Accerta Finti Finanziamenti Soci: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate per presunti finti finanziamenti soci? In questi casi, l’Ufficio presume che le somme dichiarate come prestiti dei soci alla società siano in realtà ricavi occulti o utili extracontabili, utilizzati per immettere liquidità senza pagarci le imposte. Le conseguenze possono essere molto gravi: recupero a tassazione delle somme, applicazione di sanzioni elevate e rischio di contestazioni penali per false comunicazioni sociali o dichiarazioni infedeli. Tuttavia, non sempre l’accertamento è legittimo: con una difesa adeguata è possibile dimostrare la reale natura dei finanziamenti o ridurre l’impatto delle sanzioni.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i finanziamenti soci
– Se i versamenti dei soci non sono documentati da contratti scritti o delibere assembleari
– Se i finanziamenti risultano sproporzionati rispetto alle disponibilità economiche personali dei soci
– Se non vi sono movimenti bancari tracciabili a giustificazione dell’apporto
– Se i presunti prestiti vengono qualificati come utili distribuiti o ricavi occulti non dichiarati
– Se vi sono incongruenze tra le scritture contabili, i bilanci e le dichiarazioni fiscali

Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione delle somme considerate ricavi occulti o utili non dichiarati
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora sulle somme contestate
– Rettifica dei bilanci e possibili rilievi civilistici sulla veridicità delle scritture contabili
– Possibile denuncia penale per dichiarazione infedele o falso in bilancio

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale natura di finanziamento delle somme versate dai soci
– Produrre contratti di mutuo, delibere assembleari o altra documentazione societaria
– Fornire prova della tracciabilità bancaria dei versamenti effettuati
– Contestare la qualificazione come utili o ricavi occulti se si tratta di reali apporti finanziari
– Evidenziare eventuali vizi di motivazione, errori di calcolo o difetti istruttori dell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento totale o parziale della pretesa

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione societaria e bancaria relativa ai finanziamenti contestati
– Verificare la legittimità della contestazione e la corretta qualificazione fiscale delle somme
– Predisporre un ricorso fondato su prove concrete e vizi formali dell’accertamento
– Difendere i soci e la società davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale da richieste fiscali sproporzionate

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riqualificazione delle somme come reali finanziamenti soci e non come ricavi
– La riduzione delle sanzioni e degli interessi applicati
– La sospensione delle richieste di pagamento già notificate
– La certezza di pagare solo quanto realmente dovuto per legge

⚠️ Attenzione: i finanziamenti soci sono spesso oggetto di controlli da parte del Fisco, soprattutto se non adeguatamente documentati. È fondamentale predisporre una difesa solida e tempestiva per evitare conseguenze economiche e penali.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni per finti finanziamenti soci e quali strategie adottare per proteggere i tuoi interessi.

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Introduzione

I finanziamenti infruttiferi (prestiti senza interessi) concessi dai soci alle loro società, o anche tra privati familiari, sono strumenti leciti previsti dal codice civile. Tuttavia, negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha intensificato i controlli su questi movimenti finanziari, specialmente quando mancano adeguate pezze giustificative o quando le somme appaiono ingenti rispetto al profilo economico dei soggetti coinvolti . In tali casi, il Fisco spesso presume che dietro il contratto di mutuo infruttifero si celino operazioni simulate, finalizzate magari a occultare ricavi non dichiarati o a giustificare movimenti di denaro di provenienza sospetta. La conseguenza è la riqualificazione delle somme come redditi imponibili non dichiarati, con relativo recupero a tassazione e applicazione di sanzioni amministrative e interessi . In alcuni contesti, può scattare persino l’ipotesi di distribuzione occulta di utili (se le somme vengono considerate utili societari mascherati) e perfino segnalazioni per antiriciclaggio se i flussi appaiono anomali .

Dal punto di vista del contribuente-debitore (sia esso un privato che ha ricevuto il denaro, un imprenditore o una società destinataria del finanziamento contestato), è fondamentale capire come difendersi da tali accertamenti. Non sempre, infatti, la contestazione del Fisco è legittima o fondata: con la giusta documentazione e una strategia difensiva accurata è possibile dimostrare la genuinità del prestito e far valere i propri diritti . Questa guida – di livello avanzato e aggiornata ad agosto 2025 con riferimenti normativi e giurisprudenziali recenti – affronta in maniera completa il tema dei “finti finanziamenti soci” e di come impostare la difesa, con un linguaggio tecnico-giuridico ma al contempo divulgativo. Si rivolge sia a professionisti (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) sia a privati cittadini e imprenditori interessati a tutelarsi. Troverete, oltre all’analisi normativa, tabelle riepilogative dei riferimenti chiave, una sezione di Domande & Risposte (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni, e alcune simulazioni pratiche basate su casi reali italiani che illustrano gli scenari tipici e le soluzioni possibili. L’obiettivo è fornire al contribuente (debitore) una panoramica completa su come affrontare un accertamento fiscale che mette in dubbio la genuinità di un finanziamento soci, evitando errori e predisponendo le difese più efficaci.

Normativa di riferimento: presunzioni fiscali e onere della prova

La disciplina dei controlli fiscali sui movimenti finanziari si basa su alcune norme cardine che conferiscono al Fisco poteri presuntivi molto incisivi, spostando in gran parte sul contribuente l’onere della prova contraria. È essenziale conoscerle per capire su cosa si fonda la contestazione di un finanziamento ritenuto “fittizio” e come impostare la difesa.

