Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché alcune spese di viaggio sono state considerate non inerenti alla tua attività? In questi casi, l’Ufficio presume che i costi sostenuti abbiano natura personale e non siano collegati all’attività d’impresa o professionale. La conseguenza è il recupero delle imposte con applicazione di sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è corretta: con una difesa adeguata è possibile dimostrare l’effettiva inerenza delle spese.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta le spese di viaggio
– Se i viaggi riguardano località turistiche senza legame con l’attività svolta
– Se mancano documenti che provino la connessione con clienti, fornitori, eventi o fiere
– Se le spese includono familiari o accompagnatori estranei all’attività
– Se i costi sono sproporzionati rispetto al volume d’affari dell’impresa o del professionista
– Se la documentazione (fatture, ricevute, report) è incompleta o generica
Conseguenze della contestazione
– Indeducibilità totale o parziale delle spese contestate
– Recupero delle imposte dirette e dell’IVA detratta
– Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggior rischio di verifiche su altre spese di rappresentanza o promozione
Come difendersi dalla contestazione
– Produrre contratti, inviti, registrazioni e report che colleghino il viaggio all’attività aziendale
– Dimostrare la partecipazione a fiere, convegni, meeting o incontri di lavoro
– Contestare la riqualificazione come “spese personali” se il viaggio aveva finalità professionali prevalenti
– Evidenziare errori di calcolo o difetti di motivazione nell’atto di accertamento
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria per ottenere l’annullamento totale o parziale della contestazione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le spese contestate e la relativa documentazione fiscale
– Verificare la legittimità della contestazione e i margini di deducibilità previsti dalla legge
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali e vizi procedurali dell’accertamento
– Difendere l’impresa o il professionista davanti ai giudici tributari
– Tutelare il patrimonio personale e aziendale da conseguenze fiscali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della deducibilità delle spese realmente inerenti
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto previsto dalla legge
⚠️ Attenzione: le spese di viaggio sono tra le più controllate dall’Agenzia delle Entrate. È fondamentale predisporre documentazione chiara e completa che ne provi l’inerenza.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e contenzioso fiscale – spiega come difendersi in caso di contestazioni su spese di viaggio considerate non inerenti e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
In ambito fiscale italiano, uno dei motivi più frequenti di accertamento tributario verso professionisti, imprenditori individuali e società è la contestazione di spese dedotte ritenute “non inerenti” all’attività d’impresa o professionale . In particolare, le spese di viaggio, vitto e alloggio spesso finiscono sotto la lente del Fisco perché possono celare utilità personali o estranee all’attività dichiarata . L’Agenzia delle Entrate può dunque rettificare il reddito imponibile escludendo tali costi e recuperando a tassazione le imposte dovute, con interessi e pesanti sanzioni amministrative . Nei casi più gravi, l’indebita deduzione di spese non inerenti può integrare anche violazioni penali, ad esempio il reato di dichiarazione infedele se i maggiori redditi non dichiarati superano determinate soglie .
Dal punto di vista del contribuente (debitore d’imposta), difendersi con successo richiede un’approfondita conoscenza delle normative e della più recente giurisprudenza, nonché un approccio proattivo nella produzione di prove. Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – offre un’analisi avanzata del quadro normativo italiano sul principio di inerenza delle spese deducibili, delle ultime sentenze e orientamenti giurisprudenziali, e degli strumenti di tutela disponibili in sede di verifica e contenzioso. Adottiamo un linguaggio tecnicamente rigoroso ma di taglio divulgativo, adatto sia ai professionisti del diritto tributario sia a imprenditori e privati informati. Troverete inoltre tabelle riepilogative e una sezione di Domande e Risposte per chiarire i dubbi più comuni con esempi concreti, nonché simulazioni pratiche di casi italiani. L’obiettivo è fornire una guida completa e aggiornata che permetta al contribuente di orientarsi al meglio in caso di contestazione fiscale su spese di viaggi non inerenti all’attività, predisponendo un’adeguata difesa.
Il principio di inerenza: normativa e definizione
Il principio di inerenza è un pilastro del sistema tributario italiano in materia di determinazione del reddito d’impresa e di lavoro autonomo. In sintesi, solo i costi effettivamente e direttamente collegati all’attività svolta e alla produzione del reddito imponibile sono deducibili . Sebbene il termine inerenza non compaia in modo esplicito in un’unica disposizione, esso si ricava da varie norme del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi, DPR 917/1986) e dalla loro interpretazione giurisprudenziale.
Norme di riferimento principali: per i redditi d’impresa (società e imprese individuali) il riferimento cardine è l’art. 109, comma 5, TUIR, il quale stabilisce che “le spese e gli altri componenti negativi […] sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito” . Ciò implica un requisito di collegamento funzionale tra il costo sostenuto e l’attività (o i beni) produttiva di ricavi imponibili: la spesa deve avere attinenza con l’attività esercitata e la deduzione è ammessa solo per la parte effettivamente correlata a tale attività . Per i redditi di lavoro autonomo professionale, manca una formula altrettanto esplicita, ma si applica un principio analogo: l’art. 54 TUIR prevede che il reddito di lavoro autonomo sia determinato sottraendo dai compensi percepiti i costi necessari alla produzione di tali compensi (oltre a quelli espressamente ammessi) . In entrambi i casi, quindi, la legge richiede che il costo sia sostenuto nell’interesse dell’attività e risponda a criteri di necessità o utilità rispetto all’esercizio della stessa.
Inerenza qualitativa vs quantitativa: un punto cruciale emerso è se l’inerenza implichi anche un giudizio di economicità o congruità della spesa. La giurisprudenza più recente ha delineato un concetto di inerenza di natura qualitativa e non quantitativa . In altre parole, ciò che conta è la natura del costo e la sua riferibilità all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo i costi che si collocano in una sfera estranea ad essa . Non è invece necessario che la spesa produca un vantaggio economico immediato o un ricavo specifico: anche un costo antieconomico può essere inerente, purché sia sostenuto per ragioni funzionali all’impresa . Di contro, non assume rilevanza la congruità o la proporzionalità dell’importo speso, poiché il giudizio sull’inerenza non è basato sull’utilità economica, ma sul collegamento qualitativo al business . Ad esempio, se un’azienda spende molto in pubblicità e poi le vendite non aumentano, l’Ufficio non può disconoscere quel costo solo perché “non ha reso”: dovrà accettarlo come inerente se era ragionevolmente finalizzato all’attività . Viceversa, una spesa è non inerente se afferisce alla sfera personale del titolare o a finalità estranee all’impresa – ad esempio, una vacanza personale pagata con fondi aziendali, o costi sostenuti per attività del tutto estranee all’oggetto sociale, esulano dalla sfera d’impresa e non possono essere dedotti .
Onere della prova dell’inerenza e ruolo delle parti
Chiarito cos’è l’inerenza, occorre affrontare un aspetto fondamentale: chi deve provare che un costo è inerente all’attività? In altre parole, in caso di contestazione, come si ripartisce l’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente. La risposta ha enormi risvolti pratici nel contenzioso tributario.
Orientamento tradizionale – onere sul contribuente: la giurisprudenza consolidata afferma che spetta al contribuente dimostrare la legittimità delle spese dedotte, provandone la natura inerente e i presupposti per la deducibilità . In tema di imposte sui redditi, la Corte di Cassazione ha più volte ribadito che “l’onere di provare e documentare […] la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente” . Analogamente, ai fini IVA, è il contribuente che deve provare che l’acquisto di beni/servizi è avvenuto nell’esercizio dell’impresa o professione per detrarne l’IVA . Dunque, in un processo tributario tradizionale, se l’Agenzia delle Entrate contesta l’inerenza di un costo, il contribuente ha l’onere di fornire documentazione e spiegazioni idonee a dimostrare il collegamento tra quel costo e la sua attività . Se il contribuente non assolve tale onere probatorio, quasi certamente perderà la causa e il costo sarà dichiarato indeducibile .
Ruolo dell’Amministrazione finanziaria: ciò non esonera completamente il Fisco da obblighi probatori. L’Amministrazione, infatti, deve quantomeno formulare una contestazione motivata, indicandone le ragioni di fatto e gli indizi da cui desume la non inerenza . Ad esempio, l’Ufficio nell’avviso di accertamento deve specificare quali elementi lo portano a ritenere indeducibile un costo – es. “fattura n. X con descrizione generica del servizio, non riconducibile all’attività esercitata” , oppure “viaggio all’estero senza riscontro di incontri di affari” ecc. Una volta sollevata la contestazione, però, l’onere passa al contribuente: dovrà controbattere con spiegazioni documentate per provare l’inerenza effettiva . Se il contribuente fornisce prove convincenti a supporto della propria tesi, a quel punto spetterà di nuovo all’Ufficio – per prevalere – fornire elementi contrari più robusti (ad esempio, dimostrare che i documenti prodotti sono falsi, o che l’utilizzo dichiarato è implausibile) . In tal senso, dottrina e giurisprudenza parlano di un “onere rafforzato” a carico del Fisco quando il contribuente abbia adeguatamente giustificato la deduzione .
