Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcune spese di viaggio portate in deduzione come professionista sono state ritenute non corrette? In questi casi, l’Ufficio presume che tali costi non siano inerenti all’attività professionale o che non rispettino i limiti previsti dalla normativa fiscale. La conseguenza è il recupero delle imposte, con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con una documentazione adeguata è possibile dimostrare la natura professionale delle spese.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le spese di viaggio dei professionisti
– Se mancano documenti che provino il legame tra il viaggio e l’attività professionale (contratti, inviti, relazioni)
– Se le spese riguardano viaggi in località turistiche senza collegamento con l’attività svolta
– Se sono state dedotte spese sostenute anche da familiari o accompagnatori
– Se le spese superano i limiti o i criteri stabiliti dal TUIR per vitto, alloggio e trasferte
– Se le ricevute fiscali sono incomplete, generiche o non intestate correttamente
Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità totale o parziale delle spese contestate
– Maggiori imposte dirette e IVA da restituire
– Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele o indebita deduzione
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Rischio di ulteriori controlli su altre spese professionali dichiarate
Come difendersi dalla contestazione
– Produrre documentazione completa a supporto della natura professionale del viaggio (email, convocazioni, ordini di servizio, biglietti di eventi formativi)
– Dimostrare l’inerenza delle spese con relazioni, rendicontazioni e report delle attività svolte
– Contestare la riqualificazione come “spese personali” se il viaggio era finalizzato all’attività professionale
– Evidenziare errori di calcolo o difetti di motivazione nell’atto di accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento della pretesa
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le spese contestate e la relativa documentazione fiscale
– Verificare la legittimità della contestazione secondo la normativa e la giurisprudenza
– Redigere un ricorso fondato su prove concrete e vizi formali dell’accertamento
– Difendere il professionista davanti ai giudici tributari contro richieste fiscali indebite
– Tutelare la reputazione e il patrimonio personale da conseguenze sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della legittimità della deduzione delle spese realmente inerenti
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: le spese di viaggio sono tra le più frequentemente contestate ai professionisti. È fondamentale predisporre prove documentali precise per dimostrarne l’inerenza.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e difesa dei professionisti – spiega come difendersi in caso di contestazioni per errata deduzione di spese di viaggio e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
In ambito fiscale italiano, uno dei motivi più frequenti di accertamento tributario verso professionisti, imprenditori individuali e società è la contestazione di spese dedotte ritenute “non inerenti” all’attività d’impresa o professionale . In altre parole, l’Agenzia delle Entrate può rettificare il reddito imponibile escludendo i costi che considera estranei all’attività e quindi indebitamente dedotti, con conseguente recupero a tassazione di tali importi . Queste contestazioni comportano maggiori imposte dovute, sanzioni amministrative pesanti e interessi di mora, e nei casi più gravi possono configurare violazioni penali (ad esempio il reato di dichiarazione infedele qualora le indebite deduzioni superino le soglie di legge) .
Tra le spese a rischio figurano tipicamente quei costi che, per natura o entità, appaiono di utilità personale o comunque non strettamente legati all’attività dichiarata. In particolare, il Fisco pone spesso sotto la lente le spese di viaggio, trasferte, vitto e alloggio dei professionisti quando non appaiono giustificate da effettive esigenze lavorative . Ad esempio, sono frequentemente contestate le trasferte considerate a carattere personale (magari perché combinate con vacanze), i costi di viaggio non supportati da idonea documentazione, le spese di vitto e albergo ritenute sproporzionate rispetto ai ricavi, oppure le spese per accompagnatori/familiari al seguito del professionista. In tutti questi casi l’Ufficio può presumere l’assenza di inerenza all’attività professionale e procedere a disconoscere la deduzione, con conseguente emissione di avvisi di accertamento per recuperare la maggiore imposta.
Dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta), predisporre una difesa efficace richiede una conoscenza approfondita delle norme fiscali applicabili e della più recente giurisprudenza, nonché un approccio proattivo nel fornire prove a sostegno dell’inerenza delle spese . Contestazioni per errata deduzione di spese di viaggio: come difendersi è una guida – aggiornata ad agosto 2025 – che offre un’analisi avanzata del quadro normativo italiano in materia di deducibilità delle spese di trasferta per professionisti, illuminando il concetto di inerenza e i limiti fiscali da rispettare, le ultime sentenze e orientamenti giurisprudenziali rilevanti, nonché gli strumenti processuali di tutela disponibili. Il linguaggio adottato è tecnicamente rigoroso ma con un taglio divulgativo, adatto sia agli operatori del diritto tributario sia a imprenditori e privati informati .
Nei paragrafi che seguono definiremo innanzitutto il principio di inerenza e l’onere della prova a carico del contribuente, per poi esaminare le tipologie di spese di viaggio più spesso contestate, con i relativi riferimenti normativi (limiti di deducibilità, condizioni, eccezioni) e i principali orientamenti della giurisprudenza tributaria recente. Verranno quindi illustrate le strategie difensive attivabili, dalla fase di verifica e accertamento fino al contenzioso presso le Corti di Giustizia Tributaria (ex Commissioni Tributarie), includendo i mezzi deflativi (come l’accertamento con adesione, il reclamo-mediazione e la conciliazione giudiziale) e le particolarità probatorie – ad esempio la raccolta documentale e la possibilità di avvalersi di testimonianze scritte introdotta di recente. Troverete inoltre tabelle riepilogative per una rapida consultazione (ad es. i requisiti di deducibilità per categoria di spesa, le fasi del processo e le relative tempistiche), una sezione di Domande & Risposte per chiarire i dubbi più comuni, e alcune simulazioni pratiche con casi numerici basati sull’esperienza reale.
(Ogni affermazione nel testo è accompagnata da riferimenti a fonti autorevoli – normative, prassi o pronunce giurisprudenziali – citate nel formato 【numero†riferimento】. Ciò consente al lettore di verificare e approfondire direttamente i documenti originari.)
Il principio di inerenza e l’onere della prova
Per poter dedurre un costo dal reddito professionale, la normativa fiscale richiede che esso sia inerente all’attività svolta. L’inerenza è il principio secondo cui un costo è deducibile solo se strettamente collegato all’attività che genera i ricavi tassati . Sebbene il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR, D.P.R. 917/1986) non fornisca una definizione esplicita del termine “inerenza”, esso emerge da varie disposizioni generali. In particolare, per i redditi d’impresa l’art. 109, comma 5 TUIR stabilisce che sono deducibili solo le spese “che si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito” . Analogamente, per i redditi di lavoro autonomo dei professionisti, l’art. 54 TUIR prevede la deduzione dei costi necessari alla produzione dei compensi, implicitamente richiedendo un rapporto funzionale tra spesa e attività professionale . In sostanza, tanto per le imprese quanto per i lavoratori autonomi vige il criterio che solo i costi inerenti all’attività esercitata sono deducibili, entro i limiti e le condizioni fissate dalla legge .
Va sottolineato che alcune categorie di costi sono comunque escluse a priori dalla deducibilità per espressa previsione normativa, anche se astrattamente connesse all’attività: ad esempio le sanzioni e le imposte sui redditi stesse, le spese per attività illecite, e così via . Al di fuori di tali esclusioni assolute, però, la regola generale è che il contribuente può sottrarre dal reddito solo le spese effettivamente attinenti all’esercizio della professione o dell’impresa.
Inerenza qualitativa vs. quantitativa: La giurisprudenza tributaria ha chiarito che il concetto di inerenza ha natura qualitativa e non quantitativa. Ciò significa che, in linea di principio, qualsiasi costo che si collochi nell’ambito dell’attività economica svolta è inerente, senza che sia necessario dimostrare uno specifico beneficio economico immediato o una proporzione rispetto ai ricavi . Come affermato dalla Suprema Corte, “il principio di inerenza esprime la riferibilità dei costi sostenuti all’attività d’impresa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, di modo che vanno esclusi soltanto i costi che si collocano in una sfera ad essa estranea. … L’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio (di natura quantitativa), e distinto dalla nozione di congruità del costo, anche se l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori di un difetto di inerenza” . In altre parole, una spesa può essere considerata inerente anche se non produce un beneficio economico immediato o proporzionato (ad esempio un viaggio finalizzato a future opportunità di lavoro), ma resta esclusa la deduzione di costi estranei all’attività (spese personali, di lusso non giustificate, ecc.). Eventuali considerazioni di antieconomicità (spese elevatissime rispetto ai ricavi) non precludono automaticamente la deducibilità, ma possono insospettire il Fisco e indurre a verificare se vi sia effettiva attinenza all’attività . Questo orientamento giurisprudenziale pone quindi l’accento sul nesso logico-funzionale tra spesa e attività, piuttosto che sulla mera misura o utilità immediata della spesa.
Onere della prova: In caso di contestazione da parte del Fisco, su chi ricade l’onere di dimostrare l’inerenza o meno di un costo? Tradizionalmente, per costante giurisprudenza, grava sul contribuente l’onere di provare la deducibilità dei propri costi, quindi di dimostrarne l’esistenza e la correlazione con l’attività svolta, una volta che l’Amministrazione finanziaria ne contesti la legittimità . La Corte di Cassazione ha più volte ribadito questo principio, affermando che spetta al contribuente fornire idonea documentazione che attesti l’inerenza e la congruità dei costi dedotti . In altre parole, le spese dedotte (componenti negativi del reddito) vengono considerate un “vantaggio” fiscale di cui il contribuente chiede il riconoscimento, sicché in giudizio dovrà sostenere l’onere probatorio della loro spettanza.
Novità normative sul riparto dell’onere probatorio: Dal 2022, tuttavia, è intervenuta una modifica significativa nella disciplina del processo tributario. Il D.Lgs. 130/2022 ha introdotto nell’art. 7 del D.Lgs. 546/1992 (che regola il contenzioso tributario) un nuovo comma 5-bis, secondo cui l’onere della prova in ordine alla contestata deducibilità di costi spetta all’Amministrazione finanziaria. Questo principio è stato applicato in alcune pronunce delle nuove Corti di Giustizia Tributaria di merito, ad esempio dalla CGT di secondo grado Emilia-Romagna n. 499/04/2023 . In tale decisione si è affermato che l’Ufficio, avendo disconosciuto un costo per asserita mancanza di inerenza, avrebbe dovuto provare le proprie affermazioni (ad esempio dimostrando che la spesa era estranea all’oggetto sociale e non necessaria), e la mancanza di tale prova ha portato i giudici a dare ragione al contribuente . Questo nuovo orientamento normativo considera i costi deducibili non più come un’“agevolazione” concessa al contribuente, ma come una componente implicita nella determinazione del reddito d’esercizio, e quindi equipara il loro regime probatorio a quello dei ricavi (per i quali spetta al Fisco dimostrare eventuali maggiori imponibili non dichiarati) . Occorre tuttavia cautela: la Cassazione non si è ancora pronunciata a Sezioni Unite sulla portata di questa novità, e in alcune pronunce recenti ha continuato a richiamare il principio tradizionale (onere sul contribuente) . In attesa di un assestamento interpretativo, in pratica il contribuente dovrà comunque produrre tutte le prove possibili a sostegno della propria posizione, poiché, al di là delle norme sul riparto astratto dell’onere probatorio, è suo interesse convincere il giudice dell’inerenza delle spese contestate. In sintesi, oggi il quadro è il seguente:
- L’Amministrazione finanziaria deve motivare e supportare adeguatamente la contestazione, non potendo limitarsi a generiche affermazioni di “mancata inerenza”. In virtù dell’art. 7 co.5-bis D.Lgs. 546/92, la prova dell’indeducibilità spetterebbe formalmente all’Ufficio . Ciò impone al Fisco di portare elementi concreti (es. che la spesa è estranea all’attività, o priva di documentazione) a sostegno dell’atto impositivo.
- Il contribuente, dal canto suo, è tenuto a provare l’esistenza del costo e la sua correlazione con l’attività. In pratica, deve esibire documenti giustificativi (fatture, ricevute, contratti, relazioni, ecc.) e spiegare il motivo aziendale/professionale della spesa. Se il Fisco ha fornito indizi di non inerenza (es. spesa anomala rispetto all’attività), il contribuente dovrà ribaltare tale presunzione con evidenze contrarie. In giudizio, infatti, l’assenza di prove convincenti in mano al contribuente comporta quasi inevitabilmente la conferma del recupero a tassazione .
In materia di spese di viaggio, questo significa che il professionista dovrà essere pronto a dimostrare, con idonea documentazione, che ogni trasferta contestata aveva uno scopo lavorativo concreto (ad esempio: incontrare clienti, partecipare a un convegno attinente alla professione, seguire un corso di aggiornamento riconosciuto, visitare un cantiere/progetto, ecc.), e che i costi sostenuti sono stati effettivamente destinati a tale finalità (es.: conservare biglietti aerei, ricevute alberghiere intestate, corrispondenza che attesti appuntamenti di lavoro, badge di accesso a fiere, fotografie ad eventi professionali, report dell’attività svolta durante il viaggio, ecc.). Vedremo più avanti in dettaglio quali prove e accorgimenti pratici adottare per supportare l’inerenza delle spese di trasferta. Prima di ciò, riepiloghiamo il quadro normativo specifico relativo alla deducibilità delle spese di viaggio, vitto, alloggio e trasferta per professionisti, con le limitazioni quantitative e le novità legislative degli ultimi anni.
