Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché la tua associazione è stata accusata di distribuire utili in modo occulto ai soci? In questi casi, l’Ufficio presume che l’ente, pur formalmente senza scopo di lucro, sia stato utilizzato per trasferire vantaggi patrimoniali ai propri associati, in violazione delle regole fiscali che consentono agevolazioni e regimi speciali. La conseguenza è la perdita delle agevolazioni fiscali, il recupero delle imposte e l’applicazione di sanzioni. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con un’adeguata difesa è possibile dimostrare la regolarità della gestione associativa.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta la distribuzione occulta di utili
– Se le spese dell’associazione appaiono prive di collegamento con l’attività istituzionale
– Se i compensi corrisposti ai soci non sono congrui rispetto alle prestazioni rese
– Se i beni o le risorse dell’associazione sono usati a fini personali dai soci o dagli amministratori
– Se i bilanci e la contabilità non giustificano le uscite effettuate
– Se l’associazione opera di fatto come un’attività commerciale a favore dei soci
Conseguenze della contestazione
– Perdita della qualifica di ente non commerciale o associazione senza scopo di lucro
– Recupero delle imposte non versate con aliquote ordinarie
– Applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggiori controlli futuri anche sulle annualità precedenti
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare con bilanci, delibere e documenti contabili la corretta gestione delle risorse associative
– Produrre prove della congruità dei compensi e della reale natura dei rimborsi spese
– Contestare la riqualificazione come distribuzione occulta se i vantaggi sono funzionali alle attività istituzionali
– Evidenziare vizi di motivazione, carenze probatorie o difetti formali dell’accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare la struttura associativa e la documentazione contabile contestata
– Verificare la legittimità della contestazione secondo normativa fiscale e civilistica
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi dell’accertamento
– Difendere l’associazione davanti ai giudici tributari contro richieste fiscali indebite
– Tutelare i soci e gli amministratori da conseguenze patrimoniali eccessive
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi
– Il mantenimento della qualifica di ente non commerciale
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di continuare le attività associative nel rispetto delle regole fiscali
⚠️ Attenzione: la contestazione per distribuzione occulta di utili è una delle più gravi per le associazioni. In caso di mancata difesa tempestiva, l’ente rischia di perdere definitivamente i benefici fiscali.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e enti non profit – spiega come difendersi in caso di contestazioni per distribuzione occulta di utili nelle associazioni e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Cos’è la “distribuzione occulta di utili” in un’associazione? Nel contesto italiano degli enti non profit, questo termine si riferisce a qualsiasi trasferimento di ricchezza dal patrimonio dell’associazione verso i suoi membri, amministratori o altre persone legate all’ente, che avviene in violazione del vincolo di non lucratività. In altre parole, sono utili “occulti” quei proventi che, anziché essere reinvestiti nelle attività istituzionali, vengono di fatto dirottati a beneficio privato di soci o dirigenti, spesso tramite meccanismi indiretti o dissimulati. Ad esempio, la corresponsione di compensi o rimborsi eccessivi, pagamenti esorbitanti a società collegate, beni ceduti a prezzi anomali ai soci, ecc., può celare un’utilità privata sottratta alle finalità sociali dell’ente .
Queste pratiche violano il principio cardine secondo cui un’associazione senza scopo di lucro non può distribuire utili o avanzi di gestione, né direttamente (come dividendi in denaro) né indirettamente (cioè sotto altra forma). La normativa italiana tutela rigorosamente tale divieto: gli enti del Terzo Settore (ETS), le ONLUS (Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale, fino alla loro confluenza negli ETS), le ASD (Associazioni Sportive Dilettantistiche) e APS (Associazioni di Promozione Sociale), così come le associazioni culturali non riconosciute, devono reinvestire gli eventuali utili nelle finalità istituzionali e mai distribuirli a soggetti legati all’ente .
Quando l’Agenzia delle Entrate “rileva” una distribuzione occulta di utili, significa che a seguito di un controllo fiscale ha riscontrato elementi tali da contestare all’associazione il venir meno del requisito di non lucratività. Ciò comporta gravi conseguenze fiscali e giuridiche: tipicamente la perdita delle agevolazioni tributarie (con tassazione retroattiva dei proventi prima esenti), l’applicazione di imposte, sanzioni e interessi, e potenzialmente altre sanzioni amministrative e persino implicazioni penali nei casi più gravi . Spesso l’accertamento di utili occulti avviene in via presuntiva, basandosi su indizi come movimenti bancari sospetti, utilizzo personale di beni dell’associazione o squilibri contabili. Tuttavia, senza prove concrete la contestazione può essere ribaltata tramite una difesa documentale efficace .
Scopo di questa guida: fornire un’analisi approfondita (aggiornata ad agosto 2025) del fenomeno della distribuzione occulta di utili nelle associazioni, e illustrare come difendersi in modo efficace dal punto di vista del contribuente (debitore). L’esposizione è di livello avanzato, con linguaggio giuridico specialistico ma approccio divulgativo, rivolta sia a professionisti (avvocati tributaristi, consulenti) sia a dirigenti di associazioni e imprenditori sociali interessati a tutelare i propri enti. Verranno esaminati i riferimenti normativi rilevanti (leggi tributarie e civilistiche italiane), la giurisprudenza aggiornata (con attenzione alle più recenti sentenze del 2024-2025) e la prassi amministrativa in materia. Ampio spazio sarà dedicato a strategie difensive, con esempi pratici, modelli di atti (fac-simili di ricorsi e memorie) e sessioni Domande & Risposte per chiarire i quesiti più frequenti . Tabelle riepilogative a fine sezione sintetizzeranno i punti chiave e i riferimenti normativi/giurisprudenziali più importanti, per un rapido orientamento.
Quadro normativo: il divieto di distribuire utili negli enti non profit
Norme civilistiche e fiscali di riferimento. In Italia il divieto di distribuzione degli utili per gli enti non profit è sancito sia da norme di diritto civile sia, soprattutto, da norme fiscali speciali che condizionano la concessione di agevolazioni. Di seguito riepiloghiamo il quadro normativo essenziale:
- Codice Civile (artt. 14-42) – Disciplina le associazioni riconosciute e non riconosciute. Pur non vietando esplicitamente la distribuzione di utili, impone scopi ideali o altruistici per il riconoscimento (art. 14 c.c.) e stabilisce che, in caso di scioglimento, il patrimonio residuo sia devoluto secondo le norme statutarie (spesso a fini non lucrativi). Inoltre, l’assenza di scopo di lucro è requisito implicito delle associazioni che intendono ottenere la personalità giuridica. Nelle associazioni non riconosciute, i membri non acquistano diritti patrimoniali sul fondo comune (art. 37 c.c.), il che scoraggia la distribuzione di utili. Tali previsioni civilistiche forniscono il contesto generale ma è la normativa fiscale settoriale a definire nel dettaglio il divieto di distribuzione e le relative sanzioni.
- Art. 148 TUIR (D.P.R. 917/1986) – Norma fiscale fondamentale per gli enti associativi. Stabilisce che taluni proventi delle associazioni non concorrono a formare il reddito imponibile (es. quote associative, contributi e corrispettivi specifici da soci per attività istituzionali) a condizione che l’ente operi senza fini di lucro e soddisfi una serie di requisiti statutari e sostanziali. Fra questi requisiti vi sono: il divieto di distribuire utili o avanzi di gestione (anche in forma indiretta), l’obbligo di reinvestirli nelle attività istituzionali, l’obbligo di devolvere il patrimonio in caso di scioglimento a finalità di pubblica utilità, la democraticità interna (eguaglianza dei soci e assenza di clausole limitative del voto) e la tenuta di adeguata contabilità separata per eventuali attività commerciali. Se anche uno solo di tali requisiti viene meno, l’associazione perde la qualifica fiscale di ente non commerciale e i proventi prima esenti divengono tassabili . In altri termini, l’art.148 TUIR funziona come clausola di salvaguardia: concede benefici fiscali alle associazioni virtuose, ma revoca tali benefici (con tassazione retroattiva) se l’ente di fatto persegue scopi di lucro o non rispetta le condizioni di legge. L’onere di provare i presupposti dell’esenzione fiscale grava sull’associazione che la invoca .
- Art. 149 TUIR – Prevede la perdita della qualifica di ente non commerciale (con conseguente tassazione come ente commerciale) quando l’ente esercita prevalentemente attività commerciali. Sebbene l’art.149 si focalizzi sull’attività prevalente, esso specifica anche che la violazione del divieto di distribuzione di utili comporta in ogni caso la perdita della qualifica non commerciale. Dunque, la sola circostanza di aver distribuito utili (anche indirettamente) è sufficiente a far decadere tutte le agevolazioni, a prescindere dalla proporzione tra attività istituzionali e commerciali. Si tratta di una norma antielusiva di chiusura: un ente che viola il vincolo di non lucro non può mai godere di extracettività fiscale, in quanto ciò tradirebbe la sua natura.
- D.Lgs. 460/1997 (ONLUS) – Questa normativa (previgente alla riforma del Terzo Settore) disciplina le ONLUS, enti non profit con specifiche finalità solidaristiche. L’art. 10 del decreto definiva i requisiti formali e sostanziali per essere ONLUS, tra cui l’obbligo di “esclusive finalità di solidarietà sociale” e il rigoroso divieto di distribuire utili. Di particolare interesse il comma 6 dell’art.10, che elencava alcune fattispecie tassative considerate in ogni caso distribuzione indiretta di utili. Tali situazioni, applicabili anche alle associazioni non ONLUS che beneficiavano di agevolazioni analoghe (in virtù del rinvio operato dalla Circolare Agenzia Entrate n.168/E del 26/06/1998), fungevano da indicatori anti-elusivi. Esempi di queste fattispecie: la corresponsione di compensi agli amministratori oltre un certo tetto (vedi oltre), l’erogazione di stipendi ai dipendenti superiori del 20% ai minimi dei CCNL di categoria, l’acquisto di beni o servizi a prezzi sproporzionati, la cessione di beni/servizi a soci a condizioni di favore, il pagamento di interessi oltre soglie prefissate, ecc. (ritroveremo questi concetti approfonditi a breve) . La violazione di tali divieti comportava la perdita della qualifica ONLUS (con cancellazione dall’Anagrafe ONLUS) e la decadenza dai benefici fiscali connessi, come ribadito da copiosa giurisprudenza. Ad esempio, la Cassazione ha confermato che qualora un ente qualificato ONLUS persegua in realtà attività commerciali o distribuisca utili ai dirigenti, esso può essere cancellato dall’Anagrafe ONLUS con effetto retroattivo . Anche in questo regime, dunque, la presenza di utili occulti è considerata incompatibile con la natura stessa dell’ente non profit.
