Contestazioni Per Mancato Rispetto Del Test Di Operatività Delle Società Di Comodo: Come Difendersi

Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché la tua società non ha superato il test di operatività previsto per le società di comodo? In questi casi, l’Ufficio presume che la società non svolga un’effettiva attività economica, ma sia stata costituita o mantenuta al solo scopo di detenere beni o ridurre il carico fiscale. La conseguenza è l’applicazione del regime fiscale penalizzante previsto per le società non operative, con maggiori imposte, sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è corretta: vi sono strumenti difensivi che permettono di dimostrare la reale operatività della società.

Quando l’Agenzia delle Entrate contesta il mancato superamento del test di operatività
– Se i ricavi, i proventi e gli incrementi di rimanenze sono inferiori ai valori minimi determinati dal test
– Se la società detiene prevalentemente immobili, partecipazioni o altri beni patrimoniali senza un’attività produttiva adeguata
– Se i costi dedotti risultano sproporzionati rispetto ai ricavi conseguiti
– Se le dichiarazioni fiscali non riportano i dati necessari per dimostrare l’operatività
– Se l’Ufficio ritiene che la società sia stata creata solo per intestare beni a fini fiscali

Conseguenze della contestazione
– Applicazione dell’aliquota IRES maggiorata per le società di comodo
– Limitazioni alla compensazione di crediti IVA e altre agevolazioni fiscali
– Recupero delle imposte considerate non dovute
– Applicazione di sanzioni per infedele dichiarazione
– Interessi di mora sulle somme accertate

Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare che il mancato superamento del test dipende da situazioni oggettive (crisi di mercato, mancati incassi, eventi straordinari)
– Produrre documentazione contabile e contrattuale che provi l’effettiva attività della società
– Contestare l’automatismo della presunzione di non operatività se vi sono elementi concreti di gestione aziendale
– Evidenziare vizi di motivazione o errori di calcolo nell’accertamento dell’Agenzia
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per chiedere l’annullamento o la riduzione della pretesa fiscale

Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare il bilancio e le dichiarazioni fiscali contestate
– Verificare la legittimità della contestazione alla luce della normativa sulle società non operative
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi dell’accertamento
– Difendere la società davanti ai giudici tributari contro richieste indebite
– Tutelare il patrimonio aziendale e personale dei soci da effetti fiscali sproporzionati

Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione delle sanzioni e degli interessi
– Il riconoscimento della reale operatività della società
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge

⚠️ Attenzione: il ricorso contro la contestazione deve essere presentato entro 60 giorni dalla notifica. Se non si agisce tempestivamente, l’accertamento diventa definitivo.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e societario – spiega come difendersi in caso di contestazioni per mancato superamento del test di operatività delle società di comodo e come tutelare i tuoi diritti.

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Introduzione

Le società di comodo (o società non operative) sono entità utilizzate spesso come meri schermi patrimoniali, cioè costituite non per svolgere un’effettiva attività d’impresa ma per detenere beni (immobili, imbarcazioni, auto di lusso, partecipazioni finanziarie, ecc.) goduti sostanzialmente dai soci o da persone ad essi collegate . In tali casi la società, pur possedendo patrimoni anche importanti, non genera ricavi adeguati (spesso dichiara perdite o redditi irrisori) e consente così ai soci persone fisiche di occultare al fisco e ai creditori la disponibilità effettiva di quei beni . Per contrastare queste finalità elusive, l’ordinamento tributario italiano ha introdotto una disciplina ad hoc sin dal 1994 (art. 30 legge 724/1994) che prevede un “test di operatività” per individuare le società di comodo e una serie di penalizzazioni fiscali automatiche qualora la società non superi tale test .

Questa guida, aggiornata ad agosto 2025, esamina in dettaglio la normativa italiana vigente sulle società di comodo, le più recenti modifiche normative e pronunce giurisprudenziali (fino alla Corte di Cassazione 2024-2025), e fornisce consigli pratici dal punto di vista del contribuente (società o socio coinvolto) su come difendersi efficacemente dalle contestazioni dell’Agenzia delle Entrate per mancato rispetto del test di operatività. Il taglio è avanzato e pensato per professionisti legali, imprenditori e privati, con linguaggio giuridico ma di taglio divulgativo. Verranno affrontati i fondamenti normativi, i rimedi amministrativi “deflattivi” (come accertamento con adesione, autotutela, reclamo/mediazione), eventuali profili penali connessi e saranno inclusi esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione di Domande & Risposte frequenti.

Quadro normativo: definizione di società di comodo e finalità antielusive

In generale, si considera non operativa (di comodo) una società che non è destinata a svolgere effettivamente attività economiche o commerciali, ma unicamente a gestire un patrimonio mobiliare o immobiliare per conto dei soci . Tipicamente sono società (spesso di capitali) che investono in beni o partecipazioni senza conseguire ricavi commisurati al valore di tali attività. Il legislatore tributario, con finalità antielusive, ha introdotto una disciplina penalizzante per queste società, al fine di evitarne l’utilizzo a fini di evasione o elusione fiscale . La normativa di riferimento è contenuta nell’art. 30 della legge 23 dicembre 1994 n. 724, più volte modificato nel tempo.

Soggetti interessati: la disciplina originariamente si applica a tutte le società commerciali, incluse società di capitali (S.p.A., S.r.l., S.a.p.a.), società di persone (S.n.c., S.a.s.) e anche enti non residenti con stabile organizzazione in Italia . Sono escluse le società non operative di diritto come le società semplici (che per legge possono solo gestire beni propri e non esercitare attività commerciale): infatti le società semplici non rientrano tra i soggetti IRES e non sono sottoposte al test di operatività (una trasformazione in società semplice è spesso usata come “via d’uscita” per società di comodo immobiliari). Nel tempo sono state introdotte cause di esclusione automatica per determinate situazioni oggettive (es. società in liquidazione, fallimento o amministrazione straordinaria, società con beni concessi in locazione a enti pubblici, ecc.), che vedremo in dettaglio più avanti .

Il test di operatività: il meccanismo chiave è il cosiddetto test di operatività, da effettuarsi ogni anno in base ai dati di bilancio. In sostanza, si confronta l’ammontare dei ricavi effettivi dichiarati dalla società con un ammontare di ricavi “presunti” o figurativi che la società avrebbe dovuto conseguire, calcolato applicando percentuali forfetarie ai valori di alcune poste attive di bilancio (immobili, partecipazioni, altri asset) . Se i ricavi effettivi (al netto di componenti straordinari) risultano inferiori ai ricavi figurativi così determinati, la società non supera il test ed è quindi considerata non operativa ai sensi di legge . Si tratta di una presunzione legale relativa di “inoperatività”: la legge cioè presume che la società sia un guscio inattivo a fini elusivi, salvo prova contraria del contribuente. La formulazione normativa originaria (ante 2007) richiedeva che le cause che impedivano il conseguimento dei ricavi minimi avessero carattere “straordinario”, ma tale riferimento è stato eliminato a partire dal 2007 , ampliando quindi la possibilità di giustificare situazioni oggettive anche ordinarie ma documentabili.

Società in perdita sistematica: oltre al test annuale di operatività, dal 2011 il legislatore aveva introdotto un ulteriore criterio basato sulle perdite fiscali su più esercizi. L’art. 2, commi 36-decies e segg. del D.L. 138/2011 (conv. L. 148/2011) definiva “società in perdita sistematica” quei soggetti che dichiaravano perdite fiscali per cinque periodi d’imposta consecutivi, ovvero quattro perdite e un quinto anno con reddito inferiore al minimo di legge . Tali società erano equiparate alle società di comodo, subendo le medesime presunzioni e penalizzazioni . Questa disciplina però è stata abrogata di recente: l’art. 9 del D.L. 73/2022 (Decreto Semplificazioni fiscali, conv. L. 122/2022) ha eliminato dal 2022 le norme sulle società in perdita sistematica . Dunque, a partire dai periodi d’imposta 2022 e seguenti, la qualifica di società di comodo consegue solo al test di operatività annuale negativo, mentre non vi è più una presunzione automatica basata sulle perdite protratte (resta ovviamente possibile che perdite pluriennali conducano comunque a non superare i test annuali). Questa semplificazione normativa riduce gli automatismi punitivi e concentra l’attenzione sul test di operatività, ma come vedremo anche tale test è oggetto di una profonda revisione in corso di attuazione.

Il test di operatività: calcolo dei ricavi presunti e aggiornamenti normativi

Il test di operatività viene svolto confrontando i ricavi (e altri proventi ordinari) dichiarati dalla società con i ricavi minimi presunti determinati per legge. Il calcolo dei ricavi presunti avviene applicando specifici coefficienti matematici ad alcune voci dell’attivo patrimoniale . In particolare, l’art. 30 L. 724/1994 individua le seguenti categorie di beni e le relative percentuali (storicamente in vigore fino al 2023):

  • Partecipazioni e crediti finanziari: 2% del valore, annuo .
  • Immobili (fabbricati) a destinazione ordinaria: 6% .
  • Immobili uso ufficio (cat. A/10): 5% .
  • Immobili a uso abitativo acquisiti o rivalutati di recente (esercizio in corso e due precedenti): 4% (dal terzo esercizio successivo tornano al 6%) .
  • Immobili situati in comuni con meno di 1000 abitanti: 1% .
  • Altre immobilizzazioni (beni strumentali diversi dagli immobili): 15% .

Tavola 1: Coefficienti storici per il calcolo dei ricavi presunti (fino al 2023)

Queste percentuali si applicano al valore medio di ciascuna categoria di attivo (media del valore al termine dell’anno corrente e dei due precedenti) , ottenendo per ciascun gruppo di beni un ricavo figurativo; la somma di tali importi costituisce il ricavo minimo complessivo che la società dovrebbe aver conseguito. Se i ricavi dichiarati (esclusi componenti straordinari) risultano inferiori a questo ricavo minimo, la società è considerata di comodo . Si noti che il test considera anche incrementi di rimanenze e proventi ordinari assimilandoli ai ricavi ai fini del confronto .

Aggiornamento 2024: In attuazione della delega per la riforma fiscale (L. 111/2023), il legislatore ha avviato una revisione della disciplina delle società non operative. In attesa di una riforma organica, è già intervenuto sul quantum del test: il D.Lgs. 192/2024 ha ridotto della metà molte delle percentuali sopra indicate, con effetto dal periodo d’imposta 2024 . In particolare, dal 2024 i coefficienti per immobili e partecipazioni risultano dimezzati, rendendo più agevole il superamento del test . Ad esempio, per gli immobili ordinari si passa dal 6% al 3%, per le partecipazioni dal 2% all’1%. Fanno eccezione alcuni cespiti speciali: le navi rimangono soggette a coefficiente 6% (ricavi) e 4,75% (in sede di reddito minimo), mentre le altre immobilizzazioni materiali/immateriali restano ai livelli previgenti (15% per i ricavi presunti, 12% per il reddito minimo) . Questa misura transitoria mira a ridurre i casi di non operatività “di mero calcolo” in attesa di criteri più mirati. Inoltre, tra le cause di esclusione è stata aggiunta la situazione delle società che aderiscono a un concordato preventivo biennale, le quali godono ora dell’esclusione automatica dalla disciplina di comodo in forza del D.Lgs. 13/2024 .