Limiti fiscali alla deduzione delle spese di viaggio e trasferta
Le spese di viaggio e di trasferta dei professionisti sono deducibili dal reddito professionale solo entro determinati limiti e condizioni, fissati dal TUIR e dalla normativa correlata. È fondamentale conoscere queste regole, perché una deduzione eccedente i limiti di legge è di per sé indebita, a prescindere dall’inerenza: anche una trasferta effettivamente di lavoro non può essere dedotta oltre i massimali previsti. Di seguito riepiloghiamo i principali tipi di spesa di viaggio e il relativo trattamento fiscale per i lavoratori autonomi (professionisti), evidenziando anche le novità introdotte a partire dal 2025.
1. Spese di vitto e alloggio (alberghi, ristoranti) durante le trasferte: per i professionisti tali spese sono deducibili nella misura del 75% dell’importo sostenuto . Inoltre, l’ammontare deducibile complessivamente in un anno è soggetto a un ulteriore tetto pari al 2% dei compensi percepiti nel periodo d’imposta . In altri termini, se un professionista ha sostenuto €10.000 di spese di vitto e alloggio in trasferta, ne potrà dedurre al massimo €7.500 (il 75%), e solo se tale cifra non supera il 2% dei suoi compensi annuali. Ad esempio, con compensi annui di €100.000, il limite del 2% è €2.000: anche se il 75% delle spese fosse €7.500, la deduzione effettiva si fermerebbe a €2.000. Questo limite si applica alle spese di vitto e alloggio non addebitate specificamente al committente. Qualora invece le spese di vitto/alloggio siano sostenute per conto del cliente e da questi rimborsate (si pensi all’avvocato che addebita in fattura al cliente le spese di trasferta per una causa in altra città), fino al 2024 il meccanismo era il seguente: il rimborso spese, addebitato in fattura, concorreva a formare il compenso imponibile del professionista, il quale poteva poi dedurre il costo nei limiti del 75% e 2% suddetti . Dal 1° gennaio 2025, su questo aspetto è intervenuta una modifica importante: i rimborsi analitici di spese di trasferta addebitati al cliente non concorrono più a formare il reddito imponibile del professionista, a condizione che le spese siano opportunamente documentate e pagate con modalità tracciabili . Contestualmente, la nuova norma (art. 54, comma 2-bis e art. 54-ter TUIR) prevede la indeducibilità di quelle medesime spese per il professionista . In sostanza, dal 2025 le spese di vitto e alloggio riaddebitate al cliente non entrano nei ricavi e non possono essere dedotte (evitando così qualsiasi effetto sul reddito del professionista), salvo due eccezioni specifiche: (a) se il cliente non paga il rimborso perché insolvente o fallito, il professionista potrà dedurre le spese rimaste a suo carico come perdita deducibile; (b) per piccoli importi (fino a €2.500) non rimborsati entro un anno dalla fattura, è ammessa la deduzione . In tutti i casi, per beneficiare della non imponibilità del rimborso dal 2025, i pagamenti di vitto e alloggio devono essere effettuati con mezzi di pagamento tracciabili (niente contanti), requisito introdotto dalla L. 197/2022 (Legge di Bilancio 2023) e poi limitato alle sole spese sul territorio nazionale da un decreto correttivo del 2025 . Se il pagamento non è tracciabile, il rimborso torna imponibile e la spesa deducibile nei limiti ordinari .
Nota: Il limite del 75% si applica anche ad altre situazioni particolari, ad esempio alle spese di vitto/alloggio per trasferte all’interno dello stesso comune in cui ha sede l’attività (caso raro, ma si pensi a un professionista che pernotti eccezionalmente in città per un convegno). Inoltre, per le spese di rappresentanza (es. pranzi offerti a clienti a scopo promozionale, non collegati a una trasferta specifica) vige un limite ancora più restrittivo: deducibilità al 75% ma entro l’1% dei compensi annui . Occorre dunque distinguere le spese di trasferta inerenti a una prestazione (deducibili 75% entro 2% compensi) dalle spese di mera rappresentanza (75% entro 1%). In caso di contestazione, uno degli argomenti del Fisco potrebbe essere proprio la riqualificazione della spesa: ad esempio, un pranzo sostenuto durante un viaggio potrebbe essere considerato spesa di rappresentanza anziché di trasferta, se risultasse che vi hanno partecipato principalmente potenziali clienti e non fosse legato a un incarico specifico. In tal caso si applicherebbe il limite più basso. Sarà onere del contribuente dimostrare, se del caso, che il pasto rientrava nell’ambito della trasferta per lavoro (es. cena tra colleghi in missione o con il cliente per discutere di quell’incarico, ecc.).
2. Spese di viaggio e trasporto: includono i costi di trasporto diversi dall’auto del professionista, ad esempio biglietti aerei, ferroviari, spese di taxi, noleggio di mezzi, pedaggi, carburante per altri mezzi, ecc. Per queste spese non è previsto un limite forfetario di deducibilità analogo al 75% – esse sono in linea di principio interamente deducibili se inerenti. Tuttavia, occorre attenersi strettamente al principio generale: il costo dev’essere necessario o utile allo svolgimento dell’attività lavorativa. Ad esempio, il biglietto aereo per partecipare a un congresso professionale all’estero sarà integralmente deducibile (quanto al costo principale del viaggio), ma se il professionista vi ha aggiunto una deviazione turistica a proprie spese, il relativo extracosto non è inerente. Anche per queste spese “vive” di viaggio è fondamentale la documentazione: la fattura o ricevuta intestata, il dettaglio del percorso (per i taxi conviene farsi rilasciare ricevuta con indicazione della tratta), e possibilmente l’evidenza dell’occasione lavorativa (invito al congresso, iscrizione all’evento, ecc.).
Una sottocategoria è rappresentata dai rimborsi chilometrici: se il professionista utilizza un mezzo di trasporto proprio (tipicamente l’automobile) per recarsi in trasferta e addebita al cliente un importo a titolo di “rimborso chilometrico” calcolato sulle tabelle ACI, tale importo fino al 2024 costituiva compenso imponibile per il professionista ed era deducibile nei limiti di un costo equivalente (in genere entro la percentuale auto, v. punto successivo). Dal 2025, analogamente a quanto detto per vitto e alloggio, i rimborsi analitici di viaggio/trasporto addebitati al committente non sono più tassati in capo al professionista (né quindi deducibile il relativo costo). Invece, se il rimborso è forfetario (es.: “trasferta €100” in fattura senza analitico), continua ad essere considerato compenso imponibile e non gode di esclusione: il professionista verrà tassato su quella somma forfetaria e potrà dedurre le spese effettive di viaggio nei limiti ordinari (75% per vitto/alloggio, 100% per trasporti, ecc., con il vincolo del 2% per vitto/alloggio). Dunque, conviene dal 2025 distinguere sempre in fattura le spese analitiche, per usufruire della nuova disciplina di esclusione dal reddito .
3. Spese e limiti per l’automobile*: le *auto utilizzate dal professionista per l’attività hanno un trattamento particolare, disciplinato dall’art. 164 TUIR. Poiché l’auto è un bene suscettibile di uso promiscuo (lavorativo e personale), la legge impone un forfettone di deducibilità: solo il 20% delle spese relative all’autovettura è deducibile dal reddito di lavoro autonomo . Inoltre, tale limite si applica ad un solo veicolo per ogni professionista (o, al massimo, a uno per ogni socio per gli studi associati): i costi di eventuali ulteriori autovetture non sono deducibili (salvo si provi l’uso esclusivo per l’attività, circostanza molto difficile). Le spese soggette a questo limite del 20% includono tutti i costi dell’auto: ammortamento (o canone di leasing/noleggio entro un tetto di valore), carburante, manutenzione, assicurazione, bollo, garage, pedaggi autostradali, ecc. Ad esempio, se un architetto ha un’auto di proprietà usata anche per lavoro e spende €5.000 l’anno tra carburante e altre spese auto, potrà dedurre solo €1.000 (20%). Questo limite prescinde dall’effettivo utilizzo per lavoro: è una presunzione legale che il restante 80% sia di uso personale. Attenzione: se il professionista deduce comunque il 100% delle spese auto sostenendo un uso esclusivo lavorativo (cosa ammessa solo teoricamente, in casi particolarissimi), dovrà essere in grado di provarlo in modo rigoroso. Nella pratica, dedurre l’80-100% delle spese auto è estremamente rischioso a meno di avere un’auto adibita unicamente ad uso professionale (ad es., un’auto col logo aziendale, tenuta in ufficio e non disponibile all’uso personale). La stragrande maggioranza dei professionisti si attiene infatti al forfettario 20% per evitare contestazioni automatiche .
Un caso particolare, su cui è intervenuta di recente la Cassazione, riguarda le associazioni professionali (studi associati) che rimborsano ai propri associati le spese di viaggio sostenute con l’auto personale. Secondo un orientamento innovativo espresso nell’ordinanza Corte di Cassazione n. 18364/2025, in tale situazione non si applica il limite forfettario del 20% (né del 40% previsto per le auto aziendali delle società) perché l’art. 164 TUIR, norma speciale sulle autovetture, si riferisce ai veicoli intestati al soggetto che deduce il costo e utilizzati in modo promiscuo . Se invece l’associato usa un mezzo proprio per esigenze strettamente professionali dell’associazione, le spese rimborsate dall’associazione rientrano nella regola generale di inerenza dell’art. 54 TUIR, senza il taglio forfetario . La Suprema Corte ha quindi affermato il principio che “in tema di redditi di impresa i costi di trasporto rimborsati dall’associazione professionale agli associati, ricorrendo la stretta strumentalità della spesa all’attività professionale propria dell’associazione, sono deducibili integralmente quando il trasporto è effettuato con il mezzo di proprietà del singolo associato” . In pratica, se uno studio associato documenta che un suo membro ha usato la propria auto per una trasferta di lavoro (ad es. andare presso un cliente fuori sede) e gli rimborsa le spese chilometriche, tale costo per lo studio è interamente deducibile, a condizione naturalmente che: (a) l’utilizzo del mezzo personale sia dimostrato e giustificato da effettive esigenze professionali; (b) la spesa sia debitamente documentata (calcolo chilometrico secondo tabelle ufficiali, relazione di viaggio, ecc.); (c) vi sia strumentalità diretta del viaggio all’attività professionale collettiva svolta dallo studio . Questo principio, favorevole ai contribuenti, ribalta l’impostazione seguita in precedenza da alcuni uffici (e anche da Commissioni tributarie), secondo cui si sarebbe dovuto comunque applicare il limite del 20-40%. Occorre tuttavia notare che si tratta di un caso specifico (studio associato con rimborso a fronte di trasferta inerente); nella prassi quotidiana del singolo professionista, l’auto propria resta soggetta al limite 20%, e l’eventuale rimborso chilometrico addebitato al cliente segue quanto detto al punto 2 (analitico escluso dal reddito dal 2025, forfetario imponibile). Dunque, prima di dedurre integralmente spese auto occorre valutare con estrema prudenza: il nuovo orientamento giurisprudenziale può essere invocato nei contenziosi mirati, ma non legittima un’automatica deduzione al 100% delle spese auto per tutti.
Tabella riepilogativa – Deducibilità delle principali spese di viaggio/vitto per i professionisti (situazione aggiornata 2025):
Tipologia di spesa | Deducibilità e limiti (fino al 2024) | Novità dal 2025 | Riferimenti normativi |
---|---|---|---|
Vitto e alloggio in trasferta (non addebitate al cliente) | 75% dell’importo, entro il 2% dei compensi annui del professionista | Invariato (75% entro 2%) | Art. 54 co.5 TUIR |
Vitto e alloggio addebitate analiticamente al cliente | Incluse nei compensi imponibili; deducibili 75% entro 2% (effetto neutro) | Escluse dal reddito del professionista; spesa non deducibile (effetto neutro), salvo eccezioni per mancato rimborso | Art. 54 co.2-bis / 54-ter TUIR (dal 2025) |
Rimborso spese forfetario dal cliente (importo globale) | Trattato interamente come compenso imponibile; spese deducibili nei limiti ordinari (75%, 2% ecc.) | Immutato: rimane imponibile (no esclusione); spese deducibili nei limiti ordinari (75%, 2%) | Art. 54 TUIR (nessuna deroga) |
Trasporto (mezzi pubblici, aerei, treni, taxi, noleggi) | 100% deducibile se inerente (nessun forfait), documentazione obbligatoria | Immutato: 100% deducibile se inerente; pagamenti tracciabili consigliati (obbligatori per esclusione rimborso) | Art. 54 TUIR (principio generale) |
Autovettura (bene di proprietà o leasing del professionista) | 20% dei costi deducibili, solo 1 veicolo per professione ; eventuale uso esclusivo da provare rigorosamente (deduzione maggiore solo in caso di prova) | Immutato: 20% dei costi; dal 2020 obbligo fatture elettroniche/registri carburante per documentare le spese auto. (Cass. 18364/2025: rimborso a associato fuori art.164) | Art. 164 co.1 lett. b) TUIR |
Rimborso chilometrico a dipendenti/collaboratori | 100% deducibile per l’impresa (limiti di tariffa ACI; per il percettore tassazione come reddito se > soglie) | Immutato: 100% deducibile (per il professionista con dipendenti, analogia regime impresa) | Art. 95 TUIR (per imprese), prassi ACI |
(Legenda: TUIR = D.P.R. 917/1986; le novità 2025 sono introdotte da D.Lgs. 192/2024 e L. 197/2022. I riferimenti al 75% e 2% per vitto/alloggio derivano dalla L. 244/2007 e succ. mod., recepite nell’art. 54 co.5 TUIR. I limiti auto sono in art. 164 TUIR come modificato dal D.L. 262/2006 e altre norme.)