- Codice del Terzo Settore (D.Lgs. 117/2017) – Entrato in vigore progressivamente dal 2018, ha riformato l’intero comparto non profit. Tutti gli Enti del Terzo Settore (ETS), inclusi in particolare APS, ODV (Organizzazioni di Volontariato), enti filantropici, reti associative, società di mutuo soccorso, etc., sono soggetti al divieto assoluto di distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione (art. 8 CTS) . L’art. 8 impone di destinare il patrimonio esclusivamente ai fini civici, solidaristici e di utilità sociale propri dell’ente. In caso di scioglimento, il patrimonio residuo deve obbligatoriamente essere devoluto ad altri ETS analoghi o a fini di pubblica utilità, sotto controllo dell’autorità (RUNTS) . Importante: il Codice del Terzo Settore, all’art. 8 comma 3, individua cinque situazioni che costituiscono automaticamente distribuzione indiretta di utili, riprendendo in parte la lista già nota per le ONLUS ma con qualche modifica significativa. Le riepiloghiamo di seguito:
- Compensi sproporzionati agli amministratori o agli organi di controllo: il pagamento ai componenti gli organi sociali di emolumenti individuali non proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle competenze, oppure superiori a quelli mediamente previsti per analoghe attività in enti simili, costituisce distribuzione indiretta . In altre parole, gli amministratori di un ETS possono essere retribuiti (il Codice non impone gratuità assoluta delle cariche, a differenza di alcune normative previgenti per ONLUS), ma i compensi devono essere equi e in linea col mercato del non profit. Pagare un presidente o un consigliere in misura abnorme rispetto al lavoro svolto equivale a trasferirgli indebitamente una parte del patrimonio dell’ente. (Nota: per ONLUS vigeva un parametro più rigido: art.10, c.6, lett. c) D.Lgs.460/97 stabiliva che la corresponsione di compensi ad amministratori oltre il massimo consentito al presidente del collegio sindacale di una SpA (circa €41.316 annui) fosse considerata in ogni caso distribuzione di utili . Tale soglia fissa non è ripetuta nel CTS, che adotta un criterio di proporzionalità più flessibile, sebbene in pratica compensi amministratori di ETS troppo elevati saranno comunque censurati alla luce del principio di adeguatezza).
- Stipendi troppo alti ai dipendenti o collaboratori: il pagamento ai lavoratori, subordinati o autonomi, di retribuzioni superiori del 40% rispetto ai contratti collettivi di riferimento per mansioni analoghe è considerato distribuzione indiretta (salvo alcuni casi particolari che richiedono competenze specialistiche in ambito sanitario, universitario o di ricerca) . Questa disposizione del CTS è simile a quella previgente per ONLUS (che fissava il limite al 20% sopra i CCNL) , ma aggiorna la soglia al 40% e introduce eccezioni limitate. In sostanza, un ETS non può eludere il non profit gonfiando gli stipendi del personale oltre una certa misura: se, ad esempio, un’APS paga i propri istruttori, impiegati o consulenti a livelli fuori scala rispetto al contratto nazionale, l’eccedenza è indice di utile occultamente assegnato a quei soggetti. La logica è di evitare che utili formalmente reinvestiti vengano in realtà distribuiti sotto forma di super-stipendi. La Corte di Cassazione ha di recente ribadito questo principio in ambito sportivo dilettantistico, sancendo che superare del 20% i compensi da CCNL costituisce presunzione legale di distribuzione indiretta di utili e fa perdere il regime agevolato . Nel caso concreto (ord. Cass. 19397/2025), un’associazione sportiva aveva corrisposto a due soci/collaboratori compensi ben oltre i livelli contrattuali; la Cassazione ha confermato che il calcolo va fatto sul compenso lordo erogato confrontato con il lordo da CCNL, e che il superamento della soglia del 20% di per sé integra la violazione, senza possibilità di considerare costi aziendali o altre giustificazioni .
- Acquisti di beni o servizi a prezzi superiori al valore normale: se l’associazione paga forniture, consulenze, affitti o altri beni/servizi a un corrispettivo ingiustificatamente più alto del valore di mercato, si presume che stia trasferendo indebitamente risorse (la differenza di prezzo) al fornitore, soprattutto se questi è persona vicina all’ente . Ad esempio, pagare un canone d’affitto sproporzionato per immobili di proprietà di soci o loro familiari è un classico meccanismo di distribuzione occulta (il socio incassa un “utile” travestito da affitto). Proprio questo era uno dei rilievi in un caso esaminato dalla Cassazione: un’ASD pagava per la palestra un affitto molto superiore ai valori di mercato a una società immobiliare riconducibile agli stessi amministratori; l’Agenzia ha contestato la distribuzione indiretta di utili e la decadenza dal regime agevolato . (Nel caso specifico, i giudici di merito avevano ritenuto il canone congruo basandosi su una perizia, e la Cassazione non ha potuto ribaltare tale accertamento di fatto per il vincolo della “doppia conforme”, dichiarando inammissibile il ricorso dell’ufficio su quel punto . Ciò evidenzia l’importanza, in sede difensiva, di documentare il fair value delle transazioni: un’appropriata perizia sul valore di mercato può neutralizzare l’accusa di utili occulti da sovrapprezzo).
- Cessioni di beni o servizi dell’ente a soci o associati a condizioni di favore: se l’associazione fornisce beni o prestazioni ai propri membri, fondatori, amministratori, finanziatori o persone a questi legate a prezzi inferiori a quelli normalmente praticati a terzi o a condizioni più vantaggiose di mercato, esclusivamente in ragione del loro status interno, ciò configura un’utilità privata indebita . È ammesso ovviamente che i soci usufruiscano delle attività istituzionali dell’ente (es. corsi sportivi, eventi culturali) a tariffe agevolate, ma entro limiti di ragionevolezza e coerenza con lo scopo. Se tali vantaggi eccedono (ad es., servizi gratuiti o sottocosto non giustificati dall’attività istituzionale), il risparmio di spesa per il socio equivale a un utile distribuito. Un caso tipico: un’associazione culturale vende biglietti di spettacoli ai propri soci a prezzo simbolico mentre al pubblico li fa pagare il quadruplo – la differenza può essere vista dal Fisco come utile girato ai soci (salvo rientri nello scopo sociale, come politiche di accesso agevolato giustificate).
- Interessi passivi su prestiti da privati oltre soglia: la corresponsione di interessi passivi a soggetti diversi da banche o intermediari autorizzati, per finanziamenti ricevuti, a un tasso superiore di +4 punti rispetto al tasso ufficiale di riferimento, costituisce distribuzione indiretta . Questo mira a evitare che i soci finanziatori lucrino interessi eccessivi prelevando così utili mascherati (es: un socio presta denaro all’associazione e si fa riconoscere un interesse del 10% annuo quando il tasso legale di mercato è 2% – i 8 punti extra sono di fatto un utile per il socio). Pagare interessi entro il limite (tasso di riferimento +4%) è lecito, oltre no.
Oltre a queste cinque ipotesi specifiche, il Codice prevede che le autorità vigilanti possano individuarne altre: l’elenco dunque non è esaustivo . In generale, qualsiasi operazione che arricchisce indebitamente un privato a detrimento delle risorse dell’ente può essere riqualificata come distribuzione occulta di utili. Di riflesso, gli amministratori degli ETS devono prestare massima attenzione a evitare comportamenti anche solo apparentemente elusivi del vincolo di non lucro.
- Sanzioni amministrative (Codice Terzo Settore) – Il legislatore del 2017, per la prima volta, ha introdotto sanzioni pecuniarie specifiche a carico degli amministratori che violano il divieto di distribuzione degli utili. In particolare, l’art. 91 CTS prevede una multa da €5.000 a €20.000 a carico dei rappresentanti legali e dei componenti dell’organo amministrativo dell’ETS che hanno effettuato (o concorso a effettuare) distribuzioni di utili in violazione di legge . Si tratta di una sanzione amministrativa (irrogata dalle autorità di settore, es. Ministero del Lavoro) che si aggiunge alle conseguenze fiscali e civilistiche. Inoltre, in caso di violazioni gravi o ripetute, l’Ufficio del RUNTS può disporre provvedimenti sullo status dell’ente: ad esempio la cancellazione dal Registro Unico del Terzo Settore, con perdita della qualifica di ETS e dei relativi benefici, oppure l’ordine di restituire eventuali contributi pubblici percepiti indebitamente. Anche prima della riforma, per le ONLUS esisteva un effetto simile: l’Agenzia delle Entrate poteva cancellare l’ente dall’Anagrafe ONLUS qualora accertasse la perdita dei requisiti (come avvenuto, ad esempio, per un’associazione culturale a cui fu contestata la distribuzione di utili sotto forma di rimborsi chilometrici ai dirigenti) .
- Normativa speciale per le ASD/SSD (sport dilettantistico) – Le associazioni sportive dilettantistiche e le società sportive dilettantistiche senza scopo di lucro beneficiano di un regime fiscale agevolato (esenzione IRES per attività istituzionali, regime forfetario L.398/1991 per le commerciali, esenzione imposta sugli intrattenimenti, ecc.), purché rispettino anch’esse rigorosamente il divieto di distribuire utili e gli altri requisiti analoghi a quelli sopra descritti (clausole statutarie ad hoc, democraticità interna, affiliazione al CONI, ecc.) . La legge n.289/2002 (art.90) impose a statuto delle ASD alcune clausole obbligatorie, tra cui il divieto di utili, pena la perdita delle agevolazioni. Recentemente, la Riforma dello Sport (D.Lgs. 36/2021) – in vigore dal 2022/2023 – ha previsto per gli enti sportivi dilettantistici in forma societaria (SSD costituite come S.r.l. dilettantistiche) una possibile distribuzione limitata degli utili, in deroga al principio di totale non lucratività . Tuttavia questa novità è mal coordinata con le norme fiscali vigenti, che continuano a subordinare le agevolazioni sportive all’assenza di scopo di lucro. In pratica, se una SSD a r.l. modifica lo statuto introducendo la facoltà di distribuire utili (nei limiti consentiti dalla riforma sportiva), perderà comunque i benefici fiscali previsti per le ASD/SSD. Ad esempio, la de-commercializzazione delle quote pagate dai soci (art. 148, co.3 TUIR) non si applica più in caso di adozione di clausole statutarie che ammettano distribuzioni di utili . Pertanto, allo stato attuale, chi vuole le agevolazioni tributarie sportive deve comunque mantenere il vincolo di non distribuzione. La Cassazione ha confermato che solo la distribuzione di utili altera la natura “de facto” di un’associazione sportiva dilettantistica, facendola decadere dal regime di favore . In altre parole, una ASD può anche commettere irregolarità formali, ma finché non emergono profili di lucro personale l’amministrazione finanziaria non può negarle la qualifica (principio affermato in alcune pronunce di merito). Viceversa, la presenza di utili occultamente girati ai soci/gestori è la violazione più grave e sostanziale, che giustifica pienamente la revoca di tutti i benefici.