È importante sottolineare che la revisione normativa è in divenire. La legge delega fiscale prevede di ridefinire i parametri identificativi delle società senza impresa, aggiornandoli periodicamente e considerando anche i princìpi affermati in sede europea (in materia IVA) . Tra le indicazioni della delega vi è quella di introdurre nuove cause di esclusione basate su elementi sostanziali, ad esempio l’impiego di un congruo numero di dipendenti o l’operatività in settori economici regolamentati , così da limitare l’applicazione della presunzione solo ai soggetti che effettivamente non svolgono alcuna reale attività commerciale. In prospettiva, quindi, il sistema dovrebbe diventare più selettivo nel distinguere le società schermo dalle imprese genuine con bassa redditività.

Nota: Il test di operatività non si applica al primo periodo d’imposta di vita della società. Già ora, per prassi, il test viene eseguito a partire dal secondo esercizio (poiché la media patrimoniale richiede dati dell’anno corrente e dei due precedenti: per una società neocostituita tali dati mancano). Inoltre, giurisprudenza recente ha chiarito che particolari periodi di inattività forzata, come l’anno di avvio o gli anni colpiti da lockdown pandemico, vanno valutati tenendo conto della non ordinarietà dell’attività svolta: ad esempio, l’Agenzia delle Entrate stessa ha riconosciuto la crisi da Covid-19 quale causa di non applicazione della disciplina di comodo, tramite interpello accolto in favore di una società immobiliare impossibilitata a locare i propri immobili durante la pandemia .

Conseguenze fiscali della qualifica di società non operativa

Se una società risulta non operativa (cioè non supera il test di operatività annuale), la normativa prevede una serie di effetti presuntivi e penalizzanti sul piano delle imposte dirette e indirette. Tali effetti scattano automaticamente “ipso iure” in base ai dati dichiarati, fermo restando il potere dell’Amministrazione di procedere ad accertamento nel caso il contribuente non si adegui. In sintesi, le principali conseguenze sono:

  • Determinazione di un reddito imponibile minimo ai fini delle imposte sui redditi (IRES o IRPEF) e IRAP: Indipendentemente dal risultato di esercizio effettivo, la società di comodo è tenuta a dichiarare un reddito imponibile minimo non inferiore a quello risultante dall’applicazione dei coefficienti patrimoniali . In pratica, il reddito minimo presunto si calcola applicando ulteriori percentuali (di norma leggermente più basse di quelle per i ricavi) al valore dei beni della società . Ad esempio, prima della riduzione del 2024, al valore degli immobili ordinari si applicava un coefficiente del 4,75% per determinare il reddito minimo (a fronte del 6% per i ricavi). Se il reddito effettivo dichiarato è inferiore a tale reddito minimo, l’imponibile viene comunque elevato d’ufficio a quest’ultimo valore . Questa è una seconda presunzione, connessa alla prima: fallito il test, si presume che la base imponibile non possa essere inferiore a un certo ammontare minimo correlato al patrimonio . Tale meccanismo incide anche sull’IRAP: viene infatti previsto un valore della produzione netta minimo su cui applicare l’aliquota IRAP, calcolato con criteri analoghi (percentuali sul valore dei beni) .
  • Maggiorazione dell’aliquota IRES per le società di capitali di comodo: Oltre a dover dichiarare un reddito minimo, le società di capitali “non operative” subiscono un’aliquota IRES aumentata di 10,5 punti percentuali sul reddito imponibile minimo. Questa misura, introdotta dall’art. 2, comma 36-quinquies del D.L. 138/2011, porta l’IRES dovuta dal 24% ordinario al 34,5% complessivo (24% + 10,5%) . In altre parole, sul reddito “di comodo” la società paga un’imposta aggiuntiva del 10,5%. Ad esempio, se una S.r.l. risulta non operativa e il reddito minimo presunto è 100.000 €, dovrà versare 34.500 € di IRES (invece che 24.000 €). La logica è chiaramente punitiva: disincentivare il mantenimento di strutture societarie improduttive aumentando il carico fiscale minimo. Nota: Questa maggiorazione riguarda solo i soggetti IRES (società di capitali). Per le società di persone trasparenti, il reddito minimo presunto viene imputato ai soci e tassato in capo a questi (se i soci sono persone fisiche, confluisce nell’IRPEF ordinaria). In caso di soci a loro volta soggetti IRES (es. una holding che possiede una quota di società di persone non operativa), la normativa prevede meccanismi per applicare comunque la maggiorazione del 10,5% sulla quota di reddito imputata . Dunque, il prelievo addizionale colpisce in ogni caso il “reddito di comodo” societario, evitando che esso sfugga al livello societario.
  • Limiti all’utilizzo delle perdite fiscali pregresse: se la società ha riportato perdite fiscali da anni precedenti, la disciplina ne limita l’utilizzo. In particolare, le perdite pregresse possono essere usate in diminuzione del reddito d’esercizio solo per la parte eccedente il reddito minimo presunto . Ciò significa che la società non può azzerare il reddito imponibile minimo usando perdite del passato: deve comunque dichiarare almeno il reddito minimo e pagarci le imposte, mentre le perdite potranno abbattere solo l’eventuale quota di reddito oltre tale soglia (ovviamente sempre nei limiti generali di utilizzo delle perdite, es. 80% dell’ammontare eccedente, secondo le regole ordinarie). In pratica, se una società avrebbe una perdita fiscale corrente ma risulta di comodo, viene forzata a dichiarare un reddito imponibile minimo; eventuali perdite pregresse rimangono congelate salvo importi eccedentari . Questa regola impedisce di “sterilizzare” gli effetti della normativa compensando il reddito presunto con perdite pregresse.
  • Blocco dei rimborsi e utilizzi del credito IVA: una delle sanzioni più incisive previste dall’art. 30 L. 724/94 (comma 4) riguarda l’IVA. Se una società è non operativa e presenta un credito IVA a suo favore, non può chiederne il rimborso né utilizzarlo in compensazione orizzontale o verticale, né cederlo a terzi . In sostanza, il credito IVA maturato in un anno in cui la società è di comodo viene congelato e perso definitivamente se non emergono poi annualità operative. Questa norma, pensata per evitare che società senza operatività accumulino crediti IVA (ad esempio per acquisti di beni strumentali usati privatamente dai soci) e li monetizzino, è stata però dichiarata in contrasto col diritto UE nelle recenti pronunce che vedremo (principio di neutralità IVA). Aggiornamento: Nel 2024 la Corte di Giustizia UE e la Cassazione hanno stabilito che negare a priori la detrazione o il rimborso IVA in base al solo mancato superamento del test di operatività viola la normativa unionale, salvo casi di frode (si veda oltre il par. dedicato) . Pertanto, questa disposizione interna dev’essere disapplicata: in assenza di elementi di evasione, il diritto al credito IVA resta acquisito anche se la società è di comodo. In futuro ci si attende un adeguamento formale della legge nazionale, ma intanto i contribuenti possono già far valere direttamente la prevalenza del diritto UE in sede di contenzioso.
  • Altre restrizioni: finché permane lo status di non operatività, la società non può accedere ad alcuni regimi opzionali o agevolazioni fiscali (ad es. l’esonero dagli ISA – indici sintetici di affidabilità – non si applica alle società di comodo, che anzi subiscono punteggi penalizzanti). Inoltre, l’amministrazione finanziaria può considerare con sospetto eventuali operazioni infragruppo o trasferimenti da/per una società di comodo, aumentando il rischio di verifiche. Non vi sono invece, nell’attuale ordinamento civile, sanzioni societarie specifiche: la presenza di una società inattiva non costituisce di per sé illecito civile e non esiste (a differenza di altri paesi) uno strumento per chiederne lo scioglimento coatto . Pertanto l’intervento resta in ambito fiscale.

Riassumendo le penalizzazioni: una società non operativa dovrà dichiarare ogni anno un reddito minimo tassato almeno al 34,5% (se società di capitali) o imputato per trasparenza (se società di persone), non potrà utilizzare liberamente crediti IVA né ridurre quell’imponibile con perdite pregresse se non oltre la soglia minima, e così via . Di fronte a queste conseguenze gravose, è fondamentale per il contribuente sapere come difendersi e come eventualmente evitare l’applicazione ingiustificata di tale disciplina, dimostrando che la propria società non è un guscio elusivo ma ha valide ragioni sostanziali per i risultati economici modesti.

Esimenti e cause di esclusione: quando la disciplina di comodo non si applica

La legge stessa, pur predisponendo una presunzione severa, prevede fin dall’origine che il contribuente possa sottrarsi alla disciplina delle società di comodo in presenza di certe condizioni. Si distinguono due categorie di esimenti:

1. Cause di esclusione automatica previste dalla normativa: Sono situazioni oggettive tipizzate dal legislatore o dall’amministrazione finanziaria, il cui verificarsi esclude direttamente l’applicazione delle regole sulle società non operative, senza necessità di richiesta preventiva da parte del contribuente. Alcune di queste cause di esclusione sono inserite direttamente in legge, altre sono state individuate tramite provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate (ai sensi del comma 4-ter dell’art. 30 L. 724/94) . Le principali ipotesi di esclusione automatica attualmente vigenti sono:

  • Società in stato di liquidazione volontaria (che chiude l’attività): l’Agenzia riconosce che durante la liquidazione può essere fisiologico non produrre ricavi. (Attenzione: questa esclusione vale se la liquidazione non si protrae oltre un triennio; liquidazioni ultradecennali potrebbero essere viste come strumentali, come notato dalla Cassazione ).*
  • Procedure concorsuali: società dichiarate fallite, in concordato preventivo, amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa .
  • Società sottoposte a sequestro o confisca penale, o con amministrazione giudiziaria disposta da tribunale civile in casi analoghi .
  • Società immobiliari con immobili concessi in locazione a enti pubblici o con canone vincolato per legge (es. edilizia a canone concordato): qui i ricavi limitati dipendono da vincoli normativi, quindi la società non è considerata di comodo .
  • Holding che detengono partecipazioni in società operative: se una società possiede quote di altre società che non sono a loro volta di comodo (o che sono state esentate), allora per la parte di attivo costituita da tali partecipazioni non si applica il test . Ciò evita di penalizzare holding pure il cui “reddito” dipende dai dividendi delle partecipate (si considerano operative per trasparenza se le partecipate lo sono).
  • Esclusioni transitorie pregresse: società che in passato hanno già ottenuto la disapplicazione della disciplina di comodo tramite interpello, in base a circostanze oggettive che permangono tuttora, continuano a essere escluse automaticamente negli anni successivi se nulla è cambiato .
  • Altre fattispecie normativamente escluse: ad esempio, la legge finanziaria 2008 escluse automaticamente il periodo d’imposta 2007 per alcune ipotesi particolari (introducendo cause aggiuntive poi rese stabili da provvedimenti attuativi) . Anche di recente, come accennato, si è aggiunta l’esclusione per le società aderenti al concordato preventivo biennale (dal 2024).