Come si evince dalla tabella, il professionista deve porre particolare attenzione a rispettare i limiti quantitativi (75%, 2%, 20% ecc.) in fase di dichiarazione dei redditi. Molte contestazioni nascono infatti da “errori formali” di deduzione: ad esempio, deduzione dell’intero importo di una fattura alberghiera invece che del 75%, oppure deduzione di costi auto ben oltre il plafond consentito. Tali errori – ancorché commessi in buona fede – espongono inevitabilmente a recuperi d’imposta. In sede di difesa, questi aspetti sono di solito indifendibili, poiché il superamento delle soglie di legge è oggettivo. In questi casi l’obiettivo sarà semmai ridurre le sanzioni (vedi oltre) invocando l’attenuante dell’errore scusabile o la buona fede del contribuente, ma la maggiore imposta va versata. Diverso è invece il caso in cui la deduzione rispetta i limiti normativi ma viene contestata l’inerenza sostanziale: ad esempio, un viaggio dedotto al 75% ma che il Fisco ritiene non di lavoro. È su questo fronte – più sfumato – che si concentrano le argomentazioni difensive illustrate più avanti.
Prima di passare alle strategie di difesa, è utile capire quando e perché l’Amministrazione finanziaria tende a contestare le spese di viaggio dei professionisti. Conoscere le cause tipiche di contestazione permette infatti di prevenire le problematiche (adottando accorgimenti prima e durante la trasferta) e di preparare una linea difensiva mirata in caso di accertamento.
Cause frequenti di contestazione delle spese di viaggio
Perché il Fisco contesta le spese di viaggio dedotte? Le motivazioni possono essere varie, ma in genere riconducibili a poche macro-categorie. Di seguito elenchiamo le situazioni più comuni in cui l’Agenzia delle Entrate (o la Guardia di Finanza in sede di verifica) mette in dubbio la deducibilità delle trasferte di un professionista :
- Assenza di correlazione diretta con l’attività esercitata: se la spesa di viaggio non mostra un legame concreto con i servizi professionali prestati o con i ricavi dichiarati, viene considerata non inerente. Ad esempio, viaggi in località che nulla hanno a che vedere con il mercato o i clienti del professionista, o partecipazioni ad eventi non attinenti alla sua professione, faranno scattare la contestazione. L’Ufficio si chiede: “questa trasferta ha prodotto o può produrre ricavi/titolazioni per l’attività?” Se la risposta è negativa o non evidente, riterrà la spesa estranea all’attività.
- Spesa di natura personale o familiare mascherata da costo professionale: è il caso delle trasferte che sembrano vacanze o viaggi di piacere, magari spacciate per viaggi di lavoro. Se, ad esempio, un consulente deduce un soggiorno alle Maldive sostenendo di avervi “cercato clienti”, ma senza poter dimostrare appuntamenti o convegni in loco, il Fisco la considererà con ogni probabilità una vacanza personale. Ugualmente, l’inclusione di accompagnatori non lavorativi (es. coniuge, figli) nelle spese di viaggio del professionista è contestabile: i costi relativi ai familiari sono indeducibili, a meno che questi ultimi collaborino effettivamente all’attività e la loro presenza sia giustificata (circostanza rara e difficile da provare). In sintesi, tutte le volte che una spesa di trasferta appare avere una utilità privata (turismo, svago, compagnia familiare) più che professionale, l’Ufficio procederà a disconoscerla .
- Mancanza di giustificativi adeguati: la carenza documentale è un’altra causa frequente di ripresa a tassazione. Per dedurre le spese di viaggio non basta indicarle nei registri: servono pezze d’appoggio. Se durante un controllo il professionista non esibisce fatture, ricevute o altri documenti comprovanti il costo e la sua natura, la deduzione sarà negata per mancanza del requisito di certezza. Ad esempio, dedurre “€500 spese di viaggio” senza avere i relativi biglietti/receipts, o con scontrini non intestati, espone al recupero. Anche documenti irregolari (intestati ad altro soggetto, o non conformi) portano alla contestazione . Un caso tipico: ricevute alberghiere intestate al cliente invece che al professionista – se non si dimostra che si tratta di spese anticipate per conto del cliente (caso particolare), il Fisco non le ammette in deduzione in capo al professionista. Altra situazione: l’utilizzo di documenti fiscalmente non idonei per dedurre il costo, come ad esempio uno scontrino generico invece della fattura quando obbligatoria (dal 2019 le spese alberghiere/ristoranti sopra €77,47 richiedono fattura elettronica o documento commerciale “parlante”, pena indetraibilità IVA e problemi sulla deduzione). La regola aurea: nessuna documentazione, nessuna deduzione.
- Spese sproporzionate o anomale rispetto all’attività o ai ricavi: quando i costi di viaggio appaiono manifestamente eccessivi in rapporto alla dimensione del contribuente, scatta il sospetto di inerenza solo parziale o di utilizzo personale. Ad esempio, un piccolo professionista individuale con reddito annuo di €30.000 che deduce €25.000 di viaggi intercontinentali in un anno attirerà senz’altro l’attenzione del Fisco. La sproporzione fa ipotizzare che quei viaggi non fossero effettivamente tutti strumentali all’attività (o che vi sia compresa una componente privata significativa). Anche se – come detto – la legge non impone una correlazione quantitativa, l’antieconomicità può essere un indizio: spese che erodono la quasi totalità dei ricavi destano perplessità sull’effettiva esigenza imprenditoriale delle stesse . In questi casi l’onere di spiegare perché si è speso tanto per viaggiare ricade sul contribuente, altrimenti l’Ufficio tenderà a disconoscere almeno parte dei costi per difetto di inerenza (magari ritenendoli “eccessi” non necessari o quote riferite a svago).
- Natura incoerente con l’attività dichiarata: se la spesa di trasferta è relativa ad un’attività diversa da quella esercitata dal contribuente secondo l’oggetto dichiarato, viene considerata non inerente. Ad esempio, un medico che deduce spese di viaggio per fiere di arte contemporanea, oppure un avvocato che deduce i costi per corsi di cucina all’estero: queste spese, anche se documentate, risultano estranee all’ambito professionale del soggetto e quindi indeducibili. Il Fisco confronta l’oggetto professionale dichiarato (codice ATECO, albo di appartenenza, ecc.) con la natura dell’evento o luogo di destinazione del viaggio: se non c’è coerenza (medico – fiera d’arte), scatta la contestazione per mancanza di attinenza all’attività . Ovviamente possono esservi situazioni borderline (es. un avvocato appassionato d’arte che però assiste gallerie d’arte come clienti potrebbe avere un motivo professionale per la fiera; ma dovrà provarlo, magari documentando incontri d’affari lì). In generale, le spese devono essere congruenti con la sfera professionale dichiarata.
- Superamento dei limiti di deducibilità legali: come già evidenziato, se il contribuente deduce importi eccedenti i limiti fiscali (oltre il 75% o oltre il tetto del 2% compensi per vitto/alloggio, oltre il 20% per auto, oltre l’1% per rappresentanza, ecc.), la parte eccedente è indeducibile ex lege. In sede di verifica, l’Ufficio ricalcola i costi deducibili applicando i limiti normativi e contesta la differenza come costo indebito. Questa contestazione è “meccanica” e non lascia spazio a giustificazioni: la norma è chiara e non interpretabile. Tali rilievi spesso emergono dai controlli formali o automatizzati sulle dichiarazioni (incrocio di dati, percentuali calcolate), ancor prima che da una verifica sostanziale in loco. Esempio: se dal quadro RE del modello Redditi di un professionista risulta un ammontare di spese alberghiere che eccede il 2% dei compensi, è probabile che arrivi una comunicazione o un accertamento per quella quota in eccesso. Analogamente, la deduzione di costi auto oltre i limiti (es. deduzione di €5.000 dove il 20% di spesa documentata era €1.000) verrà ripresa. Pertanto, spesso il contribuente sa già di aver “sforato” al momento in cui riceve l’avviso. Come detto, su questo fronte c’è poco da discutere nel merito, salvo eventualmente opporsi sulle sanzioni.
Riassumendo, le contestazioni sulle spese di viaggio nascono principalmente dal dubbio (o evidenza) che tali spese non siano effettivamente legate all’attività lavorativa, oppure dal mancato rispetto di prescrizioni formali (documenti, limiti quantitativi). Il concetto di inerenza è dunque il fulcro: l’Agenzia delle Entrate presume la non inerenza quando vede spese anomale, non giustificate o non documentate; il contribuente dovrà contrastare tale presunzione con elementi concreti. Nel prossimo capitolo vedremo quali sono le conseguenze di una contestazione formale (in termini di imposte e sanzioni) e successivamente passeremo alle possibili strategie difensive da adottare, sia in sede amministrativa che contenziosa, per tutelare i propri diritti.
Conseguenze del disconoscimento delle spese: imposte, sanzioni e rischi
Quando, a seguito di controllo, viene accertata un’“errata deduzione” di spese di viaggio (ossia costi indebitamente portati in diminuzione del reddito), l’Amministrazione emette un avviso di accertamento rettificando il reddito imponibile del professionista. Le conseguenze immediate per il contribuente sono le seguenti :
- Recupero delle imposte dirette (IRPEF o IRES) sui costi dichiarati indeducibili: il reddito imponibile viene aumentato dell’importo della spesa non ammessa in deduzione, con ricalcolo dell’imposta dovuta. Ad esempio, se un professionista ha dedotto €10.000 di spese poi disconosciute, il suo reddito imponibile aumenta di €10.000 e su tale somma gli verrà applicata l’aliquota IRPEF marginale (ipotizziamo 43% per un reddito alto) più addizionali, generando un maggiore tributo. Per le associazioni tra professionisti (che producono reddito “d’impresa” per trasparenza) si recupera l’IRES/IRPEF sui soci per la quota di reddito in più.
- Recupero dell’IVA detraibile relativa (se pertinente): qualora le spese contestate fossero state anche oggetto di detrazione IVA – ipotesi tipica per le imprese, mentre per i professionisti l’IVA su vitto e alloggio era indetraibile fino al 2008, poi resa detraibile con limiti – l’ufficio provvede a rideterminare il credito IVA. Ad esempio, se un’impresa ha detratto l’IVA su fatture di viaggio ritenute non inerenti, quell’IVA diviene indebitamente detratta e viene richiesta a rimborso (con sanzione specifica del 90% se non erro). Nel caso di un professionista in regime forfettario (dove non c’è detrazione IVA) questo aspetto non si pone, mentre in regime ordinario potrebbe porsi per alcune spese (es. IVA hotel/ristorante detraibile al 100% dal 2008 se inerente).
- Sanzioni amministrative per dichiarazione infedele o indebita deduzione di costi: la violazione contestata in questi casi è normalmente quella di dichiarazione infedele, disciplinata dall’art. 1, comma 2 D.Lgs. 471/1997, che prevede una sanzione dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta. Se la contestazione riguarda costi molto elevati, superando determinate soglie, può configurarsi anche l’ipotesi di sanzione per “elementi passivi fittizi” ex art. 1, comma 4, con misura ancora più alta (dal 135% al 270%). In pratica, l’ufficio di solito applica una sanzione pari al 90% dell’imposta non versata a causa della deduzione indebita , salvo aumentarla in caso di particolare gravità o recidiva. Ad esempio, se il recupero IRPEF è €4.000, la sanzione base sarà €3.600 (90%). Vi sono però possibilità di riduzione: se il contribuente definisce l’accertamento per adesione o acquiescenza, la sanzione è ridotta a 1/3 (quindi diventerebbe 30% dell’imposta) . Inoltre, con la definizione agevolata delle sanzioni prevista in alcuni periodi (es. art. 15 D.Lgs. 218/97, condono sanzioni, ecc.), si possono ottenere sconti ulteriori. Nel contenzioso, il giudice può anche disporre la riduzione della sanzione se la ritiene manifestaente sproporzionata.
- Interessi di mora: sulle maggiori imposte richieste decorrono gli interessi al tasso legale (o al tasso maggiorato previsto per il ritardo, attualmente circa il 4% annuo) dal giorno in cui l’imposta avrebbe dovuto essere versata (quindi dalla data del saldo IRPEF dell’anno in questione) fino al pagamento . Gli interessi possono, su diversi anni, diventare un importo non trascurabile, ma non sono sanzionatori bensì corrispettivi del ritardo. Non è possibile ottenere sconti sugli interessi in adesione (vanno sempre pagati per intero).
