Hai ricevuto una contestazione dall’Agenzia delle Entrate perché le fatture intercompany presentano prezzi di trasferimento ritenuti errati? In questi casi, l’Ufficio presume che le operazioni tra società dello stesso gruppo non rispettino il principio di libera concorrenza (arm’s length principle), e che i valori applicati siano stati manipolati per spostare utili all’estero o ridurre la base imponibile in Italia. La conseguenza è il recupero delle imposte, con sanzioni e interessi. Tuttavia, non sempre la contestazione è legittima: con una difesa adeguata è possibile dimostrare la correttezza dei criteri adottati.
Quando l’Agenzia delle Entrate contesta i prezzi di trasferimento
– Se i corrispettivi indicati nelle fatture intercompany sono inferiori o superiori ai valori di mercato
– Se le politiche di transfer pricing non sono adeguatamente documentate nel Masterfile e nella Country File
– Se le operazioni infragruppo non sono supportate da contratti o analisi economiche
– Se i margini di utile risultano incoerenti con quelli di operatori indipendenti del settore
– Se l’Ufficio ritiene che i prezzi siano stati fissati con finalità elusive o per erosione della base imponibile
Conseguenze della contestazione
– Rettifica dei valori di trasferimento e recupero delle imposte sui maggiori redditi presunti
– Applicazione di sanzioni per dichiarazione infedele o abuso del diritto
– Interessi di mora sulle somme accertate
– Maggior rischio di doppia imposizione internazionale se il Paese estero non riconosce l’aggiustamento
– Possibile apertura di procedure di mutual agreement tra Stati per dirimere il conflitto fiscale
Come difendersi dalla contestazione
– Dimostrare la conformità delle politiche di transfer pricing al principio di libera concorrenza
– Produrre studi di settore, analisi di benchmark e documentazione comparabile
– Esibire i contratti infragruppo e i criteri economici alla base dei prezzi praticati
– Contestare l’utilizzo di metodi di ricostruzione inadeguati da parte dell’Agenzia
– Presentare ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria e attivare, se opportuno, le procedure internazionali contro la doppia imposizione
Il ruolo dell’avvocato nella difesa
– Analizzare le politiche di transfer pricing e la documentazione fiscale prodotta dal gruppo
– Verificare la legittimità della contestazione e la metodologia di calcolo adottata dall’Ufficio
– Redigere un ricorso fondato su prove documentali, studi di comparabilità e vizi dell’accertamento
– Difendere la società davanti ai giudici tributari e, se necessario, in sede internazionale
– Tutelare il gruppo societario da conseguenze fiscali e reputazionali sproporzionate
Cosa puoi ottenere con una difesa efficace
– L’annullamento totale o parziale della contestazione
– La riduzione o eliminazione di sanzioni e interessi non dovuti
– Il riconoscimento della legittimità delle politiche di prezzi adottate
– La sospensione delle richieste di pagamento già avviate
– La certezza di pagare solo quanto realmente previsto dalla normativa nazionale e internazionale
⚠️ Attenzione: le contestazioni sui prezzi di trasferimento richiedono un’analisi tecnica e una documentazione accurata. Senza un transfer pricing file aggiornato, la difesa diventa molto più complessa.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario e fiscalità internazionale – spiega come difendersi in caso di contestazioni su fatture intercompany con prezzi di trasferimento errati e come tutelare i tuoi diritti.
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Introduzione
Le operazioni intercompany – ossia le transazioni economiche fra società appartenenti al medesimo gruppo – sono spesso oggetto di particolare attenzione da parte dell’Amministrazione finanziaria. In tali operazioni, il transfer pricing (prezzo di trasferimento) diventa cruciale: la normativa fiscale richiede che i prezzi praticati tra consociate siano conformi al principio di libera concorrenza (arm’s length principle), cioè allineati a quelli che sarebbero praticati tra soggetti indipendenti sul mercato. Quando l’Agenzia delle Entrate ritiene che i corrispettivi fatturati infragruppo divergano da questo valore normale, possono scattare contestazioni e rettifiche del reddito imponibile. In altre parole, se le fatture intercompany riportano prezzi “errati” (troppo bassi o troppo alti rispetto al mercato), il Fisco può intervenire correggendo gli importi ai fini fiscali e applicando imposte aggiuntive, sanzioni e interessi.
Dal punto di vista del debitore d’imposta (ossia della società contribuente che subisce l’accertamento), tali contestazioni rappresentano un momento critico e complesso. La difesa richiede competenze fiscali, legali e contabili di alto livello: occorre dimostrare che i prezzi contestati erano invece corretti, o comunque giustificabili, e che l’accertamento del Fisco è infondato sotto uno o più profili. Questa guida – aggiornata ad agosto 2025 – si propone di analizzare in modo avanzato come difendersi efficacemente da un avviso di accertamento basato sul transfer pricing, fornendo riferimenti normativi, sentenze recenti delle corti italiane, esempi pratici, tabelle riepilogative e una sezione di Domande e Risposte. Il taglio è quello adatto a professionisti (avvocati tributaristi, dottori commercialisti) ma anche a imprenditori e privati con buona conoscenza della materia, con un linguaggio giuridico rigoroso ma il più possibile divulgativo.
Nel prosieguo, esamineremo dapprima il quadro normativo italiano in tema di prezzi di trasferimento, poi il procedimento di accertamento tipico e i diritti del contribuente, quindi le strategie difensive nel contenzioso tributario (vizi formali, onere della prova, metodologie alternative, strumenti deflattivi). Affronteremo anche gli aspetti civili (responsabilità della capogruppo e degli amministratori verso soci e creditori) e quelli penali (reati tributari ed eventuali reati societari connessi), fornendo infine FAQ e casi pratici ambientati in Italia. L’obiettivo è offrire una visione completa e aggiornata che consenta al contribuente (debitore d’imposta) di comprendere come impostare al meglio la propria difesa di fronte a contestazioni su fatture infragruppo con prezzi di trasferimento non allineati al valore di mercato.
Quadro normativo e principi fondamentali del transfer pricing in Italia
La disciplina italiana del transfer pricing trova la sua fonte principale nell’art. 110, comma 7 del TUIR (D.P.R. 917/1986), integrato da norme secondarie e documenti di prassi. Tale norma stabilisce, in sostanza, che i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti, che direttamente o indirettamente controllano, sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla il contribuente, devono essere valutati a valore normale qualora ne derivi un decremento del reddito imponibile in Italia. Il valore normale è definito dall’art. 9 TUIR come il prezzo mediamente praticato per beni e servizi similari in condizioni di libera concorrenza alla stessa data . In altri termini, le cessioni di beni, le prestazioni di servizi e le altre transazioni infragruppo transfrontaliere devono avvenire a prezzi conformi a quelli di mercato (“arm’s length”), altrimenti il Fisco può rettificarli in aumento (se i ricavi sono stati sottofatturati) o in diminuzione (se i costi sono stati sovrafatturati) ai fini della corretta determinazione del reddito imponibile.
Va evidenziato che, a seguito della riforma operata con il D.L. 50/2017 (art. 59), la norma italiana è stata aggiornata per allinearsi esplicitamente agli standard OCSE. È stato introdotto il principio secondo cui i prezzi di trasferimento infragruppo devono essere determinati “in conformità al principio di libera concorrenza”, recependo così formalmente le Linee Guida OCSE come criterio di riferimento. Inoltre, dal 2018 il Ministero dell’Economia e Finanze ha emanato un apposito Decreto (14 maggio 2018) che definisce i termini “controllo” e “collegamento” ai fini del transfer pricing e fornisce indicazioni sui metodi da utilizzare, abbandonando la previgente gerarchia rigida dei metodi e adottando il criterio del “metodo più appropriato” caso per caso. Secondo il DM 14.5.2018, per applicare la disciplina TP occorre un rapporto di controllo o collegamento qualificato fra i soggetti coinvolti (controllo diretto/indiretto di maggioranza, o controllo comune), in modo che vi sia una potenziale influenza sui prezzi . In secondo luogo, è necessario che vi sia una anomalia nei corrispettivi pattuiti: il Fisco deve cioè riscontrare che i prezzi infragruppo divergono da quelli di libera concorrenza, con effetti di spostamento di imponibile da un paese all’altro . Importante sottolineare che l’art. 110, c.7 TUIR non richiede la prova di un intento elusivo o fraudolento specifico: la sua funzione è neutrale, mirata alla corretta allocazione dei redditi tra imprese associate indipendentemente dalle motivazioni elusive. La Cassazione ha infatti chiarito di recente che la norma sul transfer pricing non è un’anti-elusiva “in senso stretto”, ma uno strumento neutro per attribuire i redditi alla giurisdizione corretta, “prescindendo dall’intento elusivo” . In tal senso, “il transfer pricing ha carattere neutrale, in quanto supera la prospettiva antielusiva e assolve la preminente funzione di corretta allocazione del reddito tra imprese legate da vincoli di interdipendenza” (Cass. civ. Sez. Trib. n. 19512/2024) .
Dal punto di vista internazionale, l’Italia – in quanto membro OCSE – segue i principi delineati nelle Linee Guida OCSE sui Prezzi di Trasferimento (da ultimo aggiornate nel 2022). Questi principi, pur non avendo forza di legge, influenzano fortemente sia le circolari dell’Agenzia delle Entrate sia l’orientamento giurisprudenziale. Ad esempio, il concetto di “valore normale” va inteso in linea con l’arm’s length price delle linee guida OCSE, e la scelta del metodo di transfer pricing deve cadere su quello più affidabile in base ai fatti del caso (CUP – Comparable Uncontrolled Price, TNMM – Transactional Net Margin Method, metodo del costo maggiorato, del prezzo di rivendita, ecc.). Non esiste più una gerarchia obbligata di metodi: la stessa Cassazione ha riconosciuto che l’Amministrazione finanziaria deve preferibilmente usare metodi diretti (come il CUP) se disponibili, e che è ingiustificato l’uso di metodi indiretti come il TNMM qualora esistano comparabili diretti . In una recente pronuncia (Cass. n. 1311/2025) è stato infatti censurato l’operato dell’Ufficio che aveva ignorato il metodo CUP applicato dal contribuente, sostituendolo con un metodo indiretto senza motivare adeguatamente tale scelta . Questo conferma che il contribuente che diligentemente applica un metodo OCSE appropriato può mettere in difficoltà il Fisco, se quest’ultimo non confuta in modo puntuale la validità di quel metodo .
Un elemento fondamentale del quadro normativo è la disciplina degli oneri documentali in materia di transfer pricing, introdotta dal 2009-2010 e poi rafforzata. Il legislatore ha previsto un regime premiale per i contribuenti che documentano adeguatamente le proprie politiche di prezzo infragruppo: l’art. 1, comma 6, e l’art. 2, comma 4-ter del D.Lgs. 471/1997 dispongono la non applicazione delle sanzioni amministrative per dichiarazione infedele qualora il contribuente predisponga e esibisca una documentazione idonea a consentire il riscontro del rispetto del principio di libera concorrenza, dandone comunicazione all’Agenzia delle Entrate nei modi previsti . In pratica, ciò significa che l’azienda deve redigere ogni anno un Masterfile (documento globale di gruppo) e una Documentazione Nazionale (Local File) conformi ai requisiti fissati dall’Agenzia (da ultimo aggiornati con Provvedimento Direttore AdE 23 novembre 2020, prot. 360494, che ha sostituito le istruzioni precedenti del 2010) e barrare l’apposita casella nel quadro RS della dichiarazione dei redditi. Se queste condizioni sono rispettate e la documentazione risulta “idonea” (ossia completa e conforme), eventuali rettifiche da transfer pricing non comportano sanzioni per infedele dichiarazione . Si tratta di un “scudo” molto rilevante: normalmente, infatti, un maggior reddito accertato subisce una sanzione amministrativa dal 90% al 180% dell’imposta dovuta su tale maggior reddito (art. 1, c.2 D.Lgs. 471/97); grazie alla documentazione TP, questa pesante sanzione può essere azzerata. È cruciale però che il contribuente comunichi il possesso della documentazione in dichiarazione: l’omessa segnalazione esclude infatti il contribuente dal regime di esenzione sanzionatoria, e la sola esibizione ex post dei documenti al verificatore non basta a evitare le multe se non si era barrata la casella in dichiarazione .
Oltre a ridurre le sanzioni amministrative, la documentazione di transfer pricing offre anche una tutela in ambito penale tributario. La normativa prevede infatti che non costituiscono reato le divergenze di transfer pricing che siano mere differenze di valutazione di elementi reddituali oggettivamente esistenti, i cui criteri di determinazione siano stati indicati in bilancio o in altra documentazione rilevante ai fini fiscali . In particolare, l’art. 4 del D.Lgs. 74/2000 (reato di “dichiarazione infedele”) al comma 1-bis esclude espressamente la punibilità per le valutazioni economiche difformi su elementi attivi o passivi reali, incluse le errate valutazioni, la non inerenza o l’errata classificazione, purché i criteri applicati risultino indicati in bilancio o in altra documentazione rilevante . Ciò significa che se un’impresa ha documentato i criteri con cui ha determinato i prezzi di trasferimento (ad esempio nelle Note al bilancio o nel Local File), un’eventuale rettifica del Fisco configura una differenza di valutazione e non un occultamento di elementi attivi: di conseguenza non scatta il reato di dichiarazione infedele, trattandosi appunto di componenti reddituali esistenti ma valutati diversamente . Questa previsione funge da “paracadute” penale importante: da un lato la documentazione di transfer pricing protegge dalle sanzioni amministrative, dall’altro riduce drasticamente il rischio di imputazioni penali, purché le transazioni siano reali e i metodi di calcolo siano trasparenti e indicati.
In sintesi, il quadro normativo italiano del transfer pricing – aggiornato al 2025 – è ormai pienamente allineato agli standard internazionali. Esso enfatizza il principio di libera concorrenza e la flessibilità nella scelta del metodo più appropriato (in accordo con le Linee Guida OCSE), incoraggiando nel contempo la compliance tramite la predisposizione di idonea documentazione. L’Amministrazione finanziaria ha a sua volta emanato circolari esplicative, tra cui la Circolare AdE n. 15/E del 26 novembre 2021, che ha fornito chiarimenti sugli oneri documentali a seguito del Provvedimento 2020. Tuttavia, in caso di contestazioni sul campo, la parola finale spetta ai giudici tributari, i quali negli ultimi anni hanno consolidato alcuni principi chiave di tutela del contribuente. Ad esempio, le corti di merito e di legittimità hanno chiarito la ripartizione dell’onere della prova nel contenzioso transfer pricing (come vedremo a breve) e hanno riconosciuto la legittimità di certi comportamenti del contribuente in linea con la prassi OCSE (ad esempio, gli aggiustamenti infrannuali o di fine esercizio per allinearsi al valore di libera concorrenza, se effettuati in modo simmetrico tra consociate coinvolte). Prima di esaminare nel dettaglio tali sviluppi giurisprudenziali, è utile riepilogare come si svolge tipicamente un accertamento fiscale in materia di prezzi di trasferimento e quali sono le tempistiche e i diritti di difesa del contribuente in ogni fase.