In sintesi, dal complesso di norme sopra esaminato emerge un principio uniforme: l’assenza di scopo di lucro è condizione imprescindibile per il trattamento di favore fiscale degli enti associativi. La legge individua varie spie di allarme (presunzioni legali relative) che, se presenti, fanno presumere un fine di lucro mascherato – e quindi portano a rinegoziare il patto fiscale: l’ente viene trattato come un qualunque soggetto commerciale. Questa “pena” ha effetti molto pesanti: si pensi che l’associazione può trovarsi a dover pagare, anche retroattivamente, imposte su anni di attività, con applicazione di sanzioni e interessi, erodendo gravemente il patrimonio destinato alle finalità istituzionali . Ecco perché è fondamentale conoscere a fondo questi vincoli e, se contestati, preparare una difesa solida.
Di seguito approfondiamo come l’Agenzia delle Entrate effettua gli accertamenti in materia di utili occulti, quali conseguenze ne derivano e soprattutto quali strumenti difensivi può adottare l’associazione per tutelare i propri diritti.
Accertamenti fiscali sulle associazioni: come avvengono e cosa contesta il Fisco
Quali sono i segnali che possono far scattare un controllo? L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza monitorano regolarmente gli enti non profit, in particolare quelli che godono di esenzioni fiscali significative, per assicurarsi che non vi siano abusi. Alcuni red flag tipici che possono innescare un accertamento per distribuzione occulta di utili sono:
- Movimentazioni finanziarie anomale: ad esempio, prelievi in contanti frequenti o di importo elevato dai conti dell’associazione, senza una chiara giustificazione. Se gli amministratori prelevano fondi sociali per fini non documentati, il Fisco sospetta che siano somme distratte a loro beneficio personale. Tuttavia, va notato che non sempre tali prelievi equivalgono automaticamente a utili distribuiti: una recente sentenza di merito ha stabilito che i prelievi e l’uso per fini personali delle carte di credito associative da parte degli amministratori non costituiscono distribuzione indiretta di utili se sono giustificati dall’attività svolta a favore dell’ente. In tal caso, si tratterebbe piuttosto di compensi in natura** (fringe benefits o rimborsi spese) che, se adeguatamente motivati, rientrano nella gestione consentita. L’onere di giustificare tali movimenti, però, ricade sull’associazione in sede di verifica.
- Compensi e rimborsi spese ai soci e dirigenti: il Fisco verifica scrupolosamente i pagamenti effettuati a favore di membri del direttivo, dipendenti, collaboratori e soci. Cosa cerca? Importi elevati o fuori mercato. Ad esempio:
- Se un’associazione culturale con entrate modeste versa un rimborso spese forfettario mensile molto alto al presidente (magari per presunti viaggi o trasferte), potrebbe trattarsi in realtà di un surrogato di stipendio o utile. Nel caso citato della Cassazione n.31279/2024, furono contestati proprio rimborsi chilometrici anormalmente elevati agli amministratori, utilizzati per distribuire utili ai dirigenti mascherandoli da spese . Questo tipo di escamotage è ben noto agli ispettori.
- Allo stesso modo, se un membro del direttivo viene assunto o pagato come dipendente/collaboratore (cosa non vietata in assoluto), si controllerà che la remunerazione sia in linea con il ruolo. Pagare un dirigente “di fatto” attraverso una finta consulenza con compenso esorbitante è un tipico caso di utili occulti. Una domanda frequente è: un presidente può anche lavorare per l’associazione ed essere retribuito? La legge non lo vieta, a patto di rispettare i limiti: ad esempio, nelle ASD è prassi che il presidente possa svolgere attività di istruttore percependo i compensi sportivi dilettantistici (entro i limiti di esenzione previsti dalla legge) oppure essere assunto per mansioni amministrative, purché tutto avvenga a valori normali di mercato e con contratti regolari. In generale, è sconsigliato corrispondere compensi elevati ai membri del direttivo solo per la carica ricoperta, specie se l’associazione gode di regime agevolato . Se invece il soggetto presta effettivamente un’opera (es. insegnante, istruttore, coordinatore), può essere pagato per quel lavoro – ma l’importo dev’essere commisurato e documentato. L’Agenzia delle Entrate spesso presume che pagamenti a membri del consiglio siano utili distribuiti, soprattutto se mancano contratti o giustificativi precisi; sta all’ente dimostrare il contrario (esibendo contratti di collaborazione, timbrature, progetti svolti, etc.).
- Rapporto tra entrate e uscite: un campanello d’allarme è la presenza di avanzi di gestione che non trovano destinazione chiara. Se l’associazione ogni anno chiude con utili considerevoli, ma non li reinveste in attività e contemporaneamente emergono spese “sospette” (consulenze, rimborsi, acquisti poco giustificati), i verificatori cercheranno di ricostruire dove siano finiti quei soldi. Al contrario, se l’ente dimostra che l’avanzo è stato accantonato a riserva o impiegato per nuovi progetti sociali, sarà più difficile sostenere che c’è stata distribuzione. Avere utili non è di per sé illecito – anche un ente non profit può generare surplus – ciò che conta è come vengono utilizzati (devono restare nell’ente).
- Analisi dei fornitori e dei contratti con parti correlate: l’Agenzia controlla se l’associazione ha rapporti d’affari con soggetti legati ai soci o amministratori (le cosiddette party transactions). Esempi: l’ente affida la gestione di servizi a una società di uno dei membri, o prende in locazione immobili di proprietà del presidente, o acquista beni da un parente di un consigliere. Tali situazioni non sono vietate in sé, ma devono avvenire a condizioni di mercato. In sede di verifica, viene spesso richiesto all’associazione di esibire i contratti e dimostrare che i prezzi praticati sono equi. Se i corrispettivi sono gonfiati, scatta la contestazione di utili occulti trasferiti all’insider. Per mitigare questo rischio, è buona prassi che l’associazione, quando possibile, documenti tramite preventivi o perizie di stima che quel prezzo era allineato al valore normale. Nel caso dell’affitto tra ASD e società immobiliare collegata menzionato prima, l’ente si è difeso proprio producendo una perizia tecnica che attestava la congruità del canone, riuscendo così a ottenere sentenze di merito favorevoli .
- Principio di democraticità violato: un altro elemento indagato (soprattutto per ASD e APS) è il funzionamento interno dell’ente. Se risulta che di fatto l’associazione è controllata da un gruppo ristretto o le assemblee sono fittizie, questo può far presumere che l’ente sia uno schermo per attività lucrative di quei pochi. Ad esempio, soci che non partecipano mai alle assemblee o non ne sono messi in grado, bilanci approvati pro-forma, decisioni prese unilateralmente dal presidente senza coinvolgere il direttivo, ecc., segnalano una mancanza di effettiva vita associativa. Ciò spesso si accompagna a gestione opaca delle risorse e benefici concentrati su pochi. La Cassazione ha affermato che un’ASD in cui i soci non partecipano realmente alla vita sociale perde il diritto alle agevolazioni fiscali, in quanto viene meno il presupposto associativo . Tuttavia, in sede di accertamento spetta all’Ufficio provare che vi sia stata violazione della democraticità statutaria. In un caso del 2023, l’Amministrazione finanziaria aveva contestato a un circolo sportivo sia la violazione del principio di democraticità sia alcune spese qualificandole come utili ai soci; la Commissione Tributaria ha annullato la contestazione rilevando che il Fisco non aveva provato adeguatamente tali violazioni e che i prelievi bancari dei dirigenti erano giustificabili come compensi in natura . Questo insegna che, sebbene l’onere di dimostrare i requisiti agevolativi in generale incomba sull’ente, quando il Fisco muove contestazioni specifiche (es. “il presidente decide tutto da solo” oppure “i soci non hanno voce in capitolo”) deve portare elementi concreti a sostegno. Ad esempio, verbali d’assemblea non redatti o fatti compiuti.
- Verifiche bancarie e indagini finanziarie: l’Agenzia delle Entrate ha ampi poteri di indagine sui conti correnti sia dell’ente sia di soggetti ad esso legati. Un tipico iter di accertamento in questi casi è: viene notificato all’associazione un questionario o avviata una verifica, si acquisiscono gli estratti conto bancari, si analizzano entrate e uscite. Qualunque importo uscito dalle casse sociali che non trovi idonea giustificazione nei documenti contabili (fatture, ricevute, giustificativi di spesa) rischia di essere qualificato come utilizzo personale. Ad esempio, bonifici a favore di persone fisiche riconducibili al direttivo, prelievi in contanti, acquisti con carta di credito associativa in esercizi non attinenti l’attività (es. boutique di lusso, viaggi turistici) – tutte situazioni viste in casi reali – se non spiegate, portano alla ricostruzione di utili distratti. In fase di difesa, l’ente dovrà controdedurre puntualmente per ogni movimentazione sospetta, fornendo pezze d’appoggio (es: quei 3.000€ prelevati il giorno X erano usati per pagare in contanti i volontari di un evento sportivo, come da elenco firme allegato; quell’addebito carta a nome dell’amministratore era per acquisto attrezzature poi donate all’ente, etc.). È essenziale non lasciare zone d’ombra. Si ricorda che, in base all’art. 32 DPR 600/1973, le movimentazioni non giustificate sui conti dell’associazione si presumono ricavi tassabili, e nel caso di enti non profit ciò può essere riletto anche come sintomo di gestione commerciale o lucrativa.
- Accertamenti induttivi e presuntivi: se il quadro emerso è fortemente irregolare, l’Agenzia può procedere in via induttiva, ricostruendo redditi e utili occulti sulla base di presunzioni. Un caso particolare riguarda le società di fatto: talvolta l’amministrazione ipotizza che dietro un’associazione si celi in realtà una società di fatto fra i suoi promotori, finalizzata a dividere utili. Ciò è stato discusso in alcune controversie tributarie . Ad esempio, se un’associazione è costituita da poche persone di una stessa famiglia, che operano senza trasparenza e conseguono proventi cospicui, il Fisco potrebbe sostenere che essa sia un semplice schermo e che esista un’impresa collettiva non dichiarata (società di fatto lucrativa). In tal caso, le conseguenze sarebbero ancora più gravi: si tasserebbe ciascun “socio di fatto” per la quota di utili attribuibili (applicando per analogia l’art. 5 TUIR sulla trasparenza delle società di persone). Si tratta di situazioni limite, in cui l’ente è completamente snaturato. La giurisprudenza ha paragonato la presenza di utili in nero in entità a ristretta base alla configurazione di una società di fatto . Tuttavia, attenzione: la presunzione classica della distribuzione pro-quota ai soci, valida nelle società di capitali a base ristretta, non si applica automaticamente alle associazioni, perché le associazioni (teoricamente) non hanno “quote di partecipazione” in base alle quali ripartire utili. Dunque, l’Ufficio dovrebbe dimostrare chi siano i beneficiari e in che misura abbiano beneficiato. In assenza di tale prova individuale, di norma l’accertamento colpisce principalmente l’associazione come soggetto d’imposta, revocandone lo status fiscale agevolato e recuperando le imposte dovute dall’ente stesso.