Le cause automatiche sopra elencate, se applicabili, devono essere indicate dal contribuente in dichiarazione (esistono appositi codici nel prospetto delle società non operative del modello Redditi). L’Agenzia normalmente effettua controlli formali su queste autodichiarazioni. È importante notare che tali cause non sono suscettibili di interpretazione estensiva o analogica al di fuori dei casi espressamente previsti . Ad esempio, la Cassazione ha escluso che un pignoramento immobiliare a fini civili possa essere equiparato a un sequestro penale per invocare l’esclusione automatica – sebbene il pignoramento di fatto impedisca alla società di disporre dell’immobile – in quanto non previsto dal decreto ministeriale sulle esclusioni . In casi simili, però, resta percorribile la via della prova contraria in sede di contenzioso (vedi oltre).

2. Interpello per la disapplicazione (interpello probatorio): Oltre alle esclusioni automatiche, la legge prevede che in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi minimi o del reddito minimo, la società possa richiedere la disapplicazione della disciplina di comodo presentando un’istanza di interpello all’Agenzia delle Entrate (ex art. 30, comma 4-bis, L. 724/94) . Questo strumento (detto anche interpello disapplicativo) consente al contribuente di spiegare preventivamente all’Amministrazione le ragioni per cui ritiene di non dover essere considerato non operativo, chiedendo un parere vincolante. L’Agenzia, entro 90 giorni (termine ordinario, eventualmente prorogabile), risponde comunicando se ritiene applicabile o meno la disciplina antielusiva.

Le “oggettive situazioni” addotte devono essere circostanziate e documentate: ad esempio, possono consistere in condizioni di mercato avverse, eventi eccezionali (calamità naturali, pandemie, crisi settoriali), vicende amministrative (ritardi nel rilascio di permessi edilizi, contenziosi che bloccano l’uso di un bene), caratteristiche intrinseche dell’attività (ad es. un’impresa in start-up che fisiologicamente impiega anni per produrre utili), ecc. Originariamente la norma parlava di cause straordinarie, come detto, ma oggi qualunque situazione oggettivamente verificabile che spieghi la carenza di redditività può essere portata all’attenzione . È fondamentale che tali cause non appaiano mere scelte discrezionali dell’imprenditore ma risultino, almeno in parte, indipendenti dalla sua volontà (o comunque attestino la genuinità e non fittizietà dell’attività svolta) . Un esempio positivo dalla giurisprudenza: i ritardi burocratici nell’ottenere permessi di costruzione e nell’avvio di cantieri sono stati ritenuti una situazione oggettiva sufficiente a giustificare l’assenza di ricavi per una società immobiliare, in quanto eventi straordinari e non imputabili alla società . Viceversa, uno stato di liquidazione perenne autogestito può non bastare come giustificazione se il lungo protrarsi è dipeso da scelte della società (Cass. 13336/2023 ha negato che dieci anni di liquidazione possano di per sé escludere la presunzione, in assenza di altre circostanze) .

Procedura e valore dell’interpello: L’istanza va presentata prima della dichiarazione dei redditi relativa all’anno per cui si chiede la disapplicazione (tipicamente entro la scadenza della dichiarazione). Se l’Agenzia risponde positivamente (accogliendo l’interpello), la società potrà compilare il prospetto di esclusione e non applicare le regole di comodo per quell’anno. Se invece l’Agenzia nega la disapplicazione, la società dovrà (in teoria) adeguarsi in dichiarazione oppure, se mantiene la posizione di non considerarsi di comodo, si espone ad un avviso di accertamento. Importante: in passato si discuteva se il diniego dell’interpello fosse impugnabile in Commissione Tributaria; la Cassazione ha chiarito che il contribuente può impugnare direttamente il diniego dell’ufficio in quanto atto lesivo, pur non rientrando negli atti tipici elencati dall’art.19 D.Lgs.546/92 . Ciò evita che il contribuente debba attendere per forza l’emissione di un avviso di accertamento; può portare subito il caso al vaglio del giudice tributario.

Interpello non obbligatorio: È fondamentale sapere che la presentazione dell’interpello non costituisce una condizione obbligatoria per far valere la propria esenzione. Il contribuente, infatti, può anche scegliere di non presentare interpello e difendere le proprie ragioni direttamente in sede contenziosa dopo un eventuale accertamento . L’assenza di interpello non preclude in alcun modo la possibilità di fornire in giudizio la prova contraria circa la non operatività . La Cassazione ha espressamente affermato che l’interpello non è condizione di procedibilità né fa perdere al contribuente la facoltà di vincere la presunzione legale con ogni mezzo di prova . In altre parole, l’istituto serve a ottenere ex ante una tutela, ma non vincola la strategia ex post. Pertanto, mancata presentazione o rigetto dell’interpello non segnano la fine della partita: si può sempre impugnare l’atto impositivo e far valere davanti al giudice tributario le proprie giustificazioni.

Importante distinzione (interpello probatorio 2024): Dal 2024, la riforma della giustizia tributaria (D.Lgs. 156/2015 e D.Lgs. 175/2014, integrati dalla delega 2023) ha introdotto il cosiddetto interpello probatorio, meccanismo che in generale riserva la possibilità di interpello per questioni di prova solo ai contribuenti in regime di adempimento collaborativo. Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che per la disapplicazione della disciplina di comodo continua ad applicarsi la procedura ordinaria di interpello disapplicativo per tutti, essendo espressamente prevista da una norma antielusiva speciale. Le istruzioni ai modelli Redditi 2025 confermano infatti che, data l’inapplicabilità dell’interpello probatorio alle società di comodo (che per definizione non possono accedere all’adempimento collaborativo), la disapplicazione per cause oggettive avviene esclusivamente tramite interpello ordinario o in via autonoma in contenzioso .

Ricapitolando: prima di subire un accertamento, la società che prevede di non superare il test ha due vie per evitare le sanzioni automatiche: verificare se ricade in una causa di esclusione automatica (e in caso affermativo indicarlo in dichiarazione), oppure presentare un interpello motivato chiedendo la disapplicazione della disciplina per quell’anno. Se queste vie non vengono percorse o non hanno esito favorevole, resta comunque la possibilità di difendersi dopo, come vedremo, mediante gli strumenti del contenzioso tributario. Nel prossimo paragrafo affrontiamo proprio la fase delle contestazioni e i modi di difesa.

La contestazione dell’Agenzia delle Entrate e gli strumenti deflattivi del contenzioso

Quando una società non supera il test di operatività e non ha ottenuto (o richiesto) l’esclusione/disapplicazione, l’Agenzia delle Entrate procede in genere a contestare formalmente la posizione fiscale. Vediamo come avviene la contestazione e quali strumenti si hanno prima e dopo l’instaurarsi del contenzioso.

Dichiarazione dei redditi e controlli automatizzati: Le società di capitali e di persone sono tenute a compilare in dichiarazione un apposito prospetto di verifica dell’operatività. Se dal prospetto risulta il mancato superamento del test e non è indicata alcuna causa di esclusione o esenzione, la società dovrebbe dichiarare spontaneamente il reddito minimo presunto (adeguando il proprio reddito imponibile a quanto richiesto). In molti casi però il contribuente contesta l’applicazione della norma e dichiara il reddito effettivo (inferiore al minimo). In tali circostanze, l’Agenzia può emettere un avviso di accertamento per adeguare d’ufficio il reddito al minimo di legge e irrogare le relative sanzioni per infedele dichiarazione. Spesso, prima dell’accertamento formale, scatta un controllo automatizzato (36-bis): se la dichiarazione presentata evidenzia chiaramente ricavi inferiori al minimo e nessuna esclusione, il sistema dell’Agenzia segnala l’anomalia. In alcuni casi l’ufficio invia una comunicazione di compliance o una richiesta di chiarimenti al contribuente, offrendo la possibilità di correggere spontaneamente la dichiarazione (ravvedimento operoso) ed evitare il contenzioso. Se non vi è riscontro, si passa all’atto impositivo.

Avviso di accertamento “da società di comodo”: È l’atto formale con cui l’Agenzia rettifica la dichiarazione del contribuente. Tipicamente contiene: la rideterminazione del reddito imponibile (riportandolo al livello minimo presunto per IRES e IRAP), il ricalcolo delle imposte dovute (incluse l’eventuale maggiorazione IRES 10,5%), la liquidazione di sanzioni per dichiarazione infedele e interessi. La sanzione ordinaria per infedele dichiarazione (art. 1 D.Lgs. 471/97) è dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta; nei casi di società di comodo di solito l’ufficio applica il minimo edittale (90%) ridotto ad 1/3 in caso di adesione, come vedremo, oppure ulteriormente ridotto se la violazione è anteriore e rientrava in definizioni agevolate. A volte l’avviso è preceduto da un invito al contraddittorio (soprattutto se si tratta di accertamento analitico-induttivo): trattandosi però di un accertamento fondato su parametri di legge, spesso l’ufficio notifica direttamente l’atto impositivo.