Il procedimento di accertamento per transfer pricing e i diritti del contribuente
Un avviso di accertamento basato sul transfer pricing è di norma l’esito finale di una verifica fiscale o di un’indagine mirata sui rapporti infragruppo da parte dell’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, spesso in collaborazione con la Guardia di Finanza). Comprendere le fasi di questo procedimento è fondamentale per poter individuare eventuali vizi e far valere tempestivamente i propri diritti difensivi. Le fasi tipiche sono le seguenti:
- Accesso, ispezione e verifica: L’iter inizia sovente con un controllo fiscale presso la sede dell’azienda (accesso da parte della Guardia di Finanza o funzionari dell’Agenzia Entrate) oppure con verifiche “a tavolino” basate su questionari e richieste documentali. In questa fase preliminare, i verificatori esaminano la documentazione transfer pricing disponibile, i contratti infragruppo, i bilanci, le fatture intercompany e ogni altro elemento utile. Se emergono operazioni infragruppo potenzialmente fuori mercato, vengono approfondite con analisi economiche (ad esempio confronti con imprese comparabili) e spesso l’azienda viene invitata a giustificare eventuali scostamenti. È fondamentale che il contribuente collabori, fornendo tutte le informazioni richieste nei termini indicati: la mancata esibizione di documenti durante la verifica, infatti, può pregiudicare la possibilità di utilizzarli successivamente in sede difensiva (ai sensi dell’art. 32 D.P.R. 600/1973). Durante la verifica, il contribuente ha anche diritto a che le operazioni di controllo si svolgano nel rispetto dello Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000): ad esempio, gli accessi in azienda devono avvenire in orari lavorativi, non devono intralciare oltre il necessario l’attività e deve esserne redatto un verbale giornaliero. Al termine della verifica, soprattutto se condotta dalla Guardia di Finanza, i verificatori redigono un Processo Verbale di Constatazione (PVC), cioè un verbale contenente i rilievi riscontrati, tra cui l’eventuale contestazione di prezzi di trasferimento non di mercato.
- Contraddittorio endoprocedimentale: In materia di transfer pricing, così come per gli accertamenti fiscali più complessi, è previsto il diritto del contribuente a un contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso. Dopo la consegna del PVC, infatti, la legge (art. 12, c.7 L. 212/2000) impone all’Ufficio di attendere 60 giorni prima di emettere l’accertamento, a meno che non ricorrano motivi di particolare urgenza (in primis il rischio di decadenza imminente dei termini). In questi 60 giorni, il contribuente può predisporre e inviare all’Ufficio delle osservazioni e richieste scritte (c.d. memoria difensiva) in risposta ai rilievi del PVC. Questo è un passaggio cruciale: presentare una memoria ben argomentata può talvolta convincere l’Ufficio a rivedere (in tutto o in parte) la propria posizione, soprattutto se si segnalano errori fattuali o interpretativi nei calcoli dei verificatori. È buona prassi allegare documenti integrativi, analisi di transfer pricing e riferimenti giuridici a supporto delle proprie tesi difensive in questa fase. In ogni caso, l’eventuale mancato recepimento delle osservazioni dovrà essere motivato dall’Ufficio nell’atto finale. Va segnalato che esistono anche strumenti di definizione pre-contenzioso attivabili in questa fase, come l’accertamento con adesione “iniziato dal contribuente”: il contribuente, ricevuto il PVC, può presentare istanza di adesione per avviare un confronto con l’ufficio mirato a una possibile conciliazione della pretesa prima ancora che l’accertamento venga notificato. Se l’istanza è presentata entro 60 giorni dal PVC, l’Ufficio sospende l’emissione dell’atto impositivo e convoca l’azienda per discutere; in caso di esito positivo, si stipula un atto di adesione con il pagamento (con sanzioni ridotte ad 1/3). Questo strumento può essere utile se si ravvisa la possibilità di un accordo conveniente, evitando il contenzioso.
- Emissione dell’Avviso di Accertamento: Decorso il termine (o immediatamente, se c’è urgenza legata a scadenza dei termini), l’Agenzia delle Entrate emette l’avviso di accertamento in materia di transfer pricing. Si tratta di un provvedimento scritto, notificato al contribuente, che contiene l’indicazione dei maggiori redditi accertati a seguito della rettifica dei prezzi di trasferimento, delle imposte aggiuntive dovute (IRES e/o IRAP nel caso di società di capitali, oltre eventualmente IVA se i trasferimenti di beni erano sottofatturati) e delle relative sanzioni amministrative e interessi. L’avviso deve essere motivato in modo chiaro e analitico, indicando sia gli elementi di fatto (operazioni contestate, prezzi applicati, comparazioni effettuate) sia le norme di diritto applicate. Un difetto di motivazione o un errore nell’individuazione del presupposto può costituire un vizio dell’atto impugnabile. Tipicamente, nell’atto l’Ufficio dettaglia la metodologia seguita per determinare il valore normale (ad es. analisi di comparables con margine medio, ecc.) e spiega perché il prezzo praticato dal contribuente viene considerato anomalo. I termini di decadenza per la notifica dell’accertamento, attualmente, sono il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (ad esempio, per l’anno d’imposta 2019, il termine è il 31/12/2025). Se la dichiarazione fosse omessa o se venisse configurato un reato, i termini si estendono (ordinariamente a 7 anni, salvo sospensioni). L’avviso di accertamento, una volta notificato, costituisce la base per l’eventuale iscrizione a ruolo dell’imposta accertata: se il contribuente non paga né impugna entro i termini, le somme diventano esigibili e saranno affidate all’Agente della Riscossione (con emissione di cartella). Tuttavia, durante i termini per impugnare e durante il processo, la riscossione resta tendenzialmente sospesa (fatta salva la riscossione parziale per importi sopra una certa soglia, pari ad un terzo, prevista dal D.Lgs. 218/1997 in assenza di ricorso).
- Tutela giurisdizionale (Ricorso in Commissione tributaria): Il contribuente che non condivida (in tutto o in parte) l’accertamento ha diritto di proporre ricorso alla Commissione Tributaria competente (ora rinominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado) entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Nel ricorso vanno indicati i motivi di impugnazione, sia formali sia di merito, e possono essere allegate prove documentali e perizie di parte. Vale la pena notare che fino al 2023 era prevista una procedura obbligatoria di reclamo/mediazione tributaria per le liti di valore basso (fino a 50.000 euro, poi 100.000 euro), ma la riforma della giustizia tributaria (L. 130/2022) ha sostanzialmente eliminato tale obbligo per i ricorsi notificati dal 2023 in avanti, rendendola una facoltà piuttosto che un passaggio obbligato. Ciò significa che oggi, nella generalità dei casi, il contribuente può adire direttamente il giudice tributario senza dover prima presentare reclamo all’ufficio, salvo eventuali tentativi di accordo in corso di causa (vedremo oltre la conciliazione giudiziale). Assieme al ricorso il contribuente può chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, se il pagamento immediato degli importi creerebbe un danno grave (istanza di sospensiva). Il processo tributario sul merito del transfer pricing è notoriamente complesso e può richiedere l’assistenza di consulenti tecnici (es. economisti) a supporto delle argomentazioni legali.
- Gradi di giudizio successivi: La sentenza di primo grado della Corte di Giustizia Tributaria può essere appellata da soccombente (contribuente o Agenzia) dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado (ex Commissione Regionale). Infine, è ammesso il ricorso per Cassazione per motivi di diritto contro la sentenza di appello. Nel frattempo, è possibile cercare accordi transattivi: ad esempio, la conciliazione giudiziale, che può intervenire in primo o secondo grado, consente di definire la lite con un accordo tra contribuente e ufficio davanti al giudice, con riduzione delle sanzioni (fino a 1/3) e degli interessi. In ogni caso, i tempi di un contenzioso tributario in materia di transfer pricing possono essere lunghi (anche diversi anni fino al terzo grado), il che va tenuto presente nella strategia complessiva.
Diritti del contribuente e garanzie procedurali
Durante tutto l’iter sopra descritto, il contribuente dispone di una serie di garanzie procedurali e diritti di difesa sanciti dalla legge. Alcuni dei principali sono:
- Diritto al contraddittorio: come visto, prima dell’accertamento finale il contribuente ha diritto a essere ascoltato e a controdedurre. La violazione di questo diritto (ad esempio emissione dell’atto prima dei 60 giorni senza urgenza motivata) può comportare l’annullabilità dell’accertamento per vizio di procedimento.
- Diritto di accesso agli atti e trasparenza: il contribuente ha diritto di conoscere gli atti dell’indagine che lo riguardano. In particolare, nell’accertamento TP l’ufficio deve indicare le basi dati utilizzate per i confronti, i criteri e le fonti dei comparabili. Se l’ufficio fonda la rettifica su dati segreti o non condivisi, ciò può essere contestato come violazione del diritto di difesa (il contribuente non può difendersi da elementi a lui ignoti). Ad esempio, se l’Agenzia cita un certo set di società comparabili estratto da database, il contribuente può chiedere di visionare l’analisi completa e i bilanci di tali comparabili.
- Motivazione dell’atto: l’avviso deve essere motivato congruamente. Una motivazione apparente o contraddittoria – ad esempio limitata a frasi generiche o formule senza spiegare perché i prezzi non sono di mercato – può essere impugnata. La legge 212/2000 e l’art. 3 L. 241/1990 impongono la chiarezza e completezza della motivazione degli atti impositivi.
- Termini e tempi: il contribuente ha diritto al rispetto dei termini di decadenza (nessuna pretesa fiscale può essere avanzata oltre i termini di legge) e a tempi ragionevoli del procedimento. Se i verificatori trattengono documenti o prolungano la verifica oltre i limiti, ci sono strumenti di tutela.
Riassumendo, il procedimento di accertamento in tema di transfer pricing è caratterizzato da un iter ben definito e garantito. Il contribuente avveduto può – in ogni fase – porre in essere azioni a tutela: dalla collaborazione trasparente in sede di verifica (per chiarire subito eventuali equivoci o fornire spiegazioni), alla predisposizione di una memoria difensiva dettagliata nel contraddittorio, fino all’eventuale attivazione di procedure di definizione anticipata (adesione) o, se necessario, alla predisposizione di un solido ricorso dinanzi al giudice tributario. Nei capitoli seguenti, ci concentreremo proprio sulle strategie difensive da adottare in sede contenziosa, assumendo che l’accertamento sia stato notificato e occorra impostare la difesa nei confronti delle contestazioni sui prezzi di trasferimento.
Come difendersi da un avviso di accertamento transfer pricing: strategie e strumenti
Difendersi efficacemente da un accertamento che contesta prezzi di trasferimento errati significa agire su più piani: individuare vizi formali dell’atto (che possano da soli portare all’annullamento), contestare nel merito la ricostruzione dell’Ufficio (dimostrando la correttezza o almeno la sostenibilità dei propri prezzi) e utilizzare eventualmente gli strumenti deflattivi per ridurre l’impatto della controversia. Di seguito analizziamo questi aspetti uno ad uno.
Verifica di vizi formali e tutela dei diritti del contribuente
La prima linea di difesa consiste nel verificare attentamente la regolarità formale e procedurale dell’avviso di accertamento. Errori o omissioni da parte dell’Ufficio in questa sfera possono portare all’annullamento dell’atto, indipendentemente dal merito. Pertanto, è buona regola scrutinare l’atto con occhio critico, alla ricerca di eventuali vizi. Ecco i principali aspetti da controllare:
- Notifica e sottoscrizione: Verificare che l’accertamento sia stato notificato entro i termini di decadenza (come detto, di regola 5 anni dall’anno fiscale, salvo proroghe) e che rechi la firma di un funzionario dotato di qualifica dirigenziale o delegato legittimamente. Un atto firmato da soggetto non competente è nullo. Analogamente, se la notifica è avvenuta in modo inesatto (es. a indirizzo errato, o senza rispettare le forme previste), il ricorso può eccepire la nullità della notifica.
- Motivazione insufficiente o omessa: L’atto deve esplicitare le ragioni della rettifica. Se l’Agenzia si è limitata ad affermazioni generiche (es. “prezzi non allineati al valore normale” senza spiegare perché), oppure se ha copiato pedissequamente il PVC senza un vaglio critico, si può invocare la carenza di motivazione. In particolare, è essenziale che vengano indicati gli elementi su cui si fonda la determinazione del valore normale (quali comparables sono stati usati, quali bilanci, quali metriche) in modo che il contribuente possa comprenderli e replicare.
- Violazione del contraddittorio: Come visto, se l’atto è stato emesso prima del termine di 60 giorni dal PVC senza urgenza, o se l’Ufficio non ha preso in considerazione né confutato le osservazioni difensive presentate nei 60 giorni, si profila una violazione delle garanzie difensive. La giurisprudenza riconosce che la mancata attesa dei 60 giorni può determinare l’annullabilità dell’atto (Cass. S.U. n. 18184/2013, in materia analogica di studi di settore, ha sancito la nullità per violazione contraddittorio endoprocedimentale). Occorre dunque verificare le date e, se del caso, sollevare questo motivo.
- Altri vizi procedurali: Ad esempio, se l’accertamento deriva da indagini finanziarie o accessi, controllare che siano stati rispettati gli obblighi formali (ordine di accesso, autorizzazioni, ecc.). Oppure se sono stati utilizzati dati da indagini estere, verificare che siano stati condivisi correttamente. Anche la mancata indicazione dell’ufficio presso cui fare istanza di adesione o delle modalità di impugnazione può costituire vizio (ex art. 7, c.2 L. 212/2000).
Individuare e contestare un vizio formale non esclude di difendersi anche sul merito; anzi, è consigliabile dedurre in via subordinata i motivi di merito nel ricorso, nel caso in cui il giudice non accolga quelli formali. Tuttavia, spesso la sola prospettazione di un vizio rilevante può indurre l’Ufficio a più miti consigli in sede di eventuale conciliazione, consapevole del rischio di soccombere su quel punto. Dunque, la caccia ai vizi formali è un passo obbligato.
Onere della prova e strategia documentale nel merito dell’accertamento
Una volta appurato che l’atto sia formalmente regolare (o in aggiunta ai vizi formali individuati), il fulcro della difesa nel merito sarà dimostrare che i prezzi di trasferimento praticati erano corretti, o quantomeno giustificabili, alla luce del principio di libera concorrenza. In materia di transfer pricing, il tema dell’onere della prova è centrale e la giurisprudenza ne ha delineato i contorni in evoluzione. Allo stato attuale, la situazione può essere riassunta così :
- Fase amministrativa: spetta all’Ufficio il compito di motivare la rettifica, indicando perché ritiene non di mercato i valori praticati dal contribuente e fornendo un minimo di riscontro oggettivo (ad esempio, un’analisi di società comparabili, una perizia di valore normale, o altri elementi che facciano ragionevolmente presumere un’anomalia) . In altre parole, in sede di verifica/accertamento l’Amministrazione deve quantomeno segnalare quali transazioni contesta e su quali basi le considera fuori linea.
- Fase contenziosa: una volta che l’Agenzia ha assolto tale onere minimo di allegazione (presentando elementi che rendano apparentemente anomalo il prezzo infragruppo), l’onere probatorio si sposta sul contribuente, in applicazione del principio civilistico della “vicinanza della prova” (art. 2697 c.c.) . Poiché tipicamente è l’azienda ad avere migliore accesso alle informazioni sulla propria operatività e sui propri prezzi, spetta ad essa dimostrare che, nonostante l’apparenza di anomalia, i prezzi contestati erano in realtà allineati al valore normale di mercato . La Cassazione ha quindi affermato che l’Amministrazione non deve provare la specifica “manovra elusiva” né l’inesistenza di componenti reddituali, ma solo segnalare la possibile difformità dal mercato; grava sul contribuente l’onere di dimostrare, in ultima analisi, che le transazioni infragruppo contestate si sono svolte a condizioni di libera concorrenza . Questa ripartizione è ormai consolidata da numerose sentenze, tra cui Cass. 10742/2013, Cass. 13571/2021 e Cass. 15668/2022 . In sostanza, il giudice tributario dovrà valutare se il contribuente ha fornito una controprova convincente della correttezza dei propri prezzi, non potendosi limitare a distruggere le tesi del Fisco senza offrire un’alternativa credibile.