Proceduralmente, una contestazione tipica inizia con un Processo Verbale di Constatazione (PVC) redatto dalla Gdf o dall’Agenzia, in cui vengono elencati i fatti accertati (es. “pagamento di €50.000 al presidente sotto forma di rimborso spese = distribuzione di utili; canone di locazione di €200.000 annuo a società del socio = atto in conflitto di interessi, utile distribuito” ecc.). Segue la notifica di un Avviso di Accertamento all’ente, con cui l’Agenzia: – Disconosce la natura non commerciale dell’associazione per gli anni d’imposta in esame, ricalcolando le imposte come se fosse un ente commerciale. Ciò comporta ad esempio che quote associative, contributi e proventi istituzionali diventano imponibili IRES; le aliquote agevolate forfettarie non si applicano più; eventuali IVA non applicata viene richiesta. – Recupera a tassazione i redditi “occulti” individuati. Ad esempio, se l’associazione non ha dichiarato nulla ma l’ufficio accerta che in realtà c’erano utili extracontabili per 100.000€, verrà richiesto l’IRES su tale importo (al 24%) più sanzioni per omessa dichiarazione di quel reddito. – Applica l’IRAP (Imposta regionale sulle attività produttive) se l’ente, perdendo la qualifica non profit, viene considerato esercitare attività commerciale con autonoma organizzazione. – Ricalcola l’IVA: Se l’associazione ha svolto attività dietro corrispettivi senza considerarle commerciali (ad es. corsi a pagamento per non soci) e quindi senza applicare IVA, l’accertamento potrebbe esigere l’IVA evasa su tali operazioni, più sanzioni. Inoltre, qualora siano state emesse fatture con IVA ma poi portato l’ente in esenzione, potrebbero riqualificare il regime e contestare indebite detrazioni. – Contesta formalmente la violazione del divieto di distribuzione di utili, talvolta richiamando le norme specifiche (es: art. 10 c.6 D.Lgs 460/97 per ONLUS/ASD, art. 8 CTS per ETS, art.148 TUIR). Questo aspetto spesso compare nell’atto come motivazione per la decadenza dalle agevolazioni. – Ipotizza l’esistenza di redditi di capitale in capo ai percettori, nei casi in cui siano individuabili. Ad esempio, se emerge chiaramente che Tizio (socio) ha ricevuto €X di utili occulti, l’Agenzia potrebbe emettere separati avvisi di accertamento verso Tizio stesso, qualificando quella somma come dividendo percepito (assoggettato a tassazione IRPEF o ritenuta). Ciò avviene più comunemente per le società commerciali a base ristretta (dove c’è presunzione pro-quota) , ma teoricamente potrebbe avvenire anche per associazioni in casi lampanti (es: l’associazione paga uno stipendio non dovuto a Tizio -> Tizio può essere tassato su quel reddito non dichiarato). In pratica, però, molte volte il focus rimane sull’ente, salvo poi eventualmente segnalare ai fini IRPEF i beneficiari.
Ricevuto l’avviso, l’associazione ha la possibilità di adesione o impugnazione. Spesso, trattandosi di contestazioni pesanti, si finisce in contenzioso tributario, di cui parleremo a breve. Prima di passare alle strategie difensive, riepiloghiamo in una tabella le principali cause di contestazione e le relative fonti normative, così da avere un quadro sinottico:
Fattispecie contestata (segnale di utili occulti) | Riferimenti normativi/giurisprudenziali | Note |
---|---|---|
Compensi ad amministratori eccedenti soglie (non proporzionati) | Art. 10, c.6, D.Lgs 460/1997 lett. c ; Art. 8, c.3, D.Lgs 117/2017 (CTS) ; Cass. ord. 19397/2025 . | ONLUS/ASD: oltre ~€41.316 annui = utili indiretti. CTS: criterio qualitativo (proporzione e confronto con enti simili). Cass. 2025: ribadito principio rigoroso. |
Stipendi e compensi a dipendenti/collaboratori nettamente sopra mercato | Art. 10, c.6, D.Lgs 460/1997 lett. e (ONLUS: >20% CCNL) ; Art. 8, c.3, CTS (ETS: >40% CCNL) ; Cass. ord. 19397/2025 . | Cassazione 2025: 20% oltre CCNL = presunzione legale di utili distribuiti (per ASD, riferito a D.Lgs 460/97) . CTS innalza soglia al 40% (con eccezioni specifiche). |
Rimborsi spese forfettari abnormi a soci/amministratori | Artt. 148(8) TUIR e 149(4) TUIR (decadenza se utili distribuiti); Prassi AE 9/E 2007 (ammissibilità compensi entro limiti) ; Cass. 31279/2024 (rimborsi spese km = utili ai dirigenti) . | Consentiti rimborsi documentati e spese vive; contestati quelli forfettari eccessivi senza pezze d’appoggio. Risoluzione AE 9/2007: possibili compensi a amministratori entro limite DPR 645/94 . |
Beni/servizi acquistati dall’ente a prezzi sovraquotati (spec. se fornitori “vicini”) | Art. 10, c.6, D.Lgs 460/97 lett. b (prezzi oltre 20% del valore normale); Art. 8, c.3, CTS (acquisti a corrispettivi superiori al valore di mercato senza valide ragioni) . | Prezzi fuori mercato = utile trasferito al fornitore. Cass. 19397/2025: affitto palestra a società collegata, contestato come utili ai soci . Doppia conforme in appello necessaria per reggere difesa su valutazione congruità . |
Beni/servizi dell’ente ceduti a soci o amministratori a condizioni di favore | Art. 10, c.6, D.Lgs 460/97 lett. a (cessioni a soci a condizioni più favorevoli di quelle praticate a terzi); Art. 8, c.3, CTS (cessioni a soci/fondatori/donatori etc. a condizioni più favorevoli del mercato) . | Eccezione solo se la cessione agevolata è essa stessa attività di interesse generale (es: ente assistenziale che fornisce servizi gratuiti ai propri beneficiari per mission). Altrimenti, privilegiare soci = utili indiretti a loro vantaggio. |
Interesse passivo su prestiti da privati (soci, amministratori) oltre soglia | Art. 10, c.6, D.Lgs 460/97 lett. d (interessi passivi oltre 2 punti rispetto tasso ufficiale); Art. 8, c.3, CTS (interessi oltre 4 punti rispetto tasso di riferimento) . | Se un dirigente finanzia l’ente, può ottenere un interesse ragionevole. Oltre il limite previsto, l’eccedenza è considerata remunerazione del capitale => utile distribuito. |
Assenza di democraticità (gestione accentrata, soci non coinvolti) | Art. 148(8) TUIR (richiede disciplina uniforme rapporto associati, diritti di voto e partecipazione); D.Lgs 460/97 art.10(1)(h) (ONLUS: partecipazione democratica); Cass. 25492/2015; Cass. 8/2025 e 11/2025 . | Conseguenza: se l’ente è un simulacro (tipo “ditta individuale mascherata” ), decadono le agevolazioni per mancanza requisiti sostanziali. Onere prova su ente di dimostrare effettivo perseguimento finalità e assenza scopo di lucro , ma l’Ufficio deve fornire elementi concreti di scarsa democraticità. |
Utili non dichiarati in generale (extracontabili) | Art. 39 DPR 600/73 (accertamento induttivo) e Art. 2729 c.c. (presunzioni semplici) ; Presunzione distribuzione pro-quota in società a base ristretta (orientamento Cass. consolidato: es. Cass. 18038/2013, Cass. 2288/2025, Cass. 2464/2025) . | Nelle associazioni: non c’è presunzione automatica di distribuzione a tutti i soci (non essendovi “quote”). Tuttavia, se compagine è ristretta, possibile assimilazione a società di fatto. Cass. 2464/2025 ha aperto alla prova contraria del socio che dimostri estraneità a gestione . |
(Legenda: CCNL = Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro; CTS = Codice Terzo Settore; ONLUS = Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale; AE = Agenzia Entrate; “società a base ristretta” = società di capitali con pochi soci, tipicamente 2-3, spesso familiari.)
Come difendersi: strategie e strumenti nel contenzioso tributario
Di fronte a un avviso di accertamento che contesta utili distribuiti occultamente, l’associazione deve elaborare una strategia difensiva incisiva, fondata su argomentazioni giuridiche e prove di fatto. Esaminiamo i principali steps della difesa dal punto di vista del contribuente (debitore):
1. Valutare gli strumenti deflativi: prima di imboccare la via giudiziale, si consideri la possibilità di definire la controversia in via amministrativa se le contestazioni non sono del tutto infondate. L’associazione può presentare istanza di accertamento con adesione all’Agenzia delle Entrate, avviando un confronto per una possibile riduzione di sanzioni e una transazione sull’imponibile. In questi casi, tuttavia, ammettere parzialmente il rilievo di “utili occulti” significa accettare di perdere i benefici fiscali per quell’anno: una scelta da ponderare attentamente, perché può implicare esborsi rilevanti. Se l’Agenzia in sede di adesione non mostra apertura verso un ridimensionamento sensibile della pretesa, potrebbe essere più conveniente procedere col ricorso, almeno per guadagnare tempo e tentare di far valere le proprie ragioni in giudizio.
2. Ricorso in Commissione Tributaria (ora Corte di Giustizia Tributaria di primo grado): è l’atto introduttivo del contenzioso tributario. Il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla notifica dell’accertamento. Nella redazione del ricorso, è cruciale contestare sia gli aspetti formali che quelli sostanziali dell’atto impugnato. In particolare, vanno sviluppate linee difensive quali:
- Insussistenza della distribuzione di utili: si deve attaccare il cuore della contestazione, sostenendo che i fatti addotti dall’ufficio non integrano affatto una distribuzione di utili, oppure non sono provati. Questo richiede di affrontare puntualmente ogni elemento:
- Esempio: L’ufficio afferma che “il presidente ha percepito utili sotto forma di rimborso spese forfettivo di €10.000 annui”. La difesa dovrà spiegare che quel rimborso spese non è un utile ma la copertura di costi effettivamente sostenuti dall’amministratore per conto dell’associazione (carburante, pedaggi, telefono, ecc.), documentati da ricevute allegate. Oppure, se anche forfettario, rientra nelle facoltà dell’ente in base a normative di settore (es: per le ASD c’era la possibilità di erogare compensi sportivi dilettantistici esenti fino a €10.000 annui – ora ridotti a €5.000 – a collaboratori, anche se soci). Se applicabile, citare tali normative di favore per dimostrare la legittimità di quei pagamenti.
- Se viene contestato un compenso “eccessivo” a un dipendente, si può produrre un parere pro veritate di un consulente del lavoro o un raffronto con altri enti per dimostrare che la paga era in realtà in linea considerando straordinari, qualifiche o situazioni particolari. (Attenzione: Cassazione 19397/2025 non ha ammesso giustificazioni extra-legali al superamento del 20%, rifacendosi al tenore letterale della norma . Ciò vale per ONLUS/ASD soggette a quell’art.10, c.6: in tal caso la difesa avrebbe margini stretti. Invece per un APS/ETS soggetto alla soglia del 40%, il fatto di avere – poniamo – retribuito un operatore sociale al 50% in più del CCNL potrebbe essere spiegato col possesso di competenze rarissime, e rientrare nell’eccezione delle “comprovate esigenze di specifiche competenze” prevista dal Codice ).
