Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcuni costi di pubblicità dichiarati non risultano adeguatamente documentati? In questi casi, l’Ufficio presume che le spese non siano state effettivamente sostenute o che non abbiano un collegamento diretto con l’attività aziendale. La conseguenza è il disconoscimento della deducibilità, con recupero delle imposte, sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: ci sono strumenti difensivi per dimostrare la reale inerenza e l’effettività delle spese pubblicitarie.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i costi di pubblicità
– Se mancano fatture, ricevute o contratti con agenzie e fornitori di servizi pubblicitari
– Se la documentazione è generica o non dettagliata (senza date, oggetto o destinatario della campagna)
– Se i pagamenti non risultano tracciati da estratti conto o giustificativi bancari
– Se i costi sono sproporzionati rispetto al volume d’affari dell’impresa
– Se le spese appaiono come costi simulati, utilizzati per abbattere l’imponibile
Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità delle spese di pubblicità contestate
– Recupero delle imposte dirette e dell’IVA detratta indebitamente
– Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggiori controlli su altre voci di costo aziendali
Come difendersi dalla contestazione
– Produrre contratti, fatture e documentazione specifica delle campagne pubblicitarie effettuate
– Dimostrare la tracciabilità dei pagamenti con bonifici, assegni o estratti conto
– Evidenziare la coerenza delle spese pubblicitarie con le strategie commerciali aziendali
– Contestare la riqualificazione come costi non inerenti se la pubblicità ha generato ritorni dimostrabili
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la documentazione fiscale e commerciale relativa alle spese contestate
– Verificare la legittimità della contestazione e i margini di difesa consentiti dalla normativa
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi dell’accertamento
– Difendere l’impresa davanti ai giudici tributari contro richieste indebite
– Tutelare il patrimonio aziendale e l’immagine professionale da conseguenze fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi
– Il riconoscimento della deducibilità delle spese realmente sostenute
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto effettivamente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: le spese di pubblicità sono spesso oggetto di accertamento fiscale. È fondamentale conservare contratti, fatture e prove dell’effettivo svolgimento delle campagne promozionali.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e difesa delle imprese – spiega come difendersi in caso di contestazioni sui costi di pubblicità non documentati e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Ricevere un avviso di accertamento fiscale dall’Agenzia delle Entrate che contesta la deducibilità di costi di pubblicità ritenuti “non documentati” o fittizi è un’eventualità che può mettere in allarme imprenditori, professionisti e privati. In tali casi, l’Ufficio contesta che alcune spese pubblicitarie portate in deduzione dal contribuente non siano sufficientemente provate o inerenti all’attività d’impresa, e pertanto ne recupera l’importo a tassazione, con relative imposte e sanzioni. Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – fornisce un quadro avanzato su come difendersi efficacemente da simili contestazioni, dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta). Il taglio sarà tecnico-giuridico ma divulgativo, così da risultare utile sia per professionisti legali/fiscali sia per cittadini e imprenditori coinvolti direttamente.
Esamineremo innanzitutto il quadro normativo italiano in tema di spese di pubblicità: come sono disciplinate dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) e quali requisiti (inerenza, certezza, documentazione) devono avere per essere deducibili. Approfondiremo il concetto chiave di inerenza del costo e i più recenti orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione – includendo sentenze fino al 2025 – riguardo ai costi pubblicitari non adeguatamente documentati. Successivamente, verranno delineate le strategie difensive disponibili: dagli strumenti pre-contenziosi (come l’adesione all’accertamento) fino al ricorso tributario davanti alle nuove Corti di Giustizia Tributaria (già Commissioni Tributarie), con cenni alle fasi di appello e di legittimità. Saranno analizzati casi particolari (ad esempio sponsorizzazioni sportive, spese pubblicitarie sproporzionate rispetto all’azienda, ecc.) e situazioni in ambito civilistico (contenziosi tra privati, come contrasti contrattuali su campagne pubblicitarie non eseguite).
La guida include inoltre tabelle riepilogative per fissare i punti chiave, una sezione di Domande&Risposte frequenti e alcuni esempi pratici (simulazioni di parti di memorie difensive o atti) per mostrare come applicare i principi illustrati. Tutte le affermazioni saranno accompagnate da riferimenti a fonti normative e sentenze aggiornate per garantire autorevolezza (Cassazione, Corte Costituzionale, prassi Agenzia Entrate, ecc.). Procediamo dunque a inquadrare il tema, iniziando dalla normativa di riferimento sui costi di pubblicità e dal concetto di inerenza, per capire perché la mancanza di documentazione adeguata può portare all’indeducibilità di una spesa pubblicitaria e come il contribuente può far valere le proprie ragioni.
Normativa e principi generali sui costi di pubblicità
In Italia, le spese di pubblicità e propaganda sono generalmente considerate costi deducibili integralmente nell’esercizio di competenza, purché rispettino i requisiti previsti dalla legge fiscale. La normativa di riferimento è contenuta principalmente nel D.P.R. 917/1986 (TUIR). In particolare:
- Art. 108 TUIR: distingue le spese di pubblicità dalle spese di rappresentanza. Le spese di pubblicità (finalizzate a pubblicizzare prodotti o marchio e ad acquisire nuova clientela) sono interamente deducibili nell’esercizio in cui sono sostenute; le spese di rappresentanza (finalizzate a generiche ricadute di immagine o beneficenza, omaggi, eventi senza correlazione diretta ai prodotti) sono deducibili solo in parte e nel limite di specifici parametri di legge (percentuale sui ricavi, secondo il DM 19/11/2008). Una contestazione frequente dell’Amministrazione è la riqualificazione di talune spese come rappresentanza anziché pubblicità, con effetti limitativi sulla deduzione – ma in questa guida ci focalizzeremo sulle spese che il contribuente ha qualificato come pubblicitarie e che il Fisco contesta in toto per difetto di prova o inerenza.
- Art. 109 TUIR: contiene i principi generali di deducibilità dei componenti negativi di reddito. In particolare, il comma 1 richiede che le spese siano certe e determinabili (cioè esistenti e quantificate in modo oggettivo) entro la chiusura dell’esercizio di competenza; il comma 5 (già art.75 co.5) introduce il principio di correlazione con l’attività produttiva: “le spese e gli altri componenti negativi sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui originano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito” . Questo significa, in sostanza, che un costo è deducibile solo se ha attinenza con l’attività da cui il contribuente trae reddito imponibile. Tale previsione è alla base del concetto di inerenza.
Il principio di inerenza del costo
Inerenza è il criterio fondamentale per valutare la deducibilità di un costo nell’ambito del reddito d’impresa. Anche se il TUIR non ne fornisce una definizione esplicita, la giurisprudenza lo ha elaborato come principio generale “insito nella nozione di reddito d’impresa” . In parole semplici, una spesa è inerente se presenta un collegamento funzionale con l’attività imprenditoriale svolta: deve cioè essere sostenuta nell’esercizio dell’impresa o per i fini della stessa. Viceversa, costi riferibili a esigenze estranee all’impresa (ambito personale dell’imprenditore o spese per attività diverse dall’oggetto sociale) non sono inerenti e quindi non possono ridurre il reddito tassabile . L’inerenza funge da spartiacque tra costi deducibili e costi che restano a carico del contribuente .
Importante sottolineare che, secondo l’orientamento oggi prevalente, l’inerenza ha natura qualitativa e non quantitativa. Ciò è stato affermato a più riprese dalla Suprema Corte: “l’inerenza esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità” . In altre parole, per riconoscere l’inerenza non è richiesto di provare che la spesa abbia generato uno specifico ricavo o un vantaggio economico immediato. Anche costi che non producono utili nell’immediato possono essere inerenti, se effettuati con finalità imprenditoriali (ad esempio investimenti preparatori o spese per promuovere l’azienda nel lungo periodo) . La Cassazione ha chiarito che non serve un nesso di causalità diretto tra uno specifico costo pubblicitario e uno specifico ricavo, bensì una coerenza generale del costo con l’attività d’impresa, anche in una prospettiva potenziale o futura .
Esempio: le spese per una campagna pubblicitaria volta a far conoscere un nuovo marchio aziendale possono essere inerenti anche se nell’anno in cui sono sostenute l’azienda non registra un aumento di vendite. Ciò che conta è che quella campagna sia coerente con l’oggetto e le strategie dell’impresa, mirando (anche in prospettiva futura) a incrementare la notorietà del brand e quindi potenzialmente i ricavi.
D’altro canto, se una spesa è chiaramente estranea all’attività (es: acquisto di beni ad uso personale dell’amministratore spacciato per “pubblicità”), essa manca di inerenza e va esclusa. Ad esempio, la stampa di opuscoli per promuovere un’attività completamente diversa da quella effettivamente svolta dall’azienda, o la sponsorizzazione di eventi senza alcuna attinenza con il proprio settore, potrebbe essere considerata non inerente e dunque indeducibile.
Va notato che la Cassazione ritiene il principio di inerenza fondamentale nella determinazione del reddito d’impresa, collocandolo su un piano “superiore” alle singole disposizioni: esso discende dal fatto che il reddito tassabile dell’imprenditore è per legge il “reddito complessivo netto” (art. 3 TUIR e art. 53 Cost.), dunque al netto solo dei costi inerenti all’attività . La Corte Costituzionale stessa, con sentenza n. 262/2020, ha riconosciuto che l’inerenza è un criterio connaturato alla capacità contributiva dell’impresa, da intendersi come un giudizio qualitativo volto a verificare il collegamento necessario tra componente negativo (costo) e attività d’impresa esercitata .
Riepilogando i principi chiave sull’inerenza:
- Collegamento con l’attività: un costo è inerente se riferibile all’attività d’impresa effettivamente esercitata (coerente con l’oggetto sociale o le operazioni dell’azienda) . Non occorre che sia riferito a uno specifico ricavo, basta che rientri nell’ambito dell’attività o di sue espansioni potenziali. Se il costo riguarda ambiti estranei o personali, non è inerente .
- Nessun requisito di utilità immediata: l’inerenza non va misurata in base all’“utilità” o al profitto prodotto dalla spesa. Anche una spesa che non ha portato guadagni immediati può essere inerente, se sostenuta per scopi dell’impresa . La Cassazione ha più volte ribadito che “l’inerenza non integra un nesso utilitaristico tra costo e ricavo, bensì una correlazione tra costo e attività d’impresa, anche solo potenzialmente idonea a produrre reddito” .
- Antieconomicità e congruità: in generale, il Fisco non può sindacare nel merito la convenienza economica delle scelte imprenditoriali né negare una deduzione solo perché “la spesa è eccessiva” rispetto al beneficio . Tuttavia, una macro-sproporzione può fungere da indizio di non inerenza: se un costo appare abnorme e privo di ragionevolezza economica rispetto alle dimensioni e agli interessi dell’impresa, ciò può suggerire che in realtà persegua finalità estranee (es. trasferimento occulto di utilità a terzi o altre ragioni non imprenditoriali) . In tal caso eccezionale, la sproporzione evidente tra costo e attività può essere valutata come sintomo di difetto d’inerenza . La Cassazione ha affermato, ad esempio, che “la spesa di pubblicità di entità abnorme rispetto agli interessi ed alle dimensioni dell’impresa non è inerente e dunque non è deducibile” . In una recente sentenza (Cass. n. 2597/2022) è stato persino richiesto che, in presenza di costi enormemente sproporzionati, il contribuente dia prova dell’utilità del servizio remunerato, segnando un momentaneo revirement rispetto all’orientamento qualitativo puro . Ciò significa che, di fronte a spese pubblicitarie anomale (es. una piccola ditta individuale che deduce decine di migliaia di euro di pubblicità senza un chiaro ritorno né una giustificazione strategica), il giudice potrebbe attendersi spiegazioni convincenti sul perché quella spesa, pur altissima, avesse comunque senso per l’impresa. Resta però fermo che è l’Amministrazione finanziaria a dover evidenziare e provare la macroscopica antieconomicità e la conseguente estraneità all’impresa, non potendosi basare su valutazioni soggettive . In sintesi: il semplice fatto che una spesa sembri “poco utile” o “troppo elevata” non ne legittima automaticamente il disconoscimento; solo un’antieconomicità estrema e ingiustificabile, provata dal Fisco come indice di finalità extra-imprenditoriali, può comportare una presunzione di non inerenza .