Come può dunque il contribuente assolvere a tale onere probatorio? Di seguito i pilastri di una solida strategia difensiva sul merito, incentrata sulla documentazione e sulle evidenze economiche:
- Documentazione transfer pricing ufficiale: Se non è stata già esibita in fase amministrativa, è fondamentale depositare in giudizio l’intera documentazione TP predisposta per l’anno in contestazione (Masterfile e Documentazione Nazionale). Questi documenti, se redatti secondo le regole, contengono l’analisi funzionale dell’impresa, la descrizione della metodologia seguita per fissare i prezzi infragruppo e i risultati dei test di congruità. Essi costituiscono la base per sostenere che i prezzi applicati fossero “arm’s length”. Anche se l’Agenzia li ha ignorati o ritenuti inadeguati durante la verifica, in giudizio saranno valutati ex novo dai giudici. Conviene quindi evidenziare nelle memorie difensive i passaggi salienti: ad esempio, se nel Local File l’azienda aveva applicato il metodo TNMM mostrando che il margine operativo della consociata italiana rientrava nel range di comparabili indipendenti, occorre sottolineare questo risultato; se invece l’Ufficio ha preferito un altro metodo (come un CUP interno su una singola transazione), occorre spiegare perché quel metodo non era appropriato e difendere la validità del proprio, magari facendo riferimento anche alle Linee Guida OCSE e al DM 2018 che incoraggiano la scelta del metodo più affidabile e la comparabilità qualitativa e quantitativa dei dati . Come già accennato, Cassazione n. 1311/2025 ha censurato l’Agenzia proprio perché aveva scartato un CUP applicato dal contribuente in favore di un TNMM senza giustificazione : ciò dimostra che un contribuente che abbia diligentemente applicato un metodo OCSE può mettere in difficoltà il Fisco se questi non ne confuta puntualmente la validità.
- Contratti e prove documentali delle operazioni: È opportuno produrre in giudizio i contratti infragruppo o altri documenti che regolano le transazioni contestate. La presenza di accordi scritti, con clausole di determinazione del prezzo, dimostra trasparenza e può fornire giustificazioni economiche. Ad esempio, se è contestato un prestito infruttifero concesso a una controllata estera (ossia senza interessi), presentare il contratto di finanziamento che prevedeva espressamente tasso zero e spiegare il business rationale (es. supporto finanziario a una start-up del gruppo per evitarne la crisi di liquidità) aiuta a inquadrare l’operazione. Anche se nel cross-border i prestiti infruttiferi sono soggetti comunque alla regola del valore normale (l’Agenzia può imputare interessi figurativi di mercato in Italia, e la Cassazione ha confermato che l’art. 110, co.7 si applica anche ai finanziamenti infragruppo a tasso zero ), il contratto scritto e la motivazione economica mostrano buona fede e consentono di argomentare che anche un terzo indipendente avrebbe potuto accordare condizioni simili, date le circostanze. In quest’ottica, si potranno portare evidenze aggiuntive: ad esempio, se l’affiliata estera era in difficoltà finanziarie, un finanziatore di mercato avrebbe effettivamente accettato un interesse molto basso o subordinato (per evitare il fallimento del debitore). Tali argomentazioni vanno corroborate, se possibile, da analisi finanziarie (rating del debitore, tassi di mercato per debitori comparabili, ecc.). Se queste analisi non erano incluse nel documento TP originario, nulla vieta di produrle ora, ad esempio come perizia tecnica di parte.
- Perizie tecniche di parte: Nel contenzioso transfer pricing è spesso utile avvalersi di consulenti economici indipendenti per predisporre una relazione tecnica che confuti la metodologia dell’Ufficio e/o ricalcoli i prezzi di libera concorrenza con un approccio alternativo. Ad esempio, se il Fisco ha usato un certo set di comparabili e il contribuente ritiene che un altro set (o un altro metodo) sia più appropriato, una perizia economica può dimostrarlo rifacendo i calcoli: magari risulterà che con comparabili differenti non vi sarebbe alcuno scostamento significativo, oppure che l’Ufficio ha commesso errori tecnici (p.es. non ha effettuato aggiustamenti sulle differenze di rischio tra le società comparabili e la controllata, “gonfiando” così il margine richiesto). Attenzione: le perizie di parte nel processo tributario non hanno il valore di prova legale, trattandosi di semplici documenti difensivi. Il giudice può valutare il loro contenuto liberamente. Dal 2023, inoltre, è stata introdotta nel processo tributario la possibilità di presentare testimonianze scritte, ma ciò riguarda fatti (es. l’esistenza di una certa operazione) e non valutazioni tecniche economiche. In generale, comunque, una robusta analisi tecnica allegata al ricorso o alla memoria può essere persuasiva, specie in materie complesse come il transfer pricing dove gli stessi giudici talvolta apprezzano un supporto specialistico. Se la controversia lo merita (importi elevati, questioni tecniche spinose), investire in una perizia di un consulente economico può rafforzare significativamente la difesa.
- Altre prove a supporto e argomentazioni mirate: A seconda del tipo di operazione contestata, si potranno predisporre specifiche ulteriori prove. Ad esempio, se l’Agenzia sostiene che la società italiana acquistava materie prime dalla consociata estera a un prezzo troppo alto (con l’effetto di ridurre l’utile tassabile in Italia), il contribuente potrebbe esibire offerte di fornitori terzi o listini di mercato che dimostrino come quel prezzo fosse in linea con i valori di approvvigionamento praticati sul mercato per materie prime analoghe. Oppure, se viene contestato che l’azienda italiana vendeva prodotti finiti alla consociata estera a un prezzo troppo basso (sotto-costo), si potrebbe provare che c’era un accordo di ripartizione di margini dovuto a contributi di marketing sostenuti dall’acquirente estero, o che il prezzo era basso perché il distributore estero si accollava rischi particolari (stock obsoleto, mercati difficili) – situazioni che giustificano un margine inferiore in Italia e maggiore all’estero, ma in un’ottica di arm’s length (vale a dire che un indipendente avrebbe chiesto un prezzo inferiore in una vendita con quegli oneri e rischi). Anche eventuali perizie giurate fatte in altri contesti – ad esempio, per valutare un’azienda ai fini di bilancio o per operazioni straordinarie – potrebbero essere utilizzate se forniscono indizi sui margini attesi in quelle attività. Tutto ciò contribuisce a creare quel quadro probatorio che, nel suo insieme, miri a convincere il giudice che le pretese del Fisco sono infondate o quantomeno eccessive.
In conclusione su questo punto: la difesa nel merito di un accertamento transfer pricing è un esercizio di persuasione basato su prove. Non basta sollevare dubbi teorici sulla metodologia fiscale: occorre presentare un counter-case completo, con dati, documenti e analisi che supportino la propria determinazione dei prezzi infragruppo. È un lavoro che spesso richiede un team multidisciplinare (avvocati, fiscalisti, economisti aziendali) e che deve essere calibrato sulle peculiarità del caso (tipo di transazione, settore economico, giurisdizioni coinvolte, ecc.).
Strumenti deflattivi del contenzioso tributario applicabili
Oltre alla difesa “tecnica” nel merito, il contribuente ha a disposizione diversi strumenti deflattivi per gestire l’avviso di accertamento senza arrivare (o prima di arrivare) a sentenza. Nel contesto di contestazioni sui prezzi di trasferimento, tali strumenti – previsti in generale dall’ordinamento tributario – possono consentire di ridurre sanzioni e incertezza, qualora il contribuente ritenga opportuno trovare un compromesso con l’Amministrazione finanziaria. Ecco i principali:
Accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997)
L’accertamento con adesione è una procedura di definizione concordata dell’accertamento, che può avvenire sia prima dell’emissione dell’avviso (adesione su PVC, iniziata dal contribuente) sia dopo la notifica dell’avviso (adesione “ordinaria”, avviata su iniziativa del contribuente entro 60 giorni dalla notifica dell’atto). In sostanza, il contribuente e l’Ufficio si siedono a tavolino e cercano un accordo sull’esito dell’accertamento. Nel caso del transfer pricing, l’adesione può essere uno strumento utile quando vi è margine per una trattativa economica: ad esempio, se il Fisco contesta 1 milione di maggior imponibile, le parti potrebbero accordarsi per ridurlo (es. a 500 mila) tenendo conto di elementi che in sede contenziosa sarebbero incerti (come l’esito di perizie, ecc.). I vantaggi dell’adesione per il contribuente sono: la sanzione viene ridotta a 1/3 del minimo (in pratica 1/3 di 90% = 30% dell’imposta accertata, invece che tra 90% e 180%) , non si pagano spese di giudizio, e si chiude la vicenda rapidamente e in modo definitivo. Ad esempio, se un accertamento TP determina 1 milione di euro di imponibile in più, con 270.000 € di maggior imposta, la sanzione ordinaria sarebbe 243.000 € (90% di 270k) fino a 486.000 € (180%). Con l’adesione, pagando subito, la sanzione scenderebbe a circa 81.000 € (un terzo del 90%) , e l’ufficio potrebbe anche ricalibrare l’imponibile. Per l’Agenzia, il beneficio è incassare subito evitando la rischio di causa.
Operativamente, dopo la notifica dell’avviso, il contribuente può presentare istanza di accertamento con adesione all’ufficio entro 60 giorni. Questo sospende i termini per impugnare (che riprendono a decorrere dopo 90 giorni in caso di mancato accordo). L’ufficio convoca il contribuente, si svolge uno o più incontri, e se si raggiunge un accordo lo si formalizza. In materia di prezzi di trasferimento, l’adesione è spesso un negoziato sul “quantum”: l’ufficio potrebbe concedere qualcosa (es. ridurre l’utile da riallineare a metà strada), il contribuente accettare di pagare su quella base. Da notare che l’adesione implica necessariamente il pagamento (integrale o rateale) di quanto concordato; non è un’opzione se il contribuente ritiene di avere ragione al 100% e vuole pagare zero, ma diventa sensata se c’è una zona d’ombra. Inoltre, anche con la documentazione TP idonea (quindi esente sanzioni), l’adesione può servire a ridurre l’importo delle imposte e degli interessi.
Acquiescenza all’accertamento
L’acquiescenza è l’atto di accettare integralmente l’accertamento rinunciando al ricorso, in cambio di un’ulteriore riduzione delle sanzioni. Se il contribuente ritiene di non avere possibilità di vittoria (o comunque sceglie di non fare causa), può pagare entro 60 giorni dalla notifica e beneficiare della sanzione ridotta a 1/3 (la stessa proporzione dell’adesione). In pratica acquiescenza e adesione comportano lo stesso trattamento premiale sulle sanzioni; la differenza è che nell’acquiescenza non c’è negoziazione: si paga tutto il dovuto (imposte, interessi) come da avviso, con sanzione al 1/3. L’acquiescenza conviene rispetto all’adesione se si è già al minimo (improbabile nel TP, perché l’imponibile è sempre discusso) o se non si vogliono/possono rilevare errori. Nel transfer pricing, l’acquiescenza pura è rara poiché di solito c’è spazio di discussione su valori complessi; tuttavia può divenire opzione in situazioni particolari (es. importi modesti, o contribuente che per questioni di reputazione o rapporti col Fisco vuole chiudere subito). Formalmente, per fare acquiescenza basta pagare entro 60 giorni (o la prima rata) e comunicare all’ufficio di non aver presentato ricorso. Le sanzioni sono ridotte a 1/3 automaticamente.
Reclamo e mediazione tributaria
Come accennato, la mediazione tributaria era fino al 2022 un passaggio obbligatorio per le liti sotto una certa soglia. Dal 2023 tale obbligo è stato soppresso. Tuttavia rimane la possibilità, volontaria, di presentare un’istanza di reclamo/mediazione all’ufficio anche oltre le soglie, contestualmente al ricorso, per tentare un accordo. In pratica oggi la mediazione è confluita nella conciliazione in corso di causa, di cui parliamo sotto. Quindi nel 2025 non esiste più un istituto separato ex lege per il TP: se il valore fosse basso, il contribuente può comunque chiedere all’ufficio di rivedere l’atto prima dell’udienza, ma non c’è una procedura formale dedicata come in passato.
Autotutela (annullamento/sgravio in autotutela)
L’autotutela è il potere/dovere della Pubblica Amministrazione di correggere o annullare i propri atti quando si accorge di errori o illegittimità, anche fuori da un contenzioso. Il contribuente può sempre presentare un’istanza di autotutela chiedendo all’ufficio di annullare (in tutto o in parte) l’accertamento su TP se ravvisa errori evidenti. Ad esempio, se c’è un errore di calcolo palese nell’analisi comparativa, oppure se emergono nuovi documenti decisivi non considerati, il contribuente può sollecitare l’ufficio a rivedere l’atto. Tuttavia, l’autotutela è discrezionale: l’ufficio non è obbligato ad accogliere l’istanza, e la presentazione dell’istanza non sospende i termini di ricorso. Quindi è prudente presentarla parallelamente al ricorso (perché se l’ufficio non annulla, solo il giudice può salvarci, e non bisogna perdere i termini). In materia di TP, l’autotutela potrebbe essere utile in caso di errori materiali o doppie imposizioni macroscopiche (ad esempio se nel frattempo l’autorità estera ha riconosciuto un aggiustamento corrispondente e l’Italia rischia di tassare due volte lo stesso margine). Ma sono ipotesi rare.
Conciliazione giudiziale (conciliazione in corso di causa)
La conciliazione giudiziale è uno strumento per definire bonariamente la controversia dopo l’instaurazione del processo, quindi quando il ricorso è già pendente. Può avvenire sia nel primo grado sia in appello. Consiste in un accordo transattivo fra contribuente e ufficio sotto l’egida del giudice: tipicamente, ci si accorda su un certo importo di imponibile da lasciare tassato, si riducono le sanzioni e il giudice recepisce l’accordo emettendo una sentenza o ordinanza che sigilla la conciliazione. I benefici per il contribuente sono: sanzioni ridotte a 1/3 (in conciliazione fuori udienza) o 1/2 (se la conciliazione avviene in udienza), in ogni caso con un massimo del 40% del contestato, e interessi ridotti al 50% . Inoltre, con la conciliazione si ottiene il venir meno di ogni contenzioso residuo (l’atto definito non è più impugnabile dalle parti). Nel transfer pricing, la conciliazione può essere utilizzata specialmente quando emergono elementi nuovi in giudizio che fanno rivalutare alle parti le rispettive posizioni – ad esempio, se nel ricorso il contribuente porta una perizia molto forte, l’ufficio potrebbe preferire accordarsi su un imponibile inferiore piuttosto che rischiare di perdere tutto. Oppure se la Commissione fa comprendere, in sede di trattazione, che c’è spazio per accogliere parzialmente il ricorso, le parti potrebbero formalizzare quell’esito in un accordo immediato. La conciliazione può essere proposta dal contribuente o dall’Ufficio in qualsiasi momento prima della decisione. Dal 2023, con la riforma, la conciliazione può anche avvenire con trattative da remoto (scritte) e il giudice la incoraggia attivamente. In materia TP, dunque, è consigliabile mantenere un canale di dialogo con l’ufficio anche durante la causa, se si intravede la possibilità di una soluzione transattiva vantaggiosa.