Novità del 2022 sul riparto dell’onere (art. 7, c. 5-bis D.Lgs. 546/92): la riforma del processo tributario operata con L. 130/2022 ha introdotto un nuovo comma 5-bis all’art. 7 del D.Lgs. 546/1992, il quale recita che negli atti impositivi l’onere della prova è a carico dell’Amministrazione finanziaria, relativamente alla fondatezza della pretesa, fatte salve le presunzioni legali stabilite a favore della stessa . Questa modifica ha fatto pensare a molti ad un ribaltamento dell’onere probatorio in favore del contribuente. In realtà, l’interpretazione prevalente (confermata anche dalla giurisprudenza più recente) è che la norma non stravolge i criteri generali: l’ente impositore deve certamente motivare bene l’atto e fornire almeno indizi a sostegno della ripresa, ma resta fermo il dovere del contribuente di provare i fatti a lui favorevoli, specie quando si tratta – come la deduzione di costi – di un beneficio fiscale richiesto dal contribuente stesso . In pratica, il nuovo art. 7, c.5-bis codifica principi già insiti: l’Ufficio deve motivare e portare elementi, e il contribuente non può rimanere inerte confidando che il Fisco non provi un fatto negativo (“che quel costo non c’entra nulla”) . Egli dovrà comunque provare il fatto positivo dell’attinenza del costo alla propria attività . Pertanto, anche dopo la riforma, l’onere primario di documentare l’inerenza rimane a carico del contribuente .
Va infine ricordato che con la riforma del 2022 è divenuto ammissibile un nuovo mezzo di prova prima escluso nel processo tributario: la testimonianza (sia pure in forma scritta, ex art. 7, comma 4-bis D.Lgs. 546/92). Ciò può rivelarsi utile in casi particolari: ad esempio, qualora un cliente o partner d’affari sia disposto a dichiarare per iscritto che un certo viaggio è stato compiuto per incontrarlo e discutere affari, tale testimonianza può oggi essere ammessa dal giudice come prova a favore del contribuente . Si tratta di uno sviluppo importante, da sfruttare quando la documentazione contabile da sola non basta a dissipare i dubbi sull’inerenza di una trasferta o di una spesa.
Spese di viaggio, vitto e alloggio contestate: normativa e prassi
Tra le varie categorie di costi “a rischio” inerenza, quelle relative a viaggi, trasferte, vitto e alloggio sono particolarmente delicate. Queste spese, pur potendo essere effettivamente funzionali all’attività (si pensi a viaggi per incontrare clienti, partecipare a fiere, corsi di aggiornamento, trasferte di personale, ecc.), sono facilmente confondibili con spese personali o di piacere, soprattutto quando non adeguatamente documentate. Per questo il legislatore fiscale ha introdotto specifiche limitazioni forfettarie alla loro deducibilità, e la prassi dell’Agenzia delle Entrate richiede un elevato grado di documentazione per accettarle senza obiezioni.
Regole fiscali generali:
- Imprese (società e ditte individuali) – Le spese di vitto e alloggio sostenute per trasferte di dipendenti fuori dal territorio comunale sono deducibili al 100% dal reddito d’impresa, trattandosi di costi per prestazioni di lavoro dipendente (entro i limiti previsti per eventuali diarie forfettarie) . Se l’azienda paga direttamente alberghi e ristoranti per i propri dipendenti in missione, tali spese restano integralmente deducibili . Al contrario, quando le spese di vitto, alloggio o viaggio non riguardano i dipendenti in trasferta, ma ad esempio sono sostenute per l’ospitalità di clienti, per collaboratori occasionali o per l’amministratore/titolare, si applica la regola generale della deducibilità al 75% del loro ammontare . Questa limitazione, introdotta dal 2005, presume forfettariamente che una quota (25%) sia di carattere personale o voluttuario, quindi non inerente, e nega la deduzione di tale parte. Inoltre, se tali spese rientrano tra le spese di rappresentanza, occorre rispettare anche i limiti specifici di deducibilità previsti per le rappresentanza (plafond percentuale sui ricavi) . Ad esempio, un pranzo di gala offerto a clienti avrà deducibilità limitata al 75% e andrà poi conteggiato nel tetto annuo delle spese di rappresentanza deducibili . Se invece la spesa di viaggio/vitto ha natura di pubblicità (es. buffet durante un evento promozionale di presentazione prodotti – caso borderline con la rappresentanza), potrebbe essere deducibile al 100%, ma spetterà al contribuente dimostrare che lo scopo primario era pubblicitario e non di mera ospitalità .
- Professionisti (lavoro autonomo) – Fino al 2017 i lavoratori autonomi potevano dedurre vitto e alloggio al 75% ma entro il 2% dei compensi annui. Dal 2017 questo doppio limite è stato eliminato: oggi il professionista in regime analitico deduce il 75% delle spese di vitto e alloggio inerenti la propria attività, senza più il tetto del 2% (art. 54 TUIR) . Ad esempio, un avvocato che va a pranzo con un cliente per discutere una causa può dedurre il 75% del conto, purché documentato con fattura intestata allo studio (non basta uno scontrino generico) . Se però quella spesa di vitto viene addebitata al cliente in parcella come “spese anticipate”, allora per il professionista non rappresenta un costo (viene riaddebitata e rimborsata) e può essere dedotta al 100% in quanto “costo per conto del cliente” estraneo al reddito professionale . In sostanza, se il costo resta a carico del professionista va al 75%, se è rifuso dal cliente non grava sul professionista e non incide sul suo reddito . Lo stesso principio vale per viaggi e trasferte: il professionista deduce al 75% le spese di viaggio sostenute per sé (es. biglietti, alberghi per andare a un convegno o da un cliente), mentre se tali spese sono addebitate al committente e rimborsate, escono dal calcolo del reddito del professionista (diventando irrilevanti ai fini IRPEF) .
Contestazioni tipiche dell’Agenzia delle Entrate:
- Pranzi e cene “sospette” – L’Ufficio guarda con sospetto situazioni in cui un’impresa deduce spese di ristorante molto elevate e frequenti, ipotizzando che possano celare consumi personali. Ad esempio, se un imprenditore deduce cene tutti i weekend in ristoranti di lusso, sorgerà la domanda: erano davvero incontri di lavoro o si tratta di vita privata scaricata sull’azienda? Durante le verifiche, i funzionari spesso chiedono di indicare chi ha partecipato a quei pasti e con quale scopo . Non esiste un obbligo formale di riportare in fattura i nomi dei commensali o la causale, ma è buona prassi annotarlo in una nota spese interna. Se il contribuente non riesce a giustificare credibilmente la finalità lavorativa (es. esibendo un’email di invito al cliente per quella cena o un ordine del giorno della riunione), l’Ufficio può contestare l’inerenza stessa del costo . Pur essendo la deducibilità limitata al 75%, il Fisco può disconoscere l’intero importo qualora ritenga che la spesa sia di natura personale e non abbia alcun collegamento con l’attività . In tal caso la spesa viene espunta completamente dai costi deducibili, e la quota già dedotta (75%) viene ripresa a tassazione.
- Scontrini non intestati o documenti irregolari – Un errore frequente è portare in deduzione ricevute o scontrini non intestati alla ditta/professionista (ad esempio scontrini parlanti senza partita IVA, o fatture intestate al titolare persona fisica invece che all’azienda). Fiscalmente, per dedurre un costo è necessario avere una fattura intestata al soggetto passivo d’imposta (dal 2019 obbligatoriamente elettronica se il costo supera € 77,47) . Scontrini o ricevute generiche non intestate non sono documenti validi ai fini fiscali. In sede di verifica, se il contribuente esibisce ricevute prive di intestazione o con intestazione errata, l’Ufficio disconosce quei costi non solo per difetto di inerenza ma in primis perché non documentati a norma di legge . È dunque fondamentale, soprattutto per le spese di viaggio e vitto, richiedere sempre fattura o ricevuta fiscale completa dei dati aziendali.
- Trasferte inesistenti o miste a vacanza – Caso classico: l’amministratore porta la famiglia in vacanza (es. un viaggio esotico) e cerca di dedurre i costi come “trasferta di lavoro” o “missione esplorativa per nuovi mercati”. Se mancano prove concrete di incontri d’affari o attività lavorative in loco, l’Agenzia non ha difficoltà a contestare l’operazione. Ad esempio, dedurre il viaggio aereo e l’hotel di una vacanza a Dubai spacciandola per viaggio d’affari è un comportamento ad alto rischio: in mancanza di documentazione su meeting o contratti conclusi, il Fisco considererà quei costi come vacanze mascherate e ne disconoscerà la deducibilità integrale . Inoltre, qualora dall’esame dei documenti emerga che la società ha sostenuto spese personali dell’amministratore (o dei suoi familiari), è possibile che l’Ufficio riqualifichi tali somme come utili extracontabili distribuiti al socio oppure come fringe benefit non tassato. In pratica, il costo viene negato in capo alla società (aumentandone il reddito imponibile) e contemporaneamente attribuito come beneficio al socio amministratore, con potenziali conseguenze anche sull’IRPEF di quest’ultimo (oltre che sugli obblighi contributivi se si tratta di compenso in natura) .
- Spese di trasferta rimborsate a collaboratori senza giustificativi – Se un’azienda o uno studio professionale rimborsa consistenti spese di viaggio a un collaboratore esterno o part-time senza adeguati giustificativi (ricevute, biglietti, ecc.) o con causali vaghe, l’Agenzia può sospettare che in realtà si tratti di compensi occulti. Ad esempio, rimborsi chilometrici o per “missioni” dal contenuto generico e di importo elevato, specialmente se ricorrenti, possono essere considerati retribuzioni aggiuntive in nero anziché veri rimborsi spese . La conseguenza: il datore di lavoro vedrà disconosciuti quei costi (non inerenti) e dovrà pagarci le imposte, mentre per il collaboratore potrebbero emergere redditi non dichiarati con relativi arretrati fiscali e contributivi. Su questo fronte l’onere di prova è stringente: bisogna dimostrare che le somme corrisposte corrispondono effettivamente a spese sostenute dal collaboratore nell’interesse dell’azienda (e documentate) e non a un compenso per la sua attività.
Difesa e prevenzione – come documentare le trasferte:
- Fatture intestate e dettagliate: richiedere sempre fattura (elettronica) intestata alla propria partita IVA per ogni spesa di rilievo (hotel, ristoranti, agenzie di viaggio, noleggi, ecc.), con indicazione chiara della natura (es. “pernottamento per trasferta dipendente” o “cena di lavoro con cliente X”). Questo elimina l’appiglio formale della mancata intestazione .