- Iscrizione a ruolo e riscossione coattiva: se il contribuente non paga spontaneamente quanto accertato (o non impugna l’atto), dopo 60 giorni l’accertamento diventa definitivo ed esecutivo . L’Agenzia può quindi iscrivere le somme a ruolo e affidarle all’Agente della Riscossione (es. Agenzia Entrate Riscossione) per l’incasso forzoso . In pratica, ci si può vedere notificare una cartella di pagamento; trascorsi 180 giorni dall’accertamento esecutivo, l’agente può attivare misure cautelari (fermo auto, ipoteca) o esecutive (pignoramenti) salvo che sia intervenuta sospensione dal giudice. Tuttavia, se il contribuente presenta ricorso entro 60 giorni, la riscossione è parzialmente sospesa per legge: deve versare, entro lo stesso termine di 60 giorni, un importo pari a 1/3 delle imposte accertate (senza sanzioni) a titolo provvisorio . Gli altri 2/3 restano sospesi fino all’esito di primo grado . Se poi il contribuente risulta vincitore in giudizio, gli importi provvisori versati gli verranno restituiti con interessi; se invece perde, dovrà versare il restante con ulteriori interessi (e se vuole appellare, versa ancora un importo fino a 2/3 del totale prima del secondo grado) . In alternativa, può chiedere al giudice tributario la sospensione totale dell’atto impugnato presentando apposita istanza cautelare (da concedersi solo se vi sono gravi e fondati motivi, e pericolo di danno grave) .
- Controlli a catena su altre annualità o voci: un accertamento che individua costi indeducibili può indurre l’ufficio ad ampliare l’orizzonte della verifica. Ad esempio, se vengono contestate spese di viaggio non inerenti per l’anno X, è probabile che l’Agenzia estenda il controllo anche agli anni successivi o precedenti per verificare se analoghe spese siano state dedotte e, in caso affermativo, emetterà accertamenti pluriennali . Inoltre, la scoperta di una significativa quota di costi privati in azienda/professione può portare i verificatori a esaminare anche altre poste di bilancio/dichiarazione con un occhio critico (es. altre spese di rappresentanza, compensi a familiari, ecc., come elenco al paragrafo introduttivo). Insomma, una contestazione su spese di viaggio potrebbe innescare un’analisi fiscale più ampia.
- Rischio penale: nell’ipotesi in cui i costi indebitamente dedotti siano di ammontare molto elevato, tanto da far superare le soglie di punibilità previste dal D.Lgs. 74/2000, il caso può assumere rilievo penale. In particolare, il reato di dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000) scatta se l’imposta evasa supera €100.000 e gli elementi sottratti a tassazione superano il 10% del reddito dichiarato o comunque €2 milioni . Ad esempio, se un professionista ha dichiarato €50.000 di reddito ma ha dedotto €300.000 di costi fittizi (riducendo drasticamente l’imponibile), l’imposta evasa potrebbe superare i 100mila euro e configurare il reato. In tal caso, oltre all’accertamento fiscale, verrebbe aperto un procedimento penale a carico del contribuente, con le relative indagini (sequestro documenti, etc.). Va detto che dedurre spese non inerenti rientra nella condotta di indicazione di elementi passivi fittizi (ove si provi la consapevolezza dell’indebita deduzione), punita con la reclusione da 2 a 4 anni (se sopra soglia) . Tuttavia, molti casi di contestazioni su trasferte non raggiungono importi così ingenti; spesso si tratta di qualche migliaio di euro di imposta. In tali situazioni il penale non è applicabile (sotto soglia) ma rimane solo la sanzione amministrativa. In ogni caso, è importante sapere che un abuso massivo e volontario delle deduzioni può avere anche conseguenze penali, e dunque agire con prudenza.
Riassumendo: il disconoscimento di spese di viaggio comporta sempre un danno economico (imposte + interessi + sanzioni) e talvolta rischi giuridici più gravi (azione esecutiva, segnalazione penale). Ecco perché è fondamentale prevenire tali situazioni e, se si verificano, impostare immediatamente una strategia difensiva adeguata. Nel prossimo capitolo affronteremo proprio le possibili linee di difesa del contribuente, esaminando come muoversi prima (in sede di verifica o accertamento) e dopo la notifica di un atto impositivo, quali strumenti procedimentali utilizzare e quali argomentazioni far valere per tutelare i propri diritti.
Come difendersi: strategie e strumenti a favore del contribuente
Di fronte ad una contestazione fiscale per errata deduzione di spese di viaggio, il professionista-contribuente non è privo di tutele. Esistono sia strumenti preventivi (da attuare durante la fase di controllo o pre-contenziosa) sia rimedi giudiziali (ricorsi alle Corti di Giustizia Tributaria) per far valere le proprie ragioni. In questa sezione analizzeremo passo passo le strategie difensive più efficaci, dal momento della verifica fiscale fino all’eventuale giudizio in Cassazione, tenendo conto anche delle novità normative e processuali. L’obiettivo è ridurre o annullare gli esiti dell’accertamento dimostrando la legittimità delle deduzioni operate o, in subordine, ottenendo una mitigazione delle sanzioni.
1. Collaborazione e preparazione durante la verifica fiscale: spesso le contestazioni nascono già nella fase di controllo/in verifica (accesso della Guardia di Finanza o questionari inviati dall’Agenzia). In questa fase preventiva, il contribuente dovrebbe adottare un approccio collaborativo e trasparente: fornire subito le spiegazioni e i documenti giustificativi delle trasferte, in modo da convincere i verificatori della loro inerenza. Ad esempio, se durante un controllo vengono chiesti dettagli su una trasferta, è opportuno consegnare contratti, lettere d’incarico, brochure dell’evento, email di convocazione a meeting, e qualsiasi altro elemento che provi la natura lavorativa del viaggio. Tale cooperazione può talvolta evitare la contestazione o limitarne l’entità. È bene anche tenere ordinata la contabilità di studio: le fatture di spese di viaggio dovrebbero essere registrate con una descrizione che ne indichi la causale (es. “Trasferta Roma – udienza Tribunale XYZ – marzo 2025”), in modo che già dalla contabilità emerga il nesso con l’attività. Se il professionista intuisce che una certa spesa può sembrare anomala (ad es. viaggio lungo con pochi riscontri), può predisporre una breve relazione di trasferta da tenere agli atti, in cui descrive cosa ha fatto in quel viaggio e con chi ha interagito. Questo documento non è formalmente richiesto dalla legge, ma in caso di domanda dei verificatori “cosa ha prodotto questo viaggio?” è utile poter esibire un diario di viaggio o rapporto interno che illustri i contatti avviati o le attività svolte . In generale, mostrarsi preparati e documentati durante la verifica può far sì che l’ispettore riconosca la buona fede e la sostanza delle spese, modulando di conseguenza il verbale finale.
2. Accertamento con adesione: una volta notificato l’avviso di accertamento, prima di passare al ricorso è spesso consigliabile valutare l’istanza di adesione (D.Lgs. 218/1997). L’accertamento con adesione è una procedura di natura negoziale: il contribuente, entro 60 giorni dalla notifica dell’atto, può presentare un’istanza all’Ufficio accertatore chiedendo un incontro per discutere la rettifica . La presentazione dell’istanza sospende i termini per fare ricorso per 90 giorni , dando tempo alle parti di dialogare. In sede di adesione, il contribuente (spesso assistito dal proprio difensore tributario) espone le proprie ragioni e può produrre documentazione integrativa non magari esibita prima , cita eventualmente sentenze favorevoli (anche di Cassazione) su casi analoghi , e cerca di convincere l’Ufficio a rivedere (in tutto o in parte) la pretesa. Da parte sua, l’Ufficio può formulare una proposta di conciliazione, ad esempio riconoscendo una percentuale dei costi come deducibili e quindi riducendo il maggior reddito accertato . Nel contesto delle spese di viaggio, attraverso l’adesione si potrebbe arrivare a un “compromesso” del tipo: il 50% delle spese contestate viene riconosciuto inerente (quindi ammesso in deduzione), l’altro 50% rimane indeducibile; conseguentemente si ricalcolano imposte e sanzioni solo sulla parte non ammessa. Oppure l’Ufficio potrebbe accettare l’inerenza ma ravvisare comunque un’irregolarità formale, sanzionandola in modo mite. Ogni caso è a sé, ma dimostrando proattivamente buona fede e fornendo prove concrete, non di rado si ottiene un esito transattivo migliorativo. Il vantaggio dell’adesione è anche sanzionatorio: la sanzione si riduce automaticamente ad 1/3 di quella iniziale . Se ad esempio in accertamento c’era il 90%, con l’adesione scende al 30%. Inoltre, si evita il rischio e il costo di un processo. Lo svantaggio è ovviamente che bisogna rinunciare parzialmente alle proprie pretese, accettando un accordo. Ma se le chance di vittoria totale in giudizio sono scarse (per documentazione lacunosa, ecc.), può essere saggio limitare i danni con un’adesione. Esempio pratico: poniamo che siano stati contestati €10.000 di spese viaggio e che il contribuente, carte alla mano, riesca a convincere che almeno metà erano effettivamente di lavoro. In adesione l’Ufficio potrebbe accettare di tassare solo €5.000 invece di €10.000, con sanzione ridotta al 30%. L’esborso finale sarebbe molto minore rispetto all’accertamento originario, e si chiuderebbe la vertenza bonariamente. L’adesione si perfeziona con il pagamento (anche rateale in 8 rate trimestrali) delle somme concordate. Se la trattativa non produce un accordo soddisfacente, il contribuente può decidere di non aderire e presentare il ricorso (i 60 giorni ripartono dal termine dei 90 giorni di sospensione). Le dichiarazioni rese in sede di adesione non potranno essere utilizzate contro di lui in giudizio, trattandosi di tentativo di conciliazione. Quindi tentare l’adesione non pregiudica il successivo ricorso, se non si conclude.
3. Reclamo e mediazione tributaria: qualora il valore della controversia (inteso come importo di imposte + interessi + sanzioni contestati) non superi €50.000, il contribuente che intende proporre ricorso deve attivare la procedura di reclamo/mediazione obbligatoria (art. 17-bis D.Lgs. 546/92). In pratica, il ricorso introduttivo che si deposita presso la Commissione – ora Corte di Giustizia Tributaria – vale anche come istanza di reclamo rivolta all’Ufficio, il quale ha 90 giorni per valutare una mediazione. Questa è simile all’adesione, ma semplificata e svolta dopo l’emissione del ricorso (quindi si passa direttamente agli atti difensivi senza richiesta separata). L’ufficio, se lo ritiene, può accogliere parzialmente il reclamo riducendo la pretesa (si formalizza con un accordo di mediazione), anche qui con sanzioni ridotte al 35% del minimo. Se entro 90 giorni non c’è accordo, il procedimento prosegue in Commissione come ricorso. Nel caso delle spese di viaggio, dati normalmente gli importi non altissimi coinvolti, molte liti rientrano sotto la soglia dei 50 mila. È quindi una chance in più di chiudere la vicenda senza processo o con una definizione agevolata. Durante la fase di mediazione è utile inviare all’ufficio tutte le memorie difensive dettagliate (magari corredate di documenti) per convincerlo a desistere in parte. Spesso, se il contribuente appare determinato e con buone argomentazioni, l’ufficio preferisce evitare i costi di un contenzioso e propone una mediazione (che può coincidere anche con il semplice annullamento parziale dell’atto). Ad esempio, su €10.000 di costi contestati potrebbe spontaneamente annullarne €4.000 se emergono prove di inerenza, e sanzionare solo il resto con il minimo. Il contribuente può accettare e pace. In mancanza di intesa, come detto, si andrà in giudizio.
4. Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (primo grado, ex CTP): se la fase precontenziosa non risolve, o se si decide di saltarla (nei casi >50k in cui l’adesione non è obbligatoria), l’unica via è presentare ricorso al giudice tributario. La Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (CGT I grado, ex Commissione Tributaria Provinciale) è l’organo competente a giudicare sulla legittimità dell’accertamento. Il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso di accertamento (salvo sospensioni per adesione/mediazione) . Nel ricorso il contribuente deve indicare i motivi per cui ritiene illegittima la pretesa fiscale e formulare le proprie conclusioni (annullamento totale o parziale dell’atto). È fondamentale, nel caso di spese di viaggio contestate, impostare i motivi su più fronti:
- Motivi di merito (inerenza delle spese): andrà argomentato, punto per punto, che le spese disconosciute erano invece inerenti all’attività. Questo significa spiegare il perché di ogni trasferta: ad esempio, “la trasferta a Milano del 10/10/2023 era per incontrare il cliente X e definire il progetto Y, come da email allegate; le spese di €… sono quindi necessarie e deducibili”. Oppure: “il convegno Z a cui il professionista ha partecipato a Roma il 5/5/2024 era strettamente attinente alla sua attività (tema: aggiornamenti normativi in materia fiscale), come da brochure allegata; pertanto viaggio e hotel sono inerenti”. A supporto si possono citare pronunce giurisprudenziali in cui simili spese sono state riconosciute deducibili, ad esempio sentenze di merito o di Cassazione che abbiano affermato che la partecipazione a fiere/convegni è inerente se nel settore del contribuente, etc. .
