Hai ricevuto un accertamento dall’Agenzia delle Entrate per svalutazioni di crediti inesistenti o non correttamente documentati? In questi casi, l’Ufficio presume che la svalutazione effettuata in bilancio non abbia alcun fondamento economico o giuridico e che sia stata utilizzata esclusivamente per ridurre in modo indebito il reddito imponibile. Le conseguenze sono pesanti: recupero a tassazione delle somme svalutate, sanzioni elevate e, nei casi più gravi, contestazioni di natura penale. Tuttavia, non sempre l’accertamento è legittimo: con una difesa ben impostata è possibile dimostrare la correttezza delle svalutazioni o ridurre in modo significativo le sanzioni.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le svalutazioni di crediti
– Se i crediti svalutati non risultano reali o documentati da idonea prova
– Se i crediti erano già inesigibili o estinti prima della svalutazione
– Se la svalutazione è stata effettuata senza rispettare i limiti previsti dall’art. 106 TUIR
– Se il fondo svalutazione crediti appare sproporzionato rispetto ai ricavi o alle dimensioni aziendali
– Se emergono incongruenze tra bilanci, dichiarazioni fiscali e registrazioni contabili
Conseguenze della contestazione
– Recupero a tassazione delle svalutazioni considerate inesistenti
– Applicazione di sanzioni fino al 200% delle maggiori imposte accertate
– Interessi di mora calcolati dalla data di presentazione della dichiarazione
– Rettifica del bilancio e possibili rilievi civilistici sulla veridicità delle scritture
– Nei casi più gravi, denuncia per dichiarazione fraudolenta mediante artifici contabili
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la reale esistenza dei crediti svalutati con contratti, fatture e corrispondenza commerciale
– Documentare i tentativi di recupero del credito (solleciti, messe in mora, azioni legali)
– Evidenziare la coerenza della svalutazione con i principi contabili nazionali e internazionali
– Contestare la qualificazione di “crediti inesistenti” se si tratta invece di crediti “di dubbia esigibilità”
– Segnalare eventuali errori di calcolo, carenze di motivazione o vizi istruttori dell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento totale o parziale della pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione contabile e fiscale relativa alle svalutazioni contestate
– Verificare la correttezza dei criteri adottati in bilancio e la legittimità della contestazione
– Redigere un ricorso basato su prove concrete e vizi procedurali dell’accertamento
– Difendere la società davanti ai giudici tributari e, se necessario, anche in sede penale
– Proteggere il patrimonio aziendale e gli amministratori da conseguenze sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale dell’accertamento
– La riqualificazione delle svalutazioni da “inesistenti” a “non deducibili”, con sanzioni ridotte
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– La certezza di pagare solo quanto effettivamente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: le svalutazioni di crediti sono un’area ad alto rischio fiscale. È essenziale predisporre una difesa solida per evitare conseguenze pesanti sia sul piano tributario che penale.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni sulle svalutazioni di crediti inesistenti e quali strategie utilizzare per tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Le imprese e i professionisti, nel redigere i bilanci e le dichiarazioni fiscali, possono trovarsi a gestire crediti verso clienti non riscossi e decidere di svalutarli o portarli a perdita. Tale operazione è spesso necessaria per rispettare i principi contabili e civilistici di veridicità del bilancio, eliminando attività che non hanno più valore reale . In altre parole, se un cliente non paga e il credito diventa inesigibile, l’azienda stralcia il credito dall’attivo, deducendolo come perdita. Tuttavia, questa legittima gestione può attirare l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate, che in sede di verifica può contestare la deducibilità della perdita su crediti quando ritiene che manchino i presupposti previsti o, peggio, che il credito stesso fosse “inesistente” (cioè fittizio). Di fronte a tali contestazioni fiscali, il contribuente (qui assunto nella posizione di “debitore” in senso lato, ovvero colui che dovrà versare maggiori imposte se la contestazione è fondata) deve sapere come difendersi efficacemente.
In questa guida avanzata, aggiornata ad agosto 2025, esamineremo dettagliatamente la normativa italiana in materia di perdite e svalutazioni su crediti, fornendo un taglio operativo per avvocati, imprenditori e privati interessati. Useremo un linguaggio rigoroso ma accessibile, con frequenti richiami a fonti normative e giurisprudenziali recenti e includeremo sentenze aggiornate delle Corti (anche di legittimità) e documenti ufficiali. Approfondiremo soprattutto il profilo tributario (accertamenti dell’Agenzia delle Entrate) e tratteremo i possibili risvolti penali (ad esempio nell’ambito dei reati tributari). Saranno inoltre forniti esempi pratici, tabelle riepilogative, una sezione di domande e risposte frequenti, nonché indicazioni su eventuali modelli di atti difensivi (memorie, ricorsi) utili per chi deve impostare una strategia difensiva. L’intera trattazione adotta il punto di vista del contribuente che subisce la contestazione, illustrando come far valere le proprie ragioni e quali strumenti giuridici attivare.
Struttura della guida: inizieremo chiarendo i concetti chiave di credito inesigibile e svalutazione/perdita su crediti. Passeremo poi alla normativa fiscale di riferimento (Testo Unico Imposte sui Redditi e prassi), evidenziando le condizioni per la deducibilità delle perdite su crediti e le situazioni tipiche che danno luogo a contestazioni (mancanza di elementi certi e precisi, crediti fittizi o intragruppo, errori di periodo, ecc.). Esamineremo le difese possibili in ambito tributario: dall’interlocuzione in fase pre-contenziosa (memorie al PVC) al ricorso tributario e ai gradi di giudizio, con riferimenti al recente riassetto della giustizia tributaria. Dedicheremo poi una sezione ai profili sanzionatori e penali, distinguendo le sanzioni amministrative dalle condotte penalmente rilevanti (come la dichiarazione infedele o fraudolenta) e fornendo gli ultimi orientamenti giurisprudenziali in materia (anche a seguito della riforma del 2019-2020 in tema di reati tributari). Seguiranno esempi pratici e simulazioni con calcoli per comprendere l’impatto fiscale di una contestazione (ad esempio, il ricalcolo delle imposte dovute e delle sanzioni in caso di perdita su crediti disconosciuta). Infine, proporremo una serie di FAQ (domande e risposte) che sintetizzano i dubbi più comuni – dalla definizione di “credito inesistente” alle strategie probatorie – e offriremo consigli operativi per prevenire e gestire al meglio queste situazioni.
Importanza dell’argomento: la deduzione delle perdite su crediti incide sulla base imponibile e quindi sul carico fiscale delle imprese. Un disconoscimento della perdita comporta maggiori imposte e sanzioni, mentre un’eventuale accusa di utilizzo di crediti inesistenti può avere conseguenze gravi, anche penali. È dunque cruciale conoscere come documentare correttamente le inesigibilità, quali sono i limiti entro cui ci si può muovere in sicurezza e come contrastare le pretese indebite del Fisco. Questa guida, supportata dalle più autorevoli fonti istituzionali (circolari dell’Agenzia delle Entrate, sentenze di Cassazione, leggi aggiornate), mira a fornire tutti gli strumenti conoscitivi per affrontare il tema con competenza e sicurezza, dal bilancio al processo.
Nota: Tutte le fonti utilizzate sono citate in formato identificativo (es. 【N†Ln-Lm】) e rinviano a provvedimenti normativi, prassi o pronunce giurisprudenziali pertinenti. Le simulazioni numeriche e i modelli di atti proposti sono esemplificativi e vanno sempre adattati al caso concreto.
Nozioni di base: crediti inesigibili, svalutazioni e perdite su crediti
Prima di addentrarci nella normativa, definiamo i concetti fondamentali per evitare equivoci terminologici:
- Credito vs Debito: Un credito in questo contesto è un importo che un soggetto (impresa o professionista) vanta verso un cliente o debitore per una somministrazione di beni, prestazione di servizi, finanziamento concesso, ecc. Dal lato opposto, il debitore è colui che deve pagare quella somma. Quando parliamo dal punto di vista dell’impresa creditrice, considereremo “debitore” il cliente inadempiente; quando invece guardiamo al rapporto col Fisco, il “debitore” è il contribuente che potrebbe dover pagare più imposte a seguito di accertamento (da qui l’uso nel titolo del termine “debitore” in senso lato).
- Crediti inesigibili: Sono i crediti di cui, trascorso un certo tempo, il creditore dubita fortemente o ha la certezza di non ottenere il pagamento. Possono essere definiti inesigibili quei crediti per i quali si sono manifestati elementi oggettivi di impossibilità di riscossione, ad esempio il fallimento del debitore, la sua irreperibilità, l’assenza di beni pignorabili, la prescrizione del diritto di credito, ecc. In pratica, l’impresa valuta che quel credito non sarà incassato (in tutto o in parte). Non va confuso “inesigibile” con “inesistente”: un credito inesigibile è un credito reale ma che non si riesce a riscuotere, mentre un credito inesistente è un credito che in realtà non è mai esistito, ovvero privo del presupposto che ne giustifica l’esistenza. Ad esempio, un credito fatturato per una vendita mai avvenuta sarebbe “inesistente” (fittizio); una fattura regolarmente emessa per una vendita effettuata, ma che il cliente non onora perché fallisce, genera un credito inesigibile ma reale.
- Svalutazione di crediti: Nel linguaggio contabile, la svalutazione di un credito consiste nel ridurre il valore iscritto a bilancio del credito stesso, per riflettere il fatto che potrebbe non essere incassato integralmente. Tecnicamente si effettua un accantonamento al fondo svalutazione crediti, ossia una posta rettificativa dell’attivo. In bilancio, grazie alla svalutazione, i crediti vengono riportati al valore di presumibile realizzo e non al valore nominale, in ossequio al principio civilistico dell’art. 2426 cod. civ. . La svalutazione può essere parziale (si ritiene di incassare solo una parte del credito) o totale (si ritiene che il credito non si incasserà affatto). È però importante capire che la svalutazione integrale di un credito non equivale, sul piano civilistico, alla sua eliminazione dallo stato patrimoniale (il credito resta iscritto, anche se a valore zero) . Fiscalmente, come vedremo, c’è un coordinamento normativo che evita duplicazioni di deduzioni: se un credito è stato svalutato completamente a bilancio (e tale svalutazione è stata dedotta nei limiti consentiti), una successiva perdita definitiva non darà luogo a ulteriori deduzioni sulla parte già svalutata .
- Perdita su crediti (passaggio a perdita): Si ha una vera e propria perdita su crediti quando il credito viene considerato definitivamente irrecuperabile e quindi eliminato dal bilancio (stralciato). Ciò può avvenire, ad esempio, quando vi è una procedura concorsuale conclusa senza soddisfare il credito, oppure una transazione finale, o altri elementi che rendono certo che nulla (o solo una parte) sarà incassato. La perdita su crediti si manifesta contabilmente con l’eliminazione del credito dall’attivo e il riconoscimento di un costo a conto economico (spesso utilizzando il fondo svalutazione se esistente). In sintesi, la differenza tra svalutazione e perdita risiede nel grado di certezza: la perdita attiene a un credito divenuto definitivamente inesigibile, mentre la svalutazione riflette una perdita solo potenziale o probabile ma non ancora definitiva . Come affermato dalla Cassazione, “si ha perdita del credito quando esso è divenuto (alla stregua di un giudizio prognostico) definitivamente inesigibile; la svalutazione … ne presuppone una perdita (solo) potenziale, probabile, ma non (ancora) certa e definitiva” . Questa distinzione è cruciale anche per il fisco, che disciplina diversamente le due fattispecie (perdite deducibili al verificarsi di elementi certi e precisi, svalutazioni deducibili entro limiti percentuali annuali – v. infra).
- Svalutazioni “a zero” e contestazioni: Un caso particolare, emerso in varie controversie, è la cosiddetta svalutazione integrale (a zero) di un credito. L’azienda, valutando molto probabile la mancata riscossione, svaluta il credito del 100%, portandolo in bilancio a valore zero. L’Agenzia delle Entrate a volte ha contestato queste operazioni ritenendo che, sostanzialmente, l’azienda stesse deducendo una perdita senza averne i presupposti, sotto le mentite spoglie di una svalutazione. La Suprema Corte ha però chiarito che tale contabilizzazione è legittima se basata su un serio rischio di inesigibilità ragionevolmente prevedibile ma non ancora definitivo . In altri termini, una svalutazione integrale di per sé non configura un’elusione delle norme fiscali , a condizione che quando poi il credito sarà definitivamente perso non si deduca nuovamente l’importo (evitando così doppie deduzioni). Il vantaggio contabile/fiscale ottenuto anticipando la svalutazione è controbilanciato dal fatto che in futuro non vi sarà un’ulteriore perdita da dedurre . È però essenziale, in casi simili, poter dimostrare la ragionevolezza della previsione di inesigibilità che ha portato alla svalutazione a zero.
- “Crediti inesistenti” in ambito fiscale: Nel linguaggio dell’amministrazione finanziaria e della giurisprudenza tributaria, l’espressione credito inesistente assume un significato ben preciso. Ad esempio, in materia di indebite compensazioni di imposte, si definisce credito inesistente quel credito “in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo” e che spesso è creato con artifici o documenti falsi . Più in generale, un credito d’imposta o un credito commerciale inesistente è qualcosa di artificiosamente creato o mai sorto, privo di riscontro economico reale. Nel contesto delle perdite su crediti, parlare di “svalutazioni di crediti inesistenti” significa riferirsi a situazioni in cui il Fisco contesta che il credito oggetto di svalutazione/perdita non fosse reale o comunque non avesse i requisiti per essere considerato deducibile. Può trattarsi di crediti fittizi registrati in contabilità al solo scopo di generare una perdita (magari tramite false fatture), oppure di crediti formalmente esistenti ma la cui inesigibilità non è dimostrata (quindi “inesistenti” nel senso di inesistenza degli elementi certi e precisi richiesti). Affronteremo entrambe le accezioni: sia il caso di contestazioni “formali” (credito esistente ma privo di evidenze di inesigibilità, dunque perdita non ammessa) sia quello, più grave, di contestazioni “sostanziali” (credito ritenuto del tutto fittizio o la cui perdita è simulata fraudolentemente).
Ora che abbiamo chiarito questi concetti, possiamo esaminare la cornice normativa che regola le perdite su crediti e le relative deduzioni fiscali, per capire in quali casi sono ammesse e come il sistema fiscale italiano cerca di prevenire abusi, definendo al contempo le garanzie per i contribuenti onesti.
Normativa fiscale sulle perdite su crediti: condizioni e limiti
La disciplina di riferimento si trova principalmente nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR, DPR 917/1986), in particolare nell’art. 101 (per le perdite su crediti) e nell’art. 106 (per le svalutazioni e accantonamenti a fondo rischi su crediti). Inoltre, varie modifiche normative e interpretazioni ufficiali (circolari, risoluzioni) hanno affinato nel tempo le condizioni di deducibilità. Vediamo i punti salienti.
Art. 101 TUIR: deducibilità delle perdite su crediti
L’art. 101, comma 5, TUIR rappresenta il fulcro della disciplina sulle perdite su crediti . Esso stabilisce che le perdite su crediti sono deducibili dal reddito imponibile se risultano da “elementi certi e precisi”, ovvero – in alternativa – quando il debitore è assoggettato a procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta, amministrazione straordinaria) . In altre parole, la normativa prevede due vie per la deduzione:
- Procedura concorsuale: se il debitore è coinvolto in una procedura concorsuale (fallimento, concordato, ecc.), la perdita su crediti è deducibile, senza necessità di ulteriori prove, al più tardi nell’esercizio in cui si realizza la cancellazione del credito dal bilancio . La legge precisa anche da quale momento il debitore si considera “assoggettato” a procedura: ad esempio, dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento, del decreto di ammissione al concordato, ecc. (questi dettagli sono stati integrati nel TUIR con il richiamo alle norme fallimentari, come indicato nello stesso art. 101, c.5, riportato in una circolare ). Dunque, in caso di fallimento del debitore, il creditore potrà dedurre il credito non recuperato già dall’anno in cui il fallimento è dichiarato o al più tardi negli anni successivi fino a quando, in applicazione dei principi contabili, procederà a cancellare il credito dal bilancio . La Corte di Cassazione ha chiarito che il momento di competenza per dedurre la perdita, se il debitore è fallito, si colloca in una finestra temporale che va dalla data della sentenza dichiarativa fino al periodo d’imposta in cui, secondo corretta applicazione dei principi contabili, il credito viene eliminato dal bilancio . Ciò significa che, ad esempio, se un cliente fallisce nel 2024 ma la procedura concorsuale si chiuderà nel 2026, l’azienda creditrice può scegliere di dedurre la perdita nel 2024 (appena avvenuto il fallimento e appurato che il credito è compromesso) oppure attendere l’esito finale e dedurre nel 2026, purché la cancellazione contabile avvenga entro quel periodo. La prassi dell’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto una certa flessibilità in tal senso, lasciando al contribuente la scelta dell’esercizio di deduzione entro il limite rappresentato dall’anno di cancellazione dal bilancio . (Si noti che Cassazione e Agenzia in passato divergevano sul punto: la Cassazione propendeva per l’anno in cui sorge l’evento – es. apertura fallimento – salvo comunque il limite ultimo della cancellazione, mentre l’Agenzia ammetteva la scelta del contribuente entro tale limite . Dopo gli interventi normativi degli ultimi anni e relative interpretazioni, questa divergenza si è in parte composta, come vedremo.)