- Registro delle trasferte: tenere un registro o dossier interno delle missioni, annotando per ogni viaggio le date, la destinazione, lo scopo e i soggetti coinvolti (es. “10-12 marzo: missione a Londra per incontro con cliente ABC Ltd”). In caso di controllo, esibire una lista dettagliata delle trasferte con i relativi motivi aiuta a dimostrare la coerenza e l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa dichiarata . Questo può letteralmente smontare l’ipotesi del Fisco che certi viaggi fossero vacanze personali .
- Conservare pezze giustificative: oltre alle fatture, raccogliere qualunque evidenza “esterna” che colleghi il viaggio all’attività. Ad esempio: biglietti aerei e carte d’imbarco, ricevute di pedaggi, biglietti di ingresso a fiere o convegni, brochure o badge degli eventi a cui si è partecipato, biglietti da visita delle persone incontrate, email di convocazione a riunioni o conferma appuntamenti, report interni post-missione, fotografie di stand fieristici, ecc. Ogni elemento che provi che la trasferta aveva uno scopo lavorativo concreto sarà utile in sede difensiva . Ad esempio, per un pranzo di lavoro contestato, si potrebbe esibire uno scambio email con il cliente avvenuto quel giorno, dal quale si evince l’incontro avvenuto a pranzo .
- Moderazione e coerenza: adottare comportamenti coerenti con la natura aziendale. Una cena aziendale da 1.000€ per 10 persone può avere senso a Natale con tutti i dipendenti (inoltre le spese per eventi interni ai dipendenti sono generalmente assimilate al costo del personale, quindi deducibili al 100% come costo di lavoro) . Diverso è dichiarare cene da 500€ ogni settimana sempre tra gli stessi soci o familiari: in caso di verifica sarà difficile farle passare come vere cene di affari. Il profilo del contribuente conta: ad esempio, una piccola ditta individuale con fatturato modesto che deduce viaggi costosi all’estero dovrà aspettarsi maggiori domande dal Fisco (c’è sproporzione evidente). In generale, evitare eccessi o anomalie (numero elevato di trasferte all’estero senza corrispondenti ricavi esteri, spese alberghiere di lusso non giustificate dal ruolo dell’ospite, ecc.) e mantenere le spese di viaggio in linea con la scala e il settore dell’attività contribuisce a ridurre le probabilità di contestazione.
- Separare ciò che è personale: se un viaggio unisce lavoro e vacanza (trasferta mista), è fondamentale separare le spese. Ad esempio, se dopo un meeting di due giorni si aggiungono tre giorni di ferie, il biglietto aereo dovrebbe essere pagato (o addebitato) in proporzione, oppure si dovrebbero distinguere le ricevute dell’hotel (fatturando a parte le notti extra non lavorative) . Deducete solo la quota effettivamente riferita al lavoro, pagando personalmente (senza far passare in contabilità) i costi relativi agli accompagnatori non coinvolti nell’attività e ai giorni aggiuntivi di vacanza . Questa accortezza rende molto più credibile la vostra posizione in caso di controllo e riduce la materia del contendere: se l’azienda ha già escluso dalla deduzione la parte “leisure”, l’Ufficio potrà difficilmente sostenere che ciò che rimane (il costo per i giorni lavorativi) non fosse inerente.
- Report di missione: per trasferte lunghe o importanti, al rientro predisporre un breve resoconto scritto di ciò che è stato fatto (incontri avuti, risultati ottenuti, opportunità emerse), magari inviandolo via email all’ufficio o ai superiori. Non è un obbligo di legge, ma se in futuro qualcuno chiedesse “Cosa ha prodotto questo viaggio?”, poter esibire un report contemporaneo che spiega i contatti avviati e le attività svolte fornisce un forte riscontro della genuinità della trasferta . Questo accorgimento è particolarmente utile nelle verifiche a distanza di anni, quando i dettagli sfumano: avere un promemoria scritto aiuta a sostenere la propria difesa con precisione.
Giurisprudenza di riferimento sulle spese di viaggio: la Corte di Cassazione ha più volte affrontato contestazioni relative a viaggi e soggiorni dedotti come costi d’impresa ma ritenuti “non inerenti” dal Fisco. Un caso emblematico è la sentenza n. 21903/2015, in cui una società aveva dedotto consistenti spese di viaggio e soggiorno senza però fornire prove di una loro effettiva finalità economica. La Cassazione, confermando l’indeducibilità, ha sottolineato che la contribuente non aveva fornito alcun elemento per ritenere quei viaggi funzionali all’attività, né prova di incontri d’affari avvenuti durante le trasferte, concludendo che verosimilmente si trattava di viaggi di piacere . Questo pronunciato ribadisce che tutto ruota attorno all’onere probatorio: se non fornisci spiegazioni e riscontri, perderai . Al contrario, in altre pronunce, laddove il contribuente aveva prodotto documentazione di fiere estere, inviti a convegni e meeting professionali collegati ai viaggi, la deducibilità è stata riconosciuta (naturalmente entro i limiti normativi, ad es. 75%) . In definitiva, le spese di viaggio, vitto e alloggio sono inerenti se correlate a reali esigenze di lavoro, ma proprio perché possono facilmente mascherare spese personali, vanno supportate da robusta documentazione e da comportamenti coerenti .
Novità 2025: obbligo di tracciabilità dei pagamenti per vitto, alloggio e trasporti
Una recente evoluzione normativa merita particolare attenzione: a partire dal 1° gennaio 2025, per poter beneficiare delle agevolazioni fiscali su trasferte e rimborsi spese, diventa obbligatorio l’utilizzo di metodi di pagamento tracciabili. La Legge di Bilancio 2025 (L. 207/2024) e il D.Lgs. 192/2024 (riforma IRPEF-IRES) hanno introdotto disposizioni volte a contrastare l’evasione fiscale in materia di trasferte, equiparando di fatto il trattamento di dipendenti e autonomi .
In particolare:
- Lavoratori dipendenti: le spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto sostenute dal dipendente in trasferta, rimborsate dal datore di lavoro, non concorreranno al reddito del dipendente (come rimborsi esenti) solo se i pagamenti sono effettuati con strumenti tracciabili (carte di credito, bancomat, bonifici, assegni, ecc.) . Se invece il dipendente anticipa spese in contanti e poi chiede rimborso, dal 2025 tali somme saranno trattate al pari di compensi: diventeranno imponibili per il dipendente e non deducibili per il datore, con obbligo di applicare ritenute e contributi come per qualsiasi altra retribuzione . In pratica, non sarà più sufficiente compilare note spese con scontrini: occorrerà provare la tracciabilità di ogni pagamento sostenuto . Restano ferme le regole su diarie e trasferte brevi (es. indennità forfettarie per missioni extra-comunali), ma anche in quei casi le eventuali spese analitiche dovranno essere tracciate per non perdere l’esenzione .
- Lavoratori autonomi e imprese: analoghe restrizioni si applicano alle spese di vitto, alloggio, viaggio e trasporto sostenute dal professionista o dall’impresa. Dal 2025 tali costi (incluse le prestazioni alberghiere, i pasti e i taxi/NCC) saranno deducibili solo se pagati con strumenti tracciabili . Questo vale sia per le spese addebitate analiticamente al cliente (nel caso di un professionista che riaddebita costi in fattura) sia per i rimborsi erogati dall’azienda ai propri dipendenti o collaboratori in trasferta . La normativa unifica dunque il trattamento: qualora i pagamenti non siano tracciati, gli importi erogati verranno considerati come reddito (da lavoro autonomo o dipendente) e il datore/committente perderà la deducibilità del costo .
- Articoli modificati: sono stati aggiornati l’art. 95 TUIR (spese per prestazioni di lavoro dipendente) e l’art. 54 TUIR (lavoro autonomo) per inserire l’obbligo di tracciabilità come condizione di deducibilità . Anche l’art. 108 TUIR (spese di rappresentanza) è stato modificato: dal 2025 anche le spese di rappresentanza saranno deducibili solo se pagate con mezzi tracciabili , fermo restando che devono essere inerenti e nei limiti quantitativi di legge.
Queste novità impongono alle imprese e ai professionisti un cambio di prassi gestionale: sarà necessario istruire il personale e aggiornare le policy interne affinché ogni spesa di trasferta sia effettuata tramite carte aziendali o altri mezzi tracciati, e debitamente documentata. In sede di controllo, la mancanza di tracciabilità potrà costituire un motivo immediato di ripresa a tassazione del costo (oltre che di trattamento come compenso) . D’altro canto, rimane invariato il principio fondamentale dell’inerenza: la tracciabilità è una condizione aggiuntiva, ma se la spesa non è inerente all’attività, resterà indeducibile anche se pagata con carta . In sintesi, dal 2025 per dedurre spese di viaggio e vitto occorre doppia conformità: devono essere inerenti e pagate in modo tracciabile.
Esempio: un’azienda rimborsa nel 2025 a un proprio dipendente € 200 per vitto e alloggio in trasferta. Se il dipendente ha pagato in contanti e presenta solo ricevute cartacee, quell’importo sarà trattato come reddito imponibile per il lavoratore (con ritenute e contributi) e la società non potrà dedurlo come costo . Se invece il dipendente ha pagato con carta di credito (o se l’azienda ha pagato direttamente l’hotel), ecco che la somma rimane un rimborso esente per il lavoratore e un costo deducibile al 75% per la società (salvo altre limitazioni di inerenza).