- Se contestati prezzi anomali in contratti tra l’ente e soggetti correlati, la difesa dovrà puntare sul dimostrare la congruità del corrispettivo. Ciò può avvenire esibendo preventivi alternativi raccolti all’epoca (se disponibili) o commissionando in sede di causa una CTU (Consulenza Tecnica d’Ufficio) estimativa che accerti il valore di mercato. Nel caso dell’affitto palestra, la vittoria in primo e secondo grado dell’ASD era dipesa proprio dall’aver fornito una perizia giurata sul valore congruo del canone . Se l’importo risulta congruo, viene meno la base stessa della presunta distribuzione.
- Fondamentale è anche evidenziare se gli utili in questione non si sono materialmente realizzati o non sono nella disponibilità di nessuno. Ad esempio, l’ufficio presume utili occulti perché l’associazione ha chiuso in utile il bilancio: ma se quell’avanzo è rimasto in cassa o investito in beni strumentali, allora non è stato distribuito a soci. La Cassazione in passato era granitica nel ritenere che, per le società a base ristretta, il solo fatto di avere utili extracontabili implicasse che li avessero presi i soci; ora, con l’ordinanza 2464/2025, ha ammesso che se un socio prova la propria estraneità totale alla gestione, la presunzione cade . Mutatis mutandis, un’associazione può sostenere: “Quei utili non sono stati affatto distribuiti ma accantonati e risultano ancora nel patrimonio dell’ente, come da saldo di cassa/banca”. Oppure: “il piccolo gruppo dirigente non ha affatto spartito utili, e uno dei membri era del tutto estraneo, quindi non si può presumere una ripartizione generalizzata”. Insomma, minare la linearità logica della tesi accusatoria.
- Violazione di legge e vizi procedurali: oltre al merito, si devono considerare eventuali vizi formali dell’atto. Ad esempio, difetto di motivazione – l’avviso deve spiegare chiaramente da quali elementi ha desunto la distribuzione di utili. Se si limita ad affermazioni generiche senza indicare numeri o fatti concreti, ciò può costituire motivo di nullità per motivazione insufficiente (art. 42 DPR 600/73). Altro aspetto: la contestazione cumulativa di più annualità in un unico atto può essere contestata se non rispetta le garanzie del contraddittorio per ciascun anno. Ancora: se l’accertamento scaturisce da indagini bancarie, va verificato che siano state autorizzate e svolte secondo legge. Ogni irregolarità procedurale (ad es. mancato invio dell’avviso di inizio verifica, violazione dei termini di permanenza presso la sede dell’ente, ecc.) può essere evidenziata – anche se, in verità, i giudici tributari tendono a dare peso primario alla sostanza economica rispetto ai formalismi.
- Prova carente o “doppia presunzione”: la difesa può eccepire che l’amministrazione finanziaria sta utilizzando presunzioni non ammesse. Il nostro ordinamento vieta le presunzioni di secondo grado, ossia inferenze basate solo su altre presunzioni. Nel caso di utili occulti ai soci, spesso si discute di doppia presunzione: prima si presume che l’associazione abbia realizzato ricavi non dichiarati (magari in via induttiva), poi da ciò si presume che li abbia distribuiti ai soci. La Cassazione ha però chiarito che questa non è una presunzione “doppia” illegittima, bensì una presunzione semplice sorretta da un “fatto noto” costituito dalla ristrettezza della base sociale unita all’accertamento del maggiore reddito . Ciò non toglie che, in giudizio, se l’ufficio non ha offerto neppure tale fatto noto (es: l’associazione ha 100 soci, non certo ristretta), la presunzione di distribuzione perde forza. La CTR Campania in una vicenda di soci occulti, ad esempio, ritenne che la presunzione “non opera in modo meccanico” e che serve una “prova rafforzata” da parte dell’Ufficio per attribuire gli utili ai soci . La difesa dovrebbe quindi sottolineare quando l’ufficio non ha prove dirette di passaggi di denaro ai soci, ma solo congetture. Se l’associazione ha molti associati e il fisco pretende di ripartire utili su tutti, è evidente l’infondatezza (non avrebbe senso distribuire 100 euro a testa a 200 soci, per dire). Se invece i soci sono pochi e legati, la difesa dovrà concentrarsi su altri argomenti (assenza di utili reali, estraneità di qualcuno, ecc.).
- Documentazione allegata: il ricorso dovrebbe includere tutti i documenti utili a dimostrare quanto affermato. Ad esempio: statuto e atti costitutivi (per far vedere che formalmente c’erano le clausole di non lucro – se così è – il che rende meno plausibile un comportamento opposto); verbali di assemblea e rendiconti (a testimoniare la democraticità e la destinazione degli avanzi); contratti di lavoro, lettere d’incarico, ricevute di spesa, convenzioni con enti pubblici (tutto ciò che mostra che i pagamenti contestati erano funzionali all’attività istituzionale); perizie di stima sui beni/servizi dati o ricevuti; dichiarazioni testimoniali (ove ammesso: nel processo tributario puro non sono ammesse testimonianze, ma si possono produrre dichiarazioni scritte rese da terzi ad uso amministrativo, o far comparire i soggetti in qualità di “terzi informati” nelle verifiche). Un dossier documentale robusto spesso induce i giudici tributari – soprattutto in primo grado – a concedere il beneficio del dubbio all’ente, specie se parliamo di realtà associative radicate sul territorio con finalità meritevoli.
- Sospensione della riscossione: se le somme richieste sono elevate, l’ente potrebbe subire iscrizione a ruolo e cartelle esattoriali in tempi brevi. È possibile presentare al giudice tributario un’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto, evidenziando il danno grave e irreparabile che deriverebbe all’associazione dal pagamento immediato (es: compromissione delle attività sociali, rischio chiusura). In tali casi, spesso l’ente non ha grandi risorse per pagare comunque, e data la natura “sociale” del debitore alcuni giudici sono sensibili alla sospensione. Bisogna però anche convincerli sulla fondatezza del ricorso (fumus boni iuris), almeno in parte, altrimenti la sospensiva non viene concessa.
Segue quindi la fase di discussione in Commissione. Se in primo grado il ricorso viene respinto (o parzialmente accolto in modo insoddisfacente), l’ente può appellare alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex Commissione Regionale). In appello si possono riproporre le censure e, in certi casi, nuovi documenti se giustificati. Dato il tecnicismo della materia, è auspicabile farsi assistere da un avvocato tributarista o professionista esperto già dal primo grado, ma ancor più in appello e poi in Cassazione.
3. Prevenire e gestire il contenzioso: consigli pratici. Dal punto di vista operativo, mentre il contenzioso pende, l’associazione farebbe bene anche a: – Regolarizzare per il futuro la gestione, ove possibile. Ciò significa, ad esempio, ridurre compensi eventualmente eccessivi, rinunciare a contratti con parti correlate troppo onerosi, tenere rendicontazione rigorosa dei rimborsi spese. Questo non cancella il passato ma può migliorare la percezione del giudice (“l’ente ha rettificato il tiro, segno che non era volontà dolosa lucrare”). – Interlocuire con l’Amministrazione: anche a processo avviato, restano aperte le porte di conciliazione giudiziale (ex art. 48 D.Lgs. 546/92) o definizioni agevolate (in alcuni periodi il legislatore introduce “rottamazioni” o simili per il contenzioso). Una conciliazione in appello, ad esempio, potrebbe consistere nel far riconoscere solo una parte di imponibile riducendo sanzioni al 50%. Sono valutazioni da fare costi-benefici. – Valutare profili penali (di cui diremo sotto) e predisporre, se necessario, una difesa coordinata anche in quel campo: la documentazione prodotta in sede tributaria potrebbe poi essere utilizzata (nel bene e nel male) in sede penale, quindi va scelta con attenzione la strategia globale.
4. Fac-simile di argomentazioni difensive. Per rendere più concreto l’approccio difensivo, ecco un estratto simulato di un ricorso tributario, relativo a una contestazione di utili occulti in un’ASD, che evidenzia come impostare le principali censure:
RICORSO … Omissis … Motivi: 1) Insussistenza di distribuzione indiretta di utili – L’avviso assume erroneamente che l’importo di €30.000 erogato al Presidente dell’ASD configuri utile occultamente distribuito, travisando la natura dei pagamenti. Detto importo rappresenta in realtà la sommatoria di rimborsi spese documentati, sostenuti dal Presidente per l’organizzazione dei corsi sportivi (cfr. allegati da 5 a 12, copie di ricevute per acquisto materiale tecnico, carburante, divise). Non trattasi di emolumento forfettario, bensì di restituzione di esborsi anticipati per conto dell’Associazione, come tale estraneo a qualsivoglia nozione di “utile” . In subordine, ove anche si volesse qualificare parte di esso come compenso, esso risulta entro i limiti di cui all’art. 69 co.2 TUIR (compensi sportivi dilettantistici esenti fino a €10.000, vigente pro tempore) e comunque commisurato all’attività svolta, conformemente all’art. 10 c.6 D.Lgs. 460/97 lett. c) e art. 8 c.3 CTS. L’Ufficio non ha quindi assolto all’onere di provare alcuna distribuzione di utili, avendo il ricorrente fornito valida spiegazione alternativa dei movimenti finanziari contestati. 2) Errori di diritto nell’applicazione delle presunzioni – L’atto impugnato fonda la ripresa a tassazione su una duplicazione di presunzioni: dapprima postula “maggiori ricavi non dichiarati” dall’ASD basandosi su mere percentuali di ricarico, poi – senza ulteriori elementi – li attribuisce pro quota ai soci (2 persone), in violazione dell’art. 2729 c.c. e del divieto di presunzioni di secondo grado. La giurisprudenza di legittimità richiamata dall’Ufficio è invocata impropriamente: detta presunzione di distribuzione ai soci, pur ammessa in società a base ristretta, non opera affatto in modo automatico e richiede comunque la prova di circostanze specifiche (Cass. n.2464/2025) , nel caso di specie del tutto mancanti. Si rileva anzi che il socio Sig. XXX, pur formalmente parte dell’ASD, è completamente estraneo alla gestione (come da dichiarazioni rese agli atti del PVC) e non ha percepito alcunché: circostanza che, secondo l’orientamento innovativo di Cass. 2464/2025, sarebbe sufficiente a vincere la presunzione medesima . … omissis … 3) Violazione dell’art. 148 TUIR e carenza di motivazione – L’ufficio, nel disconoscere in toto la natura non commerciale dell’ente, non ha tenuto conto che l’ASD ha rispettato i requisiti formali statutari (divieto di utili, devoluzione finale, democraticità: v. statuto, all.1) e ha effettivamente reinvestito gli avanzi negli esercizi successivi (v. bilanci all.2-4, con aumento del fondo di dotazione). La motivazione dell’Avviso sul punto è del tutto generica e non spiega perché mai tutte le entrate associative (quote corsi dei soci, contributo CONI) dovrebbero diventare imponibili, non avendo l’ente svolto attività commerciale diversa dall’organizzazione di attività sportive verso i soli tesserati. In ciò si ravvisa violazione dell’art. 148 TUIR e 149 TUIR, oltre a difetto di motivazione ex art. 42 DPR 600/73, atteso che il presupposto per negare le agevolazioni non è provato (assenza di lucro soggettivo) … Omissis… Si chiede pertanto annullamento integrale dell’atto impugnato…
(L’esempio sopra è semplificato a fini illustrativi. Un ricorso reale includerebbe ulteriori motivi e allegati; i riferimenti normativi e giurisprudenziali devono essere adattati al caso concreto.)