  • Art. 32, comma 1, n. 2 del D.P.R. 600/1973 – Indagini finanziarie: È la norma cardine in materia di accertamenti bancari. Stabilisce che i movimenti bancari non giustificati (in particolare i versamenti su conti correnti) si presumono redditi imponibili sottratti a tassazione . Si tratta di una presunzione legale relativa (iuris tantum): il Fisco non deve provare che quei movimenti siano ricavi occulti; è il contribuente chiamato a dimostrare che invece hanno causa non imponibile . Questa regola inverte radicalmente l’onere probatorio a favore dell’Erario. In pratica, una volta che l’Ufficio rileva un’anomalia (es. un versamento ingente sul conto di un soggetto che non trova riscontro nelle entrate dichiarate), non è tenuto a ulteriori riscontri né a costruire un complesso di indizi; spetta al contribuente fornire prova rigorosa e analitica che quel movimento non rappresenta un ricavo in nero . Tale prova deve essere solida e preferibilmente documentale: dichiarazioni di terzi da sole non bastano a vincere la presunzione . La Cassazione ha più volte chiarito che semplici affermazioni scritte da parte del presunto finanziatore, se non supportate da elementi oggettivi, non sono sufficienti a superare la presunzione di legge . Occorre produrre, invece, documenti credibili formati antecedentemente o contestualmente al movimento (ad esempio, un contratto di mutuo con data certa, contabili bancarie con causale esplicita, ecc.), idonei a provare che il versamento sul conto era effettivamente la provvista di un prestito infruttifero genuino e non un ricavo non dichiarato .
  • Art. 39, comma 2 del D.P.R. 600/1973 – Accertamento induttivo puro: Se emergono gravi elementi di inattendibilità della contabilità o operazioni finanziarie non giustificate, l’Amministrazione finanziaria può disattendere le scritture contabili del contribuente e determinare il reddito d’impresa in via induttiva, anche prescindendo in tutto o in parte dalle risultanze formali. Proprio l’utilizzo di finanziamenti soci “sospetti” è stato ritenuto dalla giurisprudenza un valido motivo per procedere ad accertamento induttivo puro ai sensi di questa norma . Ad esempio, la Cassazione con ord. n. 16904/2025 ha ribadito la legittimità dell’accertamento induttivo ex art. 39, co. 2, qualora vi siano elementi sintomatici di inattendibilità contabile e possibile occultamento di utili . In tal caso, il Fisco è autorizzato a ricostruire il maggior reddito prescindendo dalle scritture, presumendo che talune poste (come i finanziamenti soci non giustificati) siano in realtà ricavi non dichiarati . Si noti che l’accertamento induttivo “puro” è uno strumento particolarmente incisivo perché non richiede al Fisco di provare analiticamente ogni componente di reddito occulto: è sufficiente la presenza di indizi gravi, precisi e concordanti di evasione, come appunto finanziamenti non supportati da delibere, incongruenze patrimoniali dei soci, utilizzo di contanti, ecc. (vedi oltre) .
  • Art. 37, comma 3 del D.P.R. 600/1973 – Interposizione fittizia di persone: Questa disposizione consente al Fisco di “guardare attraverso” le intestazioni formali e individuare il reale titolare dei redditi. Recita infatti: “in caso di interposizione fittizia di persona, i redditi si considerano prodotti dal soggetto per conto del quale l’interposizione è stata attuata”. In base a tale principio, se i flussi finanziari transitano su un soggetto interposto (prestanome, parente, società schermo, etc.) ma beneficiano sostanzialmente un altro, l’Agenzia può ignorare la struttura di facciata e imputare i redditi al vero titolare . Questo è esattamente il caso di taluni finti prestiti: ad esempio, un contribuente che faccia affluire propri proventi su un conto intestato al coniuge o a un cugino, simulando poi un prestito da quest’ultimo, sta tentando un’interposizione per mascherare redditi propri. L’art. 37, co. 3 permette al Fisco di contestare l’operazione come mera intestazione fittizia e di considerare quei fondi come redditi del contribuente effettivo . La giurisprudenza applica da anni il principio della prevalenza della sostanza sulla forma in ambito tributario: ciò che conta è la realtà economica, non lo schermo giuridico . Va rilevato che l’onere di dimostrare l’interposizione, se contestata, spetta all’Amministrazione, la quale può però farlo anche tramite presunzioni qualificate (indizi gravi, precisi e concordanti di manovre elusive) . Una volta emersi tali indizi (es. il prestanome non aveva capacità finanziaria per quelle somme, movimenti coincidenti, deleghe ad operare, ecc.), difendersi diventa arduo: il contribuente dovrebbe provare che il terzo era realmente proprietario e gestore autonomo del denaro – circostanza spesso poco credibile se il terzo è un familiare con basso reddito .
  • Art. 37-bis D.P.R. 600/1973 (ora art. 10-bis L. 212/2000) – Divieto di abuso del diritto: Fino al 2015, l’ordinamento prevedeva una specifica norma anti-elusiva (37-bis) per disconoscere vantaggi fiscali ottenuti con operazioni prive di sostanza economica e finalizzate al risparmio d’imposta. Oggi la disciplina sull’abuso del diritto tributario è confluita nell’art. 10-bis dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000). In sostanza, se un’operazione, pur formalmente legittima, non ha sostanza economica ed è volta principalmente a ottenere un vantaggio fiscale indebito, il Fisco può riqualificarla secondo la sua causa reale e disconoscerne i benefici. Nel nostro contesto, ciò significa che un prestito infruttifero simulato può essere visto come parte di un disegno elusivo: ad esempio, mascherare una donazione come prestito per evitare l’imposta di donazione, oppure distribuire utili ai soci sotto forma di finti finanziamenti per eludere la tassazione dei dividendi . In tali casi, oltre alle presunzioni sopra viste, l’Amministrazione potrebbe invocare l’art. 10-bis e sostenere che l’operazione è abusiva, poiché tesa esclusivamente a risparmiare tasse e priva di valide ragioni economiche. Ovviamente la contestazione dell’abuso richiede una procedura specifica e una motivazione rafforzata, ma è uno scenario da tenere presente. La difesa in simili ipotesi consisterebbe nel dimostrare che l’operazione aveva sostanza e ragioni extra-fiscali (es. un’effettiva necessità finanziaria temporanea, accordi familiari genuini, etc.) e che non si trattava di un mero schermo.
  • Art. 1813 e 1815 c.c. – Contratto di mutuo e interessi: Sono i riferimenti civilistici di base. L’art. 1813 c.c. definisce il mutuo come il contratto con cui una parte (mutuante) consegna all’altra una somma di denaro, e il mutuatario si obbliga a restituirla nella stessa specie . La normativa civile consente liberamente mutui infruttiferi (senza interessi) tra privati o tra socio e società, e non richiede forma scritta ai fini della validità (il mutuo si perfeziona con la consegna del denaro). Tuttavia, l’art. 1815 c.c. precisa che se non sono stipulati interessi, il mutuo si presume gratuito . In altre parole, in assenza di un patto sugli interessi, la legge considera che non siano dovuti. Questo conferma la liceità del prestito senza interessi. Ma, come vedremo, fiscalmente le autorità potrebbero tentare di ipotizzare l’esistenza di interessi “figurativi” non dichiarati se nulla è stato messo per iscritto in merito al tasso . Infatti, il T.U.I.R. (art. 45, comma 2) prevede che i redditi di capitale da mutui si considerano percepiti per cassa, ma le istruzioni fiscali chiariscono che se un privato presta denaro senza un accordo scritto sugli interessi, si dovrebbero calcolare al tasso legale e dichiararli . Ciò per evitare che si occulti un interesse con un finto prestito gratuito. La Cassazione, peraltro, ha affermato che il nostro sistema tributario tassa il reddito effettivo, non quello potenziale, salvo specifiche previsioni (come appunto l’art. 45, co.2) . Quindi, se il contratto indica chiaramente “prestito infruttifero”, sarebbe arbitrario per l’Agenzia inventarsi interessi; ma se nulla è scritto e le parti sono estranee tra loro, è capitato che il Fisco contestasse interessi legali non dichiarati, con sanzioni per omessa indicazione di redditi di capitale . In definitiva: meglio indicare sempre espressamente la gratuità nel contratto di finanziamento, per prevenire contestazioni su interessi figurativi.
  • Art. 2467 c.c. – Finanziamenti dei soci in società di capitali: Questa norma (introdotta dalla riforma delle società del 2003) stabilisce che il rimborso dei finanziamenti dei soci è postergato rispetto agli altri creditori, se i finanziamenti sono stati concessi in un momento in cui la società versava in condizioni finanziarie tali da giustificare un conferimento di capitale invece di un prestito. In pratica, se i soci prestano denaro alla propria società quando questa è sottocapitalizzata o in crisi di liquidità, la legge considera quel finanziamento quasi alla stregua di capitale di rischio: ne impedisce il rimborso prima degli altri debiti e prevede che, in caso di fallimento, il socio finanziatore venga soddisfatto per ultimo. Dal punto di vista fiscale, l’art. 2467 c.c. offre un criterio temporale: un finanziamento soci erogato “fuori tempo” (ossia quando la società non ne avrebbe avuto bisogno in condizioni normali, oppure al contrario quando sarebbe stato più logico un apporto a capitale) può destare sospetti. La prassi evidenzia che se il socio versa fondi in società in modo atipico – ad esempio, quando l’azienda non era in difficoltà o senza deliberarlo formalmente – l’Amministrazione può ipotizzare che si tratti di una reimmissione di utili occulti anziché di un vero prestito . Ad esempio, in un recente commento è stato riportato che la concessione di un finanziamento soci in un momento diverso da quello fisiologico “comporta da parte dell’amministrazione finanziaria una re-immissione di utili occulti con conseguente ripresa a tassazione” . In altre parole, se la società apparentemente non aveva motivo di ricevere un prestito (perché non in perdita, né con necessità di liquidità straordinarie) e i soci lo fanno ugualmente, il Fisco può sospettare che quei soldi derivino in realtà da utili extra bilancio precedentemente occultati e ora reinseriti come finanziamento. Formalità come la delibera assembleare che autorizza il prestito e una corretta evidenza a bilancio del debito verso soci diventano quindi elementi importanti per attestare la genuinità dell’operazione .
  • Art. 53 Costituzione – Principio di capacità contributiva: Vale la pena menzionare il faro costituzionale di tutte queste norme: l’art. 53 Cost. sancisce che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva” e che il sistema fiscale è informato a criteri di progressività. Questo principio implica che il prelievo debba colpire effettive manifestazioni di ricchezza e vieta di tassare arbitrariamente situazioni che ricchezza non sono. Il Fisco invoca l’art. 53 per giustificare i poteri antievasione (presunzioni, riqualificazioni in base alla sostanza), sostenendo che chi occulta redditi o li dissimula con artifici viola il principio di uguaglianza tributaria . Dal lato del contribuente, in sede difensiva si può a propria volta richiamare l’art. 53 Cost. per argomentare che tassare un prestito reale, che non genera arricchimento, confliggerebbe con la capacità contributiva e costituirebbe tassazione di un’“ricchezza” inesistente. Ovviamente è un argomento di equità più che tecnico, da usare in combinazione con le prove concrete della genuinità del finanziamento.
  • D.Lgs. 74/2000 – Reati tributari (dichiarazione infedele, fraudolenta, ecc.): Sul piano penale, vengono in rilievo varie fattispecie se la vicenda del finto finanziamento configura una significativa evasione o l’uso di artifici ingannevoli. La dichiarazione infedele (art. 4) scatta se l’imposta evasa supera una certa soglia (attualmente €100.000 di imposta evasa, con alcuni parametri relativi ai redditi non dichiarati) ; la dichiarazione fraudolenta (art. 3) ricorre, ad esempio, se si usano documenti falsi o altri mezzi fraudolenti per evadere. Ebbene, presentare al Fisco un contratto di prestito fittizio per coprire ricavi in nero potrebbe essere visto come mezzo fraudolento, aggravando la posizione in caso di scoperta . Inoltre, se l’evasione di imposta derivante dal finto prestito supera le soglie penalmente rilevanti, il contribuente rischia il processo penale tributario, con pene che vanno (per la dichiarazione infedele) fino a 4 anni e 6 mesi di reclusione, aumentate dalla recente riforma che ha abbassato le soglie di punibilità e inasprito le sanzioni . Anche il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11) potrebbe teoricamente configurarsi, ad esempio se si simula un debito (il prestito soci appunto) per sottrarre garanzie ai creditori fiscali. In sintesi: qualora un prestito fittizio comporti evasione significativa o comportamenti ingannevoli, c’è il rischio di incorrere in sanzioni penali oltre che tributarie . Una difesa efficace sul piano penale consiste nel dimostrare la veridicità dell’operazione (eliminando l’elemento fraudolento) oppure, se ciò non è possibile, nell’attuare condotte riparatorie (pagamento del dovuto, ravvedimento operoso) che la legge prevede come cause di non punibilità o attenuanti.
  • D.Lgs. 231/2007 – Normativa antiriciclaggio (limiti al contante e segnalazioni): L’ultimo tassello normativo da tenere a mente riguarda i vincoli all’uso del contante e gli obblighi in capo a banche e professionisti. In Italia esiste un limite legale ai trasferimenti di denaro contante tra privati, attualmente pari a €5.000 (dall’1 gennaio 2023) per singola transazione . Importi superiori, se trasferiti senza intermediario bancario, costituiscono violazione amministrativa con sanzioni (ad es. 10% dell’eccedenza) . Inoltre, gli intermediari finanziari hanno l’obbligo di segnalare operazioni sospette all’UIF (Unità di Informazione Finanziaria) quando notano movimenti di denaro non giustificati o incoerenti col profilo del cliente. Ciò significa che prestiti infruttiferi atipici – per importi elevati o tra soggetti non legati – potrebbero far scattare segnalazioni per possibile riciclaggio, mettendo in allerta anche il Fisco. Dal punto di vista pratico, violare i limiti di contante è in sé un illecito (sia per chi dà sia per chi riceve il denaro in contanti oltre soglia) e fornisce un indizio negativo: un prestito in contanti di grossa entità non tracciabile sarà visto con estremo sospetto dall’Agenzia . Ad esempio, se un socio versa 50.000€ in contanti nella cassa sociale, oltre a violare la legge valutaria, renderà quasi impossibile provare la provenienza lecita di quei fondi: l’Ufficio presumibilmente li considererà utili in nero. Rispetto agli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità), pur non essendo norme, essi meritano un cenno: questi indicatori di compliance fiscale tengono conto di vari parametri di bilancio. Una società che presenta costantemente perdite coperte da finanziamenti soci o che opera con margini molto bassi nonostante ingenti flussi finanziati potrebbe ottenere punteggi ISA bassi, segnalando anomalia gestionale. Un punteggio ISA molto basso (ad esempio sotto 6 su 10) espone l’azienda a maggior rischio di controlli, mentre punteggi alti offrono qualche scudo (sopra 8.5 si è tendenzialmente esclusi dagli accertamenti basati su presunzioni semplici) . Quindi, al di là degli obblighi legali, mantenere una gestione finanziaria coerente con l’attività (evidenziando utili congrui senza fare ricorso eccessivo a capitali dei soci) aiuta anche in chiave ISA a non essere selezionati per verifiche.

Di seguito, nella Tabella 1, vengono riepilogati i principali riferimenti normativi e la loro rilevanza in materia di finanziamenti soci e accertamento fiscale, con note sulle implicazioni pratiche:

Tabelle riepilogative

Tabella 1 – Norme chiave su prestiti infruttiferi e accertamento fiscale

Riferimento normativoAmbitoContenuto essenzialeImplicazioni pratiche
Art. 1813 c.c. (Contratto di mutuo)Codice Civile – ObbligazioniDefinisce il mutuo: il mutuante consegna una somma di denaro o beni fungibili al mutuatario, che si obbliga a restituire cose della stessa specie e quantità. Può essere fruttifero o infruttifero. Il prestito tra privati è valido anche senza interesse; si perfeziona con la consegna del denaro.Conferma che il prestito senza interessi è lecito civilmente. Il contratto scritto non è obbligatorio per la validità, ma è fortemente consigliato per provare i termini (importo, parti, data).
Art. 1815 c.c. (Interessi)Codice Civile – ObbligazioniSe nel mutuo non sono stipulati interessi, il mutuo si presume gratuito. (Se invece sono pattuiti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi).Conferma che l’assenza di interessi è lecita. Fiscalmente, però, se non si dichiara nulla sul tasso, l’Amministrazione potrebbe supporre l’applicazione del tasso legale e contestare interessi figurativi non dichiarati . Consigliato indicare espressamente “prestito infruttifero” nel contratto.
Art. 782 c.c. (Forma delle donazioni)Codice Civile – ContrattiLa donazione di beni o somme rilevanti richiede l’atto pubblico notarile (salvo donazioni di modico valore) a pena di nullità.Un trasferimento di denaro senza obbligo di restituzione deve essere formalizzato con atto pubblico di donazione, altrimenti è nullo. Simulare un prestito per evitare l’atto notarile espone al rischio che, se scoperto, l’operazione sia riqualificata come donazione nulla con relative sanzioni (es. imposta di donazione evasa, sanzione 30% ).
Art. 2467 c.c. (Finanziamenti soci postergati)Codice Civile – Società di capitaliIl rimborso dei finanziamenti dei soci a S.r.l. è subordinato al soddisfacimento degli altri creditori, se i finanziamenti sono stati concessi quando c’era un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o comunque una situazione in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento.Cautela civilistica: i soci non dovrebbero finanziare la società se è sottocapitalizzata se non accettando di essere rimborsati per ultimi. Sul piano fiscale, un prestito erogato fuori dalle condizioni previste (es. in un momento anomalo) potrebbe insospettire il Fisco come reinserimento di utili occulti . Inoltre, se la società fallisce, un rimborso anticipato al socio può essere revocato e configurare bancarotta fraudolenta (Cass. pen. n. 27259/2025).
Art. 32, co.1 n.2, DPR 600/1973 (Indagini bancarie)Accertamento fiscale – RedditiI versamenti (e per le imprese anche i prelevamenti) sui conti del contribuente, se non giustificati, si presumono ricavi/proventi tassabili non dichiarati . È una presunzione relativa: spetta al contribuente provare il contrario (es. indicando che trattasi di finanziamento e non di ricavo).Norma alla base degli accertamenti finanziari. Ogni accredito anomalo sul conto deve avere una spiegazione credibile. Un prestito ricevuto, per non essere considerato reddito evaso, va dimostrato con documenti (contratto, bonifico con causale “finanziamento soci”, ecc.) . L’assenza di prove comporta quasi sicuramente la tassazione dell’importo.
Art. 37, co.3, DPR 600/1973 (Interposizione di persone)Accertamento fiscale – RedditiIn caso di interposizione fittizia, i redditi sono considerati prodotti da chi ne è il reale beneficiario . Il Fisco può ignorare prestanome e schermi e tassare il titolare effettivo delle somme.Consente di colpire i prestiti fittizi con interposti: es. denaro del socio fatto transitare su un conto di un terzo presentato poi come “finanziatore”. L’onere di provare l’interposizione fittizia è del Fisco, che può farlo con indizi forti (es. terzo senza reddito adeguato, movimenti speculari) . La difesa dovrà dimostrare l’effettiva autonomia patrimoniale del terzo (spesso difficile, se il terzo è un familiare di modesta capacità).
Art. 10-bis L. 212/2000 (Divieto di abuso del diritto)Accertamento fiscale – ElusioneConsente all’Amministrazione di disconoscere vantaggi fiscali indebiti ottenuti tramite operazioni prive di sostanza economica, realizzate essenzialmente per eludere imposte. Richiede specifica motivazione e contraddittorio.Può essere invocato per riqualificare prestiti simulati in ciò che realmente sono (donazione non dichiarata, utile occulto distribuito, ecc.) qualora l’unico scopo sia stato evitare tasse . Esempi: prestito parentale usato per non pagare imposta di donazione; finanziamento soci usato al posto di dividendo per evitare ritenuta. Il contribuente, per difendersi, deve evidenziare ragioni economiche reali dell’operazione (es. vero prestito temporaneo) e dimostrare che non c’era il solo intento fiscale.
Art. 53 Costituzione (capacità contributiva)Principio costituzionale – Fisco“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva.” Richiede che le imposte colpiscano manifestazioni effettive di ricchezza e che non vi siano privilegi.È alla base dei poteri antievasione (tassare la sostanza economica oltre la forma) . Il contribuente può richiamarlo a tutela: tassare come reddito un vero prestito (che non aumenta la ricchezza di chi lo riceve) violerebbe tale principio. Argomento da usare se il Fisco pretende di tassare operazioni in cui non c’è reale arricchimento.
D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari)es. artt. 4, 3, 11…Diritto Penale TributarioPrevede reati quali dichiarazione infedele (art. 4), dichiarazione fraudolenta mediante artifici o uso di documenti falsi (art. 3), emissione di false fatture (art. 2), occultamento/distruzione di scritture contabili (art. 10), sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11), ecc.Rileva se i prestiti fittizi sono usati per evadere somme oltre soglia penale o con condotte fraudolente. Esempi: un prestito simulato che copre milioni di ricavi in nero → dichiarazione infedele (se >€100k imposta evasa) ; l’utilizzo di un contratto falso per ingannare il fisco → dichiarazione fraudolenta . In tali casi scattano indagini penali. Difesa: dimostrare la genuinità del prestito elimina l’elemento fraudolento; in caso contrario, il ravvedimento (pagamento imposte e interessi) può evitare il processo (per alcuni reati) o attenuare la pena.
D.Lgs. 231/2007 (Antiriciclaggio)limiti contante, segnalazioniNorme finanziarie – AMLFissa il divieto di trasferimenti in contante ≥ €5.000 tra soggetti diversi (salvo intermediari) . Impone a banche e professionisti di identificare i clienti, registrare le operazioni e segnalare quelle sospette (importi elevati inusuali, prestiti atipici, etc.).Incide sui prestiti: se effettuati in contanti sopra soglia, sono sanzionabili a priori (multa dal 5% al 40% dell’importo trasferito). Inoltre, operazioni di prestito infruttifero tra soggetti non legati o per importi molto alti faranno scattare l’attenzione: la banca può segnalarle come sospette. Regola: evitare contanti elevati, frazionamenti artificiosi e indicare sempre causali chiare nei bonifici (es. “finanziamento soci infruttifero”) per non destare allarmi ingiustificati.
D.P.R. 131/1986 – Tariffa Parte I art. 9 (Imposta di registro)Imposta indiretta – RegistroI contratti di mutuo sono soggetti a imposta di registro proporzionale del 3% sull’importo, se registrati. Esenzione per mutui bancari (imposta sostitutiva). Se il contratto di prestito privato non è registrato, l’imposta è dovuta solo in caso d’uso (presentazione ad un ufficio pubblico, deposito in giudizio, ecc.).Un prestito tra privati non richiede registrazione immediata per essere valido. Tuttavia, registrare il contratto dà “data certa” opponibile a terzi, ma comporta il costo del 3%. Molti preferiscono non registrare subito e conservare il documento in privato (anche perché l’Agenzia Entrate non viene a saperlo se non si registra) . Attenzione: se poi il documento viene esibito in sede di verifica o giudizio, scatta l’obbligo di registrazione d’ufficio con pagamento dell’imposta e sanzione per tardiva registrazione . È possibile sanare spontaneamente prima (ravvedimento) pagando sanzione ridotta (~12%). Valutare pro e contro: registrare da subito = costo 3% ma documento incontestabile; non registrare = nessun costo immediato, ma rischio di dover pagare poi 3%+multa se utilizzato come prova. In ogni caso, meglio avere un contratto non registrato che non avere nulla: la sanzione di registro è modesta rispetto ai benefici probatori del documento in un accertamento .