Come vedremo, il tema della sproporzione si è presentato spesso riguardo a sponsorizzazioni sportive o spese di pubblicità sostenute da piccole imprese in misura molto alta rispetto al loro fatturato. Le pronunce non sono sempre univoche: accanto alla linea “qualitativa” pura (nessuna valutazione quantitativa di utilità), sono emersi casi (come Cass. 2597/2022 citata sopra) in cui la Corte ha “richiesto la prova dell’utilità” per spese enormi, in apparente contrasto con i precedenti a partire da Cass. 450/2018 . Inoltre, la Corte Costituzionale – come detto – ha avallato la visione qualitativa. Pertanto, il contribuente difensore dovrebbe valorizzare l’orientamento maggioritario (inerenza non legata al ritorno economico) e, se accusato di antieconomicità, spiegare le ragioni economiche o strategiche che giustificavano la spesa (ad es. investimento in pubblicità per espandersi su nuovi mercati, costi iniziali per lancio prodotto, ecc.), smontando l’idea che fosse un costo “senza senso” se non per fini estranei.
Onere della prova: chi deve dimostrare cosa?
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta costi di pubblicità come indeducibili, si pone la questione cruciale dell’onere probatorio. In base ai principi generali del diritto tributario e civile (art. 2697 c.c.), il contribuente che porta in deduzione un costo deve poter dimostrare la sussistenza dei presupposti che ne legittimano la deduzione: quindi deve provare che il costo esiste, che è stato effettivamente sostenuto nell’importo indicato (certezza e oggettiva determinabilità) e che è inerente all’attività d’impresa . La Cassazione ha affermato chiaramente che “la prova dell’inerenza deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché è onere del contribuente dimostrare e documentare l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, ovvero che esso è in realtà un atto d’impresa perché correlato all’attività imprenditoriale” . In altre parole, chi vuol far valere un costo ai fini fiscali deve giustificarlo: mostrare perché quella spesa è stata sostenuta e come si ricollega all’esercizio dell’impresa, fornendo la documentazione adeguata (fatture, contratti, pagamenti, report, ecc.) .
Tradizionalmente, quindi, in caso di accertamento il contribuente deve attivarsi per documentare la legittimità della deduzione contestata. Non basta aver contabilizzato la spesa in contabilità: la mera registrazione a bilancio non è una prova, ma solo un’auto-dichiarazione. La Corte di Cassazione più volte ha ribadito che l’onere della prova ricade sul contribuente: questi deve provare l’esistenza, l’inerenza e – se contestata – anche la congruità economica del costo rispetto all’attività d’impresa, fornendo adeguata documentazione di supporto . Ad esempio, in una recente ordinanza (Cass. ord. 28.05.2025 n. 14222) la Corte ha richiamato la sua giurisprudenza costante secondo cui, di fronte a contestazioni su costi dedotti, il contribuente è tenuto a provare e documentare i fatti costitutivi del costo: quindi l’esistenza e natura, i giustificativi (es. il contratto da cui nasce l’obbligo di spesa) e la destinazione all’attività d’impresa . Addirittura, si parla di onere “originario” a carico del contribuente: egli, ancor prima di confutare la pretesa fiscale, deve essere in grado di provare che quei costi esistono davvero, che sono certi nell’an e nel quantum e oggettivamente determinati . Anche per l’inerenza, l’onere è suo: deve dimostrare “un preciso raccordo causale [del costo] con i bisogni dell’impresa” .
Tuttavia, occorre coordinare tale impostazione con le novità normative introdotte dalla Riforma della giustizia tributaria del 2022. Il D.Lgs. 130/2022 ha infatti aggiunto al D.Lgs. 546/92 (art. 7, c.5-bis) un principio esplicito secondo cui nel processo tributario “l’onere della prova incombe all’Amministrazione finanziaria” in quanto parte che afferma la pretesa impositiva, tranne nei casi in cui il contribuente agisca per ottenere rimborsi . Ciò significa che, in linea teorica, è il Fisco – attore sostanziale – a dover provare i fatti che fondano la sua contestazione (es. l’inesistenza o inerenza mancata del costo), mentre il contribuente può limitarsi a negare o contestare tali fatti . Questa regola ha chiarito un annoso dibattito: ora è normativamente sancito che il Fisco deve fornire in giudizio evidenze concrete a supporto dell’accertamento, e non può ribaltare totalmente l’onere sul contribuente fin dall’inizio. In altre parole, l’Ufficio deve quantomeno portare elementi (documenti, risultanze investigative, presunzioni qualificate) che facciano ragionevolmente presumere che quel costo non sia deducibile; a quel punto, “di fronte a tale quadro, l’onere della prova del contribuente” sarà di offrire una spiegazione alternativa credibile e documentata per contrastare le risultanze del Fisco.
In pratica, quindi, si assiste a un doppio binario: da un lato l’Agenzia delle Entrate deve motivare l’accertamento indicando le ragioni per cui ritiene il costo indeducibile e, se la questione giunge in giudizio, deve sostenere tale assunto con elementi probatori (anche presuntivi) gravi, precisi e concordanti; dall’altro lato, il contribuente ha l’onere di fornire la prova contraria. In tema di costi pubblicitari non documentati, ciò si traduce così: l’Ufficio tipicamente evidenzia alcuni indizi di irregolarità – ad esempio: fatture emesse da società cartiere, mancanza di documenti che attestino l’effettiva diffusione della pubblicità, incongruenza della spesa rispetto all’attività, ecc. – e su tali basi presume che il costo sia fittizio o non inerente. Tale impostazione è legittima: la Cassazione conferma che il Fisco assolve il proprio onere probatorio anche mediante presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti . In presenza di questi elementi indiziari raccolti dall’Amministrazione (ad esempio un verbale della Guardia di Finanza che evidenzia che il fornitore pubblicitario non aveva struttura né personale, o che la campagna non risulta svolta), “spetta al contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo dichiarati”, altrimenti tali componenti negativi sono da considerarsi indeducibili . La mera esibizione formale di fatture e pagamenti, da sola, non basta a vincere la presunzione, se l’Ufficio ha provato che quelle fatture provengono da cartiere o che manca del tutto la prova sostanziale della prestazione . La Corte di Cassazione, in una recentissima pronuncia del 2025, ha ribadito proprio che “la mera produzione di fatture regolari, scritture contabili e mezzi di pagamento non è idonea a superare la presunzione di inesistenza oggettiva qualora l’Amministrazione abbia comprovato che i fornitori sono società cartiere o meri prestanome” . In tali casi, al contribuente è richiesto qualcosa di più robusto: “elementi sostanziali, e non meramente formali, dell’effettiva esistenza delle prestazioni” .
In sintesi, nel gioco delle prove per i costi di pubblicità contestati:
- L’Agenzia Entrate deve innescare la contestazione con elementi concreti (esiti di verifica, incongruenze documentali, evidenze di frode) tali da far presumere la non deducibilità. Non può limitarsi ad affermazioni vaghe: una contestazione del tipo “la spesa non è documentata” deve poggiarsi su qualcosa (ad es. “non hai prodotto il contratto” oppure “il fornitore è risultato irreperibile” ecc.), altrimenti potrebbe essere viziata per motivazione insufficiente .
- Il contribuente, a fronte di ciò, deve reagire attivamente, fornendo tutte le prove a supporto della legittimità del costo. Egli deve documentare il costo in ogni aspetto (esistenza, pagamento, inerenza). Se l’Ufficio contesta mancanza di documenti, il contribuente dovrà produrli (se esistenti) o procurarsene (es. attestazioni, dichiarazioni di terzi) per colmare le lacune. Se contesta inesistenza della prestazione, il contribuente dovrà provare che invece la pubblicità c’è stata (con foto, video, materiale pubblicitario, testimonianze, ecc.). Se contesta antieconomicità, dovrà spiegare perché la spesa, pur alta, aveva una logica imprenditoriale (fornendo magari piani di marketing, studi di settore, risultati attesi).
Si noti infine che la riforma del 2022 ha introdotto, in via eccezionale, la possibilità di una prova testimoniale scritta nel processo tributario . Tradizionalmente, le testimonianze orali erano vietate nei giudizi contro il Fisco, ma ora il giudice può ammettere dichiarazioni giurate scritte da parte di terzi, se indispensabili e su fatti non già coperti da atto pubblico . Ciò potrebbe rilevare nella difesa di costi pubblicitari: ad esempio, qualora un terzo (organizzatore dell’evento sponsorizzato, destinatario della pubblicità, ecc.) possa attestare l’avvenuta esecuzione della prestazione, tale testimonianza (resa per iscritto in forma di dichiarazione ex art. 257-bis c.p.c.) potrebbe essere ammessa come prova a favore del contribuente. È uno strumento da utilizzare con cautela (la giurisprudenza ne consente l’uso solo residualmente) , ma rappresenta comunque un’arma in più nel dimostrare l’effettività di operazioni contestate.
Requisito della documentazione e certezza del costo
Oltre all’inerenza, un costo per essere deducibile deve essere “certo e determinabile nell’ammontare” (art. 109, co.1, TUIR). Ciò implica, in pratica, che il costo sia supportato da idonea documentazione contabile e probatoria. Nel caso delle spese di pubblicità, la documentazione tipica consiste in: contratto o accordo che regola la prestazione pubblicitaria, fatture emesse dal soggetto che la realizza, quietanze di pagamento (es. bonifici, assegni), nonché eventuale materiale attestante l’esecuzione (ad es. brochure stampate, fotografie di cartelloni pubblicitari installati, copia di inserzioni pubblicate su giornali o siti, report di messa in onda di spot, ecc.). Laddove questa documentazione sia mancante o irregolare, l’Ufficio può contestare non solo l’inerenza ma la stessa esistenza/certezza del costo.
Ad esempio, se vengono contabilizzati “costi pubblicitari” ma il contribuente non esibisce alcuna fattura né un contratto da cui risultino tali spese, è assai probabile che in sede di verifica il costo venga ripreso a tassazione come indocumentato. Allo stesso modo, se esiste una fattura ma questa è priva di elementi essenziali (per dire: descrizione generica “servizi pubblicitari” senza indicazione della campagna o del periodo; oppure importo sproporzionato senza dettaglio), l’Amministrazione potrà eccepire che la fattura è materialmente emessa ma non prova in modo adeguato la natura del servizio, insinuando che sia oggettivamente inesistente. Un caso emblematico è quello delle spese per carburanti: la Cassazione, in una decisione del 2025, ha confermato l’indeducibilità di alcuni costi di carburante non perché non inerenti (erano inerenti all’attività di autotrasporto), ma perché le relative fatture erano irregolari – mancava l’indicazione delle targhe dei veicoli riforniti – e dai controlli incrociati risultava che i consumi dichiarati erano incompatibili con i chilometri effettivamente percorsi . In tal caso, più che l’inerenza, difettava la certezza e veridicità del costo: la documentazione lacunosa non permetteva di ritenerlo attendibile, giustificando il disconoscimento.