Tabella riepilogativa – Strumenti deflattivi e relativi benefici:
Strumento | Quando si applica | Benefici per il contribuente |
---|---|---|
Accertamento con adesione | Entro 60 gg dal PVC (pre-avviso) o dall’avviso notificato | Negoziazione del quantum; sanzioni ridotte a 1/3; termini di ricorso sospesi. |
Acquiescenza | Entro 60 gg dalla notifica dell’avviso, pagando integralmente | Sanzioni ridotte a 1/3 (come adesione); definizione immediata. |
Conciliazione giudiziale | Dopo ricorso, in primo o secondo grado, prima della sentenza | Sanzioni ridotte (1/3 se fuori udienza, 1/2 se in udienza); accordo su imponibile; chiusura rapida della lite. |
Autotutela | In qualsiasi momento (istanza all’ufficio) | Possibile annullamento totale/parziale dell’atto senza costi; (nessuna garanzia di accoglimento, non sospende termini). |
Reclamo/Mediazione (non più obbligatoria) | (Facoltativa per liti minori, entro 60 gg dalla notifica, insieme al ricorso) | Possibile riduzione delle sanzioni fino a 1/3 come conciliazione; tempi brevi; ma dal 2023 non obbligatoria. |
Come si nota, adesione, acquiescenza e conciliazione offrono a regime lo stesso beneficio sanzionatorio (pagamento di circa il 30% della sanzione piena). La differenza sta nella tempistica e nel fatto che adesione e conciliazione permettono di ridefinire anche l’importo delle imposte, mentre l’acquiescenza è “prendere o lasciare” l’intero importo accertato (salvo lo sconto sanzionatorio). In ogni caso, per beneficiare di queste riduzioni il contribuente deve rinunciare al contenzioso: quindi la scelta dipenderà dalla solidità delle proprie ragioni. Se si confida di vincere in giudizio, difficilmente si accetterà di pagare (anche scontato); se invece la materia è opinabile, potrebbe essere saggio transigere per eliminare il rischio di esito peggiore.
Giurisprudenza recente in tema di transfer pricing e difesa del contribuente
Negli ultimi anni la Corte di Cassazione e le Corti di giustizia tributaria hanno prodotto numerose pronunce che delineano principi importanti in materia di transfer pricing, spesso a tutela del contribuente, ma talora ribadendo orientamenti pro-fisco. È utile richiamare brevemente alcune sentenze chiave (dal 2018 in poi) che possono costituire precedenti di riferimento in un contenzioso sui prezzi di trasferimento:
- Cass. civ. Sez. Trib. n. 19512/2024 (depositata 16 luglio 2024) – Prezzi di trasferimento e società in perdita. La Suprema Corte ha affermato per la prima volta a livello giudiziale che anche le società in perdita possono essere incluse nel campione dei comparables se tali perdite sono “fisiologiche” nell’ambito del settore . Viene così sconfessata la prassi dell’Agenzia delle Entrate di escludere a priori, nelle analisi di benchmark, le aziende in perdita o con dati contabili incompleti. La Corte (caso relativo a servizi di call center tra Italia e Paesi Bassi) ha sottolineato che in un mercato libero è normale avere imprese in perdita e che ciò non giustifica l’automatica esclusione dal confronto . Questo allineamento alle Linee Guida OCSE (che invitano a considerare le strategie di business e le fasi cicliche, cfr. par. 3.64-3.70 OCSE 2022) rappresenta un importante precedente a favore del contribuente.
- Cass. civ. Sez. V n. 1311/2025 (depositata gennaio 2025) – Gerarchia dei metodi e onere di motivazione dell’Ufficio. In questa pronuncia, la Cassazione ha censurato l’operato dell’Amministrazione finanziaria che, in sede di accertamento TP, aveva utilizzato un metodo indiretto (TNMM) scartando senza adeguata motivazione il metodo diretto (CUP) adottato dal contribuente . La Corte ha ribadito che non esiste una gerarchia rigida tra metodi, ma l’Ufficio deve giustificare perché ritiene non applicabile il metodo scelto dal contribuente se quest’ultimo ha seguito le linee guida OCSE e il DM 2018. Ignorare un CUP interno in favore di un margine di transazione (TNMM) senza spiegazioni è stato ritenuto indice di un accertamento carente, poi annullato. Questo costituisce un monito: il Fisco non può arbitrariamente preferire un metodo diverso se il contribuente ne ha adottato uno appropriato, senza dare contezza delle ragioni.
- Cass. civ. Sez. Trib. n. 2689/2023 e n. 2599/2023 (gennaio 2023) – Onerosità della prova sull’utilità dei servizi infragruppo. In due sentenze ravvicinate, la Cassazione ha ribadito un importante principio in tema di inerenza e deducibilità dei costi infragruppo (management fee, cost sharing, servizi centralizzati): grava sul contribuente l’onere di provare che tali costi hanno apportato una effettiva utilità alla controllata italiana e sono stati determinati in modo congruo . In particolare, la Cass. 2689/2023 ha affermato che per dedurre costi da accordi infragruppo occorre documentare l’utilità ottenuta e la determinabilità oggettiva dei costi, e che non basta esibire il contratto e le fatture se non si dimostra in concreto il beneficio ricevuto . Queste decisioni, in linea con precedenti del 2018 e 2020, sottolineano la necessità del “benefit test” per i servizi infragruppo: la deduzione è ammessa solo se la spesa ha attinenza con l’attività d’impresa e produce un vantaggio economicamente apprezzabile per la controllata . Inoltre, tali sentenze confermano che l’onere della prova sull’esistenza e inerenza del costo è del contribuente (ex art. 109 TUIR e art. 2697 c.c.) . Dunque, in contenziosi su servizi intercompany, la difesa del contribuente dovrà focalizzarsi nel dimostrare dettagliatamente la natura e utilità dei servizi ricevuti, magari attraverso report dettagliati e documentazione di supporto.
- Cass. civ. Sez. V n. 15668/2022 (maggio 2022) – Ripartizione dell’onere probatorio. Questa pronuncia (in continuità con Cass. 13571/2021 e altre) ha nuovamente affrontato il tema del riparto dell’onere della prova nel TP, confermando che una volta che l’Ufficio indica elementi sintomatici di prezzi anomali tra consociate, tocca all’impresa provare la conformità al valore normale . In altri termini, la Cassazione ha consolidato la regola già vista: il Fisco non deve provare il fine evasivo né ricostruire perfettamente il valore normale, ma solo segnalare la divergenza; poi è il contribuente a dover persuadere che non c’era alcuna deviazione dall’arm’s length. Questo orientamento restrittivo impone al contribuente un onere sostanzioso in giudizio, che occorre assolvere con diligente produzione documentale e analitica (come descritto nella sezione precedente).
- Cass. civ. Sez. V n. 7361/2024 (marzo 2024) – Finanziamenti infragruppo infruttiferi. La Corte ha statuito che i prestiti senza interessi a società estere controllate rientrano pienamente nel campo di applicazione del transfer pricing internazionale . Ciò significa che l’Agenzia può legittimamente rettificare in aumento il reddito imponibile italiano, imputando interessi figurativi calcolati a tasso di mercato sul capitale prestato alla consociata estera, se il prestito è stato concesso a tasso zero. La Cassazione ha confermato che l’art. 110 co. 7 TUIR si applica anche a queste operazioni finanziarie infragruppo, pur se prive di corrispettivo formale . Questo indirizzo pone in guardia le imprese: finanziamenti anomali (es. troppo onerosi o, come in questo caso, troppo generosi) tra consociate transfrontaliere possono essere sindacati come violazioni del principio di libera concorrenza. Dal lato difensivo, come visto, sarà cruciale in tali casi dimostrare perché una banca indipendente avrebbe potuto anch’essa praticare tasso zero o comunque differente, magari portando evidenze su condizioni finanziarie particolari.
- C.T. Reg. Lombardia n. 320/2019 e giur. di merito – Adjustments di fine anno e coerenza di sistema. Alcune commissioni tributarie regionali (es. Lombardia) hanno riconosciuto la legittimità degli aggiustamenti di fine esercizio effettuati dal contribuente per allineare i margini infragruppo al valore di libera concorrenza, purché ciò avvenga in maniera sistematica e documentata, e vi sia simmetria con la controparte estera (che deve rilevare la corrispondente variazione opposta). In altre parole, se a fine anno la consociata estera retrocede parte dell’utile all’italiana per rispettare il range di mercato (o viceversa), tale aggiustamento – se rispecchiato in contabilità e fatto secondo prassi OCSE – non dovrebbe essere disconosciuto come “manovra elusiva”. Anzi, è un comportamento virtuoso. Questo principio non è (ancora) codificato da Cassazione, ma è emerso a livello di merito ed è coerente con gli standard internazionali (c.d. year-end adjustments).
In definitiva, la giurisprudenza recente mostra un quadro articolato: da un lato conferma approcci stringenti sul piano probatorio (contribuente deve provare utilità dei costi e correttezza dei prezzi) e amplia il raggio di applicazione (anche prestiti infruttiferi sotto TP), dall’altro introduce aperture importanti (inclusione delle aziende in perdita nei comparabili, obbligo per il Fisco di motivare la scelta del metodo, riconoscimento di best practices del contribuente come gli aggiustamenti simmetrici). Chi si difende da un accertamento sui prezzi di trasferimento dovrà quindi sfruttare a proprio vantaggio quei precedenti favorevoli – citandoli espressamente negli atti difensivi – e al contempo essere consapevole dei precedenti sfavorevoli per contro-argomentarli o distinguerli dal proprio caso.
Tabella – Principali pronunce recenti della Cassazione in materia di transfer pricing (2018-2025):
Sentenza (Cassazione) | Principio di diritto affermato |
---|---|
Cass. 19512/2024 (16/07/2024) | Le imprese in perdita possono essere incluse nel campione di comparazione se tali perdite sono fisiologiche, allineandosi alle Linee Guida OCSE e smentendo la prassi di escluderle . |
Cass. 1311/2025 (06/01/2025) | L’Ufficio non può ignorare il metodo diretto (CUP) adottato dal contribuente in favore di un metodo indiretto (TNMM) senza motivare le ragioni dell’inapplicabilità del primo; il metodo “più affidabile” va scelto caso per caso . |
Cass. 2689/2023 (30/01/2023) | In tema di servizi infragruppo, il contribuente deve provare l’effettiva utilità dei servizi ricevuti e la congruità dei relativi costi; non basta esibire contratti e fatture, occorre documentare il beneficio ottenuto (principio del benefit test) . |
Cass. 15668/2022 (17/05/2022) | Onere della prova ripartito: l’Amministrazione deve indicare elementi che rendano anomali i prezzi infragruppo, ma poi spetta al contribuente dimostrare che quei prezzi erano di libera concorrenza (applicazione del principio di vicinanza della prova) . |
Cass. 7361/2024 (16/03/2024) | I finanziamenti infragruppo senza interessi verso società estere rientrano nel transfer pricing: l’AE può imputare interessi attivi di mercato al prestatore italiano, poiché l’art. 110 c.7 TUIR si applica anche a queste operazioni finanziarie . |
(Nota: le citazioni tra parentesi quadre si riferiscono ai punti della guida in cui sono riportati estratti delle pronunce in questione.)
Aspetti di diritto civile e responsabilità degli amministratori nel contesto infragruppo
Le contestazioni sui prezzi di trasferimento errati non producono effetti soltanto in ambito tributario. Esse possono infatti riflettersi anche sul piano civilistico e societario, soprattutto quando un’operazione infragruppo a condizioni anomale arreca un pregiudizio a una delle società coinvolte (tipicamente la controllata che ha pagato prezzi eccessivi o praticato prezzi troppo bassi). In tali situazioni sorgono potenziali profili di responsabilità sia in capo alla capogruppo (holding) sia ai singoli amministratori delle società coinvolte.
Responsabilità della capogruppo per abuso di direzione e coordinamento (art. 2497 c.c.)
Il codice civile disciplina, agli artt. 2497 – 2497-septies c.c., l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di società. In estrema sintesi, la norma principale (art. 2497) stabilisce che la società che esercita attività di direzione e coordinamento su altre risponde verso i soci di minoranza e i creditori sociali delle società eterodirette per i danni cagionati a queste ultime dal mancato rispetto dei principi di corretta gestione societaria a causa di atti pregiudizievoli compiuti nell’interesse imprenditoriale del gruppo. Tradotto: se la holding impone a una controllata operazioni svantaggiose (ad esempio vendere beni a prezzo inferiore al normale per favorire un’altra società del gruppo ubicata altrove), e ciò arreca un danno patrimoniale alla controllata, la capogruppo è tenuta a risarcire quel danno ai soci di minoranza della controllata o ai suoi creditori , salvo che il danno risulti poi eliminato nel “risultato complessivo” del gruppo (la legge infatti ammette che atti inizialmente sfavorevoli possano essere compensati da vantaggi successivi per la controllata, ad es. altre operazioni vantaggiose o un sostegno finanziario, cfr. art. 2497, co.1). Nel caso di prezzi di trasferimento errati, se la politica di gruppo porta una società italiana a vendere sottocosto o ad acquistare a prezzi fuori mercato per spostare utili altrove, si configura potenzialmente un “abuso di direzione e coordinamento” da parte della holding. I soci di minoranza della società danneggiata potrebbero allora agire in giudizio ex art. 2497 c.c. per ottenere il risarcimento del danno subito (es. riduzione del valore della loro partecipazione a causa degli utili ridotti) . Anche i creditori sociali della controllata potrebbero agire se quella gestione lesiva ha compromesso la garanzia patrimoniale della società (ad esempio aggravandone lo stato di insolvenza).
È importante notare che la responsabilità ex 2497 c.c. si estende (co.2) a tutti coloro che hanno consapevolmente preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, a chi ne abbia tratto beneficio . Ciò significa che non solo la holding risponde, ma anche gli amministratori (della holding o della controllata) che abbiano eseguito l’operazione dannosa e pure eventuali altre società del gruppo che ne abbiano beneficiato (entro il vantaggio da esse ricevuto). Questa previsione crea un’ampia rete di responsabilità solidale, che certamente coinvolge gli amministratori della capogruppo in prima persona ogniqualvolta abbiano diretto le scelte distorcendo i prezzi infragruppo in maniera pregiudizievole per una consociata .
La struttura della norma prevede però una sorta di “scriminante” del gruppo: non ogni atto svantaggioso è illecito, perché l’attività di direzione unitaria è lecita se nel complesso porta benefici. In particolare, il co.1 dell’art. 2497 c.c. esclude la responsabilità se il danno alla società eterodiretta risulta mancante nel risultato complessivo della gestione unitaria, ossia se ragionevolmente compensato da altri vantaggi entro un adeguato periodo . Nel caso del transfer pricing, per esempio, la holding potrebbe difendersi sostenendo che il sacrificio imposto a una controllata (prezzi sfavorevoli) era giustificato da un piano di gruppo che nel medio termine avrebbe avvantaggiato anche la controllata (es. maggiori vendite future, o la controllata ha beneficiato di altri supporti finanziari). Se riesce a provarlo, non vi sarebbe illecito. Tuttavia, in assenza di tale dimostrazione, la violazione dei principi di corretta gestione è fonte di responsabilità diretta per la capogruppo e per i suoi amministratori .
Gli strumenti di tutela per soci e creditori includono non solo l’azione risarcitoria ex 2497, ma talora anche rimedi societari come la denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. (per gravi irregolarità gestorie, applicabile alle S.p.A. ma estesa di fatto anche alle S.r.l. in certi casi) o, per i creditori, le azioni revocatorie di atti di depauperamento (si pensi se la controllata ha pagato somme ingenti per servizi intra-gruppo privi di reale utilità: i creditori potrebbero tentare una revocatoria di quei pagamenti in caso di insolvenza, ex art. 2901 c.c., come atto pregiudizievole). Giova ricordare inoltre che l’art. 2497, co.3, stabilisce una sorta di beneficio di escussione: i danneggiati devono prima escutere la società controllata autrice dell’atto e solo in subordine la holding . Ciò per evitare che si salti a piè pari la società direttamente coinvolta. Nondimeno, se la controllata è insolvente (scenario tipico di dissesti anche causati da politiche di gruppo scorrette), la holding finisce in prima linea.