- Elementi certi e precisi: quando il debitore non è in procedura concorsuale (o situazione equiparata), il contribuente può dedurre la perdita su un credito solo se dispone di elementi concreti, oggettivi e idonei a dimostrare che quel credito è divenuto definitivamente inesigibile. Questa generica definizione – “elementi certi e precisi” – è stata oggetto di chiarimenti sia normativi che di prassi. Il legislatore, con una modifica introdotta dal D.L. 83/2012 (conv. L. 134/2012), ha anche previsto alcune presunzioni legali di sussistenza degli elementi certi e precisi. In particolare è stato aggiunto, all’art. 101 c.5, che “gli elementi certi e precisi sussistono in ogni caso quando il credito sia di modesta entità e sia decorso un periodo di almeno sei mesi dalla scadenza di pagamento” . Inoltre la prassi amministrativa (Circolare AdE n. 26/E del 1° agosto 2013) ha individuato quattro ipotesi tipiche in cui si considerano integrati gli elementi certi e precisi :
- Crediti di modesta entità scaduti da oltre 6 mesi: come detto, per crediti piccoli (mini-crediti), una volta trascorsi 6 mesi dal termine di pagamento senza che il debitore abbia onorato il debito, il credito può essere dedotto come perdita. La norma e la circolare specificano la soglia di “modesta entità”: inizialmente 5.000 euro per le imprese con ricavi sopra 100 milioni, e 2.500 euro per le altre . Successivamente, tali importi sono stati uniformati (anche per semplificazione) in 2.500 euro per la generalità delle imprese e 5.000 euro per le banche e gli enti finanziari . In pratica oggi si considera modesto un credito fino a 2.500 €, oppure fino a 5.000 € se trattasi di soggetto finanziario o bancario (che tipicamente tratta crediti di importi elevati) . Per queste perdite “automatiche” non serve provare l’inesigibilità con azioni legali costose: è sufficiente che sia passato almeno mezzo anno dal termine e che nel frattempo il debitore non abbia pagato nulla, purché non sia in corso una procedura concorsuale (se c’è una procedura, vale la regola di cui sopra) . L’idea del legislatore è evitare oneri sproporzionati per recuperare piccole somme: viene riconosciuto per legge che perseguire un credito minimo può essere antieconomico. Attenzione: ciò non esime completamente il contribuente dall’onere di documentare l’esistenza stessa del credito e la sua scadenza. In caso di controllo, andrà dimostrato che il credito era reale (es. fattura emessa, contratto) e che sono decorsi i 6 mesi senza pagamento . Occorre inoltre conservare traccia almeno di un sollecito formale (ad esempio una raccomandata AR o PEC al debitore) che attesti il tentativo di recupero . La circolare 26/E/2013 infatti suggerisce che, anche se non servono “rigorose prove formali” per i mini-crediti, è comunque necessario dimostrare che intraprendere azioni legali sarebbe stato antieconomico, confrontando i costi di un’eventuale procedura con l’importo da recuperare . Dimostrata tale antieconomicità, ai fini della deduzione basta provare di essersi attivati, ad esempio inviando almeno una lettera di sollecito .
- Crediti prescritti: se un credito è prescritto – ovvero è decorso il termine di legge entro il quale poteva essere legalmente preteso, senza che il creditore abbia agito – allora quel credito non ha più tutela giuridica e può considerarsi perso. La normativa (post 2012) considera la prescrizione un elemento certo e preciso di perdita deducibile. In pratica, nell’esercizio in cui il credito viene imputato a conto economico come perdita a seguito di intervenuta prescrizione, la deduzione è ammessa . Bisogna però fare attenzione: la prescrizione implica che il creditore non ha attivato azioni di recupero entro i termini. Se si tratta di piccole somme, ciò rientra nell’ordinaria gestione; se fossero somme ingenti, l’Amministrazione potrebbe valutare negativamente il comportamento del creditore che ha lasciato prescrivere il credito salvo poi dedurlo (potrebbe ipotizzare una rinuncia volontaria mascherata). La Cassazione ha chiarito che una rinuncia volontaria al credito non è equiparabile a una perdita da prescrizione ai fini fiscali . Cioè, non si può deliberatamente non riscuotere un credito (pur esigibile) e considerarlo perso come se fosse prescrittibile: serve sempre l’oggettività dell’evento prescrizione per legittimare la deduzione. Dunque, la prescrizione è una causa di deduzione se avvenuta naturalmente, ma non basta dire “ho rinunciato a incassare” per dedurre (torneremo su questo aspetto delle rinunce infra, parlando di remissione del debito).
- Cancellazione del credito dal bilancio in applicazione dei principi contabili: questa clausola (introdotta nel 2012) ha aperto la strada a un maggior allineamento tra principi contabili e regole fiscali. Significa che se un credito viene eliminato dallo stato patrimoniale perché un principio contabile applicabile lo richiede, allora gli elementi certi e precisi si considerano sussistenti. In sostanza, se secondo il corretto principio contabile (OIC nazionale o IFRS internazionale) un credito va derecognizzato (cancellato) – ad esempio perché ceduto trasferendo tutti i rischi, oppure perché oggetto di un accordo transattivo, o perché si verifica un evento che ne impone la cancellazione – allora la perdita risultante a conto economico è deducibile in quell’esercizio . Questo ha risolto molte incertezze: pensiamo agli IAS adopter (società IFRS) che già da anni applicano regole di impairment secondo logiche di expected loss. Ora la normativa italiana riconosce rilevanza fiscale alle risultanze contabili, dando fiducia al fatto che se un credito è stato cancellato in bilancio per ragioni contabili corrette, allora la perdita è effettiva. L’Agenzia Entrate con una risposta ad interpello del 2021 ha confermato che la scelta dell’esercizio in cui dedurre la perdita spetta all’impresa, con l’unico limite dell’anno in cui il credito è cancellato a bilancio secondo detti principi . Ciò è coerente con l’obiettivo di dare maggiore rilevanza fiscale alle risultanze contabili introdotto dalle riforme degli ultimi anni .
- Debitore assoggettato a procedure estere equivalenti o accordi di ristrutturazione omologati/piani attestati: questa in verità è un’estensione del primo caso (procedure concorsuali). L’art. 101 include esplicitamente, tra gli elementi certi e precisi, anche le procedure estere equivalenti (di insolvenza) e gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis L.F. omologati, nonché i piani attestati di risanamento ex art. 67 L.F. se iscritti al registro delle imprese . Sono situazioni in cui, pur non essendoci un fallimento in senso stretto, c’è comunque un riconoscimento formale della difficoltà del debitore tale da garantire che il credito in questione è in parte o totalmente irrecuperabile (a seconda dell’accordo). Ad esempio, se il creditore aderisce a un accordo di ristrutturazione in cui accetta uno stralcio del 40% del credito, quella parte può essere dedotta come perdita in quanto deriva da un accordo omologato (e dunque elemento certo della mancata riscossione di quella quota).
Oltre a queste ipotesi codificate, permane una clausola generale: la perdita è deducibile se esistono elementi certi e precisi ancorché diversi dai casi sopra elencati. Ciò può includere, come da prassi, situazioni come: irreperibilità del debitore, risultante ad esempio dal ritorno di una raccomandata con indirizzo sconosciuto e da vani tentativi di rintraccio ; esito negativo di un decreto ingiuntivo non opposto e non eseguito (magari per mancanza di beni pignorabili) con verbale di pignoramento negativo ; relazioni di società di recupero crediti o legali che attestano l’incapienza patrimoniale dopo le opportune ricerche . Insomma, ogni elemento documentale idoneo a provare che il credito non si riuscirà a incassare può rilevare. È chiaro che si richiede rigore probatorio crescente con l’aumentare dell’importo: per crediti rilevanti, il Fisco si aspetta di vedere veri tentativi di recupero (ingiunzioni, pignoramenti, investigazioni patrimoniali). Per importi modesti, come visto, è sufficiente dimostrare l’antieconomicità di azioni legali e qualche atto di messa in mora .
Riassumendo in tabella le principali condizioni di deducibilità delle perdite su crediti ai sensi dell’art. 101, comma 5 TUIR (stato dell’arte al 2025):
Situazione del credito/debitore | Deducibilità fiscale | Riferimenti |
---|---|---|
Debitore in procedura concorsuale (fallimento, concordato, ecc.) | Perdita deducibile. Anno di deduzione: nel periodo compreso tra l’apertura della procedura e l’esercizio di cancellazione del credito da bilancio (scelta del contribuente entro tale limite). | Art. 101, c.5 TUIR . Cass. ord. 27352/2023 conferma deducibilità nel momento in cui si ha certezza dell’insoddisfazione . |
Debitore con accordo di ristrutturazione omologato o piano attestato (artt. 182-bis e 67 L.F.) | Perdita deducibile in relazione alla quota di credito rinunciata nell’accordo/piano. | Art. 101, c.5 TUIR (come modificato da DL 83/2012) . |
Credito di modesta entità (< €2.500 o < €5.000 per banche) scaduto > 6 mesi (debitore non in procedura) | Perdita deducibile automaticamente nell’esercizio di imputazione a conto economico, senza necessità di provare ulteriori elementi (resta richiesto di documentare l’esistenza del credito e il mancato incasso). | Art. 101, c.5 e 5-bis TUIR . Soglie: €2.500 generalità imprese, €5.000 enti creditizi . |
Credito prescritto (decorso termine legale senza pagamento) | Perdita deducibile nell’esercizio in cui viene rilevata a CE dopo la prescrizione. (La prescrizione è considerata elemento certo ex lege, ma attenzione a non confondere con rinuncia volontaria). | Art. 101, c.5 TUIR (come mod. dal 2012). Interpretazione AE in Risposta Interpello 197/2019: la prescrizione in sé legittima la deduzione . Cass. n. 31611/2022: rinuncia volontaria ≠ prescrizione ai fini deducibilità . |
Debitore irreperibile/incapiente (no procedura) con evidenze di fatto (es. pignoramento negativo, irreperibilità accertata) | Perdita deducibile se il creditore fornisce elementi certi e precisi: esito infruttuoso di azioni esecutive, rapporto di recupero crediti negativo, ecc. Non è obbligatorio arrivare a sentenza di fallimento se vi sono altri elementi oggettivi sufficienti. | Art. 101, c.5 TUIR (clausola generale). Cass. n. 1147/2022: non serve necessariamente dichiarazione giudiziale d’insolvenza né esecuzione infruttuosa formale, basta prova che il credito è inesigibile . Circolare 26/E/2013: esempi di elementi probatori . |
Cessione pro-soluto del credito (a terzi) con perdita (es. venduto a prezzo inferiore al nominale) | Perdita deducibile caso per caso: l’Agenzia richiede che la cessione sia a valori di mercato, preferibilmente verso banche/intermediari finanziari indipendenti. Se cessione infragruppo, attenzione: esaminata con sospetto (possibile elusione). La perdita deve risultare “definitiva” (cessione senza garanzia di riacquisto) e preferibilmente inferiore ai costi che si sarebbero sostenuti per il recupero. | Circolare 26/E/2013: la perdita da cessione è deducibile se il credito è ceduto a intermediari finanziari indipendenti, no se ceduto ad una società collegata senza valide ragioni . Valutare i costi risparmiati col recupero . Cass. n. 2229/2022: cessione a prezzo vile non è perdita ma potrebbe essere considerata diversa operazione (orientamento su casi specifici). |
Transazione con il debitore in difficoltà (riduzione accordata del credito) | Perdita deducibile sulla parte di credito stralciata, se: (a) la transazione non avviene tra parti correlate dello stesso gruppo e (b) le difficoltà finanziarie del debitore sono documentate (es. prove di insolvenze verso terzi, domande di ristrutturazione presentate, ecc.). Se invece la transazione riguarda una contestazione sulla fornitura (es: merce difettosa, importo ridotto consensualmente), non è una perdita su crediti ma una sopravvenienza passiva (rettifica del ricavo). | Circolare 26/E/2013: distingue transazione sul corrispettivo (contestazione commerciale) – in tal caso la perdita su credito non sussiste, ma è un onere da trattare come sopravvenienza passiva – dalla transazione per difficoltà finanziarie: deducibile se debitore estraneo al gruppo e in stato di comprovata difficoltà . Cass. ord. 8445/2024: la scelta antieconomica di transigere a ribasso col cliente non rende indeducibile la perdita, se giustificata . |
Remissione del debito (rinuncia volontaria) da parte del creditore | In linea di principio deducibile solo se il credito è effettivamente inesigibile e la rinuncia risponde a un interesse economico dell’impresa, non a liberalità. In mancanza, la perdita è considerata non inerente (o liberalità) e dunque indeducibile. La normativa consente deducibilità se la rinuncia “non appare come una liberalità” , condizione verificata in presenza di debitore incapiente o con recupero antieconomico. Tuttavia, la Cassazione è rigida: la rinuncia non equivale a una perdita certa come la prescrizione, va provata la convenienza economica. Particolarmente rischiose le rinunce di crediti di elevato importo verso parti correlate (possono essere riqualificate come conferimenti o apporti). | Circolare 26/E/2013: la rinuncia genera perdita deducibile solo se inerente e non gratuita; l’inerenza è dimostrata da incapienza del debitore o convenienza a evitare spese di recupero sproporzionate . Se il credito è rilevante, la rinuncia è operazione “rischiosa dal punto di vista fiscale” . Cass. n. 31611/2022: la rinuncia volontaria non è parificabile alla prescrizione ai fini della deducibilità ; Cass. n. 11368/2023 (Sez. Trib.): rinuncia non supportata da alcuna valutazione economica non può essere dedotta (principio di oggettività delle condizioni). |
(Legenda: Laddove si cita “Cass.” seguita da numero/anno, trattasi di sentenze/ordinanze della Corte di Cassazione; per brevità sono indicate solo numero e anno; ove rilevante ne verrà descritto il principio di diritto nel testo.)
Art. 106 TUIR: fondo svalutazione crediti e imputazione delle perdite
Parliamo ora brevemente dell’art. 106 TUIR, che disciplina il fondo svalutazione crediti fiscalmente rilevante. La logica del legislatore è di consentire alle imprese una deduzione annua forfettaria a fronte del rischio di insolvenze future, ma con limiti per evitare abusi. In sintesi:
- Limite annuo 0,5%: È deducibile ogni anno una quota di accantonamento a fondo svalutazione crediti pari al 0,5% (mezzo punto percentuale) dell’ammontare dei crediti verso clienti risultanti in bilancio a fine esercizio . Questo 0,5% annuo può essere dedotto in dichiarazione dei redditi. Se civilisticamente l’impresa ha accantonato di più, dovrà fare una variazione in aumento (tassando l’eccedenza) . La misura è quindi piuttosto restrittiva (mezzo punto percentuale): ad esempio, su crediti commerciali per 1 milione di euro, si possono dedurre al massimo 5.000 euro di svalutazioni ogni anno.
- Limite massimo 5% cumulato: Il fondo svalutazione crediti fiscalmente riconosciuto non può superare complessivamente il 5% del valore nominale dei crediti in bilancio . Ciò significa che, anno dopo anno, si può dedurre lo 0,5% finché il fondo (al netto di utilizzi per perdite) non raggiunge il tetto del 5% dei crediti. Oltre quel limite, ulteriori accantonamenti non sono deducibili e vanno sterilizzati fiscalmente.