Come si vede, il quadro normativo è articolato. L’Agenzia delle Entrate dispone di presunzioni forti e strumenti di riqualificazione (indagini finanziarie, interposizione, abuso del diritto) che le consentono di mettere in discussione i finanziamenti tra soci o privati quando li ritenga mere pezze di appoggio per evasioni o elusioni. D’altro canto, il contribuente ha a disposizione strumenti di difesa sia sul piano sostanziale (contratti, prove documentali, coerenza dei comportamenti) sia su quello procedurale (il diritto al contraddittorio, l’impugnazione davanti al giudice tributario, l’invocazione dei principi generali come la capacità contributiva). Nei prossimi paragrafi vedremo quando e perché il Fisco tende a contestare i finanziamenti infruttiferi e come conviene difendersi in sede amministrativa e giudiziale, anche alla luce delle più recenti sentenze in materia.

Perché il Fisco contesta i finanziamenti infruttiferi?

Un prestito tra privati o tra socio e società è, di per sé, un’operazione lecita e di regola non tassabile (se infruttifera, non genera reddito né per chi presta né per chi riceve). Allora perché l’Agenzia delle Entrate dovrebbe insospettirsi e contestarlo? In pratica ciò avviene quando emergono indizi che il prestito non sia genuino, ma piuttosto un espediente per coprire qualcosa d’altro. I fattori tipici che inducono il Fisco a presumere che un finanziamento sia fittizio sono i seguenti :

  • Assenza di un contratto scritto che disciplini il prestito – se non c’è traccia formale dell’accordo (né contratto notarile né scrittura privata con data certa), il finanziamento appare poco credibile agli occhi del Fisco . La mancanza di documentazione alimenta il sospetto che l’operazione sia stata inventata dopo per giustificare movimenti di denaro altrimenti inspiegabili. Come vedremo, la presenza di un contratto ben formalizzato non garantisce al 100% di evitare la contestazione, ma la sua assenza è quasi certamente un punto a sfavore del contribuente.
  • Movimentazione non tracciabile o poco trasparente – se le somme sono state trasferite in contanti o con operazioni frammentarie e senza causale chiara, il Fisco si insospettisce molto . Un versamento di decine di migliaia di euro in contanti sul conto societario, ad esempio, è un tipico campanello d’allarme: ostacola la tracciabilità e fa pensare subito a ricavi in nero reimmessi in circolazione . Anche bonifici senza causale o transiti attraverso terzi conti (es. triangolazioni) complicano la ricostruzione e sono mal visti. La tracciabilità è cruciale per attestare la fonte lecita dei fondi: se manca, la presunzione di nero diventa assai più difficile da ribaltare.
  • Importi elevati e sproporzionati rispetto al profilo economico del finanziatore – quando i prestiti sono di importo rilevante e chi li effettua non ha redditi congrui per giustificarli, il Fisco fiuta l’evasione. Ad esempio, se una società a ristretta base sociale riceve €200.000 dai soci, ma questi ultimi ufficialmente dichiarano redditi minimi, è logico presumere che quei €200.000 non provengano da risorse proprie lecite dei soci ma piuttosto da utili aziendali occultati . La Cassazione ha confermato che la esiguità dei redditi dei soci può costituire indizio presuntivo che le somme versate derivino in realtà da utili extracontabili della società . In altri termini: “legittimo presumere ricavi in nero in capo alla società dal finanziamento dei soci con redditi esigui” . Questa situazione è frequente nelle piccole imprese familiari, dove i soci dichiarano poco ma l’azienda circola molto denaro: l’Agenzia ritiene che i soci reinvestano in società denaro aziendale che era stato occultato al fisco.
  • Operazioni ricorrenti o ingiustificate dal punto di vista economico – se i prestiti infruttiferi tra le stesse parti avvengono ripetutamente, o senza una plausibile necessità finanziaria, sorgono dubbi. Ad esempio, soci che ogni anno versano liquidità in società e poi la riprendono a breve distanza, senza una delibera di aumento capitale: questo ping-pong può essere interpretato come giro di utili occulti. Oppure, un privato che riceve da amici vari prestiti in tempi diversi e poi ne “dimentica” la restituzione: può sembrare una regalia mascherata. La mancanza di una giustificazione economica (es. l’assenza di un investimento da finanziare, di un’emergenza di liquidità, ecc.) rende anomala l’operazione di finanziamento.
  • Mancata evidenza di restituzione anche parziale – un altro elemento indicativo è se il prestito, a distanza di tempo, non viene mai restituito nemmeno in parte e non risultano solleciti o azioni per recuperarlo. Ciò fa pensare che in realtà non fosse un prestito ma un conferimento a fondo perduto (quindi, per il Fisco, potrebbe essere un ricavo o una donazione). Soprattutto tra soggetti non legati da stretti rapporti affettivi, l’assenza di rimborso è sospetta. Ad esempio, Cassazione e dottrina hanno più volte affrontato casi di prestiti infruttiferi “sine die” tra genitori e figli usati per aggirare l’atto pubblico: se emergono gli elementi di una donazione (arricchimento definitivo di una parte e correlativo impoverimento dell’altra, assenza di reale obbligo di restituzione), l’operazione può essere riqualificata come donazione nulla per difetto di forma . Dunque il Fisco, trovando un “prestito” familiare mai rimborsato, potrebbe pretendere l’imposta sulle donazioni (tenuto conto delle franchigie) oppure, più comunemente, ritenere semplicemente che non vi sia mai stato obbligo di restituzione e quindi che per il debitore fosse reddito (o per il socio un utile distribuito).
  • Finanziamento strumentale a coprire ammanchi di cassa o buchi contabili – questo è un caso tipico nelle società. Si verifica quando, ad esempio, la contabilità della società evidenzia cassa negativa o conti scoperti (situazione impossibile se tutti i movimenti fossero registrati) e “magicamente” interviene un finanziamento soci a colmare il buco proprio a fine anno. L’Agenzia delle Entrate interpreta tali operazioni come strumenti per occultare ricavi non contabilizzati: in pratica, la società avrebbe omesso ricavi generando un ammanco di cassa, e poi avrebbe messo una toppa inventando un finanziamento soci ad hoc . Nella vicenda reale esaminata dalla Cassazione ord. 16904/2025, i soci avevano versato €790.749 di finanziamenti e €300.000 in conto aumento capitale; il Fisco ha ritenuto che fossero stati adottati per “evitare la rilevazione di saldi negativi in cassa e banca, conseguenti all’omessa contabilizzazione di ricavi” . Sostanzialmente, secondo l’Ufficio quelle erano operazioni apparenti: essendo i finanziamenti contabilizzati come debito verso soci, al momento della restituzione non avrebbero generato tassazione in capo ai soci (mentre se fossero utili, sì) . Ci troviamo di fronte allo scenario ipotizzato anche dalla Cassazione: “l’utile in nero conseguito dalla società può essere stato distribuito ai soci e successivamente da questi reinserito nel patrimonio sociale sotto forma di finanziamento” . Ed è esattamente ciò che un finanziamento soci privo di logica industriale lascia intuire.

Oltre ai punti sopra, il comportamento complessivo del contribuente incide: ad esempio, se durante il controllo fornisce spiegazioni contraddittorie o poco trasparenti, l’ufficio sarà ancora più propenso a qualificare come fittizio il prestito. Analogamente, l’esistenza di eventuali precedenti (es. la società è stata già trovata con ricavi non dichiarati in passato, oppure il soggetto ha altri contenziosi fiscali) può predisporre l’Agenzia a leggere male anche operazioni in sé lecite.

In sintesi, il Fisco contesta i prestiti infruttiferi quando emergono indizi concreti che facciano apparire quei prestiti come “schermi” per altro – tipicamente, redditi occultati o liberalità non dichiarate. L’onere poi passa al contribuente di dimostrare che così non è. La Corte di Cassazione ha recentemente elencato alcuni di questi indici rivelatori, definendoli “circostanze indizianti gravi, specifiche e concordanti” a sostegno della presunzione di ricavi in nero: assenza di delibera assembleare, inadeguata capacità finanziaria dei soci a giustificare l’apporto e modalità in contanti delle erogazioni . Se tali elementi concomitano, l’Ufficio può legittimamente procedere ad accertare in via induttiva, dando per scontato che si tratti di utili non dichiarati (starà poi al contribuente fornire prova contraria) .

Da notare che questa analisi vale per tutti i tipi di soggetti: sia società di capitali (S.r.l., S.p.A.) sia società di persone (S.n.c., S.a.s.) o imprenditori individuali. Le società di persone, essendo “trasparenti” fiscalmente (i redditi vanno ai soci indipendentemente dalla distribuzione), non presentano il problema della doppia imposizione utili/soci, ma ciò non toglie che possano anch’esse occultare ricavi e poi far apparire versamenti dei soci per giustificare disponibilità extra. Anzi, in una società di persone è ancora più facile versare o prelevare denaro senza formalismi. Tuttavia, la giurisprudenza applica in modo simile la presunzione di utili occulti distribuiti ai soci anche per le società di persone a ristretta base: se emergono ricavi extracontabili in capo alla società, si presume (salvo prova contraria) che siano finiti ai soci . Ne consegue che se poi gli stessi soci “restituiscono” quei fondi alla società, l’operazione viene smascherata come un giroconto infragruppo. In altri termini, il problema del finto finanziamento soci riguarda qualunque struttura in cui soci o familiari potrebbero aver un interesse a far circolare occultamente utili: dall’impresa individuale (dove un familiare presta denaro al titolare) fino alla grande azienda (dove magari si usano società controllate come veicoli).