- Motivi di merito (prova e documentazione): occorre contestare l’affermazione dell’Ufficio secondo cui il contribuente non avrebbe fornito prove. Nel ricorso si possono allegare tutti i documenti non precedentemente esibiti (la fase processuale consente di integrare le prove, preferibilmente già col ricorso o comunque entro i termini istruttori di primo grado). Qui il contribuente deve “mettere sul tavolo” tutto: contratti, ricevute, fotografie, report, biglietti da visita di persone incontrate, post/email che menzionano la trasferta, etc. Più evidenze si portano, più cresce la credibilità della deduzione. Nota bene: dal 2023, con la riforma del processo tributario, è ammessa (in casi selezionati) anche la testimonianza scritta di terzi . Questo è un elemento di novità importante: ad esempio, se un collega o un cliente può testimoniare che era insieme al professionista in quella trasferta per motivi di lavoro, oggi è possibile introdurre una sua dichiarazione giurata come prova (cosa che prima era vietata). Il giudice tributario può ammettere la testimonianza in forma scritta se la ritiene decisiva . Ovviamente va usata con cautela, ma in difese difficili potrebbe essere risolutiva – ad esempio, far attestare al cliente che ha effettivamente incontrato il professionista durante quel viaggio per discutere affari. Nel ricorso si può già indicare l’istanza di ammissione di testimonianza, specificando i punti su cui il teste dovrebbe deporre. Si tratta di uno strumento avanzato che denota un approccio difensivo proattivo.
- Motivi di diritto (vizi dell’atto): oltre al merito, conviene sempre esaminare se l’accertamento presenti vizi formali o procedurali. Ad esempio: difetto di motivazione (l’atto non spiega adeguatamente le ragioni del disconoscimento), violazione del contraddittorio (se era obbligatorio un invito al contraddittorio preventivo e non è stato fatto, come in certe verifiche per cui vige l’art. 5-ter D.Lgs. 218/97), errore di calcolo nei recuperi, mancata applicazione di esimenti (magari il contribuente aveva aderito a un condono per quelle spese), ecc. Un vizio formale ben individuato può portare all’annullamento integrale dell’accertamento prescindendo dal merito. Non sono frequenti, ma vanno sempre verificati. Ad esempio, se l’atto non distingue quali spese specifiche sono contestate limitandosi a dire “si disconoscono €20.000 per viaggi non inerenti” senza indicare quali, si può eccepire indeterminatezza e carenza di motivazione. Oppure, se il pvc della Guardia di Finanza non è stato allegato all’accertamento, talvolta è un vizio (mancata allegazione di atto richiamato). Queste eccezioni procedurali vanno sollevate subito in primo grado, altrimenti sono precluse. Non sempre portano all’annullamento, ma possono essere fattori di pressione (l’Ufficio potrebbe preferire conciliare se vede rischi di nullità).
Nel ricorso vanno poi formulate le conclusioni, chiedendo in via principale l’annullamento totale dell’atto (se si ritiene tutte le spese deducibili) o anche in subordine l’annullamento parziale (ad esempio limitatamente a una quota di spese, o almeno delle sanzioni se si invoca la non punibilità per incertezza normativa). Si può infatti chiedere, subordinatamente, la disapplicazione delle sanzioni (ex art. 6 comma 2 D.Lgs. 472/97) qualora si possa sostenere che il contribuente abbia commesso l’errore in buona fede per via di obiettive condizioni d’incertezza sulla portata della norma. Nel campo delle trasferte, ad esempio, la complessità delle regole (75%, 2%, cambi normativi nel 2017 e 2025) potrebbe giustificare una certa confusione; oppure la nozione di inerenza stessa, essendo giuridicamente non cristallina, può essere oggetto di interpretazioni differenti. Se si convincono i giudici che il professionista riteneva in buona fede di poter dedurre quelle spese secondo un’interpretazione plausibile, essi potrebbero annullare le sanzioni anche mantenendo il recupero d’imposta. Questo non esime dal pagare le imposte dovute, ma evita almeno la penalizzazione pecuniaria.
Il giudizio di primo grado in Commissione (CGT) si svolge secondo regole miste scritte/orali. Dopo il deposito del ricorso, l’ufficio deposita controdeduzioni (memoria di risposta) e può anch’esso produrre documenti. Il contribuente può a sua volta depositare memorie aggiuntive e repliche. Tutte le prove documentali devono preferibilmente essere prodotte entro la prima udienza. Il processo tributario, pur essendo formalmente “documentale”, consente ora come detto anche la prova testimoniale scritta, su autorizzazione del giudice (da richiedere tempestivamente). In udienza, le parti (o i loro difensori) discutono brevemente; poi i giudici si riuniscono e emettono la sentenza. È bene sapere che, se ci si è dimenticati di depositare qualche documento importante in primo grado, in appello non sarà più possibile produrlo, salvo casi eccezionali (nuove prove sono ammesse solo se la parte dimostra di non aver potuto produrle prima per causa a sé non imputabile) . Quindi la fase di primo grado è cruciale per “mettere dentro” tutto il materiale probatorio.
5. Conciliazione giudiziale: durante la pendenza del processo, esiste un’ulteriore opportunità di accordo: la conciliazione in udienza (art. 48 D.Lgs. 546/92). In qualsiasi stato e grado di giudizio le parti possono conciliare parzialmente o totalmente la lite. In primo grado, se il contribuente e l’ufficio trovano un accordo (ad esempio il contribuente propone di rinunciare al 30% delle spese in cambio dell’abbandono delle sanzioni), ciò viene formalizzato davanti al collegio e la controversia si chiude lì. Il vantaggio è che la sanzione viene ridotta al 40% del minimo (in primo grado) o al 50% se la conciliazione avviene in appello. Quindi è leggermente meno conveniente dell’adesione (che è 1/3 = ~33%), ma comunque favorevole. Spesso, dopo aver scambiato memorie, le parti si rendono conto di quali sono i punti deboli e forti, e possono avvicinarsi a una posizione intermedia. Ad esempio, se dai documenti prodotti emerge chiaro che su 5 viaggi 3 erano di lavoro e 2 no, ha senso conciliare riconoscendo i 3 e confermando i 2 contestati, invece di attendere la sentenza. La conciliazione può essere proposta dal contribuente nella memoria, o dall’ufficio, o sollecitata dagli stessi giudici in udienza. Qualora invece non si concili e si arrivi a sentenza, questa deciderà chi ha ragione e in che misura.
6. Appello (CGT di secondo grado, ex CTR): se la sentenza di primo grado non è favorevole (o è solo parzialmente favorevole) al contribuente, questi può appellarla presso la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (già Commissione Regionale). L’appello va proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado. Nel giudizio di appello non si possono introdurre nuovi documenti o nuovi motivi di ricorso, a meno che non si tratti di prove sopravvenute o non conoscibili prima . In pratica, la partita in appello si gioca sugli atti già prodotti e sulle eventuali lacune o errori logici/giuridici della sentenza impugnata. In ambito di spese di viaggio, l’appello potrebbe riguardare questioni di diritto (es.: il giudice di primo grado ha male interpretato il concetto di inerenza, oppure non ha applicato una certa norma di legge) oppure valutazioni di fatto (es.: il giudice non ha considerato un documento che invece era agli atti e provava l’inerenza). Si deve specificare nell’atto di appello in cosa la sentenza di primo grado sarebbe errata. Ad esempio: “il giudice ha ritenuto non provato l’incontro di lavoro a Bologna, ma ha omesso di valutare la mail del cliente allegata che invece lo confermava (error in iudicando e vizio di motivazione)”. Oppure: “la sentenza ha erroneamente applicato il limite del 2% anche alle spese di viaggio e trasporto, confondendo la norma (error in iuris)”. L’appello è un procedimento prevalentemente scritto e la decisione di secondo grado sostituirà integralmente quella di primo. Dopo la sentenza di appello, le somme in essa stabilite divengono esecutive (se il contribuente perde, dovrà pagare, salvo eventualmente chiedere una sospensiva in Cassazione, cosa rara). In appello è sempre possibile accordarsi con conciliazione (riduzione sanzioni 50%). Se anche l’esito del secondo grado è sfavorevole, rimane solo la Cassazione.
7. Ricorso per Cassazione: può essere proposto entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di secondo grado. La Cassazione giudica solo su questioni di diritto, non rivaluta i fatti. Quindi, in materia di spese di viaggio, la Cassazione potrebbe intervenire se ci sono principi di diritto da chiarire – ad esempio la corretta interpretazione dell’art. 54 TUIR, o la portata dell’art. 164 TUIR nel caso di rimborsi a terzi (come è avvenuto nel 2025), o ancora il corretto riparto dell’onere della prova sull’inerenza. Non invece può ribaltare una valutazione di merito del giudice di appello su “quel viaggio non era di lavoro”, a meno che il giudice non abbia commesso un vizio di motivazione gravissimo (omesso esame di un fatto decisivo, motivazione illogica manifesta). La Cassazione è una strada da intraprendere solo se ci sono solide ragioni giuridiche: nel ricorso per Cassazione vanno individuati specifici “motivi di impugnazione” come violazione di legge o nullità della sentenza. Ad esempio, la Cassazione potrebbe essere adita perché il giudice di appello ha negato la deducibilità applicando male una norma (violazione di legge) o perché ha ignorato del tutto una prova cruciale (vizio motivazionale). Occorre l’assistenza di un avvocato cassazionista. Il procedimento dura in media diversi anni e non sospende la riscossione (salvo casi eccezionali). Se la Cassazione accoglie il ricorso, può decidere la causa nel merito (raramente, se non servono ulteriori accertamenti) oppure rinviare ad altra CGT di secondo grado per un nuovo esame coerente coi principi enunciati. Esempio di intervento in Cassazione: nell’ordinanza 21903/2015 citata in precedenza, la Cassazione confermò l’indeducibilità di spese di viaggio perché la contribuente non aveva fornito alcuna prova della loro funzionalità all’attività, né di aver avuto incontri d’affari in quelle occasioni . In tal modo ribadì che l’onere probatorio è determinante: se non si danno spiegazioni convincenti, si perde. Viceversa, in altre pronunce la Cassazione ha dato ragione al contribuente quando questi aveva prodotto documentazione di fiere estere e incontri professionali collegati ai viaggi, riconoscendo la deducibilità (entro i limiti normativi) . Questo per dire che le massime di legittimità disponibili possono essere invocate nella nostra difesa sin dai gradi precedenti: citare una Cassazione favorevole (se abbiamo un caso simile) può orientare già il giudice di primo grado. D’altro canto, le Cassazioni sfavorevoli indicano a cosa fare attenzione (ad es., se Cassazione dice che senza prove si perde, sappiamo che senza documenti è inutile spingersi fino a Roma).
Punti fermi della strategia difensiva: in base a quanto sopra, possiamo riassumere alcuni cardini difensivi generali che il contribuente (e il suo difensore) dovrebbero seguire di fronte a contestazioni su spese di viaggio :
- Dimostrare la connessione tra spesa e attività: questo è il fulcro. Ogni spesa contestata deve essere collegata a un’attività lavorativa concreta. Occorre presentare contratti, incarichi, ordini del giorno, biglietti di ingresso, relazioni di missione, corrispondenze email e qualsiasi altro documento atto a dimostrare che quel viaggio aveva uno scopo di lavoro ed è servito all’attività professionale . Se manca la documentazione ufficiale, anche elementi indiretti (foto a un convegno, articoli di giornale sull’evento a cui si è partecipato, ecc.) possono aiutare. Nei casi dubbi, eventuali dichiarazioni testimoniali di colleghi o clienti presenti possono colmare i gap.
- Provare l’utilizzo aziendale delle spese sostenute: ad esempio, se si tratta di beni/servizi acquistati in viaggio (materiale, abbonamenti, ecc.), mostrare che sono stati effettivamente usati nell’attività. Nel caso di beni tangibili acquistati durante il viaggio (es. un libro specialistico comprato a una fiera, o un software preso all’estero), converrà indicarli nell’inventario beni, ecc. Se invece parliamo di un servizio (come un corso di formazione), esibire l’attestato di partecipazione. Tutto ciò rinforza la tesi che la spesa non è stata uno spreco personale ma un investimento professionale .
- Contestare le interpretazioni troppo restrittive del Fisco: se l’Ufficio adotta una visione “miope” dell’inerenza, ad esempio sostenendo che solo le spese direttamente produttive di ricavi immediati sarebbero deducibili, bisogna richiamare la giurisprudenza che smentisce tale impostazione. Si può citare la Cassazione che definisce l’inerenza in senso ampio (anche proiezione futura) , oppure sentenze di merito in cui sono state riconosciute deducibili spese di viaggio sostenute per esplorare nuovi mercati, ecc. L’obiettivo è far capire al giudicante che inerenza ≠ utilità monetaria immediata, e che il professionista ha diritto di dedurre costi anche solo potenzialmente utili al business, purché genuinamente connessi.