- Utilizzo del fondo in caso di perdita: Quando poi si verifica una perdita effettiva su uno o più crediti, la prima cosa da fare è imputarla al fondo esistente. Fiscalmente, ciò significa che la parte coperta dal fondo non genera un nuovo costo deducibile nell’anno, perché la deduzione è avvenuta negli anni precedenti via accantonamenti. Solo l’eventuale eccedenza della perdita rispetto al fondo costituisce deduzione nell’esercizio . Esempio: credito di €100.000, il fondo aveva accumulato €4.000 riferibili a quel credito; se il credito diventa perdita definitiva e si cancella, €4.000 sono coperti dal fondo (nessun effetto fiscale nell’anno, perché già dedotti negli accantonamenti passati) e i restanti €96.000 sono deducibili come perdita nell’anno di realizzo. La norma (art. 106 co.3 e 5 TUIR) e la prassi impongono proprio questo calcolo per evitare duplicazioni di deduzione : non si può dedurre due volte lo stesso importo, prima come svalutazione e poi come perdita. Dunque il sistema è coordinato: in fase di perdita effettiva, il componente negativo fiscalmente rilevante è pari alla differenza tra valore nominale del credito e l’importo delle svalutazioni già dedotte in passato .
- Svalutazioni non dedotte fiscalmente: se invece un’impresa, civilisticamente prudente, aveva svalutato un credito ma non aveva potuto dedurre quella svalutazione (perché eccedente i limiti, quindi ripresa a tassazione), allora quando il credito diventa perdita potrà dedurre l’intero importo della perdita, non dovendo scomputare le svalutazioni non riconosciute prima . Solo le svalutazioni effettivamente dedotte in precedenza vanno scalate dal valore nominale per determinare la perdita deducibile .
In pratica, l’art. 106 TUIR impone un differimento delle deduzioni per perdite future entro certe percentuali. Questa disciplina è particolarmente rilevante per le banche e finanziarie (che hanno grandi portafogli crediti) e anche per le imprese con molti crediti commerciali. Notiamo che nel 2015 c’è stata una svolta per banche/assicurazioni con l’adozione integrale dei principi IFRS: per costoro oggi le svalutazioni su crediti sono deducibili integralmente in base ai nuovi principi contabili internazionali (IFRS 9), salvo meccanismi di transizione. Mentre per i soggetti IAS non finanziari e i soggetti OIC, resta l’impianto classico sopra descritto.
Novità Legge di Bilancio 2025: Vale la pena menzionare, per un quadro aggiornato, che la Legge di Bilancio 2025 ha introdotto una misura di “contributo” dal settore finanziario consistente in un temporaneo differimento delle deduzioni delle quote di svalutazioni e perdite su crediti convertite in attività per imposte anticipate (DTA) . In pratica, per banche e assicurazioni si è posticipata parte della deducibilità delle perdite su crediti riferibili a DTA, per ottenere un gettito aggiuntivo nel biennio 2025-2026 (stimato €3,4 miliardi) . Ciò rende il quadro più restrittivo in tali anni per quei soggetti, aumentando temporaneamente il carico fiscale e impattando la loro liquidità e capacità di erogare credito . Questa misura settoriale conferma come la disciplina delle perdite su crediti sia stata oggetto di frequenti interventi normativi negli ultimi anni (ricordiamo il D.Lgs. 147/2015, c.d. “decreto internazionalizzazione”, che ha riformato l’art. 101 comma 5, e le leggi di bilancio successive) . L’obiettivo di lungo periodo dichiarato è di garantire maggiore certezza del diritto e semplificazione, bilanciando l’esigenza delle imprese di dedurre le perdite reali con quella dell’Erario di evitare abusi . Permangono comunque alcune questioni interpretative aperte, ad esempio sul periodo di competenza (Cassazione vs Agenzia, come visto) e sui confini tra errori di valutazione e infedeltà dichiarativa (tema rilevante anche penalmente, che toccheremo più avanti) .
Riepilogo normativo
In sintesi, la normativa fiscale italiana consente la deduzione delle perdite su crediti in due grandi casi: insolvenza conclamata (procedure) o evidenze oggettive di inesigibilità (elementi certi e precisi), includendo in quest’ultimo alveo alcune ipotesi semplificate come piccoli crediti scaduti e crediti prescritti. Le svalutazioni dei crediti sono deducibili entro limiti forfettari (0,5% annuo, fino al 5%), mentre le perdite effettive vanno imputate a tali fondi per evitare doppie deduzioni.
Questa impostazione mira a evitare che i contribuenti anticipino eccessivamente costi su crediti forse recuperabili, ma al contempo a permettere loro di dedurre ciò che effettivamente non incasseranno. Naturalmente, questa area “grigia” tra crediti probabilmente non esigibili e crediti definitivamente persi genera contenzioso, perché l’Agenzia delle Entrate può avere una visione più rigorosa o sospettosa sulle situazioni in cui la perdita è dedotta e il credito potrebbe (dal loro punto di vista) essere ancora recuperato, oppure quando temono che dietro vi sia un intento evasivo.
Nel prossimo capitolo vedremo proprio come nascono le contestazioni fiscali su questo tema, quali sono le motivazioni addotte dall’amministrazione finanziaria e come il contribuente può controbattere, anche alla luce della recente giurisprudenza.
Contestazioni fiscali sulle svalutazioni/perdite crediti: motivi e difesa del contribuente
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate in materia di perdite su crediti vertono tipicamente su due macro-profili:
- Contestazioni sul merito della perdita: L’ufficio sostiene che mancavano i presupposti per dedurre la perdita, ovvero che gli elementi certi e precisi non fossero sufficienti. In altre parole, il credito non sarebbe “definitivamente perso” e dunque la deduzione è stata prematura o indebita. Questa è la situazione più comune in sede di verifica fiscale: il contribuente ha dedotto una perdita su credito e il verificatore ritiene che si dovesse aspettare, o che bisognava fare di più per tentare il recupero, o addirittura che il debitore fosse solvibile. Rientrano qui anche i casi di perdite intragruppo o per rinuncia volontaria, dove il fisco sospetta che la ragione della perdita sia una scelta dell’imprenditore e non una reale inesigibilità.
- Contestazioni sulla natura “inesistente” del credito o della perdita: Sono ipotesi più gravi, in cui l’amministrazione insinua (o accerta) che il credito dedotto a perdita fosse in realtà fittizio, inesistente appunto. Ad esempio: utilizzo di fatture false per creare crediti inesigibili ad arte; crediti artificialmente gonfiati per poi dedurre perdite maggiori; duplicazione di perdite su crediti già dedotti tramite manovre contabili. In questi casi non si discute solo se la perdita fosse o meno certa, ma se il credito esisteva realmente e se la perdita non celi un’evasione fraudolenta. Tali contestazioni spesso sconfinano nel penale (dichiarazione fraudolenta ecc., vedi sezione successiva).
Va detto che la stragrande maggioranza delle controversie tributarie su questo tema rientra nel primo caso, ovvero disaccordo sul se e quando dedurre la perdita. Esamineremo dunque prima le difese in queste circostanze, per poi dire qualcosa sui casi di crediti realmente inesistenti (frode).
Contestazioni “ordinarie”: mancanza di elementi certi e precisi
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta la deduzione di una perdita su crediti, in genere nell’avviso di accertamento (preceduto da un PVC – processo verbale di constatazione – in caso di verifica) si legge che “non risultano soddisfatti i requisiti di certezza e precisione richiesti dall’art. 101 TUIR”. Vediamo quali sono le situazioni tipiche all’origine di tali affermazioni e come contro-argomentare:
- Mancata attivazione del creditore: Spesso il Fisco eccepisce che il creditore non avrebbe fatto abbastanza per recuperare il credito (ad esempio, non ha promosso nessuna azione legale, non ha chiesto un decreto ingiuntivo, non ha esperito pignoramenti). Questa critica era frequente in passato, ma la giurisprudenza degli ultimi anni l’ha ridimensionata. In particolare, la Cassazione ha affermato che non è necessario esperire un’azione giudiziale per dichiarare inesigibile un credito, né tantomeno ottenere una formale dichiarazione d’insolvenza del debitore, se il creditore riesce a dimostrare con altre evidenze l’impossibilità di recupero . Inoltre, imporre di intraprendere azioni palesemente antieconomiche (costi elevati per recuperare somme esigue o soggetto nullatenente) non è ragionevole. Difesa: il contribuente deve documentare di essersi attivato in modo proporzionato: esibire le lettere di sollecito inviate, eventuali solleciti telefonici/email annotati, spiegare perché magari non ha intrapreso azioni legali (ad esempio allegando un prospetto costi-benefici o una nota del legale in cui si sconsigliava l’azione per mancanza di beni aggredibili). Può citare a supporto la Circ. 26/E/2013 stessa, laddove riconosce che per crediti modesti non si richiede di esperire costose procedure e basta comprovare l’antieconomicità del recupero . Se il credito non è proprio modesto ma nemmeno enorme e ci sono elementi sulla difficoltà del debitore (es. risulta protestato, ha chiuso l’attività, ecc.), presentare tali elementi. In giudizio è utile citare le pronunce di Cassazione: p.es. Cass. 1147/2022 ha escluso che sia sempre necessario un’azione esecutiva infruttuosa; contano i fatti che fanno emergere l’irrecuperabilità . Un supporto può venire anche da Cass. 8445/2024, dove la Corte ha confermato che anche una transazione anti-economica può essere accettabile – segno che la valutazione dell’imprenditore di non perseguire oltre un credito può essere rispettata se ha motivazioni razionali .
- Tempistica di deduzione errata (perdita imputata nell’anno sbagliato): Un altro rilievo ricorrente è: “la perdita andava dedotta in un esercizio diverso”. Ad esempio, il Fisco può sostenere che gli elementi certi e precisi fossero già presenti in un anno precedente a quello in cui il contribuente ha dedotto la perdita (implicando che dedurla dopo è fuori tempo), oppure che la perdita è stata anticipata mentre si sarebbe dovuto attendere l’anno successivo. Questo è un punto delicato, perché dedurre un costo nell’anno sbagliato può comportare un diniego nel merito (se ormai il termine di decadenza per dedurlo è trascorso) oppure comunque una contestazione (errata competenza). Caso tipico: il debitore fallisce nel 2023 ma l’azienda deduce la perdita nel 2024, anno in cui cancella il credito dal bilancio; la Cassazione tradizionalmente diceva che la perdita era di competenza 2023 (momento in cui si è avuta certezza giuridica dell’insolvenza) . Tuttavia, come visto, la prassi recente dell’Agenzia è più flessibile, consentendo al contribuente di scegliere purché entro l’anno di cancellazione . Se il Fisco locale seguisse pedissequamente l’orientamento Cassazione, contesterebbe il 2024 in questo esempio. Difesa: richiamare la Risposta a interpello n. 342/2021 (citata anche in dottrina) in cui l’Agenzia afferma che la scelta dell’esercizio di deduzione spetta al contribuente entro il limite temporale della cancellazione . Ciò evidenzia un indirizzo ufficiale favorevole che il giudice tributario può tenere in conto. Inoltre, l’art. 101 comma 5 TUIR, dopo le modifiche, fa riferimento proprio all’imputazione a conto economico in base ai principi contabili corretti come condizione per dedurre, il che giustifica la deduzione nell’anno di cancellazione a bilancio anche se l’elemento certo si era manifestato prima . In casi simili, conviene comunque prospettare al giudice che, quand’anche ritenesse sbagliato l’anno, il costo non è mai stato dedotto altrove, quindi non vi è volontà evasiva ma solo un disallineamento di competenza eventualmente sanabile (magari tramite dichiarazione integrativa a favore se aperta). Questa argomentazione serve quantomeno a evitare le sanzioni, invocando l’obiettiva incertezza normativa o l’errore scusabile su un punto dibattuto (specialmente prima della L. 130/2022, le divergenze giurisprudenza/Agenzia creavano confusione).
- Credito verso soggetto correlato (socio/consociata): L’Agenzia è spesso sospettosa quando la perdita su crediti riguarda rapporti infragruppo o con soci/amministratori. In tali casi temono che la perdita celi un’utilità indiretta, ad esempio un finanziamento soci non restituito (quindi in realtà un apporto di capitale) o un aiuto infragruppo (quindi non un costo d’esercizio). Ad esempio, se la società Alfa detiene un credito verso la controllata Beta, e decide di rinunciarvi perché Beta è in difficoltà, il Fisco potrebbe negare la deduzione ad Alfa affermando che trattasi di un atto di liberalità o di patrimonializzazione di Beta, non di una perdita inerente all’attività d’impresa. Difesa: questo è un terreno minato, ma ci sono possibili giustificazioni: se Beta è realmente insolvente (patrimonio netto negativo, perdite continue) si può sostenere che la rinuncia di Alfa fosse necessitata per evitare il fallimento di Beta e, ad esempio, salvaguardare la propria immagine commerciale o limitare perdite maggiori (come crediti indiretti, garanzie prestate, ecc.). Bisogna enfatizzare la convenienza economica della scelta: rinunciando al credito, Alfa ha evitato spese legali inutili e forse ha preservato un cliente/fornitore (se Beta poi si risana). La circolare 26/E permette la deduzione se la rinuncia è inerente e non una liberalità ; quindi presentare analisi economiche, verbali del CdA di Alfa in cui si delibera la rinuncia motivandola con ragioni di affari (ad esempio, ristrutturazione del gruppo). Va però segnalato che la Cassazione è molto severa: ad es. la sent. n. 11368/2023 ha negato deducibilità a una rinuncia del credito da parte di una società verso la propria controllata perché non c’era prova di effettiva necessità economica; i giudici hanno ribadito che conta l’oggettività delle condizioni (tipo insolvenza conclamata) e non la discrezionalità dell’imprenditore. Quindi in assenza di una procedura concorsuale di Beta, il rischio di perdere è alto. Si potrà puntare magari su un accordo di ristrutturazione omologato (se Alfa e Beta l’hanno attivato) perché quello rientra nella previsione legale di deducibilità. Se la rinuncia era parziale e contestuale a un piano di risanamento, sottolineare questo aspetto. In giudizio, spesso queste diventano questioni di fatto: occorrerà convincere i giudici che senza quella rinuncia Beta sarebbe fallita comunque, quindi Alfa ha solo anticipato l’inevitabile perdita (che in fallimento sarebbe deducibile) e l’ha fatto per ragioni di gruppo. Una cautela per il futuro: in situazioni del genere, anziché rinunciare informalmente al credito, meglio formalizzare un accordo transattivo con la controllata magari subordinato a un piano attestato di risanamento, così la deduzione è più difendibile.
- Operazione simulata o artificiosa: Se l’ufficio intravede possibili condotte elusive, può contestare che l’operazione è volta unicamente a generare una deduzione. Esempio: una società cede crediti a una consociata estera a prezzo simbolico così da far emergere perdite; oppure emette note di credito stornando fatture per far risultare perdite. Un caso concreto discusso in Cassazione (ord. 37174/2021) riguardava l’emissione di note di credito per annullare crediti e dedurre perdite: la Corte ha detto che se un credito è estinto tramite nota di credito, per dedurre la perdita il contribuente deve spiegare il perché di tale emissione , altrimenti appare come un atto unilaterale arbitrario. Difesa: in questi casi, serve dimostrare la sostanza economica dell’operazione. Se note di credito sono state emesse, ad esempio, perché il cliente contestava la fornitura per vizi e si è raggiunto un accordo su uno sconto, allora in realtà non è una perdita su crediti, come rilevato, ma una riduzione di ricavo (sopravvenienza passiva): andrà spiegato che per un principio di competenza la nota di credito corregge un ricavo di periodo precedente, e se l’Agenzia contesta la deduzione come perdita su crediti indeducibile, si può eccepire che erroneamente ha qualificato l’operazione, che invece va trattata come componente negativo deducibile ex art. 101 co.1 (sopravvenienze) se relativo a ricavi di esercizi precedenti. In generale, di fronte ad accuse di abuso del diritto o simili (ex art. 10-bis L.212/2000), il contribuente deve evidenziare le ragioni extrafiscali dell’operazione: ad esempio, la cessione di crediti a basso prezzo a una società collegata poteva avere l’obiettivo di centralizzare la gestione crediti in capo a un soggetto specializzato, di liberare la cedente dai rischi per concentrarsi sul core business, ecc., non il solo risparmio d’imposta. Se si prova una valida ragione economica, l’operazione non è considerata abusiva anche se comporta un risparmio fiscale. L’esito tuttavia dipende molto dalle prove fornite e dalla credibilità di tali ragioni.