Vediamo ora come impostare la difesa quando si riceve una contestazione di questo tipo.

Accertamento fiscale e strategie difensive in sede tributaria

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta un finanziamento infruttifero, ritenendolo simulato, in genere lo fa notificando un avviso di accertamento (nel caso di imposte sui redditi e IVA) o un atto di recupero (per imposte indirette come registro o donazioni eventualmente evase). Tipicamente, come visto, l’atto impositivo qualifica le somme oggetto di finanziamento come ricavi/redditi non dichiarati e ricalcola le imposte dovute (IRPEF/IRES, addizionali, IVA se dovuta nel caso di utili da operazioni imponibili, ecc.), applicando le relative sanzioni amministrative per infedele dichiarazione (dal 90% al 180% dell’imposta evasa, di regola) . Ad esempio, se si contestano €50.000 come ricavo occulto in una S.r.l. (tassati al 24% IRES), l’imposta sarebbe €12.000 e la sanzione base €10.800 (90%), poi aumentabile o riducibile a seconda dei casi. Spesso l’Agenzia indica nell’atto gli elementi presuntivi su cui si fonda (es: “considerato che il socio finanziatore aveva redditi esigui e che il versamento è avvenuto in contanti senza pezze giustificative, si presume trattarsi di utili extrabilancio…” ). In tal modo, l’ufficio motiva di aver soddisfatto i requisiti degli “indizi gravi, precisi e concordanti” richiesti per l’accertamento induttivo/analitico-induttivo . Ad esempio, l’ordinanza Cass. n. 7739/2025 ha avallato proprio un accertamento analitico-induttivo basato su tali presunzioni, rilevando che l’Agenzia aveva puntualmente evidenziato la sproporzione tra redditi dichiarati dei soci e finanziamenti erogati, contestando efficacemente la tesi della contribuente sulla provenienza dei fondi .

Di fronte a un avviso del genere, il contribuente ha vari strumenti per difendersi in sede tributaria (cioè davanti all’Amministrazione stessa e poi eventualmente in giudizio presso le Corti di Giustizia Tributaria, ex Commissioni Tributarie):

  • Fase pre-contenziosa: contraddittorio e adesione – Già durante la verifica o prima dell’emissione dell’atto, è fondamentale sfruttare ogni occasione di contraddittorio per fornire spiegazioni e documenti. Nelle verifiche da indagini finanziarie spesso l’ufficio invia questionari o invita il contribuente a comparire: è cruciale rispondere con precisione, senza contraddizioni e con prove alla mano. Se l’accertamento è già notificato, si può valutare l’accertamento con adesione: è una procedura di confronto con l’ufficio, durante la quale si possono portare ulteriori elementi e magari giungere a un accordo di riduzione delle somme dovute (con sanzioni dimezzate) . L’adesione è utile se ci sono margini per convincere il Fisco di parte della propria buona fede o per trovare un compromesso (ad esempio riconoscendo un importo inferiore come reddito). Va però presentata entro 60 giorni dalla notifica dell’atto e sospende i termini per il ricorso. Attenzione che se si intraprende l’adesione e poi non si trova un accordo, si deve comunque fare ricorso entro i termini (estesi di 90 giorni dall’istanza di adesione).
  • Autotutela – Consiste nella facoltà dell’Amministrazione di annullare o rettificare i propri atti senza bisogno di giudice, se accerta di aver commesso errori. Non è un diritto del contribuente ma si può presentare un’istanza di autotutela all’ufficio evidenziando errori palesi (es: doppia imposizione, calcoli sbagliati, elementi di prova ignorati). Nell’ambito dei finti prestiti, l’autotutela ha spazi ridotti, perché l’ufficio raramente ammetterà un errore di valutazione; tuttavia, se si rinvengono documenti decisivi che l’ufficio non aveva visto, vale la pena segnalarli (magari l’ufficio in autotutela annulla le sanzioni o rivede parzialmente la pretesa). L’autotutela però non sospende né proroga i termini di ricorso: quindi va eventualmente affiancata al ricorso, senza farvi affidamento esclusivo.
  • Ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria (giudice tributario) – È lo strumento principale di difesa se non si risolve prima. Il ricorso va presentato entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (se si è fatta istanza di adesione, entro 150 giorni dalla notifica). Davanti al giudice, si potrà far valere sia vizi formali/procedurali dell’atto, sia il merito della pretesa fiscale. Nel caso di finanziamenti soci contestati, i profili difensivi tipici sono:
  • Vizi formali/procedurali: verificare sempre se l’atto è stato notificato correttamente, se la motivazione è adeguata e intelligibile, se sono stati rispettati i termini di decadenza (vedi oltre) e il diritto al contraddittorio quando previsto. Ad esempio, per accertamenti bancari da art. 32 DPR 600, non c’è obbligo di contraddittorio preventivo (la Cassazione lo esclude, a differenza di IVA), ma se l’ufficio ha ignorato spiegazioni fornite in fase istruttoria senza confutarle, si può eccepire difetto di motivazione. Oppure, controllare che l’accertamento sia stato emanato da organo competente e firmato da dirigente legittimato. Sono aspetti tecnici, ma importanti: un vizio procedurale può portare all’annullamento dell’atto indipendentemente dalla sostanza (anche se oggi, con il nuovo art. 7, co.5-bis D.Lgs. 546/92, il giudice deve in ogni caso valutare il merito, non potendo più annullare solo per vizi formali senza esaminare la fondatezza ).
  • Difesa nel merito – prova contraria: qui entra in gioco tutta la documentazione e gli elementi fattuali che possano dimostrare che il prestito contestato era reale e giustificato. Come abbiamo ripetuto, la legge mette l’onere della prova in capo al contribuente. Quindi in giudizio occorrerà fornire al giudice prova convincente che il movimento di denaro era effettivamente un prestito e non un ricavo. Gli strumenti chiave sono:
    • Contratto di prestito con data certa anteriore o coeva: se esibite un contratto di mutuo infruttifero redatto prima (o contestualmente) al versamento, completo di tutte le clausole (importo, tempi di rimborso, assenza di interessi, firme delle parti) e magari registrato o almeno con data certa (PEC, marca temporale, raccomandata), questo documento è spesso risolutivo . Esperti e giurisprudenza riconoscono che un documento ben formato può chiudere la questione a favore del contribuente . Naturalmente, deve essere anche coerente con i fatti: se il contratto appare artificioso (due righe generiche, datato il giorno prima dell’accertamento, ecc.) il funzionario e il giudice lo guarderanno con sospetto . Mai presentare contratti retrodatati o falsi: oltre a non convincere, esporreste a profili penali. Se invece il contratto è genuino e corredato da invio PEC o registrazione, la sua efficacia probatoria è elevata.
    • Prova dei movimenti finanziari: contratto o non contratto, occorre allineare le movimentazioni bancarie al racconto. Ciò significa produrre gli estratti conto che mostrino, ad esempio, l’uscita dei fondi dal conto del finanziatore e l’entrata sul conto del beneficiario (magari lo stesso giorno o a breve distanza) con causali esplicite (“prestito infruttifero a favore di X” / “prestito ricevuto da Y”). Se i movimenti sono stati in contanti, la difesa è più difficile: occorrerà mostrare prelevamenti di contante da parte del finanziatore in date compatibili e per importi uguali a quelli versati al beneficiario, e idealmente qualche pezzo scritto che attesti la consegna (ricevute firmate). Ad esempio, se il padre ha consegnato €10.000 in contanti al figlio, sarà utile produrre l’estratto del conto del padre con il prelievo di €10.000 il giorno stesso e una dichiarazione firmata di ricevuta da parte del figlio. Ma attenzione: come detto le mere dichiarazioni di terzi (anche se il terzo è il padre) non vincolano il giudice ; tuttavia, se accompagnate da riscontri oggettivi (il prelievo, magari testimonianze ammesse in giudizio) possono contribuire.
    • Capacità finanziaria del finanziatore: è fondamentale dimostrare che chi ha prestato i soldi ne aveva la disponibilità lecita. Questo elemento attacca alla base la presunzione del Fisco. Se il socio finanziatore può provare di aver ottenuto quei fondi in modo legittimo (es. tramite uno stipendio accumulato, la vendita di un immobile, la liquidazione, risparmi pregressi), l’ipotesi del Fisco (“li ha avuti dalla società in nero”) perde forza. Quindi portare, ad esempio, l’atto di vendita della casa del socio per €200.000 e il relativo bonifico in suo favore, da cui poi sono derivati i €50.000 prestati alla società, è un ottimo elemento difensivo. In mancanza di fonti così evidenti, si possono esibire dichiarazioni dei redditi storiche del finanziatore, per mostrare che negli anni ha dichiarato redditi sufficienti a giustificare quell’accumulo. In alternativa, se il finanziatore è un terzo (non socio), utile far emergere il perché e percome disponesse del denaro (es. un amico di famiglia benestante). Questo aspetto è stato sottolineato: “la mancata disponibilità, da parte dei soci, di redditi atti a giustificare l’ammontare dei finanziamenti dedotti ben può costituire presunzione di utili extracontabili” , ergo invertendo: la disponibilità adeguata può contribuire a escluderla.
    • Coerenza e fatti concludenti: se sostenete che era un prestito genuino, ogni elemento successivo dovrebbe essere coerente con tale tesi. Ad esempio, prove di restituzione (anche parziale) delle somme corroborano molto la genuinità: bonifici o assegni con cui il debitore ha rimborsato il finanziatore (anche a distanza di mesi o anni) mostrano che c’era davvero volontà di restituire. Se non è avvenuta ancora alcuna restituzione (magari perché il prestito era a lungo termine o perché c’è difficoltà economica), cercate almeno di documentare che c’era un piano di rimborso o solleciti. Se il Fisco vede che al 2025 nulla è stato restituito di un prestito del 2018, potrebbe dubitare della realtà dell’obbligo . In tal caso spiegate (e magari documentate) il perché: es. “nel contratto era previsto rimborso a fine 2026” oppure “abbiamo concordato verbalmente una proroga per difficoltà del debitore”. In mancanza di coerenza (es: contratto dice rimborso entro 2020 ma non è stato fatto nulla né il creditore ha agito), l’ufficio e il giudice potrebbero considerare il contratto un pro forma .
    • Testimoni e terzi: nel processo tributario la testimonianza non è ammessa in forma orale, ma sono ammesse le dichiarazioni scritte rese da terzi in altri procedimenti o all’Amministrazione. Inoltre, con la riforma del 2022, è prevista (ancorché in modo non ancora del tutto chiaro) la possibilità per la parte di chiedere al giudice di escutere testi se ciò non pregiudica la sollecita definizione del giudizio. In ogni caso, affidarsi alle sole testimonianze è rischioso, perché tradizionalmente i giudici tributari le considerano poco (sono “meri elementi indiziari liberamente valutabili”). Però possono integrare le prove documentali. Ad esempio, far venire in giudizio il finanziatore (socio o terzo) come interveniente volontario oppure produrre una sua dichiarazione giurata può avere un peso se conferma puntualmente i fatti ed è supportata da riscontri. Nel caso di prestiti tra estranei, questo può essere decisivo: far spiegare al finanziatore il motivo (es. amicizia di vecchia data, aiuto reciproco) può dare sostanza economica all’operazione e contrastare la tesi che “nessuno dà soldi gratis a uno sconosciuto senza motivo” .
    • Valutare la natura alternativa (donazione): se l’Agenzia ha imboccato la strada di considerare il prestito come reddito evaso ma in realtà trattasi (nelle intenzioni vostre) di una donazione mai formalizzata, potreste considerare di riconoscere la donazione e contestare piuttosto l’ambito impositivo. Mi spiego: il fisco a volte minaccia la doppia ipotesi, reddito e donazione. Formalmente non può avere entrambe le cose, dev’essere o l’una o l’altra (principio del “tertium non datur” in questi casi) . Se voi dimostrate che il rapporto è a titolo gratuito definitivo (quindi donazione) e magari siete disposti a pagare l’eventuale imposta di donazione (spesso nulla per franchigia o modesta, es. 4% eccedenza se tra parenti), potreste ottenere che non vi tassino come reddito. Questo approccio va valutato strategicamente con l’esperto: ammettere la donazione significa però ammettere di aver aggirato l’atto notarile, con possibili conseguenze (nullità dell’atto e rivalse eredi). È davvero l’ultima spiaggia, da considerare solo se la controparte insiste su una tassazione redditi molto elevata e voi avete invece la possibilità di sistemare come donazione con costi minori. In udienza si può in ogni caso argomentare: “Se per assurdo non fosse prestito, sarebbe al più una donazione non tassabile entro franchigia, quindi in nessun caso un reddito tassabile IRPEF” – ma il giudice potrebbe obiettare che la donazione indiretta di denaro non formalizzata non gode di esenzione. Insomma, è tema complesso e rischioso: meglio puntare sul far riconoscere che era un prestito vero.
  • Contestare la qualificazione giuridica operata dal Fisco: non dimentichiamo che il giudice tributario decide “nel merito” se quel movimento è reddito o no. Non vincolato dalla qualificazione datane dall’ufficio, può ad esempio stabilire che l’operazione rientra in altra fattispecie. Può accadere, ad esempio, che l’Agenzia abbia sbagliato bersaglio: magari era una liberalità e non andava tassata come reddito, oppure un finanziamento fruttifero i cui interessi sono stati dichiarati. Fare leva su eventuali errori di qualificazione può aiutare a ottenere l’annullamento totale o parziale. Un caso: se il Fisco tassasse come “utile occulto” un finanziamento soci quando l’utile era già stato tassato in capo alla società, ci sarebbe doppia imposizione (IRES sugli utili + IRPEF sul socio) – in passato si discuteva se tassare al 100% o al 40% (vecchia quota imponibile dividendi) l’utile extracontabile attribuito al socio . La Cassazione ha chiarito che la presunzione di distribuzione di utili occulti è semplice e il socio può provare di non aver ricevuto nulla . Quindi, se vi contestano un reddito in capo al socio e voi dimostrate che la società lo ha già dichiarato e tassato, il giudice potrebbe annullare la pretesa verso il socio. Questo per dire: analizzare se l’ufficio ha “qualificato” correttamente l’operazione. A volte emergono situazioni paradossali: es. il Fisco considera reddito imponibile IRPEF per il figlio una somma che in realtà – se non prestito – sarebbe una donazione esente (entro franchigia). In tal caso, far notare l’incongruenza rafforza la vostra posizione equitativa davanti al giudice (che deve sì applicare la legge, ma terrà conto se l’Erario sta forzando la mano oltre la logica).