In conclusione, sul piano civilistico la manipolazione di prezzi infragruppo a vantaggio del gruppo ma a detrimento di singole società può configurare un’ipotesi di responsabilità da direzione unitaria abusiva. I gruppi ben gestiti dovrebbero documentare sempre le ragioni di business delle politiche di transfer pricing interne, così da poterle motivare come scelte di interesse anche delle controllate (art. 2497-ter c.c. richiede peraltro di motivare adeguatamente le decisioni prese sotto direzione altrui) . Laddove ciò manchi, gli amministratori e la holding espongono sé stessi a pretese risarcitorie da parte di soci di minoranza o creditori insoddisfatti.
Responsabilità dei singoli amministratori e reati societari collegati
Accanto alla responsabilità “di gruppo” ex 2497, sussistono i profili di responsabilità individuale degli amministratori delle società coinvolte in operazioni infragruppo sleali. Un amministratore, infatti, deve agire diligentemente e con fedeltà agli interessi della società che amministra (art. 2392 e 2393 c.c. per S.p.A., art. 2476 per S.r.l.). Se egli avalla o esegue politiche di transfer pricing che avvantaggiano un’altra società (ad esempio la controllante o un’altra consociata) a scapito della propria, sta violando il dovere di lealtà e potrebbe rispondere di mala gestio. I soci possono promuovere azioni di responsabilità sociale contro di lui, chiedendo il risarcimento del danno patrimoniale causato alla società (riduzione di utili, depauperamento di asset). Ad esempio, i soci di minoranza di una S.r.l. controllata potrebbero attivare l’azione sociale di responsabilità ex art. 2476 c.c. se scoprono che l’amministratore unico ha venduto beni alla controllante a metà del loro valore di mercato, provocando perdite . Anche senza arrivare a un dissesto, tale condotta configura un inadempimento ai doveri fiduciari verso la società amministrata.
Sul piano del diritto penale societario, un amministratore che scientemente svende beni sociali o concede vantaggi ingiustificati a terzi (inclusa la holding o se stesso) a danno della propria società può incorrere nel reato di infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.). Questo reato si configura quando un amministratore, avendo un interesse proprio o altrui in conflitto con quello della società, compie (o omette) atti che cagionano nocumento patrimoniale alla società stessa. Ebbene, qualora attraverso prezzi di trasferimento manipolati l’amministratore rechi intenzionalmente un danno alla società per favorire l’interesse dell’altra parte correlata (la capogruppo o un soggetto a lui vicino), si può parlare di “tentativo di appropriarsi di un asset aziendale per scopi privati”, rientrando nello schema dell’art. 2634 . Ad esempio, l’amministratore delegato di una società controllata che venda sistematicamente prodotti sottocosto alla società madre (di cui magari è egli stesso socio) può essere accusato di aver violato il dovere di fedeltà e di aver arrecato un danno alla controllata a vantaggio della controllante, integrando l’infedeltà patrimoniale. Le pene previste sono di carattere detentivo (fino a 3 anni di reclusione) e pecuniario, e vi possono essere conseguenze anche sul piano civilistico (nullità o annullabilità degli atti compiuti in conflitto di interessi se dannosi, ecc.). Giova sottolineare che per configurare il reato occorre l’elemento soggettivo del dolo: bisogna cioè provare che l’amministratore ha agito con la precisa volontà di favorire sé o altri a scapito della società. Non ogni pricing sbagliato implica reato, se fatto in buona fede o per errore. Ma se c’è consapevolezza e intenzione di danneggiare la società (magari per compiacere la holding o per trarne un beneficio indiretto), allora sì .
Un altro reato che potrebbe delinearsi in casi estremi è la appropriazione indebita (art. 646 c.p.), qualora l’amministratore distragga risorse sociali a favore di altri senza una giusta causa. Nel contesto del transfer pricing, potrebbe configurarsi appropriazione indebita se, ad esempio, un amministratore trasferisce utili all’estero attraverso sovrafatturazioni di costi infragruppo, di fatto sottraendo patrimonio alla società italiana per farlo uscire a vantaggio di terzi. Se ciò è qualificabile come sviamento di beni sociali per scopi non societari, potrebbe integrarsi la fattispecie penalmente rilevante (benché spesso l’infedeltà patrimoniale sia più calzante per situazioni intra-gruppo).
Non va poi dimenticato che, se la società subisce un dissesto anche a causa di tali pratiche (ad esempio, la società viene “spolpata” tramite transazioni infragruppo a sfavore e fallisce), gli amministratori potrebbero rispondere di reati fallimentari quali la bancarotta distrattiva. Immaginiamo una società dichiarata fallita i cui amministratori abbiano, negli anni precedenti, trasferito utili alla capogruppo mediante prezzi sottostimati: il curatore potrebbe sostenere che quegli atti hanno aggravato il dissesto e quindi configurare una bancarotta fraudolenta per distrazione (aver distolto utili spettanti alla società fallita). Questi scenari rientrano più nel diritto fallimentare, ma sono un rischio concreto se la manipolazione dei prezzi è usata per spogliare una controllata.
Infine, dal 2019-2020 alcuni reati tributari (quali la dichiarazione fraudolenta) sono stati inclusi tra i reati presupposto del D.Lgs. 231/2001, comportando potenziale responsabilità amministrativa della società. L’infedeltà patrimoniale stessa non è tra i reati 231, ma la dichiarazione infedele (reato tributario) è stata inserita nel 2020 come reato presupposto, per cui se un dirigente commette reato di infedele dichiarazione nell’interesse della società, quest’ultima può essere sanzionata ex 231. Tuttavia, come visto, le divergenze di transfer pricing documentate di norma non costituiscono reato tributario. Se però si sconfinasse in dichiarazione fraudolenta (es. con operazioni simulate), allora la società potrebbe subirne le conseguenze 231 in termini di sanzioni pecuniarie e interdittive.
In sintesi, gli amministratori devono essere estremamente cauti nel gestire le operazioni infragruppo: essi devono poter giustificare business-wise ogni scelta di pricing, altrimenti rischiano non solo il contenzioso fiscale ma anche cause di responsabilità e perfino incriminazioni penali. Dal punto di vista del debitore d’imposta (società verificata), far valere nel contenzioso tributario eventuali profili di scorrettezza gestionale può avere anche un peso indiretto: ad esempio, sostenere che la consociata italiana ha accettato prezzi sfavorevoli solo perché imposta dalla holding può forse suscitare la comprensione del giudice (che potrebbe vedere la controllata come “parte debole” più che come evasore volontario). Ma questa considerazione morale non cambia l’esito fiscale (il giudice tributario deve comunque applicare la legge fiscale). Tuttavia, sul piano pratico, se l’amministratore capisce che rischia in prima persona sul civile e penale, potrebbe essere motivato a transigere col Fisco per sistemare la questione, oppure a fornire tutte le informazioni possibili per chiarire che non c’era intento doloso.
Esempi pratici di contestazioni transfer pricing e strategie di difesa (Italia)
Per concretizzare gli argomenti trattati finora, presentiamo alcuni casi pratici simulati – basati su situazioni tipiche riscontrabili in Italia – in cui un contribuente si trova ad affrontare contestazioni sui prezzi di trasferimento errati. Ogni esempio illustrerà la posizione dell’Amministrazione finanziaria, la problematica in questione e possibili linee difensive dal punto di vista del contribuente (debitore).
Esempio 1: Vendita sottocosto a una consociata estera
Scenario: Alfa S.p.A. (Italia) produce macchinari industriali. Nel 2022 ha venduto a Beta LLC (consociata al 100% situata in Ungheria) 100 macchinari al prezzo unitario di 50.000 €, per un totale di 5.000.000 €. Il costo di produzione per Alfa di ciascun macchinario era di 55.000 €: quindi Alfa ha venduto in perdita (margine -5.000 € a pezzo), accumulando una perdita fiscale in Italia. Beta LLC ha poi rivenduto i macchinari sul mercato esterno a 80.000 € ciascuno, realizzando un ottimo utile in Ungheria (tassato a aliquota più bassa rispetto all’Italia).
Contestazione del Fisco: L’Agenzia delle Entrate, in sede di verifica, rileva che Alfa ha ceduto a Beta a un prezzo inferiore sia al costo di produzione sia ai prezzi praticati ad altri clienti indipendenti (in passato Alfa aveva venduto macchinari simili a terzi a circa 85.000 € cadauno). Considera ciò un evidente caso di transfer pricing: tra parti indipendenti, nessuno venderebbe in perdita. Pertanto, il Fisco rettifica il prezzo di trasferimento portandolo al “valore normale”. Nel calcolo, utilizza come comparabili le vendite fatte da Alfa a clienti terzi nello stesso periodo (85.000 € prezzo medio). Sulla base di ciò, emette avviso di accertamento aumentando i ricavi 2022 di Alfa di 3.500.000 € (differenza di 35.000 € a macchina x 100 unità) . Questo trasforma la perdita in Italia in un consistente utile, con imposte e sanzioni correlate. L’ufficio motiva che Alfa ha di fatto trasferito utili a Beta per sfruttare la fiscalità più mite ungherese (ipotesi di elusione fiscale, richiamando anche il principio generale anti-abuso).
Possibili difese del contribuente: Alfa S.p.A. impugna l’accertamento sostenendo che il prezzo apparentemente sottocosto era giustificato da ragioni commerciali valide, non da finalità elusive. In particolare, argomenta che: – Beta LLC era una nuova società di distribuzione creata per penetrare il mercato est-europeo. Nel 2022, per lanciare il prodotto, era necessario applicare prezzi molto aggressivi ai clienti finali; Alfa ha quindi supportato Beta trasferendole i macchinari a prezzo ridotto per condividere con essa l’onere della penetrazione di mercato. Ciò è in linea con prassi di mercato: spesso un produttore accorda al distributore sconti eccezionali per l’avviamento (policy nota come “entry price strategy”). – Alfa produce anche altri modelli di macchinari. Si dimostra con documenti interni che Beta LLC nel primo anno ha svolto un enorme lavoro di marketing e installazione in loco dei macchinari, investimenti che Alfa avrebbe altrimenti dovuto sostenere. Dunque, Alfa ha accettato di vendere a minor prezzo perché Beta stava assumendo funzioni e rischi aggiuntivi (marketing locale, assistenza tecnica in lingua, finanziamento clienti). In base all’analisi funzionale, Beta non era un semplice distributore routine, ma un entrepreneur sui mercati emergenti. Pertanto, un margine maggiore a Beta e una perdita iniziale per Alfa sarebbero coerenti col principio di libera concorrenza, considerata la ripartizione dei rischi. – Vengono portate a supporto analisi di comparabili alternative: Alfa produce uno studio di benchmark sui margini dei distributori indipendenti nel settore, che mostra come distributori che lanciano nuovi prodotti talvolta realizzano margini altissimi (per compensare i costi di lancio e rischio). Beta con quel prezzo ha realizzato un margine di 30k su 80k (37.5%). Si mostrano dati che distributori analoghi in mercati di lancio hanno margini del 35-40%. Quindi il margine di Beta non è inverosimile in un contesto di lancio, e la perdita di Alfa corrisponde a Beta che ha preso quel profitto in linea col ruolo di risk-taker di mercato . – Si evidenzia inoltre che non vi era intento evasivo: la tassazione in Ungheria è sì più bassa, ma Beta ha usato quegli utili per reinvestirli in infrastrutture locali (show-room, assunzione tecnici). Inoltre, Alfa ha predisposto la documentazione transfer pricing dove questa politica di prezzo è esplicitata e motivata (si allega estratto del Masterfile dove si descrive la strategia di mercato). – In subordine, Alfa contesta il metodo del Fisco: l’ufficio ha usato come comparabili le vendite ad altri clienti di Alfa, ma questi non erano in una situazione comparabile a Beta. Erano vendite occasionali e in mercati già consolidati, non un caso di lancio in nuovo mercato. Quindi il CUP interno proposto dal Fisco non è affidabile, meglio usare un metodo reddituale (TNMM) su Beta come distributore e mostrare che Beta ha ottenuto un margine non superiore a quello dei distributori indipendenti (come fatto sopra). – Viene anche sollevata la questione dell’abuso del diritto: Alfa sostiene che la sua condotta non integrava affatto abuso, in quanto esistevano valide ragioni economiche extrafiscali per il prezzo applicato (sviluppo mercato). Si cita anche una Cassazione (12282/2013) che in un caso di cessione di marchio a prezzo basso seguita da royalties alte ha affermato che è precluso al contribuente cercare vantaggi fiscali con schemi artificiosi , ma solo se mancano ragioni economiche. Qui, al contrario, le ragioni economiche c’erano (si allegano studi di settore, piani industriali approvati). – Infine, Alfa fa presente che Beta LLC successivamente (2024-2025) ha ridotto i margini man mano che il mercato si consolidava, e Alfa ha iniziato a venderle a prezzi più alti. Questo dimostra che il periodo di vendita sottocosto era temporaneo e finalizzato a un obiettivo di gruppo di lungo termine, come previsto e documentato (il “risultato complessivo” di gruppo a regime non è lesivo per Alfa).
Esito possibile: Il giudice tributario, valutando le prove, potrebbe riconoscere che il Fisco ha correttamente individuato una non conformità formale al principio di libera concorrenza, ma allo stesso tempo apprezzare le giustificazioni economiche apportate dal contribuente. Se queste risultano convincenti, è possibile che la commissione ritenga il prezzo praticato sostenibile in un’ottica arm’s length in virtù delle funzioni assunte da Beta. In tal caso, l’accertamento verrebbe annullato. In alternativa, il giudice potrebbe ridurre l’entità della rettifica: ad esempio, determinare che un prezzo di 65.000 € (anziché 85.000) fosse arm’s length date le circostanze, riconoscendo parzialmente le ragioni di Alfa. Ciò comporterebbe un abbattimento del maggior imponibile. Questo scenario evidenzia l’importanza per il contribuente di documentare ex ante le strategie commerciali che motivano politiche di prezzo anomale, in modo da poterle difendere in seguito.
Esempio 2: Servizi di management infragruppo con costi sovrafatturati
Scenario: Gamma S.r.l. è una PMI italiana parte di un gruppo multinazionale. La capogruppo estera (Delta Inc., USA) fornisce a Gamma vari servizi amministrativi e di gestione (contabilità centralizzata, IT, consulenza legale e commerciale). Delta Inc. addebita annualmente a Gamma una “management fee” calcolata forfettariamente: nel 2021 Gamma ha ricevuto fattura per 500.000 € a tale titolo. Questo importo rappresentava circa il 5% del fatturato annuo di Gamma.
Contestazione del Fisco: In sede di controllo, l’Agenzia contesta la deducibilità di tali costi per Gamma, ritenendo che non siano stati provati né la loro inerenza né la congruità. In particolare, dal PVC emerge che la documentazione fornita da Gamma sui servizi ricevuti era carente: solo un contratto quadro generico e la fattura cumulativa di 500k, senza dettagli sulle ore/personale impiegato né sulle specifiche attività svolte per Gamma. Il Fisco sostiene che: (a) non è dimostrata l’effettiva utilità di quei servizi per Gamma (forse erano duplicazioni di funzioni che Gamma svolge già internamente); (b) l’importo appare eccessivo rispetto alla dimensione di Gamma; (c) Gamma non ha prodotto report o deliverables concreti dei servizi. Pertanto, l’Ufficio – richiamando il principio del benefit test – disconosce per intero la deduzione dei 500.000 €, recuperandoli a tassazione come costo indeducibile ai fini IRES. In subordine, prospetta che, anche applicando il TP, quel costo non sarebbe arm’s length, essendo troppo elevato rispetto a un ipotetico valore di mercato (non vengono però indicati comparabili o metodi).