- Duplicazione della deduzione (fondo vs perdita): L’ufficio potrebbe contestare che il contribuente ha dedotto due volte la stessa perdita, una volta attraverso il fondo svalutazione e una volta come perdita finale. Ad esempio, magari per disattenzione l’azienda ha dedotto gli accantonamenti al fondo e poi, quando il credito è fallito, ha dedotto l’intero importo nominale senza considerare di riprendere il fondo. Difesa: se ciò è avvenuto, l’Agenzia ha ragione dal punto di vista fiscale – la seconda deduzione non spetta. Tuttavia, spesso è un errore tecnico emendabile e non un tentativo di evasione: in simili situazioni conviene riconoscere l’errore (se documentato) e magari ricorrere per ottenere il riconoscimento della non applicazione di sanzioni, trattandosi di questione complessa contabile. Se invece l’azienda ha correttamente operato ma l’ufficio non ne ha tenuto conto, bisogna illustrarlo chiaramente (magari l’ufficio ha visto la perdita in conto economico ma non ha considerato che in dichiarazione il contribuente aveva già incluso a tassazione la quota eccedente, ecc.). Una contabilità chiara e allegati esplicativi possono risolvere il malinteso. In giudizio, aiutano le massime di Cassazione su questo tema: Cass. 34483/2021 ha spiegato bene che il sistema evita la doppia deduzione e che una svalutazione integrale non genera indebito vantaggio, perché toglie futuro spazio di perdita . Mostrare che si è rispettato tale principio è decisivo per vincere la contestazione.
In generale, per difendersi nelle contestazioni fiscali sulle perdite su crediti, occorre fornire più prove possibili a sostegno dell’inesigibilità del credito e inquadrare giuridicamente la situazione nel corretto alveo normativo. La posizione dell’Agenzia sarà di rigore: spesso negli atti di accertamento viene ribadito il concetto che l’onere della prova spetta al contribuente (ex art. 2697 c.c.) e che, se egli deduce un componente negativo (la perdita), deve provarne i presupposti. Questa impostazione è stata recentemente confermata anche dopo la riforma del contenzioso del 2022: nonostante l’introduzione dell’art. 7, c.5-bis, D.Lgs. 546/92 che impone all’ufficio di provare in giudizio le proprie pretese, ciò non significa affatto che l’onere probatorio del contribuente venga meno . Una sentenza del 2024 (Corte Giust. Trib. Abruzzo n. 1/2024) ha chiarito che la novità processuale non sposta il regime ordinario: è sempre chi deduce costi a dover provare i fatti che ne costituiscono il fondamento . Pertanto, il taxpayer deve arrivare preparato con documenti, testimonianze, conteggi, per convincere i giudici che il credito era inesigibile e che la condotta è stata corretta.
Documenti chiave da esibire in difesa: contratti e fatture originarie (per provare l’esistenza del credito), estratti conto per mostrare il mancato incasso, eventuali solleciti di pagamento inviati, pec e raccomandate non recapitate o rimaste senza esito, eventuali ricorsi per decreto ingiuntivo e decreti ottenuti (anche se non eseguiti), verbali di pignoramento negativo se disponibili, visure camerali del debitore (per vedere se ha cessato attività o è in liquidazione), bilanci del debitore se pubblici (che mostrino magari perdite e patrimonio netto negativo), eventuali informazioni da banche dati (protesti, pregiudizievoli su immobili), corrispondenza e mail dove il debitore magari ammette le difficoltà, relazione di società di recupero crediti ingaggiata e poi ritiratasi per inutilità, ecc. Più un credito è grande, più questo fascicolo documentale dev’essere ricco. Per crediti piccoli, basteranno fattura, sollecito, estratto contabile e un prospetto costi/benefici se pertinente.
Una buona strategia è anche citare precedenti giurisprudenziali di merito (sentenze di Commissioni Tributarie) se favorevoli in casi analoghi, perché i giudici tributari tendono ad essere più persuasi da esempi concreti. Ad esempio, se esiste una sentenza della CTR che ha riconosciuto una perdita su crediti per irreperibilità sulla base di indagini analoghe a quelle svolte dal contribuente, allegarla.
Infine, ricordiamo che è opportuno sin dal Processo Verbale di Constatazione (PVC) interloquire: il contribuente ha 60 giorni per presentare osservazioni e richieste prima che l’accertamento venga emesso. In quelle memorie può già produrre prove e spiegazioni, cercando di convincere l’ufficio a desistere o almeno a rimodulare la contestazione. Anche se spesso le osservazioni non fermano l’accertamento, è importante presentarle perché denotano buona fede e collaborazione, e poi potranno essere richiamate nel successivo ricorso (mostrando che il contribuente aveva già fornito chiarimenti ignorati dall’ufficio).
Contestazioni relative a crediti “inesistenti” (profili fraudolenti)
Quando si parla di crediti inesistenti in senso stretto, entriamo in un ambito più grave, di solito oggetto di verifiche dalla Guardia di Finanza e successiva segnalazione penale. Può accadere che l’Agenzia delle Entrate, a fronte di perdite su crediti anomale, sospetti che i crediti in questione non siano reali. Un esempio classico è l’utilizzo di false fatture: l’azienda registra una fattura attiva (magari verso una società cartiera o compiacente) per €100.000, così gonfia i ricavi, poi l’anno seguente cancella quel credito come inesigibile deducendo €100.000 di perdita. Questa manovra potrebbe servire a spostare utili da un anno all’altro o a compensare costi fittizi altrove. Oppure pensiamo ai casi di frode carosello: un’azienda fornisce beni a un soggetto che fa da filtro, il quale non paga; il credito viene dedotto, ma in realtà i beni sono finiti ad altro soggetto nel circuito. In situazioni simili, le contestazioni fiscali spesso qualificano tali crediti come “inesistenti” e disconoscono le perdite correlate. Inoltre, viene comminata la sanzione per dichiarazione infedele con maggior gravità quando si tratta di elementi fittizi. Ricordiamo infatti che l’inesistenza del credito comporta, in ambito sanzionatorio amministrativo, l’applicazione di termini più lunghi e sanzioni più alte, ad esempio in materia di crediti d’imposta in compensazione (l’atto di recupero può essere emesso entro 8 anni per crediti inesistenti, anziché 5 per quelli solo non spettanti , e la sanzione base è del 100% – poi ridotta al 90% – dell’importo, rispetto al 30% per crediti non spettanti) . Questi concetti (credito non spettante vs inesistente) derivano da una definizione ormai codificata: un credito di imposta inesistente è quello privo del presupposto costitutivo, creato ad arte con documenti falsi o mezzi fraudolenti, mentre non spettante è un credito esistente ma utilizzato oltre i limiti o senza i requisiti .
Nel contesto delle perdite su crediti commerciali, l’analogo sarebbe: un credito non spettante non è una categoria applicabile (il concetto di spettanza si usa per crediti d’imposta), ma potremmo dire che un credito effettivo ma la cui perdita non era deducibile al momento è un “costo non spettante” (indebitamente dedotto, ma non inventato), mentre un credito inesistente è appunto un “costo inesistente” (inventato di sana pianta). Questa distinzione è importante anche penalmente (vedi infra).
Difendersi da un’accusa di aver dedotto perdite su crediti inesistenti è complesso, poiché implica smentire un sospetto di frode. Se il contribuente è in buona fede e il credito esisteva, semplicemente ci sono contestazioni sul merito, allora si tratta del caso ordinario discusso prima. Ma se viene formalmente contestata l’inesistenza (es. nell’accertamento si parla di fatture per operazioni inesistenti a monte del credito, o di frode), la questione diventa mista fiscale-penale.
In tale scenario, il contribuente dovrà provare la realtà del credito: presentare il contratto, la corrispondenza commerciale, prove della consegna di beni o servizi sottostanti, eventuali parziali pagamenti ricevuti, insomma qualunque elemento che attesti che non si tratta di una partita fittizia. Purtroppo, in contesti di frode organizzata, spesso questi elementi reali mancano o sono forgiati anch’essi. Qui l’intervento difensivo richiede spesso perizie e ricostruzioni fattuali (es: dimostrare che la merce è stata consegnata davvero tramite DDT, foto, testimonianze di autisti, ecc.). Se si riesce a convincere che l’operazione sottostante era reale, allora la contestazione rientra nel tipo “ordinario” (perdita forse prematura ma non fittizia).
Un elemento fondamentale a vantaggio del contribuente onesto è la differenza concettuale introdotta dal D.Lgs. 158/2015 a livello penale (con riflessi sul giudizio tributario): gli errori di valutazione su elementi reali non integrano comportamento fraudolento. L’art. 4 del D.Lgs. 74/2000 (dichiarazione infedele) esclude la punibilità penale nei casi di valutazioni di elementi attivi/passivi esistenti o di errori sulla competenza . Questo principio può riverberarsi nel giudizio tributario ai fini sanzionatori amministrativi (non per eliminare la pretesa tributaria, ma per valutare la buona fede). Quindi, se la perdita su crediti è contestata ma deriva da un credito reale, il contribuente deve insistere sul fatto che non c’è stata alcuna volontà di evasione fraudolenta, al più un diverso apprezzamento di quando dedurla. Può chiedere in subordine l’applicazione dell’art. 6, c.2 del D.Lgs. 472/97 (esonero da sanzioni se il fatto è dovuto a obiettive condizioni di incertezza).
Ben più difficile è difendersi se davvero il credito era fittizio. In sede tributaria, se l’ufficio dimostra (ad esempio tramite indizi gravi e concordanti) che le fatture erano false o le operazioni simulate, difficilmente la Commissione potrà dare ragione al contribuente. In tali casi, la linea difensiva può essere attaccare la procedura seguita: ad esempio, eccepire che l’accertamento è nullo se fondato esclusivamente su un processo verbale di constatazione senza sufficienti prove, oppure contestare l’utilizzo di presunzioni senza contraddittorio, ecc. Ma è un approccio tecnico che raramente regge se la sostanza è fraudolenta (anche perché spesso c’è un parallelo procedimento penale da cui emergono elementi concreti).
Dunque, per sintetizzare: la miglior difesa è la prevenzione. Chi vuole dedurre perdite su crediti deve evitare qualsiasi zona d’ombra che possa far sembrare il credito inesistente. Ciò significa: tenere la contabilità ordinata, documentare bene le operazioni, non utilizzare artifici per creare crediti a tavolino. Ad esempio, se un’azienda desidera contabilmente pulire vecchi crediti incagliati con soggetti noti (magari soci o dipendenti), deve farlo con atti trasparenti e motivati, non con finte vendite e note di credito. Il ricorso a consulenti esperti e magari un confronto preventivo con l’Agenzia tramite istanze di interpello può scongiurare errori.
Nella prossima sezione parleremo più in dettaglio dei profili penali e sanzionatori connessi a queste condotte, così da comprendere appieno i rischi e le strategie di difesa, specie quando le contestazioni fiscali degenerano in contestazioni penali.
Profili sanzionatori e penali: infedele dichiarazione, frode e indebite compensazioni
La deduzione indebita di perdite su crediti può comportare, oltre al recupero a tassazione dell’imposta evasa, anche sanzioni amministrative e, nei casi più gravi, implicazioni penali per il contribuente (tipicamente l’amministratore o il legale rappresentante, nel caso di società). È importante delineare questi profili per comprendere appieno cosa rischia il contribuente e come eventualmente difendersi anche sul piano penale.
Sanzioni amministrative tributarie
Sul piano amministrativo, la normativa sanzionatoria è contenuta nel D.Lgs. 471/1997 e successive modifiche. Dedurre un costo non spettante (come una perdita su crediti indebitamente) equivale a presentare una dichiarazione infedele dal punto di vista fiscale. La sanzione base per dichiarazione infedele, a seguito della riforma del 2015, è pari al 90% della maggiore imposta dovuta o della differenza di credito utilizzato, riducibile in caso di adesione o conciliazione. In passato era 100% – 200%, ma ora 90% è la misura ordinaria (e può arrivare a 180% in circostanze aggravate, ad esempio se l’imponibile evaso supera il 10% del dichiarato).
Nello specifico, l’art. 1, comma 2 D.Lgs. 471/97 prevede la sanzione del 90% dell’imposta per chiunque indichi elementi passivi fittizi o ometta elementi attivi in dichiarazione. Se però dall’infedeltà non deriva una imposta evasa (ad esempio perché l’azienda era in perdita fiscale comunque), potrebbe applicarsi una sanzione fissa per dichiarazione infedele “senza imposta dovuta” (sanzione residua).
Importante: se la violazione riguarda l’utilizzo in compensazione di un credito inesistente (ad es. un credito d’imposta), la sanzione è specifica: 100% (ora 90%) dell’importo compensato indebitamente , e l’atto è il “atto di recupero” (che segue regole proprie, come detto). Ma se parliamo di una perdita su crediti, non è un credito d’imposta compensato, bensì un costo dedotto; quindi la sanzione rientra nell’alveo generale della dichiarazione infedele.
Il contribuente che subisce un accertamento per perdita su crediti indeducibile vedrà dunque contestata l’IVA eventualmente detratta (se la perdita comportava anche una nota di variazione IVA non spettante) e/o le imposte sui redditi non pagate, più interessi e sanzione 90%. Questa sanzione può essere ridotta:
- Se il contribuente definisce per adesione l’accertamento (accertamento con adesione prima del ricorso) la sanzione si riduce ad 1/3, quindi dal 90% al 30% circa.
- Se fa ricorso ma poi aderisce a una conciliazione giudiziale o viene emanata una sentenza con riduzione sanzioni, può scendere ulteriormente (anche al 20% se conciliazione entro il primo grado).
- Se il contribuente ha fatto ravvedimento operoso prima di essere contestato (ipotesi magari in cui ci si accorge dell’errore e si presenta dichiarazione integrativa), la sanzione ridotta dipenderà dal tempo (ad es. se entro un anno, riduzione a 1/8 del minimo, quindi circa 11,25%).
- C’è poi l’esimente delle condizioni obiettive di incertezza: se la norma era poco chiara e il contribuente ha interpretato in buona fede, può chiedere al giudice l’annullamento totale della sanzione (art. 6, c.2 D.Lgs. 472/97). Nel contesto perdite su crediti, non è facile ottenerla perché la norma è tutto sommato dettagliata; però, come detto, su alcuni aspetti (tempistica deduzione, valutazioni soggettive) si potrebbe invocare.
Nei casi di crediti inesistenti in compensazione, la sanzione è più alta (era 100-200%, poi ridotta a 90-180% recentemente, con base 90%). E la norma (art. 13 D.Lgs. 471/97) prevede sanzioni differenti per “non spettante” (30%) vs “inesistente” (appunto 90%). Queste differenze sono state al centro di interventi normativi recenti, con definizioni più precise dal 2024, ma come detto riguardano compensazioni di crediti d’imposta (es. bonus fiscali).
In un accertamento su perdite su crediti, di solito la sanzione contestata è appunto quella del 90% per infedele. Se però l’ufficio ritiene di essere in presenza di frode fiscale (es. false fatture), allora potrebbe contestare anche la sanzione accessoria del 200% sulle fatture per operazioni inesistenti (art. 1, c.2-bis D.Lgs. 471/97), ma questo tende a sommarsi poi al procedimento penale.
Difesa in ambito sanzionatorio amministrativo: Il contribuente, nel ricorso tributario, deve impugnare anche le sanzioni (che oggi sono parte integrante dell’atto). Può chiedere l’annullamento totale se prova la propria buona fede o la mancanza di colpa grave, oppure almeno la riduzione. Ad esempio, se la questione era dibattuta (lo sfasamento di competenza, la valutazione di convenienza, ecc.), può allegare magari documenti (circolari di associazioni di categoria, pareri pro-veritate) che mostrano come la sua interpretazione fosse plausibile. Oppure, può far rilevare che il comportamento è stato coerente col bilancio (quindi trasparente, non nascosto), e citare l’art. 6 comma 2 menzionato. I giudici tributari talvolta annullano le sanzioni per incertezza sul punto di diritto, specie se esiste una difformità di vedute tra Cassazione e Agenzia (come sul timing, in passato). Anche l’aver seguito una prassi o una consulenza qualificata può essere elemento a discarico.