Aspetti procedurali: dal ricevimento dell’accertamento al giudizio
Dopo aver analizzato il “cosa” (i costi contestati e come difenderne l’inerenza), vediamo ora “come” procedere quando l’Agenzia delle Entrate contesta spese di viaggio non inerenti e avvia la fase accertativa. Il contribuente deve muoversi tempestivamente e con strategia, considerando sia i rimedi deflativi (per evitare o limitare il contenzioso), sia la difesa nel merito in caso di giudizio.
Tipicamente tutto inizia con una verifica fiscale sul campo o un controllo della dichiarazione:
- Processo Verbale di Constatazione (PVC): se la Guardia di Finanza effettua un accesso in azienda e riscontra, ad esempio, costi di trasferta non giustificati nei documenti contabili, redigerà un PVC con i rilievi. In questa fase pre-accertamento c’è la possibilità di fornire chiarimenti e documenti integrativi direttamente ai verificatori prima che le contestazioni diventino definitive . È buona prassi collaborare durante la verifica per spiegare la natura delle spese contestate (magari presentando in extremis quei documenti che non erano stati mostrati subito). Spesso una giustificazione convincente data “sul campo” può indurre la GdF a non trasmettere rilievi all’Agenzia, o quantomeno a ridimensionarli .
- Invito al contraddittorio: talvolta, prima di emettere l’accertamento, l’Agenzia Entrate invia al contribuente un invito a comparire o a fornire chiarimenti su determinate spese anomale. Ad esempio, se dal controllo formale di una dichiarazione emergono costi di viaggio molto alti rispetto ai ricavi, l’Ufficio può invitare il contribuente a spiegare tali spese. Questo contraddittorio endoprocedimentale è un’opportunità da sfruttare: presentare una memoria difensiva con documenti aggiuntivi, fatture e una spiegazione dettagliata dell’utilità di quei viaggi può convincere l’ufficio a non emettere l’atto o a ridurre l’importo contestato . Sempre meglio quindi partecipare attivamente e per iscritto al contraddittorio, anziché ignorarlo.
- Avviso di accertamento: se il Fisco ritiene insufficienti le spiegazioni (o se non c’è stato invito preventivo), emetterà un avviso di accertamento. Questo è l’atto formale che recupera a tassazione i costi indeducibili, ricalcolando il reddito e l’imposta dovuta, e comminando le relative sanzioni. L’avviso dettagli l’anno d’imposta, gli importi contestati, le motivazioni (spesso richiamando il PVC o le norme violate) e l’ammontare di maggior imposta, sanzioni e interessi . Dal momento della notifica, il contribuente ha 60 giorni di tempo per presentare ricorso (o attivare strumenti deflativi). È fondamentale leggere attentamente la motivazione dell’atto, per individuare i punti da contestare: ad esempio, l’Agenzia potrebbe aver sbagliato a interpretare un documento, o potrebbe non aver considerato una certa circostanza giustificativa. In assenza di ricorso nei termini, l’atto diviene definitivo. Va notato che presentare ricorso sospende l’obbligo di pagamento immediato: generalmente nelle imposte dirette si paga solo un terzo in pendenza di giudizio (salvo chiedere anche la sospensione di quel pagamento), il resto resta in stand-by .
A questo punto il contribuente ha di fronte varie opzioni difensive, riassunte nella tabella seguente:
<table> <thead> <tr><th>Fase / Strumento</th><th>Descrizione</th><th>Vantaggi per il contribuente</th></tr> </thead> <tbody> <tr> <td><strong>Autotutela</strong> (entro 60 gg dalla notifica)</td> <td>Istanza di annullamento o riesame in via amministrativa, rivolta allo stesso ufficio che ha emesso l’accertamento.</td> <td>Può risolvere rapidamente se c’è un errore palese nell’atto (es. persona sbagliata, calcolo errato). Non sospende i termini del ricorso, ma vale la pena tentare parallelamente: l’ufficio può annullare o correggere l’atto d’ufficio senza costi.</td> </tr> <tr> <td><strong>Accertamento con adesione</strong> (istanza entro 60 gg)</td> <td>Procedura di <em>definizione concordata</em>: il contribuente chiede un incontro con l’Ufficio per discutere l’accertamento e provare a raggiungere un accordo.</td> <td>Sospende i termini per ricorrere per 90 giorni. Permette di <strong>negoziare</strong>: si possono presentare ulteriori prove, ottenere un parziale riconoscimento dei costi. In caso di accordo, le sanzioni sono ridotte a 1/3 del minimo . Si evita il giudizio e si chiude la vicenda in tempi brevi.</td> </tr> <tr> <td><strong>Reclamo-mediazione</strong> (valore lite ≤ soglia, oggi 50.000 €)</td> <td>Procedura obbligatoria per le liti minori: il ricorso introduttivo vale anche come reclamo e viene esaminato da un ufficio diverso dell’Agenzia (o da un organismo di mediazione) che può formulare una proposta di accordo.</td> <td>Offre una chance ulteriore di accordo prima del giudizio. Se la mediazione riesce, le sanzioni sono ridotte al 35% . È obbligatorio tentarla per liti fino alla soglia (50k euro, elevabile a 100k con la riforma fiscale). In caso di esito negativo, si procede col giudizio ma senza perdere diritti.</td> </tr> <tr> <td><strong>Ricorso 1° grado</strong> (Corte Giust. Tributaria Prov.)</td> <td>È l’atto formale con cui si apre il processo tributario di primo grado. Si espongono i motivi di ricorso e si allegano le prove a sostegno.</td> <td>Consente di portare la questione davanti a giudici terzi. Si può chiedere la <strong>sospensione</strong> dell’atto (per bloccare la riscossione finché pende la causa). In udienza, il giudice esamina il merito ex novo, potendo accogliere in tutto o in parte le ragioni del contribuente.</td> </tr> <tr> <td><strong>Conciliazione giudiziale</strong> (in corso di causa)</td> <td>Le parti, anche su suggerimento del giudice, possono trovare un <em>accordo transattivo</em> durante il processo, fino alla sentenza di primo grado (ed eventualmente anche in appello).</td> <td>Chiude la lite con sanzioni ridotte (1/3 in caso di conciliazione in primo grado) . Si può definire anche solo una parte del contenzioso. È utile se emergono elementi per un compromesso (es. riconoscere alcune spese e rinunciare ad altre) evitando l’incertezza della sentenza.</td> </tr> <tr> <td><strong>Sentenza di 1° grado</strong></td> <td>Decisione della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado (ex CTP) – collegio di tre giudici – che decide sul merito del ricorso.</td> <td>Se favorevole al contribuente, annulla in tutto o in parte l’accertamento (l’Agenzia potrebbe appellare, ma intanto l’atto non è esecutivo per la parte annullata). Se sfavorevole, fornisce le motivazioni su cui basare l’eventuale appello.</td> </tr> <tr> <td><strong>Appello 2° grado</strong> (Corte Giust. Trib. Reg.)</td> <td>Impugnazione della sentenza di primo grado. Il giudizio verte sugli stessi fatti, ma in appello l’introduzione di nuove prove è limitata (ammessa solo in certi casi, es. prove sopravvenute o non producibili prima).</td> <td>Consente di correggere eventuali errori di giudizio del primo grado. In caso di esito favorevole, ribalta la decisione. Se le parti trovano un accordo in appello, è possibile la conciliazione con sanzioni ridotte al 50% (incentivo introdotto dal 2019).</td> </tr> <tr> <td><strong>Sentenza di 2° grado</strong></td> <td>Decisione della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (ex CTR) sull’appello. Se non vi sono ulteriori impugnazioni, la sentenza passa in giudicato.</td> <td>Pone fine al contenzioso fiscale. Se favorevole al contribuente e l’Agenzia non ricorre in Cassazione, la vittoria è definitiva con diritto al rimborso di quanto eventualmente pagato in pendenza di giudizio. Se sfavorevole, il contribuente può valutare il ricorso in Cassazione.</td> </tr> <tr> <td><strong>Ricorso per Cassazione</strong></td> <td>Terzo e ultimo grado di giudizio, ammesso solo per motivi di diritto (violazioni di legge o vizi di motivazione gravi). La Cassazione non rivede i fatti, ma solo la corretta applicazione delle norme.</td> <td>Serve a uniformare l’interpretazione della legge tributaria. Utile se ci sono principi controversi da chiarire (es. come interpretare l’inerenza qualitativa, o se l’onere della prova era rispettato) . I tempi sono lunghi, e la pendenza non sospende automaticamente l’esecuzione della sentenza d’appello (bisogna chiedere sospensione specifica).</td> </tr> <tr> <td><strong>Definizione agevolata liti</strong> (se prevista)</td> <td>Eventuale <em>sanatoria</em> prevista dal legislatore (come avvenuto nel 2023 e 2024): consente di chiudere le controversie pagando una percentuale dell’importo, in base allo stato del giudizio.</td> <td>Permette di chiudere rapidamente il contenzioso con risparmio su sanzioni e interessi. Va valutata caso per caso, bilanciando la probabilità di vittoria in giudizio e il costo del condono. Se l’offerta di legge è vantaggiosa rispetto ai rischi del processo, può essere una soluzione conveniente.</td> </tr> </tbody> </table>
Costi del contenzioso: dal punto di vista del debitore è importante considerare anche i costi da sostenere per difendersi. Affrontare un contenzioso comporta spese legali (onorari dell’avvocato tributarista o del commercialista che assiste), eventuali costi per consulenti tecnici (perizie di parte se servono a dimostrare qualcosa, ad esempio la congruità di un costo), nonché il contributo unificato da versare all’atto del ricorso (che dipende dal valore della lite: es. €30 fino a 3.000€, €60 fino a 26.000€, €120 fino a 52.000€, €250 fino a 260.000€, etc.) . Bisogna inoltre mettere in conto il tempo e le risorse da dedicare. Se l’importo contestato è relativamente basso, conviene fare bene i calcoli: talvolta pagare e chiudere il debito (magari con adesione o acquiescenza, sfruttando le riduzioni sanzionatorie) conviene più che spendere il doppio in parcati legali e attendere anni di giudizio . Fortunatamente, per le liti minori il sistema del reclamo-mediazione e le definizioni agevolate offrono soluzioni meno dispendiose.