Questo esempio, mutatis mutandis, vale anche per la pubblicità: se le fatture presentano anomalie (date incongruenti, descrizioni vaghe, mancanza di riscontri) o se c’è contrasto tra i documenti (magari il contratto parla di 100 manifesti ma poi non ve n’è traccia fisica, oppure si scopre che il fornitore non aveva mezzi per realizzare quanto fatturato), la conseguenza è che il costo viene ritenuto non provato. La regola infatti è che “se la documentazione è carente o irregolare, il costo può essere disconosciuto anche a prescindere dall’inerenza”. Dunque è fondamentale per il contribuente curare la gestione documentale**: a posteriori, salvare e presentare ogni pezzo di carta o file che attesti lo svolgimento della pubblicità contestata può fare la differenza tra vincere o perdere la causa.
Check-list documentale (spese pubblicitarie): ecco un elenco di documenti/elementi probatori che conviene avere e produrre se viene messa in dubbio l’effettività o inerenza di costi pubblicitari:
- Contratto di pubblicità/sponsorizzazione: accordo scritto con il fornitore (agenzia pubblicitaria, emittente, società sponsorizzata, ecc.) che specifichi l’oggetto (es. realizzazione di campagna promozionale, sponsorizzazione di evento sportivo X in cambio di esposizione logo, ecc.), il corrispettivo e le modalità. Se non c’è contratto formalizzato, altri documenti equivalenti (ordine, preventivo accettato, scambio di email dettagliato).
- Fatture originali emesse dal fornitore per i servizi pubblicitari, complete di data, descrizione, importo e dati di entrambe le parti. La descrizione dovrebbe permettere di collegare la fattura alla specifica campagna/servizio.
- Prova del pagamento: ricevute di bonifico bancario, assegni incassati, estratti conto che mostrino l’uscita finanziaria a favore del fornitore. Importante perché se risulta che la fattura non è mai stata pagata, l’Ufficio sospetterà una fattura “di comodo” solo cartacea.
- Materiale pubblicitario prodotto: copie di volantini, manifesti, screenshot di banner web, registrazioni audio/video degli spot, ecc. – tutto ciò che dimostra che la pubblicità è stata realizzata e diffusa secondo gli accordi.
- Documentazione di distribuzione: ad es., report di affissione (date e luoghi dove i manifesti sono stati affissi, con attestazioni di chi li ha affissi), dati di audience o tiratura se la pubblicità era su media (es. copie del giornale con l’inserzione), scalette di programmazione se radio/tv, report di click o visualizzazioni se online.
- Corpondenza e comunicazioni col fornitore: e-mail, lettere, chat da cui risulti il progresso della campagna, l’invio di materiali, conferme di pubblicazione, ecc. Anche eventuali dichiarazioni del fornitore o di terzi che confermino l’avvenuto svolgimento della promozione (soprattutto se il fornitore nel frattempo è fallito o irreperibile – in tal caso possono essere utili dichiarazioni di ex dipendenti, partner commerciali, destinatari della pubblicità).
- Risultati o riscontri: se disponibili, qualsiasi evidenza del ritorno o feedback generato (ad es., incremento di contatti grazie alla pubblicità, rassegna stampa che menziona l’evento sponsorizzato, ecc.) – non è obbligatorio per legge dimostrare il ritorno economico, ma se c’è aiuta a rendere credibile che la pubblicità sia stata reale ed efficace.
Mantenere un dossier completo con tutti questi elementi faciliterà enormemente la difesa in sede di verifica o giudizio. Come nota la Cassazione, “l’onere di documentare e giustificare ogni singola operazione” ricade sul contribuente e la tenuta corretta della contabilità è la base per poterlo fare. In un’ordinanza recente, la Corte osserva che incongruenze documentali (nel caso di specie, divergenza sul luogo di consegna in fattura) fanno venir meno la forza probatoria della fattura e “attivano l’onere per il contribuente di fornire ulteriori elementi a supporto della deducibilità” . Il messaggio è chiaro: se emergono anomalie, l’imprenditore deve farsi trovare pronto con spiegazioni e prove aggiuntive.
Da quanto sopra discende un corollario pratico: prevenire è meglio che curare. Una gestione amministrativa accurata – specie per spese rilevanti e potenzialmente sotto la lente come quelle pubblicitarie – può prevenire o rendere agevolmente superabili molti rilievi fiscali. Se un costo è solido nella sostanza e nella documentazione, la difesa sarà decisamente più forte.
Accertamenti fiscali sui costi pubblicitari “non documentati”
Vediamo ora più in dettaglio come opera l’Agenzia delle Entrate (o la Guardia di Finanza) quando decide di contestare dei costi di pubblicità, sostenendo che in realtà non sono documentati o non sono reali. Le situazioni tipiche che portano a questo genere di contestazione sono:
- Presunte operazioni inesistenti: il Fisco sospetta che dietro alcune fatture di pubblicità non vi sia alcuna reale prestazione, ossia che siano fatture false. Ciò può emergere, ad esempio, da indagini sulla società fornitrice: se questa risulta una cartiera (società fittizia senza strutture né attività reale, creata solo per emettere fatture), oppure se amministratori e sede sono irreperibili, o ancora se vi sono connivenze con il cliente, l’Ufficio presume che la fattura sia relativa a operazione oggettivamente inesistente (cioè mai avvenuta) . In altri casi, l’operazione può essere soggettivamente inesistente: la pubblicità è stata effettivamente fatta, ma non dal soggetto che ha emesso fattura – ad esempio la fattura proviene dalla Società Alfa, ma in realtà il servizio è stato svolto da Società Beta, usando Alfa come intermediaria fittizia per gonfiare costi o per altri scopi. Questo accade ad esempio in certi schemi fraudolenti di intermediazione pubblicitaria o sponsorizzazioni sportive.
- Documentazione lacunosa: il contribuente non è in grado di esibire, su richiesta, documenti essenziali. Può capitare con costi registrati magari anni prima: all’atto del controllo, l’azienda non trova più il contratto, oppure non riesce a mostrare evidenze dell’effettuazione della pubblicità (nessun campione dei materiali, nessun report, nulla oltre la fattura). In questi frangenti, l’Ufficio può concludere che la spesa sia “non documentata” e quindi indeducibile in base all’art. 109 TUIR e all’art. 2697 c.c. (mancando la prova del fatto costitutivo). Una contabilità incompleta o irregolare (es.: fatture non registrate correttamente, pagamenti in contanti non tracciati oltre soglie consentite, ecc.) può rafforzare questo tipo di rilievo.
- Incongruenze e antieconomicità manifeste: come accennato, se l’importo delle spese di pubblicità è fortemente anomalo rispetto ai dati dell’impresa, l’Agenzia potrebbe dedurne che quella spesa nasconda qualcos’altro. Ad esempio, piccole imprese senza dipendenti che deducono decine di migliaia di euro all’anno per “pubblicità” insospettiscono il Fisco, il quale potrebbe presumere che dietro si celino utilizzi personali di denaro o sovrafatturazioni per abbattere l’utile. Oppure, se l’azienda opera solo in una certa zona e tuttavia contabilizza costi per campagne pubblicitarie nazionali di ampia portata, l’Ufficio potrebbe obiettare che quella pubblicità non era rivolta alla clientela effettiva dell’azienda (quindi non giustificata). In passato la Cassazione ha ad esempio ritenuto indeducibili costi di pubblicità che non erano indirizzati alla clientela “usuale” dell’impresa : nel caso specifico, un’azienda priva di punti vendita al dettaglio aveva sostenuto spese pubblicitarie che, secondo il Fisco, erano inutili per il suo business (destinato solo a intermediari). Anche se la linea attuale tende a escludere valutazioni di utilità, rilievi del genere possono ancora emergere da parte degli Uffici periferici.
- Sponsorizzazioni e spese border-line con la rappresentanza: le sponsorizzazioni sportive o di eventi culturali da parte di imprese sono un’area di forte attenzione del Fisco. Da un lato, esiste una normativa incentivante (art. 90 L.289/2002) che presume come pubblicitarie (quindi deducibili integralmente) le sponsorizzazioni fino a 200.000 € annui a favore di società sportive dilettantistiche, se rispettano certe condizioni (logo ben visibile, ritorno pubblicitario specifico, ecc.). Dall’altro lato, al di fuori di tali casi de iure, l’Amministrazione spesso contesta l’inerenza di sponsorizzazioni sostenendo che in realtà procurano solo un generico vantaggio di immagine (spesa di rappresentanza) o addirittura che sono modi surrettizi per trasferire denaro (si pensi a quando la sponsorizzazione avviene verso soggetti collegati all’imprenditore). Numerose controversie in Cassazione riguardano proprio spese di sponsorizzazione sportiva: la giurisprudenza, come visto, negli ultimi anni ha chiarito che la spesa di sponsorizzazione è deducibile se inerente anche solo potenzialmente all’attività, senza dover dimostrare un incremento di fatturato diretto . Ad esempio, mettere il proprio marchio sull’auto di un pilota di kart può essere inerente per un’azienda, anche se non vende prodotti al pubblico, purché si dimostri che quel marchio nell’ambiente sportivo aumenta la brand awareness presso soggetti potenzialmente interessati al business dell’azienda . La Cassazione (ord. n. 11324/2022) ha confermato la deducibilità per un caso del genere, respingendo l’argomento dell’Ufficio secondo cui non c’era un ritorno concreto sul fatturato . Tuttavia, come visto, altre pronunce (es. Cass. 2597/2022) hanno ritenuto non inerente una sponsorizzazione giudicata abnorme come spesa rispetto alle dimensioni della ditta . Quindi, in verifica, le sponsorizzazioni di importo rilevante possono essere messe sotto scrutinio: se mancano riscontri (es. prove dell’effettiva resa pubblicitaria da parte dello sponsor), l’Ufficio potrebbe disconoscerle ritenendole in realtà “spese di rappresentanza” (deducibili solo parzialmente) oppure operazioni inesistenti.
In generale, quando l’Agenzia ritiene che dei costi di pubblicità siano fittizi o non provati, l’atto che emette è di solito un avviso di accertamento per le imposte dirette (IRES/IRPEF, IRAP) dell’anno in questione, con cui recupera a tassazione l’importo di tali costi, aumentando il reddito imponibile e calcolando le maggiori imposte dovute. Contestualmente vengono di norma irrogate sanzioni per dichiarazione infedele (oggi dal 90% al 180% dell’imposta evasa, ex D.Lgs. 471/1997) salvo che si configuri una condotta fraudolenta più grave. Se vi è anche detrazione IVA su quelle fatture considerate inesistenti, l’accertamento comprenderà il recupero dell’IVA detratta indebitamente e le sanzioni IVA (generalmente pari al 90% dell’IVA non dovuta).
Nota penale: qualora i costi pubblicitari fittizi siano di ammontare rilevante e vi sia il sospetto che il contribuente abbia utilizzato fatture false per evadere le imposte, potrebbe scattare una segnalazione penale ai sensi del D.Lgs. 74/2000, art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti). La norma punisce chi, al fine di evadere, indica in dichiarazione elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture false. Non esiste una soglia di importo per la configurabilità del reato (basta anche una sola fattura falsa, in teoria), anche se le pene variano a seconda dell’ammontare dell’evaso . Se l’imposta evasa tramite tali fatture supera €100.000, la reclusione prevista è da 4 a 8 anni; se inferiore a €100.000, da 1 anno e 6 mesi a 6 anni . Inoltre, l’emissione di fatture false (da parte di chi le ha emesse) è altro reato (art. 8 D.Lgs.74/2000) punito severamente. È importante avere consapevolezza di questo profilo: un accertamento su costi inesistenti può avere strascichi penali, soprattutto se c’è evidenza di frode organizzata (cartiere, accordi simulatori). Dal punto di vista difensivo, però, l’eventuale procedimento penale esula dall’ambito tributario: qui ci concentriamo sugli strumenti di difesa nel procedimento fiscale e contenzioso tributario. Giova comunque dire che, se il contribuente è in buona fede e vittima di una frode altrui (es. ha acquistato spazi pubblicitari da una società che poi si rivela essere un prestanome), questa circostanza potrà essere valorizzata sia per evitare sanzioni penali, sia per chiedere quantomeno l’esclusione delle sanzioni amministrative tributarie per obiettiva condizione di incertezza o non colpevolezza.