Profili penali tributari
Passiamo ora ai possibili reati tributari correlati alla deduzione di svalutazioni o perdite su crediti inesistenti. I reati sono previsti nel D.Lgs. 74/2000. Le fattispecie che possono venire in rilievo sono essenzialmente:
- Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): si configura quando un contribuente indica in dichiarazione elementi passivi fittizi o omette elementi attivi, in modo da evadere imposta oltre determinate soglie. Applicata al nostro caso: se la perdita su crediti dedotta indebitamente ha comportato una riduzione dell’imposta dovuta sopra la soglia di punibilità, si rientra nell’art. 4. Le soglie attualmente vigenti (modifica 2020) sono: imposta evasa > €100.000 e elementi attivi sottratti > 10% del totale o > €2.000.000 . Nel caso di un costo fittizio, la “sottrazione di elementi attivi” equivale all’incremento di elementi passivi, ma la norma equipara le due cose. Quindi, ad esempio, se un’azienda deduce €5 milioni di perdite inesistenti riducendo l’utile di 50%, ed evade IRES per €120.000, c’è superamento soglie sia in imposta che in valore => dichiarazione infedele. La pena per l’art. 4, a seguito delle modifiche del 2015, è la reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi . Da evidenziare: l’art. 4 punisce sia chi consapevolmente indica costi non veri, sia chi cade in errore interpretativo grave, ma non punisce chi fa errori di valutazione di elementi comunque esistenti . Infatti fu introdotto il comma 1-bis che esclude il reato in caso di valutazioni discordanti di elementi esistenti (es: competenza, inerenza, importo stimato) . Perciò, se la perdita su crediti riguarda crediti reali e la discussione è sulla deducibilità, l’imprenditore non dovrebbe essere punibile ex art. 4 in forza di questa clausola di non punibilità. Viceversa, se i crediti erano inesistenti (fittizi), allora non è un errore valutativo ma un elemento passivo inesistente -> potenzialmente reato. Da notare: l’art. 4 distingue infedele vs fraudolenta in base all’uso di mezzi fraudolenti. Se uno indica un costo inesistente ma senza documenti falsi a supporto (es: scrive di aver perso un credito mai esistito, ma non c’è fattura perché magari era autore fattura attiva falsa?), in realtà di solito per creare un credito fittizio ci sarà stata una fattura fittizia a monte, o una scrittura artefatta. Se proprio non c’è alcun documento falso, allora è mera infedeltà cosciente; se invece ci sono documenti falsi, entriamo nell’art. 3 (dichiarazione fraudolenta mediante artifici).
- Dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000): L’art. 2 punisce chi, al fine di evadere, si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; l’art. 3 punisce chi attua altri artifici fraudolenti (conti fittizi, operazioni simulate, ecc.) per evadere. Nel nostro tema: se la perdita su crediti inesistenti è stata costruita con l’uso di false fatture (ad esempio fatture attive false per generare crediti, o passive false per gonfiare costi, etc.), allora può configurarsi la dichiarazione fraudolenta art. 2 (che ha pena più grave, reclusione 4 a 8 anni attualmente, senza soglie di rilevanza per l’ammontare delle fatture fittizie, solo imposta evasa > 30k euro) – oppure art. 3 se la frode è con altri mezzi (es: registri doppi, società schermo). C’è però da riflettere: l’art. 2 di solito riguarda false fatture passive (costi fittizi) o anche fatture attive false? Di norma, se uno emette una fattura attiva fittizia, quell’atto non è reato di per sé (non esiste il simmetrico di art. 2 sul fronte attivo), ma se lo scopo è generare poi una perdita dedotta, quell’operazione nel suo complesso è un artificio fraudolento. Probabilmente verrebbe contestato l’art. 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) per avere simulatato un’operazione di credito e relativa perdita. L’art. 3 richiede però un imposta evasa > 30.000 € e pena da 3 a 8 anni. In ogni caso, se si arriva a configurare la frode, è un reato più grave dell’infedele.
- Indebita compensazione (art. 10-quater D.Lgs. 74/2000): Questo reato entra in gioco se il contribuente utilizza in compensazione un credito inesistente o non spettante di importo superiore a 50.000 € annui. Riguarda tipicamente crediti d’imposta (IVA, bonus vari). Non è il caso tipico della perdita su crediti, perché qui parliamo di dedurre un costo in dichiarazione, non di compensare un credito in F24. Tuttavia, facciamo un esempio: un contribuente potrebbe riportare una perdita fiscale (dovuta a perdite su crediti dedotte) e generare una perdita d’esercizio usata come credito d’imposta (o meglio acconto) per l’anno successivo. Oppure, uno scenario contorto: viene chiesto a rimborso un credito IRES derivante dal minor utile per le perdite dedotte. Questo non è compensazione in senso tecnico, bensì un rimborso o minor versamento. Dunque direi che art. 10-quater non si applica alla deduzione di perdite su crediti, se non indirettamente. Art. 10-quater punisce: chi non versa le imposte dovute usando crediti falsi in compensazione. Lì le soglie e le pene sono: se il credito è inesistente > 50k, reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni; se non spettante >50k, da 6 mesi a 2 anni . Ma visto che la nostra situazione tipica è diversa, non entriamo in art. 10-quater a meno di situazioni ibride (es. uno compensa un credito IVA derivante da note di credito emesse per perdite inesistenti? Possibile: se ho emesso una nota di credito per annullare l’IVA su una fattura non pagata di un’operazione fittizia, e quella nota di credito mi genera un credito IVA che compenso, allora sì art. 10-quater potrebbe scattare!). Quindi occhio: se dalle note di variazione IVA su crediti inesigibili emergono crediti IVA portati in compensazione, quell’aspetto va considerato penalmente. Ad esempio, indebito utilizzo della variazione IVA in mancanza dei presupposti.
Ricapitolando in tabella i reati possibili:
Condotta fiscale contestata | Possibile reato | Soglie di punibilità | Pena |
---|---|---|---|
Deduzione di una perdita su crediti inesistente (credito fittizio) senza utilizzare documenti falsi specifici (infedele “semplice”) | Dichiarazione infedele (art. 4) | Imposta evasa > €100.000 e <br> omissione elementi attivi >10% tot / > €2 mln | Reclusione 2 – 4 anni e 6 mesi |
Deduzione di costi fittizi con uso di false fatture o artifici complessi (es. false operazioni, doppia contabilità) | Dichiarazione fraudolenta (art. 2 o 3) | Art. 2: utilizzo di fatture false (soglia imposta evasa > €30k); <br> Art. 3: mezzi fraudolenti, imposta evasa > €30k. | Art. 2: Reclusione 4 – 8 anni; <br> Art. 3: Reclusione 3 – 8 anni. (Aumento di 1/3 se evasione > €1,5 mln) |
Utilizzo in compensazione di crediti d’imposta inesistenti (non relativi a perdite su crediti, ma es. bonus fittizi) | Indebita compensazione (art. 10-quater) | Credito compensato > €50.000 annui. Distinzione: <br>– Non spettante: punibile solo se >50k annui;<br>– Inesistente: punibile se >50k annui. | Non spettante: reclusione 6 mesi – 2 anni; <br> Inesistente: reclusione 1 anno e 6 mesi – 6 anni . |
Osservazione chiave: Come detto, la legge esclude la punibilità (ex art. 4 comma 1-bis) per i casi di errori di valutazione. Ciò significa che se il contribuente deduce una perdita su crediti reale ma in un anno diverso da quello ritenuto corretto, non dovrebbe incorrere in reato penale perché l’elemento è “esistente” (il credito c’era) e si discute solo del quando dedurre o del quantum (valutazione). Questo è molto rilevante: in passato amministratori di società si sono trovati indagati per dichiarazione infedele per aver magari dedotto perdite su crediti contestate; oggi, con la norma attuale, tali situazioni non dovrebbero più sfociare nel penale se appunto non c’è artificio. È comunque prudente, in caso di verifica fiscale su importi rilevanti, consultare anche un penalista per monitorare l’eventuale trasmissione degli atti alla Procura. Sovente, se l’evasione calcolata dall’ufficio supera i 100.000 €, la GdF o l’AdE trasmettono notizia di reato: starà poi al PM valutare se l’elemento passivo è inesistente (costo fittizio) oppure riconducibile a errore valutativo. Fornire al più presto chiarimenti e documenti può indurre il PM a chiedere l’archiviazione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (proprio in virtù dell’art.4 1-bis).
Strategie difensive penali: se malauguratamente si viene indagati per reati ex D.Lgs. 74/2000 in relazione a perdite su crediti, occorre:
- Mostrare che i crediti erano reali e che l’operazione non ha natura fraudolenta. Ciò può implicare depositare in Procura la documentazione commerciale completa, magari far redigere a un consulente tecnico una relazione che spiega la ragionevolezza contabile della svalutazione/perdita (in modo da inquadrarla come errore valutativo).
- Sfruttare eventuali cause di non punibilità: come detto, l’art. 4 c.1-bis (errori valutativi) è una causa di esclusione del reato. Inoltre, esiste la causa di non punibilità del pagamento del debito tributario (introdotta col DL 124/2019) ma questa si applica per i reati di omesso versamento e indebite compensazioni, non per l’infedele o fraudolenta. Quindi, pagare le imposte evase non estingue l’infedele o la frode (può essere al massimo attenuante). Tuttavia, per l’indebita compensazione (art.10-quater) oggi vale l’esimente se si paga tutto prima della dichiarazione dibattimentale di primo grado.
- Cercare eventualmente di ricondurre il fatto a un’ipotesi di particolare tenuità (art. 131-bis c.p.) se i numeri lo permettono: ad esempio se l’imposta evasa era di poco superiore a 100k e c’è margine di discutere su soglie, oppure se vi erano comportamenti di ravvedimento. La particolare tenuità richiede che l’offesa sia modesta e non vi sia abitualità, e in ambito reati tributari non è esclusa a priori (anche se raramente accolta per importi sopra soglia).
- In caso di accuse di falso in bilancio parallele (perché se credito inesistente è iscritto in bilancio, potrebbe configurarsi falso in bilancio), far presente che la scrittura è stata effettuata in base a criteri prudenziali e non per ingannare i soci o il pubblico. La riforma del 2015 sul falso in bilancio esclude punibilità per valutazioni che, sebbene erronee, rientrano nel margine di apprezzamento tecnico (qui sarebbe da approfondire, ma diciamo che se uno svaluta un credito al 100% invece che aspettare, non credo integrerebbe falso in bilancio punibile se questa scelta è motivata e indicata).
- Infine, considerare possibili patteggiamenti o soluzioni alternative se le prove sono contro di lui: ad esempio, patteggiare la pena (magari a 1 anno o poco più, con sospensione condizionale, evitando rischi maggiori).
La cosa migliore è evitare il penale: quindi agire in modo da far emergere la questione come rischio fiscale ma non condotta dolosa. Ciò si fa, come ribadito, curando la documentazione e – se avvisati di un procedimento penale – depositando memorie difensive ex art. 415-bis c.p.p. per spiegare il contesto.
Procedure di difesa nel processo tributario: dal ricorso alle prove
Se l’accertamento non si risolve in fase pre-contenziosa, il contribuente dovrà presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (il nuovo nome delle Commissioni Tributarie Provinciali). In questa sezione delineiamo come impostare il ricorso e quali strumenti processuali e probatori utilizzare per massimizzare le chance di successo.
Il ricorso tributario: struttura e contenuti
Un ricorso contro un avviso di accertamento che contesta perdite su crediti deve essere ben strutturato e documentato. Gli elementi essenziali includono:
- Intestazione e riferimenti: indicare la Corte di Giustizia Tributaria territorialmente competente (in genere quella della provincia dove ha sede l’ufficio che ha emesso l’atto), le generalità del ricorrente (società o persona) e del suo legale rappresentante, gli estremi dell’atto impugnato (numero e data avviso, protocollo, anno d’imposta contestato).
- Fatto (Sintesi della vicenda): descrivere cronologicamente la vicenda. Esempio: “Nell’anno X la società Alfa ha rilevato una perdita su crediti di €…, relativa al credito vantato verso Beta Srl, iscritto a bilancio dal … e divenuto inesigibile per le seguenti ragioni…; nella dichiarazione dei redditi 20XX tale perdita è stata portata in diminuzione del reddito imponibile. L’Agenzia delle Entrate – DR/DP di … – ha notificato avviso di accertamento prot…. contestando la deduzione di detta perdita e recuperando a tassazione €…, oltre sanzioni del 90%. L’atto impugnato assume che non sussistono elementi certi e precisi in quanto… (riportare le motivazioni salienti dell’ufficio).” In questa parte si può già evidenziare eventuali errori macroscopici dell’ufficio (es: ha ignorato documenti forniti, ha confuso il credito A con B, ecc.), ma in linea generale va mantenuta come esposizione neutra dei fatti.
- Motivi di ricorso (diritto): qui si articolano le censure giuridiche all’accertamento. Ogni motivo dovrebbe preferibilmente essere indicato con un titolo riassuntivo (es. “1. Violazione dell’art. 101 comma 5 TUIR: esistenza degli elementi certi e precisi per la deducibilità della perdita” – “2. Travisamento dei fatti: errata valutazione delle prove fornite” – “3. Illegittimità della sanzione per obiettiva incertezza” – etc.). Nei motivi, si svolge l’argomentazione citando leggi, circolari, sentenze. Ad esempio, nel motivo 1 si argomenterà: il credito in oggetto derivava da regolare fattura, il debitore è fallito/prescritto/irreperibile, dunque in base all’art. 101 c.5 la perdita era deducibile; l’Ufficio ha mal applicato la norma perché non ha considerato XY (es: che il debitore era irreperibile da 3 anni, circostanza provata da…); giurisprudenza e prassi confermano che in tali casi la deduzione spetta….. È fondamentale qui inserire riferimenti a documenti probatori: es. “Come da visura CCIAA allegata 3, la Beta Srl risulta cessata dal … e irreperibile; come da relazione legale (doc.4) ogni tentativo di recupero è stato vano. Tali elementi integrano gli ‘elementi certi e precisi’ richiesti dalla legge.”. Se l’ufficio ha contestato la competenza temporale, uno dei motivi sarà: violazione del principio di competenza e circolare 26/E: il contribuente poteva dedurre nel 20X2 anziché 20X1 in virtù dell’avvenuta cancellazione in bilancio, come ammesso dall’Agenzia stessa in interpelli (si cita la risposta 342/2021) e come permesso dalla norma modificata . In sostanza, i motivi devono smontare punto per punto le argomentazioni dell’atto impugnato, portando controprove e diritto a supporto.
- Richiesta finale: al termine, si formula la petitio: annullare (in tutto o in parte) l’atto impugnato. Ad esempio: “Si chiede dunque a codesta Ecc.ma Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di voler annullare l’avviso di accertamento n…/… emesso dall’Agenzia delle Entrate di …, con ogni conseguenza di legge, ivi compresa la condanna dell’ente impositore alla rifusione delle spese di giudizio”. Se c’è spazio, si possono fare domande subordinate: ad esempio, “in via gradata, ove fosse riconosciuta la legittimità del recupero a tassazione, si chiede quantomeno l’annullamento/riduzione delle sanzioni per obiettiva incertezza del dettato normativo ex art. 6 co.2 D.Lgs.472/97”.
- Documenti allegati: elencare i documenti che si depositano assieme al ricorso (contratti, lettere, bilanci, visure, sentenze citate, ecc.). È fondamentale depositare sin dal ricorso tutte le prove documentali disponibili. Nel processo tributario vige il principio di libertà dei mezzi di prova (sono ammesse prove documentali, presunzioni, testimonianze scritte – ma non la prova testimoniale orale, salvo alcune aperture recentissime con L.130/2022, ancora da rodare). Generalmente, dunque, la difesa consisterà in prove cartacee. Si può allegare anche un parere pro-veritate o una perizia tecnica (ad esempio di un revisore che attesti che la svalutazione era conforme ai principi contabili): non hanno valore di prova legale, ma come chiarimenti tecnici sì.
- Istanza di trattazione in pubblica udienza: nel ricorso, di regola, si chiede espressamente che la causa sia discussa in pubblica udienza (non decisa in camera di consiglio). Ciò permette di andare a discutere oralmente davanti ai giudici, il che è utile se si vuole enfatizzare alcuni aspetti o rispondere a eccezioni dell’ufficio.
- Firma del difensore abilitato e relata di notifica: ricordare che per cause sopra €3.000 è obbligatorio il difensore tecnico (commercialista o avvocato). Il ricorso va notificato all’ente impositore (di solito via PEC) e depositato presso la segreteria della Corte con relativa attestazione.