Al contrario, se la questione di inerenza ha un impatto ampio (magari perché riguarda più annualità o stabilisce un principio importante per l’azienda), investire nella difesa diventa doveroso. Va anche ricordato che, in caso di soccombenza, il giudice può condannare la parte perdente a pagare le spese di lite alla controparte (importo deciso secondo parametri forensi): dunque se il contribuente perde, oltre al debito fiscale maggiorato di sanzioni e interessi, dovrà pagare anche le spese legali dell’Agenzia .
Profili penali e sanzionatori
Quando le contestazioni fiscali assumono una certa gravità quantitativa, possono attivarsi anche profili di responsabilità penale tributaria. Dedurre costi inesistenti o spese personali spacciate per aziendali significa infatti aver presentato una dichiarazione dei redditi infedele. Le fattispecie di reato che tipicamente possono emergere in questi casi sono:
- Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): si configura quando l’imposta evasa supera €100.000 e il reddito sottratto a tassazione eccede il 10% di quello dichiarato (con almeno €2 milioni di imponibile non dichiarato) . L’indebita deduzione di spese non inerenti contribuisce a una dichiarazione infedele perché riduce il reddito imponibile dichiarato. Se, ad esempio, un’azienda deduce €500.000 di costi non inerenti e ciò comporta €140.000 di imposte evase, viene superata la soglia di punibilità penale . La pena prevista (attualmente) è la reclusione fino a 3 anni (nel minimo, salvo aumenti se l’imposta evasa > €200k). Tuttavia, va provato il dolo specifico di evasione, cioè la consapevolezza di indicare dati falsi in dichiarazione. Non è raro che in vicende di inerenza l’imprenditore obietti: “pensavo sinceramente che quei costi fossero deducibili”. Se manca la volontà fraudolenta, spesso il procedimento penale per infedele può essere archiviato, trattandosi di questioni interpretative . Inoltre, pagando interamente il debito tributario prima del dibattimento, scatta una causa di non punibilità per l’infedele (depenalizzazione) fino a imposte evase di €200.000 .
- Dichiarazione fraudolenta mediante fatture false (art. 2 D.Lgs. 74/2000): ipotesi ben più grave, che ricorre se il contribuente ha utilizzato fatture o documenti falsi o relativi a operazioni inesistenti per dedurre costi fittizi . Ad esempio, se per “giustificare” un rimborso spese o un viaggio inesistente si emette/riceve una fattura falsa, ciò integra dichiarazione fraudolenta, punita con reclusione da 4 a 8 anni (soglia di punibilità imposta evasa > €100k, e non opera la causa di non punibilità del pagamento) . Fortunatamente, questa situazione esula dalla mera inerenza: qui siamo nel campo della frode conclamata, con documenti falsi, e richiede la prova di un comportamento ingannevole preordinato.
- Altri reati tributari: in casi particolari, potrebbero configurarsi emissione di fatture false (art. 8 D.Lgs. 74/2000) se il soggetto emette egli stesso fatture per operazioni inesistenti a favore di altri; oppure, ipotesi residuale, l’indebita compensazione (art. 10-bis) se il contribuente ha utilizzato crediti d’imposta inesistenti generati dai costi falsi . Tuttavia queste fattispecie sono più rare nel contesto dei viaggi non inerenti.
In sede penale, un accertamento fiscale negativo non equivale automaticamente a colpevolezza. Sarà compito della Guardia di Finanza e della Procura dimostrare il dolo e gli elementi oggettivi del reato oltre ogni ragionevole dubbio. La Cassazione penale e la Corte Costituzionale hanno sottolineato come le presunzioni valute in sede tributaria non possano da sole fondare una condanna penale . Ad esempio, la Corte Costituzionale (sent. n. 10/2023) ha osservato che secondo l’art. 32 DPR 600/1973 i prelievi non giustificati dal conto corrente dell’imprenditore sono considerati redditi presunti d’impresa, ma si tratta appunto di presunzioni valevoli nel procedimento tributario . In ambito penale, invece, serviranno prove concrete che quei costi erano fittizi e che l’imputato era consapevole dell’inganno . In altre parole, anche se il Fisco ha disconosciuto le spese, il giudice penale dovrà valutare se c’è evidenza di una condotta fraudolenta deliberata. Spesso, casi penal-tributari legati all’inerenza si risolvono con archiviazioni o assoluzioni, specie se il contribuente ha tenuto documenti regolari e la questione è stata principalmente tecnica (mancato riconoscimento di inerenza) .
Se però viene accertato il reato, le sanzioni penali possono essere significative: si va da pesanti multe (fino a 3-4 volte l’ammontare dell’imposta evasa) alla reclusione nei casi più gravi di frode fiscale . Ecco perché, anche in fase d’indagine penale, è fondamentale produrre tutte le prove documentali della genuinità delle spese contestate e della buona fede del contribuente . Da notare che, per i reati dichiarativi come l’infedele, esiste la possibilità di evitare la pena versando il dovuto: come detto, il pagamento integrale del tributo evaso prima del processo estingue il reato di dichiarazione infedele (entro la soglia di €200k) . Quindi, qualora malauguratamente scatti una denuncia penale per spese non inerenti, attivarsi per saldare il debito tributario (magari ricorrendo a ravvedimento operoso, se ancora possibile, o transazioni) può rappresentare un’ancora di salvezza per chiudere anche il capitolo penale.
Sanzioni amministrative: sul piano amministrativo, la deduzione di costi non inerenti comporta una sanzione per indebita deduzione di componenti negativi, normalmente pari al 30% della maggior imposta dovuta (sanzione base per dichiarazione infedele) . Tale sanzione può salire fino al 240% in presenza di frode o dolo conclamato . Se poi i costi contestati incidono anche sull’IVA (vedi oltre), si aggiungono le sanzioni IVA (generalmente 90% dell’IVA non versata). Inoltre, se le spese disconosciute erano state rimborsate a un dipendente o collaboratore, c’è il rischio di dover versare anche contributi previdenziali su quelle somme ora considerate retributive . Le sanzioni amministrative possono essere ridotte con gli strumenti deflativi: ad esempio, l’accertamento con adesione o la conciliazione comportano riduzione a 1/3 delle sanzioni; l’acquiescenza (accettazione dell’atto senza ricorso entro 60 gg) riduce a 1/3 (se c’è rinuncia a impugnare); la mediazione ha sanzioni al 35%, ecc. In caso di ricorso, se il contribuente vince la causa le sanzioni vengono eliminate; se perde, resteranno applicate come da atto (salvo riduzioni in caso di definizione agevolata delle liti, se prevista).
IVA e costi non inerenti: generalmente, quando una spesa viene considerata non inerente all’attività d’impresa, anche l’IVA addebitata su di essa diviene indetraibile. Ciò perché ai sensi delle norme IVA (art. 19 DPR 633/72) si può detrarre l’IVA solo sugli acquisti effettuati nell’esercizio dell’impresa o professione. Dunque, negli avvisi di accertamento spesso l’Agenzia contesta sia il maggior reddito (per i costi indeducibili) sia il recupero dell’IVA indebitamente detratta su quei costi . Ad esempio, se una società ha dedotto e detratto IVA su fatture per €10.000 + IVA per viaggi non inerenti, l’ufficio disconoscerà i €10.000 come costo e chiederà il versamento di €2.200 di IVA (22%) non spettante, con relative sanzioni . Ci sono casi particolari in cui il costo è solo parzialmente inerente: ad esempio le autovetture aziendali hanno deducibilità limitata (20% del costo, salvo autocarri) e l’IVA è detraibile al 40%. Se l’ufficio contestasse l’inerenza al 100% (ipotizzando uso personale totale), toglierebbe anche tutta l’IVA detratta; il contribuente potrebbe difendersi sostenendo almeno l’uso promiscuo (quindi chiedere il riconoscimento almeno del 40% di IVA detraibile, se non altro) . La giurisprudenza nazionale, in linea di massima, equipara non inerenza e indetraibilità IVA: la Corte di Cassazione ha affermato che se un’operazione è manifestamente estranea all’attività o antieconomica, spetta al contribuente provare la reale destinazione aziendale al fine di detrarre l’IVA . In pratica quindi costo non inerente = IVA indetraibile . Dal punto di vista difensivo, non bisogna dimenticare di contestare anche le riprese IVA (se presenti): se si riesce a dimostrare l’inerenza del costo, automaticamente cadrà anche la contestazione IVA; viceversa, se un costo resta indeducibile, occorrerà accettare la ripresa IVA salvo riuscire a ridurne l’entità (per uso promiscuo). Si segnala infine che la nozione di inerenza in ambito IVA, essendo di matrice unionale, ha qualche sfumatura diversa legata al principio di neutralità IVA, ma queste differenze esulano dall’obiettivo della presente guida.
Domande frequenti (FAQ)
D: Cosa significa in concreto che un costo sia “inerente” all’attività?
R: Significa che la spesa deve avere un nesso diretto con l’attività economica esercitata, ossia deve essere sostenuta nell’interesse dell’impresa o della professione per lo svolgimento, il mantenimento o lo sviluppo della stessa . Non è necessario che generi uno specifico ricavo immediato; basta che sia funzionale all’attività in senso lato, anche come investimento futuro o esigenza organizzativa . Ad esempio, la bolletta elettrica dello stabilimento è inerente perché senza energia non produci; una sponsorizzazione sportiva può essere inerente perché mira a far conoscere il marchio (beneficio potenziale futuro). Viceversa, una spesa non è inerente se afferisce alla sfera personale del titolare (es. una vacanza privata pagata coi fondi aziendali) o a finalità estranee allo scopo dell’impresa (es. una donazione benefica fatta dall’azienda) . In sintesi: è inerente tutto ciò che appartiene alla sfera dell’attività economica, non ciò che ne è fuori.