Strategie difensive: come reagire alla contestazione
Passiamo ora al “come difendersi” in concreto quando l’Agenzia delle Entrate contesta costi di pubblicità non documentati. La difesa può articolarsi su due livelli: fase pre-contenziosa (prima che la questione approdi in tribunale, tentando soluzioni come l’adesione o l’autotutela) e fase contenziosa (ricorso alle Corti di Giustizia Tributaria, primo e secondo grado, ed eventualmente Cassazione).
Fase pre-contenziosa (preventiva e deflattiva)
Appena si riceve un rilievo o un avviso di accertamento su tali costi, è consigliabile valutare se esistono spazi per risolvere la questione senza arrivare al giudice, attraverso gli strumenti deflattivi del contenzioso. Questi includono:
- Interlocuzione anticipata e autotutela: Spesso, prima di emettere l’accertamento, l’Ufficio invia un PVC (Processo Verbale di Constatazione della Guardia di Finanza) o un avviso di accertamento con adesione. Dal 2023, per atti di accertamento l’Agenzia deve attivare il contraddittorio endoprocedimentale (invito a comparire) tranne casi di particolare urgenza o indisponibilità . Questo offre al contribuente la chance di presentare memorie, documenti e osservazioni prima che l’atto diventi definitivo. È importantissimo sfruttare questa fase: presentare subito all’Ufficio tutte le prove dell’effettiva esistenza e inerenza delle spese contestate. In molti casi, se si riesce a convincere i verificatori producendo contratti, foto della pubblicità svolta, ecc., l’atto impositivo potrebbe essere rivisto o annullato in autotutela. L’istanza di autotutela (richiesta all’ente di annullare o correggere l’atto per errori) è un mezzo informale ma talvolta efficace, specialmente se si evidenziano errori fattuali grossolani (es. il verificatore non aveva visto dei documenti poi prodotti).
- Accertamento con adesione: Una volta notificato l’avviso di accertamento (o ricevuto un invito a aderire), il contribuente può proporre istanza di adesione, che apre una fase di trattativa con l’ufficio (sospendendo i termini per il ricorso per 90 giorni). In sede di adesione, è possibile discutere nel merito la contestazione: si può cercare di convincere l’ufficio della bontà delle proprie ragioni oppure, in alternativa, raggiungere un compromesso (ad es., riconoscere una parte di imponibile con riduzione delle sanzioni). Se si hanno solide prove dell’effettività della pubblicità, in adesione si potrà puntare all’annullamento totale del rilievo. Se invece qualche dubbio permane, si potrebbe negoziare una riduzione: ad esempio, se contestavano 100% indeducibilità di €50.000, si potrebbe ottenere che ne vengano riconosciuti €30.000 e solo €20.000 recuperati, con sanzioni minime sul concordato. L’adesione ha il vantaggio di ridurre le sanzioni ad 1/3 del minimo previsto (in luogo, ad esempio, del 90%, si scende al 30%). È una soluzione da valutare soprattutto quando la posizione probatoria del contribuente non è ferrea: se mancano alcuni documenti o c’è rischio in giudizio, con l’adesione si chiude la vicenda rapidamente e con sanzioni attenuate. Naturalmente, bisogna anche considerare che aderire significa rinunciare a proseguire il contenzioso, per cui deve essere una scelta ponderata.
- Definizioni agevolate e sanatorie: Negli ultimi anni il legislatore ha talvolta introdotto strumenti di pace fiscale (condono, definizione agevolata liti pendenti, ecc.). Ad agosto 2025, ad esempio, è in corso la definizione agevolata degli avvisi di accertamento non impugnati e delle controversie tributarie pendenti, introdotta con la Legge di Bilancio 2023 e seguenti. Se il caso rientra tra quelli definibili (ad esempio, adesione a stralcio di sanzioni, o pagamento del solo tributo senza interessi), può convenire aderire alla sanatoria, specie se la materia del contendere è incerta. È sempre opportuno consultare le norme vigenti al momento per vedere se c’è un percorso agevolato applicabile. Per le liti su costi indeducibili, spesso erano previste definizioni pagando una percentuale del valore.
- Reclamo e mediazione: Occorre segnalare che l’istituto del reclamo/mediazione (obbligatorio un tempo per le liti di valore fino a €50.000) è stato abolito a partire dal 2024 dal D.Lgs. 156/2015 come modificato dalla riforma 2022/2023 . Dunque, per gli accertamenti notificati dopo il 1° gennaio 2024, non c’è più l’obbligo di presentare un’istanza di reclamo prima del ricorso; si può andare direttamente in giudizio. Ciò non toglie che sia ancora possibile, su base volontaria, trovare un accordo con l’ufficio anche dopo l’impugnazione, tramite la conciliazione giudiziale (vedi oltre).
In sintesi, nella fase pre-contenziosa conviene: agire tempestivamente, raccogliere tutti i documenti a supporto, farsi assistere da un tributarista esperto e tentare di ridurre il danno magari ottenendo l’annullamento in autotutela o chiudendo con adesione. Non bisogna lasciar scadere i termini: se l’adesione non va a buon fine, rimane la possibilità del ricorso.
Tabella – Strumenti difensivi pre-contenziosi
| Strumento | Caratteristiche e Vantaggi | Effetti sulla controversia | |————————|————————————————————–|———————————————-| | Interlocuzione preliminare (contraddittorio, memorie, autotutela) | Fase in cui il contribuente può presentare documenti e deduzioni prima dell’emissione dell’accertamento o subito dopo. Se emergono elementi convincenti, l’Ufficio può archiviare o correggere il rilievo in autotutela. | Può evitare del tutto il contenzioso. L’autotutela annulla l’atto (totale/parziale) senza costi. Non sospende termini di ricorso (va fatta tempestivamente). | | Accertamento con adesione | Richiedibile dopo la notifica dell’avviso (o a seguito di PVC). Si instaura un dialogo con l’AE per trovare un accordo sul quantum. Durante la procedura (max 90 gg + proroghe) il termine per ricorrere è sospeso. Vantaggio: sanzioni ridotte a 1/3 del minimo, niente spese giudizio. | Se si raggiunge l’accordo e si perfeziona col pagamento, la controversia è definita e l’atto non è impugnabile. Se non si raggiunge intesa, si può comunque presentare ricorso (entro 60 gg dal mancato accordo o dalla scadenza 90 gg). | | Definizioni agevolate (se previste) | Procedure straordinarie (condoni, sanatorie) previste da leggi speciali, spesso a tempo. Es: definizione avvisi pagando solo imposta, definizione liti con percentuale. Vantaggio: eliminazione/riduzione sanzioni e interessi, chiusura rapida. | Se il contribuente aderisce e versa quanto dovuto, la pretesa si considera definita e non più contestabile. Attenzione ai termini e condizioni fissati dalla legge specifica. | | Reclamo/Mediazione (per liti minori) | (Abolito dal 2024) In passato, per liti ≤ €50.000 si doveva presentare un reclamo all’AE prima del ricorso, con possibilità di mediazione (riduzione sanzioni a 35%). Ora non più obbligatorio, ma resta facoltà di conciliazione in giudizio. | – |
Difesa in sede contenziosa (ricorso tributario)
Se la fase pre-contenziosa non risolve la questione – ad esempio, l’ufficio insiste nel disconoscere i costi di pubblicità nonostante le nostre spiegazioni, oppure non è stato possibile o utile tentare un’adesione – allora occorre passare alla fase giurisdizionale, presentando ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (in passato chiamata Commissione Tributaria Provinciale) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impositivo. Vediamo come strutturare la difesa in giudizio:
Preparazione del ricorso introduttivo
Il ricorso è l’atto con cui si apre la causa tributaria. Trattandosi di materia tecnica, è vivamente consigliata l’assistenza di un avvocato tributarista o di un dottore commercialista abilitato. Nel ricorso occorre indicare: l’ente convenuto (Agenzia Entrate Ufficio X), l’atto impugnato, i motivi di doglianza e le conclusioni (richiesta di annullamento totale/parziale dell’atto).
Nel caso di contestazione su costi pubblicitari, i motivi di ricorso tipici potrebbero essere:
- Vizi formali/motivazionali dell’atto: ad esempio, contestazione che l’avviso di accertamento sia motivato in modo insufficiente o generico. Se l’Ufficio non ha spiegato adeguatamente perché ritiene i costi non documentati (limitandosi magari a formule tipo “spesa non supportata da idonei elementi”), si può eccepire la violazione dell’art. 7 dello Statuto del Contribuente e art. 3 L.241/90 per difetto di motivazione, chiedendo l’annullamento dell’atto . Questo motivo va valutato caso per caso: spesso però gli uffici forniscono dettagli, quindi non sempre è spendibile.
- Vizi sostanziali: il cuore del ricorso starà nel dimostrare l’errore dell’Ufficio nel disconoscere la deduzione. Qui si articoleranno più sub-motivi: (i) esistenza ed effettività del costo – contrariamente a quanto sostenuto dall’AE, la pubblicità è stata realmente eseguita; (ii) inerenza del costo – la spesa aveva attinenza con l’attività dell’impresa; (iii) prova documentale sufficiente – il contribuente ha fornito documenti idonei, erroneamente ignorati o svalutati dall’Ufficio. Inoltre, se pertinenti, (iv) contestazione dell’applicazione della legge – ad esempio, se l’AE ha riqualificato la spesa come rappresentanza applicando il DM 19/11/2008, si potrebbe eccepire la falsa applicazione di tale norma, sostenendo che trattavasi invece di pubblicità pura deducibile al 100%.
È fondamentale allegare al ricorso tutte le prove documentali disponibili: copie di contratti, fatture, contabili bancarie, foto, brochure, relazioni tecniche, e così via. Nel processo tributario vige il principio di libertà dei mezzi di prova (salvo il limite sulle testimonianze), quindi ogni documento, anche atipico, può essere utile. Conviene predisporre un dossier ordinato per i giudici, magari con un indice, soprattutto se i documenti sono numerosi. Se qualche prova rilevante non è ancora disponibile (es.: una dichiarazione giurata di un terzo che stiamo raccogliendo), è possibile depositarla successivamente, purché entro i termini per le memorie (di regola 20 giorni prima dell’udienza di trattazione, art. 32 D.Lgs.546/92).
Dal 2023, il processo tributario è telematico: il ricorso si predispone in formato digitale e si notifica via PEC all’ufficio competente, depositandolo poi sul Portale della Giustizia Tributaria. Attenzione dunque alle regole tecniche (firma digitale, dimensione allegati, ecc.). Un difensore abituato alle procedure telematiche assicurerà che tutto sia fatto a norma.