5. L’importanza della giurisprudenza favorevole. Nel predisporre la difesa, citare precedenti giurisprudenziali analoghi e ben motivati può essere molto efficace. Ad esempio, se il caso riguarda un’ASD con pochi soci, menzionare sentenze come Cass. 8/2025 e 11/2025 che sottolineano l’onere per l’ASD di dimostrare l’assenza di scopo lucrativo, ma al contempo affermano che senza tale dimostrazione le agevolazioni decadono . Oppure citare decisioni di merito (CTR, CTP) che abbiano accolto ricorsi di associazioni in situazioni analoghe: spesso queste sentenze si trovano nelle banche dati o in riviste (ad es. una CTP Treviso 2023 ha annullato un atto proprio per difetto di prova su utili occulti e violazione democraticità ). Inserire in ricorso passi di tali sentenze, opportunamente contestualizzati, può orientare il giudice a sentirsi in linea con un filone giurisprudenziale e quindi più sicuro nell’accogliere la tesi difensiva.
6. Secondo grado e Cassazione: qualora l’esito di primo grado sia sfavorevole, non bisogna scoraggiarsi. Le Commissioni tributarie di primo grado a volte tendono ad avallare le tesi fiscali in casi di possibile evasione; in appello, con giudici più esperti, c’è spazio per ribaltare il verdetto, soprattutto se ci sono profili giuridici controversi (presunzioni, vizi di motivazione, ecc.). In Cassazione, poi, molte questioni in tema di utili occulti sono arrivate e alcune sono state decise di recente in senso innovativo (come visto con ord. 2464/2025 sulla prova contraria del socio). Se ci sono buoni motivi di diritto, val la pena proseguire sino alla Suprema Corte, tenendo conto però di tempi e costi. Spesso, la prospettiva di un giudizio lungo può motivare l’Agenzia a transigere prima, specie se l’importo in gioco non è altissimo o se teme un precedente sfavorevole.
In conclusione, difendersi efficacemente contro l’accusa di aver occultamente distribuito utili è possibile, ma richiede un approccio meticoloso: occorre smontare punto per punto le tesi del Fisco, portando alla luce la reale natura (non lucrativa) delle operazioni contestate, e sfruttando ogni margine offerto da norme e sentenze. Nel prossimo capitolo, affronteremo separatamente le implicazioni penali, ovvero cosa rischiano in sede penale gli amministratori o soci coinvolti in queste vicende, e come tali aspetti interagiscono col procedimento tributario.
Implicazioni penali e responsabilità personali degli amministratori
Esiste un rischio penale per chi distribuisce utili in un ente non profit? Sì, in determinate circostanze le vicende descritte possono sconfinare nel diritto penale tributario. Occorre tuttavia distinguere: la distribuzione di utili in sé non è un reato, ma se per realizzarla si sono commesse violazioni tributarie (dichiarazioni infedeli, occultamento di ricavi, omessa dichiarazione di redditi imponibili), allora i responsabili dell’ente possono rispondere di reati fiscali previsti dal D.Lgs. 74/2000.
I due scenari penali più rilevanti sono: dichiarazione infedele (art.4 D.Lgs.74/2000) e omessa dichiarazione (art.5). Vediamoli in concreto: – Se l’associazione, a causa della distribuzione occulta di utili, non ha dichiarato al Fisco dei redditi imponibili rilevanti, il legale rappresentante (o chi era tenuto alla dichiarazione) può essere imputato per dichiarazione infedele qualora l’imposta evasa superi una soglia di punibilità (attualmente €100.000 di imposte evase e €2 milioni di base imponibile non dichiarata). Ad esempio, se per via del finto status non profit l’associazione ha nascosto €300.000 di proventi commerciali in tre anni, evadendo magari €80.000 di IRES e IVA, si rientra nel reato (avendo superato la soglia di base imponibile non dichiarata). – Se l’associazione non ha proprio presentato dichiarazione dei redditi IVA/IRES in quanto si riteneva esente, e invece avrebbe dovuto (perdita qualifica non profit), può configurarsi omessa dichiarazione (che scatta se l’imposta evasa > €50.000). Ad esempio, una pseudo-ONLUS che svolgeva attività commerciali nascoste e non ha presentato il Modello UNICO né la dichiarazione IVA potrebbe far incorrere il suo rappresentante nel reato di omessa dichiarazione.
Chi viene considerato penalmente responsabile? In genere, gli amministratori in carica all’epoca dei fatti, in primis il Presidente o chi ha la rappresentanza legale e sottoscriveva (o avrebbe dovuto sottoscrivere) le dichiarazioni fiscali. Se c’è un amministratore di fatto (qualcuno che tirava le fila dietro le quinte), anche costui può essere chiamato a rispondere. Pensiamo al caso di un’associazione usata come schermo: il soggetto occulto che in realtà gestiva tutto e beneficiava degli utili può essere ritenuto il vero responsabile fiscale. La giurisprudenza recente offre un esempio eclatante: la Cassazione penale n. 41579/2023 ha condannato per dichiarazione infedele l’occulto dominus di due S.r.l. a base ristretta, colpevole di aver omesso di indicare nella propria dichiarazione i proventi extracontabili accertati nelle società . In quel caso, le SRL avevano optato per la “trasparenza fiscale” (regime per cui gli utili tassabili passano ai soci) e benché l’imputato fosse un socio occulto non dichiarato, la Corte ha ritenuto che proprio perché era il beneficiario effettivo unico, dovesse dichiarare quei redditi. La decisione si fonda sul principio per cui “quando in società di capitali a ristretta base proprietaria si accertano utili extracontabili, è legittimo imputarli ai soci, anche occulti” . Dunque, se un’associazione è equiparabile a una siffatta situazione (es. un ente copertura dove un individuo incassa in nero i proventi), quel soggetto rischia di essere perseguito per evasione.
Un ulteriore profilo penale può emergere se, per attuare la distribuzione occulta, si falsificano i documenti contabili o si usano artifizi: in tal caso potrebbe configurarsi il reato di dichiarazione fraudolenta (art.3 D.Lgs.74/2000, se ad es. si sono annotate fatture false per giustificare uscite di denaro) o di false comunicazioni sociali se l’associazione ha obblighi di bilancio (ipotesi rara, solo enti con personalità giuridica che redigono bilanci in forma societaria o imprese sociali potrebbero ricadere nel 2621 c.c.). Tuttavia, la gran parte delle volte i reati contestati rimangono nell’alveo degli illeciti dichiarativi (infedele/omessa).
Sanzioni e conseguenze penali: la dichiarazione infedele è punita con la reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi; l’omessa dichiarazione da 2 a 5 anni (per le annualità fino al 2015 le pene erano più basse). Queste sono pene potenzialmente detentive non brevi, ma va detto che in un contesto di associazionismo raramente si arriva a pene effettive: possono valere attenuanti, patteggiamenti, e soprattutto occorre la prova oltre ogni ragionevole dubbio del dolo specifico di evadere. La difesa penale potrebbe infatti sostenere che gli amministratori credevano in buona fede di avere diritto alle esenzioni (difetto di dolo), anche se questa tesi può reggere solo in situazioni limite (es. norme ambigue).
Un caso interessante riguarda i soci beneficiari: se l’Agenzia delle Entrate li tassa personalmente per utili extracontabili (come può fare in ambito tributario), costoro hanno l’obbligo di inserirli nella propria dichiarazione. Se non lo fanno e gli importi superano le soglie, anch’essi rischiano incriminazioni. Ad esempio, se Tizio, socio di fatto, riceve 50.000€ non dichiarati, potrebbe essere imputato. Nella sentenza penale 41579/2023 citata, proprio questo è accaduto: il socio occulto che non aveva dichiarato i redditi “pass-through” della società trasparente è stato condannato . In ambito associativo, lo scenario potrebbe essere: amministratore che incassa somme dell’ente e non le dichiara come reddito proprio (perché formalmente non doveva averne), configurando così evasione.
Altre responsabilità personali: anche fuori dal penale tributario, gli amministratori di associazioni incorrono in responsabilità civili e amministrative in caso di mala gestio: – Responsabilità verso i terzi creditori: se l’associazione è non riconosciuta, chi ha agito in nome dell’associazione risponde solidalmente con il patrimonio sociale per le obbligazioni assunte (art. 38 c.c.). Ciò significa che, per i debiti tributari accertati, l’Agenzia Entrate Riscossione può escutere il patrimonio personale dei legali rappresentanti (o di chi ha firmato atti) qualora il patrimonio dell’associazione sia incapiente. Dunque, se un’associazione non riconosciuta viene colpita da cartelle esattoriali per imposte evase, il Fisco potrebbe rivalersi sui beni personali del presidente/dirigenti. Questa è una prospettiva molto concreta e spesso peggiore di quella penale, perché può portare a pignoramenti e rovina economica. Se l’associazione è riconosciuta (persona giuridica) invece, in via ordinaria risponde solo l’ente con il suo patrimonio. Gli amministratori rispondono personalmente solo se c’è stata colpa grave o dolo verso l’ente stesso (azione di responsabilità interna) o verso i creditori in casi particolari (es: se hanno aggravato il dissesto). Il Fisco di solito punta comunque all’associazione; se questa non paga, in caso di ente riconosciuto l’escussione dei singoli è complicata a meno di dimostrare che l’associazione era uno schermo (di nuovo la società di fatto). – Sanzioni amministrative personali: come visto, il Codice Terzo Settore prevede multe ad personam di 5.000-20.000 euro . Inoltre, il D.Lgs. 460/97 per le ONLUS prevedeva l’inibizione a far parte di organi di ONLUS per chi avesse violato certe norme. Le nuove norme sportive e del terzo settore tendono a responsabilizzare direttamente i manager: ad esempio, un amministratore che abbia dolosamente distribuito utili potrebbe essere dichiarato decaduto dalla carica o ineleggibile in futuro in enti similari, su provvedimento dell’autorità di vigilanza. – Conseguenze per l’ente: la sanzione accessoria più grave per l’ente è la perdita della qualifica e quindi l’esposizione a tutti i debiti tributari connessi. Inoltre, se l’ente aveva ricevuto benefici pubblici (es. il 5 per mille, o contributi pubblici locali, uso gratuito di immobili comunali perché “no profit”), potrebbe essere costretto a restituirli qualora venga accertato che violava i requisiti. In casi estremi, potrebbe scattare lo scioglimento coatto dell’associazione per atto dell’autorità governativa, qualora si accerti che essa perseguiva scopi illeciti (non è comune, ma teoricamente il Prefetto o autorità competente potrebbe avviare la cancellazione dal registro pubblico per indegnità).