Possibili difese del contribuente: Gamma impugna l’atto sostenendo che i servizi infragruppo erano reali, necessari e di valore. Linee di difesa: – Viene prodotta una dossier dettagliato (non presentato in verifica) contenente: descrizione puntuale di ogni servizio fruito nel 2021, con date, persone coinvolte, output generati (es. report trimestrali, implementazione nuovo software ERP, contratti standard predisposti dal legale USA, etc.). Questo per dimostrare l’effettiva esistenza e utilità delle prestazioni ricevute . Ad esempio, Gamma mostra che grazie al software implementato da Delta Inc. ha ottimizzato la gestione del magazzino, con benefici economici quantificabili. – Gamma riconosce che la documentazione inizialmente fornita era insufficiente, ma sottolinea che la capogruppo aveva effettivamente svolto quei servizi. Si allega una relazione della società di revisione che certifica l’avvenuta erogazione dei servizi e la corretta allocazione dei costi secondo criteri di ripartizione per il gruppo (ad esempio, la fee di 500k era una quota di un centro servizi globale allocata in base al fatturato di Gamma). La Cassazione ha riconosciuto in passato che le relazioni di società di revisione possono costituire elemento probatorio della certezza del costo (purché non smentite da prove contrarie). – Sul piano del valore normale, Gamma sostiene che 500k non è affatto eccessivo: produce un’analisi comparativa con costi che avrebbe sostenuto sul mercato italiano per analoghi servizi. Esempio: preventivi da società di consulenza IT per implementare ERP (300k), da studi legali per assistenza contrattuale (100k annui), costi stimati per un CFO esterno (altri 100k). Sommando, il totale sarebbe circa 500k, quindi il costo addebitato dalla capogruppo è ragionevole. O persino conveniente (capogruppo grazie a economie di scala ha fatto risparmiare Gamma). – Gamma richiama la giurisprudenza (Cass. 2689/2023) che sottolinea come non sia sufficiente per dedurre costi infragruppo la mera fatturazione: serve provare l’utilità concreta . Tuttavia, afferma di averlo fatto con la nuova documentazione. Fa inoltre notare che l’Ufficio non ha mai sostenuto l’inesistenza dei servizi (non c’è accusa di fatture false, ad esempio), ma solo la carenza di prova. Ora tale prova viene fornita in giudizio. – Si cita anche la circolare ministeriale 32/1980 (menzionata dalla Cassazione stessa) la quale ammette la deducibilità di costi di servizi infragruppo se c’è effettività, inerenza e vantaggio per la controllata . Gamma mostra quindi l’utilità economica: grazie ai servizi, Gamma ha potuto evitare di assumere personale interno costoso e ha migliorato la propria efficienza (aumento marginalità del 2% quell’anno, indirettamente attribuibile anche ai servizi). – In subordine, Gamma sostiene che se pure si ritenesse non provato il 100% del beneficio, non sarebbe corretto disconoscere l’intero costo. Magari una parte potrebbe essere ritenuta eccessiva, ma un’altra parte sicuramente inerente. Il Fisco invece ha negato tutto in blocco. Gamma suggerisce eventualmente al giudice, in via equitativa, di ammettere almeno una percentuale (es. 70%) di deducibilità, qualora non fosse convinto del tutto. – Viene anche toccato l’argomento transfer pricing interno: sebbene formalmente il TP si applichi a rapporti transnazionali, qui siamo comunque in ambito internazionale (Italia-USA). Gamma evidenzia che l’art. 110, co.7 si riferisce anche ai costi infragruppo: quindi se quel costo fosse superiore al valore normale, l’AE avrebbe dovuto casomai ridurlo a valore normale (non disconoscerlo al 100% se un valore comunque c’è). L’ufficio però non ha indicato quale sarebbe a suo dire il valore normale (ha solo detto “troppo alto”). Dunque l’accertamento è carente: non può limitarsi a negare la deduzione integrale senza determinare un valore normale alternativo, pena violazione dell’art.110 co.7 che non è norma antielusiva ma di allocazione corretta . Questo è un argomento raffinato: in sostanza, Gamma contesta che l’AE stia usando art.109 (inerenza) per negare deduzione, ma in realtà dovrebbe usare 110(7) e indicare il valore normale congruo. Se non l’ha fatto, l’atto è viziato.
Esito possibile: Se Gamma riesce a convincere il giudice dell’effettività dei servizi e della loro utilità, l’accertamento verrà annullato per difetto di motivazione sul punto o comunque rigettato nel merito. Qualora invece permangano dubbi sulla congruità dell’importo, il giudice potrebbe disporre una CTU (consulenza tecnica) per stimare il valore normale dei servizi (anche se raro in tributario), oppure decidere in via equitativa di ridurre parzialmente il costo deducibile. Ad esempio, potrebbe ritenere deducibili 300k su 500k e negare 200k come “eccedenza”. In ogni caso, l’esempio mostra quanto sia cruciale, per difendersi in casi di management fee, poter documentare analiticamente i servizi (time sheet, report, evidenze tangibili) e, se possibile, dimostrare che il costo è in linea col mercato (magari tramite perizia). L’assenza di documenti in verifica è spesso esiziale, ma si può tentare di rimediare in giudizio se c’è sostanza.
Esempio 3: Finanziamento infragruppo a tasso zero
Scenario: Omega S.p.A., società italiana, ha ricevuto nel 2019 un finanziamento di 10 milioni di euro dalla controllante lussemburghese (Theta SA) per supportare l’espansione produttiva. Il finanziamento è stato concesso senza interessi (tasso 0) e senza scadenza fissa (rimborso on demand). Nel 2019-2020 Omega non ha pagato alcun interesse a Theta.
Contestazione del Fisco: L’Agenzia, durante un accertamento nel 2023, contesta che il finanziamento infruttifero rappresenti una operazione anomala tra parti correlate, poiché una banca indipendente non avrebbe mai prestato 10 milioni a tasso zero. In applicazione dell’art. 110, co.7 TUIR, l’Ufficio rettifica quindi il reddito di Omega imputandole degli interessi figurativi su quel finanziamento. Calcola tali interessi applicando un tasso di mercato del 3% annuo (valutato come tasso medio dei prestiti corporate nel 2019-20). Di conseguenza, aumenta il reddito di Omega di 300.000 € per ciascuno degli anni 2019 e 2020. Applica imposte e sanzioni su tali importi, motivando che Omega avrebbe dovuto corrispondere interessi se avesse operato in condizioni di indipendenza (arm’s length). L’Agenzia cita espressamente la giurisprudenza che legittima tali rettifiche (Cass. 7361/2024, ad esempio, che conferma l’applicabilità del TP ai finanziamenti infragruppo infruttiferi) .
Possibili difese del contribuente: Omega S.p.A. non nega l’anomalia, ma cerca di giustificare il tasso zero con elementi di fatto: – Omega argomenta che al momento del prestito (2019) versava in una situazione finanziaria difficile (debiti bancari elevati, rating interno basso). Nessuna banca le avrebbe concesso ulteriori fidi a tassi normali. La controllante Theta intervenne proprio perché Omega rischiava il collasso. Dunque, l’operazione ha natura quasi di “finanziamento di salvataggio” intra-gruppo. In tal caso, non è assurdo che Theta non abbia preteso interessi nell’immediato, puntando a risanare Omega per poi avere utili futuri. Si porta evidenza di questa situazione: bilanci 2018-19 di Omega con perdite, corrispondenza con banche che negano credito, verbali CDA che menzionano il supporto del socio. – Si sostiene che un soggetto indipendente in condizioni analoghe avrebbe potuto concedere un finanziamento partecipativo o “mezzanino” con interessi posticipati o subordinati agli utili. Ad esempio, esistono contratti di finanziamento soci che prevedono interessi solo dall’utile distribuibile (di fatto tasso zero finché la società non torna in utile). Quindi tasso zero in questi anni è giustificabile come “rinuncia temporanea” agli interessi in attesa del turnaround. – Omega propone di considerare il prestito come quasi equity: infatti Theta avrebbe potuto capitalizzare ma ha scelto il prestito per flessibilità. In ambito OCSE (capitolo su thin capitalization) si riconosce che a volte un finanziamento soci non remunerato può essere assimilato a capitale di rischio. Se lo si vedesse come equity, non sarebbero dovuti interessi. Omega fa quindi leva su concetti di substance over form e sul fatto che l’operazione aveva natura di apporto capitale dissimulato. – In via subordinata, Omega contesta il tasso del 3% scelto dal Fisco. Nel 2019 i tassi risk-free erano bassissimi (Euribor negativo). Un’azienda in difficoltà come Omega avrebbe ottenuto forse capitale solo a tassi molto alti o con garanzie. Theta non ha chiesto garanzie. Quindi, se proprio si volesse un tasso di mercato comparabile, dovrebbe essere un tasso molto più elevato (es. 8-10% da uno stressed lender). Paradossalmente, calcolare interessi al 3% lede anche Theta perché è un tasso sottostimato rispetto al rischio assunto. L’ufficio l’ha fatto per aumentare imponibile di Omega quel tanto, ma incoerentemente. Questo ragionamento è fine: Omega lo usa per dire che l’analisi comparativa dell’AE è superficiale e inaffidabile, e che la determinazione di un “valore normale” del tasso richiederebbe un’analisi tecnica che l’AE non ha compiuto. Dunque l’atto è carente. – Omega presenta una perizia di un consulente finanziario che, esaminata la situazione 2019 di Omega (rating CCC), conclude che un finanziamento di 10M non sarebbe stato ottenibile sul mercato se non sotto forma di equity o con interessi >10%. Questo conferma che Theta si è comportata non da creditore ma da azionista. La conclusione della perizia: “un investitore indipendente avrebbe potuto accettare un tasso 0 nell’immediato, solo in cambio di un upside futuro (es. conversione in capitale o interessi capitalizzati)”. – Si sottolinea inoltre che Omega, una volta ritornata in utile (nel 2022), ha iniziato spontaneamente a pagare dividendi a Theta, compensando l’assenza di interessi. Ciò mostra che Theta ha recuperato il suo rendimento in altra forma, e che complessivamente non c’è evasione d’imposta (perché i dividendi a Theta sono soggetti a ritenuta in Italia del 5% secondo convenzione, per cui qualcosa è stato versato, mentre gli interessi sarebbero stati deducibili ma poi tassati in Lussemburgo magari a zero; è un discorso complesso ma si potrebbe accennare).
Esito possibile: In base alla giurisprudenza attuale, difendersi in un caso di tasso zero è arduo, perché la Cassazione appare pro-fisco su questo (come visto). Tuttavia, un giudice potrebbe essere sensibile all’argomento che il prestito in realtà copriva un funding gap che solo il socio poteva colmare e quindi avesse natura diversa dal debito commerciale. Se Omega fornisce solide prove, il giudice potrebbe ridurre l’aggiustamento (es. escludendo almeno un anno di interessi perché Omega era in perdita e qualsiasi interessi sarebbero stati rinunciati anche da terzi). Oppure potrebbe confermare l’accertamento ma senza sanzioni, riconoscendo l’incertezza della materia e la buona fede (se Omega aveva documentato la politica di gruppo sul finanziamento). In pratica, la strategia difensiva migliore sarebbe stata chiedere un accordo preventivo (APA) sul trattamento di quel finanziamento, ma a posteriori non resta che puntare sul convincere che l’operazione era fuori dall’ambito di un normale prestito commerciale.
Gli esempi sopra delineati mostrano in concreto come un contribuente possa argomentare la propria difesa in scenari classici di transfer pricing (beni, servizi, finanziamenti). Ogni caso presenta peculiarità, ma alcuni principi ricorrenti emergono: la necessità di motivi economici sostanziali, l’importanza di dati comparativi di mercato, la rilevanza della documentazione contemporanea (anche gestionale, non solo il file TP) e la possibilità di dover ricorrere a consulenti tecnici per validare le proprie tesi. L’esperienza insegna che preparare ex ante una difesa (cioè durante la definizione dei prezzi di trasferimento, assicurandosi di avere prove e analisi a supporto) è la migliore strategia. Ex post si può rimediare, ma con maggiori difficoltà e margini di rischio.
Domande frequenti (FAQ) su accertamenti transfer pricing e difesa del contribuente
D: Cos’è esattamente un avviso di accertamento in materia di transfer pricing?
R: È l’atto formale con cui l’Agenzia delle Entrate rettifica il reddito di un’impresa a seguito di una contestazione sui prezzi di trasferimento infragruppo. In pratica, il Fisco ritiene che i prezzi applicati tra società del gruppo (una italiana e una estera) non siano di libera concorrenza e, tramite l’avviso, aumenta il reddito imponibile in Italia (o riduce costi dedotti) per riportarlo al livello che si avrebbe con prezzi di mercato. L’avviso indica le operazioni contestate, il valore normale determinato dall’ufficio, le maggiori imposte dovute e le sanzioni. Il contribuente può impugnarlo davanti alle Corti di giustizia tributaria. Ricevere un avviso TP significa che la fase di verifica si è conclusa sfavorevolmente e l’Agenzia chiede ufficialmente più tasse.
D: Quali operazioni infragruppo sono più comunemente oggetto di contestazione?
R: Tipicamente:
– Vendite di beni a consociate estere a prezzi inferiori al mercato (sottofatturazione dell’export) o acquisti da consociate a prezzi troppo alti (sovrafatturazione di import). Ad esempio, vendite sottocosto a un distributore estero, oppure acquisto di componenti dalla controllante a prezzi maggiorati.
– Prestazioni di servizi infragruppo: management fees, royalty su beni intangibili, servizi tecnici, IT, consulenze interne. Spesso contestano la mancanza di documentazione o l’eccessività del charge.
– Finanziamenti infragruppo: prestiti senza interessi o con interessi molto bassi (o troppo alti), garanzie finanziarie intra-gruppo non remunerate, cash pooling centralizzato. Queste operazioni finanziarie sono controllate per imputare interessi a tassi di mercato.
– Cessioni di beni intangibili (brevetti, marchi) o uso degli stessi: ad esempio, trasferimento della proprietà di un marchio a una consociata estera a prezzo irrisorio, con successivo pagamento di royalties elevati (schema ritenuto elusivo ).
– Operazioni triangolari o di ricarico costi: per esempio, quando una consociata riaddebita costi centralizzati (pubblicità, R&D) alle altre; l’AE verifica che i criteri di allocazione siano corretti.
In generale, ogni transazione cross-border in cui vi sia discrezionalità nel prezzo può essere scrutinata. Le autorità cercano situazioni dove l’Italia sembra perdere base imponibile a vantaggio di giurisdizioni a tassazione inferiore.
D: Come viene determinato il “valore normale” o prezzo di libera concorrenza per un’operazione infragruppo?
R: Si applicano i metodi di transfer pricing previsti da normativa e prassi OCSE. I principali sono:
– CUP (Comparable Uncontrolled Price): confronto del prezzo dell’operazione infragruppo con prezzi praticati in operazioni comparabili tra soggetti indipendenti. È il metodo più diretto: ad es., confrontare il prezzo per unità venduto a un indipendente vs quello al correlato.
– Metodo del prezzo di rivendita (Resale Price Method): per distributori, si parte dal prezzo di rivendita a terzi e si sottrae un margine lordo appropriato, ottenendo il prezzo d’acquisto arm’s length.
– Metodo del costo maggiorato (Cost Plus): per forniture di beni/servizi, si prende il costo sostenuto dal fornitore e si aggiunge un mark-up di profitto appropriato.
– Metodi reddituali transazionali: TNMM (Transactional Net Margin Method) che confronta margini netti (ROS, ROI, ecc.) con quelli di imprese comparabili indipendenti; Profit Split (ripartizione dei profitti globali secondo chi apporta funzioni e asset).