Ecco una possibile struttura di motivo di ricorso, sotto forma di simulazione, che integra quanto raccolto sin qui:
Estratto (simulazione) di un motivo di ricorso – Difesa del costo pubblicitario
“Nel merito, l’avviso di accertamento è illegittimo laddove riprende a tassazione la somma di € 50.000,00 relativa a spese di pubblicità sostenute dalla società ricorrente nell’esercizio 2022. Contrariamente a quanto affermato dall’Ufficio, tali spese sono realmente esistite ed integralmente deducibili, in quanto inerenti all’attività d’impresa e adeguatamente documentate. In fatto, la ricorrente aveva stipulato un regolare contratto di sponsorizzazione in data 10/03/2022 con la ASD Alfa (organizzatrice del campionato regionale di basket), prevedendo la fornitura di spazi pubblicitari sui campi da gioco e il logo sulle divise, dietro corrispettivo di €50.000 (cfr. doc. 3, contratto). La sponsorizzazione è stata effettivamente eseguita, come comprovato da copiosa documentazione (fotografie dei cartelloni con il logo aziendale posizionati nei palazzetti durante le partite – doc. 5; copia del dépliant ufficiale del torneo recante la pubblicità della ricorrente – doc. 6; dichiarazione dell’organizzatore dell’evento che attesta la regolare esposizione del marchio – doc. 7). L’effettività della prestazione risulta dunque provata. L’Agenzia, al contrario, non ha addotto elementi concreti per affermare che si tratti di un’operazione inesistente: si limita a rilevare che il fornitore è un’associazione sportiva dilettantistica, come tale priva di rilevanti costi di struttura, ma ciò è del tutto fisiologico e non implica affatto inesistenza della sponsorizzazione. In diritto, va ricordato che l’onere della prova dell’inesistenza dell’operazione spetta all’Amministrazione, la quale può sì avvalersi di presunzioni, ma solo se gravi e precise. Nel caso in esame, però, alcuna prova – neppure indiziaria – è stata fornita dall’Ufficio circa una supposta falsità delle fatture: al contrario, la ricorrente fornisce prova sostanziale della realtà dell’operazione, prova che l’Ufficio non ha minimamente smentito. Ne consegue che il costo in esame è certo e realmente sostenuto.
Sul piano dell’inerenza, la spesa sponsorizzativa era rivolta a promuovere il marchio sociale nell’ambito sportivo locale, pienamente coerente con la strategia commerciale dell’azienda (che mira ad espandere la propria clientela tra gli appassionati di sport, potenziali consumatori dei suoi prodotti alimentari). La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’inerenza va intesa in senso qualitativo come riferibilità della spesa all’attività d’impresa, “senza necessità di un ritorno economico immediato”. Non è richiesto, quindi, di dimostrare uno specifico aumento di ricavi dovuto alla sponsorizzazione; è sufficiente la potenzialità della spesa di generare benefici nell’ambito dell’attività sociale. Pertanto, il rilievo dell’Ufficio – laddove sembra negare la deduzione perché la sponsorizzazione non avrebbe avuto utilità o perché la società ricorrente non ha esercizi commerciali aperti al pubblico – è giuridicamente infondato. Esso contrasta col principio, affermato dalla Corte di Cassazione, secondo cui “l’inerenza non si misura in termini di utilità o di rapporto proporzionale con i ricavi”, e con il disposto dell’art. 109 TUIR che collega la deducibilità alla semplice riferibilità dell’onere all’attività produttiva di reddito. La promozione del marchio attraverso lo sport rientra nelle lecite scelte imprenditoriali di pubblicità: l’Amministrazione finanziaria non può sindacarne la convenienza economica né pretendere prova di un immediato incremento di fatturato. Del resto, la Corte Costituzionale ha osservato che l’imprenditore è tassato sul reddito netto, concetto che implica la deduzione di tutti i costi inerenti indipendentemente dalla loro efficacia utilitaristica (sent. 262/2020).
Inoltre, va considerato che l’Ufficio, in realtà, non ha contestato un’eventuale antieconomicità macroscopica (la spesa di €50.000 appare congrua rispetto al volume d’affari della ricorrente), né ha provato che essa celasse finalità estranee: mancano pertanto anche quegli indizi eccezionali che, secondo la Cassazione, potrebbero assumere rilievo sintomatico di non inerenza in caso di spese abnormi. Nulla di tutto ciò è stato neppure dedotto dall’Ente impositore.
Da ultimo, quanto alla documentazione, la ricorrente ha prodotto tutto quanto in suo possesso: le fatture (doc. 4) risultano regolari in ogni parte, i pagamenti sono stati effettuati con bonifici tracciabili (doc. 8, estratti conto) e la completa esecuzione del contratto è dimostrata dai riscontri sopra elencati. Non sussiste quindi alcuna carenza documentale. Invero, la presunzione di legittimità delle scritture contabili dell’azienda – tenute regolarmente – non è stata in alcun modo superata dall’Ufficio, che anzi nemmeno ha indicato specifiche irregolarità formali. La Cassazione ha di recente ribadito che “la fattura è elemento probatorio a favore dell’impresa solo se completa e coerente in tutte le sue parti” e che incongruenze documentali attivano l’onere di prova contraria a carico del contribuente; ebbene, nella specie non vi sono incongruenze: la descrizione in fattura richiama esattamente il contratto di sponsorizzazione, i luoghi e periodi coincidono, come risulta dai documenti di esecuzione. Pertanto, la società ha ampiamente assolto all’onere di dimostrare la propria buona fede e il diritto alla deduzione.
In conclusione, il recupero a tassazione dei €50.000 per sponsorizzazione è privo di fondamento sia in fatto sia in diritto: si chiede dunque che la Corte voglia annullare il relativo rilievo, con ogni conseguenza di legge.”
Come si nota da questa simulazione, nella difesa in giudizio è utile integrare riferimenti giurisprudenziali per suffragare i principi. Citare sentenze di Cassazione pertinenti (come fatto sopra) rafforza l’argomentazione normativa e mostra al giudice tributario di merito quali sono gli orientamenti consolidati a cui attenersi. Naturalmente, occorre citare con precisione (numero, anno, massima) e allegare la sentenza in caso di particolari complessità.
Svolgimento del processo e decisione
Dopo il deposito del ricorso e la costituzione in giudizio dell’ente impositore (che tramite l’Avvocatura dello Stato presenterà controdeduzioni, difendendo la legittimità dell’atto), la controversia verrà decisa dalla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado. La riforma ha introdotto alcune novità procedurali: ad esempio, è ora possibile che la causa sia decisa in udienza pubblica oppure, su richiesta delle parti, anche in videoconferenza (soprattutto se davanti al giudice monocratico) . Nel 2025, la regola è che le cause in primo grado con giudice unico si tengano preferibilmente da remoto, salvo opposizione di una parte . Questo può agevolare le parti lontane dalla sede della Corte, riducendo costi di trasferta.
Durante il giudizio, le parti possono depositare memorie illustrative (fino a 10 giorni prima dell’udienza) e memorie di replica (fino a 5 giorni prima) per ribadire e controbattere gli argomenti. È anche ammessa la già menzionata prova testimoniale scritta in casi eccezionali, ma se si intende avvalersene occorre chiederlo espressamente al giudice, indicando il teste e i capitoli di prova. Come detto, è uno strumento usato con parsimonia: il giudice la ammetterà solo se decisiva e non altrimenti surrogabile . Nel caso di costi pubblicitari, potrebbe essere ammessa se, ad esempio, la sola contestazione è sull’effettivo svolgimento e si ha un testimone chiave (il soggetto che materialmente ha affisso i manifesti, o il cliente target che ha visto la pubblicità, ecc.). Ma spesso la documentazione scritta sarà già sufficiente.
Il contribuente (o il suo difensore) può chiedere di discutere oralmente la causa in udienza. La discussione orale permette di sottolineare i punti salienti al collegio giudicante e rispondere ad eventuali domande. Anche l’Avvocatura di solito interviene brevemente. Al termine, la Corte si riunisce in camera di consiglio e pronuncia il dispositivo della sentenza.
Le possibili decisioni sono: accoglimento totale del ricorso (annullamento dell’atto, con vittoria piena del contribuente), accoglimento parziale (ad esempio, riconoscimento parziale dei costi dedotti: il giudice potrebbe, in base al suo prudente apprezzamento, ritenere deducibile una quota e indeducibile il resto – anche se in materia tributaria il giudice non dovrebbe “mediare” senza basi, ma talora accade, specie se documentazione ritenuta sufficiente solo in parte), oppure rigetto del ricorso (conferma dell’atto). Le sentenze di primo grado sono esecutive: se il contribuente vince, non deve pagare (e se aveva pagato può chiedere rimborso); se perde, l’Amministrazione può già riscuotere (di norma 1/3 delle imposte in contestazione in pendenza di giudizio, 100% dopo la sentenza di primo grado se non sospesa in appello).
In caso di soccombenza (totale o parziale) del contribuente in primo grado, è possibile proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale) entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. L’appello può riguardare i motivi su cui non si è avuta soddisfazione: ad esempio, se il giudice ha ritenuto inesistente la pubblicità, si impugnerà tale capo, portando eventualmente nuove prove se ammesse (in appello, dal 2023, vi è un regime più rigido di nuove prove: sono ammesse solo se il collegio le ritiene indispensabili e la parte dimostra di non aver potuto produrle prima per causa a sé non imputabile). Il processo di secondo grado è per molti versi simile al primo, ma attenzione: il giudizio di appello verte sull’errore eventualmente commesso dal giudice di prime cure, non è una ripetizione del primo grado. Bisognerà dunque convincere i giudici d’appello che la sentenza impugnata è erronea in punto di fatto o di diritto. Ad esempio, se il primo giudice ha ignorato un documento, si evidenzierà il vizio di valutazione; se ha male applicato una regola di riparto onere prova, lo si contesterà citando Cassazione e ora anche il nuovo art. 7 c.5-bis D.Lgs.546/92.
Infine, dopo l’appello, resta il ricorso per Cassazione (entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di secondo grado), limitatamente ai motivi di legittimità (violazioni di legge o vizi di motivazione, nei limiti oggi molto stretti previsti dall’art. 360 c.p.c.). La Cassazione non rivede i fatti né valuta nuove prove, ma assicura l’esatta applicazione delle norme. Nel nostro contesto, si potrebbe ricorrere in Cassazione se, per dire, il giudice di appello avesse negato la deduzione in palese contrasto con i principi affermati dalla Cassazione stessa (esempio: sentenza di secondo grado che dicesse “il costo non ha prodotto utili per la società, quindi non è inerente” – ciò violerebbe il principio di inerenza qualitativa e sarebbe ricorribile per violazione di legge ). Spesso la Cassazione ha annullato decisioni di merito in casi analoghi proprio perché non allineate ai suoi indirizzi. Ad esempio, Cass. n. 21452/2021 ha cassato una sentenza di CTR che negava una spesa pubblicitaria per difetto di utilità, ribadendo che questo criterio non è corretto alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale . Oppure Cass. n. 28578/2019 ha affermato il principio che la spesa pubblicitaria rimane inerente anche se poi addebitata a una società consociata, se finalizzata comunque all’incremento del business di gruppo . Quindi, l’eventuale ricorso per Cassazione dovrebbe far leva su massime di questo genere, qualora i giudici di merito se ne discostino.
Va valutato anche l’aspetto dei costi legali: in caso di vittoria, il contribuente può chiedere la rifusione delle spese di lite da parte dell’Erario (il giudice le liquiderà in sentenza). In caso di soccombenza, potrebbe essere condannato alle spese (non sempre nei tributari succede, ma dal 2023 si tende a applicare il principio di soccombenza). Comunque, considerato l’elevato valore spesso in gioco (imposte, sanzioni), investire in una difesa tecnica adeguata è senz’altro opportuno.
Durante il contenzioso c’è sempre la possibilità di chiudere la lite con un accordo transattivo: conciliazione giudiziale. Questa può essere fuori udienza (proposta dall’Ufficio, con sanzioni ridotte a 1/3) o in udienza (davanti al giudice, con sanzioni 40% del minimo). Ad esempio, se in corso di causa l’Ufficio prende atto di nuove prove presentate e ritiene di evitare rischi, potrebbe offrire di conciliare riconoscendo, poniamo, la deducibilità del 70% del costo e recuperando solo il 30%, con sanzioni ridotte. Il contribuente dovrebbe valutare l’offerta rispetto alle chance di vittoria totale. La conciliazione chiude la lite con verbale omologato dal giudice.