Prova e onere della prova
Come accennato, l’onere della prova nel merito delle perdite su crediti spetta al contribuente per dimostrare la sua legittima deduzione . Ciò significa che il ricorrente deve portare in giudizio tutti gli elementi probatori a sostegno. L’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, deve motivare l’atto (lo ha fatto) e, in caso di credito inesistente/frode, dovrebbe provare la natura fittizia (ad esempio portando elementi investigativi, contraddizioni, ecc.). Ma normalmente, trattandosi di costi, il focus è sul contribuente.
Ammissibilità delle prove: nel processo tributario non è ammessa la testimonianza orale (art. 7 D.Lgs. 546/92 vecchio, confermato anche dopo riforma, sebbene ora il giudice possa eccezionalmente assumere dichiarazioni scritte da terzi). Quindi se, ad esempio, si vuole provare tramite terzi che il debitore era irreperibile, sarebbe auspicabile ottenere una dichiarazione scritta da tali terzi (ad esempio dal postino, dal vicino, dal curatore fallimentare, ecc.). Queste dichiarazioni sostitutive o affidavit possono essere depositate e valutate come indizi. In allegato al ricorso si potrebbero mettere: “dichiarazione resa dal sig. Tizio, legale della società, che riporta gli esiti dei tentativi di recupero” o “dichiarazione del liquidatore della Beta Srl attestante lo stato di insolvenza della medesima”. Il valore non è paragonabile alla testimonianza incrociata, ma tutto può servire.
CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio): In rari casi il giudice potrebbe disporre una perizia tecnica (ad esempio per quantificare con esattezza il valore di realizzo di un credito ceduto, o per tradurre documenti esteri se il debitore era estero). Di solito, però, in queste materie fattuali non si nomina CTU (lo si fa di più in temi valutazione di azienda, transfer pricing ecc.).
Strategie processuali: il contribuente può anche considerare la via dell’accertamento con adesione prima del processo (interrompe i termini per 90 gg). Se l’ufficio sembra aperto, è possibile negoziare una riduzione di imponibile (es: dedurre parzialmente la perdita) e sanzioni ridotte. Ciò però comporta rinuncia al ricorso. Un’altra possibilità, se si va in giudizio, è cercare la mediazione/conciliazione: per importi fino a €50.000 c’è l’obbligo di mediazione tributaria (presentare ricorso come istanza di mediazione: l’Agenzia potrebbe proporre annullamento parziale). Oppure in udienza si può chiudere con conciliazione. La conciliazione comporta almeno la riduzione delle sanzioni a 1/3. È un’opzione se il caso è borderline e si vuole evitare incertezze.
Modello di memoria difensiva (esempio)
Per completezza, forniamo un esempio sintetico di memoria difensiva (che potrebbe essere presentata dopo il ricorso, ad esempio per replicare alle controdeduzioni dell’ufficio, o come arringa scritta):
Esempio di stralcio di memoria:
“Oggetto: memoria illustrativa – Ricorso XYZ Srl c/ Agenzia Entrate – CGT di …
1. Sulla sussistenza degli elementi certi e precisi della perdita su crediti – Come già evidenziato nel ricorso (pag. 5-7), il credito verso Delta Spa, dell’importo nominale di €80.000, è divenuto definitivamente inesigibile a seguito della messa in liquidazione volontaria di Delta (doc. 5) e della successiva cancellazione dal Registro Imprese (doc. 6). La circostanza che Delta fosse priva di attivi è confermata dal bilancio finale di liquidazione (doc. 7) che evidenzia un deficit patrimoniale. L’Ufficio, nelle sue controdeduzioni, sostiene apoditticamente che la società ricorrente avrebbe dovuto “attivarsi legalmente” prima di dedurre la perdita. Tale assunto è in contrasto con la normativa e la giurisprudenza: una società cancellata è per definizione un debitore inesigibile, non essendovi più soggetto giuridico né patrimonio aggredibile. La Cassazione ha affermato che non serve un inutile atto giudiziario formale quando il recupero è oggettivamente impossibile . Nel caso di specie, una causa contro Delta sarebbe stata non solo priva di esito (essendo la società estinta), ma addirittura inammissibile in diritto. Pertanto, gli elementi certi e precisi richiesti dall’art. 101 TUIR risiedono nell’avvenuta cancellazione di Delta Spa e nella documentata incapienza, elementi questi di carattere oggettivo e incontestabile.
…
3. Sulla qualificazione della rinuncia al credito – L’Ufficio sembra voler riqualificare la perdita come “rinuncia volontaria priva di inerenza” solo perché l’amministratore di XYZ Srl non ha esperito procedure concorsuali contro Delta. Si ribadisce che non di liberalità si è trattato, ma di presa d’atto dell’insolvenza del debitore. In ogni caso, anche a voler considerare la rinuncia al credito come atto negoziale, essa rientrerebbe tra quelle rinunce fiscariamente deducibili in quanto effettuata in costanza di grave difficoltà del debitore, situazione in cui – per stessa ammissione della Circolare 26/E/2013 – la perdita è inerente e non una mera liberalità.
…
5. Sulla richiesta subordinata di esonero da sanzioni – Qualora, in ipotesi, l’Ecc.ma Corte non ritenesse provata al di là di ogni dubbio la spettanza della deduzione, si insiste affinché vengano comunque annullate le sanzioni. Difatti il quadro normativo e interpretativo all’epoca dei fatti presentava margini di incertezza: basti citare la difformità tra indirizzo giurisprudenziale (Cass., ad es. sent. n…2020) e prassi AE (Interpello 342/2021) sul momento di competenza. In tali condizioni, il contribuente ha agito secondo la propria ragionevole interpretazione, senza alcun occultamento – tanto è vero che la perdita è stata evidenziata con trasparenza in bilancio e dichiarazione. Sussistono dunque i presupposti dell’esimente di cui all’art. 6, c. 2, D.Lgs. 472/97, ricorrendo una obiettiva incertezza normativa . Inoltre, la stessa riforma del 2015 dei reati tributari ha considerato non punibili penalmente errori di valutazione analoghi , segno della non univocità delle valutazioni in questo campo. Pertanto si chiede che, in caso di soccombenza sul merito, la Corte voglia annullare o quantomeno ridurre al minimo le sanzioni in autonoma valutazione.”*
Una memoria così strutturata richiama fonti (anche in nota o tra parentesi come nelle nostre citazioni) e cerca di convincere i giudici su ogni punto critico.
Esito e gradi successivi
Se il ricorso viene accolto, l’atto è annullato (totale o parziale). L’Agenzia potrebbe appellare in secondo grado (Corte Giustizia Tributaria di secondo grado, ex CTR). Oppure, se perde il contribuente, sarà questi ad appellare. In secondo grado si ripete l’iter (possibile anche nuova produzione documentale se non conosciuta prima, ma conviene non trovarsi a doverlo fare: meglio mettere tutto dal primo grado).
Dopo l’appello, c’è l’eventuale ricorso per Cassazione, ma questo solo per motivi di diritto (interpretazioni normative, vizi gravi di motivazione). Raramente questioni prettamente fattuali come “il credito era inesigibile o no” arrivano in Cassazione, a meno che vertano su principi generali. Comunque, è utile sapere che molte sentenze di legittimità (anche citate qui) derivano proprio da contenziosi su perdite su crediti.
Esempi pratici e simulazioni di calcolo
In questa sezione proponiamo alcuni esempi pratici per concretizzare i concetti esposti, accompagnati da eventuali calcoli per chiarire l’impatto fiscale delle scelte e delle contestazioni.
Esempio 1: Piccola impresa e credito di modesta entità
Scenario: Mario è un artigiano (ditta individuale in contabilità semplificata) che nel 2024 ha emesso fattura di €1.200 (IVA inclusa) verso un cliente privato per dei lavori. Il pagamento doveva avvenire a luglio 2024 ma, nonostante solleciti informali, il cliente non paga e risulta irreperibile da mesi. A gennaio 2025 sono passati oltre 6 mesi dalla scadenza e Mario decide di considerare perso il credito. Essendo in regime semplificato, non ha un vero e proprio bilancio, ma può dedurre la perdita come componente negativo nel quadro RG.
Come dedurre e documentare: La soglia di modesta entità è €2.500, quindi €1.200 rientra ampiamente. Mario invia a febbraio 2025 una raccomandata AR all’ultimo indirizzo noto del cliente chiedendo il saldo; la raccomandata torna con esito “destinatario sconosciuto”. Questo costituisce un elemento di prova dell’irreperibilità. Nella dichiarazione dei redditi 2025 (redditi 2024) Mario indicherà tra le variazioni in diminuzione una perdita su crediti di €1.200 (di cui base imponibile €1.000 + IVA €200 – tuttavia, attenzione: Mario avendo emesso fattura, avrà già conteggiato l’IVA a debito nel 2024; se ora la fattura viene “stornata” per perdita su crediti, potrebbe emettere una nota di credito ai fini IVA per recuperare l’IVA non incassata per operazione rimasta insoluta >6 mesi, ai sensi dell’art. 26 DPR 633/72, in presenza di procedure concorsuali o esecutorie infruttuose. Nel nostro caso non c’è procedura concorsuale, quindi per IVA Mario non può emettere nota di credito semplicemente per decorso tempo; potrà dedurre solo la perdita ai fini redditi. L’IVA rimane a suo debito a meno che in futuro si apra una procedura concorsuale o sia dimostrata l’infruttuosità di esecuzione). Ai fini delle imposte sui redditi comunque deduce €1.000 come perdita (il componente negativo netto senza IVA).
Possibile contestazione e difesa: L’Agenzia potrebbe chiedere in futuro: “hai la prova che era antieconomico agire per €1.000?” Mario esibirebbe la raccomandata, e potrebbe mostrare un prospetto: costo avvocato per decreto ingiuntivo ~ €500, costo ufficiale giudiziario e ricerche ~ €300, totale €800, quasi quanto il credito; più il rischio di non trovare comunque nulla. Questo giustifica. L’Agenzia probabilmente accetterà, essendo tutto in regola con la norma sui mini-crediti . Non c’è profilo penale perché importi piccolissimi e nessun elemento di frode.
Calcolo impatto fiscale: Mario riduce il suo reddito 2024 di €1.000. Se era in utile, risparmia IRPEF su quel mille (aliquota marginale supponiamo 27% regionale+statale) quindi circa €270 di tasse. Non recupera però l’IVA €200 perché manca presupposto per nota di credito IVA (il cliente non è fallito né ha subito esecuzione). Quindi quella rimane un costo indeducibile (in pratica una perdita “doppia”: il bene ceduto e l’IVA versata).
Esempio 2: Società di capitali con credito verso fallimento
Scenario: La Alfa Srl ha un credito commerciale di €50.000 verso un cliente (Beta Srl) per forniture fatte nel 2023. Beta Srl fallisce nel marzo 2025. Nel bilancio al 31/12/2024, Alfa Srl aveva mantenuto il credito al nominale (magari con un piccolo fondo svalutazione generico di €500). A seguito del fallimento, Alfa decide di cancellare il credito dal bilancio 2025 e dedurre la perdita. Entro fine 2025 infatti il curatore comunica che non prevede riparti per i chirografari (Beta è insolvente al 90%). Alfa Srl quindi in bilancio 2025 registra: perdita su crediti €50.000, utilizza il fondo €500, e quindi a conto economico appare un onere di €49.500 (perché €500 erano già accantonati in passato).
Deduzione fiscale: Poiché Beta è soggetta a procedura concorsuale (fallimento), l’art. 101 TUIR consente la deduzione della perdita. Alfa Srl deduce quindi €49.500 nel modello Redditi 2026 (periodo imposta 2025) come variazione in diminuzione. Aveva già dedotto in precedenza €500 (lo 0,5% annuo accumulato), e quei €500 restano dedotti in anni passati.
Verifica dell’Agenzia: poniamo che in un controllo la Agenzia contesti che la deduzione andava fatta nel 2025 (anno del fallimento) e non nel 2026 (anno di cancellazione). Questo è proprio il punto di disaccordo Cassazione/Agenzia pre-2022. Difesa: Alfa indica che secondo la risposta interpello 342/2021 dell’AE e il nuovo comma 5-bis art.101, la scelta del periodo era sua entro limite cancellazione . Il giudice probabilmente le dà ragione, essendo quella ormai la posizione ufficiale (e in ogni caso Alfa ha dedotto nel 2025, anno di fallimento – quindi è corretto anche secondo Cass). Dunque, accertamento annullato.
Calcolo impatto fiscale: Senza la perdita, Alfa avrebbe avuto (ipotizziamo) un utile tassabile di €100.000 nel 2025; con la perdita deduce €49.500 e dichiara €50.500 di imponibile. Risparmio IRES (24%) = circa €11.880. Se l’Agenzia avesse vinto e avesse disconosciuto la perdita, Alfa avrebbe dovuto pagare €11.880 + interessi + sanzione 90% (€10.692) = circa €11.880 + €10.692 = €22.572 (più interessi qualche centinaio). Si nota come la sanzione quasi raddoppia l’esborso, il che motiva fortemente a difendersi. In ambito penale, qui imposta evasa €11.880 < soglia 100k, quindi niente reato. Anche se fosse stata più alta, il fatto di essere procedura concorsuale sarebbe comunque un elemento certo e la disputa su competenza un errore valutativo non punibile penalmente.
Esempio 3: Cessione di credito infragruppo e contestazione elusiva
Scenario: Gamma SpA ha ceduto nel 2024 un portafoglio di crediti deteriorati (del valore nominale di €1.000.000) alla consociata estera Delta Ltd, ad un prezzo totale di €200.000. Quindi ha registrato una perdita su crediti di €800.000 (incasso 200 vs nominale 1000). Formalmente è una cessione pro-soluto. Delta Ltd però fa parte dello stesso gruppo multinazionale. L’operazione aveva lo scopo dichiarato di ripulire il bilancio di Gamma dai crediti problematici e affidarne il recupero a Delta, che opera come servicer di gruppo. L’Agenzia, in sede di accertamento, requalifica la transazione come elusiva: secondo il Fisco Gamma ha volutamente sottostimato il prezzo di cessione per generare una perdita e abbattere il reddito. Non riconosce dunque €400.000 di quella perdita, ritenendo che un prezzo di mercato sarebbe stato €600.000 (valore stimato anche in base a offerte ricevute da terzi e ignorate da Gamma).
Difesa: Gamma deve mostrare che il prezzo di €200.000 è giustificato: ad esempio perché quei crediti erano quasi totalmente inesigibili (magari sono crediti verso centinaia di piccoli debitori sparsi, costi di recupero alti, Delta ha accettato di prenderli perché ha struttura low-cost, ma investitori terzi avevano chiesto €500.000 e Gamma ha preferito vendere a Delta per ragioni di riservatezza sui clienti, ecc.). Gamma porta in giudizio eventuali perizie fatte all’epoca sulla probabilità di recupero (se non fatte, è un problema). E richiama la circ. 26/E: cessione a società di gruppo è guardata con sfavore , però se si dimostra che i rischi e benefici sono stati trasferiti e che la perdita era inferiore ai costi di recupero stimati, allora è difendibile. Può allegare calcoli interni: su 1000k di crediti, costi stimati di recupero (legali, tempo, sconti) erano €300k, recupero stimato €200k, per cui €200k è il net present value effettivo e venderli a quell’importo è congruo. Forse integrerà con comparazioni di mercato (se esistenti). Non facile, ma se convincente, il giudice potrebbe annullare l’accertamento. Diversamente, se rimane il dubbio di un transfer pricing errato o di elusione, il giudice potrebbe confermare il recupero (magari ridotto a €… dipende dalle prove).
Impatto: supponiamo IRES al 24%. Su €800k di perdita contestata per metà: recupero €400k imponibile, tassa €96k, sanzione €86k circa. Qui soglia penale superata (96k > 100k? in questo esempio no, è sotto soglia di poco – se la soglia fosse superata, att.ne). Però se la GdF vede 800k di costo fittizio, potrebbe modulare come infedele con imposta evasa su più anni? Comunque scenario borderline. Se convincente come errore valutativo (prezzo di cessione discutibile), penalmente sarebbe escluso (valutazione di elementi esistenti – il credito c’era, venduto a prezzo discutibile, non è costo “inesistente” in senso assoluto).