In sede di ricorso, il ruolo dell’avvocato tributarista o del difensore tecnico è cruciale. Egli dovrà: 1. Analizzare i contratti, i movimenti bancari e la documentazione disponibile, evidenziando ciò che supporta la genuinità del prestito e ciò che invece potrebbe indebolirla . 2. Verificare la legittimità della contestazione – ad esempio controllo delle tempistiche di accertamento, competenza territoriale dell’ufficio, eventuale necessità di autorizzazione per le indagini finanziarie (l’art. 32 richiede un provvedimento motivato del direttore centrale o regionale per accedere ai conti) – e i termini di decadenza (generalmente il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, raddoppiati a 10 anni in caso di reato tributario) . Ad esempio, se vi contestano nel 2025 un prestito del 2015 non dichiarato come reddito, è tardivo (dichiarazione 2016 su 2015, decadenza 31/12/2021) e il difensore lo farà valere. 3. Redigere il ricorso motivato, sviluppando sia le argomentazioni in diritto (perché la presunzione non regge nel caso concreto, eventuale difetto di gravità/precisione degli indizi, violazione di norme procedurali, ecc.) sia le argomentazioni in fatto (raccontare la storia del prestito, le ragioni reali, allegare le prove, magari includere perizie giurate sulla data di formazione di un documento o sulla solvibilità del finanziatore). È importante che il ricorso sia chiaro e dettagliato, perché sarà la base su cui il giudice forma il suo convincimento. 4. Seguire l’eventuale fase di impugnazione successiva – se in primo grado (Giustizia Trib. Provinciale) le cose non vanno bene, valutare l’appello (Giustizia Trib. Regionale) e poi eventualmente il ricorso in Cassazione per motivi di diritto. La materia dei finanziamenti soci tocca principi giuridici (onere della prova, natura delle presunzioni) su cui la Cassazione si è espressa più volte . Se si ritiene che il giudice di merito abbia mal valutato le prove o invertito impropriamente l’onere, si può ricorrere. Ad esempio, la Cass. 30598/2024 ha esaminato proprio la presunzione di distribuzione di utili occulti e la prova contraria del socio, anche alla luce delle modifiche legislative sul riparto dell’onere probatorio in processo . Un avvocato aggiornato può far valere tali pronunce pro-contribuente.

In caso di esito negativo definitivo del contenzioso, il contribuente dovrà versare le somme (imposte, sanzioni, interessi) ed eventualmente potrà valutare strumenti deflattivi (es. rateizzazione, definizione agevolata se prevista da norme sopravvenute, ecc.). Ma prima di arrivare a ciò, vale la pena aver sfruttato tutti i mezzi difensivi disponibili, perché – come vedremo anche negli esempi pratici – spesso le contestazioni dell’Agenzia su prestiti infruttiferi possono essere vinte se si dispone delle giuste prove.

Profili penali: quando un prestito “fittizio” può portare a reato

Oltre alle conseguenze tributarie (pagamento di imposte evase, sanzioni amministrative, interessi), bisogna considerare i possibili riflessi penali di una contestazione relativa a finanziamenti soci fittizi. Non in tutti i casi scatta il penale: dipende dall’entità dell’evasione contestata e dalle modalità dell’eventuale condotta fraudolenta. I principali reati potenzialmente configurabili sono:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): si concretizza quando nella dichiarazione vengono occultati redditi o indicate componenti fittizie tali da evadere oltre €100.000 di imposta (soglia attuale per imposta sui redditi) e oltre il 10% del reddito dichiarato (o, in alternativa, oltre €2 milioni di base imponibile sottratta). Se il finto prestito comporta che non avete dichiarato €X di redditi imponibili, occorre valutare l’imposta evasa. Esempio: €300.000 di utili in nero mascherati da finanziamento soci – imposta evasa poniamo €72.000 (24%) – supera €100k? No, quindi niente penale per infedele in questo caso. Ma se fosse €500.000 di ricavi occultati (imposta evasa €120.000) allora sì. La pena per dichiarazione infedele va da 2 a 4 anni e 6 mesi di reclusione . Va detto che il reato scatta solo a condizione che l’atto di accertamento sia definitivo (ossia che effettivamente quei redditi risultino evasi): quindi di solito la palla passa alla Procura al termine del contenzioso tributario o se il contribuente non impugna l’avviso.
  • Dichiarazione fraudolenta (art. 3 D.Lgs. 74/2000): è più grave e non richiede soglie di imposta evasa, ma l’elemento qualificante è l’uso di mezzi fraudolenti per evadere. Tra questi mezzi rientra l’uso di documenti falsi o fatture per operazioni inesistenti, nonché l’attuazione di frodi mediante artifici idonei a ostacolare l’accertamento. La fabbricazione di un contratto di prestito fittizio per giustificare denaro non dichiarato potrebbe, in casi estremi, essere letta come un mezzo fraudolento. Ad esempio, se un contribuente produce in verifica un documento retrodatato o falso attestante un prestito inesistente, ciò configura l’utilizzo di un atto falso nelle proprie dichiarazioni, quindi dichiarazione fraudolenta . La Cassazione ha ritenuto in passato che anche operazioni simulate possono costituire mezzi fraudolenti se c’è intenzione di ingannare il Fisco. La pena per l’art. 3 è più alta (da 3 a 8 anni). C’è da dire che perché si configuri, serve un elemento di inganno documentale qualificato: se ad esempio il contribuente presenta un contratto genuino ma semplicemente falso nelle intenzioni, difficilmente la Procura procede; se invece si scopre che il documento era artefatto a posteriori, allora sì. Nel nostro contesto, è un rischio concreto qualora, ad esempio, emergano email interne che svelano il piano (tipo: “facciamo figurare che tizio ci ha prestato i soldi così non paghiamo tasse”) o altre evidenze di preordinazione fraudolenta.
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000): questo reato punisce chi pone in essere atti simulati o fraudolenti per sottrarsi al pagamento di imposte già dovute o di sanzioni. Un esempio attinente: se dopo aver ricevuto un avviso di accertamento su utili occulti, la società tenta di “proteggere” il patrimonio restituendo formalmente il finto prestito al socio (magari facendogli ottenere in cambio un bene aziendale) per sottrarlo all’eventuale riscossione coattiva, ciò può configurare art. 11. Oppure se, sapendo di avere un debito fiscale in arrivo, si aumenta artificiosamente il passivo restituendo finanziamenti soci per drenare cassa. L’art. 11 prevede soglia bassa (€50.000 di debito) e pena 6 mesi – 4 anni. Attenzione quindi a non compiere atti distrattivi durante il contenzioso: se il finanziamento era finto e lo “restituite” ai soci quando già c’è un contenzioso in corso, potreste aggravare la situazione (tra l’altro, in caso di fallimento, la restituzione di finanziamenti soci entro un anno è revocabile e penalmente rilevante come bancarotta preferenziale o distrattiva, come da Cass. 27259/2025 citata sopra in Tabella 1).
  • Altri reati: Falsità in scrittura privata (se il contratto di prestito è materialmente falso nelle firme), reati societari come false comunicazioni sociali (se in bilancio si è occultata la natura delle operazioni – ma di solito non è contestato se non in casi eclatanti), o reati di riciclaggio/auto-riciclaggio qualora i fondi avessero provenienza illecita anche extratributaria (es. denaro da reato messo in società camuffato da finanziamento soci).

È importante sapere che il procedimento penale tributario viaggia parallelo a quello tributario ma connesso: spesso parte da una notitia criminis trasmessa dalla Guardia di Finanza o dall’Agenzia Entrate alla Procura dopo un PVC (processo verbale di constatazione) o un accertamento. Se siete coinvolti in una contestazione di finto prestito che supera le soglie penali, consultate subito anche un avvocato penalista oltre al tributarista, per gestire al meglio la situazione (valutare se conviene patteggiare, pagare il dovuto per estinguere il reato – il pagamento integrale dei debiti tributari prima del dibattimento estingue i reati di dichiarazione infedele e omessa, e attenua gli altri).

La coordinazione della difesa penale e tributaria è essenziale: una strategia può essere quella di chiudere il più rapidamente possibile la pendenza fiscale pagando il dovuto, perché questo spesso spegne l’interesse penale (il ravvedimento operoso o il pagamento prima della sentenza di primo grado attenuano moltissimo le pene, e in alcuni casi particolari – es. definizione del tributo e collaborazione – portano alla non punibilità). Tuttavia, ciò va bilanciato con la volontà o meno di pagare somme che magari in tribunale tributario si potrebbero evitare. Ogni caso va valutato specificamente.

In generale, comunque, difendersi efficacemente sul piano tributario riduce anche il rischio penale. Se riuscite a dimostrare che il prestito era vero, non ci sarà evasione accertata né frode, quindi la Procura archivierà o il giudice penale assolverà (“il fatto non sussiste”). Diversamente, se risulta una grossa evasione e magari avete anche prodotto documenti ritenuti falsi, preparatevi a un possibile procedimento penale. In quest’ultimo frangente sarà importante mostrare pentimento e collaborazione: ad esempio, sanando spontaneamente la donazione con atto notarile e pagando quell’imposta, o versando subito all’erario il dovuto (anche se ancora litigate in giudizio tributario) per dimostrare buona fede (questo può evitare misure cautelari personali quali sequestro beni o arresti domiciliari, che oggi sono possibili per dichiarazione infedele vista la modifica sanzionatoria del 2023 ). Nel caso più grave citato nell’esempio 4 (prestanome e frode), Antonio ha subito una denuncia per dichiarazione fraudolenta e Franco come concorrente, e il contratto fittizio è stato visto come mezzo fraudolento aggravante .

Riassumendo, i prestiti soci fittizi possono sfociare nel penale se c’è evasione rilevante o condotta ingannevole. La difesa passa attraverso la dimostrazione della veridicità dell’operazione (che di per sé elimina l’elemento di reato) oppure, se effettivamente c’era un disegno fraudolento, attraverso un rapido ravvedimento e cooperazione con l’AG. Da notare che spesso i tempi: le indagini penali possono partire subito, ma il processo magari verrà sospeso in attesa dell’esito del giudizio tributario (soprattutto dopo la riforma del 2022 sull’onere della prova in tributario, che impone un quadro chiaro). Quindi vincere in tributario aiuta molto anche penalmente.