Riassumiamo alcuni punti chiave in una tabella sulla fase contenziosa:
Tabella – Strumenti e fasi del contenzioso tributario
| Fase / Strumento | Descrizione e Termini | Note difensive | |——————————|——————————————————–|————————————————-| | Ricorso in primo grado | Entro 60 gg dalla notifica accertamento (sospesi se istanza adesione). Presentazione telematica alla CGT I grado. | Allegare prove documentali fin da subito. Sollevare vizi formali e sostanziali. Citare giurisprudenza. Richiedere eventuale audizione in udienza. | | Appello in secondo grado | Entro 60 gg dalla notifica sentenza di primo grado. Giudizio limitato ai motivi appellati. | Non ammesse nuove eccezioni non sollevate prima (in linea di massima). Nuove prove solo se indispensabili e non producibili prima. | | Ricorso per Cassazione | Entro 60 gg dalla sentenza d’appello. Solo motivi di diritto (violazione di legge o nullità). | Individuare errori di diritto nei giudizi di merito (es. misinterpretazione di art.109 TUIR o di principi Cass.). Coinvolgere avvocato cassazionista specializzato. | | Conciliazione giudiziale | Transazione possibile in ogni stato del giudizio di merito (non in Cass.). Sanzioni ridotte (1/3 fuori udienza, 40% in udienza). | Utile se la prova non è pienamente favorevole. Chiude definitivamente la lite. Richiede accordo con AE su importi. |
Controversie tra privati in ambito civilistico
Finora abbiamo trattato il caso di conflitto Fisco vs Contribuente. Ma il tema dei costi di pubblicità non documentati può emergere anche tra privati, ad esempio in rapporti contrattuali o societari. Vediamo alcune ipotesi:
- Inadempimento contrattuale del pubblicitario: Un’azienda paga un’agenzia pubblicitaria per una campagna, ma quest’ultima non realizza quanto promesso (o lo fa solo parzialmente). L’azienda committente potrebbe agire in giudizio civile per risoluzione del contratto per inadempimento e chiedere la restituzione di quanto pagato o il risarcimento dei danni. In tal caso, il cuore della causa sarà provare che la prestazione pubblicitaria non è stata eseguita o è stata difforme. La “mancata documentazione” qui sta dalla parte del fornitore: se l’agenzia non fornisce prove di aver diffuso gli spot come concordato, soccomberà. Ad esempio, il Tribunale di Salerno, con sentenza n. 3255 del 22/07/2025, ha dichiarato risolto un contratto di pubblicità per grave inadempimento della società promotrice e ha revocato il decreto ingiuntivo con cui essa pretendeva il pagamento, accertando che la pubblicità pattuita non era stata effettuata. In altre parole, il giudice civile ha preteso dal creditore (l’agenzia) la prova di aver adempiuto: prova che, non essendo arrivata, ha portato a decidere a favore del committente (debitore) liberandolo dal pagamento. Principio generale: nei contratti a prestazioni corrispettive, se una parte chiede il corrispettivo (pagamento) deve provare il fatto costitutivo del suo diritto, cioè di aver eseguito la propria prestazione. Applicato alla pubblicità, il fornitore deve dimostrare di aver realizzato la campagna. L’assenza di riscontri (report, materiali, ecc.) giocherà a favore del committente.
- Contestazioni societarie interne: Pensiamo a una società in cui i soci (di minoranza) contestino all’amministratore di aver speso soldi aziendali in “pubblicità” fasulle, magari per favorire una propria altra attività. In sede di azione di responsabilità o di approvazione bilancio, i soci potrebbero eccepire che quei costi non erano documentati e hanno danneggiato la società. Anche qui, la difesa dell’amministratore passerebbe per il dimostrare l’effettività e l’utilità di quelle spese. Se non ci riesce, rischia di essere ritenuto responsabile di mala gestio. Giurisprudenza civile (Cass. civ. sez. I n. 886/2002) ha qualificato il contratto di pubblicità come contratto a prestazioni corrispettive in cui l’alea del ritorno economico incombe sul committente (è lui che rischia di non averne beneficio), ma ciò non esime il pubblicitario dall’obbligo di eseguire le attività concordate secondo buona fede. Se l’amministratore non può fornire alcuna documentazione di cosa sia stato fatto, sarà difficile per lui difendere la scelta come funzionale alla società.
- Pubblicità ingannevole o non autorizzata: Un’altra situazione (diversa, ma interessante) è quando la “pubblicità” è contestata perché non rispetta regole (pubblicità sanitaria non autorizzata, ecc.). Ad esempio la Cassazione penale ha trattato casi di pubblicità sanitaria effettuata con modalità vietate. Ma questo esula dal nostro tema fiscale; lo citiamo solo per dire che il termine “non documentati” in ambito pubblicità a volte richiama anche la mancanza di autorizzazioni (affissioni abusive, ecc.), che può generare sanzioni amministrative da enti locali.
In sede civile, il linguaggio è diverso ma parallelo: se nel tributario parliamo di “costo documentato/inerente”, nel civile parliamo di “prestazione eseguita conformemente al contratto”. Se un’impresa si trova ad essere convenuta per il pagamento di una fattura di pubblicità che in realtà non ha ricevuto, la sua linea di difesa sarà simile a quella tributaria: dimostrare l’inesistenza della prestazione. Ad esempio, se un’agenzia di affissioni chiede il saldo di fatture ma l’azienda sostiene che i manifesti non sono mai stati affissi, quest’ultima dovrà portare elementi (o far emergere dai fatti: es. nessuno ha visto quei manifesti, il Comune non ha rilasciato permessi, ecc.) per convincere il giudice. In tali casi può essere molto utile la testimonianza o una CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio) per verificare se la pubblicità risultava visibile.
In conclusione, anche tra privati vale il principio: onus probandi incumbit ei qui asserit. Chi afferma di aver fatto pubblicità e vuole essere pagato deve provarlo; chi nega di averla ricevuta evidenzierà la mancanza di prove. Dal punto di vista del “debitore” (sia esso contribuente verso il Fisco o committente verso un fornitore), far emergere le lacune altrui in termini di documentazione è spesso decisivo.
Domande frequenti (FAQ)
D1: Cosa significa esattamente “costi di pubblicità non documentati”?
R: In ambito fiscale, si intende che il contribuente ha dedotto dei costi per pubblicità ma non è in grado di provare adeguatamente la loro effettiva esistenza o correlazione all’attività. Può trattarsi di fatture ritenute false (operazioni inesistenti) oppure di spese di cui mancano i giustificativi (es.: nessun contratto, nessun materiale pubblicitario a supporto). In pratica, l’Agenzia dice: “Hai portato in deduzione questi importi come pubblicità, ma non hai fornito evidenze sufficienti che la pubblicità ci sia stata davvero o che riguardi la tua impresa, dunque li disconosco”. Il termine “non documentati” può quindi riferirsi sia a assenza di documenti sia a documentazione giudicata inidonea. È una delle contestazioni più frequenti e insidiose in sede di verifica .
D2: Una fattura non basta a dimostrare un costo pubblicitario?
R: La fattura è certamente il documento principale, ma da sola può non bastare se emergono elementi di dubbio. Una fattura fiscalmente regolare fa presumere l’esistenza dell’operazione; tuttavia, la Cassazione insegna che la fattura è prova a favore del contribuente solo se completa e veritiera in tutte le sue parti . Se il Fisco porta elementi contrari (fornitore inesistente, incongruenze, mancanza del resto della documentazione), allora la mera esibizione della fattura e del pagamento non è sufficiente . Occorre integrare con altri riscontri. Dunque, in linea generale, sì, una fattura valida è il punto di partenza per provare il costo, ma in caso di contestazione seria bisogna avere anche prove dell’effettiva prestazione sottostante (ad es. se pubblicità su rivista: copia della rivista con l’inserzione; se sponsorizzazione: foto degli striscioni, ecc.). In assenza di tali riscontri, l’Ufficio potrebbe considerare la fattura come emessa “a vuoto”.
D3: Spetta a me contribuente dimostrare che la pubblicità è stata fatta, o al Fisco dimostrare che non c’è stata?
R: In prima battuta, spetta al Fisco motivare la sua contestazione portando qualche elemento (è l’attore sostanziale che avanza la pretesa). Ma una volta che l’Agenzia ha presentato indizi seri di inesistenza/non inerenza, l’onere passa al contribuente di provare il contrario . Il nuovo art. 7, c.5-bis D.Lgs.546/92 chiarisce che il Fisco deve provare i fatti costitutivi della maggiore pretesa , ma ciò in concreto significa che l’ufficio deve dare basi concrete alla contestazione (es. “il fornitore è un mero prestanome, quindi probabilmente la prestazione è fittizia”). A quel punto però “spetta al contribuente l’onere di fornire la prova contraria” . Inoltre, trattandosi di costi deducibili, c’è un orientamento consolidato (non scalfito dalla riforma) per cui il contribuente è tenuto sin dall’origine a documentare l’esistenza e l’inerenza di ciò che deduce . In sintesi: il Fisco deve fare la prima mossa probatoria (non può dire “non è documentato” senza manco guardare i documenti esistenti); ma se la fa, tocca al contribuente convincere con evidenze.
D4: La mia azienda ha sostenuto spese pubblicitarie molto alte rispetto ai ricavi, possono considerarle indeducibili per questo?
R: Di per sé, no, la sproporzione quantitativa non rende indeducibile un costo, se questo è inerente all’attività. L’antieconomicità (spendere “troppo” in pubblicità) non è un motivo autonomo di indeducibilità . Tuttavia, se la spesa è veramente abnorme e priva di qualsiasi spiegazione logica rispetto alla dimensione dell’impresa, il Fisco potrebbe usarla come indizio per sostenere che il costo in realtà non è inerente (magari serviva ad altro). In tal caso, si entra nel campo delle presunzioni: la sproporzione macroscopica può essere vista come sintomo di un costo fittizio o estraneo . È un’ipotesi limite: ad esempio, un’azienda individuale con 50.000 € di fatturato che deduce 200.000 € di pubblicità sicuramente attirerà attenzione; l’Ufficio potrebbe pensare che quei 200.000 servivano magari a creare fondi neri o altro. La Cassazione nel 2022 (sent. 2597) ha di fatto detto: se c’è sproporzione evidente, deve emergere la “prova dell’utilità del servizio” , smentendo un po’ la linea precedente. Ma rimane un caso isolato e criticato. Dunque, in generale non si può negare una spesa solo perché “alta”; solo se l’AE dimostra che è così alta da risultare ingiustificabile se non per scopi estranei, allora sì – ma deve provarlo. Il contribuente, dal canto suo, se la spesa era ingente ma giustificata da una strategia (es. lancio di marca, investimento iniziale), farebbe bene a documentare tale strategia (business plan, etc.) e magari a mostrare parametri di mercato (es. nel settore è normale investire X% in pubblicità quando si entra su un nuovo mercato).
D5: Ho dedotto costi di sponsorizzazione sportiva: l’Agenzia dice che non erano inerenti perché la sponsorizzazione non mi ha portato benefici. Come difendermi?