D: L’Agenzia può contestare un costo solo perché “antieconomico”, ossia troppo elevato rispetto all’utilità apparente?
R: La antieconomicità, di per sé, non è motivo sufficiente per negare la deducibilità . Una spesa sproporzionata ai ricavi può far sorgere il sospetto di non inerenza e giustificare un’indagine approfondita , ma se il contribuente dimostra che, nonostante l’importo elevato, c’era un motivo imprenditoriale valido (anche solo strategico o potenziale) e fornisce riscontri documentali, la spesa rimane deducibile . Ad esempio, investire molto in pubblicità in un anno e non vedere subito un ritorno non autorizza il Fisco a disconoscere i costi pubblicitari solo perché “non hanno reso” – occorre guardarne la finalità. Diverso è il caso in cui la spesa antieconomica nasconda un costo fittizio o personale: lì l’antieconomicità è sintomo di altro (frode, utilità estranea) e porta a disconoscere il costo perché non vero o non inerente, non per il mero importo eccessivo . In pratica: un costo può essere alto e deducibile, ma se è assurdo rispetto all’attività dovrai giustificarlo molto bene per vincere le resistenze del Fisco.
D: In caso di contestazione, chi deve provare l’inerenza (o la non inerenza) di una spesa?
R: In base ai principi generali (e confermati anche dopo la riforma 2022), spetta al contribuente provare che la spesa è inerente e che è stata effettivamente sostenuta . L’Amministrazione finanziaria deve inizialmente motivare perché considera il costo non inerente (ad esempio: “manca documentazione idonea” oppure “la spesa non attiene all’oggetto sociale”) , ma una volta sollevata la questione, l’onere passa al contribuente, che deve fornire documenti e spiegazioni dimostrando il collegamento tra il costo e l’attività . Il nuovo art. 7, co.5-bis D.Lgs. 546/92 non ha invertito questo principio di base: ha solo ribadito che il Fisco deve portare elementi a sostegno della pretesa, ma se lo fa (anche solo indiziari), rimane al contribuente l’onere di controbattere con prove contrarie . In concreto, nel processo tributario il contribuente deve arrivare con le “carte in mano” per ogni voce contestata; se non lo fa, quasi certamente perderà e il costo sarà indeducibile .
D: Quali prove posso portare per dimostrare che un costo di viaggio è inerente?
R: Prima di tutto le fatture e ricevute che attestano il pagamento (registrate in contabilità, con IVA detratta se applicabile) . Poi è fondamentale tutto ciò che collega quella fattura all’attività svolta: ad esempio contratti o ordini da cui si evinca lo scopo (se hai sostenuto un viaggio per incontrare un cliente, il contratto/incarico col cliente può provare la necessità della trasferta) ; corrispondenza e email in cui quel viaggio è pianificato o il cliente invita/pianifica l’incontro ; rapportini o relazioni post-viaggio in cui relazioni cosa hai fatto (es. report di un consulente dopo una missione) . Per una fiera o un convegno, conserva il badge di ingresso, il programma dell’evento, la brochure – mostrano che eri lì per motivi attinenti al tuo settore . Anche elementi esterni: per un pranzo di lavoro, potresti allegare un’email di invito al cliente o una successiva email di follow-up che fa riferimento all’incontro avuto (prova che quel pranzo è avvenuto per affari) . Per una trasferta, i biglietti aerei, ferroviari, ricevute albergo sono d’obbligo, ma aggiungi anche un documento che illustri il contesto: ad esempio, “biglietto fiera settore X a cui ho partecipato il giorno tale” oppure “email del cliente estero che mi chiede di andare da lui quel giorno”. Se restano zone d’ombra, oggi puoi persino ricorrere a testimoni scritti: ad esempio, una dichiarazione firmata dal cliente che conferma “Tizio era presso di noi il giorno X per trattative commerciali” può essere ammessa come prova (va chiesta espressamente al giudice) . Inoltre, può aiutare richiamare norme di settore o usi: se operi in un campo dove è normale sostenere certe spese di viaggio (es. un agente di commercio che gira costantemente per clienti), allegare un documento (anche un articolo di rivista di settore) che dica che “è prassi offrire omaggi o visite” può servire a far capire al giudice che quella spesa è usuale nel tuo business . Infine, citare giurisprudenza favorevole può aiutare sul piano legale: ad esempio, riportare in memoria la frase della Cassazione “è costo inerente anche ciò che non reca vantaggio economico immediato” serve a contrastare eventuali obiezioni dell’ufficio sul fatto che “quel viaggio non ha prodotto affari nell’immediato”. In sintesi: più prove, meglio è – preparati un dossier completo per ogni viaggio contestato.
D: Le spese di viaggio dei familiari o accompagnatori sono deducibili?
R: Generalmente no. Le spese sostenute per coniugi, figli o altri accompagnatori che non hanno un ruolo lavorativo nell’impresa non sono inerenti all’attività. Ad esempio, se il titolare va a un convegno e porta con sé il coniuge che non è dipendente né collaboratore, le spese di quest’ultimo (biglietto, vitto, alloggio) non hanno attinenza con l’impresa e sono indeducibili al 100%. Anche se il familiare partecipa “moralmente” o per compagnia, per il Fisco resta una spesa personale. Diverso è il caso in cui il familiare sia anch’egli parte dell’attività (es. socio, dipendente): in tal caso la sua trasferta potrebbe essere inerente, ma va comunque documentata come per chiunque altro. In ogni caso, nelle note spese o nelle fatture occorre separare chiaramente le spese dei non addetti: idealmente chiedere fatture separate, oppure indicare in nota spese che “spesa per accompagnatore non a carico dell’azienda”. Così quell’importo non verrà portato in deduzione. Se invece si deduce ugualmente, in verifica l’Ufficio disconoscerà quell’onere e, come detto, potrebbe riconsiderarlo un beneficio al titolare (con implicazioni di tassazione IRPEF personale). Quindi la regola è: viaggi dei familiari = spesa personale.
D: Posso dedurre un viaggio di lavoro che ho esteso per vacanza personale?
R: Sì, ma solo la parte di costi riferibile al lavoro è deducibile. Come discusso, è fondamentale separare le spese. Esempio: vai 2 giorni a una fiera (motivi di lavoro) e ti fermi altri 5 giorni di vacanza. Il biglietto aereo andrebbe suddiviso pro-quota, oppure – soluzione migliore – fai un biglietto di andata e ritorno ad hoc per i giorni lavorativi e gestisci a parte (a tue spese) l’eventuale differenza di costo per prolungare il soggiorno. L’hotel: fatti fare fattura separata per i 2 giorni della fiera intestata all’azienda, e paga di tasca tua i 5 giorni extra di vacanza. In questo modo dedurrai solo i 2 giorni (75% se sei soggetto al limite) e sarà difficile per l’Agenzia contestare la parte dedotta. Se invece prendi una fattura unica di 7 giorni e la deduci interamente “perché tanto ero lì anche per lavoro”, sarà quasi certo un disconoscimento parziale o totale in verifica. Quindi sì alla deduzione pro-quota, ma occorre che il contribuente stesso dimostri correttezza: se lui per primo scorpora le spese personali, il Fisco non potrà accusarlo di aver dedotto costi non inerenti alla vacanza.
D: Cosa fare se l’Agenzia mi contesta spese di viaggio non inerenti in un processo verbale di verifica?
R: Innanzitutto, non sottovalutare la contestazione e non aspettare passivamente l’avviso di accertamento. È importante reagire subito: entro 60 giorni dal PVC (o dalla notifica del verbale finale) puoi presentare una memoria difensiva all’Ufficio controlli, allegando tutti i documenti giustificativi e le tue controdeduzioni . In tale risposta scritta dovrai focalizzarti su alcuni punti chiave: spiegare la differenza tra spesa personale e spesa di lavoro (se nel verbale ti accusano di aver dedotto costi personali, tu devi evidenziare perché invece erano spese per affari), richiamare il rapporto con l’attività (ad es. “questo viaggio rientrava nel contratto col cliente X, come da clausola di rimborso spese allegata”) e assicurare di non aver occultato ricavi attraverso quei costi (ossia che non erano utili nascosti) . Fornisci copia integrale di ricevute, fatture, estratti conto, contratti, email, tutto ciò che supporta la tua tesi . L’obiettivo è convincere l’Ufficio (magari in sede di adesione) prima che emetta l’accertamento, o quantomeno costruire una traccia documentale che verrà valutata poi dal giudice. Puoi anche chiedere un incontro (istanza di adesione) per discutere informalmente e chiarire eventuali fraintendimenti . In ogni caso mai ignorare la contestazione: il silenzio spesso viene letto come mancanza di difese e porta dritto all’atto con sanzione piena .
D: Quali sanzioni rischio se un costo di viaggio viene disconosciuto come non inerente?