La scelta dipende dal caso. Il DM 14/5/2018 e le Linee Guida OCSE raccomandano il metodo più appropriato, valutando natura dell’operazione e disponibilità dati. Ad esempio, per commodity spesso si usa CUP con prezzi di mercato; per servizi intercompany generali si usa cost plus con un certo mark-up; per distributori routinari TNMM su ros.
Il Fisco italiano spesso privilegia i metodi tradizionali se ha comparabili interni (es. vendite a terzi dell’azienda stessa) , ma se non ci sono usa TNMM su database di bilanci di terzi. In caso di divergenza di metodo tra contribuente e ufficio, la Cassazione dice che l’ufficio deve motivare perché scarta il metodo del contribuente . In giudizio, può arrivare una CTU tecnica per stimare il valore normale se i metodi delle parti divergono molto, ma di rado: di solito il giudice valuta i metodi proposti e decide quale è più convincente.
D: Chi ha l’onere della prova in una controversia sui prezzi di trasferimento?
R: È condiviso e si sposta tra Fisco e contribuente, secondo giurisprudenza consolidata. In prima battuta, l’Agenzia Entrate deve motivare la rettifica indicando elementi che fanno presumere che i prezzi non siano di mercato (esempio: segnala che c’è controllo societario e un margine anomalo rispetto al settore) . Non deve però provare un intento evasivo specifico né ricostruire nei minimi dettagli il prezzo normale: basta che fornisca un riscontro ragionevole di anomalia . Una volta fatto ciò (in genere presentando un’analisi di comparables o evidenziando la perdita in Italia e il profitto all’estero), tocca al contribuente dimostrare che invece i prezzi erano corretti e allineati al valore normale . Questo perché si presume che il contribuente abbia maggior accesso ai dati e sia più vicino alla prova (principio di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c.). Dunque in giudizio l’azienda deve produrre documentazione, analisi economiche, perizie per provare la congruità dei propri prezzi . Se non lo fa sufficientemente, il giudice darà ragione al Fisco. In sintesi: Fisco deve “incriminare” il prezzo mostrando che c’è qualcosa che non va; poi l’azienda deve difenderlo con evidenze concrete. Per questo è cruciale predisporre la documentazione transfer pricing: infatti quella serve proprio a avere già pronte le prove (analisi di mercato, funzionale, ecc.) del perché i prezzi sono arm’s length.
D: Quali sanzioni fiscali rischia il contribuente in caso di rettifiche sui prezzi di trasferimento?
R: Le contestazioni TP rientrano nell’alveo della “dichiarazione infedele” dal punto di vista sanzionatorio. Significa che, se a seguito dell’accertamento risulta maggiore imposta dovuta, si applica la sanzione amministrativa dal 90% al 180% della maggior imposta (art. 1, c.2 D.Lgs. 471/1997). Ad esempio, se il TP aumenta l’IRES di €100.000, la sanzione base sarà €90.000 (minimo) fino a €180.000 (massimo), a discrezione dell’ufficio (di solito applicano il 100% o 90% se attenuanti) . A questa vanno aggiunti gli interessi di mora.
Tuttavia, come spiegato, esiste una esenzione piena dalle sanzioni se il contribuente aveva predisposto e comunicato la documentazione idonea di transfer pricing . In tal caso, pur pagando le imposte, non paga sanzioni (0%). Se invece non aveva documentazione, può comunque ridurre le sanzioni usando gli strumenti deflattivi: con adesione o acquiescenza, la sanzione scende a 1/3 (quindi 30% dell’imposta) ; con conciliazione giudiziale si riduce tra 50% e 67% a seconda del momento .
Da notare che le sanzioni TP possono diventare molto elevate in valore assoluto (visto che le imposte recuperate spesso sono importanti). L’esimente della documentazione è quindi fondamentale come scudo. Inoltre, se il contribuente vince in giudizio, ovviamente nulla è dovuto (né imposte né sanzioni). In caso di soccombenza parziale (es. il giudice riconosce un imponibile intermedio), le sanzioni si applicheranno proporzionalmente sull’imposta finale dovuta.
Va ricordato infine che, sebbene rari, esistono i casi di esonero da sanzioni per obiettiva incertezza normativa: in materia di TP però è difficile invocarli perché le regole sono considerate tutto sommato chiare (l’incertezza sta nei valori di fatto, non nella norma). È più efficace puntare sulla documentazione per non averle a prescindere.
D: Cosa succede se l’azienda dispone della documentazione transfer pricing?
R: Se la documentazione è predisposta secondo le regole e l’azienda ha segnalato il possesso barrando l’apposita casella in dichiarazione, questa costituisce un ”bonus” importante: in caso di accertamento, l’azienda può esibirla all’ufficio (di solito la chiede il verificatore stesso) e, purché venga giudicata idonea, essa mette il contribuente al riparo dalle sanzioni per infedele dichiarazione . Ciò vuol dire che, pur dovendo eventualmente pagare le maggiori imposte se la rettifica viene confermata, non verranno applicate le penalità del 90-180%. In concreto, avere la documentazione può far risparmiare decine o centinaia di migliaia di euro di sanzioni.
Attenzione: per ottenere questo beneficio la documentazione deve essere considerata idonea dall’Agenzia. Non basta aver scritto due pagine. Deve rispettare i requisiti del Provvedimento 2020 (analisi funzionale, selezione comparables, ecc.). Se è palesemente inadeguata o incompleta, l’ufficio può negare l’esimente. Tuttavia, spesso c’è margine di discussione: la circ. 15/E 2021 dell’AdE chiarisce che l’idoneità va valutata in concreto ma con un certo favor per il contribuente se c’è lo sforzo di compliance. In giudizio, comunque, i giudici non sindacano l’idoneità (questione tecnica) ma prendono atto se l’esimente è applicabile. In genere, se la doc esiste e copre le operazioni contestate, le sanzioni non si vedono proprio nell’avviso (l’AE stesso le toglie).
Dunque, avere Masterfile e Local file conviene enormemente. Inoltre, al di là delle sanzioni, la documentazione ben fatta costituisce la prima linea difensiva di merito: spiega già perché i prezzi sono corretti. Quindi è sia scudo sanzionatorio che argomento pro-contribuente sulla sostanza.
D: La contestazione dei prezzi di trasferimento può costituire reato?
R: Di per sé, applicare un prezzo di trasferimento non allineato al mercato non è un reato automatico. Diventa un fatto penalmente rilevante solo se porta a dichiarare al Fisco elementi reddituali significativamente falsati e connotati da dolo specifico di evasione, superando certe soglie. In particolare, il reato in questione sarebbe la dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): si realizza se l’imposta evasa supera 100.000 € e gli elementi attivi sottratti a tassazione superano il 10% del totale o 2 milioni . Un aggiustamento TP potrebbe teoricamente far scattare queste soglie. Tuttavia, la legge prevede una clausola di salvaguardia: non si considerano reato le differenze di valutazione di elementi oggettivamente esistenti di cui siano indicati i criteri di determinazione in bilancio o altra documentazione fiscale . Il transfer pricing rientra proprio in questo: se l’azienda ha indicato in nota integrativa o documentazione i criteri con cui prezza le transazioni infragruppo, un’eventuale rettifica sarà vista come “valutazione discordante” e non come occultamento doloso. Quindi niente penalità penali in tal caso .
In pratica, per avere rilievo penale, una manipolazione TP dovrebbe essere accompagnata da artifizi fraudolenti (falsa documentazione, operazioni fittizie) tali da configurare la dichiarazione fraudolenta (art. 3 D.Lgs. 74) o addirittura emissione di fatture false (art. 8) se si fingono operazioni inesistenti. Ma questi sono scenari ben più gravi (es. fatture da paradisi fiscali per servizi mai resi). Nel caso comune di TP sbagliato ma su transazioni reali, la condotta non è considerata reato in sé.
Da notare che nel 2015 sono state abbassate le sanzioni penali per l’infedele dichiarazione e introdotta la soglia di non punibilità se la divergenza è <10% . Inoltre, come detto, se hai la documentazione TP, l’art. 4 esclude il reato. Dunque, oggi come oggi, è raro che un caso di TP finisca in procura a meno di frodi.
In conclusione: un avviso di accertamento TP normalmente non implica una denuncia penale. L’azienda rischia sanzioni amministrative, ma non i dirigenti la reclusione, salvo situazioni di frode conclamata (es. si gonfiano prezzi con società schermo per creare fondi neri: lì è un altro discorso).
D: Gli amministratori o dirigenti rischiano responsabilità personali in vicende di transfer pricing?
R: Sul piano tributario, la responsabilità per le obbligazioni fiscali è della società (personalità giuridica). Amministratori e dirigenti non pagano di tasca propria le imposte o sanzioni, a meno di coinvolgimento in reati (ma abbiamo visto che il penale scatta raramente) o a meno che non si configuri un concorso in violazioni tributarie dolose. In genere, però, le sanzioni tributarie colpiscono la società (nelle società di capitali). Niente sanzioni personali amministrative per chi ha firmato la dichiarazione.
Diverso è il piano civilistico/societario: un amministratore che abbia adottato politiche di prezzi infragruppo dannose per la società (ad es. ha svenduto beni a un’altra società del gruppo facendo perdere utili alla sua) può essere chiamato a rispondere verso la società stessa. I soci di minoranza potrebbero accusarlo di violazione dei doveri (azione di responsabilità ex art. 2393 c.c. o 2476 c.c. per le S.r.l.) e chiedere i danni. Anche i creditori, se la società va male, possono agire. In ambito di gruppi, c’è la disciplina dell’abuso di direzione e coordinamento: la capogruppo (e i suoi amministratori) rispondono se hanno danneggiato una controllata imponendo scelte (come prezzi non di mercato) senza compensazioni . Inoltre, esiste il reato societario di infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.): se un amministratore agisce intenzionalmente a vantaggio di un’altra società o di sé stesso e a danno della propria società (es. praticando prezzi che favoriscono l’estero e rovinano la sua azienda), può essere penalmente perseguito e condannato (fino a 3 anni di reclusione) . Ovviamente occorrono gli estremi: un conflitto di interessi e un danno accertato. Nel transfer pricing può capitare, ad esempio, in casi di trasferimento di utili all’estero che svuotano la società italiana – i soci italiani potrebbero denunciarlo.
Quindi, se il TP errato è frutto di scelte consapevoli del management per avvantaggiare il gruppo, gli amministratori rischiano in teoria sia azioni di responsabilità che, in casi gravi, sanzioni penali societarie. Nella pratica, però, queste azioni non sono comuni se la società nel complesso va bene e tutti i soci sono della stessa famiglia o gruppo. Diventano concrete se c’è un socio minoranza scontento o un fallimento.
Per prevenire ciò, gli amministratori dovrebbero sempre motivare perché certe operazioni infragruppo convengono comunque alla società (es. farlo risultare in delibere, o ottenere compensazioni). L’ordinamento consente alle società di gruppo di perseguire un interesse di gruppo, ma entro limiti: se eccedono, scatta la responsabilità. Quindi sì, c’è un rischio, ma più sul fronte societario (verso soci/creditori) che fiscale diretto.
D: È possibile evitare il contenzioso su transfer pricing attraverso accordi preventivi o altri strumenti?
R: Sì. Lo strumento principe è l’accordo preventivo sui prezzi di trasferimento, una sorta di ruling unilaterale o bilaterale con il Fisco. In Italia è regolato dall’art. 31-ter D.P.R. 600/1973 (introdotto nel 2015, ex ruling internazionale). In pratica, l’impresa presenta istanza all’Agenzia proponendo una certa metodologia di TP per le proprie operazioni infragruppo future, e discute con l’ufficio finché non raggiungono un accordo scritto. Tale accordo (un APA, Advance Pricing Agreement) vincola entrambe le parti per gli anni concordati (di solito l’anno corrente più quattro). Finché l’azienda segue quanto pattuito, il Fisco non può contestare i prezzi. Questo evita a monte i litigi. Viene usato soprattutto da multinazionali per operazioni complesse (royalty, allocazione utili a stabili organizzazioni, ecc.). Il rovescio della medaglia è che la procedura è lunga (anche 2 anni) e impegnativa. Ma dà certezza.
Altri strumenti: l’adiuvo cooperative compliance (adempimento collaborativo) per grandi imprese, dove si concorda preventivamente col Fisco il trattamento di varie questioni, incluso TP. Ma riguarda aziende con specifici requisiti (indice di affidabilità fiscale alto).
In mancanza di APA, l’alternativa è prepararsi bene e, se arriva verifica, cercare di chiarire tutto in contraddittorio. Si può anche valutare un accertamento con adesione dopo il PVC, come discusso, per trovare un accordo transattivo sul valore (evitando il giudizio). Non è prevenire, ma risolvere anticipatamente sì.
C’è poi il livello internazionale: se due Stati tassano diversamente (doppia imposizione economica), si può attivare una Procedura di Mutuo Accordo (MAP) tra autorità fiscali, grazie ai trattati o alla Convenzione Arbitrale UE. Ciò può evitare il contenzioso interno se i due Fisco si accordano. Ad esempio, in caso di rettifica in Italia, la società può chiedere all’Italia di attivare la MAP col Paese della consociata estera per eliminare la doppia tassazione (l’estero aumenta costi o abbassa utile corrispondentemente). La MAP non evita l’accertamento italiano, ma può eliminare gli effetti economici negativi all’estero.
Riassumendo: la via migliore per “evitare” del tutto contestazioni è un APA o la cooperative compliance. In mancanza, rimane opportuno investire in documentazione e corrette analisi: spesso se il Fisco vede che il contribuente è in ordine e ha studi solidi, tende a non fare rilievi pesanti.
D: Come può un contribuente prevenire concretamente contestazioni sui propri prezzi di trasferimento?
R: Ecco alcune buone prassi di prevenzione:
– Predisporre annualmente la documentazione TP (Masterfile e Local file) anche se non obbligato formalmente. Ciò impone un esercizio di analisi che di per sé aiuta a individuare aree di rischio e consente di correggere eventuali criticità prima che lo faccia il Fisco. Inoltre, come detto, salva dalle sanzioni.
– Monitorare i margini e risultati delle consociate: se la società italiana mostra risultati anomali (perdite ricorrenti, margini molto bassi) rispetto al gruppo o al settore, e ciò è dovuto a politiche di prezzo infragruppo, è probabile un bersaglio. Conviene fare aggiustamenti infrannuali o di fine anno per riportare i margini in range di normalità (year-end adjustments) in modo da presentare poi conti coerenti . Tali aggiustamenti, se documentati, sono leciti e preferibili a lasciare squilibri.
– Tenere allineate le politiche di TP alle Linee Guida OCSE aggiornate: ad esempio, dopo 2017 l’OCSE ha nuove indicazioni su intangibili, dempe, low value-adding services, etc. Adattare i propri calcoli a queste raccomandazioni (es. markup 5% servizi a basso valore) riduce il rischio di contestazioni perché l’AdE si ispira a esse.
– Raccogliere e conservare prove dell’utilità dei servizi infragruppo: report, email, risultati ottenuti. Per royalty su know-how, dimostrare che si è usato effettivamente quel know-how. In genere costruire un audit trail. Molte contestazioni nascono dall’assenza di evidenze.
– Benchmarking periodici: anche se non si fa APA, si possono fare benchmark interni ogni 2-3 anni per vedere se i margini di filiale sono in linea col settore. Se emergono devianze, rivedere i prezzi di trasferimento. Ciò mostra volontà di conformarsi.
– Formazione interna: assicurare che il management e l’area amministrativa capiscano l’importanza del TP e segnalino operazioni nuove potenzialmente problematiche (es. una ristrutturazione supply chain, o trasferimenti di funzioni – business restructuring – vanno valutati con attenzione TP prima di farli).