R: La linea difensiva sarà: ribadire il principio qualitativo dell’inerenza. Cioè spiegare che la sponsorizzazione aveva lo scopo di accrescere la notorietà del mio marchio e potenzialmente attrarre clienti nel settore, anche se non c’è stato un riscontro immediato in vendite. Si citeranno le sentenze di Cassazione che dicono che non serve un incremento di ricavi tangibile e che la spesa è inerente anche solo come investimento prospettico . Ad esempio Cass. 21452/2021 ha affermato che non si può negare la deducibilità solo perché la sponsorizzazione non ha generato utili diretti . Inoltre, se l’AE cerca di riclassificare la sponsorizzazione come rappresentanza (dicendo “era solo per immagine”), occorre evidenziare che invece c’è stata una prestazione pubblicitaria specifica (logo esposto, ecc.) e che la spesa è stata determinata in corrispettivo di quell’esposizione pubblicitaria – quindi è pubblicità a tutti gli effetti, non liberalità né relazione pubblica. In pratica: fornire contratto di sponsorizzazione, prova che le attività promozionali concordate sono state svolte (foto, ecc.), e argomentare che il target raggiunto è comunque potenziale clientela o canale utile per l’impresa. Se la spesa rispetta i parametri dell’art. 90 L.289/2002 (se sponsorizzazione dilettantistica ≤ 200k € con marchio ben visibile), evidenziare che la legge presume quell’inerenza (l’ufficio non dovrebbe contestarla, se non oltre la soglia o per altre anomalie). In sostanza, la difesa sarà: la mia spesa di sponsorizzazione è lecita, inerente e documentata; la mancanza di un utile immediato non rileva per legge , e l’AE non può sindacare le mie scelte di marketing.
D6: Se un fornitore di servizi pubblicitari si rivela una “cartiera” (inesistente), posso comunque dedurre i costi se dimostro che qualcun altro ha reso il servizio?
R: Tema spinoso. Per la deduzione dei costi (diverso dal detrarre l’IVA), la legge consente – dopo una modifica del 2012 – la deducibilità anche di costi da fatture emesse da soggetti fittizi, purché la prestazione ci sia stata davvero ed abbia i requisiti (effettività, inerenza, certezza) . In altre parole, se l’operazione è soggettivamente inesistente (fornitore fasullo, ma bene/servizio ricevuto da altri), il costo è deducibile; se invece è oggettivamente inesistente (prestazione mai avvenuta), no, non si può dedurre nulla . La Cassazione ha ribadito che i costi da operazioni oggettivamente inesistenti sono “in via assoluta” indeducibili, anche se hai fattura regolare . Se invece era soggettivamente inesistente, devi dimostrare tu contribuente “l’effettività, l’inerenza e la certezza delle prestazioni” – in pratica devi provare chi ha svolto il servizio e come. Ad esempio, se scopro che la società Alfa che mi ha fatturato la pubblicità era finta, ma so che in realtà la pubblicità l’ha fatta Beta (magari un freelance), dovrò portare in giudizio Beta a testimoniare (se possibile come dichiarazione scritta) o procurare documenti che Beta ha prodotto la pubblicità. Se ci riesco, salvo il costo (anche se la fattura proveniva da soggetto fasullo) . Ma attenzione: se ero consapevole della frode, potrei incorrere in sanzioni (anche penali) e comunque l’onere di prova è stringente. La legge (art. 14 co.4-bis L. 537/93) permette la deduzione pure se eri consapevole della frode, ma sempre subordinata a dimostrare la realtà del costo . Quindi, in sintesi: sì, puoi dedurre anche se il fornitore è cartiera, ma devi provare senza ombra di dubbio che la pubblicità è stata resa realmente da qualcun altro. Se non puoi, il costo è perso. E ovviamente l’IVA su fattura falsa non è detraibile in nessun caso (per IVA conta la regolarità formale del fornitore, salvo eccezioni di buona fede, ma è tema diverso).
D7: In caso di verifica fiscale, quali documenti devo assolutamente presentare per difendere i miei costi di pubblicità?
R: Come anticipato nella guida, è opportuno presentare tutto il possibile. In ordine di importanza: contratti o ordini relativi alla pubblicità; fatture originali; prova dei pagamenti (bonifici, ecc.); materiali pubblicitari (es. copie di manifesti, screenshot di banner, registrazioni spot); documentazione di attuazione (report, foto di eventi sponsorizzati, ecc.); corrispondenza col fornitore (email, lettere); eventuali dichiarazioni testimoniali (es. lettera dell’editore che conferma la pubblicazione su rivista). Più il fascicolo è completo, più il verificatore sarà in difficoltà a sostenere l’indeducibilità. Se mancano uno o più di questi elementi, cerca di recuperarli prima possibile. Ad esempio, se non hai foto dei cartelloni, prova a contattare chi li ha affissi per ottenere una dichiarazione o magari verifica se online c’erano tracce (siti, social). Durante la verifica, non ostacolare i funzionari: fornisci copia di tutto e fatti rilasciare ricevuta di consegna. Se qualcosa non ce l’hai in quel momento, scrivi nelle memorie che ti rendi disponibile a produrla. In generale, mostrarsi collaborativi e organizzati può talvolta indurre l’ufficio a più miti consigli (capiscono che farai valere le tue ragioni fino in fondo).
D8: Vale la pena fare causa per questi costi o conviene accettare un accordo?
R: Dipende dalla forza delle tue prove e dall’importo in gioco. Se sei convinto di avere tutte le carte in regola (e magari un precedente giurisprudenziale ti dà ragione su un caso simile), allora conviene andare avanti e impugnare l’atto, perché hai buone chance di ottenere annullamento completo. Se invece riconosci che qualche mancanza c’è (es. effettivamente non hai alcuna prova dell’operazione, magari perché davvero non è mai avvenuta come descritta), allora considerare un accordo è saggio: con l’adesione o conciliazione puoi ridurre sanzioni e dormire sonni tranquilli. Una regola potrebbe essere: se la posta fiscale è alta e la ragione non è chiarissima, tenta un accordo per ridurre il rischio. Se l’importo è relativamente basso, potresti anche decidere di pagare e chiudere (valutando costi di causa vs beneficio). Tieni presente anche il profilo penale: se sai di aver usato fatture false di proposito, portare la questione in tribunale tributario potrebbe innescare segnalazioni penali se non già fatte. In tal caso, un accordo col fisco (tipo adesione) non estingue il reato, ma quantomeno limita l’emersione pubblica. D’altro canto, se sei totalmente in buona fede e il Fisco sta chiaramente esagerando, fare causa non solo ti può far vincere ma anche evitare un pericoloso precedente (perché se accetti, poi l’ufficio tenderà a rifarlo negli anni successivi). Ogni situazione è a sé: è utile farsi assistere e valutare con il legale la prognosi. Le statistiche mostrano che in materia di costi da operazioni inesistenti, i giudici tributari spesso danno ragione al Fisco se la prova del contribuente non è robusta; ma se lo è, allora il contribuente può vincere con la totale soccombenza dell’ufficio (che paga anche le spese). Quindi la chiave di volta è: quanto sei in grado di convincere un giudice terzo dell’effettività e inerenza del tuo costo? Se molto, combatti; se poco, transa se possibile.
D9: Se perdo in primo grado, devo pagare subito tutto?
R: Non immediatamente tutto, ma attenzione: la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva. Ciò significa che, se perdi, l’Agenzia Entrate Riscossione può chiederti intanto il pagamento di 2/3 delle imposte contestate (dal 2023 questa regola potrebbe cambiare, ma in generale dopo il primo grado è dovuto il residuo non versato, quindi in totale i 2/3, dato che 1/3 era già esigibile dopo l’atto). Se fai appello, puoi chiedere al giudice d’appello la sospensione dell’esecutività della sentenza (devi provare sia fumus boni iuris nell’appello sia periculum, cioè danno grave a pagare). Il giudice potrebbe sospendere tutto o in parte. Se non sospende, l’AE Riscossione emetterà cartella o intimazione. In ogni caso, dopo la sentenza di secondo grado, l’esecutività è piena (100% del dovuto). Quindi, sì, c’è il rischio di dover pagare prima della fine ultima. Se poi vinci in Cassazione, ti restituiscono, ma intanto hai tirato fuori soldi e magari passati anni. Dunque, nella decisione di proseguire considera anche questo: hai liquidità per fronteggiare un eventuale pagamento intermedio? A volte, proprio per evitare esborsi immediati insostenibili, può convenire accordarsi in appello (es. conciliare con sanzione ridotta) e chiudere lì, piuttosto che trascinarsi in Cassazione.
D10: Come posso prevenire future contestazioni su costi di pubblicità?
R: Prevenzione significa adottare comportamenti prudenti sin da subito: – Scelta dei fornitori: lavora con agenzie/pubblicitari seri e trasparenti. Verifica la loro affidabilità fiscale (partita IVA attiva, presenza fisica, referenze). Se incappi in offerte troppo vantaggiose di società sconosciute, diffida: potrebbe essere una cartiera.
– Contrattualizza e traccia: prepara sempre un contratto scritto o almeno uno scambio email dettagliato prima di spendere soldi in pubblicità. Specifica cosa, dove, quando sarà fatto. Tieni copia di tutto.
– Documenta l’esecuzione: durante e dopo la campagna pubblicitaria, raccogli evidenze: fai foto ai manifesti affissi, chiedi report di messa in onda, conserva copie di riviste, salva screenshot di pagine web, ecc. Anche se non servissero mai, saranno la tua assicurazione.
– Pagamenti tracciati e giustificati: paga sempre tramite mezzi tracciabili (bonifico con causale chiara). Evita pagamenti frazionati strani o a soggetti diversi da chi fattura (a meno di motivi leciti).
– Conserva archivio: tieni un archivio (anche digitale) ben organizzato di tutti i documenti per almeno il tempo di accertamento (oggi 5 anni, ma meglio 7-8). Così, se arriva un controllo dopo 4 anni, non sarai preso alla sprovvista con documenti introvabili.
– Consulta il commercialista: quando fai operazioni particolari (es. sponsorizzazioni di importo elevato, pubblicità estere, ecc.), confrontati col tuo consulente per assicurarti che la contabilizzazione sia corretta e che eventuali normative specifiche (es. comunicazioni o ritenute sulle sponsorizzazioni) siano rispettate.
– Coerenza di bilancio: se investi molto in pubblicità, fai in modo che ciò sia coerente con la tua attività (ad es. inserisci nella relazione di bilancio o nelle note che quell’anno hai fatto un grosso investimento di marketing per giustificare il calo utile). Questo non elimina il rischio di verifica, ma mostra buona fede e ragioni economiche.
In sostanza, crea un “pezzo di carta” per tutto. Meglio avere anche troppo (foto, documenti) che troppo poco. Questa diligenza gestionale non solo ti mette al riparo da contestazioni, ma qualifica anche la tua posizione in caso di lite: un giudice vedendo un contribuente ben organizzato e con prove solide sarà più propenso a credergli rispetto a uno che arriva con poche giustificazioni. Come sottolinea una recente guida, “la corretta tenuta della contabilità non è solo un obbligo formale, ma la base per poter difendere le proprie ragioni in caso di contenzioso” .
Conclusioni
Le contestazioni fiscali su costi di pubblicità asseritamente non documentati mettono in gioco concetti tecnici (inerenza, onere della prova, operazioni inesistenti) ma, in definitiva, si vincono o si perdono sulla base di fatti e prove. Dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta) è fondamentale comprendere che:
- Ogni spesa dedotta deve poter superare il vaglio di inerenza (collegamento all’impresa) e certezza (esistenza provata). Il contribuente deve essere pronto a difendere ogni costo dinanzi al Fisco, con la stessa attenzione con cui lo ha sostenuto.
- La giurisprudenza attuale è, per molti versi, favorevole a riconoscere la libertà imprenditoriale in materia di pubblicità: non si chiedono prove di ritorni economici immediati e si ammettono anche spese apparentemente “sovradimensionate” purché giustificate da una logica aziendale . Tuttavia, c’è tolleranza zero verso le operazioni simulate: se emerge che la pubblicità è solo sulla carta, la deduzione viene negata senza appello . Il contribuente onesto che ha effettivamente fatto pubblicità deve dunque mettere in condizione il giudice di distinguere il suo caso da quelli fraudolenti, portando quante più evidenze possibili della genuinità della spesa.