R: Principalmente una sanzione amministrativa per dichiarazione infedele sul maggior imponibile accertato. Di base è il 30% dell’imposta relativa ai costi indebiti . Questa può salire fino al 90% in caso di omessa dichiarazione di quella parte di reddito, e fino al 240% se c’è frode accertata (cioè volontà deliberata di evasione con artifici) . Nell’atto troverai l’indicazione della sanzione applicata e della norma (tipicamente art. 1, co.2 D.Lgs. 471/97). Oltre alla sanzione pecuniaria fiscale, se scatta il penale (vedi sopra) ci sarebbe anche la sanzione penale, ma quella dipende dal giudice penale ed è eventuale (reclusione, multa). In più, attenzione ai profili previdenziali: se il costo disconosciuto corrispondeva a somme versate a un collaboratore/dipendente, l’INPS potrebbe richiedere i contributi su quelle somme ora qualificate come reddito da lavoro . Esempio: avevi rimborsato €5.000 a un collaboratore per trasferte, ora dicono che erano compensi. Oltre alle tasse, dovrai pagarci i contributi e probabilmente al collaboratore verrà chiesto di pagarli anch’egli (con possibile iscrizione d’ufficio alla gestione separata, ecc.). Infine, come detto, pagando subito (adesione, conciliazione, ecc.) le sanzioni si riducono molto: 1/3 con adesione, 1/3-1/2 con conciliazione, 1/3 con acquiescenza, 0% se vittoria piena in giudizio.
D: Ho dedotto spese di viaggio non inerenti per errore. Posso rimediare spontaneamente?
R: Sì. Se ti accorgi, prima che l’errore sia contestato, di aver dedotto costi personali o non spettanti, puoi presentare una dichiarazione integrativa a sfavore e versare la differenza d’imposta con ravvedimento operoso. Il ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. 472/97) consente di sanare violazioni tributarie spontaneamente, beneficiando di sanzioni ridotte. Ad esempio, se correggi entro un anno dall’errore, pagherai una sanzione del 15% (1/8 del 120%) sul maggior tributo dovuto, più interessi legali. Se correggi oltre l’anno ma entro il termine di accertamento, la sanzione è 1/8 del minimo (quindi 1/8 del 90% = 11.25%). Questo può evitare un futuro accertamento con sanzione piena 30%. Ovviamente occorre pagare anche le imposte dovute e gli interessi. Con il ravvedimento, l’errore viene “perdonato” sotto il profilo amministrativo e non dà luogo a successivo contenzioso (salvo che l’Agenzia avesse già scoperto tutto: se il controllo è già iniziato o la violazione già notificata, il ravvedimento non è più ammesso). In sintesi, se ti rendi conto di aver scaricato in dichiarazione una vacanza personale, ti conviene regolarizzare subito versando il dovuto: spenderai meno e dormirai tranquillo.
D: Se perdo la causa in Commissione Tributaria sulle spese indeducibili, rischio anche conseguenze penali?
R: Dipende dall’entità della violazione. La semplice soccombenza in giudizio tributario non comporta automatismi penali. Il penale si attiva solo se sono superate le soglie di punibilità (vedi reato di dichiarazione infedele sopra). Se le imposte evase per i costi non inerenti superano €100.000, la notizia di reato di solito parte già in fase di verifica . Se la soglia si supera solo a seguito della sentenza (magari perché l’accertamento viene ridotto ma resta sopra 100k), teoricamente l’Agenzia può trasmettere la notizia di reato a quel punto. In pratica, comunque, casi penali per sole questioni di inerenza sono rari e spesso archiviati, specie se non emergono fatture false o elementi fraudolenti . Il penale richiede il dolo: un conto è barare con fatture gonfiate, un altro è sbagliare interpretazione sui costi deducibili. Quindi, se perdi la causa ma avevi documenti regolari e hai semplicemente visto disconosciute spese borderline, è improbabile una condanna penale. E anche se partisse un procedimento, col supporto di un avvocato penalista potrai far valere la buona fede (“interpretazione discutibile, non volontà di frode”). Ricorda inoltre la via di uscita: pagando il debito fiscale, l’infedele non è punibile fino a 200k di imposta . Quindi in extremis, pagando, ci si mette al riparo da guai penali. Diverso sarebbe se i costi contestati fossero fittizi (fatture false): lì è già reato di per sé e non c’è buona fede che tenga. Ma se i costi erano reali, seppur ritenuti non inerenti, al massimo parliamo di infedele, sanabile pagando.
D: Un costo indeducibile comporta anche IVA indetraibile?
R: Nella generalità dei casi sì. Per detrarre l’IVA sugli acquisti serve che l’operazione sia effettuata nell’esercizio dell’impresa o professione. Se un costo è escluso perché estraneo all’attività, anche l’IVA relativa diventa indebitamente detratta e va restituita . Quindi gli accertamenti contestano quasi sempre sia il maggior reddito IRES/IRPEF, sia la recupero dell’IVA su quei costi . Ad esempio, deduci e detrai IVA su fattura hotel €1.000 + IVA per un viaggio “di lavoro” che in realtà era vacanza: l’Agenzia ti chiederà €1.000 di imponibile da tassare più €220 di IVA da versare, con sanzioni su entrambi. Ci sono alcune eccezioni/parzialità: per le auto, come detto, l’IVA è detraibile al 40% anche se la deducibilità reddituale è al 20%; se l’ufficio nega del tutto l’uso aziendale, tu puoi cercare almeno di rivendicare l’uso promiscuo per salvare quel 40% IVA. In generale comunque non inerenza = IVA non detraibile . La Cassazione ha affermato che quando un’operazione è manifestamente estranea all’impresa, spetta al contribuente provare il contrario per detrarre l’IVA . Quindi vanno di pari passo. In sede di difesa, conviene sempre contro-dedurre anche sul punto IVA: a volte i giudici tributari “dimenticano” l’IVA se il contribuente non ne parla, e si rischia che ti salvino l’imponibile ma ti lascino la ripresa IVA. Meglio essere chiari: se difendi il costo, difendi anche la relativa IVA.
Simulazioni pratiche (esempi)
Per capire concretamente come applicare i principi e le strategie fin qui esposti, vediamo alcuni casi pratici tipici:
Caso 1: “Viaggio del consulente ben documentato” – Mario è un consulente informatico che nel 2025 si reca da un cliente a Milano. Acquista personalmente un biglietto aereo A/R da €100 e paga un hotel €200 per una notte. Al ritorno, emette fattura al cliente indicando il compenso per la consulenza di €1.000 e riaddebitando a parte le spese di viaggio e alloggio (€300 totali) in modo analitico, allegando copia dei giustificativi. Il cliente paga il dovuto tramite bonifico. In una successiva verifica, l’Agenzia contesta quei €300 ritenendoli forse un compenso mascherato. Mario può facilmente difendersi mostrando: il biglietto aereo intestato a lui, la fattura dell’hotel a suo nome, il contratto/ordine del cliente con clausola di rimborso spese, l’estratto conto con l’incasso del bonifico del cliente , e magari lo scambio di email col cliente in cui si pianifica l’intervento. Esito: se tutta la documentazione è in regola e coerente, Mario vincerà la contestazione: i €300 sono un rimborso spese fuori campo reddito per lui (non costituivano un suo reddito imponibile) e sono deducibili al 100% per il cliente come spesa di consulenza. Nessun ricavo occulto, nessuna imposta evasa .
Caso 2: “Trasferta senza pezze giustificative” – Lucia, libera professionista in regime ordinario, indica tra i costi 2024 un generico “rimborso spese viaggio €500” relativo a trasferte sostenute per un cliente. La somma è stata pattuita forfettariamente col cliente a titolo di rimborso chilometrico e usura auto, e Lucia l’ha incassata in contanti a fine incarico. Tuttavia, non esistono ricevute o documenti a supporto di quei costi (né carburante, né note chilometriche dettagliate). In sede di accertamento, l’Agenzia contesta l’intero importo di €500, ritenendolo un compenso aggiuntivo non dichiarato e non un vero rimborso . Lucia prova a difendersi spiegando che l’auto l’ha usata davvero, ma senza documenti è difficile. Porta magari una generica dichiarazione del cliente che conferma la trasferta, ma i verificatori non si accontentano. Esito: in mancanza di pezze giustificative solide, l’Ufficio vincerà. Quei €500 verranno considerati reddito professionale occulto e tassati come tali (IRPEF + addizionali + contributi), con sanzione al 90% per infedele dichiarazione. Lucia avrebbe dovuto almeno conservare ricevute del meccanico, un registro km o far firmare al cliente una nota spese: senza nulla, la sua difesa è debolissima . Questo esempio mostra che i rimborsi forfettari non documentati sono sempre a rischio: dal 2024, peraltro, la normativa conferma che rimborsi spese forfettari restano imponibili ordinariamente . La morale: se non puoi documentare analiticamente, meglio accordarsi per un compenso omnicomprensivo (e tassarlo) piuttosto che tentare la via del rimborso esentasse senza pezze d’appoggio.
Caso 3: “Viaggio con famiglia spacciato per missione” – La Alfa Srl (settore commercio) nel 2023 ha portato in deduzione €10.000 di spese per un viaggio di 4 persone a Dubai, effettuato dall’amministratore unico, Sig. Rossi, con la moglie e due figli. Nella contabilità si registra “missione esplorativa Emirati per apertura mercato estero”. In verifica nel 2025, il Fisco chiede spiegazioni: emergono fatture di un resort 5 stelle e di voli in business class per 4, ma nessuna prova di incontri d’affari (nessun contratto concluso, né email con partner locali, solo depliant turistici tra i documenti…). L’azienda sostiene che il Sig. Rossi fosse lì per contattare potenziali clienti, ma ammette che i familiari erano solo in vacanza. Esito: l’Agenzia disconosce totalmente i €10.000 come spesa non inerente (erano con ogni evidenza una vacanza privata) . Inoltre, riqualifica la parte riferibile ai familiari come utilità al socio: di fatto la società ha pagato un benefit personale a Rossi, che andava tassato come dividendo o come compenso amministratore. Quindi, oltre a recuperare IRES e IVA sulla società, l’Ufficio segnala anche a IRPEF che Rossi ha ricevuto €5.000 di fringe benefit non dichiarato (il valore del viaggio di moglie e figli) da tassare nella sua dichiarazione dei redditi. L’operazione attira anche la GdF: trattandosi di importi elevati estero su estero, viene valutato se configurabile il reato di dichiarazione infedele. Rossi però evita guai penali perché la maggior imposta accertata è €80k (sotto soglia) e si affretta a pagare con adesione avvalendosi delle riduzioni. Questo caso insegna che far passare vacanze personali per trasferte è estremamente pericoloso: se non c’è un riscontro palese (fiere, riunioni documentate), l’esito sarà sfavorevole. E coinvolgere familiari peggiora le cose, perché evidenzia l’uso personale e può portare a contestazioni parallele (utili extracontabili, redditi da capitale in capo ai soci, ecc.) .