A questo punto, il contribuente (società) ha davanti a sé alcune opzioni cosiddette strumenti deflattivi del contenzioso, volte a evitare o limitare il ricorso in Commissione Tributaria:

  • Istanza di accertamento con adesione: è uno dei principali strumenti per cercare un accordo con l’ufficio dopo aver ricevuto l’avviso di accertamento. Consiste nel presentare, entro il termine per impugnare (normalmente 60 giorni dalla notifica dell’avviso), un’istanza all’ufficio che ha emanato l’accertamento, con cui si chiede di avviare una procedura di adesione. La presentazione dell’istanza sospende automaticamente i termini per fare ricorso per 90 giorni . Segue un incontro (o più di uno) con i funzionari, in cui il contribuente può esporre le proprie ragioni e produrre documenti. Nel caso di contestazioni da “società di comodo”, questo è un momento cruciale per far valere le proprie giustificazioni: ad esempio, si possono portare prove delle cause oggettive che hanno impedito di ottenere ricavi, oppure evidenziare eventuali errori di calcolo dell’ufficio (non di rado, ad esempio, vi possono essere contestazioni sulla corretta determinazione dei valori patrimoniali medi, o sull’applicazione di nuove cause di esclusione). Se l’ufficio, alla luce delle spiegazioni, riconosce che la presunzione di non operatività non è fondata in concreto, può anche decidere di annullare o archiviare l’atto in autotutela. Più spesso, però, si giunge a un compromesso: l’ufficio potrebbe proporre una riduzione parziale della pretesa (ad esempio, accettando alcuni elementi di prova e quindi abbattendo il reddito presunto) oppure concordare la sola riduzione delle sanzioni. Se si trova un accordo, viene redatto un atto di adesione con la nuova quantificazione dell’imponibile e delle imposte. I benefici per il contribuente sono notevoli: le sanzioni amministrative vengono ridotte a 1/3 del minimo edittale previsto (quindi dal 90% si scende al 30% circa) e si chiude la pendenza senza ricorrere in giudizio. Inoltre, l’adesione perfezionata e pagata prima dell’eventuale dibattimento penale costituisce una circostanza attenuante in sede penale, con possibile riduzione fino a 1/3 delle pene e non applicazione di pene accessorie (utile nel caso in cui vi fossero profili penali, ad esempio un’indagine per reati tributari connessi).
  • Autotutela: è il potere/dovere della Pubblica Amministrazione di correggere spontaneamente i propri atti illegittimi o infondati. Il contribuente può sempre presentare una istanza di autotutela all’ente impositore esponendo gli errori (di diritto o di fatto) contenuti nell’accertamento e chiedendone l’annullamento totale o parziale. Nel caso delle società di comodo, l’autotutela può essere efficace quando si riesce a dimostrare oggettivamente che la pretesa è errata: ad esempio, se l’ufficio non ha considerato che la società rientrava in una causa di esclusione automatica (magari non evidenziata in dichiarazione per dimenticanza) o ha calcolato male i ricavi figurativi. In situazioni meno evidenti, è difficile che l’Agenzia annulli l’accertamento in autotutela, soprattutto dopo aver eventualmente già negato l’interpello: di solito preferisce lasciare che sia la Commissione Tributaria a giudicare. Tuttavia, tentare la via dell’autotutela, anche parallelamente all’adesione, può essere utile per mettere formalmente in evidenza le proprie ragioni. L’istanza di autotutela non sospende i termini di ricorso, e il diniego (espresso o tacito) non è impugnabile autonomamente; ma se l’ufficio accoglie l’istanza, l’accertamento viene annullato senza ulteriori oneri.
  • Reclamo e mediazione: fino al 2023, per le controversie di valore non superiore a €50.000 era obbligatorio proporre un reclamo (ricorso amministrativo) all’ufficio prima di poter adire la Commissione Tributaria, avviando una mediazione tributaria (art. 17-bis D.Lgs. 546/92). Dal 4 gennaio 2024 questo istituto è stato abolito come fase obbligatoria dal D.Lgs. 220/2023, attuativo della riforma fiscale . Ciò significa che, per gli accertamenti notificati dal 2024 in poi, anche sotto la soglia dei 50 mila euro il contribuente può rivolgersi direttamente al giudice senza passare dal reclamo. Tuttavia, resta possibile (ed auspicabile) tentare comunque una soluzione bonaria: la mediazione tributaria può ancora essere esperita su base volontaria entro i termini di ricorso . In pratica, il contribuente può allegare al ricorso introduttivo un’istanza di mediazione all’ente impositore, che se accolta comporta la conclusione dell’accordo con riduzione delle sanzioni al 35% (era questa la percentuale prevista dalla normativa previgente in caso di mediazione con esito positivo). La differenza rispetto a prima è che il mancato accordo non preclude né ritarda più l’accesso al giudice, essendo il reclamo non obbligatorio. In tema di società di comodo, data la natura tecnica della questione, la mediazione potrà andare a buon fine se l’ufficio riconosce la forza delle prove del contribuente, altrimenti si procederà col processo.
  • Acquiescenza: se il contribuente ritiene di non avere margini di difesa (ad esempio perché effettivamente la società è stata usata come schermo e non ci sono valide giustificazioni), può valutare l’acquiescenza all’accertamento, ossia il pagamento di quanto richiesto entro 60 giorni, beneficiando in tal caso di una riduzione delle sanzioni ad 1/3 (analoga all’adesione) . Questa scelta chiude immediatamente la questione, ma è sconsigliabile ove vi siano motivi difensivi sostenibili, in quanto preclude qualsiasi successiva contestazione.

Se gli strumenti deflattivi non risolvono la controversia, resta la strada del ricorso giudiziale presso la Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria) provinciale competente. Nella fase processuale sono disponibili ulteriori possibilità di definizione agevolata, ad esempio la conciliazione giudiziale (accordo in corso di causa): il contribuente e l’ufficio possono trovare un compromesso davanti al giudice, con ulteriore riduzione delle sanzioni (generalmente al 50% del minimo in primo grado, o al 40% se conciliazione raggiunta prima dell’udienza). Anche la conciliazione, come l’adesione, sospende le eventuali liti pendenti e chiude la vicenda in via transattiva.

In sintesi, di fronte a una contestazione per società di comodo, conviene: 1) utilizzare l’accertamento con adesione per esporre subito le proprie ragioni e vedere se l’ufficio è disposto a rivedere la propria posizione (ottenendo comunque la forte riduzione sanzionatoria); 2) in mancanza di accordo, proporre ricorso evidenziando ogni elemento probatorio a supporto; 3) valutare eventualmente una conciliazione se l’ufficio mostra apertura, oppure lasciare che il giudice decida sul merito.

Strategie difensive e onere della prova: come vincere la presunzione di non operatività

Arriviamo al cuore della difesa dal punto di vista del contribuente: come dimostrare che la società, pur non avendo superato il test matematico, non è un mero guscio “di comodo” e quindi non merita la tassazione punitiva. La legge parla chiaro: la presunzione di non operatività è relativa, ciò significa che può essere superata dal contribuente mediante prova contraria . Analizziamo cosa si intende per prova contraria in questo contesto, qual è l’orientamento della giurisprudenza e quali strategie pratiche adottare.

Cosa deve provare il contribuente? In generale, la finalità della disciplina è colpire le società che non svolgono alcuna effettiva attività commerciale e servono solo a detenere beni o a conseguire vantaggi fiscali. Quindi il contribuente, per vincere la presunzione, deve provare in positivo che la propria società ha svolto un’attività economica reale e genuina, oppure in negativo che vi erano cause oggettive che le hanno impedito di raggiungere i ricavi attesi. La Cassazione spesso formula questo concetto in due alternative equivalenti: il contribuente può dimostrare o l’“erroneità dell’esito quantitativo del test” (cioè che è fuorviante concludere l’inoperatività basandosi sul test) oppure la “sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva e reale” (quindi l’inesistenza in fatto della situazione di inattività presunta) . In altre parole, se riesce a provare che la società era operativa nonostante il basso reddito, o che comunque il basso reddito è dipeso da fattori oggettivi indipendenti dalla sua volontà, la presunzione viene meno .

Onere probatorio e obiettività: L’onere della prova è a carico del contribuente (trattandosi di presunzione relativa), ma la prova richiesta non è “diabolica”. Non si chiede di provare l’impossibile, bensì di fornire elementi concreti da cui risulti che la mancanza di redditività non era dovuta a un comportamento elusivo ma a circostanze verificabili . La giurisprudenza sottolinea spesso che le situazioni da portare a sostegno devono avere carattere di oggettività, ossia deve potersi riscontrare in modo fattuale la non fittizietà di quanto dichiarato . Significativamente, la Cassazione ha chiarito che “oggettivo” non significa necessariamente “esterno” o “straordinario”: anche scelte imprenditoriali interne possono essere considerate oggettive se supportate da evidenze concrete e se dimostrano la genuinità dell’attività . Ad esempio, se un imprenditore decide liberamente di non affittare un immobile per poterlo ristrutturare e vendere a un prezzo maggiore, questa è una sua scelta (non un impedimento esterno), ma è oggettivamente documentabile e inserita in un progetto di lucro futuro – potrebbe dunque costituire prova contraria perché dimostra che la società non era inattiva bensì operava per un fine economico (sebbene il ricavo non si sia realizzato nell’anno in questione). Ciò che conta è che il contribuente sia “in grado di dimostrare oggettivamente la non fittizietà di quanto dichiarato” .

Esempi tratti dalla giurisprudenza:

  • Caso 1: Società immobiliare bloccata da iter autorizzativi (Cass. ord. 35816/2023). Una S.r.l. edile non aveva prodotto ricavi per alcuni anni perché l’inizio dei lavori di costruzione era slittato a causa di ritardi nel rilascio di permessi a costruire e nella formalizzazione di contratti d’appalto con il Comune. La Cassazione ha ritenuto queste “ragioni burocratiche” fattori oggettivi, straordinari e indipendenti dalla volontà del contribuente, idonei a giustificare il mancato avvio dell’attività e quindi a escludere la disciplina di comodo . In questo caso la società aveva addirittura presentato interpello disapplicativo (poi negato per motivi formali), ma ha vinto la causa facendo valere tali circostanze: l’attività imprenditoriale c’era, ma era solo ritardata da eventi esterni .
  • Caso 2: Società in liquidazione prolungata (Cass. ord. 13336/2023). Una società in lunga liquidazione aveva fallito il test e sostenuto che lo stato di liquidazione stesso fosse prova sufficiente della non operatività (perché in liquidazione non si fanno nuove operazioni). I giudici di merito avevano dato ragione alla società, ma la Cassazione ha ribaltato la decisione affermando che lo stato di liquidazione, se volontariamente protratto per quasi dieci anni, non basta da solo a vincere la presunzione . Occorreva valutare i “profili intrinseci” della fattispecie: in pratica, quella lunghissima liquidazione era anche frutto di scelte della società (incapace di definire i rapporti pendenti per un decennio) e quindi non una causa del tutto indipendente . Questo non significa che la liquidazione non conti nulla – è riconosciuta come causa di esclusione automatica entro certi limiti – ma evidenzia che la volontarietà o meno delle circostanze incide sul giudizio. Lezioni pratiche: se la società è in liquidazione da troppo tempo senza motivo, conviene spiegare perché (es. contenziosi lunghi, difficoltà a vendere gli asset) per far emergere elementi oggettivi, altrimenti si rischia che venga vista come scelta elusiva.
  • Caso 3: Società con compagine familiare che detiene un immobile a uso personale. Qui non c’è una specifica sentenza, ma è un caso tipico: una S.r.l. posseduta da membri di una famiglia detiene una villa di pregio utilizzata dai soci come casa vacanze, e non la affitta a terzi (zero ricavi, molti costi). È evidente che questa è la classica società di comodo. Quale prova contraria potrebbe mai fornire? Difficilmente una valida: l’utilizzo personale del bene sociale è precisamente ciò che la norma vuole colpire . Anzi, in tali ipotesi l’Agenzia spesso non si limita al regime di comodo: può contestare un beneficio extra-societario in capo ai soci, ad esempio imputando un dividendo in natura o un fringe benefit pari al valore locativo dell’immobile. Il socio persona fisica potrebbe vedersi accertare un reddito diverso (utilizzo di bene sociale) e la società vedersi indietro nel test di operatività. Lezioni pratiche: in situazioni del genere, la difesa è estremamente ardua perché la società sta realizzando esattamente lo scenario di elusione. È preferibile, se possibile, rimuovere la causa (ad esempio stipulando un contratto di locazione dell’immobile al socio a valore di mercato, in modo da generare ricavi congrui e neutralizzare l’accusa di uso personale).