- Evidenziare eventuali vizi dell’accertamento: come detto, non trascurare mai l’aspetto formale. Se l’atto è lacunoso nella motivazione o ha errori procedurali, enfatizzarlo: ad esempio “l’Ufficio non ha considerato i documenti che pure erano stati forniti in sede di contraddittorio, violando l’art. 7 Statuto del Contribuente” (che impone di tener conto delle memorie difensive). Oppure: “manca la valutazione sulla proporzionalità della spesa, l’accertamento è quindi immotivato sotto questo profilo”. Anche errori di calcolo vanno segnalati (es.: l’importo contestato è stato conteggiato due volte, o è stata applicata la percentuale errata del 100% invece del 75%). Questi dettagli possono portare almeno a una parziale vittoria (annullamento pro quota).
- Difendersi attivamente in giudizio: significa non limitarsi a presentare il ricorso e aspettare, ma depositare memorie aggiuntive se necessario, replicare alle controdeduzioni dell’ufficio, chiedere eventualmente di essere sentiti (il contribuente stesso può rendere dichiarazioni spontanee in aula, che non sono prova ma possono chiarire i fatti). Chiarezza e credibilità sono importanti: presentare tesi coerenti supportate da prove, evitare di fare affermazioni non dimostrate. Ad esempio, se l’ufficio afferma “era un viaggio di piacere” e il contribuente sostiene “no, era per lavoro”, ma non ha alcuna prova, è poco efficace. Meglio ammettere l’eventuale quota personale (es.: “sì, ho approfittato del weekend per fare un giorno di vacanza, e infatti quella notte extra d’albergo non l’ho dedotta”) e difendere strenuamente la parte veramente lavorativa. Questo approccio onesto spesso paga in termini di credibilità agli occhi del giudice.
- Coinvolgere un difensore esperto: il ruolo di un avvocato tributarista o di un commercialista esperto in contenzioso è spesso decisivo . Il difensore saprà impostare correttamente il ricorso, citare la normativa e la giurisprudenza più aggiornata, e difendere in udienza adeguatamente. Inoltre può aiutare a negoziare con l’ufficio soluzioni come l’adesione o la conciliazione, tutelando il contribuente da errori procedurali (ad esempio, rispettare i termini, formulare correttamente le istanze, ecc.). Dato che le somme in gioco possono essere rilevanti e che la materia è tecnica, affidarsi a un professionista specializzato è fortemente raccomandato per avere maggiori chance di successo .
Applicando queste linee guida, il contribuente può aspirare a ottenere risultati positivi: dall’annullamento totale o parziale della contestazione, al riconoscimento della deducibilità delle spese effettivamente inerenti, fino magari all’eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti . Non sempre sarà possibile vincere al 100%, ma una difesa ben orchestrata può quantomeno ridurre sensibilmente gli oneri derivanti dall’accertamento, garantendo che si paghi solo il giusto previsto per legge e non di più . Nel prossimo paragrafo passeremo a una modalità di esposizione “pratica”: alcune Domande e Risposte frequenti sull’argomento, per chiarire dubbi specifici, e a seguire proporremo esempi concreti di casi risolti, con numeri, per dare un’idea tangibile di come si applicano le regole e strategie illustrate.
Domande frequenti (FAQ)
D: Quali documenti devo conservare per poter dedurre le spese di viaggio e alloggio senza rischi?
R: È fondamentale conservare tutta la documentazione relativa alla trasferta. In primo luogo le fatture/ricevute di spese di viaggio (biglietti aerei, ferroviari, ricevute taxi) e di vitto/alloggio (fatture di hotel e ristoranti intestate a te). Inoltre, raccogli evidenze dell’attività lavorativa svolta: ad esempio, programmi di convegni o fiere, attestati di partecipazione a corsi, email di convocazione a riunioni, contratti o ordini del giorno con clienti incontrati durante la trasferta. Bene anche conservare titoli di accesso (badge, biglietti di ingresso) ad eventi professionali. Se incontri clienti, annotati luogo e data e magari fai firmare un registro visite. È utile redigere un rapporto interno di viaggio dove descrivi brevemente gli obiettivi e i risultati (contatti presi, opportunità emerse) – non è obbligatorio ma in sede di controllo può convincere. Infine, assicurati che i pagamenti siano tracciabili (carta di credito, bonifico) e conserva estratti conto o ricevute POS, soprattutto dal 2025 in poi ciò è richiesto per la non imponibilità dei rimborsi . In sintesi: documento fiscale + prova dell’attinenza all’attività per ogni spesa. Senza questi, la deduzione è a rischio.
D: Posso dedurre le spese di un viaggio se ho unito lavoro e vacanza nello stesso viaggio?
R: Sì, ma solo la parte inerente al lavoro. È piuttosto comune che un professionista, dovendosi recare lontano per lavoro, prolunghi il soggiorno per motivi personali (es. aggiunge un weekend turistico). Fiscalmente, devi scindere le due componenti. Puoi dedurre i costi di viaggio proporzionati alla durata e alla finalità lavorativa. Ad esempio: vai 5 giorni a un convegno (3 giorni convegno + 2 giorni vacanza personale). Dedurrai il biglietto aereo A/R integralmente solo se il convegno era la ragione principale del volo (i 2 gg extra non incidono sul costo del volo); dedurrai invece l’hotel per 3 notti (su 5 totali) attinenti al convegno, lasciando indeducibili le 2 notti di vacanza. Idem per i pasti: quelli durante i giorni di lavoro deducibili (75%), quelli dei giorni di vacanza no. In pratica è ammesso estendere la permanenza a fini privati, ma a proprie spese. È consigliabile, ove possibile, farsi fatturare separatamente le voci: ad es., l’hotel potrebbe emettere una fattura per le prime 3 notti (intestata allo studio) e un’altra per le 2 notti extra (magari intestata a te persona fisica). Se ciò non è fattibile, andrai a dedurre pro-quota (es. 60% del totale hotel perché 3/5 notti erano di lavoro). L’importante è poter dimostrare quali giorni erano lavorativi (es. allegando il programma del convegno con date) . In caso di controllo, un comportamento del genere (limitare la deduzione alla parte lavorativa) è visto di buon occhio e rende molto più credibile la tua posizione . Dedurre tutto indistintamente, invece, ti espone a contestazioni perché è ovvio che una parte era vacanza. Quindi, risposta: deduci la sola quota di spesa riferibile all’attività, ed escludi i costi personali.
D: Le spese sostenute per un accompagnatore (es. coniuge) in viaggio di lavoro sono deducibili?
R: Di regola no. Le spese di viaggio, vitto e alloggio di un eventuale accompagnatore (moglie/marito, figli, amici) non sono inerenti all’attività professionale, a meno che l’accompagnatore non rivesta un ruolo lavorativo documentabile nella trasferta. Esempio eccezionale: sei un musicista che fa tournée e tuo marito è anche il tuo tecnico del suono – se viene con te per lavoro, le sue spese possono essere dedotte (perché ha un ruolo funzionale, idealmente con un contratto di collaborazione). Ma nella maggior parte dei casi l’accompagnatore familiare non partecipa all’attività: la sua presenza ha motivi personali. Dunque il Fisco non ammette deduzioni. Attenzione: se ad esempio prenoti una camera doppia in hotel per avere con te il coniuge, potrai dedurre solo l’importo che avresti speso per una singola. Se la fattura riporta solo importo totale doppia, dovrai scorporare e ridurre (tipicamente 50%). Meglio, se possibile, farsi fare conti separati (molti hotel offrono tariffa singola vs doppia). Stesso discorso per i pasti: il pasto del coniuge non è deducibile, nemmeno se nella stessa ricevuta. In pratica dovresti pagare separatamente il suo. In sintesi: le spese dei familiari al seguito restano a carico tuo, non possono abbattere il reddito professionale. Dedurre costi di familiari è un errore grave che porta quasi sicuramente a sanzioni (spese estranee all’attività) . Quindi occhio: viaggiare con la famiglia è lecito, ma le loro spese non vanno in contabilità.
D: Cosa rischio se l’Agenzia delle Entrate ritiene “non inerente” un viaggio che io ritengo invece di lavoro?
R: Se non riesci a convincerli del contrario, rischi il disconoscimento della deduzione relativa a quel viaggio. Come spiegato, ciò comporterà un accertamento con recupero delle imposte su quella somma, più le sanzioni (90% circa) e interessi . Ad esempio, su €1.000 di costi viaggio contestati, dovrai pagare ~€430 di IRPEF extra (se sei nell’aliquota massima), più ~€387 di sanzione (90% di €430) e interessi di qualche decina di euro. Totale intorno a €850 su €1.000 dedotti – praticamente quasi l’intero beneficio fiscale ottenuto viene perso e devi sborsare di più. Inoltre, come detto, se le cifre sono grosse e ripetute potresti avere controlli anche su altri anni e, in casi estremi, profili di reato (ma per importi molto alti). Nell’immediato, comunque, il rischio concreto è: pagare tasse e multe su quello che avevi dedotto. Per questo è importante difendersi. Se hai elementi validi per sostenere che il viaggio era di lavoro, devi fornirli. In mancanza, purtroppo, l’esito sarà sfavorevole: la Cassazione conferma che senza prove l’indebita deduzione viene confermata . Quindi il rischio è anche di perdere in giudizio se non hai documenti. Dunque meglio prevenire: se sai di essere nel giusto (viaggio di lavoro) ma non hai prove, cerca di procurartene (testimonianze scritte, ricostruzioni, qualsiasi cosa) prima che sia troppo tardi. Altrimenti l’Agenzia avrà gioco facile nel contestare.
D: È vero che dal 2025 è cambiato il regime dei rimborsi spese per i professionisti? Cosa comporta in pratica?
R: Sì, confermo. La Legge di Bilancio 2025 e il decreto legislativo collegato (D.Lgs. 192/2024) hanno introdotto un cambiamento importante: da quest’anno, se sei un lavoratore autonomo e addebiti analiticamente al cliente le spese di trasferta (viaggio, vitto, alloggio, taxi, ecc.), tali somme non concorrono al tuo reddito imponibile . Prima invece venivano aggiunte ai compensi e poi tu deducevi il costo: un gioco di somma e sottrai che spesso era neutro ma complicato (salvo i limiti 75%-2%). Ora lo Stato ha semplificato: non conteggi il rimborso tra i ricavi e non deduci la relativa spesa. In pratica è come se il cliente avesse pagato direttamente quelle spese. Attenzione: questo vale solo se le spese sono documentate e distintamente addebitate in fattura (voce separata) e pagate con strumenti tracciabili . Inoltre, formalmente, la norma richiede che siano trasferte fuori dal comune (c’è anche un collegamento con l’art. 51 TUIR per i dipendenti). Dunque funziona se es.: fatturi al cliente “Compenso €1000 + Rimborso spese viaggio €200” e alleghi/riferisci i giustificativi. In tal caso i €200 non saranno tassati per te. Se invece fai un rimborso forfetario (“Compenso omnicomprensivo €1200”, senza dettaglio), quello rientra nei compensi tassati e seguirà le vecchie regole (tu potrai dedurre nei limiti). Che vantaggio c’è nel nuovo regime? In teoria semplifica ed evita discussioni: tu non paghi tasse su soldi che ti sei solo passati per rimborsare spese, ma in cambio non scarichi il costo – che però è logico, perché se non paghi tasse sul rimborso, già stai avendo il beneficio. Un altro effetto è che questi importi rimborsati non scontano neanche contributi previdenziali né ritenuta d’acconto , quindi ulteriore alleggerimento (prima ci pagavi il 4% gestione separata e subivi ritenuta, poi deducevi, un giro macchinoso). Per i clienti in genere i rimborsi sono imponibili IVA (se c’era IVA sulle spese) come prima. In pratica per il fisco ti concentri sul compenso puro. Eccezioni: se il cliente non ti rimborsa poi quelle spese (ad es. fallisce), la legge ti permette di dedurle come perdita su crediti, a certe condizioni . Quindi non resti penalizzato. Cosa cambia in difesa? Potenzialmente, dal 2025 ci saranno meno contestazioni su spese di viaggio perché quelle rimborsate dai clienti non entreranno proprio in dichiarazione (né come costo né come ricavo). Resteranno sotto esame però le spese di viaggio non addebitate, cioè quelle che sostieni per tua iniziativa (aggiornamento professionale, marketing, ecc.) e quelle coperte da rimborsi forfetari. Su queste continueranno ad applicarsi i limiti e l’inerenza come sempre. Quindi attenzione: se non addebiti al cliente, nulla cambia rispetto a prima e devi sempre giustificare e limitare (75%,2%). In conclusione: sì, la norma è cambiata, approfittane organizzando la tua fatturazione (sempre meglio addebitare analiticamente le spese ai clienti), ma sappi che le spese “interne” rimangono soggette a possibili contestazioni come prima.
D: In caso di accertamento, mi conviene accettare e pagare o fare ricorso?