Caso 4: “Accertamento bancario su costi e ricavi occulti” – La Beta Sas, impresa individuale, dichiara per il 2022 ricavi per €50.000. Un accertamento da indagini finanziarie rivela sul conto aziendale altri movimenti: bonifici in entrata per €30.000 non giustificati da fatture, e uscite per €20.000 senza documenti a supporto. L’Agenzia presume ricavi non dichiarati per €30k e costi non documentati (o fittizi) per €20k, emettendo due riprese: una per ricavi occulti e una per costi indeducibili. In particolare, tra quei €20k di uscite risultano vari prelievi e pagamenti POS all’estero durante agosto, che il contribuente afferma essere spese di viaggio per esplorare nuovi fornitori (ma senza uno straccio di fattura). Esito: l’imprenditore dovrà fornire elementi per ciascun movimento: se non riesce a giustificare quei bonifici ricevuti da terzi, pagherà le imposte su €30k come reddito non dichiarato; se non produce fatture o ricevute per i €20k spesi, quelle uscite verranno cestinate come costi indeducibili (erodendo magari i ricavi occulti) . In definitiva Beta Sas si vedrà tassare i ricavi nascosti e non potrà opporre alcun costo a riduzione (anzi, gli toglieranno pure eventuali costi dedotti a copertura se considerati falsi). Anche qui: se i costi non sono supportati, finiscono per aggravare la posizione invece di aiutare. In difesa, l’imprenditore avrebbe dovuto almeno esibire dei contratti di viaggio, o ricevute di hotel, o corrispondenza con fornitori esteri per dimostrare la natura di quei €20k; ma se non ne ha, è praticamente impossibile vincere. Questo caso mostra come le presunzioni bancarie possano portare a contestazioni simultanee di maggiori ricavi e costi fittizi: conviene tenere conto che l’art. 32 DPR 600/73 presume le somme accreditate come ricavi e quelle addebitate come costi non deducibili se non spiegate .
Conclusioni
Le contestazioni relative a spese per viaggi ritenute non inerenti sono tra le più insidiose nel panorama del contenzioso tributario. Dal punto di vista del contribuente (debitore fiscale), la prevenzione è sempre la strategia migliore: adottare da subito comportamenti trasparenti e diligenti – documentare ogni spesa, informare chiaramente l’oggetto della trasferta, usare strumenti di pagamento tracciabili, separare ciò che è personale da ciò che è aziendale – è il modo più efficace per evitare contestazioni future . Se tuttavia scatta un accertamento, la difesa ruoterà attorno a una nitida ricostruzione del rapporto tra costi e attività: bisogna dimostrare che ogni viaggio contestato era effettivamente sostenuto nell’interesse dell’impresa, che per legge poteva essere escluso dal reddito (rispettando le percentuali di deducibilità), e che tutti gli aspetti formali e sostanziali sono stati osservati .
In concreto, l’arma principale del contribuente è quella che abbiamo ripetuto: documenti e prova della realtà economica sottostante ai costi . Ogni scontrino, ogni riga di fattura, ogni email può determinare l’esito finale di giudici e verificatori. Le più recenti norme (modifiche agli artt. 54 e 54-ter TUIR nel 2024/2025, Legge n. 207/2024 sulla tracciabilità) e la giurisprudenza (Cassazione 2015 n. 23890 sui rimborsi a volontari, Cass. 2018 n. 32436 sull’onere probatorio, Cass. 2024 n. 8739 e n. 24725 sul principio di inerenza qualitativa, Corte Cost. 10/2023 sulle presunzioni bancarie) confermano i principi base: rimborsi/spese reali e documentati = fuori dal reddito; spese fittizie o estranee = dentro il reddito . Pianificare e dimostrare la genuinità di ogni viaggio e dei relativi costi è l’unico modo per vincere eventuali contestazioni. In caso di dubbio sulla deducibilità, è consigliabile consultare un esperto o interpellare l’Amministrazione (interpello), anziché rischiare: a posteriori, rimediare è sempre più difficile e costoso.
In definitiva, operare con buona fede fiscale – mantenendo la distinzione tra tasca dell’azienda e tasca personale – e conoscere i propri diritti di difesa può fare la differenza tra un accertamento subito e uno sventato. Questa guida, con fonti normative e giurisprudenziali aggiornate ad agosto 2025, vuole essere uno strumento in più a disposizione di avvocati, imprenditori e professionisti per affrontare a testa alta l’eventuale rilievo dell’Agenzia delle Entrate sulle “spese di viaggio non inerenti all’attività”.
Fonti (selezione): Art. 109, comma 5 e art. 54 DPR 917/1986 (TUIR); Art. 7, comma 5-bis D.Lgs. 546/1992 (introdotto da L.130/2022); L. 207/2024 (Legge di Bilancio 2025) commi 81-86; D.Lgs. 192/2024 (riforma IRPEF-IRES); Cassazione civile, sez. trib.: n.27095/2006, n.21903/2015, n.32436/2018 , n.6368/2021, n.8739/2024, n.13365/2025 , n.13764/2025; Corte Costituzionale n.10/2023; Circolari e risoluzioni Agenzia Entrate (es. Circ. 34/E/2009 su spese di rappresentanza); prassi e dottrina fiscale recente . Sentenze tributarie di merito: CTR Veneto n.177/2023 (spese abbigliamento professionisti), CTP Milano 2016 (abiti rappresentanza al 50%), Cass. SS.UU. nn.8053/2014 e 8054/2014 (motivazione apparente), Cass. n.14111/2022 (onere della prova al contribuente) , Cass. n.24725/2024 (redditi da lavoro autonomo per cassa) , Cass. n.28724/2024 (principio di inerenza come concetto da reddito d’impresa).
- CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, Ordinanza n. 13365 depositata il 20 maggio 2025 – Il principio dell’inerenza si ricava dalla nozione di reddito d’impresa (e non dall’art. 75, comma 5, del D.P.R. n. 917 del 1986, ora art. 109, comma 5, del medesimo D.P.R.) ed esprime “la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale”, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo.
- CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 dicembre 2018, n. 32436 – In tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili.
Hai ricevuto un avviso dall’Agenzia delle Entrate perché ti vengono contestate spese di viaggio ritenute non inerenti alla tua attività? Fatti Aiutare da Studio Monardo
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Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le spese di viaggio possono essere portate in deduzione solo se strettamente collegate all’attività professionale o aziendale. Se l’Agenzia delle Entrate ritiene che tali spese abbiano natura personale o non siano adeguatamente giustificate, procede al disconoscimento dei costi e al recupero delle imposte.
👉 Prima regola: conserva e produci sempre documentazione che dimostri la finalità lavorativa del viaggio.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Viaggi senza documentazione di supporto (inviti, contratti, ordini di missione);
- Spese di vitto e alloggio considerate di natura personale;
- Trasferte all’estero prive di prove di incontri di lavoro;
- Spese di accompagnatori o familiari imputate all’attività;
- Incoerenza tra tipologia di viaggio e attività dichiarata.
📌 Conseguenze della contestazione
- Indeducibilità del costo ai fini delle imposte dirette;
- Recupero IVA se detratta indebitamente;
- Sanzioni dal 90% al 180% delle maggiori imposte accertate;
- Interessi di mora;
- Rischio di controlli estesi su altre spese aziendali.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Natura della trasferta: era collegata a contratti, clienti o fornitori?
- Documentazione fiscale: le fatture e ricevute sono complete e intestate correttamente?
- Tracciabilità dei pagamenti: risultano da estratti conto o carte aziendali?
- Congruità delle spese rispetto al volume dell’attività;
- Motivazione dell’accertamento: l’Agenzia ha prove concrete o solo presunzioni?
🧾 Documenti utili alla difesa
- Fatture e ricevute di viaggio (hotel, voli, taxi);
- Contratti, lettere d’incarico e ordini collegati alla trasferta;
- Agenda, e-mail o corrispondenza con clienti/fornitori;
- Estratti conto o carte di credito aziendali;
- Report aziendali o note spese interne.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare l’inerenza delle spese con documentazione dettagliata;
- Contestare la riqualificazione come spese personali se prive di riscontri oggettivi;
- Eccepire vizi dell’accertamento: motivazione carente, decadenza dei termini, irregolarità nella notifica;
- Richiedere autotutela se le spese erano già giustificate e conformi;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per ridurre o annullare la pretesa.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza le spese di viaggio contestate e la relativa documentazione;
📌 Verifica se la contestazione dell’Agenzia delle Entrate è fondata;
✍️ Predispone memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce procedure preventive per una gestione corretta e trasparente delle spese di trasferta.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in accertamenti fiscali e spese deducibili;
✔️ Specializzato in difesa di imprese e professionisti contro contestazioni su spese di viaggio;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle spese per viaggi non inerenti all’attività non sempre sono corrette: spesso si basano su presunzioni o su semplici errori di valutazione.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la legittima deducibilità delle spese, ridurre drasticamente sanzioni e interessi e tutelare la tua attività da accertamenti ingiustificati.
📞 Contatta subito l’Avv. Giuseppe Monardo per una consulenza riservata: la tua difesa contro gli accertamenti sulle spese di viaggio inizia qui.