Mezzi di prova: Quali documenti o elementi è opportuno presentare per corroborare la difesa? Dipende dalla motivazione addotta, ma in generale: – Documentazione di terzi o ufficiale: es. copie di istanze e provvedimenti amministrativi (permessi, autorizzazioni) che mostrano date e ritardi; corrispondenza con enti o controparti che attesti cause di forza maggiore; per le crisi di mercato, report economici o perizie che evidenzino l’andamento del settore in quel periodo. – Prove delle iniziative imprenditoriali intraprese: es. se si sostiene che la società era operativa ma non ha concluso affari, utile produrre contratti preliminari, lettere di intenti, preventivi, inserzioni pubblicitarie, piani industriali, corrispondenza commerciale – tutto ciò che faccia vedere che l’impresa ha cercato di operare attivamente (senza successo per ragioni oggettive). – Bilanci e contabilità: evidenziare le voci che possano dare sostanza all’attività: ad esempio, la presenza di costi significativi per personale, per produzione o per ricerca di clienti può essere indice di un’attività reale (è diverso vedere una società che ha zero dipendenti e spese solo per l’auto di lusso del socio, rispetto a una società con dipendenti e costi di struttura). Certo, la semplice esistenza di costi non garantisce l’operatività, ma aiuta a dipingere un quadro. – Eventi eccezionali: se la giustificazione è un evento esterno (es. pandemia, calamità, guerra nel paese di un cliente), raccogliere articoli di stampa, documenti ufficiali (es. dichiarazioni di stato d’emergenza) e legarli al caso concreto (es. la sede aziendale è rimasta inagibile per terremoto, etc.). – Prove testimoniali: nel processo tributario non è ammessa la testimonianza orale, ma si possono produrre dichiarazioni rese a verbale (es. durante accessi della Guardia di Finanza) o dichiarazioni sostitutive di atto notorio di terzi, per esempio del mediatore immobiliare che attesta di aver provato invano a locare l’immobile, o dei dipendenti che confermano certi fatti. Non hanno lo stesso valore della prova testimoniale piena, ma possono corroborare il quadro.

Limiti della prova contraria: Va tenuto presente che i giudici valuteranno la prova sotto un duplice aspetto: 1. Efficacia causale oggettiva: bisogna convincere che date quelle circostanze era davvero impossibile o altamente improbabile ottenere i ricavi presunti. Ad esempio, se si invoca una crisi di mercato, occorre mostrare che il mercato di riferimento ha visto un calo tale da rendere irrealistico raggiungere quel volume d’affari . La Cassazione ha affermato che la prova contraria va intesa in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato . Ciò significa che non serve dimostrare una impossibilità assoluta metafisica, ma piuttosto una ragionevole giustificazione economica del divario tra ricavo presunto e ricavo effettivo (ad esempio: “il test presumeva che quell’immobile rendesse 60.000 € l’anno, ma dati gli affitti di mercato in quella zona e le condizioni dell’immobile, era già tanto poter chiedere 30.000€” – questa è una giustificazione concreta). 2. Assenza di volontà elusiva: pur non richiesta esplicitamente dalla norma, è ciò che sottende la valutazione dei giudici. Se anche riconoscono la circostanza addotta, tenderanno a chiedersi: “la società ha fatto tutto il possibile per evitare di essere inattiva, oppure ha concorso a creare la situazione?”. Se c’è un sospetto che la società sia rimasta inoperativa per scelta strategica (magari per usare quel periodo per usufruire di un vantaggio fiscale), la prova potrebbe non essere accolta. Esempio: se una società ha deliberatamente tenuto sfitti degli immobili di pregio aspettando la rivalutazione, la sua è una scelta imprenditoriale legittima ma che mira anche a non avere ricavi nel frattempo – un giudice potrebbe considerarla non meritevole di tutela, a differenza del caso in cui quegli immobili fossero sfitti perché crollati dopo un terremoto.

Orientamenti giurisprudenziali ricorrenti: Negli ultimi anni la Corte di Cassazione ha emesso numerose sentenze in materia, delineando alcuni principi chiave utili per impostare la difesa. Riassumiamo i punti principali emersi:

  • Prova della “effettiva operatività” della società: È una linea difensiva vincente provare che, al di là del risultato economico, la società era effettivamente attiva con progetti volti al profitto e dotata di un’organizzazione di mezzi idonea a perseguirli . Cass. 16472/2022 ha proprio sottolineato che la prova contraria può consistere nel dimostrare “la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva di lucro oggettivo e dalla continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società” . Ciò è coerente con la clausola “salvo prova contraria” già contenuta nella legge . In pratica: documentare che l’impresa ha perseguito realmente uno scopo di lucro (anche se non raggiunto immediatamente) e ha operato continuativamente (anche in perdita) può ribaltare la presunzione di inattività fittizia.
  • Distinzione tra causa esterna e interna: In passato vi è stata incertezza se fossero valide solo cause “esterne” (forza maggiore) o anche motivi interni. Oggi è pacifico che conta l’oggettività, non la provenienza della causa . Come detto, non si esclude la rilevanza di decisioni imprenditoriali del contribuente, purché queste non siano finalizzate unicamente all’aggiramento del fisco ma abbiano una logica economica genuina. Ad esempio, tenere un immobile inutilizzato per speculare sul prezzo futuro è una decisione interna: se però si riesce a dimostrare che era una scelta imprenditoriale sensata nel contesto (es. mercato immobiliare in ripresa), potrebbe essere accolta come giustificazione. Diversamente, tenere un immobile vuoto per farci vivere gratis il socio non sarà mai considerata giustificazione valida.
  • Ambito IVA e pronunce europee: Una novità di grande rilievo è l’impatto delle pronunce della Corte di Giustizia UE sul regime IVA delle società di comodo. La CGUE, nel caso Feudi di San Gregorio (C-341/22, sentenza 7 marzo 2024), ha dichiarato incompatibile col diritto UE la normativa italiana laddove nega il diritto a detrazione/rimborso IVA per il solo fatto che la società non ha effettuato operazioni attive per tre anni secondo i parametri del test . La Cassazione si è prontamente adeguata: con due sentenze gemelle (nn. 24416 e 24442 dell’11 settembre 2024) ha sancito la disapplicazione delle norme interne in materia IVA, affermando che il principio di neutralità dell’IVA impedisce di penalizzare un soggetto passivo solo perché ha volume d’affari basso, a meno che non vi siano indizi di frode o abuso . In concreto, la Cassazione ha annullato il diniego di rimborso IVA operato dall’Agenzia a due società qualificate di comodo, sottolineando che nessuna disposizione della direttiva IVA prevede tale penalizzazione e che il diritto alla detrazione spetta anche in assenza di operazioni attive nel periodo, salvo frode . Questi principi sono ora definitivi: la Cassazione (sent. nn. 4151 e 4157 del 18/2/2025) ha chiuso i giudizi domestici dando ragione ai contribuenti coerentemente col dictum europeo . Implicazione pratica: nella difesa, se l’ufficio dovesse ancora opporre la perdita del credito IVA per non operatività, il contribuente ha facoltà di eccepire la disapplicazione della norma interna in contrasto col diritto UE, facendo leva su queste pronunce . In sostanza, la mancanza di operazioni attive non può far presumere per legge una frode IVA: occorrono elementi specifici di frode, altrimenti il credito va riconosciuto . Questo non incide direttamente sull’IRES e l’IRAP, ma rafforza concettualmente l’idea che un periodo di inattività non è di per sé prova di abuso.
  • Principio di proporzionalità e riforma in cantiere: Un ulteriore argomento, più teorico, che talvolta viene sollevato è la possibile violazione del principio di proporzionalità e capacità contributiva. La delega fiscale 2023 sembra recepire questa sensibilità, proponendo di circoscrivere la presunzione solo ai casi di effettiva assenza di attività commerciale . In giudizio, far presente questa evoluzione (cioè che lo stesso legislatore sta correggendo il tiro) può aiutare a convincere i giudici a un’interpretazione non eccessivamente rigida a sfavore del contribuente.

Riassumendo la strategia difensiva:

  1. Raccogliere e produrre ogni evidenza oggettiva che spieghi il basso livello di ricavi: meglio abbondare con documenti, grafici di mercato, contratti sfumati, perizie, ecc., costruendo un dossier ordinato.
  2. Mostrare che la società ha agito in buona fede e con reale intento economico: se ci sono stati tentativi di fare operazioni (anche non conclusi), metterli in luce; se la società ha comunque svolto attività (anche preparatorie), descriverle dettagliatamente. L’obiettivo è far percepire al giudice che non si è di fronte a una scatola vuota ma a un’impresa sfortunata o frenata da cause esterne.
  3. Distinguersi dal paradigma evasivo: magari evidenziando cosa non è successo: ad esempio, se la società ha chiuso in perdita ma i soci non hanno tratto benefici occulti (nessuna auto di lusso intestata, nessun bene usato personalmente, niente trasferimenti anomali di denaro), sottolinearlo. Far emergere che non c’è stato un arricchimento occulto dei soci aiuta a far cadere l’idea di elusività.
  4. Chiamare in causa i precedenti giurisprudenziali favorevoli: citare nelle memorie difensive le sentenze di Cassazione pertinenti (ve ne sono molte, come visto). Ad esempio, se la vostra situazione ricalca un caso già deciso positivamente (es. ritardi burocratici come in Cass. 35816/2023), richiamate quel precedente ; se portate prove di un’attività economica concreta, citate Cass. 16472/2022 ; e così via. I giudici tributari di merito apprezzano i riferimenti puntuali, e ciò li orienta ad accogliere la prova.
  5. Alternative in caso di difficoltà: se, nonostante tutto, le prove appaiono deboli e il rischio di soccombere è alto, valutare soluzioni alternative come la conciliazione o (extrema ratio) l’acquiescenza per ridurre danni. In parallelo, considerare soluzioni per il futuro: ad esempio, trasformare la società in società semplice (se si tratta di mera gestione immobiliare) per evitare futuri test di operatività; oppure liquidare la società e intestare direttamente i beni ai soci (sfruttando eventualmente norme di assegnazione agevolata se prorogate, come avvenuto nel 2023). Tali accorgimenti non risolvono il pregresso, ma evitano di ripetere l’esperienza negli anni successivi.