Esempio 4: Caso estremo di frode – credito inesistente
Scenario: Immaginiamo una frode: Omega SRL nel 2023 registra una fattura attiva falsa di €300.000 + IVA verso una società cartiera compiacente (finge di aver venduto merce). Questo genera un credito di €300.000 in bilancio verso la cartiera. Nel 2024 Omega SRL svaluta totalmente il credito e lo porta a perdita, deducendo €300.000 dal reddito. Scopo: nel 2023 Omega aveva utili alti, ha pagato le tasse anche su quella vendita fittizia (magari per non far insospettire?), nel 2024 invece va in perdita riducendo le imposte. Insomma, un classico schema di spostamento o di abbellimento di bilanci: far risultare più ricavi in un anno e più costi in un altro.
Contestazione e conseguenze: Una volta scoperto (magari perché la cartiera è stata individuata, o incongruenze IVA etc.), l’Agenzia disconosce sia la fattura attiva falsa (quindi recupera IVA detratta altrove? Qui è fattura attiva, quindi in 2023 Omega in realtà ha versato IVA su vendita inesistente – assurdo dal punto di vista IVA, perché ha versato 22% su 300k = 66k allo Stato per nulla; nel 2024 con la perdita non può recuperare quell’IVA se non con nota di credito, ma essendo operazione inesistente non c’è neanche nota di credito ammessa; la frode qui è più in ambito reddituale, uno strano giro per ridurre utile 2024). Dunque recupera imposte 2024 (aumento reddito di 300k). Omega a conti fatti nei due anni: nel 2023 ha pagato più tasse, nel 2024 meno; forse voleva spalmare utili. Ma se è frode, raramente si fa per spostare utili tra anni (perché tanto paghi prima poi recuperi dopo con perdita – non efficiente). Più probabile scenario: Omega aveva perdite pregresse in scadenza e finge ricavi per usarle, poi l’anno dopo deduce la perdita per creare nuova perdita? Tendenze elusive complesse.
Penalmente, qui: falso in bilancio, dichiarazione fraudolenta (costi inesistenti €300k -> imposta evasa sup 100k magari – reato; l’aver creato documenti falsi configura sicuramente art. 3, forse art. 2 se ha creato documenti a supporto – qui è fattura emessa da Omega stessa, quindi non rientra art.2), comunque reato grave. Difesa praticamente impossibile (non c’è nulla di vero). Il debunking qui è a livello penale: evidenziare l’incongruità (perché fattura attiva finta? solo per poi fare perdita? Qual è il movente? Difficile giustificarlo se non con evasione). Il risultato: condanna penale probabile, e in ambito fiscale recupero di quell’imposta “risparmiata” e sanzioni massime 90% etc.
È un esempio estremo di ciò da cui tenersi lontani.
Come si evince dagli esempi, i casi pratici possono variare da situazioni lineari (piccole perdite su crediti chiaramente deducibili) a situazioni complesse e borderline (cessioni infragruppo, interpretazioni difformi) fino a casi fraudolenti. L’approccio vincente è sempre quello della trasparenza e della documentazione accurata. Un contribuente che annota e giustifica ogni passo (perché ha svalutato, come ha calcolato la perdita, quali info aveva) avrà molte più chance di convincere il Fisco o il giudice. Viceversa, operazioni opache o non supportate da logica aziendale solida verranno facilmente censurate.
Domande frequenti (FAQ) su crediti inesistenti e difesa del contribuente
D1: Cosa si intende esattamente per “credito inesistente” nella contestazione fiscale?
R: Un credito inesistente è un credito che in realtà non sussiste, perché manca il presupposto che lo genera. Può trattarsi di un credito commerciale fittizio (derivante magari da operazioni mai avvenute) oppure di un credito d’imposta inventato o ottenuto con frode. Nelle contestazioni relative a perdite su crediti, l’Agenzia delle Entrate usa questa definizione quando ritiene che il contribuente abbia dedotto la perdita di un credito che non aveva ragione di esistere (ad esempio, perché creato artificiosamente) . In tali casi l’amministrazione finanziaria non solo disconosce la perdita, ma considera quell’importo come un costo fittizio indicato in dichiarazione (con aggravio sanzionatorio e possibile segnalazione penale). Se invece il credito esisteva, ma la diatriba è sulla sua inesigibilità, non si parla di “credito inesistente” bensì di assenza di elementi certi e precisi. È importante quindi distinguere: inesistente = totalmente falso; inesigibile = vero ma non recuperabile. Le difese sono diverse: nel primo caso occorre provare l’esistenza reale (contratti, consegne, ecc.), nel secondo basta provare lo stato di insolvenza/inadempimento.
D2: Ho un debitore che non ha pagato ma non ho intrapreso azioni legali; posso comunque dedurre la perdita su crediti?
R: Sì, è possibile. Non c’è un obbligo giuridico di iniziare cause o decreti ingiuntivi per poter dedurre una perdita. Quello che serve è dimostrare che il credito è oggettivamente irrecuperabile. Se riusciresti a dimostrarlo anche senza sentenza, non è necessario passare per le vie legali (talora lunghe e costose). Ad esempio, se il debitore ha chiuso l’attività ed è sparito, o risulta nulla tenente da informazioni commerciali, questi possono già essere elementi certi e precisi . La Cassazione ha detto chiaramente che non è presupposto della deducibilità aver ottenuto una dichiarazione giudiziale di insolvenza . Certo, se il credito è grande e il debitore non è formalmente fallito, l’Amministrazione si aspetta che tu abbia almeno tentato di recuperare con un sollecito formale o una trattativa. Se non l’hai fatto, puoi comunque dedurre la perdita ma preparati a giustificare perché non ti sei attivato (tipicamente, perché sarebbe stato inutile o antieconomico). Il concetto di antieconomicità è accettato: se i costi di recupero stimati eguagliano o superano il credito, si può decidere di non agire . In tal caso però allega un calcolo (ad esempio: “credito €5.000; costi legali previsti €3.000 + rischio di dover pagare spese se il debitore è nulla tenente = antieconomico”). È bene anche aver fatto almeno un tentativo informale (una lettera, una telefonata) per documentare che il debitore non paga deliberatamente o perché incapiente.
D3: Ho emesso delle note di credito per stornare fatture non pagate dal cliente; rischi in caso di controllo?
R: Le note di credito emesse per stornare crediti insoluti sono delicate. In ambito IVA, la nota di credito può essere emessa solo in certi casi tassativi (ad esempio se un cliente fallisce – allora entro termini puoi emetterla per recuperare l’IVA). Non si potrebbe emettere liberamente nota di credito solo perché un cliente non paga. Se lo hai fatto, l’Agenzia potrebbe contestare l’IVA detratta e anche la deduzione del relativo ricavo come perdita. Dal punto di vista reddituale, emettere una nota di credito significa che stai rinunciando contrattualmente a quel credito (forse per una disputa sulla fornitura o come sconto tardivo). L’Agenzia ti chiederà: perché hai emesso quella nota? Se è perché il cliente contestava la qualità del bene o il servizio, allora non è una perdita su crediti ma un aggiustamento di ricavo (sopravvenienza passiva) dovuto a una lite commerciale . Quella è deducibile anch’essa, ma in un’altra voce di bilancio. Se invece hai emesso la nota solo perché il cliente era in difficoltà, di fatto è una remissione del debito. Come detto, la remissione volontaria è deducibile solo se c’era una ragione inerente (ad esempio: cliente storico in crisi, preferisci abbuonare parte del dovuto per mantenerlo o perché tanto non pagherà il 100%). Dovrai documentare questa ragione (ad es. lettere col cliente in cui concordate uno stralcio del debito per tot). Rischio: se non giustifichi bene, il Fisco potrebbe dire che la nota di credito non aveva causa e quindi il costo (perdita) non è deducibile. Inoltre, se sospetta frode (note di credito false per generare IVA a credito), può segnalare il reato. Quindi, usa le note di credito con cautela: per insoluti puri, sarebbe meglio non emetterle, ma portare a perdita il credito a bilancio lasciando la fattura com’è (così l’IVA rimane a debito tuo, purtroppo, salvo fallimento). In caso tu le abbia emesse, preparati a spiegare la causa giuridica (transazione? sconto per difetto merce?).
D4: Il mio cliente è fallito; devo aspettare la chiusura del fallimento per dedurre la perdita su crediti?
R: No, non è necessario aspettare la conclusione del fallimento. La legge (art. 101 c.5 TUIR) dice che il debitore si considera “in procedura concorsuale” dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento . Ciò significa che già nell’anno in cui il fallimento è dichiarato puoi dedurre la perdita (o negli anni immediatamente successivi fino a quando lo togli da bilancio). La Cassazione ha stabilito che il momento di certezza di solito coincide con l’apertura della procedura . Ad esempio, se il tuo cliente è fallito a giugno 2025, e tu nel bilancio 2025 elimini il credito, dedurrai la perdita nel 2025. Se per qualche ragione non l’hai fatto nel 2025 (magari speravi in un esito migliore della procedura) potresti ancora dedurla nel 2026 purché in quell’anno la cancelli dal bilancio . Non è richiesto attendere l’esito finale (che spesso arriva anni dopo). Aspettare la chiusura avrebbe anzi un rischio: potresti sforare il termine di decadenza (in teoria, la Cassazione dice entro l’anno di chiusura bilancio in cui si cancella; se chiudi nel 2028 e deduci allora, ok; se chiudi prima e non deduci, potresti perdere il treno). Quindi conviene dedurre appena possibile (subito dopo l’apertura della procedura, se sei ragionevolmente certo che non vedrai soldi). Tieni presente: se poi, contro ogni previsione, incassi qualcosa dal fallimento (riparto, ecc.), quello incasso sarà una sopravvenienza attiva tassabile. Ma pazienza, è giusto così. L’importante è non dedurre troppo presto prima del fallimento: prima che il cliente fallisca devi avere “elementi certi e precisi” diversi, altrimenti la deduzione anticipata può essere contestata.
D5: Un cliente mi deve solo €300 da più di un anno; posso dedurre la perdita senza problemi?
R: Sì, questo rientra proprio nei mini crediti. Per importi fino a €2.500 (per le imprese normali) è prevista la deducibilità automatica se sono passati almeno 6 mesi dal termine di pagamento . Nel tuo caso €300 è davvero basso, e un anno è passato, quindi puoi portarlo a perdita. Accertati di avere la fattura o ricevuta che attesti il credito e che la scadenza fosse certa. Trascorsi i 6 mesi, quando imputi a conto economico la perdita (anche semplicemente con una scrittura contabile di storno), quella è deducibile. L’Agenzia delle Entrate su questi piccoli importi di solito non fa obiezioni, purché se ne possa verificare l’esistenza (a volte chiedono “mostrami la fattura non incassata” o “mostrami che il debitore non ti ha pagato niente”). Meglio ancora se hai mandato un sollecito formale (anche se non richiesto strettamente, dà serietà alla tua posizione) . Tieni presente che se un domani quel cliente per miracolo pagasse, dovrai dichiarare il ricavo (sopravvenienza) per €300.
D6: Ho rinunciato a un credito verso una mia società partecipata in difficoltà economiche. Posso dedurlo senza rischi?
R: Qui entriamo in un terreno insidioso. Le rinunce ai crediti verso società partecipate spesso vengono viste dal Fisco come operazioni di natura patrimoniale (conferimenti o versamenti in conto capitale) anziché come vere perdite d’esercizio. La legge consente la deduzione se la rinuncia non è una liberalità, cioè se c’è inerenza all’attività imprenditoriale . Nel tuo caso, devi dimostrare che la partecipata era incapace di rimborsare quel debito e che la rinuncia è stata una scelta obbligata per evitare guai peggiori (ad es. il fallimento della partecipata che avrebbe potuto ripercuotersi anche su di te). Cosa fare quindi: documenta lo stato di dissesto della partecipata (bilanci, magari perizia che evidenzia che non poteva restituire il debito). Se la partecipata è poi fallita o liquidata senza attivo, ancora meglio per te: quell’evento ex post comprova che la tua rinuncia era giustificata dall’insolvibilità. Se invece la partecipata poi si è ripresa, il Fisco potrebbe dire: hai fatto una liberalità per aiutarla a risanarsi, non è perdita deducibile. Inoltre occhio: se tu sei socio della partecipata, il Fisco potrebbe dire che la rinuncia era un apporto di patrimonio mascherato (soprattutto se contestuale a un aumento di capitale o se tutti i soci hanno rinunciato ai crediti in proporzione alle quote). In quei casi di solito la deduzione viene negata perché trattata come operazione sul capitale (irrilevante fiscalmente per la società rinunciante ai sensi dell’art. 88 c.4-bis TUIR). Quindi, in conclusione: si può dedurre ma solo se hai solide pezze d’appoggio che la partecipata non poteva pagare ed eventualmente che tu, rinunciando, non hai ricevuto in cambio nessun vantaggio se non evitare una perdita anche maggiore. Prepara una relazione da far approvare magari al tuo CdA all’epoca della rinuncia, in cui spieghi motivi economici (tipo: “considerato che la partecipata X ha perso il 80% del capitale ed è esposta verso terzi, la società decide di rinunciare al credito di €… per migliorare la posizione finanziaria di X e salvaguardare il valore residuo della partecipazione, non essendo comunque prevedibile il recupero di detto credito…”). Non è garanzia assoluta, ma mostra che l’hai fatto nell’interesse imprenditoriale, non per beneficenza.
D7: L’Agenzia delle Entrate mi ha contestato una perdita su crediti, applicandomi la sanzione del 90% sull’imposta; posso evitare di pagare la sanzione?
R: Dipende dalle circostanze. Le sanzioni possono essere annullate o ridotte se ricorrono certe condizioni. Ad esempio, se la questione era realmente dubbia (norma poco chiara, comportamento tenuto in buona fede seguendo magari indicazioni di un professionista o una prassi), puoi invocare l’obiettiva incertezza del diritto . I giudici tributari, se persuasi, hanno il potere di dichiarare non dovute le sanzioni in tali casi. Nel contesto perdite su crediti, ad esempio, ci sono stati in passato contrasti interpretativi (sulla competenza temporale, sulla prescrizione come elemento certo, ecc.) e se la tua situazione si colloca proprio in un punto poco chiaro, sottolinealo nella difesa. Un altro caso: se hai seguito alla lettera una circolare dell’Agenzia o una risposta a interpello (anche non tua ma con principi analoghi), potresti dire che c’era affidamento legittimo e quindi niente sanzioni. Comunque l’annullamento totale delle sanzioni non è frequente: spesso magari ottieni una riduzione. Potresti allora tentare di risolvere col accertamento con adesione (se sei ancora in tempo): lì hai diritto a sanzioni ridotte ad 1/3 (quindi dal 90% al 30%). Oppure se sei in giudizio, proporre una conciliazione con l’ufficio: spesso l’Agenzia è disponibile a ridurre le sanzioni al minimo (1/3 del 90% = 30%, o talvolta qualcosa in più tipo 45%) se rinunci a parte del contenzioso. In ultima istanza, se perdi in giudizio sul merito ma hai argomenti di buona fede, puoi appellare solo sulle sanzioni, chiedendo al secondo grado di disapplicarle. Infine, ricorda: se è la prima violazione e ricorrono le condizioni, si può chiedere la non applicazione della recidiva o attenuanti (il D.Lgs. 472/97 prevede cause di riduzione per adempimento spontaneo, ravvedimento – ma ravvedimento puoi farlo solo prima della contestazione formale). In sintesi, conviene sempre chiedere in ricorso la rimozione delle sanzioni in via subordinata, motivandola bene.
D8: Dedurre una perdita su crediti contestata può farmi rischiare un procedimento penale?
R: In generale, se la deduzione contestata ha comportato una evasione di imposta rilevante, sì c’è questo rischio. Il reato tipicamente ipotizzabile è la dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs.74/2000), punita con la reclusione fino a 4 anni e 6 mesi, ma solo se l’imposta evasa supera €100.000 e i costi fittizi (o ricavi omessi) sono sopra il 10% del dichiarato o comunque >2 milioni . Facciamo un esempio: se ti hanno contestato €500.000 di perdite su crediti indebitamente dedotte, con un impatto IRES di €120.000 evasi, superi la soglia, quindi astrattamente c’è reato. Tuttavia, attenzione: la norma penale non punisce le valutazioni di bilancio errate su elementi esistenti . Ciò vuol dire che se il credito esisteva e tu l’hai valutato inesigibile ma l’AdE non era d’accordo, siamo nel campo delle valutazioni – in tal caso non c’è reato, anche se c’è stato risparmio d’imposta. È invece reato se la perdita era basata su un credito falso o inesistente. In altre parole, se tu hai inserito un costo fittizio (perdita su un credito inventato), allora è un elemento passivo inesistente e quindi rileva penalmente oltre soglia . Quindi per la stragrande maggioranza dei casi in cui il contribuente agisce in buona fede su crediti reali, direi di no, non vi è conseguenza penale, al massimo una sanzione amministrativa. Se però l’ufficio ha scoperto che dietro c’era un uso di documenti falsi (fatture false per generare crediti inesistenti da dedurre), allora può configurare dichiarazione fraudolenta (reato più grave, punito fino a 8 anni). In pratica: – No penale se si discute del quando dedurre e il credito esisteva; – Penale infedele se il credito era finto ed evasi >100k; – Penale fraudolento se per fare ciò hai usato artifizi (es. false fatture, operazioni simulate).