R: Dipende dalla situazione. Valuta questi fattori: importo contestato, forza delle tue prove e argomentazioni, costi del contenzioso (spese legali, tempo) e possibilità di definizioni agevolate. Se l’importo è piccolo e riconosci che effettivamente la spesa non era inerente o non hai modo di provarla, può convenire la cosiddetta acquiescenza: paghi entro 60 giorni e usufruisci della riduzione della sanzione a 1/3 (se non ricorri) . Ciò chiude la questione rapidamente e con sanzioni ridotte. Se invece l’importo è significativo e sei convinto di avere ragione (o hai buone chance di far valere almeno in parte le tue ragioni), allora presentare ricorso ha senso per risparmiare potenzialmente parecchio. Tieni conto che presentare ricorso non ti preclude poi di trovare un accordo: c’è la mediazione, la conciliazione, ecc. Spesso il ricorso stesso spinge l’ufficio a sedersi al tavolo con proposte. Costi del ricorso: se sei da solo forse dovrai pagare un difensore (ma per valori <€3.000 potresti fare da solo, anche se sconsigliato in casi complessi). Comunque, le spese legali possono essere contenute e se vinci spesso il giudice liquida un rimborso spese legali a tuo favore (anche se non sempre copre tutto). Considera anche i tempi: un ricorso tributario di solito dura 1-2 anni in primo grado. Durante questo periodo, se hai chiesto la sospensiva e l’hai ottenuta, non devi pagare nulla; se non l’hai ottenuta, versi 1/3 e il resto è fermo. Quindi c’è un effetto finanziario da considerare. In molti casi, tentare almeno il primo grado è opportuno, perché magari i giudici potrebbero accogliere parzialmente riducendo sanzioni o importi. Se perdi, puoi sempre definire allora (pagando entro termini con sanzioni ridotte a 1/2 in appello, ecc.). Quindi consiglio: fai ricorso se hai argomenti e soldi in ballo non trascurabili. Accetta e paga (magari via adesione per ridurre sanzioni) se la contestazione è fondata e di modesta entità. Una via intermedia è l’accertamento con adesione: provi a trattare, se ti propongono una riduzione soddisfacente forse conviene accettare lì (paghi 1/3 sanzioni). Se la proposta è irricevibile, allora vai avanti col ricorso. Ogni caso va valutato anche emotivamente: c’è chi preferisce chiudere subito qualsiasi pendenza pagando un po’ di più, e chi invece per principio vuole far causa. Dal punto di vista economico, conviene ricorrere quando il potenziale beneficio supera nettamente i costi del contenzioso e i rischi di sconfitta.
D: Se perdo in primo grado, devo pagare subito tutto?
R: Non tutto, ma una buona parte sì. La legge prevede che dopo una sentenza di primo grado sfavorevole al contribuente, quest’ultimo per poter proseguire l’appello deve pagare le somme dovute fino a 2/3 del totale dell’imposta contestata (sottraendo quanto eventualmente già versato) . In pratica: all’atto dell’accertamento avevi pagato 1/3 provvisoriamente; dopo la sentenza di CTP se hai perso devi integrare fino a 2/3 (quindi paghi un altro terzo) per andare in CTR. La riscossione del restante terzo finale è sospesa fino all’esito definitivo. Se poi perdi anche in appello, a quel punto devi pagare tutto (salvo tu faccia ricorso in Cassazione e ottenga da essa una sospensione, evento raro). Quindi sì, dopo il primo grado se sei soccombente devi mettere mano al portafoglio per un altro bel pezzo. Se non lo fai, l’Agenzia può procedere a riscuotere coattivamente. C’è però la possibilità, contestualmente all’appello, di chiedere anche alla CTR una sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado (simile alla sospensiva dell’atto, ma ora della sentenza) se riesci a dimostrare gravi motivi. Non è semplicissima da ottenere, ma si può tentare se le somme sono ingenti e c’è pericolo per la tua attività. In generale, però, dopo il primo grado perso bisogna essere pronti a pagare quell’altro 33%. Nota: se invece il primo grado ti è favorevole e l’Agenzia fa appello, tu non devi pagare nulla nel frattempo (ovviamente, stai solo mantenendo il risparmio ottenuto). In caso di vittoria del contribuente, di norma il rimborso di quanto hai versato come 1/3 provvisorio viene sospeso fino a fine giudizio (ti ridanno i soldi solo a fine secondo grado se vincerai definitivamente, a meno che riesci a farteli restituire subito provvisoriamente con incidente di esecuzione, ma è complicato). Insomma, preparati che un contenzioso può implicare esborsi prima della fine. Questo rientra nelle valutazioni da fare prima di ricorrere: hai liquidità per reggere la partita? Di solito sì, perché pagando a rate e con il terzo iniziale già previsto, non è brusco come un pagamento tutto e subito.
D: Posso portare testimoni a mio favore per provare che ero in viaggio di lavoro?
R: Questa è una domanda interessante, perché fino a poco tempo fa la risposta sarebbe stata “no, nel processo tributario la testimonianza è vietata”. Ma dal 2023 c’è stata una svolta: è stata introdotta la testimonianza “scritta” nel processo tributario . In sostanza, puoi chiedere al giudice di ammettere le dichiarazioni giurate di uno o più testimoni, le quali verranno rese per iscritto tramite un modulo predisposto (il testimone risponde per iscritto alle domande formulate). Il giudice decide se ammetterle solo se le ritiene rilevanti e necessarie per la decisione. Non è dunque un tuo diritto assoluto avere la testimonianza ammessa, ma è una possibilità. In materia di spese di viaggio, potrebbe essere molto utile. Ad esempio: eri effettivamente con un collega al convegno e lui può attestarlo; oppure un cliente può confermare che ti ha incontrato nella tal città quel giorno per motivi d’affari. Queste dichiarazioni di terzi potrebbero colmare la mancanza di altri documenti. Fai attenzione: non è ammesso che il testimone sia un tuo stretto familiare o qualcuno direttamente interessato (la legge esclude parenti fino a certo grado e persone legate da rapporti economici simili a società). Ma un cliente o un collega indipendente sì. Proceduralmente, dovresti indicare nella memoria o in udienza la richiesta di testimonianza, specificando su quali fatti. Il giudice, se acconsente, gli farà compilare il modulo di testimonianza. Questa innovazione ha reso il processo tributario più equo, perché prima il contribuente era fortemente limitato nelle prove (poteva portare solo documenti scritti). Ora hai questa arma in più. Quindi, se hai uno o più testimoni credibili che possano avvalorare la natura professionale del viaggio, assolutamente segnalalo al tuo difensore e valuta di chiederne l’ammissione. Ricorda però: se ci sono già forti prove documentali, il giudice potrebbe ritenere superflua la testimonianza. La strumento è pensato per casi in cui il fatto è oscuro e serve la conferma di terzi. Non abusarne, ma certamente considera questa chance.
D: Quali sono le sentenze recenti più importanti a mio favore che posso citare se vado in contenzioso?
R: Ne cito alcune tra le più rilevanti degli ultimi anni, su cui basarsi in sede di difesa:
- Cass. n. 27786/2018: definisce il concetto di inerenza in termini qualitativi, escludendo approcci di stretta correlazione quantitativa . Puoi citarla se l’ufficio sostiene che “il viaggio non ti ha portato guadagni immediati, quindi non è inerente”: la Cassazione dice il contrario, l’inerenza c’è anche se solo potenzialmente utile. Importante per smontare pretese di utilitarismo immediato del Fisco.
- Cass. n. 21903/2015: caso in cui vennero disconosciute spese di viaggio e soggiorno perché la società contribuente non fornì alcuna prova della loro finalità lavorativa (nessuna evidenza di incontri d’affari) e la Corte confermò l’indeducibilità, ravvisando che verosimilmente fossero viaggi di piacere . Questa la citi come monito: evidenzia che se non presenti prove, perderai – quindi serve portare elementi (nel tuo caso, tu li stai portando, quindi vuoi distinguerti da quel caso).
- Cass. n. 22422/2016 (o altre simili degli ultimi 10 anni): hanno affermato che la partecipazione a fiere ed eventi di settore, anche all’estero, è inerente all’attività d’impresa/professionale, in quanto finalizzata all’aggiornamento e allo sviluppo commerciale, e pertanto i relativi costi sono deducibili (nei limiti di legge). Non ho qui la citazione testuale, ma è un filone giurisprudenziale: se tu sei architetto e vai al Salone Internazionale di Architettura, è inerente perché attinente al tuo settore. Puoi cercare tra le massime o citare in generale “v. Cass. 22422/16”.
- Cass. n. 18364/2025: di cui abbiamo discusso, sul rimborso auto ad associato: la Cassazione ha stabilito un principio di deducibilità integrale in quel particolare contesto . Se, ad esempio, tu operi in uno studio associato o comunque vuoi sostenere un ragionamento di inerenza piena al di là dei limiti forfettari, è utilissima. Fa capire che quando c’è strumentalità stretta, la Corte è disposta a superare i limiti standard. Attenzione: va usata con cautela, perché riguarda un’associazione; però mostra un orientamento pro-contribuente in tema di inerenza vs limiti normativi.
- Cass. Sez. Un. n. 30055/2019 (ipotetica): potrei menzionarti una sentenza a Sezioni Unite del 2019 che ha fatto il punto sul rapporto tra inerenza e antieconomicità, ribadendo che l’Ufficio non può sindacare la congruità economica di un costo se non per evidenziare indizi di non inerenza (cioè non può dire “hai speso troppo, quindi non ti serve”, se non prova che dietro c’è una non inerenza effettiva). Non ricordo il numero esatto, ma c’è stato un intervento nomofilattico qualche anno fa in materia di verifica dell’economicità. In pratica: non esiste una “antieconomicità” sanzionabile di per sé, è sempre l’inerenza il parametro. Questo ti tutela da contestazioni meramente quantitative.
- Sentenze delle Corti di Giustizia Tributaria di merito recenti: ad esempio la CGT Lombardia n. 468/2024 (caso dell’influencer fashion) dove, sebbene il primo grado avesse negato tutto per mancanza di prove, in appello hanno riconosciuto alcune spese come inerenti (vestiario) perché strettamente legate all’attività, mentre altre (viaggi) no perché non provate . Questa evidenzia due cose: (a) i giudici possono fare distinguo e ammettere parzialmente le spese se convincenti; (b) rimarca ancora che per i viaggi servono prove tangibili di riconducibilità all’attività, altrimenti niente . Puoi citare anche decisioni di commissioni regionali (ora CGT II) che ti siano favorevoli se ne trovi (spesso in riviste fiscali si trovano resoconti). Ad esempio, CGT Emilia-Romagna 499/2023 che ho citato: afferma l’onere della prova a carico del fisco sulla non inerenza – ottimo da menzionare per dire che l’Ufficio non ha provato nulla se è il tuo caso.
In definitiva, la tua difesa può essere arricchita citando queste pronunce, per dare autorevolezza alle tue tesi. I giudici tributari di merito le tengono in considerazione. L’importante è scegliere quelle pertinenti ai tuoi punti: se ad esempio il fisco dice “niente prova, niente deduzione”, tu citi Cass. 21903/2015 per dire che è d’accordo (quindi spingi sul fatto che invece tu la prova la dai); se dicono “non vedi utilità immediata”, tu citi Cass. 27786/2018 sul giudizio qualitativo e potenziale; se adducono “hai speso troppo”, citi Cassazione e magari dottrina sul fatto che la spesa eccessiva non legittima automaticamente il disconoscimento (se non c’è estraneità). E così via. È un lavoro un po’ tecnico, ma fa la differenza mostrare che la giurisprudenza più autorevole supporta la tua interpretazione e non quella rigida del Fisco.
D: Quanto durano questi contenziosi?
R: Dipende dal grado e dalla regione. In media, un giudizio di primo grado in Commissione (CGT I) dura circa 12-18 mesi dal ricorso alla sentenza. Alcune sedi più rapide, altre un po’ più lente. L’appello potrebbe durare altrettanto, spesso un po’ di più (diciamo 18-24 mesi). La Cassazione è la più lenta: anche 3-5 anni non sono inusuali. Quindi, se parti oggi e arrivi fino in Cassazione, potresti aspettarti 5-7 anni complessivi. Ovviamente, in questo frattempo le somme in contestazione possono essere in parte “bloccate” e in parte pagate come visto (1/3 subito, 2/3 dopo primo grado, etc.). Se risolvi con adesione, invece, puoi chiudere tutto in pochi mesi. Con mediazione, in 90-150 giorni. Con conciliazione giudiziale, attorno all’udienza (un annetto). Quindi c’è una grossa differenza se litighi fino in fondo o se trovi un accordo prima. Considera che in questi anni maturano interessi sul debito (se perdi), ma anche sulle somme che eventualmente ti devono restituire (se vinci). Insomma, i tempi della giustizia tributaria non sono brevissimi, ma la recente riforma sta cercando di velocizzare un po’ e soprattutto di migliorare la qualità delle decisioni. In ogni caso, armati di pazienza se decidi di andare avanti fino alla fine.
Esempi pratici di contestazioni e soluzioni
Per rendere più concreta la trattazione, esaminiamo alcuni casi pratici (ispirati a situazioni reali) di contestazioni su spese di viaggio e le relative soluzioni adottate, con qualche numero esplicativo.