Come prevenire le contestazioni: consigli pratici e adempimenti formali

La migliore difesa è senza dubbio la prevenzione. Evitare del tutto di incorrere in un accertamento, o almeno farsi trovare preparati con la documentazione in regola qualora ciò accada, è l’approccio più saggio. Se siete amministratori di società, professionisti o anche privati che pianificano di effettuare prestiti infruttiferi rilevanti, seguite questi consigli pratici:

  • Formalizzare sempre per iscritto il prestito: Non fare affidamento su accordi verbali o strette di mano, specialmente per somme significative. Redigete un contratto di mutuo anche semplice, in cui identificate chiaramente parti, importo, data di erogazione, modalità di restituzione, assenza di interessi. Fatelo firmare da entrambi. Apponete una data certa: i metodi possono essere l’invio a voi stessi di una PEC contenente il contratto firmato (se avete firma digitale, ancora meglio, con marca temporale) oppure la spedizione di una copia firmata via raccomandata senza busta (postalizzata). Anche far autenticare le firme da un notaio è un’opzione (più costosa). La registrazione presso l’Agenzia delle Entrate, come visto, comporta imposta 3%: valutatela per importi molto elevati o situazioni delicate. Se non registrate subito, conservate con cura l’originale firmato. In caso di futuro accertamento, un contratto in regola è il vostro primo scudo .
  • Tracciabilità dei flussi finanziari: Erogate e restituite il denaro solo con mezzi tracciabili: bonifico bancario, assegno non trasferibile, transazione attraverso conto corrente, ecc. Evitate il contante, punto. O quantomeno non eccedete i limiti legali (oggi €5.000). Un prestito in contanti potete anche farlo (civilmente è valido lo stesso), ma in caso di controlli siete nei guai: come lo provate? Dovrete costruire ex post ricevute, dichiarazioni, o rifare il movimento a posteriori via bonifico “simulato” (come suggerito nella FAQ per formalizzare un prestito contante dopo il fatto) . È macchinoso e comunque insospettisce. Invece, un bonifico con causale chiara (es. “prestito infruttifero accordato in data X”) è autoesplicativo. Idem per l’eventuale restituzione: mai in contanti dentro una busta. Usate un canale bancario con indicazione “restituzione prestito del…”. Così, se fra 3 anni qualcuno controllerà i conti, leggerà quelle causali e difficilmente potrà ignorarle. Ricordate: ogni versamento su un conto deve poter avere una storia dietro, e starà a voi raccontarla; meglio se parte della storia è già scritta negli estratti conto.
  • Coerenza con redditi e profili patrimoniali: Prima di prestare soldi a qualcuno (o alla “vostra” società), chiedetevi: “Il mio reddito ufficiale giustifica questo esborso?”. Se guadagno €20.000 l’anno e presto €100.000 a un amico, sto creando un evidente disallineamento che potrebbe emergere in un futuro redditometro o controllo incrociato . Magari quei €100.000 li avevo perché ho venduto una casa ereditata: allora devo essere pronto a documentarlo (rogito, movimenti conto). Se invece erano frutto di risparmi in contanti accumulati in casa, è una situazione ad alto rischio. In generale, sforzatevi di far combaciare il prestito con la capacità finanziaria: se siete un padre benestante che presta al figlio, nessun problema (basta poter mostrare che avevate i soldi). Se siete due studenti nullatenenti che si scambiano €50.000, aspettatevi problemi perché è inverosimile . La coerenza vale anche lato società: se la società va sempre in perdita e i soci ogni anno la “sovvenzionano” con prestiti, forse è meglio fare un aumento di capitale ufficiale. Continuare con prestiti su prestiti configura quell’“eccessivo indebitamento verso soci” che l’art. 2467 c.c. scoraggia e il fisco guarda con sospetto. Suggerimento: invece di fare un maxi-prestito isolato sproporzionato, valutate di scaglionarlo in tranche giustificabili e, se possibile, attendete di avere prove del perché avete quei soldi (ad esempio, fate prima comparire sul vostro conto i fondi – da vendita, da altri introiti – e solo poi girateli come prestito, in modo che sul vostro conto resti traccia dell’origine).
  • Prevedere un piano di rimborso (o rimborsi effettivi): Un prestito che non viene mai rimborsato suscita dubbi di donazione. Quindi è buona norma concordare (e mettere per iscritto) un termine o scadenze per la restituzione, anche se lontane nel tempo. E rispettarle se possibile. Se il debitore inizia a restituire anche a rate (magari piccole), già dimostra la genuinità del rapporto di mutuo . Per le società, so che spesso i soci lasciano i soldi indefinitamente; ma allora conviene formalizzare una rinuncia al credito e trasformarlo in capitale (fate un verbale di assemblea in cui il socio rinuncia per patrimonializzare l’azienda). Così da spegnere sul nascere l’idea che “tanto non lo restituiranno mai” – cosa che, se non formalizzata, il fisco interpreta come utile o donazione. Se invece la restituzione è avvenuta senza problemi, conservate le prove (contabili di bonifici, quietanze, ecc.).
  • Delibera assembleare o atto del CDA: Nel caso di società di capitali, è buona prassi (anche se non strettamente obbligatorio per la validità del mutuo) far deliberare dall’assemblea dei soci l’accettazione del finanziamento soci e le condizioni (importo, infruttifero, durata) . Questo perché, come visto, la mancata delibera è uno degli indizi usati contro di voi . Una verbalizzazione regolare toglie questo argomento al Fisco. Nella società di persone, similmente, potete redigere un atto integrativo del contratto sociale o una scrittura tra i soci che attesti il versamento “in conto finanziamento” e le condizioni. Inoltre, registrate correttamente a bilancio questi apporti: vanno nel passivo (debiti v/ soci) se prestiti, o nel patrimonio netto (riserva versamenti soci) se sono apporti a fondo perduto. Errori di contabilizzazione (es. mettere un prestito nel conto capitale sociale senza formalizzarlo) possono causare confusione e far scattare ipotesi di interessi figurativi o di aumento di capitale occulto con imposta di registro . Come nell’esempio 3, dove il commercialista aveva messo 100k in “apporto soci generico” invece che tra i debiti: il fisco ne ha approfittato per imputare interessi presunti al socio Mario . Regola: se è prestito, deve risultare tale nelle scritture contabili e possibilmente nella Nota Integrativa di bilancio (specificate: “finanziamento soci infruttifero concesso dal socio X in data Y”). Ciò costituisce già di per sé prova a vostro favore, perché l’onere di provare l’infruttuosità del finanziamento dev’essere da bilancio . Se lo indicate chiaramente, difficilmente vi contesteranno interessi figurativi.
  • Non abusare dello strumento: I prestiti infruttiferi vanno utilizzati con criterio. Se una società ne fa uso saltuariamente e per necessità, documentandoli bene, solitamente non avrà guai. Ma se diventano la prassi per occultare risultati in nero o per alimentare l’azienda invece di produrre utili, prima o poi verranno notati. Ad esempio, le procedure automatiche di controllo incrociano i dati dei conti bancari e delle dichiarazioni: se una ditta individuale riceve più soldi da terzi (non clienti) di quanti ne genera con le vendite, il cervellone la segnala per potenziale evasione. Gli ISA pure: hanno indicatori come l’“indice di autonomia finanziaria” e la “liquidità” che possono risentire di apporti anomali. Un punteggio ISA basso, come detto, può farvi finire nelle liste selettive. Dunque: non fate dei prestiti infruttiferi una routine per coprire qualsiasi buco di liquidità o disallineamento. Meglio talvolta dichiarare un reddito in più e pagare un po’ di tasse che ingegnarsi con finti prestiti ovunque: lo Stato oggi ha molti occhi elettronici (anagrafe conti, fattura elettronica, spesometro, comunicazioni polivalenti) e un’operazione che stona può emergere anche a distanza di anni.
  • Trasparenza e coerenza nei rapporti familiari: Spesso i prestiti infruttiferi avvengono in famiglia (genitori-figli, tra fratelli, ecc.). Qui scatta a volte la tentazione di mascherare regali consistenti come prestiti, per non fare l’atto notarile. Finché tutto va bene, nessuno se ne accorge; ma se succede qualcosa (litigi, intervento del Fisco, o peggio muore qualcuno e arrivano eredi scontenti), salta fuori che era una donazione e non essendo stata fatta per atto pubblico può essere dichiarata nulla, con obbligo di restituzione o problemi successori, oltre alle tasse non pagate . Consiglio: se siete certi che un trasferimento è una donazione, formalizzatelo come tale (atto notarile, spesso non costoso se tra parenti con franchigia elevata). Se invece preferite il prestito per motivi vostri (tenere controllo, ecc.), sappiate che dovrete poi gestirlo: se in realtà non volete restituzione, magari tra qualche anno trasformate quel prestito in donazione con atto di rinuncia al credito per spirito di liberalità (dal notaio) . Insomma, decidete cosa volete davvero e muovetevi di conseguenza, anziché lasciare situazioni indefinite che fiscalmente e civilmente sono bombe a orologeria.

In sintesi, usate questo strumento in modo oculato. Un prestito infruttifero ben documentato, tracciato e coerente difficilmente verrà contestato, e se anche lo fosse potrete facilmente difendervi esibendo le prove . Al contrario, un finto prestito usato per coprire movimenti opachi “non regge” quasi mai sotto indagine: come abbiamo visto nell’esempio 4, può addirittura peggiorare la situazione perché configura condotte fraudolente . Se vi trovate già in una posizione borderline (magari avete fatto anni fa un prestito fittizio convinti di farla franca), valutate seriamente di ravvedervi e regolarizzare prima che arrivi un controllo : ad esempio, sanate la donazione pagando l’imposta dovuta, o se riguarda utili aziendali valutate di presentare una dichiarazione integrativa e versare le imposte (ci sono stati in passato condoni e “ravvedimenti speciali” per far emergere capitali occulti; al 2025 non ve ne sono di attivi, ma chissà in futuro). Prevenire è meglio che curare. Come regola d’oro, immaginate sempre la scena: “un giorno dovrò spiegare questo movimento a un funzionario scettico: cosa gli mostrerò per convincerlo?”. Se già ora la risposta è “poco o nulla”, è il caso di correre ai ripari.

Dopo tutte queste linee guida, per fissare le idee passiamo a qualche esempio pratico, ispirato a casi reali, che illustra come l’esito di una contestazione può cambiare radicalmente a seconda di come è stato gestito il finanziamento.

Esempi pratici e simulazioni

Esempio 1: Prestito familiare documentato vs non documentato
Scenario: Marco, 30 anni, nel 2023 riceve €40.000 da suo padre per avviare un’attività. Abbiamo due situazioni: nel Caso A Marco e il padre formalizzano tutto; nel Caso B no.

  • Caso A (prestito formalizzato e tracciato): A gennaio 2023 Marco e suo padre firmano un contratto di mutuo infruttifero in cui il padre presta €40.000 con patto di rimborso in 5 anni; subito dopo il padre esegue un bonifico di €40.000 sul conto di Marco con causale “finanziamento infruttifero – contratto 10/01/2023”. Marco utilizza quei soldi per la sua nuova attività. Nella dichiarazione dei redditi 2024 (redditi 2023) Marco non inserisce ovviamente quei €40.000 (perché non sono reddito, ma finanziamento). Il padre non dichiara nulla (nessun interesse percepito, quindi niente da dichiarare).
  • Caso B (prestito informale in contanti): Il padre di Marco gli consegna €40.000 in contanti, senza alcuna scrittura privata (si fidano a vicenda). Marco nei mesi successivi versa quei contanti sul suo conto personale in più tranche: ad esempio fa 8 versamenti da €5.000 ciascuno, uno al mese, da febbraio a settembre 2023. Non inseriscono nulla per iscritto, né esiste traccia diretta che quei contanti provenissero dal padre (se non la memoria e la fiducia).

Controllo fiscale: Nel 2025 l’Agenzia delle Entrate avvia un accertamento sintetico su Marco, perché la sua attività è andata male (dichiara reddito basso) ma risulta che nel 2023 ha comprato un’auto nuova e fatto spese non coerenti col reddito. Analizzando i conti di Marco, il fisco vede quei 8 versamenti mensili da €5.000 ciascuno nel 2023. Li considera anomalie: €40.000 affluiti sul conto senza un chiaro giustificativo.

  • Esito per il Caso A: L’ufficio invia a Marco un invito al contraddittorio chiedendo di spiegare l’origine di quei €40.000. Marco prontamente esibisce copia del contratto di prestito firmato nel 2023 e le contabili del bonifico ricevuto dal padre . Inoltre, mostra che a fine 2024 ha iniziato a rimborsare: c’è un bonifico di €8.000 dal suo conto a quello del padre, con causale “rimborso prestito” . L’Agenzia verifica sul database che il padre di Marco aveva in effetti disponibilità (risulta che nel 2022 aveva venduto un terreno, comparendo un accredito sul suo conto) e prende atto che c’è già stata parziale restituzione. Tutto combacia perfettamente e la documentazione presentata è credibile. Risultato: l’ufficio archivia la questione, accettando che quei €40.000 erano un prestito genuino . Nessun reddito induttivamente accertato su Marco per tale importo.
  • Esito per il Caso B: L’Agenzia vede gli 8 versamenti di €5.000 sul conto di Marco con causali generiche o assenti. Anche qui chiede spiegazioni. Marco, non avendo documenti, dichiara verbalmente al funzionario: “Me li ha dati mio papà come prestito, in contanti, ci siamo fidati e non abbiamo scritto nulla.” L’ufficio però verifica i redditi del padre e scopre che è un pensionato minimo; inoltre non c’è alcuna traccia di prelievi bancari di €40.000 riconducibili a lui . In assenza di prove, l’Agenzia non crede alla versione: sostiene che Marco non ha dimostrato affatto che i soldi venivano dal padre e che anzi, visto il profilo modesto del padre, è più probabile che quei €40.000 derivino da ricavi in nero di Marco stesso (magari frutto dell’attività in avvio, non registrati). Dunque l’ufficio emette avviso di accertamento imputando a Marco quei €40.000 come reddito imponibile non dichiarato nel 2023. Marco si trova costretto a fare ricorso. Nel frattempo cerca di correre ai ripari: fa firmare al padre una dichiarazione sostitutiva di atto notorio in cui egli attesta di aver consegnato €40.000 al figlio come aiuto. Purtroppo, in giudizio, la Commissione Tributaria respinge il ricorso: la dichiarazione postuma del padre viene considerata prova insufficiente e di comodo (il padre cercherebbe solo di aiutare il figlio) . Non essendoci contratto né evidenze oggettive, prevale la presunzione del Fisco. Esito: quei €40.000 vengono definitivamente qualificati come reddito evaso di Marco, con conseguente IRPEF, sanzioni e interessi dovuti. Marco, oltre al danno, subisce la beffa: dovevano essere soldi del padre per aiutarlo, e invece ci deve pagare sopra migliaia di euro di tasse e multe.