– Utilizzare (se possibile) procedure di ruling: come già detto, per operazioni nuove e significative (es. aprire un centro servizi in Italia che addebita costi al gruppo) considerare di richiedere un accordo preventivo con AdE.
In poche parole, adottare un atteggiamento proattivo e documentare tutto accuratamente. Il costo di un buon consulente TP è di molto inferiore al costo di un contenzioso con esito incerto (senza contare le imposte/sanzioni potenziali). Prevenire in questo campo è decisamente meglio che curare.
D: Che ruolo hanno le Linee Guida OCSE nel contenzioso domestico italiano?
R: Hanno un ruolo importante, sebbene formalmente non siano legge. La normativa italiana, specie dopo il 2017, le richiama implicitamente: l’art. 110(7) TUIR parla di principio di libera concorrenza “conformemente alle Linee Guida OCSE” (come da relazione ministeriale). Inoltre il DM 14/5/2018 esplicitamente è stato emanato per adeguare le regole interne alle Guidelines 2017. Anche la Cassazione spesso cita i rapporti OCSE come criteri interpretativi . Ad esempio, la Cass. 19512/2024 ha fatto riferimento alle Linee Guida OCSE 2022 per dire di includere le società in perdita nei comparabili . Oppure altre sentenze citano il “benefit test” espressamente come concetto OCSE per i servizi infragruppo .
Quindi in giudizio sia la difesa che i periti che i giudici stessi fanno ampio riferimento a concetti OCSE (range interquartile, splitting factors, DEMPE per intangibles, safe harbour, ecc.). Questo significa che un contribuente ben preparato deve conoscere e applicare tali linee guida. Se i suoi prezzi sono coerenti con esse, avrà una difesa robusta, perché potrà dire: “ho seguito best practice riconosciute a livello internazionale, come anche l’Italia richiede”. Viceversa, un comportamento difforme (es. non applicare il markup standard sui servizi di poco valore, o escludere comparabili in perdita automaticamente) lo espone a facili attacchi, perché l’AE dirà che non è conforme agli standard internazionali.
In conclusione, le Linee Guida OCSE in Italia fungono da riferimento tecnico autorevole: non sono norme cogenti, ma se un’analisi è in linea con esse sarà considerata più credibile e difendibile . Inoltre la stessa AdE nelle sue circolari (es. 15/E 2021) si richiama ad esse per dare istruzioni. Quindi, pur non essendo normative nel senso stretto, fanno parte del diritto vivo del transfer pricing italiano.
D: Se la rettifica del Fisco italiano porta a doppia imposizione (lo stesso reddito tassato due volte, in Italia e all’estero), come ci si può difendere?
R: Questo è un problema classico del TP: l’Italia aumenta il reddito di Alfa SpA, ma Beta Inc. all’estero è stata tassata anche su quel pezzo di utile – risultato, quell’utile paga tasse due volte. Per risolvere, ci sono i meccanismi di doppia imposizione previsti dai trattati: il contribuente può attivare una MAP (Mutual Agreement Procedure) secondo l’art. 25 del Modello OCSE (presente in quasi tutti i trattati bilaterali) o, se UE, la Convenzione Arbitrale 90/436/CEE. In pratica, si presenta istanza all’Agenzia delle Entrate – Divisione Contribuenti Internazionali – chiedendo di consultarsi con l’autorità estera per eliminare la doppia tassazione. Se la controparte è collaborativa, di solito lo Stato estero accetta di fare un’aggiustamento corrispondente: ovvero riduce il reddito tassato di Beta Inc. di quell’importo in più che l’Italia ha tassato ad Alfa. Così Beta paga meno tasse o ottiene rimborso e la doppia imposizione viene eliminata. La MAP può durare qualche anno, ma gli Stati hanno interesse a risolvere (specie in UE c’è un arbitrato obbligatorio se non accordo entro 2 anni, in base alla direttiva 2017/1852 recepita dal D.Lgs. 49/2020).
Nel frattempo, l’azienda italiana però deve comunque pagare in Italia (a meno di sospensioni). Quindi il cash flow è penalizzato nell’immediato. Ma a fine MAP avrà sollievo estero. Un consiglio: se sai che farai MAP, puoi chiedere alle giurisdizioni di sospendere la riscossione o di non riscuotere sanzioni, in attesa dell’esito. Alcuni trattati lo consentono. L’Italia ad esempio può sospendere l’incasso degli importi in litigio se la controparte estera fa lo stesso. Va negoziato.
Un’altra strada è portare il caso al Forum JTPF (per imprese UE) o usare l’arbitrato della Convenzione. Ormai con la nuova direttiva, l’arbitrato è integrato nella MAP se serve.
In sintesi: la difesa contro la doppia imposizione non si fa nel ricorso (il giudice italiano non può ridurre la tassa estera), ma a livello di accordo tra Stati. Importante quindi, se subisci un accertamento TP rilevante, coordinarti con la consociata estera per attivare contestualmente la richiesta di rettifica di segno opposto o la MAP. Ci sono scadenze: per la Convenzione Arbitrale UE l’istanza va fatta entro 3 anni dalla prima notifica dell’azione che genera doppia tassazione (l’accertamento italiano).
Ovviamente, se invece vinci il ricorso in Italia, problema risolto a monte. Ma se perdi, la MAP è l’unico rimedio per non pagare il doppio. Da ultimo, va menzionato che alcuni Paesi (pochi) prevedono il unilateral corresponding adjustment: se l’Italia rettifica e ciò appare giusto, la consociata estera può chiedere al proprio Fisco locale di adeguare spontaneamente (lo fanno ad es. UK, USA in certi casi). Però in genere si preferisce la MAP per trasparenza.
Conclusioni
Difendersi con successo da un avviso di accertamento in materia di transfer pricing richiede una combinazione di competenze fiscali, economiche e legali, nonché una strategia ben pianificata. La materia è complessa, ma può essere affrontata efficacemente tenendo a mente alcuni concetti chiave emersi in questa guida:
- Preparazione e prevenzione: il lavoro fatto prima – predisponendo documentazione transfer pricing accurata, monitorando i prezzi infragruppo e mantenendo evidenze a supporto delle politiche adottate – è spesso decisivo. Chi arriva a un controllo fiscale con i documenti in ordine e analisi solide parte in vantaggio e spesso evita che la contestazione sorga o si aggravi. Il rispetto delle linee guida OCSE e della normativa domestica, unito a un’attenta pianificazione (anche tramite accordi preventivi dove opportuno), riduce enormemente i rischi.
- Contraddittorio e diritto di difesa: se nonostante tutto arriva una contestazione, il contribuente ha vari momenti e strumenti per far valere le proprie ragioni: dal contraddittorio pre-accertamento (memorie difensive entro 60 giorni dal PVC), alla fase di adesione, fino al ricorso in commissione tributaria. È importante utilizzare ogni sede per presentare in modo chiaro e documentato le proprie argomentazioni, senza trascurare i possibili vizi formali dell’azione fiscale. La giurisprudenza italiana riconosce principi che possono aiutare il contribuente (ad esempio, il Fisco deve quantomeno indicare perché i prezzi non sarebbero di mercato; l’assenza di contraddittorio è vizio; ecc.), e un buon difensore sa sfruttarli.
- Proattività nel merito della difesa: nel contenzioso TP non basta confutare le tesi dell’Ufficio: occorre fornire una controprova convincente della correttezza dei propri prezzi . Ciò significa presentare documenti, contratti, studi di settore, perizie tecniche se necessario. Il contribuente deve assumere un ruolo attivo e didascalico, spiegando al giudice (che non è specialista di pricing) la logica economica sottostante le sue operazioni e perché, anche in un contesto indipendente, avrebbe potuto fare lo stesso. La storyline difensiva deve essere credibile, supportata da numeri e possibilmente anche da precedenti giurisprudenziali favorevoli.
- Gestione del rischio sanzioni e penale: un aspetto rassicurante per i manager è che, se ben gestita, una controversia TP si limita a un piano finanziario (più tasse da pagare) ma senza strascichi penali nella maggior parte dei casi, specie se c’è la documentazione idonea . Inoltre, lo “scudo” documentale evita le pesanti sanzioni amministrative. Questo però non deve condurre a lassismo: un’aggiustamento TP può comunque costare molto in imposte e interessi, e in certe situazioni gli amministratori potrebbero dover rispondere verso la società per scelte di TP sbagliate (es. se portano a sanzioni ingenti evitabili). Dunque, va coltivata la cultura della compliance e della prudenza.
- Soluzioni alternative: laddove la difesa “all or nothing” presenti incertezze, non bisogna trascurare le opzioni di componimento: un accordo in adesione o una conciliazione giudiziale possono chiudere la vicenda con esborsi controllati e riduzione di sanzioni. Ciò va valutato pragmaticamente caso per caso, tenendo conto anche dei costi e tempi di un contenzioso pluriennale.
In definitiva, dal punto di vista del debitore d’imposta (la società contribuente), affrontare contestazioni su fatture intercompany a prezzi di trasferimento errati significa giocare su due tavoli: quello tecnico-economico (dimostrare che i prezzi sono corretti secondo standard di mercato) e quello giuridico-procedurale (far valere i propri diritti nel procedimento e nel processo). Una difesa vincente integra entrambi gli approcci, supportata da prove sostanziali e da un’attenta lettura delle norme e della giurisprudenza applicabile .
Il panorama normativo e giudiziario ad agosto 2025, come abbiamo visto, presenta per il contribuente luci e ombre. Da un lato, il Fisco italiano dispone di strumenti affinati e di un orientamento giurisprudenziale spesso a suo favore su onere della prova e ampliamento dell’ambito TP (ad esempio sui finanziamenti infruttiferi) . Dall’altro, i contribuenti possono far leva su importanti pronunce della Cassazione a loro tutela (sulla necessità di considerare circostanze specifiche, sul dovere del Fisco di motivare metodo e comparables, sull’accettazione di principi OCSE innovativi come quello delle società in perdita nei panieri di comparazione) . C’è quindi spazio per difese efficaci e per ottenere ragione, purché si arrivi preparati e si conduca la propria causa con rigore e competenza.
In conclusione, la miglior difesa è senza dubbio la compliance preventiva: stabilire prezzi infragruppo corretti, documentarli compiutamente e, se necessario, negoziarli prima con l’Amministrazione (APA). Ma se la contestazione arriva, questa guida dimostra che il contribuente non è indifeso: con le giuste mosse, è possibile far valere le proprie ragioni e giungere a una soluzione equa, evitando conseguenze fiscali sproporzionate e preservando la legittimità delle proprie operazioni nell’ambito dei gruppi multinazionali.
Fonti e riferimenti normativi/giurisprudenziali: Le informazioni e i principi esposti derivano dalla normativa italiana vigente (artt. 110, co.7 TUIR; D.Lgs. 471/97; D.Lgs. 74/2000; Provv. AdE 360494/2020; D.M. 14/05/2018; Codice Civile artt. 2497 ss., 2634 c.c.) e da prassi e giurisprudenza aggiornata. In particolare, sono state richiamate autorevoli pronunce della Corte di Cassazione (es. Cass. 19512/2024, Cass. 1311/2025, Cass. 2689/2023, Cass. 15668/2022, Cass. 7361/2024) con relative massime , nonché documenti OCSE e circolari AdE pertinenti. Si è inoltre tenuto conto dei chiarimenti forniti da esperti e pubblicazioni specialistiche recenti . Questo bagaglio di fonti conferisce solidità giuridica alle linee guida difensive qui illustrate, assicurando che il contribuente possa fondare le proprie argomentazioni su basi normative certe e su precedenti favorevoli consolidati. In ultima analisi, conoscenza e documentazione sono le armi migliori per fronteggiare – e sovente vincere – le sfide poste dalle contestazioni sui prezzi di trasferimento errati.
– Cass. civ., sez. V trib., sentenza 06/03/2024, n. 6099
– Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. n. 74/2000) [introdotto dal D.Lgs. n. 75/2020]
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Vuoi sapere cosa rischi e come puoi difenderti da queste contestazioni?
Le operazioni infragruppo tra società appartenenti allo stesso gruppo multinazionale devono rispettare il principio di valore normale (arm’s length principle), cioè essere effettuate a condizioni di mercato. Se l’Agenzia delle Entrate ritiene che i prezzi di trasferimento siano stati manipolati per spostare utili all’estero o abbattere l’imponibile in Italia, può procedere a rettifica fiscale.
👉 Prima regola: dimostra che i prezzi applicati erano coerenti con i valori di mercato e supportati da una documentazione di transfer pricing adeguata.
⚖️ Quando scattano le contestazioni
- Servizi infragruppo fatturati a valori incongrui rispetto al mercato;
- Vendite o acquisti tra società collegate con margini anomali;
- Royalties o diritti di licenza calcolati in modo eccessivo o insufficiente;
- Prestiti infragruppo con tassi non allineati a quelli bancari;
- Assenza o carenza di documentazione di transfer pricing.
📌 Conseguenze della contestazione
- Rettifica del reddito imponibile e recupero delle imposte;
- Sanzioni dal 90% al 180% delle imposte accertate;
- Interessi di mora;
- Rischio di doppia imposizione internazionale, se il Paese estero non riconosce la rettifica;
- Possibili segnalazioni a livello OCSE o UE.
🔍 Cosa verificare per difendersi
- Esistenza della documentazione di transfer pricing: era stata predisposta correttamente?
- Metodo utilizzato per determinare i prezzi (CUP, TNMM, cost plus, resale price, ecc.);
- Confronto con valori di mercato: i margini e i tassi applicati sono congrui?
- Motivazione della contestazione: l’Agenzia ha utilizzato dati comparabili reali?
- Eventuali accordi preventivi (APA) con l’Amministrazione finanziaria.
🧾 Documenti utili alla difesa
- Master file e country file di transfer pricing;
- Contratti intercompany e policy di gruppo;
- Report di benchmark su società comparabili;
- Fatture e scritture contabili delle operazioni contestate;
- Comunicazioni interne e relazioni illustrative.
🛠️ Strategie di difesa
- Dimostrare la coerenza dei prezzi con analisi di mercato e benchmarking;
- Contestare la rettifica se basata su comparabili non idonei o su dati parziali;
- Chiedere l’applicazione di convenzioni contro le doppie imposizioni per evitare tassazione duplicata;
- Eccepire vizi procedurali: motivazione insufficiente, notifica irregolare, decadenza dei termini;
- Richiedere autotutela in caso di evidenti errori di calcolo;
- Ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per annullare l’accertamento.
🛡️ Come può aiutarti l’Avv. Giuseppe Monardo
📂 Analizza la documentazione di transfer pricing e le contestazioni ricevute;
📌 Verifica la congruità dei prezzi intercompany applicati;
✍️ Redige memorie difensive e ricorsi tributari;
⚖️ Ti rappresenta nei procedimenti davanti alla Corte di Giustizia Tributaria;
🔁 Suggerisce strategie preventive per una gestione sicura e conforme delle politiche di transfer pricing.
🎓 Le qualifiche dell’Avv. Giuseppe Monardo
✔️ Avvocato esperto in fiscalità internazionale e prezzi di trasferimento;
✔️ Specializzato in difesa di gruppi multinazionali contro rettifiche su fatture intercompany;
✔️ Gestore della crisi iscritto presso il Ministero della Giustizia.
Conclusione
Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate sulle fatture intercompany a prezzi di trasferimento errati non sempre sono fondate: spesso derivano da valutazioni soggettive o da analisi comparabili poco attendibili.
Con una difesa mirata puoi dimostrare la correttezza delle politiche di transfer pricing, evitare doppie imposizioni e ridurre drasticamente sanzioni e interessi.
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