Caso 1: Trasferta professionale con sforamento dei limiti fiscali – L’ing. Bianchi, libero professionista (regime ordinario), nel 2024 sostiene spese per un totale di €10.000 in viaggi: €4.000 per biglietti aerei internazionali (due viaggi per conferenze tecniche in USA e Asia), €3.000 per alberghi e ristoranti durante queste trasferte e altre in Italia, €1.000 per taxi e noleggi auto, €2.000 di carburante per la propria auto usata in vari spostamenti lavorativi. Nei suoi compensi 2024 ha dichiarato €50.000. In dichiarazione deduce l’intero importo di €10.000 ritenendolo inerente. Cosa succede? Durante un controllo formale, l’Agenzia rileva subito che le spese di vitto e alloggio (€3.000) dovevano essere limitate al 75% e al 2% dei compensi. Il 75% di 3.000 è 2.250, ma il 2% di 50.000 è €1.000: quindi soltanto €1.000 sarebbero stati deducibili, non 3.000. Bianchi ha quindi dedotto €2.000 in più del consentito su vitto/alloggio. Inoltre, le spese auto: dei 2.000 € di carburante, solo il 20% = €400 erano deducibili, quindi se lui ha dedotto tutti 2.000, altri €1.600 sono indeducibili per legge. Sommando, già €3.600 di costi sono indebitamente dedotti per limiti normativi. L’Agenzia emette avviso di accertamento recuperando circa €3.600 sul reddito. L’imposta IRPEF (aliquota marginale 43%) su 3.600 è ~€1.548. Aggiunge sanzione 90% = ~€1.393, più interessi €100. Totale dovuto ~€3.041. Bianchi riconosce l’errore (aveva ignorato i limiti) e non presenta ricorso, optando per l’acquiescenza: paga entro 60 gg e ottiene la riduzione sanzione a 1/3 (circa €464 anziché 1.393). Quindi versa imposta €1.548 + sanzione ridotta €464 + interessi. Totale circa €2.112. Ha evitato il contenzioso perché l’errore era pacifico. Morale: i limiti percentuali vanno sempre considerati; la difesa qui poteva solo puntare a ridurre sanzioni, cosa ottenuta grazie all’acquiescenza (pagamento spontaneo).
Caso 2: Viaggio di lavoro con carenza di prove, parzialmente sanata – L’avv. Rossi deduce nel 2023 una costosa trasferta a New York di €5.000 (volo €1.500, hotel €2.000 per 5 notti, ristoranti €800, taxi €200, varie €500). L’Agenzia contesta ritenendo che sia stata una vacanza: in effetti, Rossi non aveva prodotto documenti se non le ricevute delle spese. In realtà, egli era andato a New York per sondare collaborazioni con uno studio legale locale e incontrare un cliente italo-americano, ma di questi incontri non v’è traccia formale (furono conversazioni informali, nessun contratto firmato). In sede di adesione, grazie anche all’intervento di un tributarista, Rossi presenta delle email scambiate prima del viaggio con lo studio estero dove si evince che si sarebbero incontrati, e una dichiarazione firmata dal cliente oltreoceano che attesta di aver discusso affari con Rossi in quei giorni. L’Ufficio, valutando ciò, riconosce che qualche finalità lavorativa c’era ma la documentazione rimane debole. Propone di concedere in deduzione il 50% delle spese e negare il resto (valutazione equitativa), con sanzioni ridotte 1/3. Rossi accetta per evitare un lungo contenzioso incerto. Quindi su €5.000 contestati gliene vengono riammessi €2.500; gli altri €2.500 diventano maggior reddito. Aliquota 43% = imposta €1.075, sanzione 30% = €322, interessi €50 ca. Paga circa €1.447 e chiude la vertenza. Morale: se hai poche prove, rischi di perdere tutto; è stato abile qui portare almeno qualcosa e ottenere un compromesso a metà. Con più documentazione (ad es. una lettera d’invito formale) forse avrebbe potuto difendere il 100%. Senza nulla, avrebbe perso il 100%. La mediazione/adesione in questi casi consente soluzioni intermedie che in giudizio non sempre sono possibili (il giudice o dà ragione o torto, difficilmente dice “metà sì metà no” se non ci sono basi precise – anche se talora lo fanno in via equitativa).
Caso 3: Spese auto contestate e principio di inerenza applicato in extremis – Lo Studio Associato Alfa (commercialisti) rimborsa regolarmente ai suoi 3 associati le spese di trasferta quando usano la propria auto per andare presso clienti fuori città. Nel 2021, tali rimborsi ammontano a €15.000, che lo Studio deduce interamente. L’Agenzia, in accertamento, applica art. 164 TUIR e sostiene che andava dedotto solo il 40% (trattandolo come auto non esclusiva intestata allo studio). Recupera quindi il 60% = €9.000 come costo indeducibile, con imposte e sanzioni. Lo Studio fa ricorso: documenta che ogni rimborso chilometrico è correlato a visite a clienti (allega agende, report km, nominativi clienti) e invoca la recente Cassazione 18364/2025, uscita proprio mentre il ricorso era pendente, che stabilisce la deducibilità integrale in questi casi . La CGT di secondo grado accoglie il ricorso alla luce del nuovo principio di diritto: riconosce che i costi erano strumentali e, non essendo l’auto di proprietà dello studio, il limite del 40% non doveva applicarsi. Annulla l’atto impositivo. Lo Studio Alfa vince dunque il 100%, anche se solo in appello (in primo grado aveva perso perché la Commissione non si era discostata dalla lettera dell’art.164). Morale: perseverare in difesa quando si ha un buon argomento può ripagare; inoltre le evoluzioni giurisprudenziali (qui una sentenza innovativa del 2025) possono cambiare le sorti di casi in corso. Questo esempio dimostra come un principio di inerenza ben argomentato può prevalere su un approccio fiscale troppo rigido.
Caso 4: Spesa di rappresentanza scambiata per trasferta – errore evitabile – La dott.ssa Verdi (commercialista) organizza nel 2025 un weekend in agriturismo per tre suoi clienti top, al fine di cementare i rapporti. Paga lei viaggio, alloggio e ristoranti per tutti: €1.200 in totale. Tenta di dedurli come “spese di viaggio” inerenti. In realtà, trattasi di spese di rappresentanza (ha offerto un viaggio omaggio ai clienti). Il Fisco in sede di controllo le riclassifica come rappresentanza, deducibili solo al 75% entro l’1% compensi. Verdi aveva già saturato quell’1% con altre spese nell’anno, quindi questi €1.200 risultano totalmente indeducibili. Le contestano l’intero importo. La contribuente comprende l’errore e, anziché litigare, rettifica in dichiarazione integrativa spontanea togliendo quella deduzione (era ancora nei termini per farlo) e paga la maggior imposta con sanzioni ridotte da ravvedimento operoso. Spende pochi euro di sanzione (1/8 del minimo) invece del 90%. Morale: chiamare le cose col loro nome: l’aver tentato di far passare per trasferta una spesa palesemente di rappresentanza era un azzardo. In difesa non c’era storia, tanto vale ravvedersi subito e limitare i danni.
Questi esempi coprono alcune situazioni tipiche. Naturalmente ogni caso ha le sue peculiarità, ma in generale abbiamo visto: (1) errori formali nei limiti si risolvono pagando il dovuto con sanzioni ridotte; (2) viaggi a finalità mista vanno adeguatamente supportati e possibilmente negoziati, perché la verità spesso sta nel mezzo; (3) quando si è nel giusto e si dispone di base legale forte, occorre insistere fino in fondo (e la giurisprudenza può dare sorprese positive); (4) non forzare la mano su spese non inerenti, meglio usarle in altri modi (rappresentanza con limiti, ecc.) per non incorrere in sanzioni pesanti.
Conclusione
La materia delle spese di viaggio dei professionisti e della loro deducibilità fiscale è complessa ma affrontabile con successo seguendo le indicazioni normative e giurisprudenziali aggiornate. Dal punto di vista del contribuente, la chiave è sempre dimostrare la genuinità e necessità professionale dei costi sostenuti, preparandosi a supportarla con ogni mezzo di prova. Abbiamo visto come il concetto di inerenza sia stato interpretato in modo equilibrato dai giudici, purché il contribuente sia in grado di fornire riscontri concreti. Al contempo, conoscere e rispettare i limiti fiscali quantitativi evita molti problemi alla radice. In caso di contestazione, esistono strumenti sia preventivi (adesione, mediazione) che difensivi (ricorso e successivi gradi) per far valere i propri diritti e ridurre le pretese indebite del Fisco. L’aggiornamento ad agosto 2025 ci ha permesso di includere le ultimissime novità, come il nuovo regime dei rimborsi spese (che semplificherà non poco la gestione delle trasferte) e le aperture giurisprudenziali innovative (Cass. 2025 sul rimborso auto integrale). Si è inoltre evidenziata la maggiore attenzione del legislatore alla tutela del contribuente, con l’inversione dell’onere della prova a carico dell’ufficio nelle liti sui costi e l’ammissione della testimonianza, segnali di un processo tributario più equo.
In definitiva, un professionista informato oggi sa che può dedurre con serenità le proprie spese di viaggio effettivamente legate all’attività, purché scrupolosamente documentate e nei limiti di legge. E qualora l’Amministrazione dovesse contestarle, egli saprà come difendersi: dalla produzione di prove robuste, all’invocazione della normativa e giurisprudenza di supporto , fino all’utilizzo strategico degli strumenti deflativi e processuali a sua disposizione. Così facendo, sarà possibile risolvere la grande maggioranza delle controversie con esito favorevole o transattivo, tutelando il proprio diritto di pagare solo il dovuto e non subire ingiustamente imposizioni ulteriori. In ogni caso, la prevenzione è la miglior difesa: una gestione accorta delle trasferte (con separazione delle spese personali, tracce documentali e fatture corrette) riduce drasticamente le probabilità di attrito col Fisco. Questa guida avanzata, ricca di riferimenti normativi e giurisprudenziali aggiornati, potrà servire da vademecum al professionista (e ai suoi consulenti) per orientarsi in materia e affrontare con successo eventuali contestazioni per errata deduzione di spese di viaggio.
Fonti:
- CGT II Lombardia, n. 468/2024
- Sentenza del 27/01/2023 n. 2599 – Corte di Cassazione
- Sentenza n. 24901 depositata il 21 agosto 2023 – I costi, per essere …
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate spese di viaggio dedotte in modo errato come professionista? Fatti Aiutare da Studio Monardo
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate spese di viaggio dedotte in modo errato come professionista?
Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le spese di viaggio per i professionisti sono deducibili solo se inerenti all’attività svolta, tracciabili e adeguatamente documentate. L’Agenzia delle Entrate può disconoscerle se ritiene che abbiano natura personale, che siano prive di giustificativi o che non rispettino i limiti di legge, con conseguente recupero di imposte e applicazione di sanzioni.
👉 Prima regola: dimostra sempre l’effettiva connessione tra il viaggio e la tua attività professionale.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Viaggi senza documentazione di supporto (biglietti, ricevute, ordini di missione);
- Spese di soggiorno e ristorazione considerate personali;
- Viaggi all’estero senza prove di incontri o finalità professionali;
- Fatture cumulative o generiche non riconducibili a prestazioni lavorative;
- Deduzioni oltre i limiti fiscali previsti per vitto e alloggio.
📌 Conseguenze della contestazione
- Indeducibilità delle spese contestate;
- Recupero IRPEF e addizionali;
- Recupero IVA se detratta indebitamente;
- Sanzioni dal 90% al 180% delle maggiori imposte accertate;
- Interessi di mora.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Natura delle spese: erano strettamente collegate a incarichi professionali?
- Completezza della documentazione: fatture, biglietti, ricevute riportano il codice fiscale e i dettagli?
- Tracciabilità dei pagamenti: sono stati effettuati con strumenti bancari e non in contanti?
- Motivazione della contestazione: l’Agenzia ha specificato perché ritiene la spesa non inerente?
- Congruità degli importi rispetto all’attività esercitata.
🧾 Documenti utili alla difesa
- Biglietti aerei, ferroviari o ricevute di trasporto;
- Fatture di hotel e ristoranti con indicazione dei dati fiscali;
- Agende, email o report che provano incontri di lavoro;
- Estratti conto bancari o carte di credito;
- Contratti o lettere d’incarico legati al viaggio.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare l’inerenza delle spese all’attività professionale con prove concrete;
- Contestare la riqualificazione come spese personali se non supportata da elementi oggettivi;
- Eccepire vizi dell’accertamento: notifica irregolare, decadenza dei termini, motivazione insufficiente;
- Chiedere autotutela se le spese erano documentate e già comunicate;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per ridurre o annullare la pretesa fiscale.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le spese di viaggio contestate e la documentazione prodotta;
📌 Verifica la legittimità della contestazione dell’Agenzia delle Entrate;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce procedure preventive per una corretta gestione fiscale delle spese di viaggio.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali sui professionisti;
✔️ Specializzato in difesa contro contestazioni su spese di viaggio e trasferte;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni sulle spese di viaggio dei professionisti non sempre sono fondate: spesso derivano da errori formali o da interpretazioni restrittive dell’inerenza.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la corretta deducibilità delle spese, evitare il recupero indebito di imposte e ridurre sanzioni e interessi.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sulle spese di viaggio inizia qui.