Lezione dall’Esempio 1: la differenza tra un prestito formalizzato e tracciato e uno informale è abissale. Nel primo caso, la presunzione di ricavo occulto è stata vinta immediatamente con documenti ; nel secondo, la mancanza di prove ha fatto prevalere la tesi del Fisco . Un prestito genuino ma non provato è, agli occhi del Fisco, uguale a un ricavo in nero. Quindi, non bastano le buone intenzioni: servono i fatti documentati.

Esempio 2: Prestito tra amici e onere della prova rigoroso
Scenario: Luca e Davide sono amici. Nel 2020 Luca ha bisogno di liquidità per aprire un negozio; Davide gli “presta” €25.000. Non sono parenti, solo buoni amici. Fanno le cose a metà: c’è una scrittura ma i movimenti sono parzialmente in contanti e c’è una rinuncia finale.

  • Davide e Luca redigono nel giugno 2020 una scrittura privata di prestito, ma non la registrano né la datano in modo certo (è un foglio Word firmato in data 15/06/2020, senza pec né testimoni) . Vi si dice che Davide presta €25.000 a Luca, infruttifero, restituzione quando possibile. Subito dopo, Davide effettua un bonifico di €15.000 a Luca, però inserendo una causale poco chiara (tipo “aiuto finanziario” senza menzione di prestito) . Gli altri €10.000 glieli consegna in contanti. Luca riceve quindi 15k tracciati e 10k cash. Nel 2021-22 l’attività di Luca va male e non riesce a restituire nulla. Nel 2022 Davide, vista la situazione, rinuncia informalmente al rimborso: di comune accordo decidono che Luca non dovrà più restituire quei €25.000. Non formalizzano la rinuncia in alcun atto pubblico, semplicemente lasciano perdere (in fondo Davide aveva aiutato l’amico ben sapendo i rischi).

Controllo fiscale: Nel 2023 l’Agenzia delle Entrate controlla Davide (il prestatore) in ambito redditometrico/patrimoniale. Notano che nel 2020 dal conto di Davide è uscito un bonifico di €15.000 a favore di Luca. Non essendo immediatamente chiara la causale, chiedono a Davide spiegazioni su quell’esborso . Davide riferisce dell’amicizia con Luca e produce la scrittura privata firmata nel 2020 a conferma che era un prestito, spiegando anche dei €10.000 in contanti aggiuntivi . A questo punto il Fisco può seguire due filoni: 1. Verificare il versante di Luca – cioè segnalare ai colleghi dell’ufficio di Luca che egli nel 2020 ha ricevuto €25k (15k tracciati + 10k contanti) come finanziamento, per vedere se li ha dichiarati o giustificati. 2. Valutare se per Davide la vicenda configuri una donazione – essendo estranei, €25k regalati potrebbero comportare imposta donazione 8% oltre franchigia zero.

Il controllo quindi si biforca: – Versante Luca: Luca viene invitato a chiarire la provenienza di quei €25.000 (l’ufficio sa già dei 15k bonificati, e Luca conferma anche i 10k cash). Luca ammette di aver ricevuto quell’importo da Davide come prestito e mostra la stessa scrittura esibita da Davide . Tuttavia, l’Ufficio nota due cose: (a) nessuna restituzione risulta effettuata; (b) la scrittura non ha data certa ed è “di parte”. Inoltre Luca è titolare del negozio e quei soldi sono serviti per l’attività, quindi potrebbero essere visti come ricavi in nero immessi. L’ufficio sospetta che in realtà Luca non restituirà mai nulla a Davide (il che è vero, si sono accordati così) . Quindi valuta che quel prestito fosse in realtà a fondo perduto e considera di trattarlo come reddito di Luca oppure come donazione (ma tra estranei, la donazione sarebbe tassata all’8%). Propende per la tesi del reddito occulto, magari frutto degli incassi in nero del negozio di Luca mascherati da prestito (o comunque come liberalità imponibile ai fini IRPEF). Luca ribadisce che era un prestito genuino, solo che non è riuscito a rimborsare per difficoltà. Purtroppo la sua posizione probatoria è debole: la scrittura privata non registrata e priva di data certa è considerata insufficiente, specie in assenza di qualsiasi pagamento di interessi o quote di rimborso che ne attestino la serietà . Se l’ufficio emette accertamento, Luca rischia di perderlo, perché in giudizio il giudice potrebbe ritenere che quel documento non provi abbastanza, vista anche la mancanza di ottemperanza (nessun rimborso neanche parziale) . Alla fine, ipotizziamo che Luca riceva un avviso di accertamento per redditi 2020 non dichiarati di €25.000 + sanzioni. Luca farà ricorso portando Davide come testimone (dichiarazione giurata) e magari altre conferme, ma se il giudice applica la linea dura della Cassazione, potrebbe dire che servivano prove più robuste (es. quietanze per il contante, prelievo corrispondente di Davide, ecc.) e confermare l’accertamento . In tal caso Luca verrebbe tassato su quei 25k come reddito (oltre a esserci forse la beffa dell’IVA se considerati corrispettivi non fatturati).

  • Versante Davide: per Davide, che ha “perso” €25k, il fisco può ipotizzare una donazione indiretta a Luca di €25.000 (estranei -> aliquota 8%) con imposta di donazione €2.000 + sanzione 30% = €600 . Tuttavia, questa ipotesi è meno probabile perché in genere l’Amministrazione preferisce tassare come reddito il beneficiario e non avventurarsi sul terreno delle donazioni (anche perché qui non c’è atto da registrare). Più probabile è che usino l’operazione solo come indizio contro Luca. Nei confronti di Davide in sé, non c’è evasione (non ha guadagnato nulla, anzi ha meno soldi). Al massimo potrebbero contestargli una violazione del limite contanti per quei 10k (che eccedevano la soglia all’epoca di €3.000, sanzione 10% di 7k = €700) .

Esito ipotetico: Luca riceve l’avviso per redditi 2020 e come detto rischia di perderlo in giudizio per insufficienza di prova. Davide forse se la cava con nulla sul fronte donazione (magari l’Agenzia non procede su di lui, accontentandosi di colpire Luca) e al più paga una multa per il contante. Morale: i prestiti tra amici (o comunque non familiari) sono ancora più delicati. Il Fisco ragiona: “perché mai Tizio presta €25k a Caio gratis? cosa c’è sotto?”. Mancando la giustificazione “affettiva” che magari attenua le cose in famiglia, bisogna essere ancor più rigorosi nel documentare tutto . In questo caso, la confusione (scrittura senza data certa, soldi in parte cash, rinuncia finale non formalizzata) ha aperto la porta a tutte le possibili contestazioni: per Luca reddito evaso, per Davide ipotesi di donazione simulata, ecc. Se avessero voluto fare le cose bene, dovevano: o fare un vero contratto registrato (o almeno con PEC), evitare il contante, e magari ufficializzare la remissione del debito con atto notarile (pagando la relativa imposta di donazione e chiudendo il discorso). Così com’è, invece, Luca rischia di essere tassato su qualcosa che davvero non è reddito ma non riesce a provarlo adeguatamente.

Esempio 3: Finanziamento socio-società mal gestito
Scenario: Alfa S.r.l. è una piccola azienda di cui Mario detiene il 90% (socio di maggioranza e amministratore). Nel 2019 Alfa S.r.l. ha registrato perdite e poca liquidità di cassa. Mario allora versa €100.000 sul conto corrente societario, dicendo a voce che si tratta di “finanziamento soci”. Però nulla è deliberato ufficialmente. Nel bilancio 2019 la somma viene inserita tra le disponibilità liquide in cassa/banca; non c’è un contratto scritto tra Mario e la società, né il bilancio menziona esplicitamente un debito verso soci. Il commercialista registra quell’entrata non tra i debiti ma come “apporto soci” generico nel patrimonio netto (forse pensando a un versamento a fondo perduto per coprire perdite). Mario non chiede interessi (intenzione di infruttuosità, ma non dichiarata formalmente). Negli anni 2020 e 2021 Alfa S.r.l. torna in utile, ma non restituisce nulla a Mario di quei €100.000. Rimangono lì nei conti sociali.

Nel 2022 arriva un controllo fiscale (verifica della Guardia di Finanza) sui periodi d’imposta precedenti. I verificatori notano subito quella movimentazione del 2019: €100.000 entrati sul c/c societario senza una chiara causale contrattuale e senza un conto di bilancio dedicato al finanziamento . Contestano quindi due possibili cose, in via alternativa: a) O che non era un prestito ma un vero apporto a capitale (il che di per sé non genererebbe imposte dirette aggiuntive, ma sarebbe un’irregolarità formale perché doveva essere deliberato come aumento di capitale con atto notarile). b) Oppure, se viene considerato prestito, che fosse in realtà fruttifero per legge, poiché non risulta in alcun documento che fosse infruttifero. In base all’art. 46 TUIR (che ha assorbito la previsione del vecchio art. 43), i finanziamenti soci si presumono onerosi salvo diversa evidenza da bilancio . Qui in bilancio non c’è traccia che fosse gratuito. Quindi, applicando la norma, i verificatori dicono: “mancando prova dell’infruttuosità, calcoliamo gli interessi legali su €100.000 per il 2019, 2020, 2021 e li tassiamo come reddito di capitale del socio Mario”. Al tempo, i tassi legali furono: 2019 -> 0,8%; 2020 -> 0,05%; 2021 -> 1,25%. Su €100k ciò fa circa €2.100 di interessi complessivi. La GdF redige dunque un PVC in cui imputa a Mario €2.100 di interessi attivi non dichiarati e contesta alla società la mancata registrazione a bilancio del finanziamento come infruttifero (e, volendo, avrebbe potuto anche contestare un potenziale abuso del diritto nel non formalizzare l’aumento di capitale, ma si concentra sugli interessi) .

Mario (il socio) e Alfa S.r.l. provano a difendersi nel contraddittorio: sostengono che era infruttifero come da accordo verbale, e producono magari uno scambio e-mail del 2019 in cui Mario scrive all’amministratore (che poi è lui stesso, ma ipotizziamo fosse un altro socio amministratore) “ti faccio questo prestito senza interessi, restituiamo quando puoi” . La GdF però, forte della Cassazione, ribatte: la prova dell’infruttuosità deve risultare dal bilancio, altrimenti non vale; una mail o un accordo extra-contabile non basta . E in effetti esistono sentenze (es. Cass. 1475/2020) in cui si è ritenuto insufficiente a provare l’infruttuosità un semplice accordo infragruppo non riportato in bilancio . Con ogni probabilità, l’accertamento viene confermato: Mario riceve un avviso IRPEF su €2.100 di interessi non dichiarati (tassati al 26% come redditi di capitale, quindi imposta ~€546) più sanzione 90% (~€491) e spiccioli di interessi di mora . Una sciocchezza in termini assoluti, ma seccante e soprattutto crea un precedente (ora risulta che quell’operazione era prestito fruttifero ai fini fiscali). Non solo: la Guardia di Finanza segnala anche un altro aspetto: secondo loro quell’operazione somiglia più a una ricapitalizzazione non formalizzata; quindi scrivono a verbale che la società avrebbe dovuto fare un aumento di capitale. Ciò attiva il fronte dell’imposta di registro: poiché in sede di verifica è stata “enunciata” un’operazione assimilabile a conferimento di 100k, l’Agenzia potrebbe pretendere il 3% di registro su 100k = €3.000, come se fosse un aumento di capitale non registrato (gli “apporti dei soci a fondo perduto” scontano l’imposta di registro proporzionale se emergono) .

Che rimedi avrebbero dovuto adottare Mario e Alfa S.r.l.?
Semplice: se la volontà era fare un finanziamento infruttifero, avrebbero dovuto: – Deliberare formalmente il finanziamento infruttifero, in assemblea soci, specificandone condizioni, e annotarlo in contabilità come debito verso socio. – Mettere una riga in Nota Integrativa del bilancio 2019 tipo: “Il socio Mario ha effettuato un finanziamento infruttifero di €100.000 in data X”. Così l’art. 46 TUIR sarebbe soddisfatto e nessun interesse figurativo sarebbe tassabile. – In alternativa, se lo scopo era proprio coprire la perdita, avrebbero potuto aumentare il capitale ufficialmente (o fare un “versamento a copertura perdite”) con atto notarile. In tal caso, non c’è alcuna imposta diretta da pagare, solo l’imposta di registro fissa (attualmente €200) e qualche spesa di bollo . Non avendo fatto nulla di ciò, si sono esposti a tassazione di interessi fittizi e forse a imposta di registro ben più alta.