Profili penali collegati alla disciplina delle società di comodo

Un aspetto da considerare è se e quando l’utilizzo di una società di comodo possa comportare conseguenze sul piano penale tributario. Di per sé, essere classificati come società non operativa non costituisce reato: è una situazione fiscale sanzionata con misure amministrative (maggiori imposte e sanzioni tributarie), ma non esiste uno “specifico reato di società di comodo”. Tuttavia, spesso le società di comodo compaiono come strumenti o elementi di operazioni fraudolente, e in tali casi entrano in gioco le norme penali tributarie generali (D.Lgs. 74/2000) o anche il codice penale.

Ecco alcune fattispecie tipiche in cui una società di comodo può essere coinvolta penalmente:

  • Frode fiscale mediante false fatturazioni (“società cartiera”): Alcune società di comodo sono costituite appositamente per emettere o ricevere fatture per operazioni inesistenti, consentendo ad altre aziende di abbattere i propri redditi o detrarre IVA indebitamente. In questi casi la società di comodo funge da cartiera, spesso amministrata da prestanome, e il suo ruolo è criminale. I reati configurati sono la dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false (art. 2 D.Lgs. 74/2000) per chi detrae costi fittizi, e emissione di fatture false (art. 8 D.Lgs. 74/2000) per la società cartiera stessa. Esempio: nel caso reale di una commercialista che aveva creato cooperative di comodo per interporle fittiziamente nell’assunzione di dipendenti e dedurre i relativi costi, l’indagine ha svelato che tali cooperative erano gestite dal suo entourage e non svolgevano alcuna attività reale . All’atto pratico, quelle cooperative erano società di comodo usate per commettere frodi (deduzione indebita di costi e mancato versamento di ritenute) e la Guardia di Finanza è intervenuta, con successiva contestazione di reati come l’omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000) e probabilmente il già citato art. 2 sulle false fatturazioni . Dunque, se la vostra società di comodo è stata implicata in simili schemi, oltre alle sanzioni amministrative potreste trovarvi ad affrontare un procedimento penale.
  • Dichiarazione infedele o fraudolenta mediante artifici (art. 4 e 3 D.Lgs. 74/2000): Se l’utilizzo della società di comodo si accompagna a dichiarazioni fiscali volutamente mendaci, scatta la responsabilità penale individuale degli amministratori o di chi ha apposto la firma sulle dichiarazioni. Un caso potrebbe essere quello del socio/amministratore che usa la società per pagare spese personali (vacanze, auto, barche) e le deduce come costi aziendali: qui la società dichiarerà magari perdite o redditi bassi perché gonfia di costi indeducibili. L’Agenzia potrà recuperare a tassazione quei costi come indebiti, e se la maggiore imposta evasa supera le soglie penali (€100.000 annui di imposta evasa o €2 milioni di elementi attivi sottratti) potrebbe configurarsi il reato di dichiarazione infedele (art. 4). In casi più complessi, se per celare l’evasione si usano artifici contabili o documentali, potrebbe profilarsi la dichiarazione fraudolenta (art. 3). Ad esempio, la creazione di contratti fittizi tra la società e i soci per giustificare costi (locazioni simulate, consulenze inesistenti) è un artificio idoneo a integrare la fattispecie fraudolenta.
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000): Una società di comodo può essere usata anche a valle, cioè per occultare beni o denaro e rendere inefficace la riscossione di imposte dovute. Ad esempio, un imprenditore con debiti col Fisco potrebbe trasferire immobili personali a una sua società di comodo per sottrarli al pignoramento. Se ciò avviene dopo che le imposte sono state accertate e scadute, costituisce reato di sottrazione fraudolenta (alienazione simulata di beni).
  • Riciclaggio e autoriciclaggio (artt. 648-bis e 648-ter.1 c.p.): Società di comodo, specie se collocate in paradisi fiscali o intestate a prestanome, possono essere impiegate per ripulire proventi illeciti o schermare patrimoni di provenienza criminale. Se la finalità non è principalmente fiscale ma ad esempio di occultamento di denaro da reati comuni, si entra nel penale generale (riciclaggio). Talora l’esterovestizione (fittizia residenza all’estero della società per evadere tasse) è associata a reati di frode fiscale internazionale, ma anche in questo caso si contestano in genere gli illeciti dichiarativi (omessa o infedele dichiarazione) più eventuali violazioni valutario-finanziarie.

Differenza tra elusione e reato tributario: È importante distinguere l’abuso del diritto/elusione fiscale dalla evasione fiscale penalmente rilevante. L’utilizzo di una società di comodo, se pur finalizzato a ridurre il carico fiscale ma senza violare esplicitamente norme (cioè senza false rappresentazioni), rientra concettualmente nell’elusione. Ad esempio, detenere un immobile tramite società e non percepire affitti per non pagare IRPEF come persona fisica è un comportamento elusivo, ma non comporta false dichiarazioni (la società dichiara zero ricavi correttamente). In base all’art. 10-bis della L. 212/2000 (statuto del contribuente), le operazioni elusive non danno luogo a fatti punibili sul piano penale. Quindi la mera presunzione di “società di comodo” non implica di per sé reati. Le sanzioni restano amministrative.

Diventa penale quando entrano in gioco la falsità e l’inganno: fatture false, omissioni di dichiarazione di redditi effettivamente percepiti, occultamento di attività al fisco. Tornando all’esempio, se il socio utilizza la villa sociale e la società dichiara costi di manutenzione e zero ricavi, non c’è reato se quei costi sono reali (saranno indeducibili in accertamento, ma non falsi). Diverso sarebbe se la società emettesse fatture false di affitto mai pagato per creare costi da un lato e giustificare l’uso dall’altro.

Profili penali dell’amministratore o professionista: Un amministratore che istituisca società di comodo per realizzare frodi potrà rispondere dei reati come ideatore ed esecutore. Inoltre, chi avalla operazioni elusive aggressive potrebbe incorrere in responsabilità professionale: ad esempio, consulenti che predispongono schemi abusivi rischiano sanzioni deontologiche e, in casi estremi (concorso in reato), anche coinvolgimenti penali. La recentissima attenzione normativa sul reato di autoriciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.) può chiamare in causa chi, dopo aver evaso imposte, impiega le somme evase attraverso società di comodo per ostacolare la loro tracciabilità.

In sintesi sui rischi penali: l’uso di società di comodo diventa penalmente rilevante solo se inserito in un contesto di frode o evasione volontaria, con elementi di falsità o occultamento. La maggior parte dei casi di società non operative che semplicemente accumulano perdite non configura reati (è una non violazione reddituale, se non ci sono redditi nascosti). Resta però il fatto che l’Amministrazione finanziaria, quando individua società di comodo, spesso allerta la Guardia di Finanza per indagini più ampie: vengono esaminati i rapporti con i soci, i flussi finanziari, ecc., proprio per verificare se dietro c’è evasione d’imposta più grave. Se dalle indagini emergono fatti penalmente rilevanti, allora scattano le denunce.

Un vantaggio di risolvere la questione in ambito amministrativo (ad esempio con accertamento con adesione) è anche quello di contenere eventuali strascichi penali: come accennato, il pagamento di quanto dovuto prima del dibattimento penale comporta una riduzione di un terzo delle pene e l’attenuante specifica . Inoltre, l’adesione definisce la posizione fiscale, togliendo terreno alle accuse (non vi sarà più imposta evasa, se il pagamento avviene). Dunque, in situazioni borderline è bene valutare seriamente la definizione agevolata per “disinnescare” possibili profili penali.

Domande frequenti (FAQ) sulle contestazioni da società di comodo

D: Che cos’è esattamente una “società di comodo”?
R: È una società che, pur avendo forma giuridica di società commerciale, non svolge un’effettiva attività d’impresa proporzionata ai beni che possiede. In pratica è un’entità costituita per gestire patrimoni (immobili, partecipazioni, denaro) in maniera fiscalmente più vantaggiosa, oppure per schermare l’identità dei reali proprietari, senza produrre i normali ricavi d’esercizio attesi . Vengono comunemente definite di comodo le società costantemente in perdita o con utili irrisori, tipicamente utilizzate per far godere ai soci beni intestati alla società (es. ville, barche) . La legge fiscale le identifica tramite il test di operatività e le sottopone a una tassazione minima presuntiva.

D: In base a quale legge viene valutata la non operatività?
R: La disciplina è contenuta principalmente nell’art. 30 della Legge 724/1994 e successive modifiche. Tale articolo stabilisce il meccanismo del test di operatività e le presunzioni di reddito minimo . Inoltre, per le società in perdita sistematica si applicavano i commi 36-decies e segg. dell’art. 2 D.L. 138/2011 (ora abrogati dal 2022) . La normativa secondaria (provvedimenti del Direttore AdE, circolari) ha individuato varie cause di esclusione automatica . Infine, ricordiamo le novità recenti: il D.Lgs. 192/2024 che ha ridotto i coefficienti del test del 50% dal 2024 e la delega fiscale 2023 (L.111/2023) che prevede una riforma complessiva ancora in fase di attuazione.

D: Come funziona in pratica il test di operatività?
R: Funziona come un calcolo matematico basato sul bilancio della società. Si prendono alcuni beni dell’attivo (immobili, partecipazioni, altri asset) e si applicano ad essi dei coefficienti fissi per ottenere i ricavi figurativi. Sommando questi ricavi presunti, si ottiene una soglia di ricavi che la società avrebbe dovuto conseguire nell’anno . Se i ricavi effettivi dichiarati (più eventuali incrementi di magazzino e proventi ordinari) sono inferiori a questa soglia, la società non supera il test ed è considerata di comodo. Ad esempio, se la società possiede un capannone del valore di 1 milione € e nient’altro, il coefficiente (storico) era 6%: ci si aspetta un ricavo di almeno 60.000 € annui. Se ne ha dichiarati solo, poniamo, 20.000 €, risulta non operativa. (Dal 2024, i coefficienti sono stati dimezzati, quindi nello stesso esempio la soglia sarebbe 30.000 €) . In caso di test fallito, la legge presume anche un reddito minimo imponibile (applicando altri coefficienti, es. 4.75% sugli immobili) e impone di tassarlo comunque .