- Le sentenze più aggiornate confermano i pilastri teorici: l’inerenza è qualitativa , il Fisco può contestare con presunzioni ma il contribuente può (e deve) vincerle con prove contrarie , i costi da fatture soggettivamente false sono deducibili se dimostrati reali . Conoscerle (magari citando Cass. 14222/2025 sull’onere probatorio , Cass. 11324/2022 sulle sponsorizzazioni , Cass. 2597/2022 su spese abnormi , etc.) permette di fondare la propria difesa su argomenti autorevoli e aggiornati. Nella sezione seguente, proponiamo una tabella riepilogativa di alcune delle pronunce chiave in materia.
Tabella – Principali sentenze in materia di costi di pubblicità e onere della prova
| Sentenza (Num/Anno) | Principio di diritto affermato | Fonte/Citazione | |———————|——————————–|—————–| | Cass. 450/2018 (Sez. Trib.) | L’inerenza del costo è principio implicito nel reddito d’impresa, non richiede correlazione con uno specifico ricavo né valutazioni di utilità . È un rapporto qualitativo costo-attività, anche in proiezione futura. | Obiter in Cass. 15582/2024 . | | Cass. 18904/2018 | Antieconomicità come indizio: Il Fisco può contestare l’inerenza se la spesa è gravemente incongrua/antieconomica, in quanto indice sintomatico di estraneità all’impresa; resta onere del contribuente provare la regolarità e ragionevolezza della scelta imprenditoriale . | Estratto in Cass. 11324/2022 . | | Cass. 32254/2018 | Il principio di inerenza si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, non dall’art. 109 c.5 TUIR (che riguarda altro). Inerenza = necessità di riferire i costi all’attività d’impresa esercitata . Confermato che è un criterio qualitativo “preventivo” rispetto alle singole norme . | Massima su NT+ Diritto . | | Cass. 21452/2021 | Sponsorizzazioni: Non è lecito negare la deducibilità di spese di pubblicità/sponsorizzazione in assenza di uno specifico ritorno economico immediato. Anche una controllante può dedurre costi di pubblicità sostenuti dalle controllate e riaddebitati, se finalizzati ad accrescere immagine/marchio di gruppo . Inerenza indiretta ammessa. | Sintesi su Sole24Ore . | | Cass. 11324/2022 | Inerenza qualitativa ribadita: Le spese di sponsorizzazione sono deducibili se inerenti all’attività, anche indirettamente e in prospettiva futura, esclusa ogni valutazione di utilità o congruità . La sproporzione può essere indizio di non inerenza ma di per sé non esclude la detrazione. | Il Fisco n.19/2022 . | | Cass. 2597/2022 | Dietrofront isolato su utilità: La Corte afferma che una spesa pubblicitaria enormemente sproporzionata evidenzia estraneità al reddito d’impresa. Richiesta prova dell’utilità del servizio remunerato, di fatto smentendo i precedenti del 2018 (ord. 450/2018) . Orientamento in contrasto con Corte Cost. 262/2020 e con la giurisprudenza successiva. | Commento Sole24Ore . | | Cass. 8716/2025 | Operazioni inesistenti – onere della prova: I costi da operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili se il contribuente ne dimostra effettività, inerenza e certezza; i costi da operazioni oggettivamente inesistenti sono sempre indeducibili, anche con documenti formali regolari . Il Fisco può provare l’inesistenza anche solo con presunzioni semplici, poi il contribuente deve fornire prova sostanziale contraria (non basta esibire fatture e pagamenti) . | Sistema Ratio, 2025 . | | Cass. ord. 14222/2025 | Onere probatorio sul contribuente: Ribadito che in caso di contestazione di costi, il contribuente deve provare e documentare i fatti costitutivi del costo (esistenza, natura, destinazione all’impresa). La prova dell’inerenza richiede di dimostrare il raccordo con i bisogni dell’impresa . (Principio conforme a giurisprudenza costante). | Sistema Ratio, 2025 . |
Come si evince dalla tabella, la Corte di Cassazione negli ultimi anni ha delineato con precisione il perimetro: il contribuente deve essere pronto a dimostrare i propri costi, ma senza dover subire arbitrarie valutazioni di merito sulle sue scelte imprenditoriali. I costi pubblicitari, se realmente sostenuti e orientati all’attività (anche in prospettiva), hanno pieno diritto alla deduzione. D’altro canto, prassi elusive come fatture di comodo e gonfiamenti artificiosi vengono giustamente censurate e incontrano il muro dell’indeducibilità assoluta.
Dal punto di vista pratico-operativo, questa guida può essere condensata in alcuni consigli finali per il “debitore” contribuente che voglia difendersi efficacemente:
- Conosci le norme e i tuoi diritti: informati sulla normativa fiscale (TUIR art. 108-109) e sugli orientamenti attuali. Sapere che la legge e la giurisprudenza sono dalla tua parte su certi aspetti (es. non devi provare l’utile della spesa) ti aiuta a impostare la difesa correttamente.
- Sii proattivo nella prova: non aspettare che sia il Fisco a scoprire le carte. Quando contesti l’atto, sorprendi l’ufficio con un dossier completo che smonti le ipotesi accusatorie. Se il funzionario presumeva che non avresti avuto documenti, disarmalo presentandoglieli tutti.
- Valuta la mediazione vs la lotta: se hai ragione al 100%, persevera fino in fondo (il sistema giudiziario, pur con i suoi tempi, tende a dare ragione a chi ce l’ha, specie dopo le riforme che hanno reso i giudici tributari più indipendenti e qualificati). Se hai torto parziale, non avere timore a trattare: l’importante è evitare il danno maggiore (sanzioni piene, interessi, ecc.).
- Mantieni un approccio professionale: nel dialogo col Fisco e in giudizio, attieniti ai fatti e al diritto, senza invettive o recriminazioni generiche. Far emergere serietà e competenza aumenta la tua credibilità agli occhi di chi decide.
- Impara dall’esperienza: se un’accertamento si chiude (in un modo o nell’altro), fai tesoro di ciò che è emerso. Ad esempio, se ti hanno contestato che mancava un certo tipo di documentazione, corri ai ripari per il futuro, implementando procedure interne che evitino il ripetersi dell’appunto.
In definitiva, difendersi è possibile e spesso fruttuoso: molti contribuenti hanno ottenuto in commissione l’annullamento di pretese indebite grazie a una difesa ben orchestrata e a prove convincenti (si vedano le tante pronunce favorevoli in materia di sponsorizzazioni sportive, dove i giudici hanno dato ragione alle aziende sponsor riconoscendo la genuinità delle spese pubblicitarie). L’importante è non farsi scoraggiare dalla complessità tecnica: con l’aiuto di consulenti esperti e con una buona preparazione documentale, anche il piccolo imprenditore può far valere le proprie ragioni contro un accertamento fiscale infondato .
Come chiosa finale, ricordiamo la massima evergreen: “chi è nel giusto deve provare di esserlo, ma quando lo prova, il diritto non può che trionfare”. Nel nostro contesto, significa che se realmente la tua pubblicità c’è stata ed era per la tua impresa, raccogli le prove e non temere di affrontare il contraddittorio – la legge e la giurisprudenza ti offrono gli strumenti per vincere la partita.
Fonti normative e giurisprudenziali citate:
– D.P.R. 917/1986 (TUIR), artt. 108 e 109 .
– D.Lgs. 546/1992, art. 7 c.4 e c.5-bis (come mod. da L.130/2022) .
– L. 537/1993, art. 14 co.4-bis (deducibilità costi da reati) .
– Corte Costituzionale, sent. 262/2020 .
– Cassazione Civile Sez. V: sent. n. 450/2018 , n. 10485/2018 (in tema di onere prova inerenza, richiamata in dottrina), n. 18904/2018 , n. 14579/2018 , n. 32254/2018 , n. 21452/2021 , n. 20420/2021 , n. 11324/2022 , n. 2597/2022 , ord. n. 33568/2022 (onere prova inerenza) , ord. n. 8716/2025 , ord. n. 14222/2025 , sent. n. 15582/2024 , sent. n. 32254/2018 , sent. n. 28578/2019 , etc.
– Cassazione penale: art. 2 D.Lgs. 74/2000 (dich. fraudolenta, soglie) .
– Agenzia Entrate – Prassi: circ. 31/E/2014 (onere contribuenti in operazioni inesistenti).
– Giurisprudenza civile di merito: Trib. Salerno 3255/2025 (risoluzione contratto pubblicità inadempiuta), Trib. Napoli 6251/2024 (restituzione somme in eccesso da sponsorizzazione), etc. (massime disponibili su banche dati).
- CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 dicembre 2018, n. 32254 – In tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, non dall’art. 109 co. 5 (già 75) del d.P.R. n. 917 del 1986, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili.
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I costi di pubblicità sono deducibili solo se inerenti, effettivamente sostenuti e adeguatamente documentati. In assenza di prove certe (fatture, contratti, materiale promozionale), l’Agenzia delle Entrate può considerarli inesistenti o non inerenti, disconoscendone la deduzione e recuperando le imposte.
👉 Prima regola: conserva e produci sempre la documentazione che dimostri la realtà e la finalità promozionale della spesa.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Fatture prive di elementi essenziali o generiche;
- Spese promozionali non supportate da contratti o da documentazione operativa;
- Mancanza di prove della diffusione della pubblicità (manifesti, inserzioni, campagne web);
- Pagamenti in contanti non tracciabili;
- Costi sproporzionati rispetto all’attività svolta.
📌 Conseguenze della contestazione
- Indeducibilità del costo ai fini delle imposte dirette;
- Recupero IVA se detratta indebitamente;
- Sanzioni dal 90% al 180% delle maggiori imposte accertate;
- Interessi di mora;
- Rischio di contestazioni aggiuntive su altre spese aziendali.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Fatture e ricevute fiscali: sono complete e formalmente valide?
- Contratti pubblicitari: erano stati stipulati e registrati?
- Prove materiali della pubblicità: volantini, campagne social, affissioni, spot;
- Tracciabilità dei pagamenti: sono stati effettuati con bonifici o mezzi bancari?
- Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia ha provato l’inesistenza delle spese o si basa solo su presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Fatture dettagliate con descrizione delle prestazioni;
- Contratti con agenzie pubblicitarie o media partner;
- Materiale promozionale realizzato (foto, copie, link, screenshot);
- Estratti conto bancari con i pagamenti;
- Report delle campagne pubblicitarie online o offline.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare l’inerenza e la realtà delle spese con prove documentali;
- Contestare la riqualificazione come costi inesistenti se mancano prove contrarie;
- Chiarire la natura promozionale delle spese anche con documentazione integrativa;
- Eccepire vizi procedurali: notifica irregolare, motivazione insufficiente, decadenza dei termini;
- Richiedere autotutela se i costi erano documentati ma non considerati;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni contro l’accertamento.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza i costi pubblicitari contestati e la documentazione disponibile;
📌 Verifica la correttezza della contestazione e la regolarità delle prove del Fisco;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura e tracciabile delle spese di marketing.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali su costi e deduzioni;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e professionisti contro contestazioni su spese pubblicitarie;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sui costi di pubblicità non documentati non sempre sono fondate: spesso dipendono da errori formali o da valutazioni arbitrarie.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la realtà delle campagne promozionali, mantenere la deducibilità delle spese ed evitare sanzioni ingiuste.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sui costi pubblicitari inizia qui.