Difesa in ambito penale: se si profilano procedimenti penali, l’associazione e i suoi dirigenti devono coordinare la difesa con quella tributaria. Spesso conviene far riferimento agli esiti del contenzioso tributario: se il giudice tributario dà ragione all’ente annullando l’accertamento, anche il penale viene meno (perché manca il presupposto di imposta evasa). Viceversa, se in sede tributaria l’ente perde, non è automatico che in sede penale siate condannati: si potrà discutere sul dolo. Ad esempio, si potrà sostenere che l’amministratore era convinto (magari male informato) che quei compensi fossero leciti rimborsi. La consulenza tecnica di parte può aiutare per ricostruire contabilmente l’assenza di arricchimento personale. Nei procedimenti penali tributari relativi a utili occulti spesso si cerca un patteggiamento con pena sospesa, specie se i debiti tributari vengono saldati (il che in ambito associativo è difficile per mancanza di fondi).
In sintesi, dal punto di vista del debitore, è fondamentale essere consapevoli che: – Le conseguenze economiche (tributarie) ricadono primariamente sull’associazione, ma se questa non è in grado di pagare, possono colpire il patrimonio personale di chi la gestiva, specie in enti non riconosciuti . – Le conseguenze penali invece colpiscono le persone fisiche (amministratori, soci percettori): il reato di evasione è personale e non coinvolge l’ente come soggetto (che non ha responsabilità penale, salvo rarissimi casi di 231/2001 che qui non rilevano). – Per evitare guai peggiori, qualora l’accertamento fiscale appaia fondato, può valer la pena correre ai ripari: ad esempio, presentare dichiarazioni integrative per gli anni successivi se l’ente ha continuato l’attività (dimostrando ravvedimento), o attuare un concordato col Fisco. Tali comportamenti potrebbero attenuare l’eventuale giudizio di colpevolezza in sede penale, mostrando buona fede o resipiscenza.
Domande frequenti (FAQ)
D: Un’associazione può realizzare utili?
R: Sì, un’associazione può chiudere il bilancio in utile, ovvero con un avanzo di gestione. Questo di per sé non è vietato (non vi è obbligo di pareggio o perdita). Ciò che conta è la destinazione di tali utili: devono essere reinvestiti nelle attività istituzionali o accantonati per scopi statutari. Non possono invece essere divisi tra soci, neanche in modo indiretto. Un ente non profit virtuoso può accumulare riserve per finanziare, ad esempio, l’acquisto di una sede, nuovi progetti sociali, ecc. L’importante è che rimangano nel patrimonio dell’associazione. La Cassazione ha chiarito che le ONLUS e gli ETS possono svolgere attività economicamente produttive e generare utili, ma la loro finalità deve restare altruistica, e pertanto ogni avanzo va reinvestito a servizio della missione . Se invece l’utile viene distratto, l’ente tradisce la sua natura e perde benefici.
D: Come distinguere un compenso legittimo da un utile occulto?
R: Bisogna guardare a vari fattori: la base giuridica del pagamento (c’è un contratto di lavoro/prestazione? una delibera che lo autorizza?), la proporzionalità dell’importo rispetto all’attività svolta e ai parametri di mercato, e la trasparenza con cui è erogato. Un compenso è legittimo se corrisponde a un’effettiva controprestazione a favore dell’ente. Esempio: il presidente di un’APS insegna nei corsi dell’associazione per molte ore al mese ed è pagato €500 mensili con contratto di collaborazione – ciò è tendenzialmente legittimo (nessun arricchimento indebito, compenso modesto e documentato) . Al contrario, se vediamo un pagamento di €20.000 “una tantum” al presidente senza chiara causale, o un rimborso spese forfettario molto elevato, sorge il sospetto di utile occulto. Un utile occulto ha tipicamente carattere gratuito o eccedente rispetto a quanto dovuto. Un buon metro è chiedersi: se questa stessa prestazione fosse acquistata da un esterno, quanto costerebbe? Se l’associazione paga a un interno molto di più, la differenza è un potenziale utile distribuito.
D: Quali difese specifiche sono efficaci contro la presunzione di utili ai soci nelle piccole associazioni?
R: In associazioni con pochi membri (es. il classico caso di 3 soci fondatori), il Fisco tenderà a presumere che eventuali utili nascosti siano stati spartiti fra loro. Per difendersi: – Dimostrare che non tutti i soci erano coinvolti nella gestione. Ad esempio, uno era socio solo nominalmente ma non partecipava (in tal caso perché mai avrebbe ricevuto utili?). Ciò secondo Cassazione può rompere la presunzione . – Evidenziare che i fondi non sono stati affatto distribuiti, ad es. sono stati spesi per l’acquisto di beni rimasti all’ente (macchinari, scorte) o sono rimasti su un conto. Se l’utile non è “uscito” dall’associazione, non c’è distribuzione. – Contestare la qualità di soci in capo ai beneficiari: a volte i reali percettori non sono formalmente soci (es: un consulente esterno strapagato, un fornitore legato al presidente). In tal caso, parlare di “utili ai soci” è improprio; semmai è un uso distorto di risorse ma la presunzione pro-quota non si applica proprio. – Produrre documentazione che smentisca l’esistenza stessa di utili extracontabili: se il Fisco li ha calcolati su base induttiva (ricarichi, percentuali), la difesa può confutarli con analisi di bilancio o mostrando che certi proventi non esistevano (es: i corsi erano gratuiti, quindi quei ricavi presunti non ci sono stati). Se cade la premessa dei maggiori utili, cade anche la distribuzione.
D: Cosa succede se un ente perde la qualifica fiscale agevolata?
R: Se in via definitiva viene accertato che l’associazione ha operato con fini di lucro (quindi perde la qualifica di ente non commerciale, ONLUS, ETS, ecc.), le conseguenze sono: – Tassazione retroattiva di tutti i periodi d’imposta oggetto di contestazione, come ente commerciale. Questo comporta il pagamento di IRES su tutti gli utili (anche quelli eventualmente “occulti” ricostruiti), l’assoggettamento ad IVA delle operazioni svolte (con obbligo di versare l’IVA non applicata a suo tempo), e l’IRAP se dovuta. Il tutto con sanzioni amministrative che, in ambito tributario, vanno in genere dal 90% al 180% dell’imposta evasa per omessa/infedele dichiarazione, oltre agli interessi legali maturati. – Perdita per il futuro delle agevolazioni: l’ente verrà trattato come società commerciale a tutti gli effetti anche negli anni successivi, se prosegue l’attività, a meno che non cambi radicalmente struttura e provi di rientrare nei ranghi (ma spesso la preclusione è almeno per un certo periodo). – Iscrizione a ruolo dei debiti: il debito fiscale accertato diventa una cartella esattoriale. Se non pagato, si attiva la riscossione coattiva (fermi amministrativi, ipoteche sugli immobili sociali, pignoramenti dei conti dell’associazione). Se l’associazione non ha risorse, come detto, il riscossore può aggredire i responsabili in solido (per le non riconosciute). – Reputazione e affidabilità legale compromesse: l’ente potrebbe essere escluso da bandi pubblici, perdere la possibilità di ricevere il 5‰, vedersi revocare contributi. Inoltre, se era iscritto in registri (RUNTS, Registro CONI, Albi pubblici), verrà cancellato probabilmente. Ciò può significare di fatto la fine operativa dell’associazione. – Multa agli amministratori (per ETS): se applicabile il Codice Terzo Settore, la sanzione 5-20 mila euro di cui sopra colpirà personalmente gli amministratori colpevoli . – Eventuali reati fiscali: come discusso, se le somme evase superano soglie, i rappresentanti dovranno affrontare procedimenti penali per infedele/omessa dichiarazione. Anche senza condanna, subire un’indagine penale è di per sé un onere e un danno all’immagine. In sintesi: la perdita delle agevolazioni può prosciugare le risorse dell’ente e impedirgli di continuare le attività. È una sanzione economica durissima, talvolta sproporzionata rispetto all’entità degli utili indebiti (basti pensare a un piccolo errore formale: ma quando c’è distribuzione di utili, di solito è un fatto grave). Perciò è essenziale prevenire con una gestione conforme o, se colti in fallo, attivare una difesa per mitigare l’impatto .
D: Un presidente di associazione può percepire uno stipendio o compensi?
R: In linea di massima sì, può percepire compensi per attività effettivamente svolte a favore dell’associazione, non semplicemente in ragione della carica. La vecchia concezione del volontariato puro imponeva spesso la gratuità delle cariche; oggi, sia per le ASD che per gli ETS, la legge consente compensi ai dirigenti, purché rispettino i criteri di cui sopra (proporzionati, non esorbitanti, e ovviamente nei limiti di sostenibilità dell’ente) . Ad esempio, il presidente di una ONLUS poteva essere assunto come direttore generale e retribuito, ma se lo pagava più di €41.316 annui scattava la presunzione di utili . Nel Codice Terzo Settore non c’è un tetto fisso, però paga la regola del buon senso: se l’ETS è piccolo e povero, un alto stipendio al presidente sarà visto male dal Fisco (oltre che dai soci). Meglio evitare di remunerare le cariche amministrative, se non dove strettamente necessario. In alternativa, se i dirigenti dedicano molto tempo, si possono prevedere rimborsi spese analitici, o compensi occasionali entro limiti esenti (nel caso sportivo dilettantistico esiste la figura del “compenso sportivo dilettantistico” esente fino a una soglia annua per collaboratori, ora €5.000). Una prassi consigliabile: se proprio si vuole attribuire un compenso al presidente, approvarlo in assemblea e dettagliarlo in bilancio come voce separata, con trasparenza. Così sarà più difficile per l’Ufficio contestarlo, purché giustificabile. Attenzione invece a stratagemmi come assumere il presidente come dipendente: è fattibile (specie se si dimette da ogni carica deliberativa per evitare conflitti, come suggerito da alcuni esperti) , ma il lavoro dev’essere genuino e la remunerazione in linea coi contratti.
D: In caso di accertamento, chi paga i tributi e le sanzioni: l’associazione o gli amministratori di tasca propria?