Questo esempio insegna che società e soci devono registrare contabilmente in modo corretto i finanziamenti infruttiferi, altrimenti per il Fisco “non scritto = oneroso di default” . Anche se magari non c’era alcun intento evasivo (Mario non voleva certo guadagnarci interessi), la disinvoltura formale ha creato un contenzioso costoso (in termini di tempo e possibili sanzioni).

Esempio 4: Conto corrente intestato a prestanome e interposizione fittizia
(Caso di evasione con utilizzo di falso prestito, esempio di come può andare molto male)

Scenario: Antonio è un imprenditore individuale che nel 2021 incassa vari pagamenti in nero (non fatturati) per un totale di €50.000. Ha paura di versare questi contanti sul proprio conto, perché sa che potrebbe insospettire il Fisco. Allora escogita un piano: li fa depositare sul conto corrente del cugino Franco, persona di fiducia con bassissimo reddito, così pensa di tenerli “al sicuro” su un conto altrui. Franco poi, durante il 2022, man mano preleva quei soldi in contanti e li riconsegna cash ad Antonio. Nel frattempo, per dare una parvenza lecita all’operazione, Antonio e Franco producono una scrittura privata retrodatata in cui si afferma che Franco avrebbe concesso ad Antonio un prestito infruttifero di €50.000 nel 2021 e che Antonio glieli ha restituiti in contanti nell’anno successivo (2022) . In pratica: i versamenti iniziali sul conto di Franco vengono fatti passare come se fossero soldi di Franco prestati ad Antonio, e i prelievi successivi come se Antonio avesse rimborsato Franco in contanti. Hanno creato un film fittizio per giustificare i movimenti.

Contestazione: L’Agenzia (o GdF) scopre la manovra, magari incrociando i dati bancari: nota che Antonio aveva delega ad operare sul conto di Franco (errore loro: per comodità Antonio si era fatto dare la delega, tradendo di fatto il controllo sui fondi) . Inoltre, vede che i prelievi in contanti di Franco nel 2022 coincidono temporalmente con dei depositi in contanti che Antonio effettua sui conti aziendali o con spese fatte in azienda . Insomma, i pezzi si uniscono: appare evidente che i soldi erano di Antonio sin dall’inizio. Scatta dunque la contestazione pesante: l’operazione viene qualificata come interposizione fittizia di persona ai sensi dell’art. 37, co.3, DPR 600/73 . I €50.000 originari vengono trattati come ricavi sottratti a tassazione di Antonio (in quanto redditi di Antonio veicolati tramite Franco) . La storiella del prestito tra cugini viene demolita punto per punto: Franco non aveva redditi per poter prestare quei soldi; Antonio aveva la delega sul conto; i flussi dimostrano che Antonio disponeva di quel denaro . Antonio, messo alle strette, prova ancora a difendersi: sostiene che la delega era solo per comodità operativa e insiste che davvero Franco gli aveva prestato quei soldi (dice: “magari Franco li aveva risparmiati in casa, non c’è traccia perché erano contanti accumulati da anni da Franco”). Ma è inutile: gli indizi gravi, precisi e concordanti sono schiaccianti verso la simulazione. Nessuna chance in sede tributaria: l’accertamento viene confermato, Antonio deve pagare le imposte evase su quei €50.000 (IVA e IRPEF, presumibilmente) più sanzioni al 90% e interessi . Non solo: parte una denuncia penale per dichiarazione fraudolenta (avendo usato un contratto falso come mezzo ingannevole) a carico di Antonio . La stessa scrittura di prestito esibita viene considerata dal giudice un mezzo fraudolento per nascondere la realtà, aggravando la posizione penale di Antonio . Franco viene coinvolto come complice (concorrente nel reato) per aver prestato nome e conto . Insomma, un disastro totale: sanzioni tributarie elevate, processo penale per entrambi, e il finto prestito che avrebbe dovuto essere uno “scudo” diventa un ulteriore elemento aggravante (l’accusa avrà anche la prova del tentativo di depistaggio).

Morale dell’Esempio 4: utilizzare un prestito fittizio come copertura per evasione può solo peggiorare la situazione. Se si viene scoperti, non c’è praticamente difesa: quell’artificio verrà letto come un’aggravante di dolo . In casi del genere (conti intestati a terzi, ecc.), l’unica via saggia sarebbe stata ravvedersi prima: dichiarare quei redditi occultati, pagare le tasse, ed evitare di costruire castelli di carte che poi crollano rovinosamente . Questo esempio, benché estremo, mostra fin dove può arrivare il Fisco applicando l’art. 37, co.3: “sostanza over forma” sempre. Anche se formalmente c’era un contratto di prestito (tra Franco e Antonio), la sostanza era che Antonio stava riciclando i propri soldi tramite Franco: il Fisco (e la Procura) lo hanno giustamente trattato come tale.

Questi esempi coprono vari scenari: dal familiare ingenuo (es.1), all’amico incauto (es.2), al societario disattento (es.3), fino al fraudolento consapevole (es.4). Come si vede, il minimo comun denominatore delle situazioni risolte negativamente è la carenza di prove/documentazione e/o la presenza di intenti dissimulatori, mentre quelle risolte positivamente erano caratterizzate da trasparenza e carte in regola.

Conclusioni

I prestiti infruttiferi tra privati, soci o familiari sono strumenti utili e leciti, ma vanno maneggiati con attenzione per non incorrere nelle maglie del Fisco. Dal punto di vista del contribuente (debitore), difendersi con successo in un accertamento su un prestito presunto fittizio è possibile solo a patto di dimostrare con rigore la veridicità dell’operazione . Ciò significa aver cura, sin dal principio, di creare e conservare le prove: un contratto ben fatto, tracce bancarie nitide, comportamenti coerenti (restituzioni effettuate o almeno giustificate, comunicazioni chiare). In sede di verifica, la collaborazione trasparente paga, mentre l’opacità o – peggio – le bugie scavano la fossa al contribuente . Abbiamo visto come la normativa (art. 32 DPR 600/73 in primis) dia al Fisco armi potenti, invertendo l’onere della prova e concedendo ampio spazio alle presunzioni legali; ma queste presunzioni possono essere vinte se il contribuente presenta una controprova solida e credibile, come riconosciuto anche da varie pronunce (ad es. un accertamento viene annullato se il prestito è supportato da scrittura a data certa e da causali di bonifico coerenti) .

Abbiamo altresì evidenziato i limiti dell’azione fiscale: l’Amministrazione deve rispettare termini e procedure, e non può inventare redditi inesistenti (ad es. non può tassare interessi mai percepiti senza base normativa solida, né considerare “reddito” un mero spostamento di denaro se tutte le prove convergono sulla sua natura di mutuo) . Il contribuente può far valere i propri diritti sanciti dallo Statuto (diritto al contraddittorio endoprocedimentale, diritto a una motivazione chiara dell’atto, ecc.) e appellarsi, in ultima analisi, al giudice terzo che valuterà i fatti in base a logica e documenti. Spesso la diatriba in questi casi si riduce a una domanda di fondo: “Questo movimento di denaro rappresenta un reddito (o un’attribuzione patrimoniale) imponibile, oppure no?”. E la risposta dipende in larga misura da come il contribuente ha impostato e narrato l’operazione . Se l’ha fatto bene (documenti, coerenza), la risposta sarà “no, non è reddito”; se l’ha fatto male o per fini illeciti, la risposta sarà “sì, lo tassiamo”.

Pertanto, per avvocati e consulenti che assistono clienti in tali vicende, il consiglio è di raccogliere minuziosamente ogni pezzo di prova a sostegno della genuinità del prestito, eventualmente procurarsi perizie (es. sulla data di formazione di un documento, sulla capacità finanziaria del prestatore, sui flussi finanziari), e all’occorrenza transigere intelligentemente . Inutile essere rigidi se emerge che qualcosa non torna davvero: ad esempio, se effettivamente era una donazione camuffata e la prova è contro di noi, conviene considerare opzioni di definizione agevolata o regolarizzazione (come un accertamento con adesione, una transazione in giudizio) per limitare i danni, anziché andare incontro a probabile soccombenza piena .

Per privati e imprenditori che utilizzano i prestiti infruttiferi come strumento finanziario, il messaggio è: usate questo strumento con criterio. Non abusatene per coprire operazioni opache, perché l’Amministrazione se ne accorge e a quel punto lo trasformerà da vostro scudo a vostra condanna . Invece, se il prestito è autentico, blindatelo burocraticamente: fate in modo che qualsiasi terzo, leggendo le carte, arrivi alla conclusione “sì, è proprio un prestito vero”. Solo così potrete dormire sonni tranquilli, anche in caso di verifica fiscale .

In definitiva, ricordiamo che il nostro sistema tributario – per quanto a volte invasivo – non vuole colpire i finanziamenti genuini, poiché questi non rappresentano nuova ricchezza, ma solo spostamento di risorse. L’Agenzia delle Entrate mira piuttosto a stanare chi usa i finti prestiti per occultare redditi o regali: queste pratiche, oltre a ledere il principio di equità fiscale, rischiano di minare la fiducia nell’istituto del prestito stesso . Facciamo dunque in modo di mantenere separata la linea fra vero e falso: un prestito infruttifero sia realmente tale nella volontà e nei fatti. Se così è, con la giusta documentazione e un’adeguata difesa, riuscirete a far valere le vostre ragioni e a difendervi efficacemente dalle pretese indebite del Fisco .

Fonti normative e giurisprudenziali citate: Art. 1813, 1815, 782 c.c.; DPR 600/1973, artt. 32, 37 co.3, 37-bis (ora art. 10-bis L.212/2000); Art. 53 Cost.; D.Lgs. 74/2000, artt. 3,4,11; D.Lgs. 231/2007; DPR 131/1986 Tariffa I art.9; Cass. ord. 7739/2025 ; Cass. ord. 16904/2025 ; Cass. sent. 11230/2019 ; Cass. sent. 1475/2020; Cass. ord. 30598/2024 ; Cass. sent. 5575/2022 ; Cass. sent. 8526/2023; Cass. sent. 27259/2025; Circ. Ag. Entrate 32/E/2006; Circ. Assonime 10/2013;

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👉 Prima regola: dimostra la reale esistenza del finanziamento, la tracciabilità delle somme e la correttezza della loro contabilizzazione.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Finanziamenti registrati nei libri contabili ma mai effettivamente versati;
  • Movimenti di cassa non coerenti con le disponibilità dei soci;
  • Utilizzo dei “finanziamenti” per giustificare flussi di denaro in realtà provenienti da ricavi non dichiarati;
  • Soci che non dispongono della capacità economica per sostenere i versamenti;
  • Rimborsi ai soci considerati distribuzione occulta di utili.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Ripresa a tassazione delle somme considerate ricavi non dichiarati;
  • Applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione fino al 90% della maggiore imposta;
  • Interessi di mora sul recupero;
  • Rischio di contestazioni penali per dichiarazione fraudolenta o false comunicazioni sociali;
  • Responsabilità patrimoniale degli amministratori.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • I finanziamenti soci erano realmente effettuati e tracciabili?
  • Esistono bonifici, assegni o documenti bancari che provino l’apporto?
  • I soci avevano la capacità reddituale per sostenere i versamenti?
  • Le somme sono state restituite con modalità regolari e documentate?
  • L’accertamento si fonda su prove concrete o su presunzioni?

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Estratti conto bancari dei soci e della società;
  • Bonifici, assegni o ricevute di versamento;
  • Verbali assembleari e delibere di approvazione dei finanziamenti;
  • Scritture contabili e bilanci;
  • Eventuali contratti di finanziamento soci formalizzati.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare la tracciabilità effettiva dei finanziamenti;
  • Contestare la presunzione di “finanziamenti fittizi” con prove documentali;
  • Evidenziare la capacità economica dei soci al momento del versamento;
  • Dimostrare la regolarità della restituzione dei prestiti ai soci;
  • Eccepire vizi di motivazione o errori di calcolo dell’accertamento;
  • Richiedere annullamento in autotutela o presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni;
  • Difesa penale mirata in caso di contestazioni per dichiarazioni fraudolente.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la documentazione bancaria e societaria;
📌 Verifica la legittimità della contestazione e i punti deboli dell’accertamento;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste in giudizio e, se necessario, nei procedimenti penali;
🔁 Suggerisce soluzioni preventive per la corretta gestione dei finanziamenti soci.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto tributario e societario;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su finanziamenti soci fittizi;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui finti finanziamenti soci non sempre sono fondate: spesso derivano da presunzioni, valutazioni arbitrarie o errori contabili.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale esistenza dei versamenti, evitare la riqualificazione come ricavi occulti e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.

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