D: Quali sono le penalizzazioni se la mia società è “di comodo”?
R: Le penalizzazioni principali sono: 1) Reddito minimo imponibile ai fini IRES/IRPEF e IRAP, indipendentemente dal risultato effettivo . Quindi, anche se hai fatto una perdita o un utile minore, dovrai comunque dichiarare almeno il reddito presunto e pagarci le imposte. 2) Aliquota IRES maggiorata del 10,5% per le società di capitali , il che porta l’IRES al 34,5% sul reddito minimo . 3) Blocco dell’uso dei crediti fiscali: in particolare, divieto di chiedere rimborsi IVA o usare crediti IVA in compensazione per quell’anno (norma da disapplicare in virtù delle sentenze UE 2024, ma ancora formalmente vigente). Inoltre, le perdite pregresse possono essere utilizzate solo per coprire la parte di reddito eccedente il minimo . In sostanza, la società di comodo paga più tasse (anche se non guadagna) e vede limitati i benefici fiscali. Oltre a ciò, subisce le sanzioni amministrative se non si adegua spontaneamente (una dichiarazione “infedele” rispetto al minimo presunto comporta sanzione base 90% della differenza). Non ci sono invece sanzioni civilistiche societarie specifiche.

D: Ci sono situazioni in cui una società non è considerata di comodo anche se non raggiunge i ricavi minimi?
R: Sì. Anzitutto, ci sono cause di esclusione automatica previste dalla legge o da atti amministrativi: ad esempio, le società in liquidazione (non oltre il secondo periodo di imposta successivo), le società fallite o in concordato, quelle con beni dati in affitto a canone vincolato, ecc. . In tali casi, la disciplina non si applica per definizione. Poi c’è la possibilità di ottenere la disapplicazione per situazioni oggettive particolari: se circostanze straordinarie e fuori dal tuo controllo hanno impedito alla società di operare normalmente, puoi presentare un interpello all’Agenzia delle Entrate chiedendo di non applicare la disciplina antielusiva . Ad esempio, se un’azienda agricola non ha prodotto reddito per una calamità naturale, o una immobiliare non ha potuto vendere case perché un cantiere è rimasto bloccato dalla burocrazia, queste sono ragioni valide . Se l’Agenzia è d’accordo, risponde positivamente all’interpello e la società è esentata per quell’anno. In mancanza di interpello (o se l’Agenzia nega), comunque in sede di contenzioso si possono far valere quelle circostanze come prova contraria per convincere il giudice che la società non era una mera cartiera.

D: È obbligatorio presentare l’interpello disapplicativo prima di fare ricorso?
R: No, non è obbligatorio. L’interpello è una facoltà che il contribuente ha per cercare un parere preventivo, ma non vincola i suoi diritti di difesa . Se non presenti interpello, o se lo presenti ma l’Agenzia lo rigetta, puoi comunque impugnare l’eventuale accertamento e far valere in giudizio le tue motivazioni. La Cassazione ha confermato che l’interpello non è condizione di ammissibilità del ricorso e non preclude di fornire ex post la prova contraria . Quindi, se pensi di avere elementi solidi, puoi anche saltare l’interpello e prepararli direttamente per la fase contenziosa. Tieni però presente che l’interpello, se accolto, ti evita proprio l’accertamento: è uno strumento utile, e a mio avviso va tentato quando hai una situazione oggettivamente ben documentabile. Se invece la questione è opinabile e temi un rigetto, potresti voler evitare di “scoprire le carte” in anticipo e portare tutto davanti al giudice.

D: Ho ricevuto un avviso di accertamento che mi contesta un reddito minimo da società di comodo. Cosa posso fare ora?
R: Hai varie opzioni. Prima di tutto, valuta i rimedi amministrativi a disposizione: puoi presentare una istanza di accertamento con adesione all’Agenzia (entro 60 giorni dalla notifica dell’accertamento). Questo ti permetterà di incontrare l’ufficio, spiegare le tue ragioni e cercare un accordo . Se trovi un accordo, pagherai il dovuto con sanzioni ridotte a un terzo e chiuderai la vicenda . Se l’accordo non c’è, comunque l’adesione ti fa guadagnare tempo (sospende i termini per il ricorso per 90 giorni) e magari fornisce indicazioni utili sulla posizione dell’ufficio. In parallelo o in alternativa, puoi presentare un’istanza di autotutela se ci sono errori chiari nell’atto (ad esempio, l’ufficio non ha considerato una causa di esclusione applicabile). L’autotutela è a discrezione dell’ente, ma tentar non nuoce. Infine, se non si risolve, puoi proporre ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria) entro i termini (60 giorni, prorogati di 90 se hai fatto adesione). Nel ricorso esporrai tutte le tue motivazioni e prove. Ricorda che dal 2024 non è più obbligatorio il reclamo/mediazione per le liti piccole, quindi il ricorso va diretto al giudice (puoi comunque formulare proposte di mediazione volontaria all’Agenzia). Durante il processo, è sempre possibile trovare un compromesso con l’ufficio tramite conciliazione giudiziale, con un’ulteriore riduzione delle sanzioni (solitamente al 50% del minimo). Riassumendo: non subire passivamente, attiva l’adesione se hai argomenti, raccogli la documentazione per dimostrare le cause dei bassi ricavi e preparati a sostenere la tua buona fede davanti al giudice.

D: Che tipo di prove devo presentare per dimostrare che la mia società NON è un guscio inattivo?
R: Dipende dal caso specifico, ma in generale dovrai fornire tutto ciò che documenta l’attività effettivamente svolta o le ragioni oggettive della mancata redditività. Alcuni esempi: – Se la causa è di mercato (crisi settore, mancanza commesse), presenta dati e studi di settore, bilanci comparativi di concorrenti, ecc., per far vedere che era un andamento generale. – Se la causa è burocratica o legale (es. un immobile non locabile perché in attesa di agibilità, o un contenzioso che ne blocca l’uso), produci copie di quelle pratiche amministrative, dei ricorsi, delle ordinanze, ecc. – Se sostieni che la società era operativa ma non ha raggiunto vendite, porta contratti negoziati, offerte inviate, ordini ricevuti e poi cancellati, insomma tracce delle attività svolte nella ricerca di affari. – Se hai immobilizzazioni importanti, mostra come le hai utilizzate: es. se hai un capannone, fornisci foto e documenti che mostrano che dentro c’era effettivamente un’attività (magari modesta, ma c’era). Se hai dipendenti, porta le buste paga, i documenti INPS: la presenza di personale è un forte indicatore di operatività reale. – Se ci sono state cause di forza maggiore (calamità, pandemia, ecc.), documentale (atti pubblici, rassegna stampa) e spiega il nesso con la tua azienda (es. “nel 2020, a causa del lockdown, l’attività è stata sospesa 4 mesi…”). – Non dimenticare le prove “negative”: ad esempio un estratto conto per mostrare che non ci sono movimenti sospetti verso i soci (per fugare il dubbio che i soci drenassero utilità nascoste).

In udienza, tutto deve convergere a dare al giudice il convincimento che la società era in buona fede e meritevole di non essere trattata da entità fittizia.

D: Cosa succede se i soci usano i beni della società di comodo a scopi personali?
R: Questo è un caso classico: ad esempio, la società possiede un appartamento dove abita un socio, oppure un’auto di lusso usata dall’amministratore per fini privati. Fiscalmente succede che l’Agenzia (oltre a qualificare la società come di comodo) può fare due cose: 1. In capo alla società: disconosce i costi relativi a quel bene (perché di fatto non inerenti all’attività) e li riporta a tassazione se avevano contribuito a una perdita. Inoltre, l’assenza di ricavi (es. nessun canone pagato dal socio utilizzatore) concorre al fallimento del test, aggravando la posizione. 2. In capo al socio utilizzatore: può imputargli un reddito diverso da capitale pari al valore di mercato del beneficio che ha ricevuto gratis. In pratica, è come se avesse percepito un dividendo in natura o un compenso per utilizzo bene sociale. Ad esempio, se vive in una casa della società, l’Agenzia può quantificare un affitto di mercato mensile e trattarlo come reddito imponibile per lui. Ci sono norme specifiche (ad es. art. 2, comma 36-quinquiesdecies D.L. 138/2011) che prevedono una tassazione per il socio che utilizza beni sociali a condizioni di favore. Quindi il socio rischia di dover pagare IRPEF su un reddito figurativo. In generale, l’uso personale dei beni aziendali è uno dei segnali peggiori in termini di difendibilità: conferma l’intento elusivo. Se sei in quella situazione, la strategia migliore non è difendere ad oltranza l’uso gratuito, ma cercare magari un accordo con il fisco limitando i danni (es. accettare di tassare in capo ai soci un certo valore e chiudere la vicenda in adesione). Meglio ancora, per il futuro, regolarizzare questi utilizzi (stipulare contratti di locazione, fringe benefit se amministratore dipendente, ecc.) per non incorrere nuovamente nel problema.

D: La mia società non operativa può avere conseguenze penali?
R: Di per sé il regime delle società di comodo è un istituto tributario amministrativo: non c’è una sanzione penale per il solo fatto di non aver raggiunto i ricavi minimi. Tuttavia, spesso le società di comodo sono correlate a comportamenti evasivi più gravi. Ad esempio, se la società di comodo è stata usata per emettere fatture false o per creare costi fittizi, allora entrano in gioco i reati di frode fiscale (artt. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000) e i responsabili (amministratori effettivi o di diritto) possono subirne le conseguenze . Oppure se la società di comodo ha nascosto redditi che in realtà i soci percepivano (caso delle cooperative fittizie con dipendenti, dove in realtà la professionista beneficiava del risparmio d’imposta ), ci possono essere contestazioni di dichiarazione infedele o omesso versamento di ritenute (come nell’esempio citato) con rilevanza penale. In sintesi: – Se la “non operatività” è solo un fenomeno contabile (per es. tieni l’immobile fermo) e non c’è manipolazione di dati, non c’è reato (è elusione, non evasione fraudolenta). – Se invece hai usato la società di comodo per ingannare il fisco attivamente, ad esempio deducendo costi falsi, occultando ricavi reali o spostando patrimoni per non pagare le imposte, allora sì, quelle azioni possono costituire reati tributari (fraudolenti o omissivi). In caso di dubbi, conviene analizzare con un legale penalista la situazione. È bene sapere che definire la questione col fisco pagando quanto dovuto può aiutare anche penalmente: ad esempio, se hai un procedimento penale per dichiarazione fraudolenta e prima del dibattimento versi le imposte evase (magari grazie a un accordo di adesione), potrai avere un trattamento sanzionatorio penale più mite . Quindi aggiustare la posizione tributaria conviene sempre.