In caso di pendenza penale, la miglior difesa è dimostrare che era al massimo un errore o un’interpretazione, non una frode voluta. Spesso, pagando quanto dovuto col fisco e mostrando cooperazione, si può ottenere una posizione migliore in sede penale (ad esempio evitare misura cautelari e cercare patteggiamento a pene basse). La cosa fondamentale è: se ricevi una contestazione su crediti inesistenti e l’importo è grosso, consulta subito un avvocato penalista tributario. Prevenire è meglio: fornisci al Fisco tutti i chiarimenti e documenti in sede di verifica, in modo da convincerli che non c’è dolo. Se li persuadi, potrebbero non fare la comunicazione alla Procura (la nuova soglia di 100k li obbliga di solito a segnalarlo comunque per verifica, ma se alleghi prove che era errore valutativo, il PM potrebbe archiviare). Anche qui c’è una cosa: dopo la L.130/2022, negli atti di appello e memorie l’AdE tende a citare ordinanze Cassazione 2024 che dicono che la nuova norma processuale non inverte onere, quindi onere su contribuente , e in parallelo su penale il confine art.4/3. Sono argomenti tecnici, ma in sostanza ribadiscono quell’idea: se era valutazione, niente penale.
D9: In caso di processo penale, è utile pagare subito il debito tributario?
R: Pagare spontaneamente tutto il dovuto (imposte, interessi, sanzioni) è sempre visto positivamente, ma i suoi effetti dipendono dal tipo di reato: – Per il reato di dichiarazione infedele o fraudolenta, attualmente non c’è una causa di non punibilità legata al pagamento (quella esiste per omesso versamento e indebita compensazione). Pagare però può essere considerato un attenuante (dimostri ravvedimento operoso). In sede di patteggiamento, aver estinto il debito può convincere la Procura a concedere il minimo della pena o addirittura la sospensione condizionale. – Per il reato di indebita compensazione (se mai fosse il caso tuo), il D.Lgs. 74/2000 prevede che se paghi integralmente quanto dovuto all’Erario prima che inizi il processo (primo grado), il reato è estinto. Ma questo vale per art.10-bis, 10-ter, 10-quater comma 1. Nel caso di crediti inesistenti, art.10-quater comma 2, è dibattuto se si applichi la stessa causa di non punibilità, ma direi di sì in generale. Quindi se uno ha usato crediti fiscali inesistenti in F24 e poi paga tutto, può evitare la condanna. – Ricorda che comunque, se finisci condannato per frode o infedele, il giudice deve ordinare il pagamento delle imposte evase come risarcimento allo Stato (ora è obbligatorio dal 2015). Quindi tanto vale sistemare prima la posizione tributaria.
In sintesi, pagare aiuta ma non ti salva automaticamente dal processo se parliamo di dichiarazione infedele/fraudolenta. Resta però un ottimo argomento per chiedere la sospensione condizionale (la regola è che devi aver eliminato le conseguenze del reato per avere la condizionale: nel tributario, pagare le imposte è visto come tale). Non solo: se la tua condotta ha portato a una condanna <2 anni, con il pagamento potresti anche chiedere la particolare tenuità o l’esclusione della punibilità per condotte riparate (queste ultime ipotesi però in frodi fiscali non sono molto invocabili formalmente, perché c’è specifica disciplina). Insomma, moralmente e strategicamente, sì paga se puoi. Evita invece di farlo come “ravvedimento” all’ultimo momento della verifica: il ravvedimento è possibile solo prima che ti contestino formalmente. Dopo il PVC la chance di ravvedersi di solito è persa. Ma se ancora non c’è un atto e tu temi penalmente, potresti fare una dichiarazione integrativa e versare (è raro ma succede, magari se ti accorgi da solo prima che arrivino i controlli).
D10: Quali documenti dovrei raccogliere per difendermi efficacemente in caso di contestazione su perdite su crediti?
R: Ecco un elenco di documenti utili da predisporre e conservare: – Contratto/i o fatture che hanno generato il credito, per dimostrarne l’origine certa. – Estratto conto cliente o situazione contabile, per evidenziare il mancato incasso e l’anzianità del credito. – Corrispondenza col debitore: lettere di sollecito (raccomandate, PEC), eventuali email, SMS (stampali e falla autenticare da un notaio se importanti), dove chiedi il pagamento e magari il debitore risponde che non può pagare. – Informazioni sul debitore: visura camerale aggiornata (scioglimento? fallimento? cancellazione?), certificati di residenza se persona fisica (irreperibilità all’indirizzo noto), esiti di eventuali ricerche anagrafiche. – Atti giudiziari (se ne hai fatti): ricorso per decreto ingiuntivo, decreto stesso, pignoramento (con verbale negativo se nulla da pignorare), oppure se il debitore ha fatto una causa contro di te e hai transato, l’accordo transattivo. – Bilanci e documenti del debitore (se società): bilancio da cui risulti insolvenza (perdite cumulate, patrimonio netto negativo), elenco dei protesti a suo carico, iscrizioni pregiudizievoli (pignoramenti, ipoteche, esecuzioni da altri creditori). – Relazioni di terzi professionisti: ad esempio, la relazione dell’avvocato che hai consultato per il recupero crediti, in cui ti scrive “ho effettuato indagini, non risultano beni aggredibili né fonti di reddito, pertanto sconsiglio azione legale in quanto antieconomica”. Oppure una relazione di agenzia investigativa sul patrimonio del debitore. – Verbali societari interni: se hai deliberato qualcosa (in CDA o assemblea) riguardo a quei crediti, ad esempio “presa d’atto dell’irrecuperabilità del credito X e decisione di stralciarlo”, con motivazioni. – Documentazione bancaria: se il debitore aveva emesso assegni o effetti risultati insoluti, allegane copia (dimostra inadempienza). – Eventuali comunicazioni dell’Agenzia Entrate sul debitore: a volte se un debitore è fallito o scappato, l’AdE potrebbe averti contestato l’IVA non pagata (se hai fatto nota di credito, per esempio, serve la documentazione del fallimento). Oppure se sai che il debitore è coinvolto in frodi, qualsiasi notizia ufficiale aiuta. – Copia di normative o prassi su cui hai fatto affidamento: ad esempio, se stai deducendo un mini-credito, tieni copia della Circolare 26/E/2013 e della norma che ti consente di farlo. Se deduci un credito prescrittO, magari allega un riferimento dottrinale (alcuni allegano articoli di riviste per far vedere che hanno seguito quella linea – non è prova, ma arricchisce il quadro).
In generale, meglio un documento in più che uno in meno. Se hai dubbi, pensa: “se dovessi convincere una terza persona scettica che davvero non potevo incassare, cosa le mostrerei?”. Ecco, quello devi avere. Nel dubbio, inizia a raccogliere questi elementi appena ti rendi conto che un credito sta andando male: non aspettare la verifica fiscale magari 5 anni dopo quando qualcosa potrebbe perdersi. Ad esempio: fai sempre i solleciti scritti via PEC o raccomandata e conserva le ricevute; se parli a voce col debitore e lui ammette che non ti pagherà, mandagli una mail di conferma “Come da nostra telefonata in data X, prendo atto delle Sue difficoltà ecc.”, così resta traccia. Tutto questo costruirà la tua difesa e, con ogni probabilità, scoraggerà anche l’Agenzia dall’insistere, perché vedendo un dossier completo spesso preferiscono concentrarsi su casi in cui manca la documentazione.
Conclusione
La gestione delle svalutazioni e perdite su crediti è un tema complesso che intreccia principi contabili, norme tributarie e – in situazioni estreme – profili penal-tributari. Dal punto di vista del debitore/contribuente, è fondamentale muoversi con prudenza e metodo:
- Conoscere le regole: Abbiamo visto che esistono precise disposizioni (art. 101 TUIR e altri) che delineano quando una perdita su crediti è deducibile e quando no. Aggiornarsi è essenziale: negli ultimi anni vi sono stati cambiamenti (soglie per crediti modesti, interpretazioni evolutive sulla competenza, ecc.) . Un contribuente informato può pianificare correttamente la deduzione e prevenire contestazioni (ad esempio attendendo i 6 mesi per i piccoli crediti, oppure formalizzando un accordo di ristrutturazione per legittimare una perdita, ecc.).
- Documentare ogni passaggio: La chiave di volta di ogni difesa è la prova. Ogni credito problematico dovrebbe avere un “fascicolo” di supporto: copia di contratti e fatture, scambi con il debitore, esiti di solleciti, visure, decisioni del management. Questa abitudine di tenere traccia non solo facilita l’eventuale contenzioso, ma spesso lo evita: di fronte a memorie difensive dettagliate (già in risposta al PVC) l’ufficio potrebbe desistere o ridimensionare la pretesa.
- Agire tempestivamente: Se il Fisco contesta qualcosa, non aspettare passivamente. Utilizza la finestra dei 60 giorni dal PVC per inviare osservazioni circostanziate. Ciò obbliga l’ufficio a considerarle (per statuto dei diritti del contribuente) e, quantomeno, mostrale al giudice in caso di successivo ricorso. Inoltre, se ti rendi conto di un errore a tuo sfavore (perdita dedotta tardi, ecc.), valuta di correggere prima che te lo contestino (dichiarazione integrativa). Certo, se l’errore ti avvantaggia impropriamente, integrando pagherai, ma spesso in tali casi è meglio autodenunciarsi col ravvedimento (sanzioni ridotte) piuttosto che attendere un accertamento pieno di sanzioni e magari penale.
- Evitare comportamenti artificiali: L’esperienza giurisprudenziale insegna che escamotage come le vendite infragruppo a prezzi irrisori, le note di credito immotivate, le fatture con soggetti compiacenti, difficilmente sfuggono a un esame approfondito. Il principio di prevalenza della sostanza sulla forma è ormai ben radicato: la Cassazione, ad esempio, ha affermato che svalutare integralmente un credito non è elusivo se sostenuto da rischio concreto , ma se quel rischio non c’era ed era solo un trucco, l’operazione viene riqualificata. Le Sezioni Unite fiscali (sentt. 34419 e 34420 del 2023) hanno di recente dettato un monito sull’abuso del diritto e sulle distinzioni tra crediti inesistenti e non spettanti , a conferma che gli schemi artificiosi (specie in materia di compensazioni e crediti d’imposta) sono sotto stretta sorveglianza. In dubbio, è meglio optare per la via più lineare e prudente, anche se apparentemente meno vantaggiosa nell’immediato, per evitare conseguenze peggiori in futuro.
- Rimanere aggiornati: La materia fiscale è in continua evoluzione. Lo evidenzia il fatto che abbiamo citato interpelli del 2021, ordinanze del 2023, nuove norme del 2024-2025. Un avvocato o commercialista deve monitorare le novità (ad esempio le pronunce più recenti sulla definizione di credito inesistente , o la riforma del processo tributario del 2022-2023 che ha introdotto nuovi istituti). Ad agosto 2025, possiamo dire che c’è una tendenza a allineare sempre più le regole fiscali ai principi contabili (vedi rilevanza della cancellazione da bilancio ) e a semplificare per i casi minori (mini-crediti). Parallelamente, c’è una stretta su chi abusa: sanzioni precise per crediti inesistenti, termini di accertamento estesi, cooperazione con Procure per frodi rilevanti. Quindi il sistema premia la compliance e punisce la malafede.
In conclusione, dal punto di vista del contribuente (debitore verso il Fisco), difendersi dalle contestazioni sulle perdite su crediti inesistenti è possibile e spesso fruttuoso se si hanno buone ragioni e prove solide. Le Commissioni Tributarie (oggi Corti di Giustizia) negli ultimi anni hanno dato ragione in molti casi ai contribuenti che potevano dimostrare la concreta inesigibilità dei crediti o l’erroneità delle pretese fiscali . L’importante è impostare la difesa in modo tecnico ma chiaro, aiutando i giudici (che non sono infallibili in materia contabile) a capire la realtà economica sottostante e la correttezza del proprio operato. Le tabelle e gli schemi riassuntivi presentati in questa guida possono servire anche come checklist di autovalutazione: se trovi un tuo caso collocabile tra quelli ammessi (es. credito prescritto, debitore fallito, ecc.), fai valere quelle norme; se invece riconosci che rientri in una fattispecie a rischio (es. rinuncia infragruppo senza giustificazioni), preparati a un’eventuale soluzione transattiva.
Ricorda infine che, in materia tributaria, ogni caso è storia a sé: anche un dettaglio può cambiare l’esito. Perciò, oltre alle conoscenze generali, è essenziale un’analisi specifica del proprio caso con l’aiuto di professionisti qualificati, così da costruire una difesa su misura, basata non su sofismi ma su fatti e diritto. Con un approccio rigoroso e proattivo, il contribuente può far valere le proprie ragioni e tutelarsi efficacemente dalle contestazioni su svalutazioni di crediti inesistenti.
Fonti:
Perdite su crediti – Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 26/E del 1 agosto 2013
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👉 Prima regola: dimostra la reale esistenza del credito svalutato, la corretta contabilizzazione e la buona fede nella gestione fiscale.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Iscrizione in bilancio di crediti commerciali mai esistiti o già estinti;
- Svalutazioni di crediti privi di prova documentale (fatture, contratti, corrispondenza con il debitore);
- Utilizzo di svalutazioni per abbattere artificiosamente l’imponibile;
- Crediti verso società collegate o controllate create ad hoc per generare componenti negativi fittizi;
- Mancata dimostrazione delle azioni intraprese per il recupero del credito.
📌 Conseguenze della contestazione
- Ripresa a tassazione della svalutazione ritenuta indebita;
- Sanzioni amministrative per infedele dichiarazione, fino al 90% della maggiore imposta;
- Interessi di mora sulle somme recuperate;
- Rischio di denuncia penale in caso di contestazioni gravi (falso in bilancio o dichiarazione fraudolenta);
- Responsabilità patrimoniale degli amministratori.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Il credito era effettivamente esistente e certo?
- La svalutazione rispettava i criteri civilistici e fiscali (prudenza, competenza, percentuali ammesse)?
- Esistono documenti che dimostrino l’origine e l’insolvenza del debitore?
- Sono state attivate azioni legali o stragiudiziali per il recupero?
- L’Agenzia fonda la contestazione su prove concrete o su mere presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Fatture, contratti, ordini e corrispondenza commerciale;
- Estratti contabili e scritture ausiliarie;
- Solleciti, PEC, raccomandate e diffide inviate al debitore;
- Eventuali decreti ingiuntivi, pignoramenti o procedure concorsuali;
- Relazioni dell’organo di revisione o del collegio sindacale.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la reale esistenza del credito e l’effettiva insolvenza del debitore;
- Contestare la presunzione di “credito inesistente” con prove documentali;
- Evidenziare la correttezza civilistica e fiscale della svalutazione;
- Eccepire eventuali vizi di motivazione o errori di calcolo nell’accertamento;
- Richiedere l’annullamento in autotutela se i documenti erano già agli atti;
- Presentare ricorso entro 60 giorni alla Corte di Giustizia Tributaria;
- Difesa penale mirata se viene contestata una condotta fraudolenta.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza i crediti svalutati e la relativa documentazione;
📌 Verifica la legittimità della contestazione e la fondatezza dei rilievi fiscali;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti assiste in giudizio e, se necessario, nei procedimenti penali collegati;
🔁 Suggerisce strategie preventive per la corretta gestione delle svalutazioni future.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in contenzioso tributario e fiscalità d’impresa;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su crediti inesistenti o svalutazioni irregolari;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle svalutazioni di crediti inesistenti non sempre sono fondate: spesso si basano su presunzioni o su valutazioni incomplete.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale esistenza e correttezza dei crediti svalutati, evitare la ripresa a tassazione e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.
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