R: Formalmente, il soggetto obbligato è l’associazione (in quanto contribuente). Dunque le cartelle esattoriali vengono intestate all’associazione. Tuttavia, se l’associazione non ha personalità giuridica e/o non ha patrimonio sufficiente, la legge permette ai creditori (incluso il Fisco) di escutere direttamente coloro che hanno agito in nome dell’associazione, in primis i legali rappresentanti . Ciò significa che, in pratica, il dirigente può dover pagare di persona. Se invece l’associazione è riconosciuta (ha personalità giuridica), i suoi debiti non ricadono automaticamente sui soci o amministratori, salvo abbiano personalmente garantito o salvo frodi. In quest’ultimo caso però il Fisco potrebbe argomentare che l’associazione era usata per frodare e tentare un’azione revocatoria di atti di distrazione di beni, o segnalare la cosa per indebiti arricchimenti. In ogni caso, per un amministratore coinvolto, è come vedere andare in fumo il lavoro di anni: se tiene all’associazione, la vedrà gravata di debiti; se l’associazione è insolvente, potrebbe ritrovarsi protestato e con beni pignorati. Non va poi dimenticato che alcune sanzioni amministrative tributarie possono colpire direttamente la persona: ad esempio, la sanzione per omessa dichiarazione colpisce chi aveva l’obbligo di presentarla (il presidente), ed è teoricamente a carico suo, anche se in pratica l’Agenzia tende a notificarla all’ente e al rappresentante in solido. Inoltre, le sanzioni da Codice Terzo Settore (5-20k) sono proprio mirate agli amministratori. Quindi, in definitiva, gli amministratori rischiano in proprio, eccome, sul piano economico. È anche per questo che la polizza assicurativa per la responsabilità civile degli amministratori (D&O) sarebbe raccomandabile anche negli enti non profit, benché pochi la stipulino.
D: La violazione del divieto di utili può comportare la chiusura coatta dell’ente?
R: Non in automatico come sanzione diretta, ma indirettamente può portare allo scioglimento. Ad esempio, se un’associazione ONLUS viene cancellata dall’Anagrafe ONLUS per distribuzione di utili, perde la sua qualifica fondamentale e spesso non ha senso proseguire (o viene esclusa dal settore in cui operava). Gli ETS che perdono i requisiti possono essere cancellati dal RUNTS; a quel punto, per continuare, dovrebbero trasformarsi in enti commerciali (snaturandosi). In casi gravi di abusi, le autorità di vigilanza (Ministero, Prefettura) possono chiedere ai giudici civili lo scioglimento dell’associazione ai sensi del codice civile (perché perseguiva scopi illeciti o contrari all’ordine pubblico). Questo però è raro e di solito correlato a reati più gravi (truffe, finanziamento illecito, ecc.). Nel contesto fiscale, di solito l’ente non viene “chiuso d’ufficio”, ma il peso dei debiti potrebbe portarlo di fatto a cessare l’attività o a dover liquidare il patrimonio. Se poi parliamo di ASD, c’è anche il provvedimento del CONI: un’ASD pizzicata a violare le norme (es. finta dilettantistica che fa lucro) potrebbe essere radiata dal Registro CONI, perdendo lo status sportivo. Insomma, il rischio di chiusura esiste come effetto collaterale delle varie conseguenze amministrative.
D: Quali sono le migliori pratiche per evitare di incorrere in queste sanzioni?
R: In sintesi: – Statuto a norma e rispetto formale delle clausole: assicurarsi che lo statuto contenga le clausole richieste (divieto di utili, devoluzione patrimonio, etc.) e applicarle davvero. Ad esempio, tenere verbali assembleari regolari, far approvare il bilancio ai soci, documentare la volontà di non distribuire avanzi (destinandoli a riserva o attività future). – Contabilità e trasparenza: mantenere una contabilità separata per l’eventuale attività commerciale (obbligatorio per APS/ASD per fruire esenzioni) e registrare fedelmente tutte le entrate e le uscite. Evitare assolutamente casse nere o doppi bilanci. Ogni euro che esce dal conto deve avere una giustificazione (fattura, scontrino, ricevuta). – Compensi e rimborsi calibrati: se l’ente vuole retribuire qualcuno interno, farlo con contratti chiari e compensi nei limiti di mercato. Per i rimborsi spese, preferire quelli a piè di lista (dietro presentazione di scontrini) anziché forfettari; se si usano forfait, documentare come sono stati calcolati. Mai usare l’associazione come bancomat personale. – Prezzi di trasferimento equi: se l’associazione acquista servizi da soggetti collegati, formalizzare tutto con contratti scritti e – se possibile – confrontare con preventivi di altri fornitori. È opportuno che il consiglio direttivo approvi tali contratti con il socio interessato astenuto, per dimostrare correttezza. – Consulenza preventiva: tenersi aggiornati sulle normative (il Terzo Settore è in evoluzione continua). Avvalersi di consulenti (commercialisti, avvocati) esperti del non profit per essere sicuri di non commettere ingenuità. Ad esempio, inquadrare bene i rapporti di lavoro (capire se un istruttore va preso con compenso sportivo o come dipendente) . – Documentare la missione sociale compiuta: l’onere di provare che l’associazione fa davvero ciò che dichiara è a carico dell’ente . Conservare foto, articoli, relazioni sulle attività svolte, numero di beneficiari raggiunti, può sembrare superfluo ma costruisce quel dossier di buona fede che, in caso di accertamento, può far pendere l’ago della bilancia a favore dell’ente, mostrando che non era una struttura fantasma per arricchire i soci, bensì un vero ente impegnato socialmente. – Correttezza fiscale anche nelle piccole cose: ad esempio, se l’ente svolge attività commerciali marginali (una festicciola con vendita di t-shirt), meglio emettere ricevute e dichiarare quel poco reddito (tanto magari in regime 398 è quasi esentasse). Questo evita che il verificatore trovi movimenti non contabilizzati.
In definitiva, la miglior difesa è la prevenzione, tramite buona gestione e trasparenza. Se però l’accertamento arriva comunque, come abbiamo visto, ci sono modi per difendersi e, se supportati da fatti solidi, è possibile evitare il peggio e continuare le attività associative nella legalità.
Fonti utilizzate e riferimenti normativi e giurisprudenziali chiave:
– D.P.R. 917/1986 (TUIR), art. 148 e 149 – Enti non commerciali, divieto utili e perdita qualifica.
– D.P.R. 633/1972, art. 4 – Attività commerciali ai fini IVA degli enti non profit.
– D.Lgs. 460/1997, art. 10 – Requisiti ONLUS e casi di distribuzione indiretta di utili.
– D.Lgs. 117/2017 (Codice Terzo Settore), art. 8 e 9 – Divieto distribuzione utili e patrimonio degli ETS ; art. 8 co.3 (elenchi utili indiretti) ; art. 91 – Sanzioni amministrative per violazione (multe 5-20k) .
– Cass. civ. Sez. V, ord. n.19397/2025 (14/07/2025) – ASD, presunzione utili indiretti se stipendi >20% CCNL, criterio confronto su lordo .
– Cass. civ. Sez. V, ord. n.2464/2025 (02/02/2025) – Società a base ristretta, prova contraria del socio estraneo per vincere presunzione utili .
– Cass. pen. Sez. III, sent. n.41579/2023 (13/10/2023) – Dichiarazione infedele socio occulto, utili extracontabili imputati al dominus (trasparenza fiscale) .
– Cass. civ. Sez. V, sent. n.31279/2024 (06/12/2024) – Cancellazione ONLUS, distribuzione utili camuffati da rimborsi e attività non solidaristiche .
– Cass. civ. Sez. V, ord. n.8/2025 e n.11/2025 – Requisiti formali e sostanziali ASD, onere prova assenza scopo lucro su ente, no agevolazioni se operava come ditta individuale .
– Circ. Agenzia Entrate 9/E del 25.01.2007 – Chiarimenti su compensi ad amministratori di ASD/ONLUS (limite compenso sindaco SpA) .
– Sent. CTP Treviso n.220/2023 – Prelievi amministratori ASD non sono utili ma compensi in natura se giustificati.
– Agevolazioni fiscali ASD: Ordinanze 8/25 e 11/25 Corte Cassazione
– CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, Sentenza n. 31279 depositata il 6 dicembre 2024 – Le Onlus devono perseguire “esclusive finalità di solidarietà sociale” sicché la finalità solidaristica è elemento essenziale della forma dell’ente e dei benefici connessi, essa non può esaurirsi nel percepimento dei benefici statali perché va verificato nel concreto dello Statuto quale sia formalmente l’attività prevalente e nella sostanza economica quale sia l’attività principale.
– Sentenza del 04/03/2022 n. 141 – DEF Finanze
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata la distribuzione occulta di utili all’interno di un’associazione? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti viene contestata la distribuzione occulta di utili all’interno di un’associazione?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le associazioni, soprattutto quelle riconosciute come enti non commerciali o no profit, godono di particolari agevolazioni fiscali. Tuttavia, se l’Agenzia delle Entrate ritiene che i fondi dell’associazione siano stati utilizzati per arricchire direttamente soci, amministratori o dirigenti, può contestare una distribuzione indiretta di utili, riqualificando l’ente come commerciale e recuperando imposte e contributi.
👉 Prima regola: dimostra la trasparenza gestionale e la reale destinazione delle risorse alle finalità istituzionali.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Rimborsi spese ai soci non documentati o non proporzionati;
- Utilizzo personale di beni e servizi dell’associazione (auto, immobili, carte di credito);
- Compensi eccessivi ad amministratori o dirigenti;
- Prestazioni professionali affidate sempre agli stessi soci a valori non di mercato;
- Assenza di una contabilità separata tra attività istituzionale e commerciale.
📌 Conseguenze della contestazione
- Riqualificazione dell’associazione come ente commerciale;
- Recupero delle imposte non versate con sanzioni e interessi;
- Applicazione di sanzioni per distribuzione indiretta di utili;
- Perdita delle agevolazioni fiscali e del regime no profit;
- Rischio di contestazioni penali per dichiarazione infedele o truffa ai danni dello Stato.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Statuto e regolamenti interni: prevedono regole chiare sul divieto di distribuzione utili?
- Documentazione contabile: le spese contestate sono effettivamente registrate e giustificate?
- Tracciabilità dei pagamenti: i fondi sono stati usati per attività istituzionali o per finalità private?
- Congruità dei compensi: erano in linea con valori di mercato?
- Motivazione della contestazione: l’Agenzia ha prove concrete o solo presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Statuto e atto costitutivo dell’associazione;
- Bilanci e rendiconti annuali;
- Verbali assembleari e decisioni degli organi sociali;
- Contratti, ricevute e fatture per i rimborsi spese;
- Estratti conto bancari e documentazione di pagamenti.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare che le spese contestate erano istituzionali e non utili occulti;
- Contestare la riqualificazione come ente commerciale se non supportata da elementi oggettivi;
- Chiarire la natura dei rimborsi o dei compensi con prove documentali;
- Eccepire vizi formali dell’accertamento: motivazione insufficiente, errori di notifica, decadenza dei termini;
- Richiedere autotutela se l’associazione rispettava già i requisiti normativi;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni contro la pretesa fiscale.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le contestazioni relative alla gestione dell’associazione;
📌 Verifica la corretta applicazione delle norme fiscali sugli enti no profit;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria e, se necessario, anche in sede penale;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione trasparente e conforme delle associazioni.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in fiscalità degli enti non commerciali e associazioni;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su distribuzione occulta di utili;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulla distribuzione occulta di utili nelle associazioni non sempre sono fondate: spesso derivano da interpretazioni restrittive o da semplici irregolarità formali.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la legittima gestione dell’associazione, mantenere i benefici fiscali ed evitare pesanti sanzioni.
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