D: Come posso evitare che la mia società venga considerata di comodo in futuro?
R: Il consiglio generale è: far sì che la società abbia un’attività economica dimostrabile oppure adottare soluzioni alternative. Alcune strade: – Aumentare l’operatività reale: se la società possiede beni improduttivi, valuta di iniziare a metterli a frutto. Ad esempio, se hai immobili sfitti, affittali (anche a canone ridotto, meglio di niente) così da generare ricavi. Se hai liquidità ferma, considerare investimenti produttivi. Insomma, evitare di far risultare la società come ferma: spesso bastano ricavi non molto superiori alle soglie per passare il test, specie dopo il dimezzamento dei coefficienti nel 2024 . – Trasformazione societaria: se l’oggetto sociale è meramente il godimento di beni da parte dei soci (tipico il caso di società immobiliari “di famiglia”), valuta la trasformazione in società semplice o il ritorno in ambito personale. Le società semplici non sono soggette alla disciplina di comodo e hanno un regime fiscale più snello (redditi da fabbricati e finanziari imputati ai soci). Il legislatore ha spesso incentivato queste soluzioni: la Legge di Bilancio 2023, ad esempio, ha riproposto l’assegnazione agevolata dei beni ai soci e la trasformazione agevolata in società semplice entro fine settembre 2023, con imposte sostitutive ridotte . Tali norme vanno e vengono, ma conviene approfittarne quando ci sono per “liberarsi” in modo efficiente della struttura societaria di comodo. – Documentare sempre le cause di eventuale inattività: se prevedi che un anno avrai pochi ricavi (es. perché stai ristrutturando un immobile, o l’azienda è in fase di pivoting), prepara un dossier durante l’anno stesso: conserva preventivi, contratti di appalto, comunicazioni ufficiali di ritardi, ecc. Saranno preziosi in caso di interpello o accertamento per dimostrare subito il perché del calo di ricavi. – Intervenire sul capitale o sull’oggetto sociale: la delega fiscale 2023 suggerisce che in futuro saranno esclusi i casi con un certo numero di dipendenti. Quindi, paradossalmente, avere dipendenti può “salvare” dalla qualifica di comodo. Naturalmente non si assumerà personale solo per questo motivo, ma se l’azienda ha un dipendente borderline (es. l’amministratore unico senza stipendio), val la pena formalizzarne il ruolo come dipendente: rafforza la sostanza commerciale. Anche operare in settori regolamentati potrebbe diventare criterio di esclusione; poco da fare qui se non evidenziare eventuali licenze, autorizzazioni che già possiedi. – Chiusura se inutile: se la società non ha più una vera ragion d’essere economica e viene tenuta in vita solo per abitudine, considera la messa in liquidazione e chiusura. A volte i costi, i rischi fiscali e le burocrazie per mantenerla superano i (pochi) benefici. Meglio sciogliere e gestire i beni personalmente o in un veicolo non soggetto a questi vincoli. In sintesi: prevenire è meglio che curare. Una gestione trasparente, un’aderenza alla realtà economica (anziché a soli scopi fiscali) e un monitoraggio continuo delle soglie di operatività possono evitare di incorrere in contestazioni o almeno mettere la società in condizione di difendersi agevolmente.

D: In caso di contestazione, quali sono le sentenze o fonti più autorevoli a cui fare riferimento?
R: Le più autorevoli sono certamente le sentenze della Corte di Cassazione, specialmente le Sezioni Tributarie più recenti. Eccone alcune chiave: – Cass. SS.UU. 26635/2009: vecchia ma fondamentale, confermò la legittimità costituzionale della disciplina di comodo, però aprì alla disapplicazione caso per caso. – Cass. 13699/2016: sottolineò come il meccanismo fosse rigido e solo la prova contraria potesse evitarne l’applicazione automatica . – Cass. 1898/2022: ha riepilogato il doppio livello di presunzioni (non operatività e reddito minimo) e la natura relativa delle stesse . – Cass. 16472/2022: molto favorevole ai contribuenti, chiarisce che l’interpello non è obbligatorio e che la prova contraria può consistere nel dimostrare un’attività effettiva con prospettive di lucro (anche se non realizzato) . – Cass. 26219/2021 e 4946/2021: simili nel ribadire che è ammessa qualunque prova che dimostri l’inesistenza della situazione presunta (cioè la reale operatività) . – Cass. 13336/2023: attenzione a cause soggettive come la lunga liquidazione – sentenza sfavorevole al contribuente, da conoscere per evitare difese deboli . – Cass. 35816/2023: favorevole, riconosce i ritardi burocratici come causa oggettiva valida . – Cass. 29854/2024 (28/11/2024): sentenza recente che ha analizzato a fondo la materia (imposte dirette) confermando tutti i principi pro-contribuente su prova contraria, onere probatorio attenuato e impossibilità di applicare in via estensiva le esclusioni tipizzate . – Corte di Giustizia UE, causa C-341/22 (2024) e Cass. 4151/2025: fondamentali sul versante IVA, da citare per disapplicare il blocco dei crediti IVA in mancanza di frode . – Cass. 3297/2025 (ord. 10/02/2025): ha ribadito anche recentemente l’apertura verso le cause oggettive di disapplicazione, ma il testo integrale va consultato (è citata in massima sul Portale della Giustizia Tributaria). È utile anche menzionare circolari dell’Agenzia delle Entrate, ad esempio la Circ. 5/E 2007 che già ammetteva che “ogni situazione in grado di giustificare la divergenza tra il dichiarato e il presunto va considerata” , o la Circ. 9/E 2008 che fornì un quadro organico della disciplina (in parte superato dagli eventi). Per le situazioni COVID, c’è la risposta a interpello della DRE Toscana n. 911-486/2022 (citata da Fisco & Tasse ) che riconobbe la crisi pandemica come causa sufficiente di disapplicazione.

Saper citare queste fonti nel ricorso o in udienza mostra al giudice che il tuo caso ha fondamento in precedenti autorevoli e che la tua tesi non è peregrina, ma anzi è allineata ai principi affermati dai giudici supremi.

Conclusione: Affrontare una contestazione per mancato rispetto del test di operatività richiede un approccio multidisciplinare: conoscenza della norma, analisi economico-aziendale della propria situazione, raccolta meticolosa di prove e padronanza degli strumenti di dialogo con il Fisco. Dal punto di vista del contribuente “debitore” di imposta, è fondamentale non scoraggiarsi di fronte alla rigida presunzione iniziale: la legge consente ampi spazi per dimostrare la buona fede e la non fittizietà della società. Le vittorie giudiziarie dei contribuenti in questi anni lo testimoniano . Con un dossier probatorio solido e magari con l’assistenza di professionisti esperti, è possibile difendersi efficacemente e ottenere giustizia caso per caso. E, cosa non meno importante, fare tesoro dell’esperienza per pianificare il futuro societario in modo da evitare di ricadere nella categoria delle società di comodo, muovendosi invece verso una struttura d’impresa più trasparente e allineata sia alle esigenze imprenditoriali che alle aspettative del Fisco.

Fonti utilizzate: Giurisprudenza di legittimità più recente (Corte di Cassazione 2021-2025), articoli di approfondimento tributario , documentazione ufficiale (Circolari AdE, normativa vigente) e analisi della stampa specializzata. In particolare, si segnalano: Cass. nn. 24416 e 24442/2024 e Corte UE C-341/22 su disciplina IVA ; Cass. n. 29854/2024 sulla prova contraria in materia di imposte dirette ; Cass. n. 35816/2023 sulle cause burocratiche ; Cass. n. 13336/2023 sui limiti in caso di liquidazione volontaria ; nonché la normativa di riferimento (art.30 L.724/94 come modificato, D.L. 73/2022, D.Lgs. 192/2024) e le circolari AdE pertinenti. Queste fonti sono essenziali per comprendere e affrontare al meglio la complessa materia delle società di comodo.

  • Cass. 13336/2023 – Osservatorio Giustizia Tributaria
  • Cass. 35816 /2023 – Osservatorio Giustizia Tributaria

Contestazioni per Mancato Rispetto del Test di Operatività delle Società di Comodo: Come Difendersi

Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché la tua società non ha superato il test di operatività previsto per le società di comodo?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?

Le società di comodo, dette anche non operative, sono quelle che non svolgono un’effettiva attività economica ma vengono utilizzate solo per detenere beni o per ottenere vantaggi fiscali. La normativa prevede un test di operatività basato su parametri di redditività: se non viene superato, la società viene automaticamente considerata “di comodo”, con gravi conseguenze fiscali.

👉 Prima regola: dimostra l’effettiva operatività della società o l’esistenza di cause oggettive che hanno impedito il superamento del test.


⚖️ Quando scattano le contestazioni

  • Società con ricavi dichiarati inferiori ai ricavi presunti dal test di operatività;
  • Assenza di una reale attività commerciale o di produzione;
  • Utilizzo della società solo per gestire immobili, partecipazioni o beni di lusso;
  • Bilanci con perdite sistematiche;
  • Mancata dimostrazione di situazioni oggettive che giustificano i risultati negativi.

📌 Conseguenze della contestazione

  • Tassazione minima presunta, indipendentemente dai risultati reali;
  • Indeducibilità delle perdite fiscali;
  • Limitazione all’utilizzo del credito IVA;
  • Recupero delle imposte con sanzioni e interessi;
  • Rischio di ulteriori controlli su operazioni e rapporti infragruppo.

🔍 Cosa verificare per difendersi

  • Attività effettivamente svolta: esistono contratti, ordini, clienti?
  • Eventuali cause oggettive: crisi di mercato, contenziosi, mancati pagamenti, calamità;
  • Adeguata documentazione che dimostri le difficoltà temporanee;
  • Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia ha indicato chiaramente perché non hai superato il test?
  • Possibilità di presentare interpello disapplicativo già richiesto o non considerato.

🧾 Documenti utili alla difesa

  • Bilanci e dichiarazioni fiscali degli anni contestati;
  • Contratti commerciali e documentazione di attività svolte;
  • Prove di cause oggettive (fallimento di clienti, eventi straordinari, crisi settoriale);
  • Comunicazioni con l’Agenzia delle Entrate (interpelli o richieste di chiarimenti);
  • Relazioni tecniche e pareri di revisori o consulenti.

🛠️ Strategie di difesa

  • Dimostrare l’operatività reale della società con contratti e prove documentali;
  • Invocare cause oggettive che giustifichino il mancato superamento del test;
  • Contestare la presunzione di non operatività se priva di riscontri concreti;
  • Eccepire vizi dell’accertamento: motivazione carente, notifica irregolare, decadenza dei termini;
  • Richiedere autotutela se il test è stato applicato in modo errato;
  • Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per annullare la pretesa.

🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo

📂 Analizza la posizione fiscale della società e le contestazioni ricevute;
📌 Verifica se esistono cause oggettive per disapplicare la disciplina delle società di comodo;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione societaria trasparente e conforme alle regole fiscali.


🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in società di comodo e contenzioso tributario;
✔️ Specializzato in difesa di società e gruppi societari contro contestazioni sul test di operatività;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.


Conclusione

Le contestazioni per mancato rispetto del test di operatività delle società di comodo non sempre sono fondate: spesso dipendono da situazioni oggettive ignorate dall’Agenzia delle Entrate.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la reale operatività della società o l’esistenza di cause che giustificano i risultati negativi, evitando tassazioni indebite e riducendo sanzioni e interessi.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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